Karpòs n. 1 - 2017

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KARPÒS ALIMENTAZIONE E STILI DI VITA

Anno VI - Karpo`s - N° 1 - 2017

W W W. K A R P O S M A G A Z I N E . N E T

IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: MUSEO O LABORATORIO JULIETA MANASSAS GAUDÌ E BARCELLONA I PELLEROSSA DELL’AFRICA CONTENUTI ED EMOZIONI



EDITORIALE

CONTENUTI ED EMOZIONI

Carissimi lettori, articolo; più fotografie; maggiore attenzione alla leggibilità). In sintesi, abbiamo cercato di superare il primo ostacolo che pone il web, ovvero la necessità di catturare l’attenzione dell’Internauta. La nostra visione era semplice e in linea con ciò che sostenevano le menti più brillanti del settore editoriale. L’attenzione del lettore viene attivata primariamente dalle emozioni. Il livello emozionale del testo quindi è sempre stato al centro delle nostre riflessioni. La narrazione efficace dipende dall’interazione tra contenuti pregnanti e la capacità del testo di dare ad essi una forma capace di attivare emozioni. L’obiettivo di trasformare l’agricoltura e i suoi infiniti contenuti possibili, in esperienze emozionali, sarà dunque la strada maestra che perseguiremo nel 2017. Ovviamente cercheremo di condividere con le aziende che ci daranno fiducia, le esperienze sul campo che abbiamo maturato in anni di applicazione con internet. Il web può essere una straordinaria opportunità per tutti, a patto che i contenuti veicolati rispondano alla attese di un lettore mutante, caratterizzato da una attenzione liquida, un lettore fondamentalmente infedele ma anche alla ricerca di nuovi significati. Trasformare la rappresentazione dell’agricoltura in un fascio di emozioni, ci sembra la via giusta per traghettare i contenuti e le opportunità che possono restituire all’agricoltura del terzo millennio la centralità che dovrebbe avere, dal momento che cibo e salute rimangono dimensioni primarie per la vita di chiunque.

in questi anni, a nostro avviso, decisivi per la trasformazione/modernizzazione dell’agricoltura italiana, Karpòs ha partecipato con passione promuovendo una nuova visione del comparto primario, coerente con i mutamenti in atto nella nostra forma di vita. Nel 2012, quando cominciammo la nostra avventura editoriale, ci sembrava che gli standard comunicazionali attraverso i quali l’agricoltura italiana comunicava se stessa, risultassero mediamente arretrati rispetto le attese dei fruitori. Avevamo la percezione che la maggioranza delle aziende riponesse troppa fiducia nelle informazioni (pubblicitarie e redazionali) e nell’ostentazione dei contenuti, in un momento storico in cui di informazioni ne circolavano troppe e i contenuti, soprattutto se presentati in modo ordinario, non raccogliessero più un interesse sufficiente per cambiare i comportamenti o per attirare l’attenzione degli stakeholder. La nostra proposta fu di elaborare un nuovo stile narrativo (relativamente al settore primario), per mettere al passo l’editoria di settore con le attese di immagine del lettore evoluto. Sostanzialmente cercammo di configurare narrazioni che fondessero tre elementi decisivi: 1. qualità scientifica dei contenuti (quasi tutti gli articoli pubblicati da Karpòs sono stati scritti da accademici, ricercatori ed esperti del settore); 2. bellezza delle immagini e della grafica; 3. attenzione agli stili di vita e alle conseguenti modificazioni delle “disposizioni” dei fruitori nei confronti delle suggestioni culturali che una rivista deve proporre. Solo per fare un esempio, l’attenzione agli stili di vita ci ha fatto scegliere di entrare e misurarci con le novità portate dalla rivoluzione di internet. Questa decisione ha comportato al nostro interno una nutrita serie di piccole e grandi variazioni che ci sembravano opportune: abbiamo differenziato la struttura di Karpòs facendo nascere magazine specializzati, per continuare a innalzare sia la qualità scientifica degli articoli e sia la loro spettacolarità, dando ad essi una forma più idonea al web (maggiori pagine per

Renzo Angelini Direttore editoriale

3 EDITORIALE


KARPÒS MAGAZINE N. 1 - 2017

Direttore editoriale Renzo Angelini

3 CONTENUTI ED EMOZIONI Renzo Angelini

Direttore responsabile Lamberto Cantoni

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Iscr. trib. di Forlì n° 3/12 del 4/5/2012 Proprietario ed editore della testata Karpòs S.r.l. Via Zara 53 - 47042 Cesenatico (FC) P.I./C.F. 04008690408 REA 325872

IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: MUSEO O LABORATORIO Bruno Marangoni

Hanno collaborato a questo numero Antonella Bilotta Laura Fafone Amministrazione Milena Nanni

28 JULIETA MANASSAS Lamberto Cantoni


Per le fotografie Pag. 55 e 56 Leonardo Paoletti Da pag. 78 a pag. 94 © Maurizio Levi Da pag. 29 a pag. 44 © ufficio stampa JM

48 GAUDÌ E BARCELLONA Lamberto Cantoni

Foto di copertina © Maurizio Levi

Tutte le altre fotografie © Renzo Angelini

L’editore ha cercato di reperire tutte le fonti, ma alcune restano sconosciute. L’editore porrà rimedio, in caso di segnalazione, alle involontarie omissioni o errori nei riferimenti.

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78 I PELLEROSSA DELL’AFRICA Maurizio Levi

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IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: MUSEO O LABORATORIO Bruno Marangoni

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11 IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: MUSEO O LABORATORIO BRUNO MARANGONI


L’agricoltura italiana da almeno due decenni non ha un piano nazionale programmato di sviluppo economico, sociale, tecnologico e commerciale in grado di inserirsi nel sistema agricolo e industriale mondiale dei Paesi occidentali, di quelli emergenti ed in via di sviluppo. Nonostante le radici culturali, le tradizioni storiche, l’eccellenza dei prodotti alimentari, l’inventiva individuale delle aziende, l’alta qualità dei prodotti, il nostro Paese è in ritardo sulla capacità di adattarsi al cambiamento del concetto agricolo della produzione di cibo (proprietà della terra) al sistema globalizzato attuale orientato all’ottenimento di capitali e quindi utili finanziari svincolati dalla proprietà del terreno e aziendale. L’agroalimentare dovrebbe se-

guire gli esempi di settori produttivi come quello della moda e design, quindi occorre creare un sistema produttivo con capitali misti e con società operative capaci di operare nell’attuale sistema globalizzato. Seguendo l’esempio di altri Paesi, Germania in testa, dovrebbero essere costituite società di commercio che gestiscono gli scambi dell’agroalimentare italiano (gruppi privati e cooperativi insieme). Ovviamente quando si opera con tipologie societarie complesse occorre avere uno staff adeguato, con esperienza internazionale e avere l’appoggio in loco (Paese di importazione) del sistema bancario, delle Ambasciate e degli Enti predisposti alla valorizzazione del prodotto con il marchio “made in Italy”.

Agricoltura in Alto Adige

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Raccolta del pomodoro nel Basso Ferrarese

I prodotti alimentari italiani sono frutto della storia, tradizioni millenarie ed hanno una buona notorietà internazionale ma spesso mancano del necessario adeguamento ad un sistema globale, legato alla praticità d’uso del prodotto, dove occorre conoscere bene i sistemi sociali, le abitudini alimentari e le esigenze e strutture di mercato dei vari Paesi. Lo sviluppo industriale dei Paesi trainanti (U.S.A. in particolare) a livello mondiale, ha stimolato l’innovazione in sistemi agricoli conservativi e introdotto, in molte aree, il

concetto della filiera produttiva (dal campo alla tavola), con un rapporto diretto e integrato fra industria, agricoltura e commercio. L’integrazione fra industria e agricoltura ha consentito, nel 1955, ai prof.ri Goldsberg e Davis della Graduate School of Business Administration della Harward University, di coniare il termine “agribusiness”, che ha modificato la tradizionale agricoltura introducendo l’importanza del valore di tutti i mezzi tecnici (antiparassitari, concimi, macchine, impianti di lavorazione, ecc.),

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della commercializzazione del prodotto fino alla tavola del consumatore. In un decennio il nuovo concetto del sistema agroalimentare, oltre agli U.S.A., è stato recepito in Francia, Inghilterra, Germania,

Paesi Bassi, Australia e Nuova Zelanda mentre in Italia i primi tentativi di rinnovamento si sono avuti solo agli inizi degli anni ’80. Le motivazioni del ritardo del processo di rinnovamento strutturale del sistema agricolo italiano, sono attribuibili alla ridotta dimensione delle aziende familiari, alla poca propensione verso i processi innovativi, alle mutate condizioni socio economiche e commerciali, alla carente rappresentatività delle Associazioni dei produttori e Cooperative; la rapida evoluzione e internazionalizzazione dei mercati, hanno reso difficile l’adozione di una linea di politica agro-industriale nazionale, ben integrata nel contesto europeo. Purtroppo le Associazioni agricole di categoria, comprese quelle delle cooperative, hanno recepito tardivamente l’integrazione dei settori della filiera alimentare dal “campo alla tavola” che include la conservazione, la trasformazione industriale, la gestione ambientale, nonché il marketing.

