DIC 2021 NUMERO 3
KOTODAMA
コトダマ
Gatti nella cultura giapponese
Con Passi Felini Amato, riverito, rispettato: il gatto è ovunque in Giappone, dai café ai negozietti, fino alle isole e ai templi che lo vedono protagonista. Arrivato in Giappone dalla Cina intorno al 538 d.C., il gatto era una presenza fissa nei templi. Sembra infatti che i monaci, per tenere al sicuro i manoscritti buddhisti dai topi, avessero sempre un gatto con loro. Oltre alla sua funzione naturale, però, il gatto divenne presto protagonista di leggende e superstizioni. Se oggi siamo abituati al maneki neko, simbolo portafortuna, in realtà sono tantissime le storie che parlano della loro malvagità e della loro capacità di mutare forma. Esempio è il bakeneko 化け猫, uno degli yōkai più famosi, il cui nome significa proprio “gatto mostruoso”. Quando un gatto raggiunge una certa età, oppure le sue dimensioni diventano molto grandi, tende a trasformarsi in una creatura soprannaturale, con poteri magici che gli permettono di mutare forma e aspetto. Si dice che il bakeneko possa divorare una persona e prenderne le sembianze; resuscitare cadaveri per farli diventare loro dipendenti e appiccare incendi. Non un animale molto piacevole, insomma, lontano dalle figure di Hello Kitty o di Doraemon, famosi in tutto il mondo. In questo numero di Kotodama, ci siamo impegnate e impegnati a presentare la figura del gatto sotto tanti aspetti diversi. Del gatto nella letteratura ne parlano sia Carmen Borrelli in “Neko bungaku: o dei gatti nella letteratura giapponese”, sia le traduzioni di cui questo numero è pieno. Dafne Borracci, infatti, ripropone non solo una sua versione de “L’ufficio dei gatti” di Miyazawa Kenji, ma per questo numero ha tradotto anche diverse poesie classiche con protagonisti dei gatti. Sara Odri, invece, affida a Kotodama due racconti di Toyoshima Yoshio, scrittore del periodo Meiji, contemporaneo di Akutagawa Ryūnosuke, Kikuchi Kan e Kume Masao. Damiana De Gennaro ha tradotto invece un racconto breve di Uchida Hyakken. Tranne per il racconto di Kenji, si tratta di traduzioni inedite in Italia, di cui Kotodama – ancora una volta – si fa raccoglitore.
Donatella Principi continua a meravigliarci con la sua rubrica sui manga, presentandoci diversi protagonisti felini. Dal manga, poi, passiamo alla realtà con Loris Usai che ci parla della storia emozionante di Mochigi che, con i suoi tre gatti, ha saputo dare voce al dolore della sua vita. Dei famosi neko café ce ne parla Guendalina Fanti nella sua rubrica, mentre Giada Zaccardi continua la sua esplorazione della lingua giapponese parlandoci di proverbi e modi di dire che hanno a che fare con i gatti. E ancora, Chiara Zennaro ha analizzato per noi Se i gatti scomparissero dal mondo, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo. Eleonora Badellino, invece, celebra l’autunno con i suoi bentō. Kotodama, inoltre, ringrazia Barbara Waschimps de L’altro Giappone per averci concesso un’intervista e Kiyomi Ehara per averci fornito un altro racconto in lingua giapponese. Buona lettura! - La Redazione
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La Redazione Kotodama - Numero 3 - Anno 1 - Cadenza Trimestrale Kotodama ©2020
Direttore editoriale Carmen Borrelli e Dafne Borracci
Proofreading e coordinamento editoriale Carmen Borrelli
Redattori
Dafne Borracci
Carmen Borrelli
Damiana De Gennaro
Chiara Zennaro
Giulia Licciardello
Dafne Borracci Damiana De Gennaro
Impaginazione e grafica
Donatella Principi
Alessia Landolfi @alesh_art
Eleonora Badellino Giada Zaccardi Guendalina Fanti Loris Usai Sara Odri Partecipanti a questo numero:
Responsabile social e comunicazione Giulia Licciardello La copertina è di Giorgia Lombardo @midoriart8
Alessia Trombini Barbara Waschimps
Le fotografie sono di:
Ehara Kiyomi
@janullob e @cri_p92
Giulia Licciardello
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Sommario Neko bungaku o dei gatti nella letteratura giapponese
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Miagolare a un rimasuglio di luna I gatti nella poesia classica giapponese
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La figura felina fra arte e quotidianità
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Il gatto parlante
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Save the cat: Un vero neko café ad Osaka
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Io e nechikoyan
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L’ufficio dei gatti
28
Se i gatti scomparissero dal mondo
40
Celebrando l’autunno
44
Breve immersione nel realismo magico di Murakami Haruki
50
Parole vive
52
L’Altro Giappone Intervista a Barbara Waschimps
56
L’indomabile selvaticità dei gatti secondo Yoshio Toyoshima
60
Neko
64
Kotodama in libreria
66
Hajimemashite
72
Riferimenti bibliografici
76
Gatti antropofagi e ragazze scomparse.
Neko bungaku o dei gatti nella letteratura giapponese a cura di Carmen Borrelli TEMPO DI LETTURA 3’
Assassino delle tenebre o semplicemente venuto dal cielo, il gatto è sempre stato presente nella letteratura giapponese. A partire da Sei Shōnagon fino ad arrivare ai nostri giorni, la neko bungaku in Giappone continua a muoversi con il suo passo felpato. Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l’ho. Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo disperatamente in un posto umido e oscuro. È lì che per la prima volta ho visto un essere umano. L’incipit di Wagahai wa neko de aru (Io sono un gatto) di Natsume Sōseki si potrebbe considerare anche l’incipit della neko bungaku, ovvero di quella letteratura che mette al centro della sua narrazione il gatto. In realtà, anche se questo è il suo primo ingresso nel romanzo giapponese, il ruolo centrale del gatto nel panorama letterario giapponese ha origini ben più antiche. È del XIII secolo, infatti, Maigetsuki 毎月記 di Fujiwara Teika: qui Fujiwara riporta che il 2 agosto
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del primo anno dell’era Tenpuku (1233), era apparso un enorme gatto a due code che aveva aggredito e divorato circa otto persone. Ed è ancora precedente la menzione che ne fa Sei Shōnagon nel suo Makura no sōshi, a indicare che i felini facevano parte della vita giapponese già da diverso tempo: Per quanto riguarda i gatti, i più belli sono quelli con il pelo nero sulla schiena e bianco sul ventre. Se da un lato il romanzo di Sōseki ha gettato le basi per un filone completamente nuovo, è il suo discepolo Uchida Hyakken a dargli quelle connotazioni fantasy che ha ancora oggi. La maggior parte delle opere di Hyakken non sono state ancora tradotte, ma tra i suoi scritti la figura del gatto ha molto da dire. Nel racconto Neko 猫, per esempio, il gatto diventa il medium per far incontrare l’umano con il mondo soprannaturale. «È a conoscenza del fatto che poca fa il Signor Iwasa è stato qui?» «No, assolutamente. Lo ha fatto entrare lei?» «Ho paura, non ce la posso fare! Questa stanza era infestata da un gatto…» Ma l’amore per i gatti di Hyakken si riscontra anche in altri tipi di racconti, come Noraya! ノラ や!, scritto in un momento molto critico per l’autore, quando il suo amato gatto era purtroppo scom-
parso. Sulla scia di Hyakken, Kanai Mieko scrive Tamaya たまや, incentrato su un ragazzo messo in disparte dalla società, la sua cerchia di amici inetti e una gatta incinta che lui è costretto ad accogliere e accudire. Kanai si concentra su questa famiglia, un’unità sociale che viene messa in discussione già nelle prime pagine del romanzo quando Tama, viene affidata a Noriyuki, un fotografo freelance. Molti degli altri personaggi che popolano il romanzo hanno legami familiari altrettanto labili: fratellastri che non sapevano di avere e che la loro madre comune non ricorda; sorelle – che potrebbero non rivelarsi tali – che sono incinte di bambini la cui paternità non è chiara, e così via. Anche in Kanai il gatto assume una sua connotazione macabra. In Ansatsusha 暗殺者, tradotto da Diego Cucinelli in “L’assassinio delle tenebre”, il gatto diventa insieme angelo della morte e assassino della sua stessa preda, arrivando a ucciderla mangiandole le interiora.
cruenti. Esempi di best seller recenti sono Sekai kara neko ga kietanara (“Se i gatti scomparissero dal mondo”) di Kawamura Genki e Neko no kyaku (“Il gatto venuto dal cielo”)di Hiraide Takashi. In entrambi i casi, ci troviamo davanti a scenari molto più “comuni” – se comune si può dire l’apparizione del Diavolo. La figura del gatto è usata per mostrare l’importanza delle piccole cose e per aiutarci ad apprezzare ciò che diamo per scontato, ma che banale non è. L’amore finisce sempre. Lo sappiamo tutti, ma ci innamoriamo lo stesso. È la stessa cosa che accade con la vita. Sappiamo tutti che prima o poi finisce, ma viviamo lo stesso. Forse è proprio perché sono destinati a finire che l’amore e la vita sono meravigliosi.
«Arrivederci!», il gatto piegò il suo corpo avventandosi sulla gola della donna: dal suo collo fuoriuscì sangue dall’aroma di whisky. Lei cercò di accarezzare la testa del gatto sorridendo, «Suppongo tu voglia iniziare a mangiarmi a partire dal fegato. Mi piaci!» La letteratura contemporanea giapponese continua a mettere i gatti al centro delle proprie opere, anche se non sempre in modi così
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Miagolare a un rimasuglio di luna. I gatti nella poesia classica giapponese a cura di Dafne Borracci TEMPO DI LETTURA 3’
In Giappone i gatti sono stati allevati e amati sin dall’antichità, ma ciò nonostante sono apparsi nella poesia per la prima volta solo all’inizio del Periodo Edo (16031868). L’arte poetica giapponese, infatti, era costruita su modelli classici e metafore ricorrenti, e ciò spiegherebbe il motivo per cui i primi a nominare i gatti nei loro versi siano stati poeti di haikai, un genere di componimento dai toni umoristici e dissacranti in cui si abbandonavano di proposito i termini e le immagini della poesia classica per dare spazio a vocaboli meno ricercati e alla descrizione di episodi di vita quotidiana. Nello haikai e, in seguito, nello haiku vero e proprio, il gatto diventa una metafora dell’amore tormentato. Il suo miagolio si fa portavoce del lamento interiore del poeta, come nel caso del tanka di Akinari Ueda e degli haiku di Shikō Kagami e Kobayashi Issa. Il componimento di Kikaku Takarai, invece, si rifà a un episodio della letteratura classica giapponese; in particolare è evidente il riferimento al passo de La Storia di Genji in cui un gattino scappa dagli appartamenti di Onna Sannomiya e il suo movimento spalanca momentaneamente la cortina di bambù che la nasconde al mondo esterno. Nel romanzo, Kashiwagi (“la quercia”) si trova nei paraggi e intravede il volto della giovane, innamorandosene perdutamente. Questo sentimento avrà conseguenze tragiche. Il gatto, dunque, nonostante si svincoli dall’immagine del miagolio lamentoso, continua a simboleggiare un amore tormentato, in grado di far sussultare anche il salice, spettatore silenzioso dell’innamoramento di Kashiwagi. Anche Issa propone un’ulteriore variazione sul tema mettendo momentaneamente da parte l’immagine del miagolio disperato e utilizzando il passo felpato dei gatti per alludere a un amore coltivato in segreto. I componimenti più originali, in questo senso, sono quelli della poetessa Rinjo Nagano e di Fumikuni Nakamura, i quali descrivono due scene di vita quotidiana: nel primo caso, ci sembra quasi di poter toccare il nasino secco e caldo di un gatto febbricitante; nel secondo, vediamo una gatta che, non riuscendo a rimanere indifferente al profumo dei fiori di pruno, annusa l’aria con profondo interesse. Il focus è sempre sul naso del felino, elemento che lo rende vulnerabile, tenero e a tratti comico.
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La selezione di tanka e haiku che vi proponiamo di seguito contiene componimenti di autori e autrici di epoca Edo. 盗 喰
た へ て や 猫 の
う き 恋 に
(Uki koi ni / taete ya neko no / nusumigui) な る る か ら 猫
と ど む 一 夜 に
迷 ひ こ し
は な れ て こ こ に
た が 家 を
Insopportabile questo amore infelice – un gatto sgraffigna del cibo. - Shikō Kagami 各務 支考
(Ta ga ie wo / hanarete koko ni / mayoi koshi / todomu ichiya ni / naruru karaneko) Chissà da quale casa ti sei allontanato gatto girovago? Per tutta la notte con me hai miagolato alla luna. - Akinari Ueda 上田秋成
あ つ さ か な
ぬ く も る 時 の
猫 の 鼻
(Neko no hana / nukumoru toki no / atsusa kana) Come scotta! Il naso di un micio ammalato. - Rinjo りん女
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猫 も 忍 ぶ 恋
ぬ き 足 や
さ し 足 や 猫 の 妻
(Sashi ashi ya / nuki ashi ya / nekomo shinobu koi) Anche l’amore segreto dei gatti ha il passo felpato. - Kobayashi Issa 小林一茶
鼻 う ご め く や
梅 が 香 に
(Ume ga ka ni / hana ugomeku ya / neko no tsuma) Profumo di pruni in fiore: anche il naso di mamma gatta freme. - Fumikuni Nakamura 中村史邦
恋 を 鳴 く
家 な し 猫 も
有 明 や
が り 猫
(Ariake ya / ie nashi neko mo / koi wo naku) Gatto randagio, innamorato miagola a un rimasuglio di luna. - Kobayashi Issa 小林一茶
柳 も そ れ か あ
柏 木 の
(Kashiwagi no / yanagi mo soreka / agari neko) Un gatto scosta una tenda: sobbalza persino il salice della Quercia. - Kikaku Takarai 宝井其角
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La figura felina fra arte e quotidianità a cura di Donatella Principi TEMPO DI LETTURA 4’
Tanti sono i mangaka rimasti colpiti e affascinati dai gatti, non a caso compaiono spesso nelle loro opere a volte sotto forma di aiutante o compagno di avventure, altre come creature magiche e misteriose. I gatti sono ottimi compagni di vita e ormai fanno parte della nostra quotidianità. In anime e manga sono molto presenti come alleati o “mascotte”, basti pensare per esempio a uno dei personaggi giapponesi più iconici: Doraemon. Nato nel 1969 dalla penna di Fujiko F. Fujio, Doraemon è un robot dalle sembianze di gatto giunto dal futuro per aiutare un giovane sfortunato. Oppure Luna e Artemis, i due gatti parlanti che vediamo in Sailor Moon e che fungono da veri e propri mentori alle protagoniste dell’opera di Naoko Takeuchi. La forma felina è così familiare da essere spesso sfruttata in opere fantastiche e magiche, probabilmente per rafforzare il legame con il lettore rendendo ai suoi occhi queste creature meno aliene. Le loro espressioni vengono addolcite o esasperate proprio come accade con i personaggi umani delle storie. A volte questo processo arriva a fondere i due esseri, come accade ne I gatti del Louvre di Taiyo Matsumoto. L’autore sceglie una storia in cui il museo del Louvre è popolato di nascosto da alcuni gatti, che ci appaiono o in forma felina o in forma antropomorfa a seconda dell’esigenza narrativa. Questo ha un tale impatto visivo sul lettore da rendere i gatti più interessanti dei personaggi umani con cui condividono i sentimenti e i drammi delle loro esistenze. Alle avventure dei gatti si affiancano poi quelle degli uomini come Marcel, il vecchio custode convinto che sua sorella sia scomparsa dentro un quadro del museo. Le atmosfere del fumetto sono malinconiche e si fa spesso riferimento alla crudeltà del tempo che passa. L’introspezione però non è l’unica caratteristica che colpisce del gatto. Makoto Kobayashi sfrutta l’indole buffa e misteriosa del felino nel suo What’s Michael? pubblicato per la prima volta nel 1984. Questo manga raccoglie vari episodi che si snodano fra quotidianità, dove il gatto è rappresentato in maniera realistica nella sua vita di tutti i giorni, e fantasia in cui i protagonisti animali vengono umanizzati. L’ironia del fumetto si basa sullo sguardo umano che cerca, inutilmente, di interpretare e adattare ai propri schemi gli atteggiamenti del gatto. Altro buffo fumetto che gioca sul gatto è Lo sfigatto, una raccolta di strisce con protagonista un micione rosso particolarmente sfortunato. Lo vediamo prendere un bellissimo gelato che però gli cade subito, oppure ordinare una prelibatezza che gli arriva con un aspetto diverso da quello atteso.
