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Maigret

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Esterno notte

Esterno notte

ciano nell’estremo e unico gesto di calore della loro vita.

LL’uomo che si è perduto nella nebbia (“La ragazza nella nebbia”, 2017) e poi in un labirinto (“L’uomo del labirinto”, 2019) tocca il fondo dell’abisso perché non c’è niente altro per nessuno, non solo per il protagonista ma così per la “matta” e la ragazzina dai capelli viola.

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A dimostrare che tutti sono nell’abisso di un colore che non è nero ma tinto di grigio l’autore e regista Carrisi non ha voluto presentare gli attori con nome e cognome, anche se, ovviamente, sono rintracciabili ovunque. Perché il male voluto o fortuitamente capitato avvolge tutti senza la possibilità di tirarsene fuori.

Il protagonista, in fin dei conti, è quello che è non per colpa sua ma per tutto ciò che ha subito nella sua infanzia, per le privazioni e il male che è stato la costanza della sua crescita. Tanto è vero che salva dal lago la ragazzina dai capelli colorati che non trovava più sbocco alla sua giovane vita perché il male aveva colpito anche lei e la stava distruggendo.

L’ex poliziotta, per tutti la matta per quel dolore che sempre le appartiene ha conosciuto il male e lo porta con sé; forse è proprio questo che le permette di arrivare all’autore dei delitti che aveva omesso di ucciderla.

E poi il resto, i ricchi aridi, inutili e noiosi come i loro aperitivi, le donne uccise senza che nessuno ne rilevi l’importanza, la stranezza, il mistero. La spazzatura, elemento non secondario, più volte rimestata dal povero mostro, analizzata, studiata come un emblema e deposito dei mali di tutti.

Cosa vuol dirci l’autore Carrisi con questa comunanza di mostri, di personaggi da night, di donne imbellettate e bassamente profumate (pare di sentirlo fuoriuscire dallo schermo) e presto strangolate; con queste case del borgo arcaiche e rasserenanti e insieme infide e traditrici, con questo lago lontano, impersonale ma pronto a uccidere o ad accogliere e sputare corpi e braccia e spazzatura.

Ci vuol dire che dopo la nebbia e il labirinto ha trovato una comunità del tutto malata che non può convivere se non nel fondo dell’abisso. Che la comunità, fatta soprattutto di emarginati non riunisce né accoglie ma disperde, allontana e uccide, una comunità non conosciuta né visitata da nessuno ma immobile ad attendere la sua stessa dissoluzione, delitto dopo delitto.

La cromatura delle immagini è sempre quella, un grigio/lago che si abbrutisce nel nero in una terribile scarsità di colore che non illumina le scene all’aperto né quelle cupe nero/sanguigne degli interni.

A questo drammatico, chiuso, spietato, amaro racconto non c’è alternativa, non si intravede una possibilità di fuga, quantomeno di riscatto. C’è ancora tanto, forse, da vedere e da vivere, pare suggerirci Carrisi ma non ci dà elementi per ipotizzarlo o sperarlo.

D’altra parte, cosa può esserci dopo l’abisso?

Fabrizio Moresco

di Patrice Leconte

Origine: Francia, Belgio, 2022 Produzione: Philippe Carcassonne per Ciné@, Jean-Louis Livi per F Comme Film, Snd, Scope Pictures Regia: Patrice Leconte Soggetto: Tratto dal romanzo “Maigret e la giovane morta” di Georges Simenon Sceneggiatura: Patrice Leconte, Jérôme Tonnerre Interpreti: Gérard Depardieu (Commissario Maigret), Jane Labeste (Betty), Mélanie Bernier (Jeanine Arménieu), Bertrand Poncet (Lapointe), Aurore Clément (Mme Clermont-Valois), André Wilms (Kaplan), Hervé Pierre (Dottor Paul), Clara Antoons (Louise Louvière), Pierre Moure (Laurent Clermont-Valois), Anne Loiret (Madame Maigret) Durata: 89’ Distribuzione: Adler Entertainment Uscita: 15 settembre 2022

PParigi, anni ’50. Una mattina, a seguito di una chiamata anonima, viene ritrovato il cadavere di una giovane ragazza in Place Vintimille, ferita a morte da cinque coltellate. La vittima indossava un abito da sera e una borsetta ma nessun documento di riconoscimento al suo interno. Sono quindi pochi gli elementi a disposizione per cercare di identificarla, e ancora meno il suo passato o un possibile movente. A indagare sul caso è il commissario Jules Maigret, il quale grazie al proprio intuito e a una lunghissima esperienza cercherà di scoprire l’identità della misteriosa donna e capire cosa le sia successo.

