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FEB 2016 – ISSN 11222050

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POSTE ITALIANE SPA SPED. ABB. POST. 70% DCB

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Pratiche Curatoriali Innovative a cura di Luciano Marucci

Negli ultimi anni il sistema espositivo in spazi istituzionali e alternativi ha subìto sostanziali trasformazioni dal lato strutturale e concettuale, dando sempre più rilievo all’azione propositiva dei curatori ed esaltando produzione e fruizione artistica. Siamo andati ben oltre gli eventi degli anni Sessanta che avevano avviato al superamento del white cube, anche se le oscillazioni del gusto e le sollecitazioni esterne possono far riemergere modelli in disuso con motivazioni più o meno condivisibili. Di fatto la progressione, sebbene non lineare, ha portato a forme espressive piuttosto eterogenee e a contaminazioni tra le discipline. E, nell’attuare format inediti e competitivi, le manifestazioni - a volte disaggregate ed estese nel tempo - vengono decentrate in contesti urbani o addirittura in altri luoghi geografici e perfino smaterializzate attraverso il mezzo informatico. Inoltre, per affrontare problematiche culturali, sociali e politiche transnazionali, sono chiamati curatori, anche stranieri, che non hanno una specifica formazione artistica. A stimolare e a legittimare i cambiamenti hanno contribuito soprattutto le grandi mostre collettive. La nostra indagine sulle pratiche curatoriali vuole approfondire il fenomeno in atto per focalizzare il ruolo del curatore, mettendo a confronto in ambito internazionale le opinioni di personalità di diverse categorie, generazioni e orientamenti, più interessate alle attività espositive. Parallelamente cerca di far lievitare nuove idee partecipando allo sviluppo della cultura nel mondo globalizzato.Dopo le testimonianze di Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Gillo Dorfles, Hans Ulrich Obrist e Fabio Sargentini (“Juliet” n. 175, dicembre 2015) intervengono Carlos Basualdo, Hou Hanru, Massimiliano Gioni e Angela Vettese, che hanno risposto alle seguenti domande di carattere generale e ad altre riferite al loro particolare lavoro professionale:

Carlos Basualdo, critico d’arte, curatore, docente universitario, direttore del Dipartimento di Arte Contemporanea del Philadelphia Museum of Art Il Philadelphia Museum of Art offre la possibilità di concretizzare format espositivi originali? «Sì, presso il Museo c’è stata una serie di mostre che potrebbero essere definite innovative, sia in termini di contenuti che di esposizione, tra cui, più di recente, quella su Fernand Léger’s “The City” e Dancing Around the Bride, con una mise-en-scene di Philippe Parreno». Grazie all’incarico avuto negli anni passati dal MAXXI hai potuto attuare mostre con tue ideazioni. «Certo, ho avuto la fortuna di lavorare a stretto contatto con il direttore del MAXXI Arte, Anna Mattirolo, e con l’eccellente staff curatoriale del Museo in vari progetti che ho sviluppato in dialogo con loro». Quali limitazioni hai incontrato in quella sede piuttosto difficile da governare in più sensi? «Le limitazioni, molto spesso, sono le stesse ovunque: tempo e denaro!» Suppongo che le esperienze acquisite in quel periodo abbiano contribuito ad aprire altri orizzonti… «Soprattutto 1>

1. Dopo le ideazioni curatoriali attuate nell’arte contemporanea fin dagli anni Sessanta in spazi istituzionali e alternativi, è ancora possibile progettare format espositivi originali? 2. Al di là della qualità delle opere presentate dagli artisti, le mostre dovrebbero avere una identità che riflette l’idea dei curatori? 3. Per realizzare eventi propositivi è indispensabile disporre di una produzione artistica inedita o innovativa? 4. I curatori più impegnati, con le loro esposizioni senza limiti generazionali, linguistici, disciplinari e geografici, possono stimolare la creatività e accelerare il processo evolutivo della cultura artistica? 5. Se inventare il futuro è una prerogativa dei creativi, il critico e il curatore dovrebbero registrare l’esistente con atteggiamento neutrale assumendo un ruolo puramente informativo? 6. La sinergia con gli architetti, specie per l’allestimento delle collettive in grandi spazi o nell’ambiente urbano, offre un valore aggiunto o può rappresentare un rischio di interventi invasivi? 7. In quale occasione espositiva è riuscito ad agire in modo più soddisfacente? 48

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Pratiche curatoriali


sono riuscito a sapere di più sugli artisti che lavorano in Italia». 7. «Nei tre anni dell’incarico a Roma la mia più grande soddisfazione è stata proprio quella di lavorare a stretto contatto con il team dell’Istituzione per la realizzazione di mostre. Tra esse vorrei includere la retrospettiva di Michelangelo Pistoletto da Uno a Molti (1956-1974), Plegaria Muda di Doris Salcedo, Indian Highway, e diverse installazioni della collezione permanente». 2. «Le mostre sono sempre il risultato di complesse trattative tra artisti, istituzioni e curatori. Credo fermamente che l’ “identità” di un’esposizione debba essere una funzione dei suoi contenuti». 3. «Sarebbe meraviglioso presentare lavori del genere. A mio avviso ogni mostra dovrebbe portare un contributo alla comprensione dei lavori esposti». 4. «Naturalmente sì, se la domanda riguarda l’importanza della pratica curatoriale nel campo più ampio della produzione culturale. Senza dubbio le mostre occupano un posto centrale nella nostra comprensione dell’arte». 5. «Non esiste un ruolo o una posizione “neutrale”, ma solo la possibilità di stabilire una relazione profonda e appassionata con il materiale a disposizione». 6. «Si potrebbero verificare entrambi gli aspetti. In realtà dipende dal curatore e dall’architetto». 22 novembre 2015 Massimiliano Gioni, critico d’arte e curatore, direttore artistico del New Museum of Contemporary Art di New York e della Fondazione Trussardi di Milano Se non sbaglio l’originalità della Mostra Internazionale della precedente Biennale di Venezia da lei curata era dovuta all’insolita scelta dei creativi, alle loro ricerche soggettive e alla fruibilità delle opere più che alla modellazione degli spazi. «A dire il vero non sono sicuro di concordare con questa osservazione: certo le opere d’arte e più in generale gli universi creativi degli artisti erano in primo piano nella mia Biennale come credo sia sempre importante in ogni mostra - ma gli spazi dell’esposizione erano disegnati e modellati in maniera molto attenta. In generale, per me è importante che la scrittura visiva di una mostra sia sicura e presente, ma discreta e così precisa da scomparire quasi in sottofondo. Alcune delle mie Biennali più recenti - in particolare la Biennale di Gwangju nel 2010 e la Biennale di Venezia nel 2013 - erano costruite come grandi esposizioni in musei temporanei, quindi senza le solite grandi opere e i gesti un po’ grandiosi e gratuiti da festival art. Sia la Biennale di Gwangju sia quella di Venezia cercavano ispirazione nella museologia, in particolare in quella etnografica: di qui l’uso di vetrine, ad esempio, o l’appensione dei quadri in serie e accrochages attentamente studiati - insomma tutta una tipologia di modalità di display che di solito si trovano, appunto, nei musei e non nelle Biennali. E poi si ricorderà che gli spazi dell’Arsenale erano stati quasi neutralizzati con un intervento architettonico forte ma ancora discreto, realizzato in collaborazione con l’architetto Annabelle Selldorf: l’idea principale dell’allestimento era quella di semplificare e rendere più lineare e pulito lo spazio stesso, così da sfuggire all’effetto di gigantismo che spesso lo contraddistingue: volevo piuttosto creare uno spazio dove fosse possibile pure un incontro intimo con le opere, anche di piccole dimensioni, quindi un luogo più museale e non tipico di una biennale». A New York, come direttore artistico del New Museum of Contemporary Art, può programmare mostre monografiche di artisti emergenti e collettive più vitali? Nel contempo deve essere particolarmente attento alle esigenze del pubblico? «Al New Museum cerchiamo di presentare artisti che Juliet 176