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I gatti del Louvre
Makoto Shinkai, celebre regista di film d’animazione come Your Name, nel 1999 ha realizzato un cortometraggio in bianco e nero incentrato sulla vita di una ragazza vista attraverso gli occhi di un gatto. Lei e il suo gatto è diventato poi nel 2016 un manga disegnato da Tsubasa Yamagichi e curato dallo stesso Shinkai. Il rapporto fra “padrone” e gatto è qui rappresentato in maniera molto intima e personale. Le difficoltà della protagonista vengono viste attraverso il filtro di un animale abituato a vivere per strada fino a poco tempo prima e quindi estraneo alle dinamiche umane. In poche pagine gli autori sono stati in grado di dipingere un quadro sincero e quotidiano in cui è molto facile rivedersi per la condizione di incertezza che vive la ragazza e per il tenero rapporto che pian piano si instaura con il gatto. Rapporto che non sempre parte con il piede giusto. Se infatti da una parte molti mangaka e personaggi dei manga hanno uno spirito affine ai felini, ci sono anche persone che non vorrebbero averci niente a che fare. O almeno così pensano. In Nekomichi. La via del gatto il papà arriva un giorno a casa con un cucciolo che la mamma si rifiuta di tenere per poi cedere alle richieste del figlio. Calzamaglia, così si chiama il nuovo arrivato, diventa giorno dopo giorno la perfetta compagnia per la donna che passa principalmente le sue giornate sola in casa. Fra una faccenda e un momento di gioco imparerà a conoscerlo e a volergli bene. La sua storia pubblicata nel 2009 non è solo una tenera visione di una famiglia che cresce e cambia, ma anche quella di una donna sola nella sua quotidianità. Il gatto non si limita a essere un compagno o una “spalla”. Tira fuori i sentimenti dei personaggi portandoli a realizzare ciò che si tengono dentro. Da tutte queste diverse rappresentazioni, che sono solo alcune di quelle che possiamo trovare all’interno del fumetto giapponese, possiamo capire quanto i gatti siano diventati ormai parte della nostra quotidianità. Con i loro modi di fare imprevedibili ed eleganti hanno ispirato creature immaginarie che popolano ancora i nostri ricordi d’infanzia, mentre con la loro tenerezza ci tengono compagnia nella vita quotidiana fatta di casa, famiglia e soprattutto amore. Non sono solo un contorno o una mascotte dei fumetti, ma veri e propri protagonisti.
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Lo sfigatto
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Il gatto parlante a cura di Damiana De Gennaro TEMPO DI LETTURA 4’
Uchida Hyakken (1889-1971) nasce a Okayama, figlio di una famiglia di produttori di sake. Mentre segue i corsi di letteratura tedesca presso l’Università di Tokyo, entra a far parte del Circolo del giovedì, il ritrovo per intellettuali che Sōseki organizza nella sua residenza nel quartiere di Waseda. In qualità di excorrettore di bozze di Sōseki, dopo la sua morte Hyakken contribuì alla realizzazione dell’opera omnia del maestro. Tra le sue opere più conosciute, ricordiamo Nōra! (1957), Il falso “Io sono un gatto” (1949), Il disco di Sarasate (1948). Per approfondire la sua opera e in particolare il suo rapporto con i gatti, consigliamo la lettura di Gatti giapponesi, a cura di Diego Cucinelli. (CasadeiLibri Editore, 2015).
Il gatto parlante di Uchida Hyakken (1970) Entrambe le gambe non mi funzionano. Non riesco a fare nulla, e perciò anche solo pensare di muovere il corpo mi è difficile. Ho trascorso l’ultimo anno dormendo ininterrottamente. Sul letto dove dormivo c’era un gatto, e ciò non rappresentava per me alcun fastidio. Se facevo qualcosa, lui se ne stava immobile come una statua. Per quanto ne so, i gatti devono pur fare i bisogni. Mentre pensavo a quanto ciò sarebbe stato sgradevole, il gatto finì per farli proprio lì. Non riuscendo a muovermi in alcun modo, davvero non sapevo come risolvere il problema. Vicino al cuscino, di fianco al letto, avevo un’abbondante riserva di carta igienica. Non l’avevo preparata in previsione dei bisogni del gatto, ma, trascorrendo la maggior parte del tempo disteso, avevo sempre della carta nei paraggi. Così, ho iniziato a ripulire le feci del gatto. Tuttavia, per quanta carta usassi, non bastava mai. Mia moglie era stata previdente, e dunque ce n’era in quantità. Credevo che mille pezzi di carta sarebbero bastati a ripulire tutto, ma la situazione non sembrava migliorare. Non bastava mai. Mi agitavo nel letto con impazienza. Forse stavo ancora dormendo? Mentre mormoravo a me stesso parole di sconforto, ebbi la sensazione che una voce arrivasse da vicino le mie gambe. Sussultai. Era come se qualcuno mi avesse gettato addosso dell’acqua fredda. “Ehi, hai parlato?”, chiesi. “Certo che sì”, rispose il gatto. Avevo una paura dannata. Che dovevo fare?
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Il gatto, dal fondo del letto, aveva iniziato a parlarmi. “Sì che ho parlato. Stai bene?” “Cos’è che hai detto?” “Quanta agitazione, padrone! Perché non pulisci come si deve?” Il gatto, vicino ai miei piedi, non trovava pace. Le sue parole erano piuttosto chiare, e avevo una vaga sensazione di familiarità. “Se continui a non fare altro che dormire, con la scusa che le gambe non funzionano, non c’è speranza di guarire, padrone. Se davvero vuoi stare meglio, ascolta gli umani ed esci fuori, come facevi prima”. Ero così di cattivo umore che, ancora steso, con una sola mano presi un bicchiere e decisi di versarmi dello champagne. Il gatto, con una delle sue esemplari morbide zampe, diede un forte scossone alla mia mano, facendo così cadere il bicchiere. Il liquido si sparse esattamente dove prima c’era la pipì del gatto. “Ma che fai?!” “Sono un gatto, dico e faccio cose da gatto!” “Che intenzioni hai?” “Padrone, mi raccomando, se devi giocare, vai a giocare fuori, ok?” “E dove potrei andare?” “Dici sul serio? Se fai il cascamorto in un café o un cabaret, tenendo in mano un calice di vino, i gatti ti prenderanno in giro all’infinito. Hai capito, padrone?”
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Save the Cat: un vero neko café a Osaka a cura di Guendalina Fanti TEMPO DI LETTURA 5’
Ho sempre preferito la birra alla spina degli izakaya all’atmosfera kawaii dei neko café, ma un giorno ho deciso di mettere alla prova i miei pregiudizi. Non so dove ho sentito parlare per la prima volta di quel café. Se un pomeriggio, tornando a casa dalla stazione di Tenma, ne avessi intravisto l’insegna, o se invece mi fosse capitato in un articolo online. Save the Cat: il nome mi aveva dato subito fiducia. Abitavo a Osaka già da diversi anni, ma l’idea di entrare in un neko café non mi aveva mai sfiorata. Titoli come: “Locale di 30 mq chiude a Tokyo, 62 gatti in condizioni inadeguate” bastavano a tenermene alla larga. Animali chiusi in claustrofobiche stanze di città, gente che li rincorre per una foto: non mi spiegavo come si potesse voler andare in un posto simile. Un giorno, però, mi sono detta che era arrivato il momento di fare esperienza diretta di un neko café. Il sito di Save the Cat era già abbastanza esplicito: tra un gatto a pelo lungo e un altro tutto nero, ce n’era uno rosso senza un occhio. Ho capito subito che si trattava di
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un locale fuori dal comune. Così, sono salita con un’amica sulla loop line della JR, una metro scintillante che attraversa tutta la città, e siamo arrivate davanti all’edificio che riportava l’insegna del locale. Salite al secondo piano con delle scale strette, siamo state accolte con allegria nel café decisamente piccolo. C’era un bancone con due tavolini e la zona in cui riposavano i gatti era separata da tutto il resto. Appena arrivate, ci siamo sfilate le scarpe e le abbiamo riposte negli scaffali. Lo staff ci ha invitate a lavarci accuratamente le mani. Si sono affrettati a dirci che non potevamo andare subito dai gatti, che in quel momento erano in compagnia di altri ospiti. Avendoci fatto accomodare ai tavolini, ci hanno portato due menù, e ci hanno spiegato come funzionava lì da loro. “La consumazione è obbligatoria. Se vi va, potete scegliere di acquistare qualche croccantino per i gatti”.
Mentre sceglievo cosa bere - alla fine ho optato per un toast dolce e un caffelatte - non potevo fare a meno di notare l’atmosfera rilassata del locale, le tende nere con sopra bianche sagome di gatti. Sul menù, subito dopo le bevande, i gatti venivano presentati uno a uno, ed era anche spiegato che potevano essere adottati. Dopo poco due ragazze hanno aperto il cancelletto che separa la stanza dei gatti dal resto del locale. Indossando le scarpe, hanno ringraziato e sono uscite. Era finalmente il nostro turno! Seduti a terra, eravamo in tutto sei. Una giovane coppia in fondo, vicino a un tavolino, insieme a un’altra, di mezza età, appoggiata al muro con le gambe stese e due gatti appisolati sulle ginocchia. Abbiamo iniziato a chiacchierare tranquillamente. La coppia più anziana frequentava spesso il locale, in particolare la sera dopo il lavoro. Ormai conoscevano i gatti e anche i gatti riconoscevano loro.
“Venire qui è rilassante, fa bene all’anima” aveva detto la signora con un lieve sorriso. Mi hanno passato una coperta di cui gatti riconoscono l’odore. Con la copertina sulle ginocchia eravamo tutti e sei lì, a guardare i veri padroni di casa passeggiare, annusarsi e dormire. Poche persone, molto silenzio e gatti accoccolati nelle ceste. Quando si è fatta l’ora di chiusura, ci siamo salutati. Piegate le coperte, abbiamo buttato via i croccantini avanzati e ci siamo avviati alle scarpiere. In un attimo eravamo già scese per le scale strette e ci ritrovavamo nelle strade affollate di una Osaka crepuscolare. Qui regnavano le luci a neon, le strade trafficate, i passi svelti dei pendolari.
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Io e nechikoyan a cura di Loris Usai TEMPO DI LETTURA 6’
Quando si nasce all’interno di una famiglia altamente disfunzionale, non è raro che si desideri la solitudine, o che ci si trovi di fronte alla necessità di scegliere percorsi di vita estremi e lontani da ogni convenzione. Mochigi, questo il nome d’arte dello scrittore e disegnatore che fa parlare di sé per i suoi temi “scomodi”, non ha ma i pensato alla propria casa come a uno spazio di condivisione. O almeno, non lo aveva mai fatto fino all’incontro del tutto fortuito con Nechiko, il gatto randagio che Mochigi raccoglie e salva da una fine tristemente segnata. Originario di un angolo remoto non meglio specificato dell’arcipelago giapponese, il piccolo Mochigi vive una quotidianità tormentata insieme ai genitori e la sorella maggiore. Un giorno suo padre, afflitto da una grave depressione perdurata negli anni, decide di farla finita e si toglie la vita. Da quel momento Mochigi, che all’epoca aveva appena sei anni ed era in procinto di iniziare le scuole elementari, viene cresciuto dalla madre, una donna irascibile, violenta, ancora bambina nella testa, che non lavorava ma costringeva i figli a farlo al posto suo. La madre di Mochigi trascorreva gran parte delle proprie giornate davanti alle slot machine, e quando rincasava una delle sue attività preferite era sfogare la frustrazione e il malessere di una vita indigente sui propri figli. Iniziava così il turbine di torture psicologiche e fisiche alle quali era sottoposto il piccolo Mochigi, il quale è cresciuto vedendosi puntare contro dalla propria madre il coltello da cucina, sentendosi dire a più riprese che non era desiderato, che era meglio se non fosse mai nato. Veniva lasciato fuori casa o al freddo in veranda, a volte chiuso all’interno di un sacco di plastica per la spazzatura. E in tutto ciò l’omosessualità di Mochigi non ha aiutato. È così che Mochigi ingoia le proprie giornate, fino alla vigilia della maturità liceale, quando la madre scopre che il figlio è gay. Uno sguardo di troppo al telefono cellulare del giovane, e la donna si scaglia senza esitazione sul figlio prendendolo a percosse e forzandolo a fare outing. Oltre all’omosessualità di Mochigi, la donna scopre così che il figlio si prostituisce in segreto. Lavorava part-time e si prostituiva per sfamare la madre nullafacente, e anche per mettere da parte il denaro sufficiente alla fuga. Quella sfuriata fu l’occasione che Mochigi stava aspettando da anni. In sella al motorino arraffa al volo i soldi e il libretto bancario e si lancia a tutto gas sulla superstrada che lo porterà, dopo una nottata ininterrotta di viaggio, a Tokyo.
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Mochigi lascia il piccolo paesino di provincia in cui viveva un perenne incubo, per iniziare una nuova avventura nella capitale. Non passerà molto tempo prima che, passeggiando per le vie di Nichōme, il quartiere LGBT di Tokyo, Mochigi si affaccerà in uno dei tanti bar in cui giovani ragazzi avvenenti preparano cocktail, intrattengono conversazioni con i clienti e infine offrono le proprie prestazioni sessuali ogni qualvolta venisse loro richiesto. Taglia i ponti con il passato. Si iscrive all’università e di giorno ne frequenta le lezioni mentre la notte si prostituisce e fa le ore piccole in compagnia dei clienti. Mochigi non ha interiorizzato un’immagine positiva del concetto di “casa”. Ama trascorrere serate divertenti insieme agli amici e ai colleghi urisen bōi (ragazzi in vendita) ma preferisce mantenere intatti e sicuri i propri spazi privati, piuttosto che condividere la propria tana ed esporsi così al rischio dell’ennesimo abuso. Poi un giorno, ascoltando per caso i discorsi di un collega che si lamentava della situazione disastrata al dormitorio in cui viveva, Mochigi invita l’amico a trasferirsi da lui. Lo fa di getto, in maniera impulsiva, e il pentimento per quel suo gesto forse troppo affrettato gli attraversa la mente più di qualche volta. Eppure da quel momento inizia la piacevole convivenza dei due che durerà sino al giorno in cui l’amico di Mochigi se ne andrò per trasferirsi a casa del nuovo fidanzato. È di questi anni intensi che Mochigi racconta all’interno della sua prima opera illustrata Gei fūzoku no Mochigi-san Sekushuariti wa jinsei da1 pubblicata nell’agosto 2019 da Kadokawa, partendo dall’inferno delle violenze domestiche nella sperduta periferia del Giappone e la fuga verso Tokyo, fino ad arrivare agli anni della prostituzione nella capitale, il primo amore verso un uomo molto più grande, le amiche e gli amici che lo hanno accettato nonostante le sue “fratture”. A questo primo capitolo della serie ne seguiranno altri tre, pubblicati nel corso dei due anni successivi. Mochigi è dunque il prodotto dell’elaborazione della vicenda autobiografica dell’autore, il quale decide un giorno, cavalcando l’onda dell’accresciuta visibilità pubblica della comunità LGBT giapponese, di rappresentare, tramite la piattaforma “leggera” che è quella dei manga, e la grafica innocua di un personaggio caricaturizzato a forma di mochi2, il vissuto esperienziale del protagonista, che di leggero e di innocuo ha ben poco. Dopo il trasferimento del suo amico, Mochigi è tornato solo ma la sua solitudine non è destinata a durare a lungo… Un giorno, di ritorno a casa dall’università, si imbatte in un gatto allo stremo delle forze, in bilico tra la vita e la morte. Lo raccoglie e lo porta in una struttura ospedaliera per animali affinché possa ricevere le cure necessarie. Il veterinario lo rimette in sesto e quindi pone al giovane l’inatteso panetto di riso glutinoso pestato e compattato dalla consistenza gommosa, n.d.a quesito: “L’hai raccolto perché venga curato e basta, oppure hai intenzione di salvarlo dalla strada?” 1. 『ゲイ風俗のもちぎさん セクシ ュアリティは人生だ。 “Mochigi e la prostituzione omosessuale. La sessualità è vita”, n.d.a 2. Panetto di riso glutinoso pestato e compattato dalla consistenza gommosa, n.d.a.
