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ott 2016 – ISSN 11222050

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Anno XXXVI, n. 179, ott-nov 2016 Juliet è pubblicata a cura dell’Associazione Juliet. Autorizzazione del Tribunale di Trieste, n. 581 del 5/12/1980, n. 212/2016 V.G. registro informatico

Direttore Responsabile: Alessio Curto

Illustrazione di Antonio Sofianopulo

Editore Incaricato: Rolan Marino Editore Associato: Eleonora Garavello Direttore Editoriale: Roberto Vidali Direttore Editoriale Online: Giulia Bortoluzzi Direzione Artistica: Stefano Cangiano, Nóra Dzsida Contributi Editoriali: Piero Gilardi, Enzo Minarelli

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Illustrazioni Antonio Sofianopulo

c/c postale n. 12103347 o Iban IT33V0200802203000005111867 Banca Unicredit, Trieste.


Sommario

Anno XXXVI, n. 179, ottobre - novembre 2016

36 | Frieze/New York e Art Basel/Basel

pics

Luciano Marucci

71 | Walead Beshty - “Canon Pixma MP600R”

44 | Pratiche Curatoriali Innovative Luciano Marucci

50 | Cinema Sperimentale anni Sessanta-Settanta

73 | Walter Oltmann - “Caterpillar Suit IV” 75 | Ayako Nakamiya - “Rosa bianca”

Luciano Marucci

77 | Klaus Weber - “Clock Rock”

52 | The Cool Couple - Contro l’impoverimento visivo

79 | Gaspare - Ceneri

Giulia Bortoluzzi

81 | Nicola Deshayes - “Dear Polyp”

54 | Piero Gilardi - La mia biopolitica Valeria Ceregini

56 | Liverpool Biennial - Arte e partecipazione Emanuele Magri

58 | Armin Linke - Quello che non si vede

83 | Daniele Carpi - “L’imperatore era un vecchio” 85 | Alberto Biasi - “Spazio oggetto-ellebi” 87 | Kaws - “Small Lie”

Michela Lupieri

ritratti

60 | Christian Jankowski - Curator of “Manifesta 11”

89 | Fil rouge - Francesca Lazzarini

Emanuela Zanon

Fabio Rinaldi

62 | Aimez-vous l’art? - Arte e realtà aziendali

95 | Alberto Di Fabio

Maria Cristina Strati

Luca Carrà

64 | Laurina Paperina - “Conga Line” Project for Juliet

Rubriche

66 | Flores & Prats + Duch-Pizá - Casal Balaguer

90 | Appuntamento fotografia - Progetto Humanum

Gabriele Pitacco

Alessio Curto

68 | Ana Lupas - Arte come pratica sociale

91 | PP* - Kalin Serapionov

Valeria Ceregini

Angelo Bianco

70 | The system of Objects - Memor - Memento

92 | (H)o del colore

Magdalini Tiamkaris

Angelo Bianco

72 | Maria Martinelli - I Tarocchi Blues

93 | Dale Lamphere - Dignity and the land

Lucia Anelli

Leda Cempellin

74 | Guido Curto - Neo direttore di Palazzo Madama

94 - Arte e... - Mitja Gialuz

Maria Cristina Strati

Serenella Dorigo

76 | Juan Sebastián Peláez - Ewaipanoma Ch. Schloss

agenda

78 | Sincronie - Alla Fondazione Brivio Sforza

96 | Spray - Eventi d’arte contemporanea

Maria Villa

AAVV

80 | BeArt - e il crowdfunding Paola Bonino

82 | Art Verona - Edizione 2016 Maria Villa

84 | Corrado Selvini - Segno pittorico

COPERTINA

Liviano Papa

Tony Oursler “N^u” 2016, wood, archival print, LCD

86 | Kader Attia - Sacrifice and Harmony Emanuela Zanon

88 | Berlin Biennale n. 9 - “The Present in Drag” Annibel Cunoldi Attems

monitor, sound, 262 x 187, 5 cm, Art Basel 2016, stand G7 Galleries (courtesy Galerie Hans Mayer, Düsseldorf; ph Luciano Marucci)