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non hanno mai esposto in importanti mostre museali a New York. È in realtà un parametro che lascia molto spazio per le scelte più diverse: ad esempio, un grande maestro come Chris Burden prima della sua mostra al New Museum non aveva mai ricevuto (ed è davvero incredibile pensarci) una retrospettiva a New York. Lo stesso dicasi per Chris Ofili, Rosemarie Trockel o Carsten Höller. Oltre a questi nomi più affermati, una volta all’anno organizziamo anche grandi mostre di artisti più giovani o quarantenni, che invitiamo ad avere la loro prima grande mostra a New York, come Anri Sala o Pawel Althamer. Le esigenze del pubblico sono da considerare, ma non nel senso che la programmazione di un museo debba essere fatta seguendo semplicemente il fantasma dell’audience - anzi credo che quando ci si appiattisce pedissequamente sulle presunte esigenze del pubblico si finisce per creare istituzioni populiste... Più che pensare unicamente al pubblico, è opportuno e normale pensare all’ecosistema in cui si lavora. Mi spiego: le scelte che faccio a Milano con la Fondazione Nicola Trussardi sono diverse da quelle che farei al New Museum, perché diverso è il paesaggio di gallerie, di altri musei, di pubblico e di informazione disponibile». Negli USA l’attuazione dei programmi espositivi è più agevole che in Italia? «Non ho molta esperienza di lavoro in Italia al di fuori della Fondazione Trussardi e della Biennale di Venezia, che rappresentano due esempi piuttosto unici. Con la Fondazione Trussardi poi il lavoro è al contempo più difficile e più eccitante, perché non abbiamo uno spazio espositivo e ne cerchiamo uno per ogni esposizione; il che pone delle sfide specifiche, ma d’altra parte siamo un team affiatatissimo e quindi anche le situazioni più complicate si rivelano fonte di ispirazione per realizzare mostre ambiziose e complesse». Pratiche curatoriali

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Renaissance a Lille Tre generazioni di Emanuele Magri

Lille, la bella cittadina francese al confine con il Belgio, eccelle per una offerta culturale straordinaria. La manifestazione Renaissance esamina le vicende di cinque città del mondo che hanno subito grandi cambiamenti economici, politici, sociali: Detroit, Rio, Eindhoven, Seul, e Phnom Penh. Città che però stanno riemergendo e in cui gli artisti trovano nuovi stimoli al loro lavoro. E l’arte invade la città e gli interessanti spazi riciclati ai vari lati di Lille: ex stazioni, ex edifici postali, ex brasserie, nuove costruzioni pensate come centri di aggregazione. Seul è stata scelta per il miracolo economico che ha trasformato la metropoli coreana. Una grande mostra dal titolo Seoul, presto, presto! a Tripostal, ex edificio per lo smistamento della posta e in seguito diventato spazio espositivo di grande estensione e fascino, ci restituisce le dinamiche di questa nazione. Dal fantastico mondo di Choe U-Ram con le sue creature meccaniche, e una enorme palla di luce costituita da fari di automobili che diventa un pianeta, una megalopoli, una giostra infernale, ai paesaggi di Lee Bul che occupa un’intera area con l’installazione Civitas Solis II tra utopia e meravigliosa rovina apocalittica, e di Soyoung Chung 56

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con un paesaggio geologico più fratturato, che ricorda il grande tema della cultura coreana che è la separazione tra il Nord e il Sud della Corea. Inquietanti le foto della serie di Hein-Kuhn Oh sulle Cosmetic Girls che usano la chirurgia estetica per adeguarsi a canoni di bellezza demenziali, e davvero scenografica l’opera di Choi Jeong Hwa. L’enorme catastrofe sperimentata da Eindhoven è stata invece economica, quando la società Philips si è trasferita ad Amsterdam, nei primi anni 2000, con una perdita di 400mila posti di lavoro. Poi la città si è risvegliata attraverso la progettazione e il co-working. Tutta questa creatività trova spazio in una mostra alla Maison Folie de Moulins, une vecchia brasserie del XVIII secolo. Ed è rappresentata da STRP (il duo Fred Penelle & Yannick Jacquet, qui in collaborazione con AntiVJ), delle cui due recenti produzioni spicca l’opera “Mécaniques discursives”: una miscela esplosiva di incisione e proiezione video, che rappresenta una sorta di macchinario assurdo e poetico che si sviluppa lungo il muro con le dinamiche del cadavre exquis, secondo il principio della reazione a catena. Inoltre, una sala è dedicata alla Capitale internazionale del Design, e si parla anche di design gastronomico, e di food designers.


Anche Detroit ha vissuto la crisi e il fallimento, ma come la fenice, è letteralmente rinata dalle sue ceneri, dopo aver superato il sogno americano della motorizzazione. Oggi, la città sta vivendo una rinascita, e così il centro d’arte della Gare Saint-Sauveur, grazie al Museum of Contemporary Art Detroit e i suoi artisti, dà conto di come vecchie fabbriche possano diventare residenze di artisti, una stazione di polizia una galleria, case abbandonate vengano riconvertite in studi di registrazione ad alta tecnologia, aree dismesse rivivono con la personalizzazione delle strade. Scott Hocking, artista internazionalmente riconosciuto, si ispira alla storia della sua città, riempiendo una parte in disuso del padiglione B con una monumentale installazione fatta di traversine ferroviarie. Usando materiali trovati nei luoghi abbandonati crea forme mitiche come lo Ziggurat o l’Uovo. Un container, trasformato in una discoteca, la più piccola al mondo, si interfaccia con una performance partecipativa in cui il pubblico può diventare padrone della pedana, andare dietro al giradischi a mixare una playlist di Detroit. Sulle pareti, i video e le immagini del primo DEMF (Detroit Electronic Music Festival), un festival fondato da Carl Craig e che da quindici anni offre il meglio della scena elettronica. Rio, invece, è stata scelta perché il Brasile è, un paese con grandi disparità tra ricchi e poveri, sebbene molti progetti siano stati avviati in questi ultimi anni nelle favelas e il suo famoso carnevale, il più grande del mondo, coinvolge tutti i distretti e residenti della città. Anche Lille, il giorno dell’inaugurazione, di Renaissance è stata invasa da questo spettacolo e a testimonianza rimane la grande mostra Carioca! alla Maison Folie de Wazemmes. Situato nel quartiere popolare di Wazemmes, questo antico mulino ristrutturato da Lars Spuybroek è diventato una delle strutture di punta culturali della città di Lille. Un invito speciale è stato riservato a A Gentil Carioca Gallery, la prima a Rio a rappresentare i giovani artisti Cariocas fin dal 2003, e che è presente nelle principali fiere internazionali d’arte. Così vediamo i collages sovversivi di Guga Ferraz, gli autoritratti di Daniel Lannes, e il collettivo Opavivara! che prende posizione sui difficili problemi sociali, combattendo per esempio una battaglia per il reintegro dei venditori ambulanti sulle spiagge, che furono cacciati nel 2009. Sono state spedite 8000 cartoline rappresentanti questi venditori. Carmelo, il venditore di the ghiacciato, è diventato il simbolo di questo patrimonio della città. Quanto a Phnom Penh rappresenta l’unico esempio in tempi moderni di una città svuotata dei suoi abitanti con la forza e rimasta abbandonata per quasi quattro anni. Dopo il 1979, quando quasi il 90% degli artisti e intellettuali era scomparso, la rinascita ha ispirato molti artisti cambogiani che hanno sviluppato un nuovo approccio in più campi (video, performance, fotografia, scultura, ecc...) anche attraverso il sostegno dell’Istituto Francese della Cambogia. “Ho voluto avere rappresentate tre generazioni di artisti”, ha dichiarato Christian Caujolle, curatore della mostra. Questo significa prendere artisti come Mak Remissa, un fotografo di scena ossessionato da ciò che ha vissuto da bambino durante il periodo di Pol Pot; il pittore Chov Theanly, che è cresciuto nel 1980, mentre il paese è stato coinvolto in un conflitto intestino; e quelli nati dopo gli Juliet 176

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accordi di pace di Parigi del 1991. E poi Sopheap Pich che usa materiali tradizionali come il rattan e il bamboo. Em Riem, artista e designer e modello, ha fondato la Galeria X-EM Design dove espone le sue opere, così come quelle di altri artisti emergenti cambogiani, e artisti francesi e stranieri, nel Vattanac Capital Mall il grattacielo simbolo della modernità della capitale. Ti Tit fotografa il suo ambiente, a partire da sé stesso, la sua famiglia, i suoi viaggi, e gioca, come fa sul suo blog, a secondo dell’umore, in khmer, in inglese e in francese, provocando con barzellette sporche. Anida Yoeu Ali, nata in una famiglia della minoranza musulmana, al tempo duramente perseguitata dalla dittatura, è cresciuta a Chicago, negli Stati Uniti. Si è trasferita ed è tornata a vivere in patria solo nel 2011, e a Phnom Penh ha trovato l’ispirazione per “Buddhist Bug”, un particolare costume arancione, il colore delle tuniche dei monaci, con la testa coperta dalla hijab che la fa sembrare un enorme bruco o una apparizione divina. Anida ha creato una serie di performance site-specific, inserendo il Bug in paesaggi urbani e rurali, con conseguenti scenari divertenti e surreali. Recentemente sta lavorando a un nuovo tipo di messa in scena documentata nella mostra sia in foto sia con il vero e proprio paramento scenico delle sue performance. Anida Yoeu Ali è la vincitrice del 2014/15 Sovereign Asian Art Prize ed è presente al The Asia Pacific Triennial of Contemporary Art (APT grande evento che raccoglierà il meglio dell’arte contemporanea del sud-est asiatico), alla Queensland Art Gallery di Brisbane.

