Kotodama 01 - Incrocio di Culture

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MAR 2021 NUMERO 1 コトダマ

KOTODAMA Incrocio di Culture


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Spirito giapponese, occhi occidentali Se decidessimo di tornare indietro nel tempo, nello specifico alla fine dell’800, per prendere un caffè in un bar di Berlino, potremmo incontrare un giovane Mori Ōgai alle prese con dei libri di anatomia. Se invece ci spostassimo nelle strade grigie ma piene di fermento di Londra, ci potrebbe capitare di incontrare un Natsume Sōseki ansioso e nostalgico della sua terra. Ōgai, Sōseki e tanti altri cittadini giapponesi sono stati agenti attivi del Wakon Yōsai: Spirito giapponese e Tecnica Occidentale. In un momento storico in cui il Giappone si ritrova a dover trovare il proprio posto nel mondo, era d’obbligo imparare il più possibile dall’Occidente e “tradurre” il tutto in giapponese. Di anni ne sono passati e, sicuramente, il Giappone non ha più bisogno di dimostrare il suo valore all’Occidente. Al contrario, è l’Occidente che spesso sente la necessità di un confronto, tenta in tutti i modi di svelare ciò che di più segreto e criptico il Giappone possiede: il suo spirito. È tale necessità che obbliga gli equilibri a invertirsi, l’osmosi cambia forma: Wakon Yōsai diventa Wakon Yōme, Spirito giapponese e Occhi Occidentali. In questo nuovo numero di Kotodama vi parleremo dell’incontro di culture, quello che porta a un arricchimento; un incontro che è quindi sinonimo di creazione e non costruzione. Proprio sulla base di questo scambio, il numero ospita gli articoli di nuove collaboratrici e collaboratori. Si è potuto così parlare di costruzioni storiche nell’articolo di Chiara Rita Napolitano e di invenzioni razziali in quello di Francesca Paola Liberti, per passare alla lettura di Murakami nel contributo di Maria Menduni, fino a ricevere un punto di vista artistico con l’articolo sul japonisme di Elena Fabbretti. Per Kotodama in libreria, Maria Alessia Nanna ci ha parlato di Suga Atsuko, mentre Andrea Matafora – che ringraziamo anche per la stesura di questo editoriale – di Will Ferguson. Ancora, un contenuto speciale di questo numero è un articolo in giapponese dalla professoressa Ehara, insegnante di lingua residente a Tokyo, che ci ha raccontato una sua esperienza di scambio in Cina. Speriamo che questa possa essere anche un’occasione per leggere in lingua. Ma Kotodama non si ferma qui. Parlando sempre di scambi culturali, si parlerà di quelli vissuti proprio da Sōseki e Ōgai, prima menzionati. La nuova rubrica di Loris Usai, La tribù delle rose, ci parla della fusione di genere nelle arti performative giapponesi. Nella traduzione inedita di questo mese, poi, possiamo leggere di una giovane Okamoto Kanoko in visita alla Cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze. Un racconto quasi speculare a quello di Angela Carter tradotto, invece, dall’inglese e disponibile per la prima volta in italiano. Per Tsuyu si parla di Itō Hiromi, poetessa displaced per cui la questione del linguaggio è urgente e dolorosa. E la lingua che cambia, che non è mai fissa, è l’oggetto del nuovo articolo di Kotobā, accompagnato dai fiori di ciliegio simbolo della primavera e del Giappone. L’ospite di questo numero, poi, Laura Imai Messina, ha fatto del giapponese il suo nuovo mondo. Si passa poi a una riflessione contemporanea con l’articolo di Nihon no hontō: si può ancora parlare di confini? Infine, ma mai per importanza, si parla di Giappone nel fumetto italiano per Manga Café, mentre la ricetta di questo numero per Kyō no obentō è la Doria. Buona lettura!

- La Redazione

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La redazione Kotodama - Numero 1 - Anno 1 - Cadenza Trimestrale Direttore editoriale Carmen Borrelli e Dafne Borracci Redattori Carmen Borrelli Dafne Borracci Damiana De Gennaro Donatella Principi Eleonora Badellino Giada Zaccardi Guendalina Fanti Loris Usai A questo numero hanno partecipato Andrea Matafora Chiara Rita Napolitano Elena Fabbretti Francesca Paola Liberti Maria Alessia Nanna Maria Menduni Laura Imai Messina Ehara Kiyomi Illustrazioni, impaginazione e grafica Giorgia Lombardo e Giulia Licciardello Proofreading e coordinamento editoriale Carmen Borrelli Dafne Borracci Damiana De Gennaro Giulia Licciardello Responsabili social e comunicazione Carmen Borrelli e Giulia Licciardello La copertina è realizzata da Giorgia Lombardo @midoriart8 Segui Kotodama su


Sommario Studenti di scambio di altri tempi: Sōseki, Ōgai e Kafū in Occidente 7 Il Giappone non esiste

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Panorama con peschi: racconto breve di Okamoto Kanoko 13 Il Giappone nel fumetto italiano

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Raccontare il Giappone

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Japonisme mania

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La lingualuce di Itō Hiromi, ecc.

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I confini non esistono (più)?

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Non abbastanza orientale: Murakami e la ricercadell’identità 32 Yoshoku e Doria

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L’incontro e la fusione di genere nelle arti performative giapponesi 38 L’invenzione dei “gialli” e il razzismo scientifico

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ことバー

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Latte e sangue, Goffredo Parise e Yasunari Kawabata

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La pelle e lo specchio – un racconto inedito di Angela Carter 48 生け花とコロッケ

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Ikebana e crocchette

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Kotodama in Libreria

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Hajimemashite

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Riferimenti bibliografici e ringraziamenti

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Studenti di scambio di altri tempi: Sōseki, Ōgai e Kafū in Occidente a cura di Carmen Borrelli

L’arrivo del commodoro Perry e la conseguente apertura forzata del Giappone all’Occidente hanno portato dei cambiamenti epocali all’interno del Giappone. Il periodo Meiji (1868-1912), però, non ha segnato una trasformazione solo a livello politico o economico: ha cambiato radicalmente la vita stessa dei giapponesi. Se potessimo tornare indietro nel tempo per viaggiare nel Giappone di epoca Edo (1603-1868), resteremmo profondamente sconvolti: è ovviamente normale che le città cambino e crescano, ma oggi possiamo dire con una certa sicurezza che se il commodoro Perry non fosse arrivato nella baia di Edo nel 1853, oggi Tokyo e l’intero Paese sarebbero completamente diversi – e non solo esteriormente. Per fare in modo che il Giappone imparasse quanto più possibile dall’Occidente, avanzato tecnologicamente e avanti politicamente, il governo giapponese inviava all’estero personaggi illustri o persone che si erano particolarmente distinte nel loro campo di studi. Nel 1900 uno di questi fu proprio Natsume Sōseki. Sōseki ricevette dal Ministero dell’Educazione un invito a recarsi in Inghilterra per studio. Sebbene formalmente si trattasse di un invito, non poteva assolutamente rifiutarlo, per quanto l’idea gli sembrasse molto allettante. La personalità e il carattere di Sōseki, infatti, non erano dei più semplici: l’infanzia a dir poco travagliata gli aveva lasciato in eredità uno stato di ansia e di inadeguatezza costante. Nonostante avesse già ricevuto numerosi riconoscimenti nei suoi studi – la sua materia di specializzazione era lingua e letteratura inglese – non si considerava mai abbastanza bravo, ulteriore motivo per rifiutare l’invito del governo. Il suo soggiorno in Inghilterra era parte di un progetto governativo che mirava a formare giapponesi che potessero sostituire gli oyatoi gaikokujin, i consulenti stranieri che, con un sistema fondato nel 1874, venivano chiamati dall’Occidente per trasmettere le proprie competenze al Giappone. Nel 1899 questa pratica era stata interrotta, e ci si