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È così che Mochigi, pietrificato per un istante in un turbinio di dubbi di natura economica e pragmatica, ma soprattutto emotiva, risponde con il suo fare impulsivo e affrettato che sì, sarebbe tornato a casa insieme a quel gatto randagio. Nechiko, così viene battezzato l’ex randagio raccolto dal marciapiede e salvato dal suo destino. Mochigi, che teneva in modo particolare alla propria solitudine, si trova così a iniziare una nuova avventura insieme ai suoi compagni di vita a quattro zampe. “Compagni”, al plurale; infatti dopo il randagio Nechiko sopraggiungeranno anche gli addomesticati Nekoyan e il cucciolo Nekoko con cui attualmente Mochigi condivide la propria routine. Con la sua arte, Mochigi è riuscito negli anni a dare voce e forma espressiva a quel vortice di dolore profondissimo in cui è stato a lungo risucchiato, e che fortunatamente ha saputo tramutare in carburante per sé stesso e per tutti coloro che vivono isolati nei propri silenzi inconfessabili fatti di violenza, abusi, discriminazione. Tramite gli occhi dei suoi tre gatti, dall’aprile 2021 Mochigi racconta una società crudele fatta di soprusi e lo fa con lo humour tragi-comico che si addice a brevi strisce di fumetti pubblicate online a cadenza settimanale dal titolo Atai to Nechikoyan3. Denuncia la discriminazione nei confronti della comunità LGBTQ+, l’abuso di potere sul posto di lavoro, la straziante realtà degli abusi e delle violenze domestiche, ma lo fa con il suo tratto tondeggiante e amichevole di un mochi: eccellente escamotage per indorare la pillola e permettere comunque di digerire un boccone assai amaro. Mochigi ha spopolato ben presto su Twitter, il social numero uno in Giappone, raggiungendo i 600.000 follower. Sulla sua pagina, oltre che sul canale Youtube, racconta la sua quotidianità in compagnia dei suoi inquilini a quattro zampe. È stato come se l’incontro con Nechiko, il gatto randagio che Mochigi ha raccolto dalla strada, gli avesse permesso in qualche modo di chiudere il cerchio. Una decisione di pancia dettata dall’istinto, proprio come lui, anni addietro, avrebbe disperatamente voluto che qualcuno lo salvasse dal suo destino.
3. “Io e i miei gattini strambi”, n.d.a.
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L’ufficio dei gatti traduzione a cura di Dafne Borracci TEMPO DI LETTURA 15’
L’autore
L’opera
Miyazawa Kenji nasce nelle campagne di Iwate nel 1896. I genitori gestiscono un banco dei pegni, grazie al quale accumulano una certa fortuna alle spalle della classe contadina, costretta a lottare contro il clima rigido della regione per coltivare i loro prodotti. Kenji è molto interessato alla natura che lo circonda: è un grande osservatore, un amante delle passeggiate in montagna e degli insetti e non ha la minima intenzione di rilevare l’attività dei genitori. Dopo il liceo, convince il padre a lasciarlo iscrivere alla Facoltà di Agraria. Quasi contemporaneamente s’imbatte in una traduzione giapponese del Sutra del Loto che lo colpisce al punto da spingerlo ad abbracciare il buddhismo di Nichiren, di cui sarà per tutta la vita un fervente fedele. Sin da giovane coltiva numerose passioni: la natura e gli insetti lo affascinano, ma ama anche scrivere poesie. Dopo l’università continuerà la carriera di agronomo a cui affiancherà una produzione letteraria vastissima. Dopo le poesie, infatti, scopre il racconto breve, o meglio, la fiaba (童話, dōwa), come amerà sempre definirla. Si spegne nel 1933, ad appena 37 anni. La sua fama di scrittore si diffonderà soltanto dopo la sua morte. Sebbene in vita non abbia raggiunto la fama, ad oggi è considerato uno dei più grandi autori della letteratura giapponese del ‘900.
L’intera opera di Miyazawa, che spazia dai tanka, alle fiabe, alla poesia in verso libero, è profondamente caratterizzata dalla sua profonda fede religiosa e dall’amore sconfinato per la natura. Spesso le sue opere – “Una notte sul treno della Via Lattea” e “La Gru e le Dalie”, per esempio – si tingono di metafore buddhiste sull’impermanenza della vita e sull’infinito ciclo delle reincarnazioni a cui ogni essere è destinato. Potrebbe sembrare un controsenso la presenza di concetti filosofici tanto complessi in delle fiabe destinate ai lettori più piccoli, ma Miyazawa sosteneva che fossero proprio i bambini gli unici in grado di comprendere certe cose. In questo numero di Kotodama presentiamo una traduzione originale de “L’ufficio dei gatti”, un racconto fantastico che vede come protagonisti un gruppo di gatti impiegati in un ufficio governativo. Il protagonista è Calderone, discriminato da tutti per via del colore del suo pelo e costretto a subire continui atti di bullismo (o meglio, di vero e proprio mobbing) dai colleghi. Il finale, spiazzante e inaspettato, lascia il lettore nel dubbio e la frase conclusiva del racconto è un vero e proprio enigma. Il narratore, infatti, chiude la sua storia con una considerazione: “condivido a metà l’opinione del leone”. Perché la condivide solo a metà? E tanto per cominciare, qual è l’opinione del leone?
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Come al solito, interpretando la fiaba in chiave buddhista possiamo intravedere nelle vicende del gatto Calderone la metafora dell’esistenza umana. Ognuno trascina su di sé il peso di una colpa che non ha davvero commesso ed è costretto a convivere con esso in mezzo agli altri, in una società ostile e corrotta. Ma la verità è che tutto è un’illusione effimera e l’unico modo per uscire dal vicolo cieco dell’esistenza umana è percorrere la Via Buddhista. Tuttavia, la morale della favola potrebbe essere un’altra: ogni lettore può identificarsi con il dolore di Calderone. Gli atti discriminatori totalmente ingiustificati che subisce ricordano molto situazioni analoghe che si verificano nella nostra vita quotidiana. Calderone che singhiozza disperato sullo sgabello mentre i colleghi fingono di non vederlo è la personificazione (o meglio, la gattificazione) di ogni individuo che viene discriminato in base al colore della pelle, della religione, del sesso, dell’orientamento sessuale, della disabilità. Ed ecco che forse la soluzione così drastica che il leone adotta per risolvere il problema, inizierà a sembrare anche a noi giusta “a metà”. I problemi di Calderone e dei gatti come lui non si risolveranno, la società felina continuerà a discriminarlo e il suo talento è andato semplicemente sprecato. Le prime traduzioni italiane sono state pubblicate in “Gatti giapponesi” (2015) a cura di Diego Cucinelli per CasadeiLibri Editore e una versione più recente in “Le stelle gemelle e altri racconti” (2018) a cura di Anita Luna Blanchero e edito da Atmosphere Libri.
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L’ufficio dei gatti - Sogno di una piccola agenzia governativa Miyazawa Kenji Vicino al deposito vagoni della ferrovia secondaria, si trovava la Sesta Agenzia Felina. In quel luogo, si facevano principalmente ricerche sulla storia e sulla geografia dei gatti. Tutti i segretari indossavano una corta uniforme nera in satin e venivano estremamente rispettati, perciò ogni volta che per qualche ragione uno di loro si ritirava dall’incarico, i gatti più giovani facevano a gara per prendere il suo posto. Tuttavia, poiché era consuetudine che ci fossero solo quattro segretari alla volta, in genere veniva scelto solo il candidato con la miglior grafia e la capacità di decifrare le poesie. Il capufficio era Nero, un gattone che iniziava a perdere qualche colpo, ma che comunque svolgeva alla perfezione il suo ruolo, con quegli occhi che rilucevano come percorsi da numerose venature di rame. Tra i suoi sottoposti c’erano il Primo Segretario, Bianchino, il Secondo Segretario, un Tigrato, il Terzo Segretario, Calico, e il Quarto Segretario, Calderone. I gatti Calderone non si chiamano così dalla nascita. Da piccoli sono gatti qualsiasi, ma per via della strana abitudine, la notte, di dormire dentro le stufe a legna, non riuscendo sempre a scrollarsi completamente la cenere di dosso, il naso e le orecchie diventano loro neri fuliggine e finiscono con l’assomigliare più a un tanuki che a un micio. È per questo che i Calderone sono odiati dagli altri gatti. Tuttavia, in quell’ufficio il Capo era un gatto nero, e Calderone fu scelto fra più di quaranta candidati proprio perché, per quanto potesse essere bravo nello studio, normalmente non avrebbe mai potuto aspirare a un tale ruolo. All’interno del grande ufficio, la scrivania del capo si trovava al centro, coperta da una tovaglia di feltro rossa, e il gatto nero vi sprofondava a sedere, tronfio. Dietro dei piccoli banchi, sedevano con compostezza impeccabile i suoi segretari; Bianchino e Calico a destra, Tigrato e Calderone a sinistra. In ogni caso, che si tratti di storia, geografia o qualsiasi altra cosa, è così che i gatti lavorano. Un giorno qualcuno bussò alla porta dell’ufficio. «Avanti!», tuonò in risposta il capufficio Nero stiracchiandosi e cacciadosi una zampa in tasca. I quattro segretari se ne stavano capo chino sulle loro scartoffie con aria indaffarata. Entrò il gatto Riccone.
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«Che c’è?», chiese il capo. «Vorrei andare nei dintorni di Bering, a mangiare dei topi glaciali. Qual è la località più rinomata?» «Uhm… Primo Segretario, di’ a questo signore dov’è la miglior produzione di topi glaciali». Il primo segretario dispiegò un grande depliant dalla copertina blu e rispose: «Usteragomena, Nobaskajia, dove scorre il fiume Fusa». Il capufficio gli fece eco: «Ustragomena, Nobas… Cos’è che hai detto?» «Nobaskajia», risposero all’unisono Bianchino e Riccone. «Giusto, Nobaskajia! E poi…» «Il fiume Fusa» Bianchino e Riccone risposero di nuovo insieme e Nero ne fu infastidito. «Sì, sì, il fiume Fusa. Bah, penso che sia una buona idea recarsi prima di tutto laggiù». «E quali sono le cose che è meglio che tenga a mente per questo viaggio?» «Secondo Segretario, dicci quali sono gli avvertimenti per viaggiare a Bering». «Subito!», disse e spalancò le proprie carte, «I gatti estivi non sono assolutamente adatti a intraprendere questo tipo di gita», lesse, e per qualche ragione tutti si girarono a guardare il gatto Calderone. «Inoltre, in inverno sono necessarie precauzioni extra. Nei pressi di Hakodate, c’è il rischio di essere accalappiati con esche di carne di cavallo. In modo particolare i gatti neri, se viaggiano non in possesso di segnali identificativi miciosi, vengono scambiati per volpi nere e viene data loro la caccia». «È tutto. Non essendo nero come il sottoscritto, per Lei non dovrebbero esserci grossi problemi. Deve giusto stare in guardia dalla carne di cavallo a Hakodate». «Mmh, bene… E quali sono i personaggi influenti della zona?» «Terzo Segretario, elencanci i nomi delle persone influenti di Bering». «Sissignore! Allora, regione di Bering… Ecco qua, Tobaskji e Genzoskji, questi due». «E questi Tobaskji e Genzoskji, che tipi sono?» «Quarto Segretario, dacci una panoramica su Tobaskji e Genzoskji».
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«Ecco qua» Calderone aveva già le zampette nello schedario e con un gesto veloce estrasse le cartelle di Tobaskji e Genzoskji. Sia Riccone sia Nero lo guardarono ammirati. Gli altri tre segretari lo squadrarono di sottecchi, come a prenderlo in giro, e ridacchiarono. Il gatto Calderone lesse ad alta voce il documento, mettendoci tutto l’impegno che poteva. «Capitan Tobaskji: di eccezionale integrità morale. La luce nei suoi occhi si dice sia estremamente penetrante e parla con una certa lentezza. Genzoskji è una persona di ceto benestante, parla con una certa lentezza ma la luce nei suoi occhi pare sia estremamente penetrante». «Bene, bene, capisco. Grazie». Il gatto Riccone se ne andò. Quell’ufficio offriva servizi piuttosto utili per i gatti. Tuttavia, esattamente sei mesi dopo questo episodio, la Sesta Agenzia Felina fu chiusa. Per spiegarne le ragione, è necessario acclarare qualcosa di cui vi sarete già resi conto, ovvero del fatto che il Gatto Calderone era profondamente odiato dagli altri tre segretari. In particolare, il Terzo Segretario Calico si era messo in testa ad ogni costo di voler fare lui stesso, tutto da solo, il lavoro di Calderone. Quest’ultimo le aveva provate tutte per fare una buona impressione sui colleghi, ma non quegli sforzi non sortirono alcun effetto. Per esempio un giorno, durante la pausa pranzo, Tigrato aveva tirato fuori il bentō e l’aveva posato sulla scrivania. Stava per iniziare a mangiarlo quando all’improvviso fece un grosso sbadiglio, allungando le corte zampe più che poteva e stiracchiandosi. Fra i gatti questo non è considerata una mancanza di rispetto, neppure di fronte ai superiori, l’equivalente di arricciarsi la barba intorno al dito per gli umani, e non sarebbe stato un grosso problema se solo così facendo Tigrato non avesse inclinato il tavolo facendo scivolare e, infine, cadere la scatola del pranzo sul pavimento, proprio ai piedi del capufficio. Questa si ammaccò ma per fortuna era di alluminio e non si ruppe. A quel punto Tigrato smise all’istante di sbadigliare e, allungandosi al di fuori della sua postazione, cercò di raccogliere la scatola del pranzo e proprio nell’istante in cui finalmente era lì lì per prenderla, questa sgusciò via, andando prima di qua, poi di là senza che il micio riuscisse ad afferrarla. «Che imbranato! Non ci riesci», disse scoppiando a ridere il capufficio Nero, che stava masticando rumorosamente del pane. Quella volta il Quarto Segretario Calderone, che aveva appena aperto il coperchio del suo bentō, vedendo quella scena scattò in piedi, raccolse la scatola da terra e la porse a Tigrato. Quest’ultimo s’infuriò di colpo in bianco e, senza prendere il contenitore che il collega gli porgeva, nascose le zampe dietro la schiena e dimenandosi come un ossesso gridò: «Che vuoi? Mi stai chiedendo di mangiare il tuo bentō? Vorresti forse mangiare quello che a me è caduto per terra?» «No, ho semplicemente raccolto dal pavimento quello che stavi cercando di prendere». «Ah, sì?! E quando mai ho cercando di prenderlo? Volevo semplicemente rimetterlo sulla mia scrivania perché pensavo che fosse una scortesia lasciarlo ai piedi del capo!» «Capisco. È solo che vedendo che stava sgusciando da una parte all’altra ho pensato…» «Che insolenza! Ti sfido a duello--» «Miao miao sciasciaaaaaaa», il capufficio si mise di proposito a soffiare e miagolare per impedire al sottoposto di terminare la frase.