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Frieze/New York e Art Basel /Basel Percorsi indicativi

reportage a cura di Luciano Marucci

Nel maggio scorso sono tornato a New York durante la settimana della Frieze, non per cogliere l’aspetto mercantile della Fiera, ma per individuare le caratteristiche dell’edizione statunitense rispetto al la gemel la di Londra (che si tiene in ottobre) e per registrare l’attuale clima culturale della Big Apple dove sorgono nuovi musei, vengono ammodernati quelli esistenti e prospera ancora il collezionismo. Mi interessava, inoltre, constatare de visu la presenza dell’arte contemporanea italiana negli eventi delle sedi pubbliche e private. Gl i oltre duecento stand del la Fr ieze (q u i nta ed i zione negl i States, prima a cura di Victoria Siddall) ospitavano gallerie che, ov viamente, cercavano di vendere a prezzi più alti e di accrescere la loro immagine a livello internazionale. Solo cinque le italiane nella Main section: Artiaco, Continua, Cortese, De Carlo, Lorcan O’Neill. Frutta (che ha venduto bene Stephen Felton) era in Frame (mostre monografiche in gallerie aperte da otto anni); P420 (disegni acustici dello sloveno Milan Grygor) in Spotlight (opere realizzate dopo il 1960). Premesso che la qualità degli artworks in generale era alta, le offerte più interessanti erano da Gavin Brown Enterprise, NY (installazione di De Gruyter & Thys con le tipiche marionette a tutta parete e quadri di Pruitt); Chi-Wen, Taipei (grandi foto d i C h ien- C h i C ha ng ); Dom i n iq ue Lév y/ N Y/ Lond ra /Gi nev ra (Castellani, Huecher, Schneider, Opalka, K lein, Stella); König,

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Berlino (Monica Bonvicini accanto a Tatiana Trouvé); W hite Cube, Londra (Gates, Hatoum, Hirst, Leirner e un nuovo wallpainting di Sarah Morris); Marian Goodman Londra/Parigi/ N Y (opere i n b/ n su ca r ta e t r id i men siona l i d i Kent r id ge); Hervé Bize, Nancy (suggestiva trasformazione dello stand con wallpaper su cui erano esposti lavori della ricerca optical del novantenne François Morellet, deceduto l’11 maggio); Mennour, Parigi (Buren, Kapoor, Henrot); Stevenson, CapeTown, alfiere de l l’a r te s ud a f r ic a n a ( Mos he k w a L a n ga); Peter Blu m , N Y (Territories dell’italo-americana Luisa Rabbia); Houldsworth, Londra (trenta col lage di Mar y Kel ly che esploravano le problematiche del l’identità femmini le); Saltoun, Londra (opere composite dell’eclettico Fi liou nella sezione Spotlight); Casas Riegner, Bogotà (piccole tele di Carlos Rojas e due della sempre giovane Beatriz Gonzales); Miro, Londra (germinazioni di forme dai colori accesi di Kusama); Salon 94, NY (terrecotte invetriate di Betty Woodman con frammentarie decorazioni orientaleggianti); P.P.O.W., NY (originale installazione pittorica e plastica di David Wojnarovicz con una visione apocalittica, surreale dello sk yline di Manhattan). A vivacizzare la kermesse contribuiva maggiormente la sezione Frieze Projects and Sounds, curata per il quinto anno da Cecilia A leman i , g iovane i nt raprendente c he, for matasi t ra Ita l ia, Francia e Gran Bretagna, nel 2003 si è trasferita a New York per