voleva adesso concentrare sull’invio dei giapponesi all’estero. Nel caso di Sōseki lo scopo della sua borsa di studio era apprendere l’inglese e i metodi di insegnamento della lingua, anche se lui ottenne la possibilità di concentrarsi sullo studio della letteratura. Proprio come uno studente Erasmus dei nostri giorni, però, le difficoltà economiche, unite a una sua concezione piuttosto peculiare dello studio della letteratura, resero Sōseki vittima di un esaurimento nervoso. Già dalle lettere del suo viaggio per nave, traspare noia e indifferenza per il cibo e per le abitudini straniere. Si sente anche fisicamente inferiore rispetto agli occidentali: uomini e donne sono alti, hanno carnagioni chiare e vestono con eleganza. Sempre nelle lettere, troviamo la descrizione di alcuni episodi, come quello del funerale della regina Vittoria quando, a causa della sua bassa statura, non riesce a vedere il passaggio del carro funebre e, per questo, un suo amico deve prenderlo sulle spalle. A questo proposito, Il diario di una bicicletta e altri racconti offre un importante documento sulla sua vita a Londra. Nonostante soffrisse di gravi problemi psichici, Sōseki qui descrive in maniera autoironica l’esperienza di andare per la prima volta in bicicletta: con grande umorismo, si vede come una sorta di guerriero che combatte contro la bicicletta e il traffico frenetico di Londra. Esperienza completamente opposta, invece, è quella di Mori Ōgai che, appena ventiduenne, riceve una borsa di studio per andare a Berlino come studente di igiene. Ōgai, però, non si ferma solo a questo. Grazie alla posizione di ufficiale dell’esercito e ad aiuti economici molto più consistenti, partecipa a 7

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eventi sociali e mondani, frequenta caffè e circoli culturali, spettacoli teatrali e musicali; prende parte a conversazioni in tedesco, inglese, francese e spagnolo, resta affascinato dalle note di Wagner e dal Faust di Goethe. Il ritorno in Giappone, dopo quattro anni in Germania, è traumatico, ma nonostante il cambiamento drastico rimane fedele alla sua missione e cerca di tramandare i suoi insegnamenti. Quando Ōgai arriva a Berlino nel 1884, il Romanticismo era un movimento letterario dai canoni ben fissati e riconoscibili. Le sue prime traduzioni dal tedesco, insieme ai racconti pubblicati ricalcano proprio questa corrente, perché si ritrovava negli ideali romantici, che mettono al primo posto l’individuo e il rispetto per la storia. Al ritorno dalla Germania, Ōgai pubblica la raccolta “Doitsu sanbusaku” (La trilogia tedesca), “Utakata no ki” (Racconti di vite effimere), “Fumizukai” (Il portalettere). Questi racconti sono parzialmente autobiografici perché basati, almeno in parte, su fatti accaduti a Ōgai mentre si trovava in Germania. Un’altra opera importante è il “Doitsu nikki” (Diario tedesco) che anche oggi viene letto come documento importantissimo per le informazioni sulla Germania dell’epoca. Nonostante il suo amore per il progresso e la sua magnifica esperienza all’estero, Ōgai viene sempre considerato un conservatore. Il progresso è l’elemento fondamentale, non l’Occidente. Il Giappone, infatti, da un punto di vista culturale, non ha bisogno di importare niente dal suo vicino. La contrapposizione tra Occidente e Giappone per lui non è conflittuale, perché entrambi hanno da imparare l’uno dell’altro.

Ōgai resterà un punto di riferimento per moltissimi scrittori a lui successivi, ma soprattutto sarà un maestro per Nagai Kafū . Tra i due ci sarà sempre un rapporto molto stretto e infatti Ōgai pubblica proprio su Mita bungaku, rivista fon-

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data da Kafū, “Fushinchū” (In ricostruzione). Il protagonista di quest’opera è appena rientrato in Giappone dopo anni trascorsi in Germania. Quando lo raggiunge la sua amante tedesca, i due vanno a cena in un ristorante giapponese. Lei, che non conosce la cultura giapponese, cerca di baciarlo proprio nel momento in cui il cameriere entra nella saletta, senza annunciarsi e senza rispettare la privacy della coppia. Koko ha nihon da, “Questo è il Giappone”, dice il protagonista. È una frase che funziona da rimando: non si trovano più in Europa, bensì in Giappone, un paese che è, appunto, in una fase di ricostruzione e che deve ancora trovare la sua identità. Kafū ha forse una posizione più estremista rispetto ai precedenti, anche rispetto a Sōseki. Profondamente critico nei confronti della restaurazione Meiji, rimprovera la superficialità della modernizzazione: secondo Kafū, il Giappone sta imitando pedissequamente l’Occidente, sta rinnegando le proprie tradizioni per inseguire quelle di un altro paese, senza attuare una trasformazione sociale. Grazie alla sua esperienza a Lione, Kafū capisce che in Occidente è importante il senso della storia. È “un posto che sa di passato”, come scrive in “Kichōsha no nikki” (Il diario di un rimpatriato). Fondamentale è anche la sua esperienza negli Stati Uniti, che confluisce in “Amerika monogatari” (Storie americane). L’America non è patria dell’antichità, ma è un paese giovane, un paese di immigrati che conservano nel proprio cuore una nostalgia atavica verso la loro terra natìa. Anche loro, quindi, riconoscono un valore alla storia e al passato. Deluso dal Giappone contemporaneo, Kafū riscopre la cultura del periodo Edo e scrive “Sumidagawa” (Il fiume Sumida). Camminando lungo il fiume Sumida, che durante il periodo Meiji è metafora di continuità con la tradizione Tokugawa, il protagonista ripercorre Tokyo seguendo l’antica mappa di Edo. Ancora oggi, chi è stato in Giappone riesce a percepire questo strappo. Camminando tra i quartieri più moderni di Tokyo, accanto al grattacielo, si trova il piccolo tempio shintoista; dietro l’immenso centro commerciale PAR-


CO, ci sono ancora i piccoli e sporchi ramen ya. Si può solo intuire se quest’ambivalenza è un tratto dell’identità giapponese, o è il resto di una confusione che risale dal periodo Meiji. D’altronde, koko ha nihon da.

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Il Giappone non esiste a cura di Chiara Rita Napolitano

«Di fatti, tutto del Giappone è pura invenzione. Non esiste questo paese, non esistono queste persone...» - Oscar Wilde Wilde scrive questa frase pochi decenni dopo che Europa e Giappone hanno cominciato a lanciarsi le prime occhiate reciproche. La formulazione risulta inevitabilmente provocatoria, ma cela in realtà una brillante intuizione sui tempi in cui viveva lo scrittore: ciò che vediamo del Giappone – ciò che arriva nelle nostre case sotto forma di ceramiche, sete pregiate, xilografie, favolistici resoconti di viaggio – tutto questo non è il Giappone. Certo, ne è una parte; ma una parte che si erge a rappresentanza del tutto lo mistifica, lo appiattisce. L’affermazione del Japonisme nell’arte europea, la presenza di manufatti di ispirazione “orientale” nei salotti della nobiltà e dell’alta borghesia, la circolazione dei carteggi degli esploratori sono alcuni dei fattori che contribuirono al successo dell’icona Giappone nel panorama culturale occidentale. Quanto questa popolarità corrispondesse a un’effettiva comprensione del popolo giapponese è difficile da dire; Wilde sembra suggerire che il nipponismo dei suoi tempi non fosse molto più che un’idea di stile, un estetismo dal sapore esotico. La fascinazione per un Oriente misterioso e lontano, in cui il passo delle divinità risuona assieme alle litanie di riti arcaici, permea il passaggio tra Ottocento e Novecento, fino alla soglia dei conflitti mondiali. Nello stesso Paese del Sol Levante ribollono gli istinti nazionalistici, aizzati prima dall’imposizione dei Trattati Ineguali e poi dal colonialismo promosso dal governo giapponese, e il rapporto con l’Occidente viene attraversato da correnti intestine di gestione complessa. La Seconda Guerra Mondiale e il suo tragico bilancio in tutti i paesi coinvolti impongono una riflessione profonda sui rapporti tra culture e sulla percezione dell’altro. È in questo solco che il Giappone, pur impegnato in un alacre ricostruzione del paese, sceglie di investire sull’importanza dei viaggi. Le Olimpiadi di Tokyo del 1964 segnano un passaggio fondamentale nell’apertura al mondo occidentale, con la rimozione definitiva delle limitazioni ai viaggiatori d’oltreoceano; in concomitanza all’evento viene istituita per legge la Japan National Tourism Organization, il cui obiettivo è quello di attirare la presenza straniera per favorire la conoscenza della storia, della cultura e della società giapponese. Che il cultural power fosse un’arma fondamentale per i giochi di politica estera è un concetto che il Giappone ha dimostrato di aver elaborato molto bene. Nel corso dell’ultimo ventennio sono stati approntati una serie di piani, progetti e iniziative che hanno assunto il nome complessivo di Cool Japan, un sistema strategico imperniato sulla cultura pop broad sense, volto a cambiare la percezione che l’Occidente aveva del Giappone. L’esportazione massiccia di simboli, fumetti, prodotti multimediali – e il concomitante lancio di promozioni per favorire i viaggi, uniti all’apertura di “filiali” della JNTO all’estero – sono risultati nella brillante riuscita del piano, tanto da indurre più di un esperto a parlare di una forma di soft power, la capacità di uno stato di attrarre attraverso politiche culturali. Cool Japan ha influenzato in maniera determinante il modo con cui l’Occidente guarda al Giappone oggi, costruendo l’immagine di un paese tecnologico, pulito, che fa del concetto di armonia e di rispetto i cardini della sua identità. Basti pensare alla quantità di volumi a tema che vengono annualmente iniettati sul mercato editoriale – non più solo guide e romanzi, ma anche 10