1. Anida Yoeu Ali “Enter the Field a Dance” 2. Manifesto di “Lille3000. Renaissance”

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Slaven Tolj L’arte militante di Emanuela Zanon

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Per Artissima 2015 la Galleria Michaela Stock di Vienna ha presentato “Achille’s Heel”, personale di Slaven Tolj, artista multimediale nato a Dubrovnik che, dopo aver curato il Padiglione della Croazia alla 51a Biennale di Venezia, dal 2013 dirige il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Rijeka. I suoi esordi sono profondamente segnati dal socialismo che ha improntato la sua adolescenza e dalla formazione all’Accademia di Belle Arti di Sarajevo dove ha potuto entrare in contatto con le più aggiornate pratiche artistiche beneficiando dell’atmosfera relativamente libera dell’arte performativa jugoslava degli anni ‘70 e ‘80. In seguito la sua ricerca si è precisata come approfondimento e comunicazione delle laceranti conseguenze sociali della guerra e della disintegrazione dell’ex Jugoslavia per ampliarsi, sul finire degli anni ‘90, con l’inclusione di tematiche relative alla recente incursione negli stati post totalitari dell’Est Europa di interessi capitalistici e spregiudicate speculazioni corporative e politiche. Nel suo lavoro la critica politica e socio culturale si concretizza in performance, body art, installazioni site specific e ready made modificati che compongono una strategia espressiva unitaria attraverso la quale Tolj ricerca una comunicazione intima con lo 60

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spettatore invitandolo a interrogarsi su come i media ufficiali interpretino la memoria storica e l’attualità in modo intenzionalmente parziale o distorto. La sua pratica minimalista e radicale prevede la smaterializzazione dell’artefatto e l’esplorazione dei limiti del corpo e delle emozioni istintive per ridurre ai minimi termini la mediazione linguistica e suscitare la partecipazione del pubblico inducendolo a completare con la propria percezione individuale ciò che l’artista deliberatamente omette. Così nella performance “Globalisation” eseguita nel 2001 al festival newyorkese “Body and the East” Tolj finisce in coma etilico dopo aver consumato un litro di vodka e uno di whisky in 15 minuti per incarnare il luogo di incontro tra Oriente e Occidente simboleggiati dai due diversi liquori, mentre in “I’m dangerous, kill me in front of my children’s eyes” (2011) siede di fronte a queste parole scritte su un muro bianco con un sottofondo di carillon rivivendo la tragica contraddizione dell’uccisione violenta di Osama Bin Laden di fronte alla figlia. L’arte deve suscitare una presa di coscienza attiva delle reali ripercussioni nella vita quotidiana degli intrecci di potere che sovrastano i cittadini, si deve offrire come strumento di erosione dei falsi messaggi


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del sistema, procede per aneddoti lampanti per indagare i risvolti personali di problematiche solitamente affrontate come generalizzazione. Visceralmente legato alle vicende della sua città natale, Tolj incentra molte delle sue opere sulla testimonianza vissuta in prima linea delle vicende della guerra e dell’assedio capitalistico che è subentrato alla violenza bellica con la nuova insidiosa coercizione mediatica che oggi logora la libertà della popolazione. In “Map of the city” (2006) ad esempio l’artista riadatta la piantina posta all’ingresso di Dubrovnik al termine del conf litto: in aperta denuncia dell’invasione del turismo di massa che snatura ampie zone della città, sostituisce nella legenda informativa la segnalazione dei luoghi colpiti dai bombardamenti durante l’accerchiamento dell’armata jugoslava del ‘91-‘92 con l’indicazione delle nuove attività commerciali che ne impoveriscono il tessuto sociale. Nel 2012 Tolj è il principale animatore di “Srd je naš!”, una manifestazione popolare di protesta sfociata in un referendum contro la costruzione di un campo da golf che avrebbe privatizzato il monte sovrastante Dubrovnik. In una mostra all’Art & Crafts Museum di Zagabria l’artista rielabora quest’esperienza disseminando palline da golf sulle sculture Juliet 176

antiche della collezione permanente in un’ironica assimilazione del museo con il monte Srd, entrambi campi da golf inappropriati dove l’imposizione di una destinazione d’uso incongrua limita l’originaria fruibilità di un bene pubblico. Immagini fotografiche delle sculture corredate di palline vengono poi abbinate agli slogan con cui i politici locali tentavano di mistificare la privatizzazione come sviluppo a vantaggio della collettività, stravolgendo il significato dei motti sportivi di cui si ammantavano i loro discorsi propagandistici. Stanco di lottare, nel 2013 Tolj si trasferisce a Rijeka a 600 chilometri da Dubrovnik dove lascia la sua famiglia e inizia una silenziosa battaglia privata contro la solitudine che ispira la serie fotografica intitolata “Ulica Branimira Markovića” dall’indirizzo del suo nuovo domicilio. Nelle stanze asettiche popolate da oggetti insignificanti e commoventi disegni fatti dalle sue figlie, l’eroe della contestazione Tolj incontra la fragile umanità di Slaven che combatte altrettanto strenuamente per la propria esistenza individuale e la difficile conciliazione tra sfera pubblica e privata rende l’uno il tallone d’Achille dell’altro, come suggerisce il laconico titolo di questa retrospettiva.

1. “Branimir Marković Street, Rijeka” 2013/2015, photography C-Print, courtesy Galerie Michaela Stock, Vienna 2. “To my three Z – Citius. Altius. Fortius –“ 2013, series of 16 photographies, courtesy Galerie Michaela Stock, Vienna

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Geologia della pellicola Elizabeth McAlpine intervista di Giulia Bortoluzzi

Interessata alle proprietà fisiche dei materiali, come la luce e la pellicola fotografica, Elizabeth McAlpine unisce una narrazione soggettiva e poetica legata alla dimensione del ricordo, a un interesse per la storia del cinema e dell’osservazione. In occasione della sua prima personale italiana, alla galleria Rita Urso di Milano, abbiamo chiesto all’artista britannica di presentarci la genesi delle sue opere. Il titolo della serie Ends deriva dalla parte finale della pellicola fotografica, una sorta di rimanenza del filmato o una parte perduta. In questo lavoro, t’interessi alla materialità della pellicola e a come questa è portatrice di un sentimento di nostalgia. Da dove origina questa passione? Quali sono i tuoi riferimenti? «M’interessa la materialità della pellicola perché è l’unico mezzo in grado di testimoniare il passare del tempo come qualcosa di fisico e reale, come durata. Vedere un secondo di tempo come una vera e propria lunghezza fisica, da tenere in mano, mi affascina allo stesso modo di una parete rocciosa sulla quale sono stratificati millenni di tempo. M’interessa molto il movimento del cinema espanso degli anni ‘60 e ‘70, che considera lo spazio tra lo schermo e il proiettore come uno spazio attivo piuttosto che passivo, nel quale l’osservatore è connesso e in rapporto dinamico con l’opera». Il tempo è una condizione esistenziale di Ends, ogni fotogramma corrisponde infatti a 0,0416 di secondo. Il fatto di essere considerati individualmente piuttosto che collettivamente, cambia la funzione e la percezione delle pellicole. In che modo il suono integra questo processo? «La striscia del suono impressa sul bordo della pellicola in 35 mm è un elemento visivo dell’opera, le strisce sonore sono state distorte a causa di fuoriuscite di luce sulla pellicola, sfuocando e sbavando il film. M’interessa il tipo di rumore bianco che questi elementi visivi possono potenzialmente portare in sinestesia». Lavori col found footage, nella convinzione che ciò che si trova è qualcosa che è già andato perso. Quest’idea è collegata con la riflessione sulla memoria come involontaria e sulla stratificazione delle immagini sulla superficie della pellicola. Come si fanno a portare in superficie, nel tuo processo artistico, i ricordi e le storie? «La mia risposta alla pellicola è geologica sia nel passare al setaccio l’archivio sia nella ricerca e l’analisi della struttura del film come sedimentaria. Penso al cinema come a un’immagine sedimentata negli occhi di chi guarda, visibile solo come memoria una volta 64