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«Piantatela con questi litigi. Non darò peso a quello che è successo solo perché voglio concedere a entrambi il tempo di pranzare. Fingerò di dimenticare quel che è appena successo, perciò Tigrato fai il favore di calmarti. In cambio ti aumento lo stipendio di dieci sen». Tigrato, che inizialmente aveva ascoltato la predica a testa bassa un’espressione spaventata dipinta sul muso, a quel punto sorrise tutto contento. «Chiedo scusa per il disturbo arrecato», disse e tornò a sedersi composto, lanciando un lungo sguardo al gatto Calderone. Cari lettori, io personalmente provo una gran compassione per il nostro protagonista. Passarono circa cinque o sei giorni, e capitò nuovamente un episodio simile. Il motivo per cui di tanto in tanto succedono questi incidenti è da attribuire in parte al fatto che i gatti sono per natura molto pigri, in parte alle loro zampe – ossia braccia – così corte. Questa volta fu il Terzo Segretario Calico, seduto dall’altro lato della stanza, che poco prima di cominciare a mettersi al lavoro, un mattino, fece rotolare via il pennello, che infine cadde a terra. Calico avrebbe potuto semplicemente alzarsi in piedi invece, proprio come aveva fatto Tigrato qualche tempo prima, allungò con flemma entrambe le zampe oltre la scrivania e cercò di raccogliere il pennello. Come c’era da aspettarsi, neanche quest’ultimo riuscì nell’impresa: Calico era un gatto di statura particolarmente piccola e quindi pian piano si allungò sempre più sulla scrivania, finché il didietro non si staccò dalla sedia. Il gatto Calderone, memore della volta precedente, sbattendo i grandi occhi esitò per un po’ se raccogliere o meno il pennello. Alla fine, non riuscendo più a rimanere a guardare senza fare niente, si alzò. Per coincidenza, proprio in quell’istante Calico, che si era sporto troppo oltre il bordo della scrivania, si ribaltò e sbatté la testa con un tonfo sordo. Il rumore fu così forte che persino il capufficio Nero si spaventò e, pensando che fosse svenuto, balzò in piedi e corse verso la libreria addossata alla parete dove tirò fuori la bottiglietta dell’idrossido d’ammonio per rinvenirlo. Tuttavia, in quel momento Calico si rialzò in piedi e, improvvisamente irritato, gridò: «Calderone, mi hai spinto tu!» Stavolta Nero tentò prontamente di calmarlo: «Suvvia, Calico, hai fatto tutto da solo. Calderone si era appena alzato gentilmente per aiutarti, e non ti ha neppure sfiorato! Sono piccoli incidenti possono capitare in qualsiasi momento… Dov’è la notifica di trasferimento di Santontan? Ah, ecco, qui», disse, e tornò subito alle sue mansioni. A quel punto anche Calico dovette controvoglia mettersi a lavorare, senza evitare di lanciare di tanto in tanto Calderone con occhi minacciosi. In una situazione simile, quest’ultimo non si sentiva molto a proprio agio.
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Una notte pensò di fare come i gatti normali e provare a dormire fuori dalla finestra, ma faceva così freddo che iniziò a starnutire e alla fine corse a rintanarsi nella stufa. Il motivo per cui soffriva tanto il freddo era che aveva la pelle molto sottile, e il motivo per cui aveva la pelle sottile come tutti i mici nati nei giorni più caldi di mezza estate. “La verità è che sono sbagliato io, non posso farci niente”, pensava mentre i suoi grandi occhi tondi si riempivano di lacrime. “Però il capufficio è così gentile con me, e poi lavorare in quell’ufficio costituisce un motivo di grande onore e gioia anche per tutti i miei compagni gatti calderoni. Non importa quanto sarà difficile, io sopporterò tutto e non darò mai le dimissioni!” Piangendo Calderone strinse i pugni delle zampette. Purtroppo, però, un giorno anche il capufficio smise di essere un punto di riferimento per lui. Dopotutto, come si dice, i gatti sembrano dei furboni ma in verità sono stupidi. Un giorno il gatto Calderone per sfortuna si buscò un raffreddore e le giunture delle zampe gli si gonfiarono come scodelle, tanto che non riuscendo neppure a camminare, fu costretto a chiedere un giorno di ferie. Non ci sono parole per dire quanto stesse soffrendo: piangeva, piangeva e piangeva. Guardava il fascio di luce dorata che filtrava attraverso la finestrella della sua cuccia e pianse a dirotto tutto il giorno. Contemporaneamente, ogni volta che si prendeva anche la più piccola pausa dal lavoro, il capufficio diceva: «Perdindirindina! Oggi Calderone non è ancora arrivato!» «Sarà andato senz’altro a farsi una gita al mare», disse Bianchino. «Macché, sarà stato invitato a qualche festa», replicò Tigrato. «Oggi c’è una festa?», chiese il capufficio sorpreso. Se ci fosse stata una festa di gatti, sarebbe stato senz’altro invitato anche lui. «Ha detto che a nord c’era l’inaugurazione di una scuola». «Capisco» Nero si mise a pensare in silenzio. «Eh già, il nostro caro Calderone», si aggiunse Calico, «ultimamente viene invitato di qua e di là e non fa che ripetere che diventerà il prossimo capufficio e perciò, finché i suoi colleghi scemi non lo vedono come una minaccia, liscia loro la pelliccia». «Quello che dite è vero?», gridò Nero. «Verissimo. Provi a informarsi Lei stesso», disse Calico, brusco. «Razza di disgraziato! Quel maledetto mi ha sempre tenuto d’occhio. Benissimo, ora ci penso io», disse il capufficio e poi per un po’ si zittì. Arrivò il giorno seguente… Poiché il gonfiore alle zampe di Calderone era passato, questi di prima mattina affrontò le raffiche di vento e trotterellò allegramente in ufficio. Quando entrò, però, si accorse che l’amato registro, che ogni mattina accarezzava con dolcezza tanto ci teneva, era sparito dalla sua scrivania e le schede erano state divise sulle altre tre postazioni.
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«Ieri saranno stati molto impegnati», si disse fra sé con voce flebile Calderone, mentre il cuore in petto sembrava scoppiargli. La maniglia della porta scattò e entrò Calico. «Buongiorno» lo salutò Calderone, ma l’altro si sedette in silenzio e poi si mise a lavorare sulle sue scartoffie con aria indaffarata. Con uno scatto e un cigolio, anche Tigrato aprì la porta ed entrò. «Buongiorno», disse Calderone, ma l’altro non si girò neanche verso di lui. «Buongiorno», disse Calico. «Buongiorno. Che vento che soffia oggi, eh?» anche Tigrato aprì subito i suoi registri. La porta si spalancò di nuovo facendo entrare Bianchino. «Buongiorno», dissero assieme Tigrato e Calico. «Ah, buongiorno… Che ventaccio!» anche l’ultimo arrivato si mise al lavoro. In quel momento Calderone si era alzato e, sentendo le forze venirgli meno, si era inchinato ma anche Bianchino aveva finto di non vederlo. Con l’ultimo scatto e cigolio, anche il capufficio entrò: «Uff, là fuori sembra che stia per arrivare un tornado». «Buongiorno» gli altri tre segretari scattarono in piedi e s’inchinarono. Anche Calderone si alzò dondolando e s’inchinò senza scollare gli occhi da terra. «Davvero, una tormenta in piena regola», continuò Nero senza degnare Calderone di uno sguardo, dopodiché si mise subito al lavoro come gli altri. «Dunque, oggi dobbiamo assolutamente fare ricerche sui fratelli Anmoniaque e dare delle risposte. Primo Segretario, quale di questi fratelli è andato al Polo Sud?» Calderone rimase in silenzio, con il capo chino. “Non c’è il mio registro”. Avrebbe voluto poter dire queste parole, ma la voce non gli usciva. «Pan e Polaris, signore», rispose Tigrato. «Ottimo lavoro. Parlami di loro nel dettaglio», disse Nero. “I registri… I registri sono il mio lavoro!”, pensò Calderone sentendo che stava per mettersi a piangere. «Pan e Polaris, di ritorno da una spedizione al Polo Sud sono deceduti a largo delle Isole Yap e i loro corpi sono stati seppelliti in mare». Il Primo Segretario Bianchino lesse ad alta voce il registro di Calderone. Quest’ultimo era così triste che sentì le guance frizzare e, sforzandosi di non mettersi a miagolare disperato, chinò ancor di più il capo.
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Nell’ufficio presto tutti furono indaffaratissimi e il lavoro procedette senza intoppi. Di tanto in tanto gli altri lanciavano un’occhiata a Calderone senza dire una parola. Arrivò la pausa pranzo e Calderone, invece di mangiare il bentō che si era portato da casa, rimase con lo sguardo basso e le zampette sulle ginocchia. Finalmente, poco dopo l’una, iniziò a piangere e fino alla fine del turno, per ben tre ore continuò a singhiozzare, interrompendosi solo di quando in quando per poi ricominciare. Gli altri continuarono a lavorare, divertiti, fingendo di non accorgersi di niente. Successe in quel momento. Senza che i gatti se ne accorgessero, alla finestra alle spalle del capufficio, comparve la testa dorata di un leone. Questo si mise a sbirciare dentro con aria sospettosa, poi all’improvviso si mise a bussare alla porta con furia e irruppe nell’ufficio. Non è possibile descrivere a parole quanto i mici si spaventarono. Iniziarono a correre da una parte all’altra come delle trottole. Solo il gatto Calderone smise di piangere e si alzò in piedi. Il leone tuonò con voce ferma: «Che diavolo state facendo? A che vi servono la storia e la geografia se poi combinate questo genere di cose? Dateci un taglio! Tutti a casa, è un ordine!» Fu così che l’Agenzia Felina fu chiusa. Ed io, condivido a metà l’opinione del leone.
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Se i gatti scomparissero dal mondo La recensione a cura di Chiara Zennaro TEMPO DI LETTURA 7’
«Se io dovessi morire, ci sarà qualcuno che piangerà per me? Oppure il mondo andrà avanti come se nulla fosse mai accaduto?» Se i gatti scomparissero dal mondo è un film giapponese del 2016 diretto da Nagai Akira. Il film è tratto dall’omonimo libro di successo del 2012, pubblicato in italiano nel 2019 da Einaudi con la traduzione a cura di Anna Specchio. Il film segue abbastanza fedelmente l’opera originale cambiando solo alcuni dettagli che non influiscono sulla trama generale. Questa è la storia di un ragazzo che scopre di avere ancora poco da vivere e narra in prima persona le strane vicende che gli sono successe durante il corso di una settimana (probabilmente l’ultima della sua vita), sotto forma di lettera che dichiara essere una sorta di testamento. Il ragazzo, che sia nel film che nel libro rimarrà senza nome, ha un gatto a cui è particolarmente legato e inizia la sua lettera proprio chiedendosi come cambierebbe il mondo se i gatti scomparissero, se lui scomparisse. Questo dilemma ha origine da ciò che gli è capitato il primo giorno di questa fatidica settimana: un patto con un demone1. Infatti, dopo aver ricevuto la diagnosi di un tumore incurabile
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al cervello, torna a casa e si trova davanti una figura identica a lui che gli rivela di essere un demone e che lui morirà il giorno dopo. L’unico modo per evitare l’inevitabile è accettare la sua offerta: qualcosa a scelta del demone sarà cancellata dall’esistenza per ottenere un giorno in più da vivere. Il patto sembra un affare, ma a scomparire dall’esistenza non è solo la cosa selezionata dal demone, ma anche tutti i ricordi e i legami che si sono creati grazie a queste cose apparentemente insignificanti. Se i gatti scomparissero dal mondo è la storia di una persona che proprio alla fine della sua vita ne riscopre il valore. La storia è un viaggio e, attraverso ricordi e realtà alterate, mira a portare il protagonista, e con lui lo spettatore, alla realizzazione che neanche l’esistenza apparentemente insignificante di un gatto è senza valore e che sono i legami che stringiamo con le cose e le persone a dargli importanza.
1. La traduzione in italiano ufficiale traduce la parola giapponese akuma con “diavolo” ma personalmente trovo più appropriato il termine demone considerando che il concetto di “diavolo” non esiste nella cultura giapponese o per lo meno non coincide con quello che intendiamo in Occidente.
In sostanza, la storia è messa in moto da un’idea apparentemente semplice che però coinvolge in maniera più o meno profonda tutti noi, ma di cui nessuno conosce la risposta: cosa succederà quando “scompariremo dal mondo”? Questo concetto è stato esplorato in moltissimi libri e film, ma il modo in cui questa storia lo affronta è originale e riesce a non diventare mai noioso durante le quasi due ore del film. Da un certo punto di vista, però, ho trovato il film un po’ ripetitivo. Ogni giorno una nuova cosa scompare e ci vengono mostrati quali ricordi e legami a cui il protagonista deve rinunciare. Di conseguenza, nonostante non sia mai di per sé noioso o pesante da guardare, Se i gatti scomparissero dal mondo finisce per somigliare più a una successione di episodi più o meno simili, senza un vero e proprio climax nella storia. Perciò, credo che il film non si presti bene. Un’altra critica che vorrei fare alla modalità di narrazione del film riguarda alle scelte di dare la priorità a certe storie da cui la trama principale in realtà non dipende, tralasciando altre apparentemente più importanti a cui viene dedicato pochissimo tempo e meno importanza. Mi riferisco in particolare a una sequenza del film in cui seguiamo il flashback di eventi accaduti al protagonista e alla sua (ora ex-) ragazza durante un viaggio in Argentina. Sebbene questo flashback ci faccia capire di più del personaggio e la sua relazione con la ragazza, viene piazzato nel film in un momento quasi randomico e non è giustificato
dalla scomparsa di qualcosa, ma sembra esistere solo per rendere il film più drammatico. Dal punto di vista del montaggio invece ho apprezzato molto come il regista ha voluto inserire costanti riferimenti al tempo e al movimento. Nel film abbondano infatti le immagini di treni e orologi, e non a caso il padre del protagonista è proprio un orologiaio. Un’immagine che mi è piaciuta moltissimo ritrae il protagonista e la ex ragazza verso l’inizio del film e su una vetrina dietro i due vediamo riflesso un treno in corsa prima di tagliare allo shot successivo. Ho apprezzato molto anche il design dei set del film: sembrano quasi senza tempo. Le varie location e i set sono scelti perfettamente per far sembrare il tutto come se potesse essere accaduto in un periodo qualsiasi da oggi a più di cinquanta anni fa. L’ambientazione in campagna e non in una grande città come Tokyo o Osaka lo fa sembrare quasi un universo parallelo dove la vita si svolge come in passato, con la sola differenza che i treni e i cellulari sono già stati inventati. Come adattamento è un’opera ben realizzata, ma soffre secondo del dover reggere l’aspettativa dello spettatore ed essere emotivamente potente da far commuovere e piangere. In sé, questo proposito non è sbagliato, in quanto ci sono tantissimi film la cui trama e appeal sono basati sul far commuovere chi li guarda (prendiamo per esempio Le pagine della nostra vita) ma Se i gatti scomparissero dal mondo si concentra interamente su questo.
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Quando ho cercato i trailer e le locandine del film sono rimasta scioccata nel vedere quanto si concentrassero sullo slogan “questo film ti farà piangere”. Il trailer ufficiale è composto perfino da una sequenza iniziale che ritrae donne (non è una generalizzazione, non inquadrano nemmeno un singolo uomo) di età tra i venti e i trent’anni che piangono e si asciugano le lacrime con un fazzolettino a un test screening del film, le anteprime che vengono mostrate a pubblico selezionato prima che il film venga distribuito per osservare le reazioni e decidere se editarlo ulteriormente prima dell’uscita al cinema. Da questo tipo di promozione si capisce che Se i gatti scomparissero dal mondo è un’opera realizzata con uno specifico target in mente e che hanno mirato l’intera campagna di marketing per invogliare questa frazione di pubblico a vederlo. Facendo ciò si sono tagliati le gambe da soli sotto due punti di vista. Il primo è che vedendo dei trailer e poster del genere il pubblico maschile si ritrova a pensare che questo sia un film “per donne” e probabilmente non deciderà di vederlo, o quantomeno non al cinema, e di conseguenza ottenendo un mediocre risultato al box office. Il secondo, e anche il più importante, è il fatto che Se i gatti scomparissero dal mondo non è assolutamente una storia che non fa parte di un genere tipicamente femminile come il chick flick o un film romantico, né è un film che si merita di essere indirizzato unicamente a un pubblico femminile. Per me, la storia non è particolarmente adatta a un pubblico maschile o a uno femminile, ma può essere apprezzata da chiunque a prescindere dal genere e dall’età. È per questo che il risultato finale ne soffre: oltre alla scelta dell’attore che interpreta il protagonista, Sato Takeru, a prescindere dalla sua ottima performance insieme a quella degli altri attori, ci sono molte-
plici scene del film che sono evidentemente mirate a un pubblico femminile o girate e editate in modo che lo spettatore si commuova, ma la poca naturalezza di queste scene rischia di avere il risultato opposto e bloccare qualsiasi risposta emotiva da uno spettatore che si sente manipolato dal film. Per lo meno questo è stato l’effetto che il film ha provocato in me e mi ha fatto pensare che Se i gatti scomparissero dal mondo sarebbe stato un film migliore se non si fosse sforzato così tanto. In conclusione, Se i gatti scomparissero dal mondo è un film esteticamente molto bello, interpretato molto bene, con una trama originale anche se a tratti ripetitiva. È emotivamente coinvolgente anche se soffre del suo essere troppo mirato a un target sbagliato e troppo ristretto, e del dover a tutti i costi far commuovere gli spettatori. Ne consiglio la visione a chi ha letto e apprezzato il libro, in quanto rispetta fedelmente l’idea originale. Generalmente direi che lo consiglio anche a chi non conosceva la storia prima di leggere la mia recensione e leggendola l’ha trovata interessante. Tuttavia il film non è al momento disponibile su alcuna piattaforma streaming italiana, ma solo in Giappone, in America e altri Paesi, in lingua originale. Inoltre nel 2020 ne è stata annunciato un remake statunitense che potrebbe renderlo più reperibile.