Curatorial Studies al Bard College e vi è rimasta a organizzare manifestazioni artistiche sempre più qualificate. Nel frattempo ha messo su famiglia (con Massimiliano Gioni), è stata nominata chief curator di High Line Art e art director del Padiglione Italia per la Biennale Arti Visive di Venezia del 2017. Per Sounds ha privilegiato lavori di Giorgio Andreotta Calò (paesaggio immaginario sonoro) e di Liz Magic Laser (voci ventriloque di Donald Trump e di un reporter fruibili sulle auto VIP e nella Reading Room del la Fiera). I Projects erano d i A lex da Cor te (pal lone gigante, a forma di neonato urlante, tratto dal film Batman, che dall’alto dava il benvenuto, davanti all’entrata nord); Anthea Hamilton (particolare veicolo progettato dal designer Andrea Bellini nel 1972, animato da silenziosi performer dal viso tinto di bianco che agivano come mimi in ironiche posizioni statuarie, calamitando gli spettatori, mentre ‘parcheggiavano’ l’automezzo in punti diversi della Fiera); David Horvitz (performer, assoldato tra i borseggiatori, che invece di rubare, metteva nelle tasche dei prescelti piccole sculture); Eduardo Navarro (azioni di cinque ragazze con specchi circolari, atti a catturare i mutevoli aspetti del cielo, che nelle pause formavano un’opera oggettuale); Heather Phillipson (installazioni multimediali, sparse in più punti, con video di barboncini volanti, colonne sonore d i nitriti e miagol i i, per ‘denunciare’ lo stress al q uale sono sottoposti gli animali). Una trattazione a sé merita l’in-stallAzione con l’asino di Maurizio Cattelan (annunciata da una fila continua di visitatori), omaggio al gallerista Daniel Newburg che nel 1994, per la chiusura del suo spazio, ebbe il coraggio di fare la prima mostra a New York dell’artista italiano, il quale av rebbe voluto sfondare u n muro del la Newburg per i ntro dursi nell’attigua Swirner Gallery. Dopo il diniego di Swirner, Maurizio decise di esporre per alcune ore un asino in carne e ossa (dandosi dell’asino, appunto). Alla Frieze l’asinello Gabriel se ne stava tranqui l lo sotto un raff inato lampadario acceso. Era stato messo lì per esprimere con ironia provocatoria la sua natura di animale in contrasto con il sistema culturale simboleggiato dal sofisticato manufatto luminoso. A proposito della sezione da lei curata, la Alemani, incontrata proprio in quel punto, mi ha chiarito le sue reali intenzioni. Quali volevano essere le caratteristiche degli artisti da lei proposti? Gli artisti invitati a Frieze Projects sono di norma nelle fasi iniziali della loro carriera artistica. Vengono da tutto il mondo, e spesso non hanno una galleria alla fiera, quindi il loro lavoro è scelto anche perché nuovo e inaspettato per la vetrina di Frieze Art Fair New York. Mi piace pensare a Frieze Projects come una piattaforma dove il pubblico possa scoprire artisti emergenti, cui viene dato spazio e budget per realizzare un progetto ambizioso senza dover far parte delle logiche di mercato. Ha privilegiato gli operatori visuali che per il potere attrattivo del lavoro d i ricerca potevano smuovere la staticità delle f iere d’arte? Ho pr iv i leg iato ar t ist i i l cu i lavoro non fosse già incluso nella fiera, e che fossero in grado di inserire, nel contesto alq uanto ripet it ivo del l’architettura f ierist ica, presenze, situazioni o ambienti capaci di interrompere il ritmo della fiera con incontri inaspettati, spesso partecipatori, e alle volte performativi. Gli spazi per le loro esibizioni sono stati scelti liberamente? Gli artisti hanno carte blanche per quanto riguarda la scelta degli spazi: possono decidere se lavorare fuori, nel parco di Randall’s Island, o dentro, tra gli stand della fiera o negli spazi comuni. Entrambi gli spazi hanno aspetti positivi e negativi: da un lato dentro la fiera si ha maggiore visibilità, ma ci sono più restrizioni e limitazioni; il parco fuori offre agli artisti una maggiore libertà, ma ov viamente il clima può essere inclemente a NY!

Quale considerazione ha tratto dai riscontri favorevoli del pubblico e della critica? Che i l pu bbl ico, anche q uel lo del weekend dei non-addetti ai lavori, vuole vedere progetti e opere diverse da quelle che si ripetono sui muri della fiera: vogliono essere distratti, stimolati, e perché no anche coinvolti. 25 maggio 2106 Nella Fiera newyorkese, ben allestita in ariosi spazi, si notava un certo equilibrio tra artisti consolidati ed emergenti. Naturalmente era priv i legiata l’ar te autoctona, specie quel la connotata da innovazioni linguistiche che non risentono del peso della storia. Degli italiani solo qualcuno con pochi lavori, ad eccezione di Calzolari che ne aveva dieci da Boesky, NY. I galleristi si sono detti soddisfatti delle vendite e dei contatti con direttori di musei o collezionisti di nuove nazionalità. A New York non si av verte crisi finanziaria nemmeno nel settore artistico ed è evidente il dinamismo della ricerca individuale e l’attivismo di varie gallerie, soprattutto nella zona di Chelsea, anche se alcune delle più importanti si stanno posizionando in altri punti strategici come Harlem che non è più un ghetto. Nonostante la Frieze sia approdata negli USA da un quinquennio, resta a sé stante rispetto alle istituzioni artistiche permanenti della città. Ciò anche perché il lungo capannone di 2500 mq in Randall Island Park (ubicato nel Bronx) è troppo distante dal cuore pulsante di Manhattan, sebbene un’efficiente organizzazione di pul lman e di traghetti trasportino i visitatori. Quest’anno, poi, a causa delle frequenti piogge e del clima un po’ rigido, si autoisolava, pure se non è mancato l’aff lusso degli invitati all’opening. Di recente sono state prese delle decisioni sul suo destino: nel 2017 sarà aperta per soli quattro giorni, il prezzo degli stand verrà ridotto e si sta pensando a un’area più accessi bi le. Poi si è saputo che una percentuale della piattaforma è divenuta appannaggio di WME e IMG (agenzia americana, leader in entertainment, spor t e fashion). La cosa ha aper to d iscussioni su l mercato dell’arte e sugli show business per il timore che si dia troppa importanza alle esteriorità. Staremo a vedere… Al di là di tutto, va riconosciuto che questa edizione ha avuto una sua specificità e freschezza. Purtroppo, in confronto a Londra e a Basilea, si avverte chiaramente che non c’è sinergia con i musei nella pagina a fianco: David Wojnarovicz, “The Burning Boy” 1985, installazione realizzata per la collezione Robert e Adriana Mnuchin in Madison Avenue, Frieze NY 2016 (courtesy P.P.O.W. Gallery, New York) sotto: Marcel Broodthaers, “Décor: A Conquest”, 1975, mostra “Marcel Broodthaers: A Retrospective”, MoMA, New York 2016 (courtesy MoMa, NY)