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Elizabeth McAlpine, “Ends (Sprayed Sound)” 2013 Courtesy: the artist, Laura Bartlett Gallery, London, and Rita Urso Artopiagallery, Milano


passata attraverso la soglia di un proiettore. Penso alle mie opere come a strutture geologiche costruite sugli occhi dello spettatore. Questo mi ha anche portato alla realizzazione di The Raid (101 minute) del 2015. Sono interessata dal viaggio della pellicola ritrovata, perché anche l’accumulo di segni, graffi e polvere sulla sua superficie fa parte del lavoro. Queste sezioni minime e astratte implicano un momento nel tempo che è esistito, ma registrano solo la luce e il minerale, attraverso un processo chimico. Il processo di raccolta di questi momenti, interrompendoli nella loro sequenza, tagliandoli e stratificandoli in una nuova composizione, avviene nell’interruzione del tempo che fa apparire l’immagine». Raid è un’opera composta da pellicole in 35 mm assemblate in sette file, una più corta rispetto alle altre? Come cambia l’identità del film in questo caso, rispetto alla serie Ends? «The raid è costruita da una copia in 35mm del lungometraggio The raid. Il film è stato impiombato in singoli fotogrammi in Juliet 176

seguito allestiti in sequenza, uno sopra l’altro, tenuti in posizione solo grazie a dei tiranti in acciaio che scorrono attraverso i fori di trascinamento del film. La narrazione del film resta nascosta nella materialità della pellicola. 101 minuti di tempo diventano 20.26 metri di materiale filmico, tutta la narrazione è presente ma non visibile. Bisognerebbe scavare per riportarne alla luce le storie, come accade coi ricordi». www.elizabethmcalpine.com

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Women Artists Rubell Family Collection di Emanuele Magri

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Nell’arco di cinquant’anni la famiglia Rubell ha collezionato una tale quantità di opere di artisti di ogni parte del mondo da potersi permettere di scegliere una serie di artiste donne che rappresentino la faccia femminile della ricerca artistica contemporanea. Un tema affrontato più volte ma sempre attuale e sempre aperto. La Rubell Family Collection (RFC) è stata istituita nel 1964 a New York, poco dopo che i suoi fondatori, Donald e Mera Rubell, si sono sposati. Ora è una delle più grandi collezioni d’arte contemporanea del mondo. La figlia, Jennifer Rubell, è un’artista riconosciuta che espone nella mostra una dei lavori più ironici e di grande impatto visivo e concettuale. “Lysa III. 2014” (fiberglass, resina, acciaio): un manichino-donna-schiaccianoci, opera interattiva che comporta l’intervento dello spettatore che pone una noce tra le gambe aperte nella zona vaginale e poi comprime la gamba alzata schiacciando la noce. Un’opera che può essere letta sia come rappresentazione dell’immaginario maschile che vede nella donna una pericolosa macchina stritolatrice, che dell’immaginario della donna che si ritiene guardata come manichino o strumento da usare. Siamo quindi tra il kitsch maschilista e la rivolta femminista. Il titolo della mostra (Miami, 2 dicembre, 2015 - 28 maggio, 2016) No Man’s Land: Women Artists from the Rubell Family Collection, può essere interpretato, a proposito dell’esclusione del maschio, secondo la curatrice Tami Katz-Freiman, in più modi e con vari riferimenti al corpo, alla sessualità, alla pornografia, al consumismo, all’appropriazione dei temi della storia dell’arte, alla protesta contro secoli di esclusione da essa, ai temi religiosi e politici, al femminismo, ai problemi di identità, e così via. Alcune artiste sono rappresentate anche nella mostra Unrealism presentata da Larry Gagosian e Jeffrey Deitch al Moore Building nel Miami Design District, mostra che celebra il grande ritorno di interesse per la pittura e la scultura figurativa: sessanta artisti dal 1980 ad oggi. Ovviamente i punti di riferimento sono le artiste storiche che dagli anni Settanta hanno creato uno stile e dato una direzione. Marlene Dumas, Sarah Lucas, Cindy Sherman, Candida Höfer, Cady Noland, Jenny Holzer, Rineke Dijkstra, fino a Nathalie Djurberg e Fiona Tan. Il lavorio del tessere qualunque sia il materiale è senz’altro una delle strade più seguite. Infatti, grande spazio è dedicato nelle prime due sale a Solange Pessoa e alla sua Cathedral. Qui l’artista brasiliana invade lo spazio con lunghe strisce che si distendono e si arrotolano su sé stesse lavorando con tessuto, pelle e capelli così come l’altra artista brasiliana, che troviamo al secondo piano, Sonia Gomez, che usa tessuto, filo e corda disegnando forme riconducibili al corpo femminile. E ancora Diana Molzan


reinterpreta l’astrattismo decostruendo la tela filo per filo e facendo cadere mollemente ogni filo in modo da ottenere, dalla cornice, una leggerissima superficie curva cadente verso il basso. È contemporaneamente pittura e opera tridimensionale, e rientra nel discorso della tessitura. Nelle sale successive troviamo Schauspieler del 2006, opera di Isa Genzken. L’immagine, scelta per la copertina del catalogo, è disarmate per la sua semplicità, in parte imbiancata e con segni che delimitano i seni e il ventre come per le operazioni di chirurgia estetica o per sezionare il corpo per una autopsia, e spiazzante nell’associazione dei pochi elementi. Guanti, due uccellini sulla spalla, una parrucca, occhiali neri. E ancora i manichini senza volto, di grande leggerezza, di Mai-Thu Perret che eseguono volteggi da ballerina o da ginnastica ritmica con i loro hula hoop al neon (Apocalypse Ballet, 2005) in grande contrasto col lavoro di Sigalit Landau che con il video Barbed Hula, 2000, procede con un atto di desensibilizzazione a far girare un hula hoop di filo spinato sulla propria pancia. Altrettanto di impatto è il video di Patty Chang Mellons. L’artista simula il taglio di un seno (in realtà un melone) ne estrae i semi e li mette nel piatto che ha in testa, e poi continua a scavare con un cucchiaio e a mangiare riuscendo a mantenere alto lo shock visivo nonostante la evidente simulazione. E questa potrebbe essere la terza via, che deriva dalla body art, quella che indaga in genere con performance e video l’aspetto autopunitivo, il farsi del male, l’infliggersi una qualche sofferenza. Il manichino di Anya Kielar Lady (2007) si inserisce all’interno di un’installazione dai molteplici riferimenti. Al posto della testa tre casette, al posto delle gambe una casa-libreria sostenuta da un mobiletto con le ante aperte a mostrare le calzature indossate. Anche qui una serie di citazioni che vanno dal costruttivismo, al primitivismo al surrealismo, al pop fino a Louise Nevelson. Mentre quelli di Kaari Upson Untitled (2009) con il carbone e la cera sfracellati e come carbonizzati su fondo nero si rifanno a sue tragiche esperienze personali. Una strada che sembra essere meno battuta prevalendo invece una visione distaccata e politicizzata. Come in Amanda Ross-Ho che si ispira alla sua esperienza quotidiana ma con un senso di de-familiarizzazione e di distacco. In White Goddness #9 with Peripheral Disclosure, 2007 (sotto la tela che espone uno stendardo-tessuto giace una latta di colore con sopra un vaso contente pennelli usati). La ieratica figura che propone Paloma Varga Weitz Waldfrau, getarnt, 2002 (tiglio, larice e tessuto mimetico), ha a che fare con la rappresentazione del potere e del carisma. Mentre nell’altra sua opera (Stubaifrau del 2002, in legno di tiglio e pino colorato) una figura femminile nuda sembra scorrere in una canalizzazione di legno che porta a una noria, la ruota usata con le sue pale per pescare acqua da un fiume. Non si sa se sta andando verso la ruota o è spinta via verso il precipizio e verso un destino ineluttabile. Nel secondo testo introduttivo di No Man’s Land Anna Stothart classifica le varie strade percorse dalle artiste tra Nudo Femminile, Pittura Astratta, Identità politiche, Ibrido scultoreo e l’eredità della Pictures Generation. A questa appartengono Aneta Juliet 176

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Grzeszykowska che si rifà alla Sherman nei modi ma aggiornando e adattando la propria immagine alla sua patria di origine (Varsavia), così come Deborah Kass si rifà a Warhol ma sostituendo Marilyn Monroe con Barbra Streisand e cioè l’icona della sessualità con quella di potere e indipendenza. Rachel Harrison, con Voyage of the Beagle Two (2008) esposto anche nella sede sostitutiva del Bass Museum in restauro, presenta una serie di cinquantotto fotografie, che mettono in confronto i menhir preistorici con quelli che possono essere considerati i monumenti contemporanei (di altrettanto difficile interpretazione per le generazioni future) pescando nella cultura pop, il kitsch, la natura. Quanto al discorso su “Identità e Politica” la Stothart cita come esempio Catherine Opie che con i suoi lavori (qui Jo del 1993 e Justin Bond del 1993) registra, nell’America di oggi, le relazioni tra le persone, l’identità individuale in rapporto ai gruppi, ai movimenti politici, le sottoculture, e la trasformazione urbana, per arrivare a Njideka Akunyli Crosby (nigeriana che vive a Los Angeles), Hayv Kahraman (nata in Iraq, vive a San Francisco). E così l’immagine della donna appesa con un cappio al collo (Migrant I, 2009, olio su tavola) diventa non solo un esercizio di stile e di eleganza figurativa, ma anche una vera e propria presa di posizione.