Meleti in Val di Non

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Agricoltura collinare sull’Appennino romagnolo

Azienda zootecnica - Alto Ferrarese

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tuzioni governative. Molti Paesi con sistemi agricoli sviluppati e ben organizzati nel mercato mondiale e globalizzato, hanno una programmazione della produzione agroalimentare che tiene conto delle aree di consumo (nazionali e internazionali) del prodotto, della concorrenza, dell’evoluzione sociale e del cambiamento delle abitudini alimentari, della innovazione tecnologica e logistica. Le organizzazioni sindacali di categoria nel nostro Paese sono molto frazionate e, a volte in contrasto fra loro, non hanno ancora trovato la necessaria unione e le linee programmatiche unitarie necessarie per lo sviluppo del sistema agroalimentare nazionale. Spesso non si accordano per azioni comuni, atte a favorire le integrazioni fra i vari settori del sistema agricolo italiano con la programmazione, a volte caotica, della U.E. e con le norme commerciali internazionali, in modo da creare sia la promozione sia la difesa dei prodotti italiani e delle relative filiere produttive e, soprattutto, individuare le possibili linee programmatiche della futura agricoltura. Tale comportamento ha favorito le importazioni di prodotti agricoli fortemente

In molti Paesi occidentali le “organizzazioni dei produttori” sono riferite al prodotto specifico (es. cereali, mele, pere, noci, mandorle, soia, ecc.), ben coordinate fra gli agricoltori e gestite da un comitato specifico, che segue con attenzione le tendenze del mercato e il cambiamento delle abitudini dei consumatori e l’evoluzione dei mezzi tecnici di produzione. Inoltre viene gestita la programmazione delle coltivazioni del settore, tenendo presente il sistema commerciale nazionale e mondiale e le continue variazioni delle esigenze dei consumatori. Le Associazioni di prodotto, e non di “produttori agricoli” come avviene in Italia, valutano le tendenze del mercato, orientano le produzioni e intervengono nell’intera filiera produttiva, fanno la promozione del prodotto e tengono i rapporti con l’industria, con la grande distribuzione senza, di norma, svolgere attività commerciale. Inoltre questi organismi, finanziati dagli stessi produttori, favoriscono e orientano le esportazioni verso i mercati internazionali e nello stesso tempo cercano di proteggere le produzioni nazionali, spesso con l’aiuto delle stesse Isti-

Giovani impianti di pero a Ferrara

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concorrenziali, a volte di dubbia qualità, che hanno inflazionato e condizionato i redditi agricoli, per cui oggi abbiamo sul mercato nazionale grandi quantità di prodotti stranieri (es. cereali, soia, legumi, carni varie, ortofrutta, mais, ecc.) che vengono inseriti nel mercato nazionale e venduti a consumatori non sempre informati.

di origine, delle caratteristiche merceologiche e nutrizionali, e vengono spacciati come prodotto italiano. Le norme di tutela dei prodotti alimentari italiani sono numerose e possono essere di aiuto alla individuazione di frodi e contraffazioni di alimenti, con particolare riferimento a quelli prodotti in zone DOP (denominazione di origine protetta) o IGP (indicazione geografica protetta). Purtroppo il controllo degli alimenti italiani resta valido anche se presenta lacune sia per la carenza di personale negli Enti preposti sia per il ridotto numero di laboratori analitici in grado di esaminare i campioni prelevati dagli addetti alla vigilanza sulla sicurezza alimentare. Possiamo quindi trovare situazioni in cui la presenza dei bollini e marchi di certificazione applicati sui prodotti potrebbero non garantire il controllo

ITALIA - IMPORTAZIONI DEI PRINCIPALI PRODOTTI (dati 1914 in % sul totale utilizzato) Dati medi da fonti varie: EUROSTAT, FAO, ISMEA, Centri AGROALIMENTARI

% Cereali

45

Soia

85

Mais

40

Legumi (fagioli, ceci, lenticchie)

80

Frutta secca (noci, nocciole, mandorle)

75

Ortofrutta (tropicale inclusa)

30

Carni varie (escluso pollame)

50

A volte può capitare che questi prodotti di importazione vengano commercializzati o trasformati con scarsa conoscenza del luogo

Frutteti di melo nel ferrarese

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Allevamento di vacche da latte a Cremona

della filiera produttiva che va dal campo alla tavola. La proliferazione e l’eccessivo numero di zone protette e relative produzioni alimentari tipiche in Italia, e conseguente applicazione dei numerosi “bollini”, crea anche insicurezza nei consumatori, rende difficile il controllo del prodotto e negli acquirenti stranieri crea confusione e diffidenza in quanto la stessa specialità alimentare viene presentata sotto diverse denominazioni. Ciò facilità l’inserimento di prodotti similari provenienti da altri Paesi o nazioni. Gli esempi di falsificazioni del made in Italy alimentare sono molteplici, e difficilmente potranno essere eliminati, ma sicuramente potrebbero essere ridotti e meglio controllati se emergesse una vera volontà di politica agricola, basata su programmi definiti congiuntamente fra Enti di governo, Produttori uniti, industrie di trasformazione e strutture commerciali. Un paese di non grandi dimensioni come l’Italia, costretto a subire le grandi politiche internazionali, potrebbe riuscire a creare una vera linea produttiva e di commercializzazione, qualora riesca a rinunciare alle politiche frazionate delle Amministrazioni locali (politica del campanile) ed aprire un dialogo con gli interlocutori

Parmigiano Reggiano forme in stagionatura

stranieri sulla base di una nuova politica agricola nazionale, oggi assai limitata e poco incisiva. Sulle nostre tavole oggi arrivano prodotti provenienti da tutte la parti del globo e spesso a scapito delle nostre valide produzioni locali che potrebbero reggere anche la concorrenza di prezzo di altri Paesi, ma sono spesso deprezzati dalla scarsa coesione del nostro sistema agricolo, molto frazionato e depauperato dalla conflittualità interna che consente ai prodotti stranieri di valicare le nostre frontiere e diventare, di frequente, prodotto nazionale. Esempi di alimenti importati sono ogni giorno sulle nostre tavole (carni, cereali, legumi, soia e mais, noci, mandorle, nocciole, ecc.) e rappresentano oltre il 50% dei nostri consumi, con alcuni casi come noci, legumi, soia, che vanno oltre

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Trebbiatura in Lomellina

l’80%. Nel caso di alcune derrate importate (es. soia, mais), utilizzate sia per l’alimentazione umana sia per quella animale (mangimistica) sono geneticamente modificati (tanto discussi OGM) ma ovviamente a livello mondiale vengono commercializzati in quanto non è dimostrata la loro dannosità alimentare (regolamento della “carenza informativa” nel mercato internazionale). Sulla base di queste considerazioni e leggendo attentamente le etichette, si deduce che parte degli alimenti che contengono derivati da mais e soia (olio, farine, sciroppi di glucosio e dolcificanti vari, preparati proteici, ecc.) potrebbero essere prodotti con le materie prime importate nel nostro Paese e provenienti da aree agricole dove la coltivazione di varietà tolleranti alcuni parassiti o diserbanti sono permesse. Sarebbe opportuno affrontare, senza essere prevenuti e fuori

Grano duro pronto per la trebbiatura

da interessi di parte, il problema dell’innovazione genetica che può oggi essere gestita con metodologie che richiamano il naturale processo evolutivo del mondo vegetale e animale. Dovremmo forse condannare gli orsi che nel Kazachistan (zona di origine del melo), molte migliaia di anni fa, hanno selezionato le mele più grosse e di colore rosso, di cui oggi esistono ancora gli alberi? Dovremmo valutare con più obbiettività il sistema agroalimentare del nostro Paese e far capire con semplicità e chiarezza il

Fagioli

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contenuto degli alimenti senza creare quella paura del cibo che oggi è propagandata ovunque, spesso senza rendersi conto del danno che produce anche sulle normali regole nutrizionali. L’insicurezza alimentare attuale induce una psicosi della qualità, valore nutrizionale e origine del cibo, che può diventare anche patologica come nel caso della “ortoressia” che sta diffondendosi in molti Paesi ricchi del mondo occidentale. Le tendenze alimentari ovviamente incidono sulla programmazione agricola e sulle regole da applicare assai variabili in un Paese con un sistema produttivo molto frazionato

e gestito da molte entità tipiche locali, che spesso non dialogano tra loro e difficilmente trovano accordi comuni per organizzare un sistema nazionale in grado di affrontare in modo competitivo e concreto i mercati sia del mondo occidentale sia dei paesi emergenti. Esempi possono essere presi da altri paesi (Germania, Australia, U.S.A., Nuova Zelanda, Inghilterra, Olanda) che valorizzano e consumano i loro prodotti interni, con azioni promosse dalle Istituzioni Nazionali, con politiche di aggregazione e integrazione dei produttori con l’industria di trasformazione e con il sistema commerciale. Una

Aratura

Campi arati nelle terre di Siena

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(cultivar - cv) è aumentato fortemente. Successivamente si è sviluppata l’attività vivaistica e il conseguente lavoro, da parte di enti pubblici e di privati, per l’ottenimento di nuove cultivar idonee alle mutate tecniche di coltivazione e di trasporto, alle esigenze del mercato e dei consumatori. Si è cosi creato, grazie anche all’introduzione del brevetto sulle novità vegetali, un commercio nazionale e internazionale che ha portato alla proliferazione delle cultivar e alla diffusione anche di quelle non sempre apprezzate dal mercato e dai consumatori. Oggi sono diffuse molte centinaia di cv, spesso all’apparenza molto simili fra loro, per ogni tipologia di pesche (comuni, nettarine, percoche, piatte o saturnine) che hanno creato difficoltà nella lavorazione e confezionamento dei frutti e una notevole confusione nei consumatori che trovano frutti apparentemente uguali ma con caratteristiche organolettiche diverse. Infatti pesche di scarso sapore e conservabilità ingenerano sfiducia nell’acquisto continuo di questa tipologia di frutta, che essendo estiva subisce anche la concorrenza di altri tipi di frutta che matura contemporaneamente. L’elevato numero di cultivar crea anche difficoltà tecniche nella coltivazione in campo, di adattamento alle

simile linea politica potrebbe meglio valorizzate le filiere di prodotto con adeguata pubblicizzazione e informazione per il consumatore. Potremmo prendere ad esempio la produzione delle pesche, una parte importante della nostra frutticoltura, consumate come prodotto fresco, trasformate in succhi e sciroppati, essiccate, confetture, distillati, quindi dobbiamo avere frutti con caratteristiche adeguate a seconda del prodotto finale che deve essere ottenuto. Ovviamente il mercato più importante risulta quello del consumo diretto, il cui mercato richiede diverse tipologie di prodotto come pure consumatori. Esistono molte tipologie di frutto pesca che possono essere raggruppate a seconda della forma del frutto: rotondeggiante o piatto schiacciato; del colore della polpa: bianche e gialle; delle caratteristiche della buccia: tomentosa (peluria) e nettarine (glabre); della consistenza della polpa: deliquescente o soda; dell’aderenza della polpa al nocciolo: aderente (duracine - percoche), non aderente o spiccagnole. All’origine esistevano allo stato naturale poche varietà di pesco poi con l’inizio della coltivazione specializzata, agli inizi del ’900, è iniziato il lavoro di miglioramento genetico e il numero di varietà