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The Cool Couple Contro l’impoverimento visivo di Giulia Bortoluzzi

nella pagina a fronte: “A Kind of Display, fd6c2f, Full beard” 2015, sublimatic print on barber cape, 115 x 135 cm sotto: “Approximation to the West, Untitled, Prato Carnico #001, 2013” inkjet print on fine art paper, woodframe, plexiglas, 110 x 55 cm, courtesy METRONOM

Nicolò Benetton e Simone Santilli sono T he Cool Couple, duo artistico nato nel 2012 dall’incontro di ricerche sulla cultura v isiva contemporanea. La scelta del nome dichiara subito come l’unione non sia la semplice somma delle parti ma qualcosa di più, couple appunto. Cool, invece, fa riferimento all’approccio che sviluppiamo verso certi temi, velatamente o dichiaratamente ironico, e si riferisce anche al contesto della nostra vita quotidiana. È un termine sufficientemente spontaneo e triviale, fin troppo utilizzato nel linguaggio comune ma che nella maggior parte dei casi è privo di qualsiasi significato. The Cool Couple lavora sull’attrazione e la necessità del l’uomo verso forme d i rappresentazione collettiva. E in una società in cui l’informazione v iene ela borata e t rasmessa pr i nc ipa l mente i n rete, si focalizza sullo studio di un processo d’impoverimento visivo e semantico. È innegabile che si stia costruendo un’estetica dettata dalla performance economica di un prodotto e mai come ora ci sembra che tutto questo sia diventato visibile: prodotti pubblicitari all’interno di programmi televisivi, layout di siti internet, pubblicità pop-up, interruzioni nella programmazione... sta nascendo un’estetica elitaria. Se puoi permetterti una vita “premium” allora puoi vedere delle cose, puoi accedere a una migliore esperienza visiva. Altrimenti sei condannato alla spazzatura. Quando parliamo d’impoverimento, non si tratta soltanto della rabbia verso il fatto che la cultura nel nostro paese stia scomparendo, ma dell’inquietudine quando vediamo che le conseguenze di questa visione semplificata si traducono nella realtà. L’approccio di TCC è un’analisi diretta e sottile, estetica e ancor prima sociale. Come in A Kind of Display dove il duo mette in atto un’operazione su più livelli, sia dal punto di vista semantico che estetico, prendendo la barba come pretesto per un’indagine più ampia. Il progetto è nato da un articolo