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saggi, ricettari e zibaldoni di viaggio; ai molteplici canali Youtube e Instagram sui più variegati aspetti della cultura giapponese; al rapido diffondersi di prodotti multimediali con il loro bagaglio di simboli e immagini. Se un’attenzione simile non può che rallegrare chiunque ami e si interessi di Giappone, i suoi effetti collaterali vanno nondimeno esaminati e tenuti sott’occhio. Il rischio più grande, infatti, è che alcuni aspetti della tradizione nipponica, estrapolati dal loro contesto e ricoperti di una patina glamour, si trasformino inevitabilmente da cultura a prodotto culturale, causando un appiattimento e una semplificazione nella percezione del fruitore occidentale. Più concretamente: quante volte sentiamo dire “i giapponesi sono/fanno”, come se si trattasse di un unico blocco cementificato? Quante volte si tessono lodi della pacatezza e dei modi tranquilli, della serietà e abnegazione sul lavoro – come se ogni azienda giapponese fosse permeata dallo spirito di Marie Kondo? Da un lato la tendenza a sottolineare una supposta unicità del paese, dall’altro la mercificazione di alcuni aspetti che avrebbero bisogno di un approfondimento per essere interiorizzati – tutto questo fa sì che molte volte il Giappone venga dipinto a tinte monocrome, eviscerando quelle contraddizioni e quelle zone d’ombra che non raggiungono il visitatore occidentale. Ciò si traduce, purtroppo, in una narrativa “turisticizzante” che enfatizza sempre gli stessi aspetti: la tecnologia, l’armonia, la precisione. Eppure, per ogni quartiere della vorace Tokyo esiste un villaggio di campagna che vede i suoi giovani emigrare; per ogni stradina deliziosamente confezionata tra ciliegi e ruscelli, le scarpe degli impiegati che le percorrono dopo l’ennesimo snervante straordinario; per ogni pillola di wabi sabi, una persona che scompare ingoiata dal 蒸発 jōhatsu, un fenomeno sociale nascosto e complesso che porta la gente a “vaporizzarsi”, sparendo senza lasciare traccia, spesso per ricominciare una vita diversa altrove e sciogliendosi dai lacci della propria quotidianità. L’alternarsi di luci e ombre è parte della complessità di questo Paese, ma non sempre l’Occidente ne ha una chiara percezione. Se amare una cultura significa apprezzarne anche le contraddizioni e i chiaroscuri, è allora vero che il compito di uno studioso dovrebbe essere quello di proporre sempre – nel limite delle possibilità – un ritratto fedele e intellettualmente onesto, in cui trovino spazio l’eterea bellezza dei fiori di ciliegio e il cuore pulsante di un paese lontano ma reale – di quel Giappone che esiste davvero.

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すらすら

Panorama con peschi: racconto breve di Okamoto Kanoko L’autrice

a cura di Dafne Borracci Okamoto Kanoko (1889 – 1939, nome alla nascita Ōnuki Kano) è stata una scrittrice, poetessa e teorica del Buddhismo giapponese. Nata a Tokyo da una ricca famiglia di mercanti, durante l’infanzia fu cresciuta in campagna da dei parenti per via della sua salute cagionevole. Sarà proprio grazie alla governante di questa casa, istitutrice e dama di compagnia con molti anni d’insegnamento alle spalle, che entrerà in contatto con la letteratura classica, in modo particolare La Storia di Genji, e svilupperà una passione per la poesia waka. A 16 anni pubblica i suoi primi componimenti sul Joshi Bundan e sul Yomiuri Shinbun Bungeiran. L’anno seguente entra a far parte, insieme al fratello Shōsen, della Shinshisha (Società della Nuova Poesia), fondata dalla poetessa Yosano Akiko, e pubblicherà poesie moderne e waka sulle riviste Myōjō, Subaru e Seitō. In questi anni, casa Ōnuki sarà frequentata spesso dallo scrittore Tanizaki Jun’ichirō, amico del fratello, che tuttavia non riconoscerà mai pubblicamente il talento di Kanoko.

A 21 anni si sposa con uno studente d’arte di Tokyo, Okamoto Ippei, con cui poi va a vivere al secondo piano di un atelier di Akasaka. A 22 anni nasce loro figlio, Tarō, che nel Dopoguerra diventerà uno degli artisti più famosi del Giappone. Seguono anni difficili: Ippei sperpera gli averi di famiglia e nello stesso periodo l’autrice subisce alcuni gravi lutti familiari, tra cui la morte di due figli appena nati. Okamoto viene ricoverata per un anno in un ospedale psichiatrico. Segue un periodo in cui Ippei è sinceramente pentito per la sua condotta e concede alla moglie di far vivere l’amante, il giovane studente Horikiri Shigeo, sotto lo stesso tetto. Nel 1929, la famiglia Okamoto si trasferisce per un periodo in Europa. Inizialmente si stabilisce a Parigi per gli studi del figlio Tarō, e in seguito trascorre alcuni mesi a Londra e Berlino. Dopodiché, i coniugi e l’amante di Okamoto rientrano in Giappone passando per l’America. È in questo periodo che l’autrice e il marito iniziano le loro ricerche sul Buddhismo e diventeranno estremamente conosciuti in patria in quanto esperti della dottrina di Shinran. La fama di Okamoto Kanoko come studiosa del buddhismo la costringerà a rimandare la stesura dei primi romanzi al 1936, quando esordirà con il racconto ispirato allo scrittore Akutagawa Ryūnosuke, L’airone inferno. La produzione in prosa della scrittrice sarà prolifica quanto breve: morirà appena tre anni dopo la pubblicazione del primo racconto, nel 1939, a causa di un ictus. 13