1. Isa Genzken “Schauspieler” 2013, manichino, parrucca, occhiali, lacca, pennarelli, guanti in pelle, statuine in ceramica, metallo e plastica, 184 x 47 x 27 cm 2. Mai-Thu Perret “Apocalypse Ballet – Pink Ring” 2005, mixed media, 170 x110 x 90 cm Per entrembe: courtesy Galerie Buchholz, Berlin/ Cologne/New York (© Rubell Family Collection, Miami)

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Luigi Ontani L’Io e l’Altro

intervista di Giulia Giambrone

Luigi Ontani è inevitabilmente narcisismo. L’Io è preponderante. E l’ “altro”, la società? In che modo l’arte può essere sociale? Come convoglia il narcisismo con la collettività? «La società dell’arte che ho vissuto io inizialmente non era allineata ai doveri del resto della società. Io credo che quello che si può esprimere individualmente ma non per eccesso esasperato di individualismo o di egocentrismo, di egotismo o di narcisismo come la consapevolezza o l’attributo del mio scudo come riconoscimento, è comunque già una forma di presenza e di impegno. È un suggerimento non solo per me stesso. Io considero gli elementi dell’esprimere come fossero una tavolozza, un pennello, uno scalpello. Non ho mai sottovalutato né trovato una convinzione quando l’arte invece si fa portavoce o parallela di un impegno sociopolitico. Quello non fa parte dei miei interessi e forse è dovuto a una formazione solitaria ma anche a un’osservazione proprio della Bologna degli anni ‘60 che rappresentava impegno in pieno a livello espositivo pubblico ma anche di gallerie. Già in quel momento io invece consideravo il colore, il gioco, l’elemento apparentemente frivolo leggero e distratto per essere qui con noi comunque, non chissà in quale mondo. È evidente che quella non è la mia convinzione. Trovai insofferenza quando il ritorno all’arte, in particolare newyorkese, impose al mondo il politically correct, la mancanza di memoria, la possibilità di rigiocare dei linguaggi già chiaramente espressi come se non ci fossero radici, lo sradicato che non lo è, il dissidente. Adesso in giro per il mondo ci sono artisti anche molto bravi che però hanno come avallo l’essere dissidenti. Non mi sembra interessante, è una realtà esistenziale. Agli stessi limiti di quando si crea un gusto nel dopo e qui nel prima però l’opposto del gusto ma non lo dico con disgusto ma nemmeno con buon gusto».¯ L’eredità lasciata dalle ideologie artistiche del XX secolo fa dell’arte di oggi un’arte “di sostanza”. In Ontani c’è una forte componente decorativa. Parlare di decorativismo nel contemporaneo è azzardato. Ha ancora senso parlare di decorazione oggi? «Sì e no. Gli artisti oggi o il contesto che li sostiene hanno una possibilità molto varia del linguaggio. È la consapevolezza di poter prendere degli elementi suggestivi o significativi di radici diverse, che è in fondo il concetto di ibrido che mi riguarda. Non si tratta però di ibridi, si tratta a volte di disinvoltura, di oblio della memoria. Essendo un linguaggio empirico questa è la forma di libertarietà, e secondo me è anche interessante se la 72

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scelta contempla la virtuosità dell’esprimere. L’aspetto decorativo delle mie cose è considerato come elemento completivo. Io non penso che sia la predominante il fatto decorativo, penso che io parto da degli stilemi che possono essere simbolici, iconografici, iconologici e quindi li esprimo nella compiutezza dell’aspetto ornamentale. Difatti ho messo in gioco attraverso il mio viaggio della maschera l’arte ornamentale, l’arte che è composta anche dell’elemento del fare artigianale che non riguarda il fatto che io conduca o faccia direttamente. L’aspetto decorativo è un edulcorare. Come la maschera di cui mi vesto: ha una radice in un cosiddetto comportamento che poteva riguardare sia pittori e sia letterati o anche studiosi che avevano un compiacimento di vanità nella definizione del dandysmo. Però quell’abito è stato ricamato o cucito a mano cioè non è un aspetto decorativo, è un aspetto costruttivo dell’opera. Penso che c’è un aspetto costruttivo che prevede anche l’aspetto decorativo in quanto è quello che sostiene l’opera, non è che è un’aggiunta, una ridondanza. Il linguaggio che ho scelto fin dal primo momento è un linguaggio di ridondanza ma non di spreco. La decorazione non è un elemento aggiunto tanto per rendere più vistosa la cosa». Ontani abolisce la distanza arte-vita facendo di sé un’opera d’arte. Fare anche della propria vita un’opera d’arte è un principio che un artista deve sempre tenere presente? «No assolutamente, tant’è vero che io non ho il dovere, io ho il piacere. Il discorso di credito al dandy è un discorso del prima e del dopo che riguarda la maniera, cioè il dandy può essere tuttora nella società cosiddetta di massa qualcuno che fa un tentativo di distinguersi. Non è detto che sia un artista, può scrivere dei romanzi o fare dei saggi di sociologia. Io ho un’ammirazione, una considerazione per tutti gli artisti che hanno una chiarezza e un’evidenza del loro fare e del loro linguaggio anche a un estremo opposto delle mie convinzioni. Sarebbe una dimensione monotona, assolutamente. Ho ad esempio un’ammirazione per Castellani che può essere una persona elegante in sé. Anzi è interessante come in questi anni è ancora più un’eccezione se l’artista viene riconosciuto nell’aspetto. Se c’è una caratterizzazione folklorica del vestire e dell’essere dell’artista è quasi squalificante. È una cosa ambigua ed equivoca perché io lo faccio per mia indole e carattere, nasce nella mia infanzia. Non sono un’opera vivente. È evidente che gioco su questa mia evidenza però c’è anche uno spirito credo, non so se l’anima…Viva l’arte!»

"Trumeau Alato" 2007, ceramica policroma e fotoceramica realizzata con Bottega Gatti, Faenza, 243 x 83 x 65 cm, courtesy l'artista


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Enzo Bersezio “Il Respiro delle Maree” di Marcello Corazzini

A Bologna, presso lo spazio Tatler e in occasione di ArteFiera 2016, si è tenuta la mostra personale di Enzo Bersezio dal titolo “Il Respiro delle Maree” a cura di Patti Campani, con la collaborazione di CSA Farm Gallery di Torino. Tatler è uno spazio inconsueto: si può leggere un libro, colloquiare al caldo di una stufa, acquistare profumi dalle inebrianti e raffinate fragranze e anche assistere, o meglio, essere partecipi di eventi artistici. Infatti, in un affascinante locale seminterrato con volta a botte e mattoni in cotto a vista, vengono periodicamente allestite mostre d’arte di alto livello. In questo spazio dalla pianta rettangolare, preceduto da un vano di contenute dimensioni, sono state allestite le opere di Enzo Bersezio. Al centro svetta una scultura dalla esile struttura, sormontata e contemporaneamente inglobata da un residuo ligneo. Protuberanza questa, scavata e tortuosamente ferita da una malattia arborea che ne ha modificato la struttura, rendendola spugnosa. Da qui l’idea del “Respiro delle Maree”. Chi non si è mai soffermato con lo sguardo e la mente ad “ascoltare il mare”? Il suono della risacca è come il battito cardiaco, è un respiro profondo, è il respiro che ti permette di vivere, che ti lega indissolubilmente alla vita. Anche degli altri. La stessa struttura esile e aerea dell’opera fa venire alla mente gli antichi “Tepee” d’America, anzi ne prende spunto, ma la sua forma composta, gracile e aperta non serve per proteggere il corpo dalle intemperie, ma sembra fare da collegamento, da tramite, con il cielo e il nostro desiderio di “ultramondo”. Si sente in essa il pulsare continuo, affannato, calmo, agitato o rilassato, pieno di amore o di passioni. Quest’opera, in fondo, protegge la nostra stessa esistenza, rappresenta per noi lo sciamano, il sacerdote che mette in contatto la nostra anima, le nostre speranze, con gli altri e con l’universo tutto. Il “Respiro della vita”, per l’appunto.