su i t rapiant i nel Med io Or iente, special mente a Istanbul, dove, anche per i prezzi particolarmente vantaggiosi, si recavano businessmen dagli stati vicini per farsi infoltire la barba. Eravamo affascinati dal legame tra cultura e chirurgia estetica, poiché, stando a quanto potevamo leggere, la barba in Turchia rappresenta un vero e proprio status sociale, legato all’età adulta e alla virilità. Il fenomeno ha ovviamente preso piede anche in occidente, perdendo gran parte del suo significato ed esplodendo come trend. Negli stessi anni assistevamo alla Primavera Araba. Era interessante mettere a confronto tutti questi elementi, soprattutto per noi che, all’epoca del 9/11, eravamo raga zzini, e abbiamo vissuto quasi quindici anni all’interno di un continente in cui la barba era taboo per i politici e le cariche istituzionali o in generale screditata. Abbiamo pensato quindi di usare la barba come cartina di tornasole, chiamiamolo anche pretesto, per mettere a confronto una serie d’icone dell’immaginario collettivo e temi urgenti della geopolitica internazionale, facendo leva sul nostro immaginario collettivo. L a fotog ra f ia è i l pu nto d i pa r ten z a del vost ro lavoro, anche se traslata o inserita in un dialogo più ampio, t ra v ideo, i nsta l la z ione e scu ltu ra… l’interesse, infatti, risiede nella progettualità più che nel mezzo. Un linguaggio, in questo senso, non è privilegiato rispetto ad altri: scegliamo di volta in volta la soluzione che ci sembra tradurre meglio un determinato contenuto. Allo stesso tempo, però, il fotografico è più vivo che mai. La cosa che ci ha sempre affascinati dell’immag ine in senso lato è che mantiene sempre una fortissima rela zione con la realtà quotidiana, il che le consente di avere una vasta accessibilità, anche se, nonostante la sovrapproduzione, il tasso di alfabetizzazione nei confronti di questo linguaggio rimane piuttosto basso. In lavori come You Are Here e The Third Chimpanzee Vajont 2014 emerge poi un interesse per lo spazio, inteso sia nella sua codifica a livello cartografico e urbano ma anche storico ed economico. In entrambi i casi, l’intento è di mostrare come ogni geografia sia vissuta e come quest’aspetto sia ciò che spesso si perde in un’immagine. La nostra esperienza quotidiana dello spazio è molto complessa, una specie di osmosi tra fisico e virtuale e molto sfugge al nostro sguardo, anche se probabilmente rimane impresso nella nostra attenzione periferica nella forma di elementi che non sappiamo identificare ma dei quali avvertiamo, inconsciamente, la mancanza o la sovrabbondanza. The Cool Couple (Nicolò Benetton e Simone Santilli), vivono a Milano e in Italia sono rappresentati dalle gallerie METRONOM e MLZ Art Dep. La loro ultima personale, nel corso dell'anno si è tenuta all'interno di FOTOGRAFIA. Festival Internazionale di Roma, al MACRO.

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Armin Linke Quello che non si vede di Michela Lupieri

statica dell’archivio come mero spazio di conservazione, Linke studia precise situazioni allestitive che ne aprano il contenuto a un dialogo con il presente e con lo spazio in cui, di volta in volta, è presentata una parte. Questo approccio è centrale in L’apparenza di ciò che non si vede, prima personale dell’artista in Italia presentata al PAC di Milano. Con la cura di Ilaria Bonacossa e Philip Ziegler la mostra, proposta in occasione della 12° Giornata del Contemporaneo e dedicata al l’arte italiana, è la seconda tappa di un progetto più vasto e concepito come itinerante, alla base del quale c’è la volontà di ridefinire i limiti spaziali, per far dialogare il contenuto dell’archivio sia con diverse città europee sia con autorevoli studiosi invitati dall’artista a selezionare le fotografie per loro più interessanti, in relazione al rispettivo campo di ricerca. Dopo la prima tappa in Germania allo ZKM di Karlsruhe tra il 2005 e il 2007, che ha visto la partecipazione di Ariella Azoulay, Bruno Latour, Peter Weibel, Mark Wigley e Jan Zalasiewicz, la mostra al PAC si arricchisce dell’importante contributo di Franco Farinelli, Lorraine Daston e Irene Giardina. Con la presenza degli studiosi esterni, il progetto espositivo supera una presentazione ordinaria delle immagini

sopra: Kawah ljen Volcano, Biau (Jawa Timur) Indonesia, 2016 a destra: Maha Kumbh Mela, Allahabad India, 2001 nella pagina a fronte: Whirlwind, Pantelleria (TP) Italy, 2007 Per tutte le foto: courtesy PAC Milano