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L’opera Okamoto Kanoko è stata un’autrice estremamente prolifica e versatile: la sua produzione vanta poesie, saggi, memorie e racconti in prosa. Grande estimatrice della letteratura classica giapponese, nei primi anni della sua carriera prediligerà la composizione di waka (5-7-5-7-7 more), una forma poetica tradizionale giapponese. Non è un caso: in quegli anni le autrici e le artiste vanno alla ricerca di una riscoperta di sé stesse e della propria spiritualità facendo un percorso artistico a ritroso, tuffandosi nelle origini dell’arte espressiva giapponese, alla ricerca dell’archetipo, dell’impulso originale da cui era nato il mito della dea Amaterasu e “la donna era il Sole”. Le protagoniste della produzione di Okamoto sono quasi sempre donne: viste dagli occhi altrui, misteriose e scalpitanti di vita, ma anche alle prese con se stesse e con la propria intimità, le proprie pulsioni e i propri tormenti. Nei suoi racconti traspaiono il profondo amore per l’arte e la letteratura, nutrita sin dalla tenera età dalla governante e dal fratello poeta, e la ricerca di una liberazione femminile sia spirituale che sessuale – eco della rivoluzione intellettuale innescata da Seitō, la rivista di Hiratsuka Raichō. Ma il tratto più distintivo della scrittura di Okamoto, è senz’altro la passione che traspare da ogni pagina. C’è qualcosa di tumultuoso e potente, una pulsione vitale che potremmo definire quasi “adolescenziale” e che sublima paesaggi, descrizioni e dialoghi. Nella traduzione che vi proponiamo in questo numero di Kotodama, Okamoto ricorda la malinconia provata durante gli ultimi anni da ragazza, l’accettazione della sua sinestesia e il rapporto salvifico con l’arte. Il racconto ci presenta la protagonista nella sua stanzetta di tatami e poi la segue giù per le periferie di Tokyo, fino a un boschetto di peschi in fiore che cresce poco distante dagli argini di un fiume. Le atmosfere squisitamente giapponesi si interrompono bruscamente per dare spazio a un’altra immagine, quella della protagonista che, un anno dopo, si commuove di fronte alla bellezza della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Ai suoi occhi il “Duomo” di Firenze, che è al tempo stesso un edificio di marmi variopinti e un fiore di velluto, costituisce la più alta rappresentazione artistica della sinestesia. Osservandolo, la giovane riesce finalmente a trovare un senso alla propria sensibilità e decide di affrontare la vita di petto. Il racconto si conclude con una frase emblematica: “Non importa quanto soffriamo, l’arte ci salverà sempre”. Sono parole dolcissime e colme di passione, rese ancor più significative dal fatto che sono state pronunciate da un’autrice profondamente amante delle arti tradizionali giapponesi, di fronte a uno dei massimi capolavori dell’architettura italiana. È uno dei piccoli, grandi miracoli che nascono quando due culture si incrociano.

Panorama con Peschi Non era né appetito per il cibo, né appetito sessuale. Non avrei saputo dire se le voglie che mi opprimevano da un punto indefinito, come raffiche di vento in fondo alla gola, fossero carnali o spirituali, ma mi facevano sentire continuamente assetata di qualcosa d’imprecisato. All’epoca vivevo in un mezzanino arredato a sala da tè nella casa dei miei genitori, nella periferia di Tokyo. Avevo preso l’abitudine di andare a letto senza neanche slacciarmi l’obi rosso, che tenevo annodato in modo semplice anche di giorno, e, perennemente in stato confusionale, tentavo di gestire quel senso d’insoddisfazione di cui non capivo la provenienza e che non sapevo come alleviare. Se qualcuno mi dicesse che la mia era solo una perversione derivata dall’appetito sessua14

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le, potrei anche rispondere che forse era davvero così. Bisogna pur sempre ammettere che, in effetti, ero proprio nella fase dell’adolescenza in cui questa spiegazione potrebbe essere più che valida. Ma, pur riconoscendo in questa affermazione un fondo di verità, pregherei chiunque voglia dare un nome al disagio che provavo in quel periodo, di pazientare e farlo il più tardi possibile perché, per me, quella sottile malinconia è tanto nostalgica quanto importante. Mamma si era assolutamente convinta che io fossi malata e, preoccupata per gli strani sintomi che presentavo, si prendeva cura di me. «Ti faccio dei kakimochi al forno serviti in una bella zuppa di pula bollente, perciò cerca di mangiarne un po’, va bene? È l’ideale per sciogliere i groppi in gola» ... «Preparo la vasca da bagno con i fiori essiccati di daphne. Mi raccomando, fatti un bel bagno! Sentissi che profumo! Scaccia via tutti i brutti pensieri...» Mamma non lo diceva, ma forse queste erano le cose che l’avevano fatta sentire meglio quando a sua volta, da ragazza, era stata depressa. Non doveva esserne cosciente, ma dai pasti che mi serviva avevo compreso che, fra tutti e cinque i sensi, era principalmente l’olfatto, seguito a ruota dal gusto e dal tatto, quello che aveva dato più filo da torcere al suo malessere. E non è che a me i suoi piatti dispiacessero. Però desideravo soddisfarmi con qualcosa di un po’ più omogeneo e, al tempo stesso, più puro e fresco. «Non c’è una bevanda in cui mi possa immergere fino al collo?» «Cosa non darei per ascoltare una canzone leggera come la pioggerella, da poter sfiorare con il dorso della mano!» Alla fine, mia madre gettò la spugna. «Mi tiri fuori l’ombrello da uomo? E anche i sandali, per favore! Vado a vedere i peschi di là dal fiume». Non si può dire che fossi totalmente a digiuno di uomini. All’epoca c’era uno studente d’arte che mi veniva a trovare dal centro quasi ogni giorno e che, a metà percorso, nei pressi di un caffè sulla riva opposta, apriva il cavalletto e si metteva a dipingere un po’ la sponda del fiume. Questo bel giovanotto si atteggiava un po’ da teppista, ma in fondo era un mansueto ragazzo di città. Io ero intenzionata a sposarlo, perciò non è difficile credere che mi piacesse parecchio. Tuttavia mi sentivo in colpa nei suoi confronti, perché mi era chiaro che non soddisfaceva che una parte delle mie voglie di quel periodo. La sua figura affascinante – ricordo un colletto di seta grigio intenso dalla fantasia disordinata – si mosse impercettibilmente sullo sgabello pieghevole del caffè. Quel giorno se ne stava seduto a un tavolo, sorseggiando del sakè. Io agitai la mano e gli feci segno di non azzardarsi a seguirmi; per tutta risposta lui ridacchiò e tornò a sorseggiare dal bicchiere. Io mi misi a percorrere a piedi la sponda del fiume. Non c’era nessuno nei paraggi, e da un lato giacevano in disordine pietre, canne e quant’altro serviva per creare i gabbioni che delimitavano gli argini. A me non sembrava che facesse particolarmente freddo, tuttavia, i falò nei pressi delle chiatte attraccate alla riva erano accesi. Tutto era di un colore bagnato, tanto che persino il fumo bianco che saliva verso il cielo sembrava fatto di uno strano liquido. Gli argini del fiume erano sigillati da una cappa di nebbia grigio perla al cui centro scorreva, rapido, un ampio corso d’acqua sporca. Nei punti in cui la banchina si era sgretolata, erano state incastrate delle scalette d’assi che, se scese, portavano in un campo di peschi. Mi 15

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fermai in quel punto: da lì potevo osservare, con una punta di repulsione verso il colore irruento dei suoi fiori, un boschetto di peschi in fiore che cresceva nel lembo di terra racchiuso tra la riva e parte delle pendici di una collinetta. Tuttavia, più lo osservavo, più mi sentivo rapita dalle foglie verdi pallide che spuntavano con aria solitaria in mezzo a quella distesa vermiglia di nuvole di fiori. Chiusi l’ombrello e mi addentrai fra quegli alberi. Nel momento in cui scelsi di farmi largo tra i fiori di pesco, mi dimenticai di ogni cosa. Una nuvoletta azzurrina e suadente, che sarebbe potuta benissimo essere anche un incantesimo color cipria, mi trapassò il kimono e la pelle e mi penetrò dentro, insieme a un sapore freddo e piacevole. Non sapevo bene in quale punto del mio corpo si trovasse la lingua che stava gustando quel sapore, ma c’era. Mi tornò in mente che quella varietà di peschi si chiamava “Denjūrō”, proprio come se fossero stati una persona, e lo trovai così divertente che scoppiai a ridere a crepapelle. La cosa fredda mi colpì in volto senza preavviso ma, senza darle peso, mi appoggiai all’ombrello chiuso e mi accovacciai sui talloni, per riprendere fiato. Posai il mento sulle mani strette intorno all’impugnatura dell’ombrello e mi misi in ascolto, in silenzio. Forse fu il mio istinto che mi fece prestare orecchio... Il luogo in cui si trovava il boschetto di peschi, era ricoperto del tipico terriccio sabbioso che si trova in gran quantità sulle rive dei fiumi, e i sandali che sorreggevano i miei piedi nudi stavano sprofondando poco alla volta in quell’arena umida di pioggia. Ascoltando il plip, plip delle gocce di pioggia che scivolavano giù dai fiori e cadevano sulla sabbia, un mondo di sogno incantato, grande e meraviglioso, in cui i cinque sensi si fondevano insieme, avvolse tutto quello che avevo intorno come un cuscino sofficissimo. La mia mente vi si immerse, e per un po’ rimase intorpidita. La stessa me che si era appena tuffata in quella sensazione d’estati, poco dopo passò di nuovo di fronte al bel giovanotto seduto nel caffè, agitò la mano e tornò a casa nella sua stanzetta nel mezzanino. A volte mi succedeva di desiderare di morire perché ero troppo diversa dal resto della gente. Tuttavia, non volevo mettere fine alle sensazioni che mi portavo dentro senza almeno averle messe prima nero su bianco. Fu questo il pensiero che mi impedì di porre fine alla mia vita. E anche quel giorno, alla scrivania, fu un vero piacere singhiozzare e piangere a dirotto. L’anno seguente, vidi la Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, in Italia. Questo santuario, eretto combinando marmi di tutte le sfu16