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(California in testa) le Associazioni dei produttori peschicoli dovrebbero operare unite, con attente analisi di mercato e trovare un minimo di accordo, in particolare con la Grande distribuzione dato che sui bancali di vendita non troviamo il nome della cultivar ma semplicemente la tipologia di frutto (pesche bianche o gialle, nettarine, percoche, ecc.) e tenendo presente che il consumatore, di norma, non riconosce le diverse varietà esposte per la vendita. Ovviamente si ricade nella solita carenza programmatica che, almeno dall’andamento dell’ultima stagione 2016, sembra venga considerata con maggior attenzione ma senza una politica comune in grado di creare un sistema peschicolo nazionale o almeno territoriale. Esempi come quelli del pesco possono essere riportati anche su altre produzioni agroalimentari italiane, che per la carenza di un sistema agricolo organizzato, molto frazionato, spesso individualistico e orientato a piccole produzioni locali, non riesce ad affrontare il mercato internazionale in maniera innovativa e con la necessaria aggressività e continuità di fornitura dei mercati. Le

diverse aree pedologiche e climatiche, nella lavorazione e commercializzazione delle pesche. Spesso i frutti di cultivar a maturazione contemporanea e con caratteristiche morfologiche molto simili vengono mescolati, calibrati e confezionati insieme dato che risulta difficile avere linee di lavorazione per ogni singola varietà. La presenza di cultivar diverse nella stessa confezione sarebbe negativo in quanto i frutti, pur essendo simili, hanno differenti cicli metabolici, per cui nei lunghi trasporti si rischia che gli stessi frutti giunti a destinazione abbiano differente grado di maturazione, con diversa consistenza della polpa e conseguente riduzione della durata sullo scaffale di vendita quindi una disformità del prodotto non compatibile con le esigenze del consumatore. Potrebbe essere utile una riflessione sulle liste varietali delle diverse tipologie di pesche (comuni, nettarine, percoche, platiformi) e ridurre il numero di cultivar a quelle che hanno qualità organolettiche e merceologiche sicure, già dimostrate sia nella coltivazione sia sul mercato. Come è avvenuto in altri paesi con produzione peschicola da diversi anni

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italiana, con la valutazione obbiettiva delle politiche, normative e aiuti finanziari della U.E. (non sempre condivisa ma che ha sostenuto in gran parte la agricoltura nazionale) ed evidenziare la criticità per poi migliorare e programmare le produzioni richieste e collocabili sul mercato nazionale e internazionale. Prendendo lo spunto da altri Paesi (es. Australia, Nuova Zelanda, Olanda, Cile, Norvegia, e altri) hanno di fatto valutato l’andamento delle importazioni di prodotti alimentari, considerando attentamente le loro produzioni nazionali ed hanno concordato congiuntamente (associazioni produttori e commercio, organi politici, Ministeri interessati) le linee programmatiche che consentono una protezione delle loro produzioni tipiche e nello stesso tempo di avere una notevole apertura sui mercati internazionali. Una particolare attenzione dovrà essere rivolta ai Paesi Asiatici in generale con particolare riferimento alla Cina, che negli ultimi anni ha innovato fortemente il sistema agricolo con l’introduzione di tecnologie molto avanzate. La ricerca agroalimentare

piccole produzioni tipiche e di nicchia sono la storia e la tradizione dell’agroalimentare italiano, che deve essere mantenuta, valorizzata e divulgata a livello turistico ed enogastronomico, in quanto ritengo che dimenticando il passato si perde anche il futuro. Il mercato globalizzato e l’evoluzione dello stile di vita e delle abitudini alimentari delle giovani generazioni nonché le innovative tecniche di coltivazione adottate in agricoltura e dall’industria alimentare devono suggerire la necessità di programmare il sistema agroindustriale italiano con azioni comuni e concordate fra le politiche istituzionali di governo e il mondo produttivo (privato, cooperativo) unitamente alle Associazioni di categoria. Deve sorgere, a livello nazionale una finalità comune per creare un sistema agricolo che abbia un minimo di accordo comune per operare in un mercato mondiale che si evolve rapidamente e con tecnologie innovative che non possono essere affrontate dalla singola azienda o da limitate produzioni alimentari di nicchia. Nel breve periodo potrebbe diventare necessario fare una reale verifica della situazione agricola

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Azienda zootecnica nel mantovano

do i mercati agroalimentari o i supermercati all’ingrosso delle grandi città europee e mondiali, dove la presenza dei nostri prodotti, a parte il vino, è piuttosto limitata, poco visibile, non sempre ben posizionata e spesso contrastata dalle imitazioni, di solito ben posizionate nello scaffale. Per un futuro del nostro sistema agricolo dovranno essere programmate le linee politiche e tecniche di sviluppo, attraverso una maggiore efficienza organizzativa, una revisione, e ristrutturazione di alcuni settori produttivi, adottare azioni concordate in modo da creare un vero laboratorio innovativo che rappresenti la base culturale, la genialità e la forza dell’agroalimentare italiano, quindi in grado di sfruttare le potenzialità economiche e di mercato, proteggere le nostre produzioni e superare il concetto di un museo conservativo dell’agricoltura nazionale.

cinese ha percepito il futuro di un agricoltura fuori suolo (idroponica o aeroponica) gestita in ambiente controllato con autosufficienza energetica e riciclo delle acque. Una simile tecnica è concettualmente vicina alla nostra agricoltura arcaica delle alberate quando si avevano tre livelli di produzione: l’albero che dava legna (energia) o frutta; la vite alimento-bevanda; al suolo si coltivavano le erbacee e ortaggi. Oggi le tecnologie consentono di avere serre con i pannelli fotovoltaici sul tetto, più piani di coltivazione e produzione nelle acque di alghe o altre micro piante. Alcuni sistemi di coltivazione idroponica sono stati inseriti nei grandi centri commerciali (Pechino, Hong Kong) e il consumatore può direttamente prendere dai bancali di coltivazione alcuni ortaggi da foglia come insalate, bietola, cavolo cinese. Inoltre anche i Paesi africani stanno portando avanti, pur con fatica, lo sviluppo dell’agroindustria e potranno incrementare, se vi è una maggiore attenzione del mondo occidentale, il loro ruolo sul mercato mondiale delle produzioni alimentari e loro derivati. I risultati pratici dei sistemi agricoli integrati e programmati sono evidenti visitan-

Bruno Marangoni Accademia Nazionale di Agricoltura

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JULIETA MANASSAS UNA CONVERSAZIONE SULLA MODA, SULL’AFRICAN STYLE E ALTRO Lamberto Cantoni

In principio c’è la materia Julieta mi accoglie nel suo negozio atelier un po’ imbarazzata per il gioioso disordine che, non è un paradosso, a me pare invece trasmettere una forte energia e in qualche modo alludere all’autenticità di una stilista concentrata sulle sue creazioni del momento. “A volte non mi rendo conto del casino che mi circonda... ma le assicuro che ogni cosa che vede non è affatto così fuori posto come sembra. So sempre dove cercare ciò che in un dato momento mi interessa...”, mi dice sorridente mentre appende in bellavista una sua creazione sulla quale evidentemente vuole concentrare la mia attenzione. E continua... “È come se questa confusione di elementi eterogenei, abiti, stoffe, libri, riviste, fosse in realtà funzionale alla mia creatività. In altre parole, penso che la mia mente abbia bisogno di vedere intorno a sé un po’ di caos, per far emergere l’idea moda che sto cercando...”. Approfitto di una breve pausa necessaria a Julieta per estrarre un altro abito dai colori stupendi, nascosto tra altre creazioni strette le une alle altre senza un ordine da me percepibile, per dire: “Ho la sensazione che tu appartenga alle classe di creativi della moda che mi piace definire bricoleur. Ci sono stilisti che partono sempre da una idea che cominciano ad elaborare disegnandola. Per esempio

Dior ideava le sue collezioni grazie ad una frenetica attività grafica. In una notte solitaria era capace di disegnare centinaia di silhouette. In seguito, insieme alle première sceglieva le stoffe e affinava le forme. Ma tutto partiva dal disegno di una idea. Chanel invece, creava in un modo completamente diverso. Praticamente i suoi abiti prendevano forma sul corpo della mannequin che utilizzava come superficie proiettiva delle sue visioni...” ...“Io invece parto dalla materia con cui sono fatti gli abiti - mi risponde Julieta interrompendo le mie parole, avendo già indovinato la domanda che stavo per enunciare - “...si può senz’altro dire che il mio modo di interpretare il mestiere di creativa della moda dipende tantissimo dalle stoffe che riesco a trovare. Prima di tutto io mi considero una ricercatrice di materiali pregnanti. Quando trovo una stoffa che mi ispira sento che la forma dell’abito non sarà un problema. Ma forse potrei definirmi una rigeneratrice, dal momento che per i miei abiti, uso solo stoffe riciclate. Spesso le sposo con tessuti originari della mia terra, l’Angola; tessuti come questi...”. Le pezze di ruvido tessuto artigianale che mi mostra sono di una bellezza inusuale; associate alle colorate sete leggermente anticate danno alle forme dell’abito un effetto perturbante che associo al senso percepito tra-