“Il Respiro delle Maree” 2013 (particolare laterale 1), legno tra!ato, cm 90 x 120 x 150 x h 170, ph courtesy Gasparo Tatler

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Landon Metz “Untitled”

“La tela bianca è occupata da segni, serpenti piatti e larghi, o grosse note musicali. Tra una campitura e l’altra c’è un silenzio, come tra le note di John Cage. Le opere sono rarefatte e anche le parole che tentano di spiegarle devono esserlo. Landon disegna campiture sulla tela bianca, poi le riempie di colore come Wolfgang Laib riempie di latte le sue sculture. Fa muovere il colore fino ad esaurire la forma voluta”. - Massimo Minini

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Picks

Landon Metz “Untitled” 2015, vernice su tela, dimensioni variabili. Vista dello studio dell’artista. Courtesy Galleria Francesca Minini (Milano, gennaio-marzo) e Galleria Massimo Minini (Brescia, gennaio-marzo)

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Zhou Siwei “Wood Board”

Zhou Siwei “Wood Board” 2013, inchiostro colorato su carta, 50 x 40 cm, © Zhou Siwei, courtesy Aike Dellarco, Viasaterna

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Picks

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Petrit Halilaj All’HangarBicocca di Alberta Romano

Petrit Halilaj “They are Lucky to be Bourgeois Hens II” 2009, courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, ph Agostino Osio

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C’era una volta la favola del paese con la esse davanti. Un bel giorno Giovannino Perdigiorno, uno dei personaggi più cari di Gianni Rodari, si ritrovò in uno strano paesino in cui ogni oggetto aveva una “esse” davanti al proprio nome. C’era lo stemperino che non appuntava le matite, ma le faceva ricrescere; lo staccapanni che non richiedeva panni da attaccare, ma che ne metteva a disposizione sempre di nuovi; lo scannonne che, se messo in azione, aveva il potere di porre fine a qualsiasi tipo di guerra. Insomma, nel paese con la “esse” davanti, ogni oggetto si presentava nella sua accezione positiva, nella sua veste più bella. Sono proprio le storie così chiare e delicate che molto spesso riescono a veicolare, nel migliore dei modi, anche dei contenuti complessi, altrimenti difficili da digerire. Quando penso a Petrit Halilaj (Kosovo, 1986) penso al paese con la esse davanti. Penso alla delicatezza con la quale l’artista è in grado di trasmettere contenuti importanti, senza mai appesantire il visitatore, anzi affascinandolo e coinvolgendolo con la sua sensibile positività. Petrit Halilaj nasce a Runik, un piccolo paesino del Kosovo, nel 1986. Testimone troppo giovane dei conf litti con la Serbia, vive il dramma dell’emigrazione, dello sradicamento dalla propria terra e della permanenza in un campo profughi, dove, leggenda vuole, sia stato notato per le sue doti artistiche. Si trasferisce in Italia, s’iscrive all’Accademia di Brera, studia, si diploma e in brevissimo tempo diventa uno dei giovani artisti più apprezzati del panorama contemporaneo. Oggi vive tra Berlino e Bozzolo, un piccolo paesino nel mantovano e, una cosa è certa, non smette mai di produrre. L’HangarBicocca ospita, fino al 13 marzo 2016 Space Shuttle in the Garden, la prima grande mostra personale di Petrit Halilaj in Italia. Tra sculture, installazioni, disegni e video si ripercorreranno gli ultimi anni di produzione dell’artista. Tra le opere più imponenti: The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real (2010-2015). Già presentata alla Biennale di Berlino nel 2010, si tratta della ricostruzione della sua Juliet 176

vecchia casa di Pristina, che si presenta questa volta in maniera del tutto nuova. Per quest’occasione ogni stanza acquista una propria autonomia, entrando in contatto con lo spazio circostante e con le opere che lo abitano. Un’opera che funge da trait d’union, abbracciando tutto l’operato dell’artista tra passato e futuro, tra Kosovo e Italia. Halilaj, nel ricostruire pezzo dopo pezzo la sua casa, non racconta la disfatta, ma la costruzione e la volontà di procedere attraverso strade che, spesso, possono dimostrarsi faticose o tortuose, ma che vale sempre la pena di percorrere. Così come ha fatto nel 2011, in occasione di Art Basel Statements, quando prelevò sessanta tonnellate di terra in Kosovo e le trasportò fino in Svizzera dando vita a Kostërrc. Entrando in punta di piedi nelle nostre coscienze ci parla di sé, dei luoghi della sua infanzia, come di tutti quei luoghi che hanno caratterizzato la sua formazione fino a oggi. Con It is the first time dear that you have a human shape, si torna di nuovo alle favole. I gioielli di sua madre, sotterrati per essere messi al sicuro dalla guerra imminente, vengono recuperati e portati alla luce. Hanno ancora addosso la terra che li ha soffocati e protetti allo stesso tempo, ma sono di nuovo lì, presenti e cento volte più grandi di quando erano stati sotterrati la prima volta. C’è poi They are Lucky to be Bourgeois Hens II (2009), parte di un ciclo di lavori unitario molto più ampio. L’artista costruisce un pollaio a forma di missile spaziale, e lascia alle galline, uniche fruitrici della struttura, la possibilità di vivere il sogno di volare. Tuttavia, l’opera più grande di Petrit Halilaj sta nel trasformare tutto quello che ha vissuto sulla propria pelle in qualcosa di nuovo, in qualcosa di buono. Per quanto termini come “favola”, “buono” sembrino, al giorno d’oggi, quasi sminuire e mortificare il lavoro di un artista contemporaneo, sono tuttavia i termini della semplicità, i termini attraverso i quali ogni concetto può essere compreso anche da quei bambini, che in un campo profughi, entreranno per la prima volta in contatto con l’arte.


Alfredo Pirri

Page Properties dedica il suo spazio/pagina a Alfredo Pirri (Cosenza, 1957)

* testi, interviste, reprints e dispositivi di pensiero, su realtà, processi e attori, che prendono parte al dibattito artistico contemporaneo.

di Angelo Bianco

Pittore e scultore sofisticato e fra i più interessanti del panorama italiano. Ha esposto in numerose mostre nazionali e internazionali tenute presso: Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma (2013), Palazzo Te, Mantova (2013); Biennale de l’Havane (2001); Accademia di Francia a Roma (2000); Palazzo delle Papesse, Siena (2000); MoMa PS1, New York (1999); Palazzo Fabroni, Pistoia (1995); Biennale di Venezia 1988 e 1993; Walter Gropius Bau, Berlino (1992). Ha insegnato alla Bezalel Academy of Arts di Gerusalemme, all’Università La Sapienza di Roma e all’Accademia di Belle Arti di Urbino e Palermo. Attualmente vive e lavora a Roma e insegna Pittura all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. Il testo che segue, dal titolo “Arte e Stato”, è un contributo rieditato appositamente per P.P. Il saggio breve, diviso in tre sezioni denominate “Prologo” “Testo” e “Canto”, è stato composto dall’artista riscrivendo frammenti di testi precedenti con l’aggiunta di altri scritti per l’occasione. Prologo> Riflettendo sul rapporto fra Arte e Stato ho riguardato al mio lavoro alla luce del tema. Mi è apparso che nel tempo si sia annidato dentro come un soggetto che agisce nell’ombra, un argomento che solo per semplicità chiamerò politico. Ma questo termine non esprime pienamente il senso di quanto vorrei dire perché non mi aiuta a fare emergere in me quegli aspetti consapevoli e centrali che ne farebbero un soggetto pieno e autonomo (…). Quest’ombra scura, rintanata nel mio lavoro, esprime la convinzione che ogni forma politica (particolarmente quella per eccellenza, lo Stato) sia il risultato di una varietà e quantità d’immagini e azioni artistiche accumulate nel tempo che ne hanno lentamente disegnati i contorni e motivato i contenuti. Quest’idea, piuttosto fantasiosa e poco dimostrabile, quasi solo un’immagine, mi fornisce lo spunto per pensare che lo Stato non possa considerarsi come l’organo semplicemente tecnico, logistico e amministrativo che conosciamo ma che, invece, dovremmo riuscire a immaginarlo essenzialmente come la simbolizzazione sintetica e la forma maggiormente raffinata dell’azione di un popolo, una forma pubblica composta di Juliet 176