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mature, sotto i raggi del sole appariva al tempo stesso una gemma preziosa e un fiore dai petali di velluto. Era un santuario e un fiore allo stesso tempo. In quel luogo, la vita palpitava nella morte, e riuscivo addirittura a percepire un profumo così intenso da fare quasi male. Di fronte alla prova storica che esisteva un’arte fondata interamente sulle sinestesie, scorsi qualcosa di universale nella mia unicità e presi la decisione di stringere i denti e affrontare la vita. “Non importa quanto soffriamo, l’arte ci salverà sempre”, mi dissi.

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Manga Café

Il Giappone nel fumetto italiano a cura di Donatella Principi

Molti artisti italiani hanno subìto il fascino del Sol Levante, dalla sua tradizione e cultura fino al moderno manga la cui comparsa ha ispirato molti autori, che hanno attinto dal suo modo di narrare e vedere il mondo o dallo stile grafico facendoli propri. Il manga ha fatto la sua comparsa in Italia nei tardi anni 70 grazie alla messa in onda delle prime serie animate giapponesi fra cui Barbapapà, il primo in assoluto trasmesso nel 1976 su Rete 2 (oggi Rai 2), Vicky il vichingo e Heidi. Il loro grande successo ha fatto sì che le case editrici italiane iniziassero a pubblicare i fumetti da cui erano tratti questi anime. Nel giro di poco tempo il manga ha conquistato l’Europa e in particolare Italia e Francia. Questa “invasione” del fumetto giapponese non ha tuttavia intaccato la pubblicazione nazionale, al contrario ha reso più dinamico il mercato del fumetto. Le accademie esistevano già da tempo, ma negli ultimi decenni molti nuovi iscritti sono stati spinti dalla loro passione per il manga e l’animazione giapponese. Alcuni autori hanno assorbito il linguaggio e lo stile grafico nipponico, come Vincenzo Filosa, tra i maggiori esponenti del gekiga nel nostro paese. In Viaggio a Tokyo l’autore racconta il viaggio di un occidentale nella grande capitale giapponese e rende omaggio ai grandi autori del manga fra cui i fratelli Tsuge Tadao e Yoshiharu, Tezuka Osamu e Mizuki Shigeru. I riferimenti si evincono anche quando non vengono citati esplicitamente, lo stile di Filosa si mimetizza perché ha assimilato i canoni classici del fumetto giapponese fondendoli con la sua cultura calabrese. Viaggio a Tokyo non è però solo un omaggio, ma un racconto sgangherato e sincero dell’esperienza dell’autore durante il suo anno in Giappone. Da qui emerge un senso di inadeguatezza di fronte ai grandi maestri del fumetto e un’attenta osservazione dei temi attuali che toccano la quotidianità del protagonista quali l’integrazione, la dipendenza da droghe e il malessere sociale. Una caratteristica che distingue il fumetto giapponese è l’espressività dei personaggi, come le loro espressioni buffe o gli occhi grandi. I manga vengono letti velocemente, per cui è importante stabilire un contatto con il lettore attraverso le immagini e questo espediente viene spesso sfruttato anche da autori italiani, come Giacomo Bevilacqua che nella 18

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sua recente serie di successo Attica unisce tratti dello shōnen manga al suo personale stile. Attica è una città-stato moderna circondata da invalicabili mura che cinque ragazzi, dotati di straordinari poteri, tenteranno di abbattere per smascherarne l’illusione. Una serie fantasy contro la sovranità, la chiusura e la paura dello straniero. Il rimando al manga è presente nel tratto di disegno, nelle scene d’azione e nel formato editoriale che richiama il classico tankōbon. Angela Vianello è un altro esempio di come lo stile manga sia stato incorporato nel lavoro di un autore. La sua serie scifi Aeon ha un forte richiamo visivo e narrativo al fumetto giapponese ma è ambientata in Italia e vede per protagonisti due semplici adolescenti romani collegati a una misteriosa razza aliena. Da questa storia l’autrice ha anche realizzato l’anime di successo White, proprio come spesso accade in Giappone. Lo stile della Vianello richiama il manga negli occhi dei personaggi, grandi e languidi, nella loro rappresentazione visiva e caratteriale con le tipiche espressioni buffe ed esagerate del fumetto giapponese, ma c’è anche un’ispirazione europea nell’utilizzo del colore. Non si tratta dunque di una mera emulazione del tipico stile manga, ma di una personale rielaborazione e di uno strumento attraverso cui l’autrice ha scelto di esprimersi e comunicare la sua storia. Prima del manga c’erano le stampe ukiyo-e, immagini del mondo fluttuante, a consacrare il Giappone come il “paradiso dei disegnatori” e a subirne il fascino sono stati molti autori che hanno poi avuto modo di lavorare in terra nipponica come Igort, pseudonimo di Igor Tuveri, che negli anni 90 prende i primi contatti con la casa editrice Kōdansha. Convinto di essere stato giapponese in una vita precedente, inizia questa collaborazione non facile, per via della rigorosa disciplina del lavoro giapponese, ma duratura. La sua esperienza e la sua passione per il Sol Levante vengono raccontati in Quaderni giapponesi, un diario personale che è anche un saggio a fumetti, un reportage e un libro di viaggio sugli anni trascorsi in terra nipponica. In quest’opera emerge il continuo scambio e collaborazione fra culture diverse, ma non così distanti come si potrebbe pensare. Il viaggio si rivela spesso cruciale, una chiave di volta, come nel caso di Giulio Macaione che nel suo recente lavoro F***ing Sakura racconta il viaggio in Giappone di una coppia che si lascia prima ancora di atterrare a Tokyo. Due persone quasi agli antipodi che si approcciano a questo paese in maniera differente: con gli occhi a cuoricino di chi ha sempre sognato e “vissuto” il Giappone attraverso manga e anime o con occhi nuovi e colmi di meraviglia di chi vince i propri pregiudizi scoprendo una cultura nuova. Il Giappone in queste pagine 19

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non è solo un’ambientazione ma è protagonista assieme ai due ragazzi attraverso i suoi paesaggi unici e il contrasto fra tradizione e tecnologia. L’intera estetica dell’opera richiama la cultura pop giapponese attraverso i luoghi simbolo, come la Tokyo Tower o il monte Fuji, senza cadere nell’emulazione e trovando un perfetto equilibrio fra linee e colori. La cultura giapponese ha affascinato e ispirato molte generazioni di artisti dallo stile al modo di narrare. Quello che ha colpito molti è senz’altro il confronto che viene spontaneo fare fra le diverse tradizioni e che porta a riflettere sui valori della vita e l’importanza delle radici, della nostra storia. Alcuni fumettisti hanno scelto di raccontarci il Giappone attraverso il resoconto dei loro viaggi, altri hanno rielaborato lo stile di disegno tipico del manga facendolo proprio e raccontando la loro personale storia. Per quanto diversi e distanti abbiamo molto in comune, molto da offrirci e da scambiare, e nel fumetto questa collaborazione è risultata vincente.