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Celebrando l’Autunno ricetta a cura di Eleonora Badellino TEMPO DI LETTURA 5’
L’autunno è di gran lunga una delle stagioni più affascinanti in cui venire a visitare il Giappone. Si passa da quel caldo afoso e quasi asfissiante dell’estate a una brezza rinfrescante e confortante, che ci fa venire voglia di uscire di casa, e godere dei meravigliosi colori della natura. Ma c’è molto di più. L’autunno è anche il mese della lussuria gastronomica. È infatti la stagione del riso appena raccolto (新米 - shinmai), delle patate dolci fumanti vendute nel baracchino vicino al parco, del profumo dei funghi carnosi appena raccolti insieme alla dolcezza dei cachi freschi che, una volta essiccati e legati come ghirlande all’ingresso delle case, diventeranno una merenda perfetta accompagnati da un delizioso tè verde. Insomma, l’autunno ha molto da offrirci, sia alla vista che al palato, e in questo numero di Kotodama, ho deciso di realizzare un obentō in suo onore, in grado di celebrarne la bellezza e la bontà.
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Patate Dolci さつまいも (Satsumaimo)
La patata dolce giapponese per eccellenza. È caratterizzata da una buccia viola e una polpa pallida che, una volta arrostita o cotta al vapore, assume una colorazione solare. In Giappone sono lo snack autunnale per eccellenza. Le si possono acquistare arrostite nei supermercati, o per strada da venditori ambulanti che spesso si trovano all’ingresso dei grandi parchi.
Ingredienti 1 patata dolce 1 cucchiaino di salsa di soia 1 cucchiaino di mirin 2 cucchiaini di zucchero (sostituto: miele o sciroppo d’acero) • 1 cucchiaino di acqua • sesamo nero • olio per friggere • • • •
Diventano un dolce ancora più sfizioso quando cucinate insieme ai condimenti tradizionali giapponesi, in una loro ricetta originale chiamata daigaku imo “大学芋”.
Lavate le patate dolci e tagliatele a pezzi della stessa grandezza (senza eliminare la buccia). Riempite una ciotola di acqua e lasciate le patate in ammollo per almeno 5 minuti (in questo modo rilasceranno quel leggero retrogusto amarognolo). Con uno panno, asciugatele per bene una a una e mettete l’olio a scaldare in una padella. Il quantitativo di olio deve essere tale da permettere una frittura uniforme. Una volta ben asciugate (fate in modo di eliminare tutta l’acqua in eccesso), mettetele a friggere e procedete fino a quando la superficie non inizia a dorarsi (attenzione a non bruciarle!).
Rimuovete l’olio dalla pentola e aggiungete il dolcificante, insieme alla salsa di soia, il mirin e l’acqua. Portate a ebollizione e, appena inizia a diventare più spesso, aggiungete le patate dolci. Abbassate la fiamma al minimo e iniziate a muoverle con l’aiuto di una spatola di legno così da amalgamare il tutto (le patate dolci devono essere ricoperte dalla sciroppo agrodolce). Quando lo sciroppo inizia a bollire spegnete la fiamma, ricoprire con un cucchino di sesamo nero e servitele ancora calde, anche se sono deliziose anche fredde.
Una volta cotte, toglietele dalla padella e posizionatele in un piatto con carta da cucina assorbente.
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Tempura di Shiitake 椎茸天ぷら (Shītake tenpura)
Autunno vuole anche dire funghi, e qui in Giappone, lo Shiitake - 椎茸 non ha rivali! Lo si può acquistare fresco o disidratato e viene utilizzato per la preparazione di zuppe (dona un sapore umami incredibile), grigliato, o nella sua forma di “nimono” ovvero bollito a fuoco basso in un brodo generalmente preparato con i classici salsa di soia, mirin e sake, e servito come piatto di accompagnamento. Ultima ma non per minor importanza è la sua versione tempura, ideale servita insieme a una porzione di soba caldi (o freddi) o perché no, anche come donburi - 丼 adagiato su una ciotola di riso fumante o come contorno nel vostro obento!
Iniziate sbattendo l’uovo con l’acqua e, una volta amalgamate, aggiungete la farina setacciata. Amalgamate nuovamente il tutto con un frustino e lasciate riposare per qualche minuto. Lavate gli shiitake e asciugateli uno per uno così da eliminare qualsiasi traccia di acqua. Eliminate il gambo e, con l’aiuto di un coltello, incidete una “X” sulla superficie del cappello. (Questo tipo di tecnica prende il nome di Shiitake Hanagiri - 椎茸花切りed è utilizzata principalmente per rendere il fungo più grazioso alla vista.) Scaldate ora l’olio per la frittura (dovrebbe essercene abbastanza da poter immergere i funghi). La temperatura ideale
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Ingredienti per tempura • 1 uovo • 150 cc acqua • 100 gr farina
Ingredienti per gli Shiitake • 6 funghi shiitake • olio per friggere • sale
è tra i 170-180 gradi. Preparate un piatto con due pezzi di carta da cucina adagiati sulla superficie (serviranno a scolare l’olio in eccesso) e quando l’olio ha raggiunto la temperatura, con l’aiuto delle bacchette immergete gli shiitake nell’impasto, fate colare l’eccesso e immergerli nell’olio caldo facendo attenzione a non bruciarvi. I nostri Shiitake saranno pronti quando raggiungeranno una colorazione dorata esterna. Adagiateli nel piatto precedentemente preparato e cospargeteli con un pizzico di sale (questa azione è facoltativa! Personalmente amo assaporare il sapore dei funghi così come sono).
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Riso con Castagne 栗ご飯 (Kuri gohan)
Sebbene questo piatto sia presente anche nella cucina italiana, la versione giapponese si diversifica per sapori e consistenze. Questa ricetta richiede esclusivamente tre ingredienti (riso, castagne e sale) ma non lasciatevi ingannare dalla troppa semplicità, in quanto è un piatto davvero buonissimo.
Per prima cosa procediamo lavando, scolando e massaggiando con il palmo delle mani il nostro riso fino a che l’acqua non diventa limpida. Mettete dunque il riso scolato in una pentola (o nel cuoci riso), aggiungete l’acqua di cottura e lasciate in ammollo per almeno 30 minuti. Nel frattempo, preparate una ciotola capiente piena di acqua e iniziate a sbucciare le castagne, tagliando per prima il fondo ruvido e infine la buccia lungo la rotondità. Appena sbucciate immergetele subito nell’acqua così che non si scoloriscano, e lasciatele in ammollo per almeno 30 minuti. Fate bollire l’acqua in una pentola e procedete a una procedura delle castagne.
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Ingredienti • 300 g di castagne • 2 tazze di riso (varietà Japonica) - 360 ml • 1 cucchiaino di sale • 2½ tazze di acqua - 400 ml
Bastano 7-8 minuti in acqua bollente (Questo passaggio è importante per rimuovere qualsiasi residuo astringente). A questo punto, aggiungetele insieme al sale alla pentola con il riso e procedete alla cottura. Chiudete il coperchio e portate l’acqua a bollore. A questo punto, senza mai aprire il coperchio, abbassate la fiamma al minimo e cuocete per 10 minuti circa o almeno fino a che l’acqua non sia totalmente assorbita. Alla fine dei 10 min date una veloce occhiata tirando su il coperchio per controllare la situazione. Spegnete la fiamma e lasciate riposare ancora per 10 minuti a coperchio chiuso. Una volta pronto adagiatelo nel vostro bento e concludete spargendo un pizzico di sesamo nero!
いただきます!
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Gatti antropofagi e ragazze scomparse. Il realismo magico di Murakami Haruki a cura di Damiana De Gennaro TEMPO DI LETTURA 6’
Gatti che scompaiono e riappaiono rappresentano uno dei fil rouge che lega la maggior parte dei libri di Murakami Haruki. Si propone di seguito una possibile (e non esaustiva) interpretazione dell’uso di tali simboli. «Allora il mio vero io dov’era in quel momento?», mi chiesi. «È stato mangiato dai gatti!», mi rispose la voce di Izumi, che veniva da non so dove. - I gatti antropofagi, Murakami Haruki, 1991 In una cittadina nelle vicinanze di Atene, c’era una volta una donna che fu divorata dai suoi gatti. Dico c’era una volta, perché di un evento del genere non si hanno fonti attendibili. L’episodio, presentato da Murakami Haruki nella forma di un articolo di giornale, costituisce il punto di partenza de I gatti antropofagi, un racconto scritto nel ‘91 e contenuto nella raccolta I salici ciechi e la donna addormentata, e viene riportato con parole quasi identiche nel corso del romanzo La ragazza dello Sputnik, pubblicato per la prima volta nel ‘99. Anche se un articolo del genere fosse realmente esistito, tutti i personaggi immaginati dallo scrittore l’avrebbero trovato incompleto. Sia nel caso del racconto che in quello del romanzo, è una coppia di amanti (o quasi) a intrattenere una conversazione sull’argomento. «Chissà cosa ne sarà stato di quei gatti», afferma Myū, facendo eco a Izumi, deuteragonista del racconto. «Chi lo sa. I giornali sono tutti uguali dappertutto. Non scrivono mai quello che uno vorrebbe sapere», risponde Sumire, sfumata nell’io narrante (senza nome) del racconto di otto anni prima. Le trame imboccano direzioni diverse, per poi ricongiungersi nel momento in cui si evoca un ricordo: quello di un gatto salito su un albero troppo alto, poi misteriosamente scomparso. La scomparsa del gatto prefigura, in entrambe le narrazioni, la sparizione di una delle amanti. Da un lato Sumire, dopo aver abbracciato nel buio il corpo della donna che ama e non può avere, svanisce come fumo prima che sorga il sole. Dall’altro Izumi, il mattino dopo aver collegato il ricordo della sparizione del gatto dell’amante all’assenza prolungata di suo padre, scompare senza lasciare alcuna traccia.
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Il motivo della sparizione del gatto che si traduce in quello della donna amata, è ripreso anche dal regista Lee Chang-dong nel film Burning (2018), selezionato nello stesso anno per la Palma d’Oro del Festival di Cannes. I fatti narrati in Burning combinano il racconto breve di Murakami Haruki Granai incendiati (1984) a Barn Burning (1939) di William Faulkner, introducendo però, in modo arbitrario, elementi cari all’immaginario dello scrittore: pozzi misteriosi, rincorse in automobile e, naturalmente, un gatto. Lee Chang-dong non si limita a declinare pedissequamente i fatti in chiave cinematografica, ma omaggia, traendole da più romanzi, le atmosfere di Murakami Haruki, dando loro vita al di là della pagina scritta. A vent’anni dalla pubblicazione de La ragazza dello Sputnik, con Abbandonare un gatto (2019), Murakami Haruki per la prima volta apre ai lettori il cassetto dei propri ricordi. In questo testo, i gatti agiscono da espedienti narrativi per toccare ancora una volta il tema della perdita (o del ritrovamento) inspiegabile. Il primo ricordo, che dà il titolo allo scritto, racconta di come un gatto, una volta abbandonato a malincuore su una spiaggia, sia misteriosamente riapparso a casa dello scrittore ancora bambino. Procedendo nella lettura, capiamo come l’obiettivo di Murakami Haruki non sia tanto quello di parlare dei gatti che si sono avvicendati nella sua vita, ma piuttosto quello di ricostruire la frammentata storia di suo padre, un po’ come Tamura Kafka, il protagonista di Kafka sulla spiaggia (2002), fuggendo da un’inquietante profezia, è in realtà alla costante ricerca di un’interpretazione delle proprie origini. Un altro ricordo narrato in Abbandonare un gatto racconta di come, mentre lo scrittore era seduto in veranda, vide un gatto arrampicarsi velocemente su un pino. Dopo essere svanito fra i rami più alti, ormai irraggiungibili, l’animale aveva iniziato a lamentarsi, come se stesse chiedendo aiuto. Era salito troppo in fretta e non sapeva più scendere. L’autore scrive: «È un ricordo della mia infanzia che mi ha lasciato una forte impressione. Inoltre, mi ha insegnato una cosa importante: nella vita, scendere è molto più difficile che salire. In termini più generali, spesso il risultato va al di là dello scopo e lo rende inutile. A volte è un gatto a restare ucciso, a volte un essere umano». I gatti che appaiono e scompaiono nei mondi di Murakami Haruki sono innumerevoli, e volerli elencare tutti costituirebbe un passatempo originale, nonché una notevole sfida. D’altronde, prima ancora di scrivere il suo romanzo d’esordio, Murakami Haruki negli anni 70 aveva aperto un Jazz bar chiamato Peter cat. Sin dall’insegna, un omaggio allo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie, le ossessioni dello scrittore in divenire non rappresentavano un mistero. Ai lettori, come ai clienti del Jazz bar, non è chiesto altro che lasciarsi guidare in direzioni inaspettate dai gatti, dalla musica.