un insieme d’immagini individuali ma che non è ottenuta sommandone aritmeticamente le singolarità, bensì è il risultato di un’azione di scambio permanente che fa sì che ogni volta che queste vengono in contatto, qualcosa dell’una rimane intrappolata dentro la struttura molecolare dell’altra (…). All’inizio di queste mie riflessioni ho avuto spesso (come molti di noi credo) la sensazione che Arte e Stato fossero inconciliabilmente antagonisti, oppure che ci fosse, sì, un legame ma solo strumentale, invece ho poi compreso come un vincolo sotterraneo e forte, un desiderio di simbolizzazione osmotica li lega entrambi al medesimo destino e che ogni artista, quando realizza un’opera, tenda forse a rinnovare questo vincolo dandogli forma nuova. Non solo donando vita all’opera, ma anche inventando un modo e una forma dello stare insieme intorno o di fronte a quell’opera e creando, di conseguenza, un’azione che porta dentro il gesto estetico anche un’etica del come stare insieme nei confronti dell’opera medesima. L’insieme e direi quasi l’assemblea di questi modi etici di porci in confronto alle opere d’arte costituisce, a mio parere, le fondamenta essenziali dello Stato democratico. Testo> Giovanni Battista diceva di sé: “Io sono voce di uno che grida nel deserto”. Il suo grido solitario era distinguibile all’orecchio più lontano, il deserto ne accudiva e intonava la voce amplificandone il suono dentro l’aria calda e vibrante (...). Anche l’artista urla per affermare, attraverso opere e parole, i suoi principi, ma urla anche di paura quando questi principi diventano egemoni rispetto alla loro forma artistica. Quando le sue idee, proprio quelle cui egli stesso ha dato forma, sono divise dalle opere e assunte a principi generali e poi trasportate lontano fin dentro i confini dello stato senza che esso sappia accudire alle immagini trasformandole in propaganda. Infatti, un insieme di principi e paure compone il nostro grido attuale. Gridiamo innanzitutto la convinzione che pratica artistica e democrazia scorrano parallele e gridiamo l’idea che l’arte abbia introdotto nel mondo l’esigenza stessa della democrazia (…). L’arte e lo Stato di un popolo sono l’incarnazione e la somma P.P.*

dei suoi manufatti artistico-storici, dei luoghi rappresentativi della sua identità politico-estetica e delle prospettive che questi aprono per il cambiamento civile della popolazione. Canto> Rilke ci diceva che neanche vicino a un morto ci si sente tanto soli quanto vicini a un albero ma, aggiungerei, oggi, anche dentro una piazza o di fronte a un quadro. Per esprimere questa solitudine e reagire a essa l’artista, con la sua opera e le sue parole, grida dentro il deserto dei sensi cercando di dirci che intorno a questo grido, solitario e armonico allo stesso tempo, bisogna tornare a modellare e organizzare un sistema complesso in cui riesca a convivere creativamente quel sistema-recinto oggi chiamato democrazia all’interno della quale spicca, come un castello medievale, la forma dello Stato con le sue opere, oggi di contorno (…). In questi anni, abbiamo chiesto poco, perché volevamo viaggiare leggeri e veloci, in risposta ci è stata concessa una creatività irresponsabile, volevamo spazio e abbiamo avuto in cambio forme scimmiottanti il migliore dei mondi immaginabili, abbiamo chiesto ascolto per le nostre parole nuove, delicate e complicate, ricevendone una multimedialità che ci rimbomba dentro la testa come un cannone. Adesso non vogliamo più tutto, avendo capito l’imbroglio, ma desideriamo essere intatti attraverso immagini che sviluppino storie, avere fiducia nelle sue composizioni e in un’identità formale. Per fare questo abbiamo bisogno di un’arte e d’istituzioni politiche convinte di non doversi consumare nello sforzo di un semplice conoscere comune, ma che sappiano porre questo movimento dentro un orizzonte che generi prospettive di conoscenza, partendo da noi non attraverso un gesto di riflessione (cioè di chi guarda il mondo facendosene specchio), né tanto meno dentro uno d’astrazione (cioè di chi guarda il mondo disprezzandolo), bensì dando vita all’esperienza di un’immagine che chiede costantemente al linguaggio di fornirgli materiali poco comuni ma non per questo solitari, inadeguati ma non per questo intraducibili, stonati e proprio per questo armonici (…).

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Appuntamento Design

Nika Zupanc a cura di Alessio Curto

Gorenje nasce negli anni Cinquanta nell’omonimo villaggio sloveno come fabbricante di fornelli a combustibile solido. Negli anni Settanta la direzione amministrativa decide di acquisire altre aziende che, nel tempo, hanno portato alla creazione del Gruppo poi trasferito nell’attuale complesso centrale di Velenje. Nel 1979 assorbe la Körting di Grassau (Germania) che all’epoca produceva elettrodomestici del settore bruno (hi-fi, televisori) e Gorenje Körting Italia ne diventa la filiale commerciale a Milano iniziando a vendere gli elettrodomestici del settore bianco anche nel nostro paese. Nel 1993 la sede viene trasferita a Trieste. Da rilevare infine che l’industria di elettrodomestici - nella configurazione attuale - costituisce in Slovenia la principale realtà produttiva e il principale esportatore nazionale, commerciando all’estero il 90% della propria produzione collocandosi tra le prime otto al mondo nel settore. Con sessantacinque anni di esperienza, il marchio esporta i propri prodotti in oltre settanta paesi. Gli importanti investimenti effettuati negli ultimi anni nel campo della ricerca e della progettazione hanno portato risultati costantemente in crescita, con una produzione di quattro milioni di elettrodomestici ogni anno e un fatturato di oltre un miliardo di euro. La società guidata da Franjo Bobinac, sforna linee di elettrodomestici progettate da grandi firme come Pininfarina, Ora Ito, Karim Rashid e Philippe Starck. A seguito di questa scelta strategica è arrivata conseguentemente anche una pioggia di riconoscimenti internazionali come i recentissimi Plus X, Red Dot e Good Design Award. Tra i prossimi prodotti che entreranno in catalogo si è aggiunto recentemente “Mrs Dalloway”, uno speciale prototipo di piano cottura a induzione ideato dalla designer slovena Nika Juliet 176

Zupanc. Parliamo di un raffinatissimo mini fornello elettrico dalla curiosa forma di un portacipria: una garbata ventata di romanticismo nel freddo e minimalista settore dell’elettrodomestico casalingo! Una stravaganza emotiva utile per affrontare i temi quotidiani che, quasi iconicamente, simboleggiano la mediocrità, il grigiore, la noia, e i vincoli temporali. Ingegneria avanzata e specificità dei materiali utilizzati sono stati impiegati alla stregua della confezione di un nuovo abito per contrastare usi e costumi, triti e ritriti, in cucina. Laureata all’Academy of Fine Arts and Design di Lubiana nel 2000 (la sua tesi è stata insignita del prestigioso premio accademico Presernova), dopo aver prodotto oggetti in serie limitata con il marchio “La femme et la maison”, Nika Zupanc collabora con aziende internazionali come l’olandese Moooi, la friulana Moroso e la giapponese Francfranc. In particolari occasioni, non disdegna di realizzare anche delle installazioni architettoniche molto sorprendenti, che suscitano stupore e meraviglia. A Milano, nel corso di un recente Salone del Mobile, ha allestito “The Wind Pavilion” una specie di mulino a vento con facciata modulare Qbiss prodotta da Trimo, ispirato alle costruzioni tipiche del paesaggio della campagna slovena. All’interno dell’impianto scenografico ha piazzato i suoi pezzi forti: divani e panche dagli enormi fiocchi in raso, automobiline a molla per bambini, scale colorate, piumini maliziosi e culle avvolgenti. A Pechino, invece, nella sede espositiva dell’Ullens Center for Contemporary Art, con l’installazione “Room of one’s own” l’artista ha reso

omaggio a Christian Dior e allo spirito rivoluzionario del suo profumo Miss Dior. In questo secondo caso Zupanc si è ispirata alla impuntura a cannage, motivo decorativo caro allo stilista francese. Ha immaginato una ‘stanza tutta per sé’ ispirata alla scrittrice Virginia Woolf. Di colore rosa e nero (le due campiture sono un vero e proprio marchio di fabbrica della giovane designer), questo spazio è una gabbia accessibile ma anche uno scrigno prezioso, nel quale troneggia una sedia con schienale composto da un fiocco: un invito alla riflessione e alla scrittura. I suoi lavori, siano essi arredi o complementi dalla forma un po’ retrò, manifestano tutto lo charme (da alcuni critici definito “punk elegance”) del vivere quotidiano con una fantasia tutta femminile. Con la Zupanc assistiamo quindi al trionfo della femminilità in un mondo, quello del design, dominato dall’essere maschile. Un irresistibile tocco di bon-ton che contamina gli spazi e, attraverso la sua allure, si declina su ogni tipo di oggetto da lei sapientemente progettato. Da quando il British Council l’ha selezionata come giovane professionista di talento per il progetto “Rising Stars of New Europe”, i suoi lavori sono stati esposti nelle seguenti manifestazioni: 100% Design e Designersblock di Londra, Young Talent di Hong Kong, The Lighthouse di Glasgow, Salone Satellite di Milano, ICFF, New York. In Italia il suo lavoro è rappresentato da Rossana Orlandi e Spazio Pontaccio di Milano oltre Il Cesendello di Barletta. Quando non è in giro per il mondo la potete trovare, più operativa che mai, nel suo studio situato a Lubiana, in via Milcinskega 9.