Nel corso delle ricerche il commissario (a cui è stato impedito dal medico di fumare l’imprescindibile pipa per via di un problema non identificato ai polmoni), seguendo il suo metodo, entrerà sempre più in empatia con la giovane vittima, fino a ricostruire gradualmente l’accaduto e la sua identità: si tratta di Louise La-

boine, una ragazza di provincia di soli 16 anni, trasferitasi qualche anno prima a Parigi nel tentativo di dare una svolta alla sua vita. Louise aveva stretto amicizia con Jeanine Armenieu, la quale aveva tentato a sua volta la scalata alla buona società, riuscendo però nell’intento a differenza della vittima. Quando aveva saputo che la sua ex amica stava per fare un matrimonio vantaggioso con Marco Santoni, figlio di una ricca famiglia italiana, aveva cercato di rivederla in occasione di una serata mondana (ecco perché, altrove, aveva affittato una abito da sera). Jeanine le aveva dato del denaro, oltre a una lettera indirizzata al suo nome, ma consegnata in anticipo al portiere dell’edificio in rue de Ponthieu, che non conosceva la nuova casa di Louise. Questa lettera le era stata lasciata da un americano di nome Jimmy O’Malley.

Quest’ultimo era complice del padre di Louise, Julius Van Cram, un truffatore internazionale che la ragazza non aveva mai conosciuto. Prima della sua morte in un penitenziario statunitense, Van Cram aveva chiesto a O’Malley di dire a Louise come avrebbe potuto entrare in possesso del denaro che aveva accumulato nella sua vita di truffatore. O’Malley, che non era riuscito a trovare Louise, le aveva lasciato un messaggio in uno squallido bar in rue de l’Etoile. È qui che si era recata la notte dell’omicidio, ma il messaggio era stato intercettato dal titolare del bar, Albert Falconi, e dai nomi di Bianchi e “Le Tatoué”, individui senza scrupoli, che avevano approfittato della situazione. Per ottenere l’“eredità” al posto di Louise, questi due ladri avevano cercato di rubarle la borsa in cui erano state trovate la lettera e i suoi documenti fino a ucciderla.

Finite le indagini, Maigret si interroga sul destino sconvolto della giovane morta: “E se fosse arrivata in tempo perché la lettera le venisse consegnata personalmente? Sarebbe andata in America? Che cosa avrebbe fatto, allora, con i centomila dollari dell’eredità? ”.

DDopo i recenti successi hollywoodiani dei due film in chiave moderna su Poirot (Assassinio sull’Orient Express e Assassinio sul Nilo) di Kenneth Branagh, anche i francesi hanno deciso di seguire quest’onda commerciale riesumando un altro celebre protagonista della letteratura gialla: Maigret. Eppure, sono state innumerevoli (circa duecento) le produzioni cinematografiche e televisive che si sono succedute nel trasporre le avventure del risoluto commissario. E altrettanti sono stati i suoi interpreti: da Pierre Renoir a Jean Gabin, per poi passare a Gino Cervi, Rupert Davis fino ad arrivare ad un inedito Rowan Atkinson (Mr Bean). Il rischio insomma, visto le premesse, era quello di non riuscire a (ri)proporre sotto una luce nuova un personaggio reso ormai saturo agli occhi del pubblico. Ma Patrice Leconte ci dimostra che non è così. Adattando il romanzo “Maigret e la giovane morta” di Georges Simenon (che già conta ben quattro film televisivi dal 1959 al 1973), il regista realizza un classico giallo che seppur seguendo la liturgia del genere riesce ad essere estremamente cupo e moderno. Niente spettacolarizzazioni, niente eccessi, niente effetti speciali: la messa in scena è essenziale e rispecchia lo stile letterario di Simenon. Mentre la narrazione è lineare e segue uno schema ben preciso, senza reali colpi di scena o stravolgimenti. Ciò che colpisce non è tanto il suo gusto retrò né tantomeno l’intreccio della storia, ma come gradualmente il fascino della detection va a mescolarsi con il tormento del protagonista. Intorno al “MacGuffin” dell’omicidio, infatti, gravitano personalità e caratteri in grado di metter a nudo la fragilità umana e il pentimento dei propri errori. Un modo classico, dunque, di mostrare in modo inconfondibilmente transalpino e nostalgico i personaggi che si alternano durante la narrazione. Lo stesso scrittore ha definito così il suo personaggio e il suo approccio al mondo dei romanzi: “…a Maigret ho dato un’altra regola: non bisognerebbe mai togliere all’essere umano la sua dignità personale. Umiliare qualcuno è il crimine peggiore di tutti” (intervista di Giulio Nascimbeni a Georges Simenon, 18 maggio 1985).

Ma il vero motore del film è senza dubbio un Gérard Depardieu in stato di grazia, tanto che l’attore stesso ha ritrovato in questo personaggio molti punti in comune con la propria personalità. Scelta migliore non poteva essere fatta, visto e considerato che per il ruolo era stato scritturato inizialmente Daniel Auteuil prima del suo ritiro dalla produzione. E menomale direi. Depardieu è semplicemente perfetto per il ruolo: la sua elefantiaca fisicità unita con la sua delicatezza riesce a infondere tramite la sua capacità di lavorare per sottrazione, un’atmosfera estremamente tragica alla vicenda. La sua interpretazione è ben calibrata nei gesti, nelle

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