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JULIETA MANASSAS LAMBERTO CANTONI


manualità dominava le pratiche della moda e gli abiti simboleggiavano lo status distintivo delle persone. “L ’orientamento tattile che la contraddistingue avvicina la sua pratica al lavoro dell’artigiano - le dico convinto - “Si certo - mi risponde Julieta, dopo averci pensato un attimo - io mi sento prima di tutto una sarta. E una sarta è essenzialmente una artigiana. Deve avere manualità, sensibilità per la materia, gusto per l’unicità dell’esecuzione dell’abito. Mi piace ovviamente anche riflettere sulle forme dell’abito. Per esempio anch’io ovviamente disegno, immagino silhouette... ma non sono attratta dalla moda intesa come ricerca ossessiva della novità. Trovate le stoffe giuste sono più interessata a creare una sorta di “forma ideale” ispirata da esse, alla quale rimango, per quanto mi è possibile, fedele nel tempo. Con questa forma idealizzata, compio poi tutta una serie di piccole variazioni che mi permettono di adattarla alle diverse clienti. L’ordine di queste variazioni è dettato dalla qualità delle stoffe che trovo e da aggiustamenti formali di natura sperimentale. Cioè, aggiustamenti che dipendono dall’interazione tra personalità della cliente, materia dell’abito e la mia fantasia”. Domanda: “Non trovi sia rischioso non stare al passo con le novità del mercato?”. Julieta sembrava aspettarsi queste parole e dunque la sua risposta arriva immediata: “Io penso che oggi, per chi interpreta la moda come lo faccio io, il rischio più grande sia proprio seguire troppo da vicino il mercato. Io vesto individualità e non classi di consumatrici accorpate da qualche categoria marketing. Se seguo il mercato o le tendenze del momento non posso soddisfare le esigenze di distintività delle mie clienti...”. “Si certo, lo capisco bene - aggiungo, approfittando di una sua pausama bisogna considerare anche il rischio di anacronismo o di risultare démodé. Non ti spaventa essere considerata solo una brava sarta, capace soltanto di fare abiti perfettamente confezionati ma alla lunga insapori...”.

smessomi da molte opere d’arte dell’avanguardia storica. Le creazioni di Julieta contaminate con i frammenti di tessuto che ricordano le sue origini, fanno oscillare il senso percepito dell’oggetto-moda lungo l’asse di una raffinata gradation emozionale che collocherei tra “straniamento” e “surreale”. In questo modo, la sua Africa, non è mai nostalgica o folcloristica. Usando l’abusato riferimento al parallelismo tra moda e linguaggio, mi viene da pensare che le ruvide pezze con le quali Julieta sconvolge l’andamento liscio e armonioso delle stoffe occidentali, sia una sorta di discorso delle origini. In tal modo la stilista ci riporta a quando la

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Julieta si guarda intorno, indica un abito, un altro, un altro ancora e poi dice: “Vedi forse qualcosa di insapore?”. “No! Al contrario, direi che hai un talento per abiti pieni di energia. Ecco per rimanere coerente con la metafora gustativa che ho introdotto, direi che la tua moda è sorprendentemente saporita...”, le rispondo. “Ho sempre pensato che la moda dovesse aiutarci a vivere più felici - dice sorridendo - io faccio questo lavoro con gioia e mi piace che queste emozioni siano perfettamente espresse dai miei abiti. Mi rendo conto che tanta moda contemporanea attratta dai minimalismi un po’ cupi di designer nordeuropei dice esattamente il contrario. Penso di essere ben informata, sfoglio tante riviste, studio con attenzione quello che succede nelle sfilate più importanti. Ma la mia visione sulla contemporaneità tiene conto non solo del momento... Io credo che la storia sia importante quanto l’esigenza di novità. Ci sono forme ed emozioni che non possiamo gettare via solo per il gusto di essere di tendenza. Avendo scelto di lavorare con tessuti che hanno una loro storia, ho preso la decisione di non seguire come una sonnambula le tendenze ma di lavorare per preservare valori che durano più a lungo di quanto ci rappresentano di solito le collezioni dei grandi marchi, abituati da decenni a negare quello che avevano affermato con forza solo sei mesi prima. Il mio modo di essere contemporanea è presentare sempre in ogni creazione me stessa, la mia visione della moda, i tratti che considero determinanti della cliente con la quale interagisco e infine i segni che parlano del mondo così come mi appare. La mia sfida è fondere tutte queste dimensioni dando ad esse la giusta regolazione affinché sia preservata l’armonia della mia creazione. Io credo che la bellezza abbia delle regole complicate e tali da non essere perfettamente elencabili, ma al tempo stesso quando si lavora e si sperimenta, gli effetti delle regole risultano sufficientemente riconoscibili per permettere a chi fa il mio

mestiere di capire se sta andando oltre il bello, su sentieri sbagliati; regole che consentono cioè di percepire se si perde in grazia e armoniosità. Per me grazia e armoniosità sono valori da preservare e non li considero una moda nel senso banale della parola”. Nel frattempo, mentre Julieta esprime con enfasi i suoi condivisibili vangeli estetici, osservo con maggiore attenzione lo spazio del suo atelier. L’impressione di disordine diffuso comincia ad entrare in dissolvenza incrociata con l’idea di un ordine diversamente configurato. Per esempio, in basso stese le une sulle altre ci sono piccole piramidi di stoffe, accarezzate in alto dalla parte inferiore di abiti ingrucciati fitti fitti, secondo una ragione musicale ovvero per assonanza/dissonanza di colori, suppongo. Qui e là, spuntano libri e riviste studiatamente aperte su

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una definizione matematica all’armonia, studiando la progressione delle note musicali. Però, se guardo i tuoi abiti, io non trovo solo armonia ma anche contrappunti. Per esempio, lo scarto percettivo che c’è tra questa pezza di tessuto artigianale e le sete che tu hai mirabilmente ricucito intorno ad essa. In che senso possiamo dire che questa soluzione si mantiene all’interno dell’idea di bellezza di cui hai parlato?”. Julieta non risponde subito. Guarda intensamente le sue creazioni, sfiora qualche abito, poi mi dice: “La prima nota dell’armonia che deve interessare una persona che fa il mio mestiere ha a che fare con il corpo e la personalità della eventuale cliente. L’abito ideale deve armonizzarsi con un corpo che vive, sente, si muove, ha bisogno di esprimersi. È questo il livello fondamentale che da senso alla parola e avvicina la bellezza alla grazia. Ogni persona ha la propria individualità e quindi richiede soluzioni che mi costringono ad effettuare variazioni, a scegliere un mix di colori e tessuti diversi. Credo che sia questa la ragione del fatto che finisco

pagine ispiratrici, forse. Un paio di casuali sedie, inutilizzabili dal momento che risultano sovraccaricate di pezze di stoffa, riviste, altri libri, invitano il cliente o visitatore a muoversi in un certo modo, mantenendo una posizione eretta e concentrata sugli oggetti che come una prestigiatrice Julieta estrarrà dal suo personale Bazaar. Anche se l’atelier non ha nulla dei negozi per sarti che conosco, ogni cosa che vedo sembra confermare quello che Julieta mi sta raccontando. Le sue parole sulla bellezza come grazia e armoniosità mi riportano velocemente alla nostra conversazione. “Mi piacerebbe capire meglio il significato che dai ai concetti con i quali definisci la tua formula della bellezza. Nella mitologia greca Armonia è figlia di Ares e Afrodite. Veniva usata come simbolo della concordia e dell’amore. Oggi, il senso comune l’utilizza per descrivere la piacevolezza per l’orecchio, per l’occhio e per la mente, ottenuta dalla fusione di elementi eterogenei come linee, forme e colori o suoni di diversa fattura. Secondo Pitagora era possibile inoltre dare

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In un certo senso, essendo una fotografa di moda, appartiene un po’ al mio mondo. Parliamo tantissimo tra noi degli abiti che vorrebbe indossare, delle situazioni che l’attendono. Io sento che quando lavoro per lei sono più ispirata del solito. Senza dubbio Nirma è attualmente la mia musa ispiratrice. Cosa c’entra questo con il discorso sull’armonia? È semplice. Il lavoro di un creativo della moda, aldilà degli effetti di superficie, dovrebbe concentrarsi sulle ragioni interiori che hanno le persone. La bellezza di un abito diventa vera quando è in armonia con l’essere che lo indossa. Questa piccola verità l’ho imparata grazie a Nirma”. Incuriosito, le chiedo di vedere qualche immagine della misteriosa musa. Dopo aver tormentato per qualche decina di secondi il suo cellulare Julieta si arrende e mi dichiara l’impossibilità di estrarre alcuni ritratti dell’amica. Cerco allora di riportarla sull’argomento creatività e/o ispirazione: “La tua teoria della bellezza assomiglia molto al platonismo estetico. Ciò che è bello deve essere anche vero e buono. Con la differenza che tu al posto della coppia vero/buono ci metti l’empatia con l’altro. Io credo che quello che hai appena detto appartenga al vissuto di tantissimi creativi. Leggendo le biografie dei grandi della moda, si scopre che quasi tutti hanno un debito di riconoscenza nei confronti di una musa ispiratrice”... “Io credo che la fiducia nell’empatia con una persona particolare dipenda essenzialmente dalla specificità del mio lavoro - dice Julieta - Gli abiti non hanno senso senza il corpo. E ciascuno di noi sa bene che non tutti i corpi hanno il medesimo impatto su di noi. Ci sono indubbiamente dei corpi speciali che ci fanno sognare. Noi li trasformiamo facilmente in ideali di bellezza. Ma oltre al corpo c’è il carattere di una persona, espresso da come si muove, pensa, agisce. Un corpo che si muove con eleganza, decisione, grazia... Noi stilisti siamo molto sensibili a tutto ciò. Ecco perché quando incontriamo qualcuno che meglio di altri raffigura questi

con il diventare amica delle mie clienti. Senza lo sforzo di comprenderne i desideri e bisogni, non sarebbe possibile mantenersi coerenti con l’idea di bellezza che perseguo...”. Ondeggiando con la testa su e giù faccio capire a Julieta che mi è chiaro quello che mi sta dicendo e non ho argomenti da aggiungere. Tuttavia per rafforzare ciò che mi ha appena detto aggiunge: “Vede, non è certo per caso se le mie creazioni più riuscite le ho realizzate per una mia carissima amica, Nirma Benati. Si tratta di una donna che ammiro moltissimo.