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Sulla scia dell’ “impulso archivistico”, teorizzato nel 2004 da Hal Foster in An archival impulse, da oltre vent’anni la ricerca fotografica di Armin Linke (Milano, 1966) è finalizzata alla costruzione di un illimitato archivio del visibile che, ad oggi, racchiude oltre ventimila immagini fotografiche scattate in diversi luoghi del mondo. L’intento è creare un atlante globale in continua espansione, capace di narrare e convogliare in un unico spazio, privo di precise coordinate geografiche, le attuali trasformazioni del mondo. Partendo da immagini di impianto fortemente spaziale, che mostrano il cambiamento del paesaggio da un punto di vista architettonico e naturale, l’autore muove alla ricerca di situazioni e contesti in cui centrale è la presenza dell’uomo, necessaria all’autore per capire la relazione tra quest’ultimo e le forme di un mondo in costante evoluzione. Tanto nelle fotografie quanto nei documentari, Linke ricorre a diverse tecniche di inquadratura, ripresa e montaggio per incrinare il limite tra l’oggettività della realtà osservata e la finzione, grazie anche al lavoro svolto sull’immagine nella fase di post-produzione. In uno spostamento continuo da luogo a luogo, Linke osserva, scatta e accumula il materiale fotografato in un archivio in costante divenire, attivo testimone dei cambiamenti geopolitici, economici e ambientali in corso. Davanti a questa immensa opera di catalogazione, peculiare è l’approccio dell’artista rispetto a una convenzionale fruizione dell’immagine da cui egli stesso invita a prendere le distanze. Mettendo in discussione una concezione


fotografiche a favore di un procedimento più complesso, volto a ricontestualizzare il contenuto dell’archivio stesso e a collegare le oltre centosettanta fotografie selezionate per questo evento a ulteriori teorie relative alla società contemporanea. In un susseguirsi di collegamenti, che riprende la struttura dei vasi comunicanti, un processo esterno all’archivio ne trasforma la fruizione, smantellando l’idea di una narrazione fotografica lineare. Grazie alle voci degli studiosi diffuse nello spazio si innesca una narrazione su più livelli: l’audio si sovrappone alla parte visiva, accompagnando le immagini e i testi scritti dal fotografo per creare uno spazio altro, attraversato da traiettorie visive e uditive che collegano le fotografie a riflessioni legate alla geografia, all’architettura, alla fisica o alla filosofia. Centrale è l’allestimento della mostra, studiato per dialogare con l’architettura modernista del PAC e per invitare lo spettatore a muoversi senza seguire un percorso a priori. Il tradizionale allestimento lungo le pareti - che richiede una visione solitaria, statica e frontale - è stravolto da una visione d’insieme che considera la singola unità fotografica come parte di un sistema integrato sia su un piano visivo e sia concettuale. Il PAC è così attraversato da una serie di pannelli - isole intese come nuclei tematici piuttosto che autoriali - tra i quali il visitatore è invitato a spostarsi seguendo ciò che lo colpisce di più. In questo modo, in un percorso di fruizione sempre diverso perché personale, l’archivio stesso si racconta e si plasma in un’opera aperta dalle connessioni sempre diverse.

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BeArt

e il crowdfunding di Paola Bonino​

“Crowdfunding non significa elemosina o colletta, bensì far parte di qualcosa” ci ricorda Mauro Mattei, uno dei co-fondatori, insieme a Giorgio Bartoli e Jessica Tanghetti, di BeArt, una piattaforma interamente dedicata al crowdfunding nell’ambito dell’arte contemporanea, con il proprio quartier generale tra Londra e Milano. In un’epoca e in un paese come l’Italia, nel quale i fondi pubblici per i progetti culturali sono agli sgoccioli e il sostegno di privati, mecenati e collezionisti, non è sempre facile da ottenere, BeArt si afferma come un’intelligente alternativa, che sfrutta i canali del web per un finanziamento “dal basso”. Il sistema è semplice: il creator – artisti, musei, gallerie, associazioni, fondazioni, enti pubblici, editori, produttori e no profit – , previa attenta selezione da parte del team di BeArt, lancia sul sito della piattaforma una campagna, ovvero una raccolta fondi per un particolare progetto, con un obiettivo e una durata precisa. Ad ogni supporter, ovvero colui che contribuisce economicamente alla campagna, spetta in cambio una reward, una ricompensa commisurata all’entità offerta, ideata ad hoc dal creator. Le reward spaziano da oggetti d’arte a entità “immateriali”, come una studio visit, una visita guidata a un museo, l’invito esclusivo a una preview o una cena con l’artista. Una volta lanciata la campagna, il suo successo è tutto nelle mani del creator e della sua capacità di coinvolgere potenziali donatori, nel muovere Ritratto dell’artista Diego Perrone ad opera di Patrick Tuttofuoco