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Raccontare il Giappone intervista a Laura Imai Messina

Laura Imai Messina è una scrittrice conosciutissima in Italia, che con i suoi racconti sul Giappone, la sua passione per la lingua giapponese e la sua scrittura suggestiva ha conquistato non solo i lettori italiani ma quelli di tutto il mondo, portando i suoi libri a viaggiare in moltissime lingue. Laura è stata intervistata da Kotodama perché riteniamo che la sua storia personale e i suoi romanzi centrino a pieno il tema del numero. In questa intervista, ci racconta in che modo il Giappone influenza il suo processo creativo e ci addentriamo nei suoi ultimi progetti. Laura, il tuo primo romanzo è stato Tokyo Orizzontale, mentre la tua ultima pubblicazione è Tōkyō tutto l’anno. Tokyo ritorna sempre, come un grande ombelico. Com’è cambiata la tua visione della città da quando sei arrivata in Giappone per la prima volta? Credi che questo cambiamento abbia influenzato la tua scrittura? Tokyo è sicuramente cambiata, così come il Giappone è cambiato. Ciò che si è modificato, tuttavia, in modo sostanziale è il numero di luoghi, la stratificazione di significati che adesso riesco a interpretare, significati che una volta mi erano incomprensibili. Indubbiamente, la scrittura segue di pari passo il pensiero: se il pensiero sulla città si approfondisce, anche la scrittura in qualche modo segue questo andamento e, dalla superficie, va più in profondità.

Vuoi raccontarci come si compone il tuo processo creativo, quando vuoi scrivere un nuovo libro? Dico sempre che scrivo perché voglio studiare. Quando decido di scrivere un libro è sull’onda di entusiasmo verso un qualche argomento, è la scusa principale per poter studiare. Un po’ come insegnare: si insegna dopo aver approfondito tanto, altrimenti si rimane solo fruitori. Scrivere, per me, parte dallo studio. Mi appassiono a un argomento, come è successo con Tokyo. Ho letto i libri più disparati su Tokyo, tutta la storia della città; o nel caso di Goro Goro mi sono interessata a tutte le tradizioni giapponesi, i modi di dire, le onomatopee. O ancora, nel caso di un libro che uscirà a maggio per Einaudi, ho approfondito i colori della tradizione giapponese, tutti i rituali di morte buddhisti e shintoisti.

Il tema di questo numero di Kotodama è l’incrocio di culture, quello che porta alla formazione dell’altro, inteso quindi non come costruzione, ma come creazione: l’altro che nasce quando lo scambio ci arricchisce. Cos’è, per te, l’altro?

Alla fase di studio e lettura, procede quasi parallelamente una fase di brainstorming. È una sorta di esplosione: scrivo anche cento, duecento pagine di appunti e di idee, che andranno poi lavorate in modo preciso nelle settimane successive. Dopo di che prendo distanza dal testo, e, a seconda dei progetti, L’altro, per me, è tutto ciò che non sono io. Di con- questo periodo varia da settimane a mesi. Tutta la seguenza è la prima motivazione per cui sono inte- parte emotiva la lascio indietro e riesco a prendere il ressata a essere viva. È la mia prima fonte di ispira- testo come testo, in modo più o meno obiettivo. Non zione e, d’altra parte, anche luogo di restituzione. È sono più affezionata alla frase che mi ha riecheggiagrazie all’altro che esiste l’Io, un po’ come l’altro- to nella testa per decine e decine di volte e quindi ve, un concetto su cui ho riflettuto tanto negli ultimi riesco a tagliare con più facilità, senza soffrirne. tempi. A questo proposito, nei tuoi libri parli di cultura giapponese, curiosità, eventi particolari o giornalie21

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ri, e questo ha portato a diffondersi anche in Italia un maggiore interesse sulla cultura giapponese. Come Per quanto riguarda progetti futuri sì, ne ho fin trophai iniziato a farlo? Qual è la cosa che ti ha fatto dire pi direi! A maggio uscirà, per Einaudi, un romanzo “questo devo metterlo in un libro”? a cui tengo tantissimo, si chiama “Le vite nascoste dei colori”. È una storia d’amore, con un intreccio Ho iniziato sicuramente raccontando agli amici familiare alle spalle. Affronta delle tematiche culcom’era il Giappone. Mi domandavano “come” abi- turali importanti, mai affrontate in Occidente. È un tassi questo luogo, dato che ha sempre attirato molta romanzo legato alla percezione, alla nomenclatura curiosità e interesse. Fondamentalmente, ho iniziato diversa dei colori in giapponese. Parliamo di nomi per parlare ad altri. Si comincia sempre così, quando antichi, dei riti di matrimonio legati al kimono da si vuole raccontare. Ma soprattutto, sentivo quasi di sposa, ai rituali di morte… e proprio le agenzie di doverlo fare per questo desiderio innato che ho di pompe funebri, come si rapportano al corpo. Ho stuvoler condividere cose belle e meravigliose. Quando diato molto anche questo ed è convogliato come uno c’è qualcosa di bello, lo voglio raccontare a tutti. degli argomenti centrali di questo romanzo. Anche soltanto quando leggo un libro e trovo delle frasi meravigliose, le vorrei riferire a tutto il mon- Grazie Laura per la piacevole chiacchierata, non vedo. In questo senso, mi è venuto abbastanza natu- diamo l’ora di leggere i tuoi nuovi lavori e scoprire rale vivendo qui. Ogni giorno scoprivo qualcosa di cos’altro ci riserverai in futuro! meraviglioso che volevo condividere con quante più persone possibili. Scrivere è sempre stata la mia passione, quindi le due cose si sono unite. Prima hai menzionato la tua ultima uscita, Goro Goro, e i tuoi titoli sono stati tradotti in tantissime lingue! Ti andrebbe di parlarci di queste creazioni? Hai altri progetti già in cantiere? Goro Goro è una miscellanea di favole che sono nate dalla convergenza di studio delle fiabe giapponesi classiche, rielaborazioni contemporanee, alcuni programmi televisivi, anime sulle fiabe antiche, studi sugli yōkai – tra l’altro primo libro che mi regalò Ryōsuke. Erano due volumi fittissimi, allora non ero ancora in grado di leggere così tanto, ed è stata anche la voglia di interpretare quello che mi stava regalando questo ragazzo che mi ha spinto a leggerli. E poi modi di dire, proverbi, tradizioni… Questo libro ha convogliato tutta la parte più giocosa, divertente e soprannaturale del Giappone. Un lato che il Giappone riesce, tra l’altro, a integrare bene nel tessuto quotidiano, non avendo un rifiuto per tutto ciò che è incomprensibile. Al contrario, invece, della cultura occidentale, più razionale. Da qui, ne deriva anche la sopravvivenza di rituali che da noi sono andati scomparendo con l’Illuminismo. 22

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Laura Imai Messina è nata a Roma ma vive in Giappone da quindici anni. Si trasferisce dopo la laurea in Lettere per perfezionare la lingua giapponese, di cui si innamora perdutamente quasi per caso, come racconta nel suo libro Tōkyō tutto l’anno, pubblicato da Einaudi. In Giappone consegue il dottorato di primo livello in Culture Comparate alla International Christian University e successivamente un PhD alla Tokyo University of Foreign Studies. Attualmente lavora come docente di lingua italiana in diverse università di Tokyo, ma l’attività principale che la contraddistingue è la sua scrittura. Nel 2011 fonda il blog e pagina Facebook “Giappone Mon Amour”, dove ogni giorno parla di cultura giapponese, spaziando tra tradizioni, racconti del quotidiano, festività e approfondimenti linguistici, sempre con un tocco poetico e inserendo aneddoti della sua vita personale. Spesso ritroviamo protagonisti, insieme a lei, il marito Ryōsuke e i due figli. Nel 2014 pubblica il suo primo romanzo per Piemme, Tokyo Orizzontale, e da allora non si è più fermata. I suoi romanzi sono pubblicati anche all’estero e Quel che affidiamo al vento, pubblicato nel 2020 per Piemme, oltre a venire tradotto in più di venti lingue, avrà un adattamento cinematografico. Tōkyō tutto l’anno, pubblicato a fine 2020 per Einaudi, è un viaggio nelle tradizioni della capitale del Sol Levante mese per mese, farcito dalle bellissime illustrazioni di Igort e da aneddoti personali di Laura e della sua famiglia. Goro Goro è il suo ultimo lavoro, uscito a febbraio 2021 e pubblicato da Salani Editore: racconti e favole tradizionali adatte sia a un pubblico infantile che agli adulti e appassionati, con le splendide illustrazioni di Phil Giordano.