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valori estetici, ci sentiamo ispirati e abbiamo la sensazione di lavorare meglio...”.

miei sogni nasce durante la mia infanzia, in mezzo alla mia gente, senza il clamore generato dalla moda. I miei abitini dovevano essere ingegnosi perché non sempre trovavo le stoffe adatte. Insomma, per quanto lo può essere una bambina, spesso dovevo arrangiarmi e trasformarmi in una piccola innovatrice... Io credo che l’orientamento tattile che mi contraddistingue, la sensibilità per la natura e i colori pieni di energia, appartengono interamente alla mia esperienza maturata in una terra piena di contraddizioni ma anche stimolatrice di fantasie che prendevano origine da un ascolto delle cose che mi circondavano e appassionavano, impossibile da immaginare per una bambina europea. Divenuta appena un po’ più grande ho cominciato a capire veramente il mestiere che avrebbe segnato la mia via, frequentando la sartoria di mio zio Fernando, a Luanda. Mio zio era un sarto

Dall’Angola con passione A questo punto la nostra conversazione è interrotta dal bisogno di prenderci una breve pausa. Raggiungiamo il piccolo bar adiacente all’atelier e ordiniamo entrambi un bicchiere di prosecco. Il buon senso vorrebbe che dopo un confronto tutt’altro che leggero e piacevolmente superficiale, come mi immaginavo potesse essere il dialogo non conoscendo Julieta, ora, le parole non potessero che diventare chiacchiere e abbandonarsi a pensieri in libertà. Ma il linguaggio non funziona come l’interruttore della luce. Soprattutto quando si accende, non è certo un “io” a decidere quando e come deviare o fermarsi. E infatti dopo pochi minuti, nemmeno il tempo di terminare il primo sorso di vino, eccoci di nuovo precipitati nella narrazione che avevamo pensato di narcotizzare per parlare d’altro. Devo aggiungere che in questo caso la responsabilità è stata tutta mia. Non so perché mi sia scattata o scappata la domanda ignorante, ma so benissimo quello che è successo dopo, dal momento che da autore leale devo restituirvelo. “Julieta, devo farti i miei complimenti, non pensavo che in Angola potessero formarsi stiliste con la tua preparazione”... “Infatti la moda così come l’intende la gente l’ho imparata in Italia - mi risponde prontamente la stilista - ma non è la moda che realmente mi interessa. Io penso che gli abiti siano come una seconda pelle e la mia ambizione è di operare ad un livello più profondo rispetto a quello di solito circoscritto dalle chiacchiere modaiole. A tal riguardo è nel mio Paese d’origine che ho avuto l’imprinting più importante. Mia madre mi ricorda spesso che fin da bambinetta ero abilissima nel creare abitini con tutto ciò su cui riuscivo a mettere le mani. Probabilmente la propensione a ricercare materiali utili per cucire i

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molto bravo e famoso. Faceva abiti da uomo ovviamente, perfetti e impeccabili come quelli di Savile Row. Da lui ho imparato quanto fosse importante il rapporto con il cliente e la costruzione della forma definitiva attraverso costanti verifiche... Ma bisogna considerare un altro aspetto. La gente della mia terra, specialmente i più giovani ci tengono tantissimo a essere eleganti. Per loro essere vestiti in modo appariscente fa parte del loro essere. Non so se si può dire la stessa cosa per i giovani italiani o europei... Se hai osservato con attenzione gli abiti che ti ho mostrato puoi accorgerti facilmente che anche quelli che

sembrano più formali hanno sempre qualcosa che li distingue. È il mio modo per ricordare alle donne che essere un po’ dandy le aiuta a uscire dagli stereotipi della moda...”. Approfitto di una pausa del racconto dell’infanzia per ritornare ad una questione importante per capire la Julieta di oggi: “Credo che quello che mi hai appena detto chiarisca bene aspetti del tuo stile altrimenti misteriosi. Ma poi cosa è successo? Sei venuta in Italia per studiare moda?”. “No! Sono venuta perché mi sono innamorata di un italiano che lavorava in Angola - risponde sorridendo la stilista, ma è un sorriso triste e tra pochissimo ne

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conoscerò le ragioni - la moda come la si intende in Europa per me è arrivata dopo... Ritornati in Italia ci siamo sistemati a casa della madre di Marco, il mio fidanzato. La signora Giuliana è una donna forte, determinata. Siamo andate subito d’accordo. Anche lei mi ha insegnato molto da ogni punto di vista. Poi è successo che l’amore della mia vita, per colpa di una malaria non diagnosticata in tempo, morisse in circostanze tragiche. È stato uno shock terribile dal quale mi sono ripresa anche grazie all’affetto dei suoi genitori. Grazie ad essi ho avuto la forza di terminare la mia formazione da sarta presso l’Istituto Secoli di Bologna. So benissimo che non è una scuola conosciutissima, ma devo dire che i fondamentali del mestiere di sarta e modellista li insegnano benissimo e io avevo bisogno di affinare le tecniche professionali per modista e figurinista... Nel frattempo studiavo con grande interesse la storia della moda. Le mie vicissitudini esistenziali mi hanno avvicinato tantissimo a Chanel, facendone la mia stilista preferita....”. Alzo il ditino e chiedo: “Ti riferisci al fatto che anche lei perse troppo presto l’amore della sua vita?”... “Si, ma non solo questo - dice Julieta - anche Chanel fece scuole professionali e cominciò con un picco-

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lo negozio. Comunque fin da quando ero una studentessa mi identificavo a lei studiando il suo modo di interpretare lo stile, l’eleganza... Terminata la scuola ebbi la fortuna di vincere nel 2000 una borsa di studio promossa dalla CEE, per partecipare ad un master in “Operatrice di abbigliamento”, grazie al quale ho imparato tutti i segreti dell’arte del cucito. Subito dopo fui assunta a La Perla, una grande azienda, nella quale ho cominciato a capire dall’interno, tutto ciò che della moda è impossibile conoscere osservandola solo dall’esterno o dai libri. Appena mi sono sentita sicura di me stessa dal punto di vista tecnico e pratico, ho deciso di avviare la mia attività partendo con un negozio/atelier nel quale ho cominciato a sviluppare la visione della moda che avevo maturato fin da giovanissima, ma che non ero in grado di sostenere dal punto di vista delle conoscenze tecniche. Ecco in poche parole la mia storia fino ad ora...”. Uno stile individuale per un mercato sempre più grande “Julieta vorrei continuare ancora per in po’ la nostra conversazione e quindi chiederti: come organizzi il tuo lavoro? Proponi collezioni, fai sfilate? Che altro?”. Prima della risposta, mi compiaccio di fare arrivare al lettore l’informazione che siamo rientrati nell’atelier e la protagonista ha ricominciato ad appendere in bella vista nuove creazioni, indicandomi con precisione i punti nei quali ha esercitato abilità, competenze e creatività. “Per ora mi limito a preparare una decina di nuovi modelli per stagione - mi dice - Quindi non si può parlare di una vera collezione. Raramente faccio sfilate e, lo ripeto non seguo le tendenze. Semplicemente porto avanti la mia ricerca di stile. Quando prenderò la decisione di partecipare attivamente ai grandi appuntamenti della moda allora seguirò le mie idee creative fino in fondo, presentando una collezione a tema. Per ora, devi considerare che il mio lavoro è del tutto simile alla couture


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classica. In altre parole i miei abiti sono tutti dei pezzi unici. Anche se la cliente ad esempio sceglie questo modello piuttosto che quest’altro, nel confezionarlo aggiungo sempre particolari che lo rendono unico. Devi considerare anche l’improbabilità che io possa avere grandi quantità dello stesso tessuto. Cercare stoffe con una storia pregressa esclude la possibilità di creare abiti completamente identici. Per ora non è nella mia visione moda lavorare con abiti seriali. D’altronde le mie clienti migliori sono esigenti e apprezzano l’esclusività che sinora sono stata in grado di garantire...”. Domanda: “Escludi dunque la possibilità di operare in un segmento di mercato fatto di clienti molto più numerose, come per esempio il pret à porter seppur di fascia alta?”. Julieta riflette qualche secondo prima di rispondere, poi decisa dice: “Non lo escludo affatto. Direi che potrebbe essere il mio prossimo obiettivo, insieme ad una collezione veramente completa. Sino ad ora ho lavorato molto sul mio stile che poi coincide ampiamente con aspetti della mia personalità. In un certo senso mi ha dato sicurezza fare abiti per me stessa e per le mie amiche. Ma credo che oggi, la vera sfida per crescere, sia far arrivare la mia visione della moda ad un pubblico più numeroso”. “Come definiresti il tuo stile?” - Chiedo -. Altra pausa, questa volta un po’ più pensosa del solito. “Sono attratta dalla bellezza armoniosa, aperta a improvvise e fantasiose sperimentazioni - risponde la stilista - La donna che prediligo rispetta le regole del buon gusto senza rinunciare a distinguersi. Il mio stile potrebbe essere definito un classico rivisitato. Io credo che oggi fondamentalmente moda debba significare libertà. La mia cliente ideale è una donna che vuole sentirsi libera di essere elegante e non prigioniera di tendenze imposte dai bisogni dei mass moda”... “Ma quando dici classico cosa intendi? Domando. “Il classico implica la memoria e il rispetto per la simbolicità di un abito - dice prontamente Julieta - il classico ha un valore di

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classico, rivisitato, induce reverenza e rispetto... Esattamente quello che io voglio ottenere per le mie donne attraverso i miei abiti...”. Da vero rompipalle vorrei chiedere a Julieta dove ha estratto i tratti pertinenti della sua idea di classico (da rivisitare in seconda battuta)... dai libri? visitando musei?... Mi trattiene il desiderio di mantenere il nostro dialogo in territori conversazionali lontani dal modello standard dell’intervista. Ma non ho fatto i conti con la sua sempre più evidente perspicacia... Infatti mi dice: “Il mio classico c’entra ben poco con l’indottrinamento didattico. C’entra moltissimo invece con l’esperienza culturale. Quando arrivai in Italia cercai prima di tutto di capire cosa significava essere un italiano e un europeo aldilà delle formule della quotidianità. Immergermi nel vostro cinema, nella pittura, nell’arte, nella musica mi dava la sensazione di entrare in contatto con il sistema nervoso della gente. Ovviamente parlo del cinema neorealista, anni sessanta e settanta. Penso ad attrici come Monica Vitti, Sophia Loren... alla loro bellezza così familiare e al tempo stesso poco convenzionale. In pittura mi ha molto impressionato Boldini, un vero anticipatore dell’eleganza classica. Aggiungerei Degas, con le sue decontratte ballerine. Ma forse i nervi dell’italianità me li ha rivelati la musica lirica. Abiti rivestiti di passioni, ecco come mi apparivano le grandi protagoniste della lirica. E indubbiamente la musica è divenuta una componente importate nel mio lavoro. Il modo in cui compongo le diverse superfici dei miei abiti ha qualcosa di musicale. Le note del mio “classico”, distillato dai processi culturali che ho vissuto, unite ai suoni della mia terra d’origine, danno alle mie composizioni la loro specificità. Per tentativo ed errori nel corso del tempo ho affinato le soluzioni che trovavo per strada. Attraverso ripetizioni creative penso di aver configurato il mio particolare stile, da un lato rispettoso delle mie origini, dall’altro lato aperto verso il nuovo mondo che mi ha accolto”.