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「生きている言葉」 a cura di 江原清美 30年ほど前にNHKで「生きている言葉」という1分間のミニ番組があった。 日本語や外来語の成り立ち、誤用されやすい語の解説など、目からうろこの情報が多く 静かな人気番組で6年ほど続いた。また、言葉は時代と共に概念や用法が変わっていくがそ れは単に「乱れ」ではなく「言葉は時代と共に変化してきた。」ということを 認識した。その後、情報拡散の媒体が多様化、簡略化されたことから、新しい言葉が どんどん生まれ、それらは瞬時に日本中に広がっていく。 全国チェーンのコンビニやファミレスなどでスタッフがマニュアルとして使う接客用語に は「こちらコーヒーになります」「千円からお預かりします」など「ヘンな日本語」が多 いが、これらは本部からの接客マニュアルとして一斉に全国の支店に伝えられ、東京から 地方へ伝達される時差はない。 コロナ禍により、家でTVを見る時間が増えた。何気なく聞いていると、「ら抜き言葉」 や敬語の誤用は当たり前、知らない語、用法に違和感を覚える語は枚挙にいとまがなく、 仕事柄聞いていてイライラすることが多い。 日本語の中級以上の授業では、類義語の概念や用法の差異について学ぶ。差異の理解に は 複数の視点があるが、ひとつには「話し言葉」か「書き言葉」か、がある。が、最近はこ こに「打ち言葉」が加わった。これは、2018年に文化庁が「話し言葉の要素を多く含む新 しい書き言葉」と定義した。以前弟に出したメールの返信が「了」だけだった時に「ずい ぶんそっけない・・」と感じたが、これが打ち言葉だと「り」になるという。「あーなる ほどね」が「あね」になるのだそうだ。このルールを知らなければ、打ち間違えか?と、 再送して相手の返事を聞き直し兼ねない。これらの語は、多くは若者や仲間内で使われて いるのだろうが、日本語学習中の外国人はアルバイト先などで覚え、相手かまわず使って しまう危険もある。そしていざ、進学や就活の際に「正しいメールの書き方」で学び直し をすることになる。 言葉がいくら生き物で変化を認めるとしても、それはあくまでコミュニケーションのツ ールである。適切な言葉遣いで思いや事象を正しく伝えることが使命であることを忘れて はならない。 年末になると、その年の流行語大賞が発表される。今年は何になるのか、気になるとこ ろではあるが、これらが日本語として「国語辞典」に掲載されるには、何年も生き続け 認知度が安定しないといけない。国語辞典は、8~9年に一度改定されるのが一般的なの で、新語・流行語として脚光を浴びても次に改定される時まで、「古い」「ダサい」など と言われず、誰もが抵抗なく使うように進化しつつ生き残っていかねばならない。 台湾の教え子が、こんな話をしてくれた。 「自分の祖母は台湾語しか話せない。でも自分は親から国語(中国語)だけを話すことを 教育されてきたので、祖母と直接話してもほとんど通じない。だから母が通訳しなければ ならなかった。ところが、祖母は日本語ができるので自分が日本語を勉強するようになっ て初めて祖母と二人だけで直接話すことができるようになった。今は時々自分の日本語を 直してくれる。わからない言葉も祖母に聞いたりすることもある」と。 思いがけない話だった。この話は台湾の複数の留学生から聞いた。改めて日本と台湾と の歴史を考えながら、高齢のおばあさんと、20年近く直接話せなかった孫とどんな日本語 でどんな話をしているのだろうかと想像している。おばあさんが話す日本語は、ネットや テレビの影響をほとんど受けることなく、80年もの間、変わることなく静かに、しかしし っかりと生き続けてきたものだ。 言葉は生きもの。変化をすべて「乱れ」とせず、新しい用法も認める必要がある。 しかし、ひとりの日本人として、また日本語教師として異世代や環境が違う人にどのよう な語を使うのが適切なのか、その語で本当に意思の疎通ができているのか、若者や時代に 流されず指導していく役割を改めて認識する日々である。
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Parole vive a cura di Ehara Kiyomi traduzione a cura di Sara Odri TEMPO DI LETTURA 4’
Ikiteiru kotoba, Parole vive, era un mini programma televisivo trasmesso dalla NHK più di trent’anni fa. Era una rubrica molto popolare andata in onda per circa sei anni che presentava interessanti informazioni sulle origini di parole giapponesi e straniere, e spiegava l’uso improprio di alcune espressioni. Rendeva consapevoli del fatto che il significato e l’uso di una parola possono cambiare nel tempo: non si tratta quindi di pura casualità, ma di mutazioni vere e proprie che interessano le parole attraverso le varie epoche. Da allora i media hanno diversificato e semplificato il processo di diffusione delle informazioni creando terreno fertile per la nascita di nuove parole che, altrettanto facilmente, hanno subito preso piede in tutto il Giappone. Per esempio, nelle catene di conbini e di family restaurant, lo staff utilizza un linguaggio per relazionarsi con i clienti che è spesso definito strano, diverso dal giapponese standard. Espressioni come kochira kōhī ni narimasu, lett. questo sarà caffè, e sen’en kara wo azukari shimasu, lett. prendiamo da 1000 yen, vengono impartite allo stesso tempo dalla sede centrale a tutti i negozi sotto forma di manuale relazionale, senza distinzione tra Tokyo e le altre regioni. A causa della pandemia, è aumentato il tempo che passo a casa davanti la TV. Sento ovviamente
verbi pronunciati male, onorifici sbagliati, parole a me sconosciute, parole che mi fanno sentire a disagio e tanto altro, ma ascolto la TV senza troppe pretese. È quando sento cose del genere sul lavoro che mi infastidisco. Nelle lezioni di giapponese a un livello avanzato, gli studenti imparano le differenze di significato e d’uso dei sinonimi attraverso diversi punti di vista, tra cui la distinzione tra hanashi kotoba e kaki kotoba, ovvero tra parole usate in contesti orali e quelle usate nella lingua scritta. Eppure, negli ultimi anni a queste due categorie se ne è aggiunta un’altra, quella delle uchi kotoba, le parole abbreviate e lo slang comunemente usato negli sms, nelle chat, ecc. Nel 2018 l’Ente per gli Affari Culturali le ha definite “un nuovo tipo di linguaggio scritto che contiene molti aspetti della lingua parlata”. Prima quando rispondevo alle mail di mio fratello con un ryō, simile a un OK in italiano, pensavo di essere troppo fredda, ma ora, secondo il linguaggio delle uchi kotoba sarebbe accettabile rispondere con ri, una semplice K. L’espressione a-naruhodo ne, quasi un “oh, capisco”, si può abbreviare in ane, una specie di “cpt” in italiano. Chi non conosce questa regola potrebbe pensare a un errore di battitura, e richiedere l’invio di una risposta corretta. Molte di queste espressioni sono usate dai giova-
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ni e in situazioni informali come durante il lavoro part-time, con il rischio che stranieri che stanno imparando il giapponese possano assimilarle e usarle senza tener conto del contesto. A quel punto, nel momento in cui inizieranno l’università o a cercare lavoro, dovranno imparare di nuovo come scrivere una e-mail corretta. Per quanto le parole siano considerate vive e modificabili, restano comunque uno strumento della comunicazione. Non bisogna mai dimenticare che l’obiettivo è quello di trasmettere pensieri ed eventi in modo corretto usando un linguaggio che sia appropriato. Siamo quasi alla fine di questo 2021, e sono molto curiosa di sapere quali saranno le parole più popolari dell’anno che vengono annunciate sempre in questo periodo. Prima di essere inclusa in un dizionario giapponese, una parola deve prima possedere un livello di visibilità stabile per un certo periodo. I dizionari giapponesi sono in genere aggiornati ogni otto o nove anni quindi un neologismo o un termine alla moda deve restare in voga almeno fino alla successiva revisione. E deve farlo senza venire considerato vecchio o imbarazzante, e comunque progredendo fino a diventare una parola che chiunque possa usare senza reticenze. Uno dei miei studenti di Taiwan mi ha raccontato questa cosa. “Mia nonna parla solo taiwanese ed è quasi impossibile per me comunicare direttamente con lei, perché i miei genitori mi hanno insegnato solo il cinese.
Mia madre ha sempre dovuto fare da interprete. Mia nonna, però, sa il giapponese e abbiamo potuto parlare per la prima volta tra di noi solo quando anche io ho iniziato a studiarlo. Ancora oggi ogni tanto mi corregge e se non conosco il significato di qualche parola chiedo a lei”. Non mi sarei mai aspettata di sentire un discorso simile, una storia che ho poi ritrovato nelle parole di tanti altri studenti taiwanesi. Ripensando ancora alla storia che lega il Giappone e Taiwan, ho immaginato di cosa abbiano parlato e che giapponese abbiano usato una signora anziana e suo nipote dopo non essersi parlati direttamente per quasi venti anni. Il giapponese della nonna taiwanese non è cambiato, è rimasto vivo per ottanta anni saldo ma silenzioso, del tutto inalterato da internet e dalla televisione. La lingua è viva. Bisogna imparare a non vedere i suoi mutamenti come casuali, e a riconoscere anche i suoi nuovi usi. Però, da giapponese, e soprattutto da insegnante di lingua giapponese, non devo lasciarmi distrarre dalle tendenze giovanili e dal momento storico, devo rimanere ogni giorno consapevole del mio ruolo da istruttrice: devo capire quali sono le parole più adatte da usare con persone di diverse generazioni e background, e soprattutto se con quelle stesse parole gli studenti saranno poi in grado di esprimere al meglio le proprie impressioni.
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L’Altro Giappone. Intervista a Barbara Waschimps a cura di Damiana De Gennaro TEMPO DI LETTURA 9’
Barbara Waschimps è il direttore artistico dell’associazione culturale L’Altro Giappone. Dal 29 settembre al 3 ottobre 2021, il Museo archeologico nazionale di Napoli ha ospitato la terza edizione della Japan Week. Resistere/Rinascere. Uomo e Natura nella società giapponese contemporanea è il tema che collega le mostre in esposizione, la rassegna cinematografica e altre attività. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera. -Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, IX
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È fine novembre, sediamo a uno dei tavolini del cafè Intra Moenia. Ha iniziato a fare buio presto, e le lampade dei locali di Piazza Bellini sono tutte accese. I camerieri vanno e vengono, non sembrano fare caso a noi. Abbiamo appena assistito al concerto Dal Malouf al Taiko, musiche d’oriente lungo le vie della seta a San Pietro a Majella. Come riemersa da uno strano sogno, Barbara Waschimps accende una sigaretta e inizia a raccontare. Come è cominciato tutto? Lei e Roberto De Pascale erano ancora studenti quando, verso la fine degli anni Ottanta, Marco Müller aveva organizzato una rassegna cinematografica in collaborazione con “L’Orientale”. Annoto in maiuscolo il primo di molti nomi che non conosco e si susseguono nel discorso-labirinto. A differenza di altri ambiti – dice – cinema e letteratura sono zone franche del pensiero. Dal secondo dopoguerra i cineasti nipponici sono andati interrogandosi sulla ridefinizione di identità del proprio paese attraverso quella degli individui che lo compongono. La storia del cinema giapponese ha le sue fondamenta nella letteratura, in quella classica come in quella contemporanea. Da questi due aspetti parte questa breve rassegna che prova a fare luce sulla attualità del Giappone e, forse, a far riflettere anche sulla nostra.
In che modo è cambiato il panorama del cinema giapponese, nel dopoguerra?
Il Giappone ha assistito allo sviluppo di un profluvio di generi cinematografici: da quello storico-tradizionale al cyber-punk, dal dramma familiare al soft-core dei pink-eiga, dall’anime al docu-film, dalla commedia onirica all’horror, dal thriller allo young-adult. Parallelamente, sempre di più i cineasti sono andati ad indagare la posizione dell’individuo all’interno di una trasformazione collettiva: quella traslazione dell’integro corpo sacro del Grande Giappone verso un insieme di cellule in cerca di nuovi coagulanti. Come è mutato il rapporto con l’Occidente? L’omologazione all’Occidente, e la resistenza ad essa causata dalla velocità schizofrenica con cui il Giappone è tornato ad essere una grande potenza, sono implose con forze uguali e contrarie comportando ingenti contraddizioni, che chi non fa parte di quella società osserva con curiosità, ma che chi vi appartiene sperimenta profondamente. L’alienazione, la disgregazione del sistema-famiglia, il rispetto formale delle tradizioni, il rifiuto verso l’integrazione, il rifugio nelle sub-culture, le battaglie contro il nucleare e il ritorno al nazionalismo, perfino l’anacronistico sistema giudiziario, sono tutti aspetti che convivono, con enormi attriti per l’individuo, nella società giapponese; e sono stati puntualmente messi sotto osservazione ed esposti, nella letteratura e nel
cinema. I temi che avete scelto, nel corso di questi primi tre anni di attività, Tra letteratura e società (2019), il privato e la Storia (2020), Resistere/Rinascere (2021), danno risalto all’ambizione di raccontare tanto il particolare quanto l’universale.
Nell’edizione introduttiva del 2019 dedicata al rapporto tra letteratura e società, L’Altro Giappone ha iniziato a presentare lo sguardo critico dei cineasti giapponesi sulle realtà e le problematiche del proprio paese. Il progetto originario dell’edizione programmata per maggio 2020, Il privato e La Storia, prevedeva oltre alla visione dei lungometraggi di autori nipponici l’introduzione del formato documentaristico, ad opera di registi di aree geografiche differenti, per arricchire di ulteriore linfa il panorama cognitivo. L’edizione in formato ridotto che si realizza presso l’Auditorium del Mann ha potuto vedere la luce grazie al tenace interesse del direttore Paolo Giulierini verso l’Arcipelago, come da lui stesso testimoniato nel suo testo introduttivo. Centrale nel tema che abbiamo scelto per l’edizione del 2020 è il ruolo dei media e di chi fa informazione. Ne è esempio icastico il primo film in programma, i-Documentary of the Journalist in cui il regista Katsuya Mori riprende chi documenta i fatti, aprendo finestre sulla vita di una giornalista osteggiata dal governo giapponese per il modo in cui segue ed espone le incongruenze e l’arretratezza del sistema nipponico. Si impone, sullo sfondo degli
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scandali politici, la riflessione sul prezzo da pagare nel proprio vissuto. E d’altro canto, quanto il privato possa essere invaso dall’informazione malsana ce lo indica il film di Ryoichi Kimizuka, Nobody To Watch Over Me, dove il popolo anonimo della rete influenza i giornalisti più voraci raccogliendo e manipolando ogni tipo di dettaglio ed esponendo il privato delle persone senza preoccuparsi di verità o giustizia. L’edizione del 2021 si è concentrata sul tema Resistere/Rinascere, ma anche su tanti altri micro-temi strutturanti. Potresti parlarne nel dettaglio? A dieci anni dalla triplice catastrofe del Tōhoku, in un momento storico in cui l’umanità ancora sta affrontando una situazione pandemica globale e si interroga sul futuro del pianeta, L’Altro Giappone ha ritenuto necessario e imprescindibile imperniare l’intera manifestazione del 2021 sul tema del rapporto tra Uomo e Natura, strutturato intorno ad alcuni assi che il pubblico potrà riconoscere in tutta la Rassegna. Trovandoci nel contesto monumentale del Museo archeologico nazionale di Napoli, si è lavorato prima di tutto sull’idea di stratificazione, riflettendo proprio su quanto accaduto nelle regioni devastate nel 2011 dove le terre riemerse dopo lo tsunami hanno restituito e continuano a restituire testimonianze, oggetti, corpi e dove si continua a scavare nel terreno e a cercare sott’acqua reperti di memoria (KOI di Lorenzo
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Squarcia). Il lavoro sulla memoria in tutte le sue forme è il secondo degli assi portanti della rassegna. Operare sul ricordo è sempre una prova durissima che richiede una titanica volontà di verità (DISTANCE di Hirokazu Kore’eda, WHO WON THE WAR di Francesca Di Marco) - ma è anche il modo di ricreare il legame con chi non è più, il sostegno per poter trovare la forza di rinascere (CAFE FUNICULÌ FUNICULÀ di Ayuko Tsukahara, YOMIGAERU di Alessandro Trapani), anche attraverso intricati percorsi relazionali che si creano / evolvono in tempi di crisi o di cambiamento (MY MAN di Kazuyoshi Kumakiri, EVERY DAY A GOOD DAY di Tatsushi Ōmori). La natura non è nemica né amica dell’uomo. Questo è restituito molto bene nel rispetto dei cicli produttivi (FINAL STRAW di Suhee Kang e Patrick M. Lydon), come nel modo eroico di affrontare le grandi calamità naturali di cui sono sempre stati testimoni in tutta la loro storia (THE LAND OF HOPE di Shi’on Sono). Un’altra caratteristica peculiare di quest’anno sarà che il pubblico non vedrà protagoniste sullo schermo le megalopoli nipponiche; non troverà, se non in qualche quadro Tokyo, capitale all’avanguardia per cultura, creatività e tecnologia; ma ad essere rappresentati saranno i villaggi, le campagne, le province, le zone remote (AOGASHIMA di Hamish Campbell, DREAMING AN ISLAND di Andrea Pellerani). Il nemico di sé stesso e dell’ambiente
in cui vive è solo l’uomo. Come in molti altri paesi anche in Giappone la sua azione nociva si è fatta sentire in maniera perniciosa e prepotente. Di questo narra MINAMATA, il film di Andrew Levitas che verrà proiettato in prima assoluta italiana in sala, e da questo parte il documentario SAKAMOTO: CODA di Stephen Nomura Schible. È con tali consapevolezze che ci siamo posti all’ascolto di voci internazionali, che hanno voluto riflettere in maniera sempre profonda e spesso commovente la loro visione di questi aspetti del paese. Dei 15 film e documentari in programma quest’anno di cui molti inediti in Italia, tante sono per l’appunto testimonianze di registi non giapponesi, e questo aumenta e arricchisce il dibattito culturale, perché quello che accade in Giappone possa rappresentare un momento di riflessione anche per noi al di qua dell’oceano.