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Japonisme mania a cura di Elena Fabbretti

«Tutto il mio lavoro è in qualche modo basato sull’arte giapponese» - Vincent Van Gogh Manga, manga, manga. Quante volte abbiamo sentito questa parola e l’abbiamo associata immediatamente al Giappone? Ma da dove viene e come deve essere stato il primo incontro tra l’Occidente e il manga? Parigi, 1856. L’incisore Félix Bracquemond ha davanti un pacco proveniente dal Giappone. All’epoca pacchi del genere racchiudevano solitamente porcellane da collezione. Queste, per superare viaggi in nave lunghi mesi e arrivare intatte a destinazione, dovevano essere ben protette, come oggi facciamo con i prodotti fragili avvolti in fogli di giornale. In Giappone, già in epoca Edo, la carta era di facile reperimento e alla portata delle persone comuni. Ma quella che si ritrovò nelle mani Bracquemond aprendo il pacco, aveva qualcosa di speciale. L’occhio dell’incisore, infatti, più che essere colpito dalle porcellane, rimase estasiato dagli involucri. Era di fronte ad alcune stampe di Hokusai Manga. Così, quasi per casualità, l’Occidente incontra l’Oriente. L’apertura del Giappone ai mercati occidentali dà vita a quel contatto, a quella scintilla che avrebbe illuminato la strada a nuovi futuri artisti francesi in cerca di un’innovazione in campo artistico. Per citarne alcuni, Monet, Manet, Cézanne e Degas avvertivano l’esigenza del rinnovamento dalla ripetitività dei canoni delle accademie artistiche e trovarono la chiave di svolta nelle stampe di un paese orientale.

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Le stampe ukiyo-e che rappresentavano il mondo fluttuante dei quartieri di piacere della brulicante città di Edo offrirono all’occhio occidentale nuovi spunti artistici. L’infinità di motivi, soggetti, paesaggi, animali, piante che erano raffigurati in Hokusai Manga fornirono nuove basi da cui muovere per una rivoluzione artistica. Così come l’utilizzo della linea nera, la quasi assenza della prospettiva lineare (pilastro dell’arte rinascimentale), i colori vividi, l’attenzione ai cambiamenti di luce nell’arco della giornata, caratteristiche proprie delle stampe ukiyo-e, travolsero come uno tsunami la classicità delle accademie. C’è da dire che nel periodo Edo, Hokusai non era considerato un artista, ma era un artigiano che disegnava soggetti per il divertimento delle persone comuni. Le sue stampe erano vendute a costi più che economici, il prezzo di un paio di ciotole di ramen, al massimo. Per questo, Hokusai può essere considerato l’ante-litteram della pop culture. Le sue raccolte di Manga, inoltre, furono pubblicate in 15 volumi a partire dal 1814, ma erano edehon 絵手本, ovvero dei libri modello per aspiranti disegnatori di ukiyo-e, non delle opere d’arte come le


intendiamo noi oggi. È anche per questi motivi che le sue stampe furono usate per avvolgere le porcellane! È in Occidente che il talento e il genio di Hokusai vengono ampiamente riconosciuti, tanto da innalzarlo al livello dei più virtuosi artisti della storia dell’arte mondiale come Michelangelo, Rubens, Rembrandt. Il termine Japonisme fu coniato nel 1872 da Philippe Burty, critico e collezionista d’arte, in una serie di articoli in cui descriveva l’arte giapponese delle stampe e la mania del collezionismo che si insinuò negli ambienti parigini. In altre parole, questa grande onda del japonisme invadeva i salotti parigini e scuoteva le basi delle arti figurative in Europa. Per fare un paragone, il japonisme si stava scagliando sull’arte occidentale proprio come la Grande onda di Kanagawa (probabilmente l’immagine più iconica di Hokusai) sta per rovesciarsi sugli uomini nelle piccole barchette, in balia della sorte. Cosa sarebbe successo all’arte europea? In Francia le stampe ukiyo-e iniziarono a essere chiamate Impressioni. Non a caso, l’attenzione alla luce che colpisce lo stesso paesaggio in diversi momenti della giornata oppure lo stesso soggetto rappresentato secondo le stagioni furono tra gli elementi chiave per lo sviluppo della corrente impressionista. Questo, però, non vuol dire che i francesi “copiarono” dai giapponesi, piuttosto trovarono nelle stampe del mondo fluttuante la via di ispirazione per dipingere en plein air e nuovi linguaggi artistici per esprimere le loro idee. Iniziarono ad apparire sulle tele riproduzioni di stampe ukiyo-e usate sugli sfondi, come nel caso del Ritratto di Émile Zola di Edouard Manet, oppure modelle vestite con esotici kimono, come La Giapponese, il celebre ritratto della moglie di Claude Monet, attorniata da ventagli giapponesi. Van Gogh, scoprì il mondo dell’ukiyo-e soltanto più tardi a Parigi, perché in Olanda studi sull’arte giapponese non erano ancora sviluppati. In Francia, insieme al fratello Theo, ne divenne un avido collezionista e l’incontro con il Giappone costituì per lui la spinta per modernizzare la propria arte. Realizzò delle opere che chiamava japonaiseries perché traevano ispirazione dalle stampe giapponesi, tra esse celebri sono quelle in cui riproduce stampe di paesaggio del maestro Hiroshige. Qualche anno dopo, in Europa la mania del japonisme, come tutte le mode, iniziò a scemare, alcune consistenti collezioni furono smembrate ed altre finirono nei musei, dove possiamo ancora osservarle. Ma quale strada avrebbe percorso l’arte occidentale se quel fortuito incontro tra Oriente e Occidente non fosse avvenuto?

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Tsuyu

La lingualuce di Itō Hiromi, ecc. a cura di Damiana De Gennaro

Come accade in molti ambiti, l’interferenza tra diverse lingue realizza anche in poesia effetti inaspettati. Che si tratti di un gioco fra innamorati o un modo di allontanarsi da una tradizione ritenuta troppo intrisa di nazionalismo, questa è innanzitutto vissuta dai poeti come una forma di libertà dai canoni, e in questo senso celebrata. “Come si dice” vorremmo sapere nonostante i silenzi tutto questo che ci parla. - Lingualuce, Damiano Sinfonico L’amore è un atto creativo: fonda lingue intermedie, nuove geografie. In Hiroshima mon amour, le voci di due amanti, un’attrice francese e un ex-soldato giapponese, si alternano nel non-luogo di Hiroshima: un paesaggio rincorso nella regione del ricordo, mai concreto. Per lei le macerie di Hiroshima sono il cadavere dell’uomo che una volta aveva amato: un soldato tedesco nel paesino francese di Nevers, che il giorno della fine della guerra venne ucciso. La notizia ossessiva dei duecento milioni di morti in nove secondi è per lei sovrapposta a quell’unica perdita inconsolabile. L’uomo giapponese, originario di Hiroshima, nel momento dell’esplosione era lontano da casa: stava combattendo altrove. Alla donna che sussurra «Io ho visto tutto… tutto…», l’uomo continua a fare eco «Tu non hai visto niente a Hiroshima, niente…». Nel film di Resnais due falde di passato si confrontano, ciascuna serve da presente relativo all’altra: come afferma Deleuze nel saggio L’immagine tempo, Hiroshima sarà per la donna il presente di Nevers, Nevers sarà per l’uomo il presente di Hiroshima. Itō Hiromi, nata a Tokyo nel 1955, nella sua poesia Naschte, moonen fa della questione del linguaggio un problema innanzitutto amoroso. Il testo contiene infatti riferimenti e citazioni dagli appunti in inglese di Koizumi Setsu, la moglie del giornalista, ricercatore e scrittore Lafcadio Hearn, che passò in Giappone la seconda parte della sua vita. L’uno all’oscuro della lingua dell’altro, tra i due si sviluppò un sistema di comunicazione particolare, la “lingua di Hearn-san”, testimoniata da scambi epistolari, che mescolava foneticamente parole giapponesi e inglesi in un pot-pourri giocoso e sgrammaticato, allo stesso tempo intimo e fantasioso. Come leggiamo nella nota dell’autore dell’antologia Poeti Giapponesi, per Itō, poetessa “displaced” per buona parte della sua vita, la questione del linguaggio è urgente e dolorosa. Anche nel caso del suo inglese, che lei stessa definisce una sorta di pidgin, l’unico riparo possibile è offerto dall’oralità, dove le regole non aspettano che di essere infrante. 26