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Spray Giorgio Cutini “Autoritratto” 2009, opera fotografica, dalla personale “Flusso instabile del tempo”, courtesy Ginomonti arte contemporanea, Ancona

ANCONA A pochi mesi dalla chiusura dell’Expo di Milano è ancora vivo il dibattito sul cibo, la sostenibilità e la cultura alimentare. La mostra “Mangiare (il) Bene”, a cura di Nikla Cingolani, ha coinvolto gli spazi della Mole Vanvitelliana con i lavori di dodici artisti (Karin Andersen, Attinia, Luca Bidoli, Daniele Camaioni, Angelo Colangelo, Giulia Corradetti, Peter De Boer, Armando Fanelli, Pierfrancesco Gava, Carla Mattii, Sabrina Muzi) che hanno affrontato il tema analizzandone gli aspetti psicologici, politici e sociali, dal punto di vista materiale e simbolico. Il titolo si è ispirato a una riflessione tratta da «Il faut bien manger» O il calcolo del soggetto di Jacques Deridda: “Dunque, la questione morale, […] poiché si deve pur mangiare e che sia bene, e che sia buono, e che non ci sia altra definizione del bene […]?”. L’intero progetto (scelto dalla Regione Marche per Expo Milano) comprendeva anche la realizzazione di un libro-catalogo in cui ai testi critici e alle immagini si affiancano interventi eterogenei di esperti del mondo gastronomico, nutrizionale, psichiatrico, antropologico, scientifico. L’esposizione, organizzata in collaborazione con l’Associazione Heta - Fida Ancona, l’Associazione

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culturale Infinito Spazio ISgallery, la Galleria Marconi e Marche Centro d’Arte, è stata presentata all’interno della prestigiosa rassegna CINEMATICA, promuovendo il dialogo tra arte contemporanea e mondo cinematografico. Le opere proponevano tecniche espressive diverse (video, installazioni, fotografie, dipinti, sculture) in un percorso denso, ricco di stimoli e rimandi al vivere e al sentire quotidiano.

smaliziato, evidenziava una sorta di frivolezza ironica. Da quasi un anno il progetto di Gino Monti è approdato nel capoluogo marchigiano con l’intento di diffondere tra il pubblico, soprattutto di appassionati e collezionisti, la conoscenza di maestri storicizzati dell’arte del secondo Novecento insieme con i protagonisti più interessanti dello scenario contemporaneo. - Loretta Morelli

Ginomonti arte contemporanea ha presentato “Capricci” di Michelangelo Pistoletto. Lo spazio espositivo, che si affaccia sulla centrale piazza del Plebiscito, ha raccolto le opere appartenenti alla famosa serie realizzata dal maestro piemontese nel 2011. I “capricci” in arte, musica e architettura sono storicamente prodotti di fantasia, stravaganza, libera invenzione. Attraverso l’inclinazione concettuale, che da sempre contraddistingue la sua poetica, l’artista si è misurato con questo genere a modo suo, eliminando i manierismi e gli orpelli, perseguendo l’essenziale fino alla tautologia. Le pareti della galleria esibivano, come tanti piccoli quadri, le famose lastre specchianti su cui era scritta soltanto la parola che ha dato il titolo alla mostra. Il termine, scritto in un corsivo quasi infantile, colorato e

Subito dopo la mostra di Pistoletto, Ginomonti arte contemporanea ha inaugurato “Flusso instabile del tempo”, a cura di Giancarlo Bassotti: due serie di scatti (con sei immagini ciascuna) effettuati in circa venti anni dal fotografo e chirurgo umbro-marchigiano Giorgio Cutini. Le opere, incentrate sullo scorrere dell’acqua su uno spazio fisso, evidenziavano come l’autore privilegi immagini emozionali non integrali. Completavano l’esposizione la “Città di Jokut”, ispirata alle “Città Invisibili” di Italo Calvino, e scorci di una Roma “immersa in atmosfere liquide ed evanescenti, trasfigurata in un tempo dilatato e segreto che ne svela la storia, la magia, il misticismo”. Cutini negli ultimi tempi ha intensificato l’attività espositiva. Parallelamente la sua ricerca si è ampliata non per documentare le esteriorità e

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Michelangelo Pistoletto “Frattali” 1999-2001, pennarello e acrilico su specchio, mostra “Capricci”, courtesy Ginomonti arte contemporanea, Ancona

la staticità del nostro mondo, ma verso l’introspezione e la combinazione di forme e segni evocativi. Ciò è dovuto soprattutto all’uso creativo del medium fotografico, alla strumentalizzazione di effetti impressionistici, di alcuni caratteri pittorici e grafici delle avanguardie storiche (Astrattismo, Futurismo, Dadaismo…) e perfino dell’Informale, evitando gli odierni orientamenti linguistici e gli ideologismi alla moda per affermare la sua identità. Il tutto rigenerato con sensibilità artistica, umana e lirica per visualizzare una realtà altra, più mentale e metafisica. Le ibridazioni da lui praticate, con intima partecipazione e dinamismo, pur essendo disciplinate dall’esperta ‘manualità tecnologica’, restano aperte alla sperimentazione e alle nuove sollecitazioni della quotidianità; sfruttano la causalità operativa e il fascino dell’enigma, non considerate marginali. I soggetti che colpiscono la sua attenzione, grazie alle elaborazioni e all’interferenza discreta o folgorante della luce, sono essenzializzati e sfocati, per cui la figurazione residua ripropone i valori della memoria e spesso è sublimata in pura luminosità. Così bellezza estetica e senso, spazialità e temporalità in-definite finiscono per unificarsi. E dal silenzioso

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contesto emergono leggeri movimenti musicali e apparizioni poetiche. - Luciano Marucci

ASCOLI PICENO Mentre nell’imponente Forte Malatesta proseguiva l’ampia e impegnata esposizione “Il gioco quotidiano” di Terenzio Eusebi, a Palazzo dei Capitani, nel cuore pulsante della città, tra le mostre di artigianato, si sono messi “In posa” nove operatori visuali, alcuni giovanissimi, coordinati dall’Associazione Culturale Officina San Giacomo diretta da Nazareno Luciani. Il sottotitolo rimandava alle “iconografie dei selfie” con lavori per lo più legati alla tradizione pittorica e scultorea. Mi riferisco a Hernan Chavar (teste di cervi, scheletri di mano e piede, muscolo di cuore); Andrea Capecci (dipinti astratto-gestuali dai colori vivaci); Emilio Patalocchi (immagini più inquietanti del solito, forse perché l’artista si è sentito emotivamente coinvolto dalle attuali vicende belliche); a Rossano Piccioni (donne tormentate, riconducibili al suo mestiere di fumettista); Caterina Silenzi (ceramiche raku con vere ossa di animali inserite in busti umani); Stefano Brandetti (lavori ispirati

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all’Egitto e al Medio Oriente); Desirée De Caro (foto di donne anche in atteggiamento seducente); Federica Simonetti (installazione che evocava il dramma della fauna marina, preda di spietati cacciatori); Ado Brandimarte (ancora allievo dell’Accademia di Macerata, che ha dato forma a materiali poveri e a personaggi mitici). Presentando la collettiva Gabriele Di Francesco ha parlato di “Iconografie abusate, reiterate, illuse di eternità apparente. Tabulae pictae degli iphone, degli smart, dei tablet. […] Selfie nel senso di esprimere la propria interiorità alla ricerca di un’autoaffermazione narcisistica in una superficialità volatile di cui non sempre si è comunque coscienti”. - Anna Maria Novelli

BARI Annamaria Suppa, con “Wormhole”, presso lo Spaziosei di Monopoli, attraverso un recupero passionale, oltre che concettuale, tenta la sua traversata oltre confine, facendo riaffiorare ricordi, volti, luoghi, dettagli sensoriali che movimentano il tessuto dell’immagine. La durezza apparente della texture, alternata a leggerezza e bizzarria, respira perfettamente con l’Idea, liricamente alleviata da ritagli,

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