rappresentanza che lo rende prezioso per la gente. Ma il classico per preservare questo valore non può rimanere identico a se stesso. Il mondo cambia, la gente cambia. Per preservare la memoria di certi abiti, dobbiamo fare uno sforzo per renderli presentabili nella nostra vita di oggi... Io per un po’ ho fatto anche la costumista in teatro e durante questa esperienza ho capito la differenza che c’è tra un abito museificato e un look classico. Un abito museificato risulta quasi sempre ridicolo se indossato nella vita ordinaria. Invece, un look

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Addenda: note sull’African Style 1. All’inizio dell’intervista Julieta parla dell’importanza dei tessuti per la sua creatività. Si tratta di un passaggio importante dal momento che, nella cultura africana, i tessuti sono strettamente legati alla sacralità della tessitura (soprattutto nel passato, diversamente dall’occidente, tessere era una pratica tradizionalmente maschile). 2. L’African Style nella moda comincia a trovare uno spazio via via sempre più marcato grazie al fenomeno sociale della Sape. Chi sono i sapeur? Potremmo definirli una sottocultura urbana originaria dei territori urbani del vecchio Congo, che ha nella enfatizzazione delle apparenze lo strumento di resilienza contro l’endemica corruzione dei poteri che affligge i popoli africani. In altre parole, la Sape è una forma moda utilizzata dai giovani per esorcizzare l’invisibilità indotta dalla povertà e dall’impossibilità di costruirsi una immagine positiva del futuro. I sapeur, in apparenza assomigliano ai nostri dandy metropolitani. In realtà, questa forma di dandismo funziona come una sorta di rituale magico per irridere la miseria morale e materiale che imprigiona le giovani generazioni. L’abito, che per noi Occidentali standard è semplicemente un oggetto estetico, per un sapeur si trasforma in un artificio simbolico utilizzato per prendersi gioco della precarietà della vita e per identificarsi a una comunità fluttuante, completamente inventata da giochi di moda. Si può dire, esagerando un po’, che questo modo di interpretare l’abbigliamento lo avvicina molto al concetto di “essenza dell’identità”, nel senso di qualcosa che nutre e mantiene in vita lo spirito di esseri liberi. In alcuni passaggi della conversazione con Julieta, mi è parso che la stilista desiderasse alludere questa particolare visione metafisica delle apparenze, che in Occidente è oggi evocata, da molti nuovi protagonisti, per ri-

evoluzionare la moda (contro gli eccessi del razionalismo). 3. Nelle società occidentali, i segni provenienti dalle culture africane hanno marcato importanti innovazioni estetiche. La cosiddetta “rivoluzione” delle avanguardie storiche, ovvero Picasso, Matisse, Braque, Modigliani..., sarebbe impensabile senza le provocazioni scioccanti che gli artisti citati inflissero ai loro contemporanei, ottenute attraverso l’elevazione a “oggetti artistici” di maschere e sculture africane, fino a quel momento considerate curiosità prodotte da razze inferiori per culture rozze e incivili. La forza di una bellezza selvaggiamente primitiva, violentemente espressionista, clamorosamente sensuale, irruppe con straordinaria energia nell’estetica occidentale distruggendo definitivamente i già traballanti canoni tradizionali, orientando la modernità verso una eccitante fuga nell’esotismo. La Pari-

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gi del primo dopoguerra si innamorò della cultura africana: il black deco, il jazz, i nuovi balli, la scandalosa e seducente Josephine Baker, unitamente ai pittori, contribuirono a creare un connubio tra stile di vita giocoso e modernità. Durerà molto poco, nel breve volgere di pochi anni l’orrore nazista e i radicalismi ideologici soffocheranno le speranze di più di una generazione. Anche le influenze delle culture africane nella moda sono significative. Il primo a esserne influenzato fu Poiret con i suoi famosi caftani e la collezione Marrakech. Nel già ricordato primo dopoguerra, molti couturier citavano l’arte africana per enfatizzare le collezioni attraverso “segnature” immaginate evocare significazioni come autenticità, avanguardia, trasgressione, erotismo. Il Black Deco furoreggiava nell’arredamento di lusso è fu una delle fonti di ispirazione per Chanel. Le stampe leopardate di Elsa Schiapparelli sono un altro esempio di come la moda, ogni volta che voleva appellarsi a un in-più-emozionale, guardasse preferibilmente alla cultura africana. Dopo una lunga fase di latenza, registriamo un nuovo picco di interesse negli anni sessanta con gli hippies e la magistrale interpretazione di Yves Saint Laurent (collezione Bambara del ’67), ispirata da rafie e materiali legnosi. Impossibile non ricordare anche la mitica sahariana (’68), indossata da Veruska fotografata nella savana africana, divenuta un capo cult che rafforzò la svolta etnica nella moda occidentale. A partire dall’inizio dei ’70, l’eleganza informale permessa da “prestiti etnici” divenne pressoché permanente. Da quei giorni, sulle passerelle più importanti della moda, sfileranno sempre nuove interpretazioni di caftani, di Bournous (mantelle con cappuccio) e Sarouel (ampi calzoni etnici). I tessuti delle collezioni estive presenteranno frequentemente stampe Batik e Bogolan. Per non parlare dell’impatto portato da modelle di colore come Naomi

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cerca di radici ritenute portatrici di una immaginaria purezza che il dispositivo moda occidentale, dopo averlo perduta è condannata a ritrovare. Il culto dell’apparenza, in qualche modo originale e passionale, è saldamente radicato nella mentalità africana. Julieta mi è parsa subito un buon esempio di sintesi estetica di questa profonda attrazione dello sguardo europeo nei confronti di configurazioni segniche provenienti dal continente nel quale è cominciata l’avventura umana.

Sims, Beverly, Donyale Luna... seguite negli anni ’80 da Iman, Veronica, Mounia, Kathoucha... E nei ’90 da Kira, Alek Wek, Noemi Cambell (statunitense, ma di evidenti origini africane). In breve, l’influenza della cultura del continente dal quale partirono i primi ominidi dai quali discendiamo, non ha fatto altro che crescere. Lacroix, Gaultier, Kenzo, Yamamoto, Missoni, Romeo Gigli, Galliano, Ferrè, Ken Etro, Vivienne Westwood... ma l’elenco potrebbe continuare, molto spesso hanno tratto dall’African Style elementi preziosi per rafforzare una ricerca creativa che le sole forme tipicamente occidentali non potevano soddisfare. L’Africa è dunque un mito che più volte è riemerso nella storia cella moda. Probabilmente come reazione a eccessive tensioni razionali e tecnologiche. Ma anche come ri-

Lamberto Cantoni Direttore Responsabile

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GAUDÌ E BARCELLONA

BARCELLONA È UNA CITTÀ CHE NON SI DIMENTICA. PER QUANTO MI RIGUARDA, BUONA PARTE DELLA SUA BELLEZZA È CREATA DAL FASCINO INTRISO DI MISTERO CHE HO SPERIMENTATO DI FRONTE ALLE OPERE DI GAUDÍ, DISSEMINATE UN PO’ DAPPERTUTTO E CHE A DISTANZA DI UN SECOLO SONO ANCORA OGGI I SIMBOLI MONUMENTALI PIÙ RAPPRESENTATIVI DELLA CITTÀ

Lamberto Cantoni

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Il tetto di Casa Batllò

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anche attiva come può esserlo una città del nord Europa. Ma è anche una città in cui si fanno incontri intrisi di mistero; è una città nella quale si respira una forma di sacralità difficile da trovare altrove. Io ho sempre pensato che in buona parte questa magia, fosse il risultato delle opere di uno degli architetti più inclassificabili che io conosca, sia per la perturbante bellezza degli edifici e sia per l’originalità della loro concezione. Gaudí, infatti, ha trascorso buona parte della sua vita immerso nella costruzione di strutture che oggi danno Barcellona un’originalità al di fuori delle mode architettoniche. Difficile infatti stabilire con certezza se Gaudí sia stato un anticipatore del modernismo o uno strenuo ammiratore del senso di grandezza mistica delle grandi opere archi-

Ci possono essere mille ragioni per raggiungere, visitare, apprezzare la capitale della Catalogna. In definitiva Barcellona è il porto più attivo e consolidato del Mediterraneo. È un grande centro finanziario ed economico. È ricchissima di opere d’arte, la sua parte storica presenta una architettura tutto sommato ben conservata che sembra non risentire dell’invadente presenza della Barcellona contemporanea, i cui grandi edifici emulano il design post moderno tipico delle altri capitali della cultura europea. Ma se l’economia, gli affari, il turismo e la cultura fanno di questa città, un punto di riferimento per tutte le altre metropoli che si affacciano sul Mediterraneo, la sua specificità a mio avviso è da ricercare altrove. Barcellona è certamente una città tipicamente mediterranea ovvero solare e gioiosa; ma è La celebre iguana, mitica guardiana delle acque