L’Altro Giappone è un’associazione culturale senza fini di lucro con sede a Napoli, composta da professionisti formatisi all’Università L’Orientale e attiva in Campania con l’obiettivo di offrire sentieri di approccio alla cultura e alla società nipponiche fuori dagli schemi stereotipati. Barbara Waschimps è il direttore artistico de L’Altro Giappone. Laureata all’Università “L’Orientale” in Letteratura Giapponese contemporanea. Dopo aver conseguito un Master all’Accademia di Comunicazione di Milano, è stata consulente per l’internazionalizzazione di PMI italiane della moda verso il mercato nipponico e di varie istituzioni, responsabile unico in Italia per la Japan Fashion Week / International Fashion Fair e ufficio stampa e pubbliche relazioni per aziende private in Italia e all’estero.
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L’indomabile selvaticità dei gatti secondo Yoshio Toyoshima traduzione a cura di Sara Odri TEMPO DI LETTURA 7’
L’autore Yoshio Toyoshima (1890-1955) nasce nella prefettura di Fukuoka. Scrittore, traduttore e accademico, studia letteratura francese all’Università di Tokyo. Nel 1914, ancora studente, insieme a Akutagawa Ryunosuke, Kikuchi Kan e Kume Masao pubblica la terza edizione della rivista Shinshicho (lett. Nuova Corrente), a cui contribuisce con il suo primo romanzo, Bokura to kosui (lett. Noi e il fiume). Una volta laureato diventa professore di lingua francese presso l’Università Hosei prima e l’Università Meiji poi. Scrittore prolifico di storie brevi e romanzi, viene ricordato anche per le sue traduzioni dal francese di Les Misérables di Victor Hugo (1918-1919) e di Jean-Christophe di Romain Rolland (1921). Muore nel 1955 all’età di 64 anni per un infarto nella sua casa di Sendagi, a Tokyo. Le dichiarazioni del professor gatto Le persone a cui piacciono i gatti non amano particolarmente i cani. Le persone a cui piacciono i cani non vanno pazze per i gatti. Certo, ci sono delle eccezioni, ma si può dire che questa sia la regola generale. Probabilmente ciò ha qualcosa a che vedere con le differenti personalità che cani e gatti possiedono. Prima della guerra, appena fuori dal quartiere a luci rosse di Shimotani, c’era un piccolo ristorante chiamato Umegae. Era un locale che faceva principalmente consegne, ma il cibo che serviva era così buono che aveva moltissimi clienti. Quando andavo con qualcuno ci facevano accomodare al primo piano, altrimenti mangiavo a uno dei tavolini bassi del piano terra. In quel piccolo ristorante incontravo spesso il Professor Cane. Il Professor Cane insegnava arte in una scuola. Gli avevo dato quel soprannome perché era un amante dei cani. Ovviamente, per una ragione uguale e contraria, il mio soprannome era Professor Gatto. «Salve, Professor Cane.» «Oh salve, Professor Gatto.» E così ci ubriacavamo e, di conseguenza, iniziavamo a litigare su cani e gatti. Professor Cane: «Quelle bestiacce chiamate gatti sono per natura egoiste,
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pigre ingrate di cui non vale la pena parlare. Quando gli serve qualcosa ti si strusciano addosso, miagolano con fare umile, ti lusingano. Ma appena gli dai quello che vogliono ti ignorano completamente, si voltano dalla parte opposta, non si avvicinano nemmeno se le chiami. Non esiste animale più egocentrico.» Professor Gatto: «Quello è lo spirito indipendente del gatto. E invece il cane? Un servo, un servo e niente più. Non importa se è di buon umore o meno, non importa se gli serve qualcosa o no: è sempre lì a scodinzolare al padrone, a cercare di compiacerlo. È nel suo istinto, è solo un servo fino al midollo. E infatti, se togli questo aspetto dalla sua personalità non rimane nient’altro. Si dice che il cane sia leale, ma che senso ha per uno schiavo essere leale? È solo un altro esempio di quanto sia stupido e inconsapevole.» Professor Cane: «Stai sbagliando tutto, il cane sa qual è il suo posto. È un animale intelligente. Capisce quale sono le sue mansioni. Dorme nella sua cuccia sul pavimento, sopporta il duro lavoro, ti difende dagli intrusi, ti fa compagnia durante le passeggiate. Il gatto non ha idea di cosa fare. Dà la caccia ai topi solo perché il suo istinto gli dice di farlo, ma a parte questo, a cos’altro serve?» Professor Gatto: «Stai parlando come se fosse uno strumento a disposizione dell’uomo. Tra gli animali domestici, ce n’è forse un altro che vive così come gli umani come fa il gatto? Abita nella stessa casa dell’uomo, mangia lo stesso cibo, dorme nello stesso letto. Ti dirò di più, sono anche meglio degli uomini perché camminano scalzi sia fuori che dentro. Questo perché il gatto è l’animale più pulito che c’è. L’odore del cane non si manda via né con l’acqua calda né con quella fredda. La sua puzza lo rende di per sé inferiore. Il corpo del gatto non produce quasi nessun odore. E appena hanno l’opportunità, iniziano a leccarsi e a togliersi lo sporco di dosso. E ancora, un’altra cosa incredibile: il gatto lo sa che i peli che ingoia quando si lecca rimangono nel suo stomaco non digeriti, quindi mangia di proposito foglie di bambù o qualche erba che gli solletica esofago e stomaco, e vomita tutto il pelo. Questa è una cosa che nemmeno un essere umano riuscirebbe a fare. È molto sensibile al veleno, se ne ingerisce un po’ per sbaglio è in grado di ributtarlo fuori da solo. Da questo punto di vista i cani sono dei selvaggi.» Professor Cane: «Questa non è altro se non l’istintiva sensibilità del gatto. Anche il fatto che invade le case altrui è semplicemente sintomo della sua natura subdola. Come animale domestico il gatto è selvatico e rozzo, il cane si adatta meglio alla vita degli umani. Non sarebbe sbagliato dire che il cane è più evoluto del gatto.» Professor Gatto: «Il gatto non ha mai avuto bisogno di sottostare a un processo di evoluzione, è sempre stato perfetto, fin dall’alba dei tempi. Pensaci bene: i cani non vedono i colori. Vuol dire che vivono in un mondo tutto grigio. Quant’è patetico vivere così?» Professor Cane: «Cosa? I cani non vedono i colori?» A quel punto il Professor Cane, insegnante d’arte, aveva assunto un’aria
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di sconfitta. Il Professor Gatto, che poi sarei io, era rimasto sul vago: non era sicuro al cento percento che i cani non potessero vedere i colori. Forse l’aveva letto da qualche parte, o qualcuno gliel’aveva detto, o forse l’aveva solo sognato. Insomma, l’aveva detto senza pensarci troppo. La disputa tra i due professori era durata per diversi incontri. Era naturale che, mentre discutevano sui più minuziosi dettagli del loro dibattito, i due condividessero il cibo e il prelibato sake del piccolo ristorante. Mentre scrivo tutto ciò devo ammettere che io, il Professor Gatto, avessi all’epoca delle opinioni nettamente in favore dei gatti. Però poi ho sentito dire in giro che, dopo le nostre discussioni, il Professor Cane si è preso un gatto, e la cosa mi ha molto sorpreso. Il piccolo ristorante è bruciato a causa della guerra, e non ho più avuto alcun contatto con il Professor Cane. Però io ancora un cane non l’ho mai preso.
La natura dei gatti Non voglio vedere nessuno, non voglio parlare con nessuno, voglio stare da solo in santa pace: è una sensazione che provo spesso. E non si tratta di depressione, ho solo bisogno di fermarmi a riflettere su ciò che provo. Mi viene voglia di prendere un animale con me appena ne vedo uno, magari un gatto con una lunga coda bianca o nera. Non uno di razza straniera, un gatto da appartamento confinato in una stanza, ma uno di quelli giapponesi selvatici che gironzolano liberi all’aria aperta. […] Mi sono chiesto perché proprio un gatto. Credo che tra gli animali domestici sia quello con una vita più simile alla nostra. Vive al chiuso con gli umani, mangia le loro stesse cose, dorme nel loro stesso letto. Nonostante ciò, non ha un carattere servile come quello del cane. Se vuole qualcosa, se ne ha voglia, il gatto si avvicina facendo le fusa; ma se non ha bisogno di niente, se non è dell’umore giusto, non risponde se lo si chiama, si gira dall’altra parte e va via. Si dice che i gatti riescano a leggere le espressioni delle persone, ma accade più molto più spesso che decidano di ignorarle. Si rannicchiano negli angoli dei giardini, sul limitare dei portici, sopra le scrivanie e stanno lì, immobili. Sognano solitari: non vogliono vedere nessuno, non vogliono parlare con nessuno. E con gli occhi chiusi sognano la natura selvatica propria degli animali carnivori: c’è qualcosa nei gatti che non può essere addomesticato. Questo loro modo di essere l’ho sentito un po’ mio. Quando non voglio incontrare nessuno, parlare con nessuno, quando voglio solo restare da solo, ciò su cui rifletto è di carattere etico, convenzionale, terreno. Eppure, nel profondo sento l’esistenza di una natura selvatica che scalpita, un qualcosa che non può essere addomesticato dalla morale o dalle convenzioni sociali. È lì, all’interno di questa selvaticità che molto spesso nascono i germogli dell’arte. Quello che rende l’arte una forma creativa è il fatto che viene realizzata proprio
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a partire da questa profonda, indomabile selvaticità. Se così non fosse, l’arte perderebbe l’elemento della creatività e il suo potere vitale finirebbe per svanire. […] Di recente, grazie alla gentilezza e all’aiuto di un conoscente, sono riuscito a prendere un gatto con una lunga coda bianca e un occhio dorato. È nato il giorno di Capodanno, si è molto debilitato per il gran caldo all’inizio dell’estate. E anche se si è abituato bene alle persone e gioca spesso con loro, altre volte ignora chiunque, disprezza qualsiasi cosa e si lascia trasportare da sogni che vengono dalla parte di sé non addomesticata. Anche io, mentre lo osservo distrattamente, mi perdo in fantasticherie che vengono da una parte di me che non può essere addomesticata. Di questi sogni, di queste fantasie, quanti restano dentro di lui? Quanti sopravvivono dentro di me? Sento per il mio gatto e per me una forte gioia. E quando questa gioia smetterà di avere della negatività al suo interno e diventerà del tutto positiva, allora forse riuscirò a mettere nero su bianco tutta la creatività celata dentro di me.
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NEKO a cura di Giada Zaccardi TEMPO DI LETTURA 8’
In giapponese, “gatto” si dice neko (猫) e in questo numero di Kotodama ho deciso di affrontare alcuni modi di dire o proverbi che vedono protagonista il gatto. Ho cercato di indicare anche una traduzione letterale per permettervi di comprendere il nesso tra le parole e il significato che viene attribuito convenzionalmente a quella specifica espressione.
1. 猫足 nekoashi (letteralmente “zampa di gatto”)
Può indicare la parte inferiore di una gamba di un tavolo, affusolata e arrotondata e bassa. Oppure il modo di camminare senza far rumore dei gatti.
2. 猫舌 nekojita (letteralmente “lingua di gatto”)
Questa parola sta a indicare una persona che si brucia facilmente la lingua se mangia o beve qualcosa di caldo.
3. 猫背 nekoze (letteralmente “schiena di gatto”)
Questa espressione viene utilizzata per indicare la forma della schiena curva e il collo che sporge in avanti.
4. 猫糞 nekobaba (letteralmente “letame di gatto”)
Questo modo di dire viene utilizzato per esprimere che si è nascosto un furto.
5. 熊猫 kumaneko panda (letteralmente “orso gatto”) Si tratta di un altro modo per dire panda in giapponese.
6. 猫を被る neko wo kaburu (letteralmente “indossare in testa un gatto”)
anche 猫被り. Questa espressione si usa per riferirsi a qualcuno che si finge buono, educato o timido, ma non lo è veramente.
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7. 猫の目 neko no me (letteralmente “occhi di
gatto”) Questo modo di dire viene usato per esprimere che le cose possono cambiare molto rapidamente (come gli occhi dei gatti si adattano velocemente alla luce o al buio
8. 猫の額 neko no hitai (letteralmente “fronte di gatto”). Si usa come metafora per dire che è un posto è molto piccolo, come la fronte del gatto che praticamente è inesistente.
9. 窮鼠猫を噛む kyuusoneko wo kamu.
“Un topo spaventato può mordere un gatto”. Per intendere che la disperazione rende coraggioso anche il più debole.
10. 鳴く猫は鼠を捕らぬ nakuneko wa mizumi wo toranu.
“Il gatto che miagola non cattura il topo”. Quindi, se non fa altro che miagolare non caccerà i topi. Forse simile al detto italiano: “Can che abbaia, non morde”.
11. 猫に小判 neko ni koban.
Si tratta di proverbio che esprime l’inutilità di dare qualcosa di prezioso a qualcuno che non ne conosce o capisce il valore. Forse simile al proverbio italiano: “Dare le perle ai porci”.
12. 猫の手も借りたい neko no te mo karitai.
“Vorrei prendere in prestito persino la zampa di un gatto”. Si intende quindi una situazione nella quale si è talmente impegnati che si arriva a desiderare qualsiasi aiuto, anche se di un gatto.
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Kotodama in libreria
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Le cronache dell’Acero e del Ciliegio Libro 1 - La Maschera del Nō di Camille Monceaux, pubblicato in Italia da L’Ippocampo Edizioni. Sebbene il fantasy sia un genere molto conosciuto e apprezzato, solitamente i volumi che vediamo pubblicati in Italia sono di ambientazione occidentale, tralasciando così una fetta di titoli e autori di fantasy orientali. Grazie ad alcune case editrici, però, negli ultimi anni stiamo assistendo all’arrivo di alcuni di questi titoli e a una riscoperta di sottogeneri fantasy diversi da quelli a cui finora eravamo stati abituati e portando così anche scrittori non-asiatici a cimentarsi nel genere. L’Ippocampo sceglie di portare in Italia la tetralogia Le Cronache dell’Acero e del Ciliegio di Camille Monceaux, autrice francese innamorata del Giappone. La sua passione l’ha portata a studiare e cimentarsi nella scrittura di un’avventura storico-fantasy ambientata nel Giappone del XVII secolo con protagonista Ichirō, un giovane samurai. Nel primo libro La Maschera del Nō vediamo raccontata la sua storia, dall’infanzia alla partenza per Edo, un libro sulle origini che getta le basi per l’avventura che verrà, mentre la maschera menzionata nel titolo fa riferimento a Hiinahime, una giovane e misteriosa ragazza che si nasconde dietro, appunto, una maschera del teatro Nō.
Il libro 2 La Spada dei Sanada sarà presto nelle librerie.
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Kotodama in libreria Io sono un gatto Si tratta del primo romanzo del celebre autore Natsume Sōseki, pubblicato nel 1905 e arrivato in Italia per la prima volta nel 2006. Da allora ha ricevuto diverse riedizioni, la più recente di Beat Edizioni, ma ne esiste anche una versione come graphic novel edita da Lindau. Si tratta della storia di un gatto, di cui seguiamo il punto di vista, che viene adottato da un insegnante di inglese. Vive così nella sua casa, da cui osserva la sua vita, analizza il comportamento umano e le sue vicissitudini, commentando tutto dal suo punto di vista “felino”.
I gatti non ridono In questo libro di Kōsuke Mukai pubblicato da Atmosphere Libri, protagonista è lo sceneggiatore alcolizzato Hayakawa, che ha ormai perso ogni ispirazione e trascina le sue giornate tra la casa e il bar. Questa routine è improvvisamente interrotta dalla telefonata della sua ex che gli chiede di andare a trovarla per dare un ultimo saluto a Son, il loro vecchio gatto, ormai prossimo a lasciare questo mondo. Hayakawa si offre così di badare a Son per non lasciarlo mai da solo. Tra tuffi nel passato, considerazioni sulla propria vita e sulle scelte fatte o meno, questa esperienza segnerà e cambierà le esistenze di tutti.