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un interesse attraverso i canali del web, nell’organizzazione di incontri e presentazioni, nella disponibilità a farsi promotore attivo della propria causa, spiegando personalmente a qualsiasi interessato di cosa si tratta e perché vale la pena contribuire. La strategia è quella tipica del fundraising: il “pubblico” deve sentirsi parte di “qualcosa”. Come ci spiegano i fondatori, “far parte di “qualcosa” significa anche avere la possibilità di essere artefice di un progetto e vederlo nascere grazie al proprio contributo: valorizzare un artista emergente, partecipare al sostenimento di uno spazio d’arte indipendente, contribuire alla ristrutturazione di opere di una collezione museale sono quello che noi consideriamo un vero e proprio “mecenatismo contemporaneo”. Le reward sono, in questo senso, un elemento fondamentale per il successo della campagna: tanto più saranno accattivanti e personalizzate, tanto più i potenziali donatori si sentiranno coinvolti in prima persona. Tra i recenti successi di BeArt figurano MARS Milano e Bomb Factory Art Foundation a Londra, che hanno raccolto fondi necessari per sostenere i propri spazi indipendenti, dedicati ai giovani artisti, nelle due città di “elezione” di BeArt. Anche Patrick Tuttofuoco, artista italiano residente a Berlino, ha aderito alla piattaforma, lanciando una campagna per la realizzazione della sua opera per l’imminente Quadriennale di Roma. La rassegna romana dispone, infatti, di fondi limitati e non offre un budget per la produzione di opere inedite; artisti e curatori devono quindi inventarsi nuove modalità di finanziamento. L’opera concepita da Tuttofuoco s’intitola Goooonies – i render sono visibili sul sito di BeArt – ed è una rievocazione di un precedente lavoro dell’artista, Grattacielo. Realizzato nel 2000, in collaborazione con quattro colleghi dell’Accademia di Belle Arti di Brera – Massimiliano Buvoli, Christian Frosi, Massimo Grimaldi e Riccardo Previdi – l’opera era una catasta di materiali poveri alta quasi dieci metri, che rifletteva sulla nozione di authorship e sulla collaborazione tra artisti. Goooonies è un omaggio a quella seminale collaborazione: un’installazione alta come la precedente, nella quale i ritratti fotografici dei cinque autori si sovrappongono alle fotografie di residui marini delle spiagge di Pescara. Per chi contribuisce, l’artista ha pensato a una serie diversificata di ricompense, da una visita guidata al suo lavoro alla Quadriennale di Roma durante i giorni dell’inaugurazione, a poster e banner, fino a un ritratto personalizzato creato dopo un dialogo con Tuttofuoco. BeArt è una strategia di finanziamento nuova, almeno in Italia, che concede la possibilità di uscire da sistemi vetusti, veicolati solo dalla forza di mercato dell’artista, un sistema in espansione, con il progetto di aprire in diverse capitali europee entro la fine del 2017, a partire da Lisbona e Berlino. Aspettando di vedere le prossime campagne e gli sviluppi futuri, incrociamo le dita per questi giovani intraprendenti!


Nicola Deshayes “Dear Polyp”

Nicolas Deshayes intento a operare col cesello sulla superficie di Dear Polyp, opera vincitrice del premio Battaglia Foundry Sculpture Prize. In mostra presso la Fonderia Artistica Battaglia, Milano, dall’11 ottobre al 25 novembre 2016, ph courtesy Virginia Taroni, courtesy Fonderia Artistica Battaglia

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Spray Eventi d’arte contemporanea

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Gluklya alias Natalia Pershina-Yakimanskaya “Overview Clothes for Demonstration Against False Election of Vladimir Putin (2011-1015)” opera esposta in “All the World’s Futures”, curated by Okwui Enwezor, Venice Biennale 2015

Laura Giardino “Green algae” 2016, tecnica mista su tela, 100 x 120 cm, courtesy della galleria Privateview, Torino e dell’artista

BARI Prosegue con successo la terza edizione di “ Vento d ’estate: la poesia”, organizzata dalla prolific a associazione culturale Eureka di Corato, sotto la guida di Rossana Bucci e Oronzo Liuzzi. Atipic a performance che parte dall’effimero per attivare una fruizione della cultura universale, divulgare e rendere tangibile la letteratura come esperimento collettivo e mutante. Attraverso il volantinaggio di liriche on the road si coinvolge l ’intero territorio, parte attiva dell’atto creativo. Segnaliamo inoltre “Sovereto in luce”, a cura di Francesco Sannicandro, collettiva d’arte contemporanea nel borgo medievale di Sovereto. -Lucia Anelli