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tettoniche medioevali. E come classificare il debordante effetto barocco delle superfici decorative nei suoi edifici? Mostruosità che individualizzano le strutture magnificando la maestria compositiva dell’architetto o tentativo di strappare una volte per tutte l’edificio alla banale funzionalità, immaginandolo come “luogo” in cui la vita ritrova l’elemento mistico narcotizzato dai rumori della città commerciale? La risposta a queste domande è resa intrigante da un’altra forma di mistero, questa volta legata allo stile di vita stessa del grande architetto catalano. Gaudì era una persona riservatissima che amava circondarsi di silenzio. Sappiamo pochissimo sulla sua persona e sui suoi pensieri. Indubbiamente era un uomo che riteneva essenziale per la propria visione dell’architettura il fatto che le

sue opere non venissero contaminate dalle schegge esistenziali che dal romanticismo in poi accompagnano come una invadente ombra le creazioni degli artisti. Io credo che la sua riservatezza nei confronti della curiosità della gente gli fosse necessaria per proiettare se stesso, le sue passioni, direttamente nelle morfogenesi che caratterizzavano il suo lavoro. L’unico “Gaudì” che lo interessava era quello che si stabilizzava o prendeva forma negli edifici che generava. Forse è proprio questa capacità di iscrivere la propria visione della vita nel suo lavoro a darci la sensazione della profonda e originale religiosità che promana dalle sue opere. Infatti, e questo è un tratto biografico che ben conosciamo, Gaudí aveva una inclinazione mistica che via via, nel corso della sua vita, divenne sempre più imperiosa. Dettaglio della decorazione zoomorfa

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Busto di Antoni Gaudì

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Gli organismi architettonici che la sua esuberante immaginazione configurava, non erano semplici edifici o decorazioni, bensì visioni sul rapporto gravido di mistero che l’abitare dovrebbe intrattenere con il sacro. Il suo punto di vista sulla natura (imbricata negli edifici che progettava) non era guidata da intenzioni “rappresentative”, bensì doveva animare la pietra come se fosse attraversata da uno spirito “generativo”. In altre parole, la solida metafora apparentemente ispirata da forme organiche dell’architetto catalano, io penso volesse alludere alla necessità di riconsegnare l’edificio al patto con la natura che la civilizzazione (la città) aveva smarrito. Il sentimento del sacro doveva rappresentare il momento proprioaccettivo nel quale il soggetto dell’abitare ricongiungeva le forze primarie della natura (espressione della divina volontà generativa) con le forme della cultura.

L’inginocchiatoio in camera da letto, conferma la grande fede di Gaudì

Camera da letto di Gaudì

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catalano e l’obbligatorietà del finanziamento solo per donazioni, hanno fatto scivolare i lavori fino ai giorni nostri. Ma il carattere non finito della imponente costruzione rappresenta un motivo estetico che solo gli stolti possono sottovalutare. Si può dire che il rispetto per le procedure artigianali di origine medioevale e la sofisticata progettualità di Gaudí, abbiano trasformato la cattedrale in un work in progress che per decenni e per generazioni è servito a mantenere un solido rapporto passionale tra la città e questo potente simbolo della religiosità. L’edificio,

Sagrada Familia L’espressione monumentale della complessità di pensiero che faceva da sfondo alla particolare concezione architettonica di Gaudí è senza dubbio la Sagrata Familia. La basilica venne messa in opera nel 1882. Il primo architetto fu Francisco de Paula del Villar al quale Gaudí subentrò nell’83, dando inizio ad una delle più incredibili avventure architettoniche di tutti i tempi. Le regole costruttive imposte dall’architetto

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La Sagrada Familia è il simbolo di Barcellona, pensata come tempio per l’espiazione dei peccati di modernità della città

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Ho rivisto recentemente la Sagrada Familia e mi sono convinto che l’origine della prodigiosa immaginazione dell’architetto catalano fosse la Natura: la basilica con tutte le sue torri sembrerà un bosco sacro. E la luce all’interno della chiesa dovrebbe sembrare l’illumiazione che filtra tra i rami e le foglie di possenti alberi. Si può dire che Gaudí lavorò alla basilica per tutta la fase matura della sua vita creativa. Come ho già scritto cominciò nel 1883 e in un modo o nell’altro, attraverso vicissitudini dalle quali scaturirono leggende sul suo modo di concepire il lavoro generativo delle strutture, vi rimase legato fino alla sua morte. Nel 1926 venne travolto da un tram e per un banale incidente la città perse il personaggio che più di ogni altro aveva lavorato per dare ad essa una profondità che, a distanza di quasi un secolo, ancora oggi apprezziamo.

concepito in uno stile gotico estremo con punte di delirante follia decorativa, ha dimensioni imponenti. La struttura esterna sarà caratterizzata da suggestive verticalità, Il campanile più alto, dedicato a Gesù, raggiungerà i 170 m., quasi un record se pensiamo ai giorni in cui fu concepito. Attorno ad esso si profileranno altri 4 campanili che avranno il compito di raffigurare i 4 Evangelisti. Un altro verrà innalzato sull’abside e raffigurerà la Vergine Maria. Intorno a queste enormi strutture Gaudí immaginò altri 12 campanili, di proporzioni più modeste, per far sì che anche gli Apostoli potessero presentarsi come i primi vettori di una alleanza tra cielo e terra. Nella stessa area della basilica Gaudí volle un laboratorio artigianale, come nel Medioevo, nel quale, decoratori, scultori, artigiani avrebbero lavorato insieme per allestire la sterminata narrazione decorativa sia degli interni che degli esterni.

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sia intervenuto anche a livello di sostanza vegetale del progetto, integrando la flora locale con altre specie come i carrubi, palme, glicini e rosmarini. In questo modo la gioia della eterogeneità decorativa delle forme architettoniche avrebbe avuto nella studiata variazione dei paesaggi vegetali una corrispondenza quasi musicale, generando lo spettacolo percettivo ammirato oggi da milioni di turisti. La scala principale, i padiglioni e i comignoli a forma di fungo sono indimenticabili, e contribuiscono a farci percepire un mondo nel quale magia e favole resistono all’incalzare pseudo razionalistico della rumorosa Barcellona contemporanea.

Park Guell Se di fronte alla Sagrada Familia si prova un sentimento di stupefacente reverenza, a Park Guell, l’impronta emotiva sostanzialmente cambia. Gaudí voleva creare una sorta di sequenza di giardini per un centro residenziale che non fu mai costruito. Quindi realizzò un sistema di servizi fatti di piazze, viadotti, muri di cinta, padiglioni adibiti a portineria e una grande scalinata, progettati secondo una visione di perfetta armonia tra natura e architettura. Sembra che Gaudí, nel suo tentativo di integrare forme apparentemente contrapposte,

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Entrata a Parco Guell

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Parco Guell è un fantasioso parco pubblico pensato come paese delle meraviglie e riservato ai ricchi di Barcellona

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L’area del mercato o tempio dorico è uno spazio realizzato con 86 colonne doriche e tra loro cupolette appoggiate a travi ricurve

Le colonne di Parco Guell sono in stile rustico e le volte sono inclinate

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Imponente scalinata, rivestita di ceramica composta da 2 rampe simmetriche, costituisce l’accesso a Parco Guell

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Dettagli della lavorazione del parapetto, elevato dalle colonne doriche

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ne sfoderò tutta la sua sapienza tecnica e la follia fantasiosa di cui era capace. Le forme della facciata sono fluide anche se l’impressione visiva avvicinava l’edifico ad un enorme scheletro. Posso facilmente immaginare lo stupore dei barcellonesi quando i lavori furono terminati. E anche la soddisfazione del committente che doveva senz’altro sentirsi ripagato per gli enormi costi, dal privilegio di aver contribuito alla realizzazione di un vero e proprio monumento al modernismo, con le inflessioni art nouveau esasperate all’inverosimile, ma sempre coerenti e armoniose. In questa mirabile costruzione spiccano gli interni dell’abitazione della famiglia Batllo, alla quale si accede da una sontuosa scala indipendente. Stupiscono le decorazioni che conferiscono una identità unitaria ad ogni dettaglio, dalla cappella privata al mobilio; e assolutamente geniali sono le soluzioni di illuminazione che Gaudí riuscì a configurare per uno degli edifici più complessi affrontati nella sua lunga carriera.

Casa Batllò e Casa Milà Passeggiando per Barcellona, mi sono reso conto che una parte dei meriti per la bellezza della città, dobbiamo attribuirla alla lungimiranza della committenza. Uno dei generi nei quali Gaudí eccelleva era la progettazione integrale di residenze private: non un singolo oggetto rimaneva immune dalla trasfigurazione imposta dalla fantasia creatrice dell’architetto, dalle facciate, alle finestre; dai lampadari alle sedie… Tutto doveva essere plasmato secondo i misteriosi algoritmi creativi ai quali Gaudí attribuiva una valenza quasi mistica. Delle numerose residenze create dall’architetto che punteggiano il paesaggio urbano di Barcellona, mi hanno fortemente impressionato Casa Batllo e Casa Millà. La prima fu realizzata tra il 1904 e il 1907. Si trattava di un restauro commissionato dall’industriale Josè Batllo Casanovas. Gaudí per l’occasio-

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La facciata iperdecorata di Casa Battlò. Il suo andamento a forme concave e convesse ricorda quello di una struttura ossea; per questo detta Casa delle ossa

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Casa Milà, pensata come una curva continua, è rivestita di sottili lastre bianche di pietra calcarea facilmente modellabile

Le ringhiere dei balconi sono in ferro forgiato con motivi naturalistici

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Dettaglio sulle finestre curve della facciata di Casa Batllò

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La Pedrera, chiamata ufficialmente Casa Milà, fu concepita da Gaudì come palazzo di appartamenti

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Probabilmente solo la monumentale Casa Millà regge il confronto progettuale con Casa Battlo. La commissione per progettare un nuovo edificio arrivò a Gaudí dalla ricchissima vedova Rogier Segimon, in occasione del suo secondo matrimonio con il sig. Millà. I lavori cominciarono nel 1906 e terminarono nel 1912. Il protrarsi del progetto suggerisce che tra i committenti e l’architetto sorsero parecchie controversie. Per esempio, è noto che Gaudì, religiosissimo, voleva assolutamente collocare nella parte alta della facciata principale una scultura di 4,5 m. della Madonna. Il sig. Millà non si fece commuovere dal misticismo debordante dell’architetto e non accettò di trasformare la propria residenza privata in un simbolo religioso. La soluzione di compromesso fu una rosa con una m riportata sopra, assai meno connotativa. Comunque, pur con attriti e ritardi, il progetto fu completato e ancora una volta i barcellonesi non poterono che stupirsi. Con Casa Millà, l’architetto aveva scelto una impressione più severa e rigorosa rispetto ai concetti culminati nella edificazione di casa

Batllo. Ma la presenza di inflessioni che rimandavano all’idea del “sacro”, non limitavano la percezione olistica dell’edificio, orientata a sorprendere il pubblico, a generare stupore tra i barcellonesi, e a “elevare” la funzione dell’abitare, trascendendola in un gioco di forme di grande impatto visivo e morale. Non è certo un caso se Casa Millà è divenuto oggi uno dei monumenti architettonici simbolo di Barcellona. Fu l’ultima abitazione privata progettata da Gaudí e si può dire che in essa avesse cercato di elaborare una grande sintesi della sua lunga ricerca, orientata ad armonizzare natura e architettura, tenute insieme da un tratto misticheggiante divenuto nella fase tarda della sua carriera un’atto di fede. Da quei giorni, fino alla fine, Gaudí non avrà altro tempo e interesse che per la Sagrada Familia.