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Se i gatti scomparissero dal mondo Di lavoro fa il postino, mette in comunicazione le persone consegnando ogni giorno decine di lettere, ma il protagonista della nostra storia non ha nessuno con cui comunicare. La sua unica compagnia è un gatto, Cavolo, con cui divide un piccolo appartamento. I giorni passano pigri e tutti uguali, fin quando quello che sembrava un fastidioso mal di testa si trasforma nell’annuncio di una malattia incurabile. Nella disperazione, appare il Diavolo in persona, che gli propone un patto: un giorno in più di vita in cambio di qualcosa. Solo che la cosa che il Diavolo sceglierà scomparirà dal mondo. E se fossero i gatti? In questo libro di Einaudi, Kawamura Genki ci costringe a pensare a quello che davvero è importante: alle persone che abbiamo accanto, a quello che lasceremo, al mondo che costruiamo intorno a noi.
La mia vita con i gatti Noriko è una scrittrice sulla cinquantina da qualche tempo bloccata sul nuovo libro che sta scrivendo, e nulla sembra andare per il verso giusto. Alla ricerca di una svolta, fa visita a un santuario shintoista e sussurra: «Dammi la felicità». Il giorno dopo, quasi fosse un segno soprannaturale, trova una gatta randagia che sta dando alla luce una cucciolata! Nessuno nel vicinato è disposto a prendersi cura dei gattini appena nati: inizia così la sua convivenza con questi animali di piccole dimensioni ma capaci di portare un grande cambiamento nella vita di Noriko. Con la sua delicatezza, Morishita Noriko mostra piccoli e grandi cambiamenti quotidiani, con un racconto universale in gradi di conquistare lettori in tutto il mondo. In Italia edito da Einaudi.
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Cronache di un gatto viaggiatore Nana è un gatto randagio che vive di espedienti, ma viene adottato da Satoru con cui nasce un’amicizia speciale che riempie la vita di entrambi. Quando però Satoru deve trasferirsi e non può più occuparsi di Nana, i due decidono di fare un viaggio, su una vecchia station wagon color argento, per trovare un nuovo padrone tra le amicizie di Satoru. Cronache di un gatto viaggiatore di Hiro Arikawa è un caso editoriale che dal Giappone ha raggiunto tutto il mondo, arrivando in Italia grazie a Garzanti.
Il gatto che voleva salvare i libri La libreria Natsuki è un luogo speciale, ma è ora è sull’orlo del fallimento e Rintaro deve fare a meno della saggezza dolce del nonno, il vecchio proprietario. Un giorno entra in libreria un gatto parlante, che convince il ragazzo a partire per una missione molto speciale: salvare i libri dalla loro scomparsa. Inizia così la storia di un’amicizia magica in questa avventura tra labirinti e l’importanza della lettura, scritta da Sōsuke Natsukawa ed edito Mondadori.
Abbandonare un gatto È il primo memoir del grande autore giapponese Murakami Haruki, edito da Einaudi. Nei suoi romanzi e racconti Murakami ha creato un’infinità di mondi, e ne ha svelato ogni segreto ai lettori. Ma c’è una dimensione in cui la sua penna non si è quasi mai avventurata: la sua vita. Qui Murakami scrive per la prima volta della sua famiglia, e in particolare di suo padre.
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Kotodama in gioco NEKO-IN
Gattini che giocano a nascondino a cura di Alessia Trombini
Da tempo, ormai, in Giappone si è diffusa una vera e propria mania per i gatti: grassocci, sornioni e con le zampette rosee, hanno letteralmente conquistato la quotidianità di tanti giapponesi, come nel resto del mondo. Per questo vi suggeriamo di provare Neko-In, un party game da 3 a 6 giocatori in cui ognuno dovrà far sì che il gatto che lo rappresenta riesca ad appropriarsi di tutti i suoi nascondigli, evitando di essere spedito in giardino. Al centro del tavolo sarà posizionata proprio la plancia del giardino, mentre ai giocatori verrà assegnato un gatto colorato e la relativa stanza della casa. Inoltre, ciascuno riceverà dei segnalini zampetta, con simboli sul retro corrispondenti a quelli sulle formine presenti nelle varie stanze: ciascuna zampetta rappresenta un nascondiglio e il nostro gatto dovrà riuscire a rifugiarvisi, a volte anche azzuffandosi con gli altri, per salvarsi dalle pulizie del padrone! Neko-In dura solo 15-20 minuti ma si tratta di un ottimo gioco introduttivo, di facile comprensione e giocabilità, con qualche reference nerd nella sua estetica che non guasta mai. Sicuramente il gioco ideale per tutte le cat person là fuori, lo potete trovare presso il negozio online della casa editrice italiana Red Glove a un prezzo contenuto o su altri distributori di giochi da tavolo.
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Hajimemashite Carmen Borrelli. Nata a Napoli nel 1995. Iscritta al corso di Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”, ha svolto un anno di scambio a Tokyo, alla Keio University. Gestisce da quattro anni un blog, Nessun cancello, nessuna serratura, strettamente collegato al suo profilo Instagram (@lilyj2202), citato in Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020). Tra i suoi progetti, La tua, Virginia ha portato sui social, grazie anche alla collaborazione con la Italian Virginia Woolf Society, la lettura dell’epistolario di Virginia Woolf. Ha fondato Kotodama insieme a Dafne Borracci e oltre a scrivere gestisce le pagine social.
Dafne Borracci. Nata a Firenze nel 1996. Nel 2013 ha frequentato il quarto anno di liceo a Ashiya, in Giappone. Nel 2018 ha vinto la borsa di studio MEXT Undergraduate e attualmente frequenta la facoltà di Lettere all’Università di Kyoto. Sui social parla di letteratura e storia giapponese attraverso il suo profilo Instagram, @dafneborracci, e il suo blog, Mai una soya. Periodicamente, pubblica la traduzione in italiano del romanzo di epoca Heian Torikaebaya Monogatari tramite newsletter. A luglio 2020 ha pubblicato il suo primo ebook Ikiryō - Spiriti viventi del folklore giapponese. Ha fondato Kotodama con Carmen Borrelli.
Damiana De Gennaro. Nata a Vico Equense nel 1995, è laureata in Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”. Iscritta alla magistrale presso lo stesso ateneo, ha svolto un anno di scambio in Giappone, presso l’università Tōhoku. Ha pubblicato Aspettare la rugiada (Raffaelli, 2017), opera finalista al Premio Rimini, e Shibuya Crossing (Interno Poesia, 2019). Sue poesie sono ospitate su varie antologie, tra cui Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90.Vol. I (Interno Poesia, 2019) e Abitare la parola. Poeti nati negli Anni Novanta (Ladolfi, 2019). Alcune traduzioni delle sue poesie in spagnolo, inglese e sloveno si trovano online sulle riviste Libroamerica, Literalidad, Círculo de Poesía, Centro Cultural Tina Modotti, Otata, e il blog di Primož Sturman. Collabora con la rivista di poesia Mosse di Seppia e fa parte della redazione di Kotodama.
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Guendalina Fanti. Nata a Bologna nel 1992. Si è laureata in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia presso l’Università di Bologna, trascorrendo un periodo di scambio presso l’Università Sorbona a Parigi con la borsa di studio Erasmus. Dopo un periodo di studio in Spagna si trasferisce in Giappone per approfondire lo studio della lingua e ha fatto di quest’ultimo la sua casa. Attualmente vive a Osaka da dove condivide consigli di viaggio e racconta la vita quotidiana senza filtri tramite il suo account Instagram @lamiakyoto e sul sito web www.lamiakyoto.com. Per Kotodama segue la rubrica Nihon no Honto.
Donatella Principi. Nata a Rimini nel 1991, è laureata in Acquacoltura e Igiene delle Produzioni Ittiche. Nel 2014 apre il canale YouTube e il profilo Instagram @Chibiistheway dedicati a libri, fumetti, lifestyle e alla sua passione per il Giappone, insieme all’omonimo blog. Ha collaborato con VVVVID, il canale YouTube di Animeclick.it, LegaNerd e RedCapes realizzando video e articoli dedicati al fumetto e all’animazione giapponesi. Nel 2018 partecipa al programma radiofonico Pandora di Rai Radio 2 per consigliare libri e fumetti agli ascoltatori ed è ospite a Lucca Comics and Games del panel Comics Instagrammer per parlare del rapporto socialfumetto. Nel 2019 è stata selezionata fra i 16 Bookinfluencer più influenti scelti dagli allievi del Master BookTelling dell’Università Cattolica di Milano. Appare nel libro Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020) e per Kotodama segue la rubrica Manga Café.
Giada Zaccardi. Nata a Roma nel 1986, è laureata in giurisprudenza e ha conseguito l’abilitazione di avvocato. Durante l’esercizio della professione intraprende lo studio della lingua giapponese, che deciderà di proseguire iscrivendosi alla laurea magistrale in Lingua, economia e istituzioni del Giappone all’università “Ca’ Foscari” di Venezia. Nel 2019 fonda il progetto のど nodo (www.nodonodo.com e su Instagram: @nodo_no_do), per promuovere la diffusione delle lingua e della cultura giapponese in Italia. Attraverso questo progetto organizza numerosi eventi, tra cui Tokyo art in Rome nel 2019, e impartisce lezioni di lingua e cultura giapponese. Per Kotodama segue la rubrica Kotobar, approfondendo termini peculiari della lingua giapponese.
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Loris Usai. Nato a Roma nel 1986, all’età di sei anni disse alla madre: “Voglio vivere in Giappone”. Inseguendo il sogno di bambino, si è laureato in lingua e cultura giapponese all’Università di Roma “La Sapienza” e ha proseguito gli studi magistrali presso l’Università Statale di Milano. Si reca in Giappone con una borsa di studio MEXT (2012-2013) per ricerche sul tema delle minoranze sessuali e di genere all’Università Meiji di Tokyo, e non sarebbe più rientrato. Vive a Tokyo dove lavora come traduttore di romanzi, light novel e manga. Su Instagram @rorisu_in_japan e sul suo sito web www. rorisuinjapan.com condivide scorci di vita quotidiana giapponese, riflessioni linguistiche e news a tema LGBTQ+.
Sara Odri. Nata a Frosinone nel 1993. Si è laureata in Lingue e Civiltà Orientali in lingua giapponese presso La Sapienza di Roma. Nel 2019 ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di frequentare per un anno l’Università Tohoku. Lì ha focalizzato la sua ricerca sugli autori bilingue giapponesi, in particolare Yoko Tawada e Minae Mizumura. Attualmente è iscritta al Master in Traduzione giapponese dell’Università La Sapienza.
Eleonora Badellino. Nata ad Alba (CN), nel 1992. Laureata presso l’Università’ di “Scienze Gastronomiche” di Pollenzo, dopo un’esperienza lavorativa nell’ambito Food in Italia e in America, arriva in Giappone dove partecipa a due progetti incentrati sullo studio e tutela del washoku, presso la città di Tsuruoka, prefettura di Yamagata (riconosciuta come “Unesco’s City of Gastronomy”), e Kanazawa, prefettura di Ishikawa. Vive in Giappone da due anni e per hobby gestisce una pagina Instagram @EveryDayObento e un blog DaidokoroLabo incentrati sulla gastronomia giapponese e non solo. Ha collaborato con la rivista The New Gastronome, con il magazine online Savvy Tokyo e per Kotodama segue la rubrica Obento.
Giorgia Lombardo. Nata a Vittoria (RG), nel 1996. Dopo essersi laureata all’Università di Catania in Mediazione Linguistica e Interculturale, si trasferisce a Roma per specializzarsi in lingua giapponese. Frequenta attualmente la facoltà di Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università di Roma “La Sapienza” e sogna di diventare traduttrice di manga. Alla passione per il Giappone, affianca quella per l’illustrazione e nel 2018 apre la pagina instagram @midoriart8 dove pubblica le sue illustrazioni di vario tema. Per Kotodama si occupa della copertina e di alcune illustrazioni.
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Giulia Licciardello. Nata a Catania nel 1994, si laurea in Lingue e Culture Orientali e Africane all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” con percorso dedicato all’Estremo Oriente. Nel 2019 frequenta il master in Editoria dell’università di Verona e si specializza nel campo redazionale. Lavora come proofreader e correttrice bozze per GateOnGames e per Panini Comics e si occupa anche di progetti freelance. Nel tempo libero si dedica alla scrittura creativa e al suo profilo Instagram @hikari_monogatari. Ha pubblicato l’antologia di racconti Ricette d’amore e la novella A Bolt out of the Blue, entrambi disponibili su Amazon. Al momento si occupa dell’antologia di racconti ambientati in Asia Le Cronache del Drago e del Pugnale. Per Kotodama si occupa di coordinamento editoriale, proofreading e delle pagine social.
Chiara Zennaro. Nata a Bologna nel 1996 ma cresciuta a Chioggia (VE). Nel 2014 inizia una laurea in Studi Cinematografici e Scienze della Comunicazione al King’s College London. Si trasferisce in Giappone nel 2019 per uno scambio all’università di Kyoto dove consegue la laurea nell’agosto 2020. Ora vive e lavora a Tokyo come aiuto regista (AD) per la TBS, una stazione televisiva giapponese. Cinefila con una passione per le lingue, per Kotodama si occupa della rubrica sul cinema giapponese Akushon!
Alessia Landolfi. Nata a Sorrento nel 1996. Si laurea nel 2019 in Scienze della Comunicazione conseguendo in contemporanea un diploma di Cinema d’Animazione presso l’Accademia Nemo di Firenze. Inizia un percorso magistrale in Design, Comunicazione Visiva e Multimediale presso La Sapienza. Nel 2020 ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di studiare per un semestre a Zagabria, in Croazia. Si laurea a dicembre 2021 con un progetto animato sull’inquinamento marino. Ha la passione per l’arte, la grafica e l’animazione. Nel tempo libero si dedica alla sua pagina Instagram @alesh_art e al suo portfolio. Si occupa da questo numero dell’impaginazione per Kotodama.
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Riferimenti bibliografici Per approfondire in lingua giapponese sull’articolo Neko: https://nekojiten.com/wp/neko-kotowaza/ http://kotowaza-allguide.com/keyword/ne/neko.html Per visitare il sito web del Neko Café menzionato in Nihon no honto, Save the Cat e altre informazioni: https://www.savecatcafe.net https://www.theguardian.com/world/2016/apr/22/japanese-cat-cafe-closed-down-over-neglect-fears https://blog.gaijinpot.com/why-you-shouldnt-go-to-an-animal-cafe-in-japan/ Per la stesura di “Neko Bungaku o di gatti nella letteratura giapponese” si ringrazia: [1] “Gatti giapponesi: ritratti felini dagli inizi del Novecento ai giorni nostri” a cura di Diego Cucinelli, Cada dei libri Editore, 2015. [2] https://www.japantimes.co.jp/culture/2014/05/31/books/book-reviews/modern-cat-tale-echoes-former-feline-fiction/
Per la breve biografia di Yoshio Toyoshima e le traduzioni delle storie brevi sono stati utilizzati i seguenti riferimenti: https://www.city.asakura.lg.jp/www/contents/1297057754577/index.html https://www.aozora.gr.jp/cards/000906/files/42583_22670.html https://www.aozora.gr.jp/cards/000906/files/42517_22733.html Le fotografie alle pagine 10, 19, 30 sono di @janullob. Le fotografie alle pagine 22, 38-39, 44, 48, 55 sono di @cri_p92.
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Kotodama è un’idea che nasce l’estate del 2020, da una conversazione tra Carmen Borrelli e Dafne Borracci. In un contesto internazionale che vede il sapere assumere forme sempre più fluide, lo scopo della redazione è quello di incoraggiare, anche attraverso i social, lo scambio di discorsi tra persone impegnate in uno studio continuativo di lingua e letteratura giapponese. Attraverso le rubriche cerchiamo di cogliere diverse sfaccettature della cultura giapponese, dagli aspetti più gradevoli a quelli più ambigui e problematici. La pubblicazione è a cadenza trimestrale. Per contribuire con un proprio articolo, è possibile scrivere a kotodama.rivista@gmail.com.
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