BERGAMO Passi, il progetto ciclico di Alfredo Pirri, è approdato alla periferia del capoluogo bergamasco, ridando vita all’ex Centrale te r m o e l et tr ic a di Da ste e Sp al e n ga . L’edificio, divenuto possente esempio di archeologia industriale, venne costruito n e l 192 7 e , c o n un ’at ti v it à di o ltr e tre nt ’anni, si è le gato p rof on dam e nte alla storia e alle trasformazioni del territorio nel dialogo tra ingegno, lavoro ed energia. L’installazione (seguendo anche l ’incess ante moto sug gerito dal nome) ha preso il via nel 2000 ed è stata realizzata, nel corso degli anni, in contesti diversi, proponendo una ricerca artistica a lim e nt at a da c o lla b o r a zi o ni inte r di sciplinari, volta a costituire una nuova visione poetica e politica dello spazio a par tire da una lettura storic a e sociale del luogo. Incomprensibile lo smantellamento dell’opera di Pirri dalla GNAM di Roma, mettendone in discussione dopo

cinque anni anche il valore istituzionale e c ult ur a l e (s o n o in n e g a b ili l e p a r o l e dell ’autore su come il suo lavoro abbia restituito alla realtà museale coinvolta un a “dim e nsi o n e a p e r t a , p r e disp os t a all’allargamento dello sguardo, alla visita intesa come cerimonia laica, sensibile e conoscitiva”). I quasi cinquecento metri quadrati di specchi sono stati trasferiti d a l l a c a p it a l e n e l n u o v o l u o g o, d i v e nuta oggetto di intervento per la decima edizione di “contemporar y locus” nata c o n l ’ i nte nto d i c o s t r u i r e n u o v e c o n nessioni tra sperimenta zione visuale e posti segreti o dismessi del passato per rifondare signific ati e sensi altri. L’artista cosentino con questa operazione ha voluto esaltare fenomenologicamente la forza della luce, catturata e amplificata dalle superfici specchianti che moltiplic a n o in c e s s a nte m e nte l e m etr atur e e insieme la storia dell’edificio. Un lavoro site specific che comprende inoltre, un raffinato sistema di raccolta dell’energia solare, che viene restituita sotto forma di illuminazione notturna: ad ogni ora, nel corso della notte, per sei minuti l’ex centrale risplende di luce, la stessa registrata durante il giorno, apparendo come una sor ta di lanterna gigante. Visitare la mostra signific a c amminare sopra l’installazione in modo libero, contravvenendo alla credenza popolare di non rompere gli specchi; anzi essi sono stati frantumati dai passi, dai salti, dalle corse di un pubblico eterogeneo e numeroso che ha p erme s s o la tra sforma zione in itinere di que sto proget to “par te cipativo”. Il grande vuoto architettonico si è riempito di suoni e rumori materici e al contempo umani, nel riverbero infin ito d i i m m a g i n i. Tut to i n u n o s p a zi o senza limiti di prospettive e in continua rigenerazione. -Loretta Morelli

BOLOGNA Inaugura, il 18 ottobre al MAST, la prima personale italiana di Dayanita Singh, fotografa indiana protagonista della scena artistica internazionale che dagli anni Novanta ha indirizzato la propria ricerca all’esplorazione di una modalità di approccio all’immagine che ne privilegia le potenzialità relazionali e allusive attraverso una rigorosa presentazione in sequenze infinitamente modificabili. Il suo intero corpus fotografico è infatti custodito ed esposto in strutture lignee modulari composte da tavoli, panche, paraventi e contenitori segreti liberamente combinabili tra loro e che nel loro insieme costituiscono il Museum Bhavan, una collezione di immagini-oggetto che si accresce con il progredire del lavoro dell’artista. L’impaginazione diventa quindi un’interfaccia strutturale e concettuale che disdegna il signific ante e nega la preminenza del momento decisivo per esaltare il mistero dei suoi indizi latenti. Proprio i livelli dormienti di ciascuno scatto fanno emergere insospettabili legami tra fotografie realizzate in tempi e luoghi differenti dando origine a un’ulteriore proliferazione di “musei” che individuano particolari tematiche e suggestioni all’interno del macroinsieme che le accoglie. Nascono a questo modo anche le serie Museum of Machines (recente acquisizione della Collezione MAST), Museum of Industrial Kitchen, Office Museum, Museum of Printing Machines, Museum of Men e File Museum presenti in mostra che raccontano i luoghi della vita e della produzione industriale cogliendone l’essenza evocativa e onirica come organica costellazione di ossessioni silenziose. Gallleriapiù riapre la stagione espositiva con Utopian Unemployment Union of Bologna, solo show dell’artista russa Gluklya, alias Natalia Pershina-Yakimanskaya, che indaga la valenza concettuale dell’abito Juliet 179 | 97


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