Lamberto Cantoni Direttore Responsabile

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I PELLEROSSA DELL’AFRICA L’ETNIA HIMBA, UNA DELLE PIÙ PRIMITIVE DELL’AFRICA, DOVE LA BELLEZZA DELLE DONNE È UN CULT Maurizio Levi

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Kaokoland, Epupa Falls

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far trasparire nella mia espressione, ne assaggio un sorso. In questo arido territorio, l’offerta di una tazza d’acqua è un dono veramente prezioso. Ritorno alla mia 4x4 e cerco qualche oggetto per ricambiare il loro atto di gentilezza; una saponetta profumata che si passano di mano in mano e viene lungamente annusata, le rende felici. Il mio soggiorno fra gli Himba nacque proprio così, da un incontro casuale e spontaneo come lo sanno essere i momenti con queste popolazioni primitive. Dopo pochi minuti, portandosi sempre sul capo i contenitori per l’acqua, le donne mi fanno segno di seguirle. Ci addentriamo lungo uno stretto sentiero fra la vegetazione spinosa che si sviluppa ai margini del fiume. Camminiamo poi ancora per qualche centinaio di metri su di una pietraia arida e die-

È mezzogiorno del 23 Gennaio; nella Kaokoland la temperatura supera già i 40 gradi. Il sole, quasi allo zenith, appiattisce tutte le ombre e rende ancora più abbagliante la sabbia chiara del letto asciutto del fiume. In questo violento chiarore ecco apparire la sagoma longilinea di una donna Himba che si reca al pozzo. Sul capo, con un’eleganza degna di un’indossatrice parigina, porta un contenitore cilindrico in legno. Attraversa il terreno sabbioso fino ai margini di una grande buca dove scopro con sorpresa altre due giovani donne intente a raccogliere, con piccole zucche, l’acqua melmosa che filtra dalla sabbia. Mi soffermo a guardarle presso il margine del pozzo, e una delle donne, come gesto di ospitalità mi offre con un sorriso, dell’acqua. Con una certa riluttanza, che cerco di non

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Namibia Kaokoland, paesaggio

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tro ad una collinetta ecco apparire 5 o 6 capanne a forma di igloo costruite con rami e fango. Alcuni bambini e delle donne siedono davanti all’ingresso delle capanne, poco più lontano alcuni uomini fumano all’ombra di sparute acacie. Subito mi si fanno intorno numerosi Himba chiedendomi, per mezzo di gesti, le medicine per curare i più strani malanni. Chi si comprime il capo fra le mani come per indicare dolori lancinanti alla testa, chi si sfrega lo stomaco facendo smorfie di dolore, chi si scopre qualche ferita non ancora cicatrizzata, chi mostra una deformazione probabilmente congenita. La medicina dell’uomo bianco è senza dubbio ancora interpretata da queste popolazioni primitive come una forma di magia in grado di risolvere qualsiasi problema. Qualche aspirina e qualche compressa di vitamine portano un attimo di felicità a questa gente fuori dal mondo. Le prime notizie su questo popolo risalgono ai primi anni del 1600, quando il navigatore portoghese Cerveiro Pereira, stabilì un presidio nel sud dell’attuale Angola. Egli entrò in contatto con questo popolo di allevatori nomadi che chiamò “il popolo dei leoni” forse per le pelli di leone che alcuni Donna Himba

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Kaokoland, paesaggio

Villaggio Himba

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Kaokoland, elefanti del deserto

capi villaggio utilizzavano come abbigliamento. Fu probabilmente per traslitterazione che questo soprannome (lingua Swahili leone = simba) divenne Himba, nome di questo popolo. Solo poche notizie pervennero quindi attraverso i marinai portoghesi concentrati lungo le più ospitali coste dell’Angola. Non si hanno invece notizie di alcun marinaio che sia penetrato nella Kaokoland. Gli unici riferimenti riguardano la costa della Namibia, ora chiamata Costa degli Scheletri, che separa il territorio della Kaokoland dal mare.

Il Namib, il più antico deserto del mondo, risultò una barriera impenetrabile agli Europei per circa 250 anni e fu solo dopo il 1850 (quindi solo 140 anni fa) che la prima spedizione europea raggiunse la Kaokoland. Oggi ovviamente non è più così difficile raggiungere questa zona, anche se per percorrere le disastrate piste di questa regione, bisogna disporre di un automezzo fuoristrada perfettamente equipaggiato, di una buona esperienza sia di navigazione con il GPS che di meccanica e..., molto tempo a disposizione.

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Komiho, così era chiamato il capo, mi rivolge uno stentato “welcome” e mi fa capire di rimanere presso di loro per la notte. Mi spiega anche di aver imparato qualche parola di africaans e di inglese facendo da guida per le truppe sudafricane che fino una ventina di anni fa pattugliavano il deserto allo scopo di prevenire le infiltrazioni dei guerriglieri della Swapo, dalle loro basi in Angola. Il crepuscolo avvolge il villaggio e davanti alle capanne si alzano la fiamme dei fuochi alimentati con i rami spinosi delle acacie. Il fuoco non dovrà mai spegnersi perchè è associato alla presenza degli antenati della comunità. La conversazione langue decisamente per la carenza di vocaboli inglesi del capo; penso che il suo vocabolario non ne comprenda più di una decina di vocaboli. Komiho però fa di tutto per essere gentile e ci fa portare quello che per gli Himba è il massimo della prelibatezza: la lingua e gli occhi bolliti di un capretto. Sarebbe un’offesa rifiutarne almeno un assaggio e con grande sforzo sorrido e ne stacco dei pezzetti microscopici. Finalmente tutti vanno a dor-

Namibia Kaokoland, paesaggio

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mire e anche noi ci sistemiamo con i nostri sacchi a pelo a fianco della Toyota. Alle prime luci dell’alba, il kraal si sveglia lentamente dal suo torpore e gli Himba si radunano attorno ai fuochi per riscaldarsi.

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Le notti, nonostante la calura delle giornate, sono piuttosto fresche. Le donne, seguite dai bambini, si dirigono verso i recinti degli animali per la mungitura del latte. Secondo il costume Himba, il capo


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villaggio deve presiedere la cerimonia del latte che, con la carne di capra, costituisce l’alimento essenziale. Ogni donna gli porge il recipiente contenente il prodotto dei propri animali. Dapprima Komiho ne beve qualche sorso, poi si accontenta di immergere un dito e quindi leccarlo. Dopo questa approvazione, le donne possono ritornare verso le loro capanne per distribuire il latte alla famiglia. Questo rito evidenzia concretamente la supremazia del capo sul proprio clan, ma permette anche di creare un legame all’interno della comunità. Presso gli Himba il culto della gerarchia è una necessità vitale, poichè il loro status di pastori votati al nomadismo, li espone a numerosi conflitti con le etnie concorrenti. Le decisioni sono quindi applicate con il massimo rigore e disciplina. Passeggio per il campo soffermandomi a guardare le attività giornaliere di questa gente. Le donne, che nutrono un culto particolare per la bellezza del corpo, si spalmano tutti i giorni il corpo con un miscuglio di grasso animale colorato con polvere di ematite.

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Himba, braccialetti di avorio

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Questa pietra rossa gioca un ruolo essenziale nella vita delle donne che percorrono anche enormi distanze per procurarsela. In tutta la Kaokoland infatti non esiste che un solo giacimento, scavato con tecniche antiche quanto rudimentali. I lineamenti fini, i corpi slanciati e alcune usanze degli Himba, ricordano molto da vicino le popolazioni nilotiche dell’Africa Orientale come quelle dei Masai, dei Dinka, dei Turkana. Ma è una falsa impressione perchè gli Himba sono di origine Bantù e nulla li collega a quelle popolazioni. Grandi quantità di gioielli di ferro e cuoio

ornano la pelle rossastra delle donne, ma è un cono bianco appeso al collo, l’oggetto a cui danno più valore. Simbolo di fertilità strettamente riservato alle donne sposate, questa conchiglia sacra viene trasmessa di generazione in generazione. Questa tradizione, come molte altre, sono parte integrante della vita di questo popolo del deserto. Gli Himba non hanno bisogno di essere incoraggiati per rimanere “tradizionali”. Ciò di cui questa popolazione ha bisogno è di continuare a mantenere i propri diritti sulla terra e sull’acqua, il diritto a controllare

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Gente Himba

le proprie risorse e soprattutto la libertà di scegliere il proprio futuro. Cinquemila Himba vivono sui circa 50.000 chilometri quadrati della Kaokoland (come Lombardia e Piemonte assieme); altri duemila abitano sulle rive angolane del fiume Kunene. Come tutte le nazioni ereditate dall’epoca coloniale, quelle della Namibia (830.000 kmq con 2 milioni di abitanti) non rispettano le divisioni etniche. I popoli Herero, Ovambo e Boscimani sono suddivisi tra questa antica colonia tedesca (Africa del Sud-Ovest) e gli stati confinanti: Angola e Botswana. In seguito agli accordi siglati nel dicembre del 1988, l’Africa del Sud, che oc-

cupava ancora il territorio della Namibia, si impegnò a evacuare le proprie truppe in cambio del ritiro delle forze cubane dall’Angola. Il 31 Marzo del 1990, dopo le elezioni che si sono svolte sotto il controllo dell’ONU, è stata dichiarata l’indipendenza della Namibia.

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