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La sensazione di disagio più che della pelle più che dal sesso, è nel linguaggio che si palesa, rendendo anche me peculiare, quella lingua non aveva accento, circondata da parlanti privi di accento, io, non ero capace di sostenere una conversazione in scioltezza, per di più ero analfabeta, e odiavo anche la lingua scritta, rispondere a un richiamo privo d’accento mi terrorizzava, non avevo la sensazione di essere chiamata, e se rispondevo la mia lingua, suonava sgraziata, deforme, qualcosa che non puoi più cancellare, se sentivo una parte con accento incerto, nella lingua che lui imparava altrove, io, provavo il desiderio di lavarla via, le lingue parlate mi appartengono tutte, la conoscenza, e l’emozione che conta, il tempo e il cibo, anche sotto l’influenza di estranei, oppure, anche sotto la gestione di estranei, anche se la lingua da lui scritta può essere recepita solo da estranei se è lingua che entra dall’orecchio e ed esce dalla bocca, per poi disperdersi e svanire mi appartiene, a costo di bagnarla di saliva insisto mi appartiene, di notte, strofinandogli la schiena per lavarla bene, dalla pelle su cui affioravano le lentiggini, pregavo che l’acqua lavasse via tutte le lingue senza accento, dee, suiiteshta, retoru, omen (the sweetest little woman), mi insegnò lui una volta, dee, suiiteshta, meen (the sweetest man), gli rifeci il verso io, lingue che si trasmettono da bocca a bocca, respiri, respiri, di diversa sostanza, simili a rane, simili a grilli, lui le pronuncia agilmente, la prima di tutte, fu naschte, moonen (nasty morning), e poi ae, habu, eten, prente (I have eaten plenty), e poi ae, an, nata, hangre (I’m not hungry), e poi yuu, aara, nata, hangre (You are not hungry), quel giorno per la prima volta riuscii a toccare la sua lingua, e una volta toccata, ne fui gelosa, con questa lingua, lui è in contatto con il mondo esterno, lui scrive, altri leggono, e questo resta, 27

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ora invece, lui mi parlava, con quella lingua che restava, e proprio come la mia, la lingua si faceva voce e svaniva la lingua che svaniva era suiit, anche se il rapporto si fosse spento lì in quel momento, anche se il ricordo di lui si fosse spento lì in quel momento, la lingua che si faceva voce e svaniva era così suiit, studiando di più avrei voluto capirla la sua lingua, almeno quanto quei ragazzi, un rimpianto che mi affligge, eppure la mia lingua che si faceva voce lo faceva impazzire, diceva di pensarci in continuazione, le lentiggini sulla schiena, danzavano al suono della mia lingua, e si muovevano, si muovevano, per le sue braccia possenti, quanto sarò stata leggera io, diavoletto o fatina, la mia lingua purifica la sua voce e diventa libera, si trasforma nel suo calore e nel suo odore, mi si avvinghia addosso e svanisce, con la sua lingua lui, rivolta la mia esistenza, la mia pelle le mie labbra troppo appesantite dai diavoletti e fate che vi dimorano, le scopre, le fissa. - Naschte, moonen, 1993

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日本のほんと

I confini non esistono (più)? a cura di Guendalina Fanti

Ultimamente penso spesso ai confini. Non ci avevo mai pensato prima perché mi era sempre sembrato di poter andare ovunque, in ogni momento. Che sarà mai? Paghi il biglietto, prendi l’aereo, ti fanno un timbro sul passaporto ed è fatta. I confini però esistono, o almeno quelli reali… Come è organizzato il mondo! Ci sono i continenti, i paesi, le loro leggi. Per spostarsi da uno Stato all’altro servono visti, documenti e accordi frutto di una storia passata, che sa di vecchio a noi giovani viaggiatori. Quella storia ha definito chi siamo adesso, la nostra nazionalità e ci concede di avere determinati diritti. Non avevo mai capito la concretezza del concetto di confine fino all’anno scorso, quando sono stati i Paesi a dirci dove possiamo o non possiamo andare. Non mi ero mai veramente resa conto cosa significasse essere piccola piccola, poco importante e, soprattutto, impotente. Non fraintendetemi, dopo la rabbia e la frustrazione iniziale ho capito che non è un problema dei grandi potenti, ma un problema mio, perché finché le cose sono andate bene non mi ero veramente resa conto di come andasse il mondo. Anche perché, ammettiamolo, non è forse vero che ci sentiamo sempre collegati, sul pezzo, pronti a fare tutto quello che vogliamo e a farlo subito? Non abbiamo vissuto l’epoca in cui bisognava affrontare mesi di viaggi in nave per attraversare il mondo. Ora ci bastano al massimo dodici ore su un aereo, e ce la passiamo anche bene tra film e patatine. Il mondo si ferma, Italia e Giappone si chiudono a riccio. Sembra di non poter più fare niente: niente più viaggi, niente più scambi e spostamenti… fisici. Sì, perché dalla frustrazione e dalla chiusura che hanno caratterizzato la nuova quotidianità si è andato rafforzando un nuovo modo di viaggiare. Nel mondo parallelo e virtuale di internet, infatti, i confini via via si assottigliano, le informazioni iniziano a scorrere e mi sono accorta di quanto il Giappone quotidiano possa arrivare in Italia con immediatezza

e facilità. Che fantastica innovazione il mondo del web! Mi dico… Ma più ci penso però, più realizzo che non è solo il mondo di internet. Quando è iniziato questo hype per il Giappone in Italia? Certo, siamo cresciuti con gli anime passati alla TV, ma non ci credo più che sia solo questo aspetto a farci avvicinare a questo Paese. Avete visto quanto ogni giorno il Giappone salta fuori in Italia? Lo chef Hiro da Antonella Clerici, angoli dedicati in libreria, “e allora Sayonara in questa notte amara...” che passa alla radio. Ogni volta che torno in Italia, first reaction: shock! Second reaction: basta! Third reaction: mmh, interessante, analizziamo questo fenomeno. No, non è solo internet. C’è davvero tanto Giappone nella quotidianità italiana.

Il Giappone in Italia

Ebbene sì, dopo la sorpresa e l’insofferenza di ritrovarsi il Giappone spiaccicato un po’ ovunque, prevale la curiosità: che Giappone sta vedendo l’Italia adesso? Quanto è diverso da quello che vedo io qui ogni giorno? Serie tv, letteratura, manga: quanto materiale abbiamo a portata di mano adesso? Netflix ogni giorno propone nuovi film o dorama, mentre qualche anno fa bisognava fare salti mortali tra i siti di streaming (anche quelli un po’ illegali, forse). Ricordo che studiavo i kanji mentre aspettavo che la puntata si caricasse per poter vederla tutta d’un fiato. Pensiamo ai viaggi? Nel 2019 sono stati 162.769 gli italiani venuti in Giappone, il doppio rispetto al 29

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2014. Nel 2017 la Lonely Planet cita il Giappone rurale tra le mete consigliate per l’anno successivo e nel 2019 Tripadvisor mette le isole tropicali di Okinawa al primo posto come mete emergenti. Con i prezzi degli aerei ragionevoli, poi, volare a Tokyo non era più un’utopia e molte persone hanno colto la palla al balzo. Il Giappone sta fiorendo nelle principali città italiane: ramen, sake bar, ristoranti di sushi (autentici!), negozi etnici, cafè, concept store… tutto ciò mi preoccupa perché sta rendendo difficile trovare i regali perfetti! Ormai addio effetto sorpresa nel portare i kit-kat al matcha! Sono più di cinque anni che non passo più di venti giorni in Italia e ogni volta che torno mi sento spaesata nel vedere quanto il Giappone sia entrato nelle case e nelle abitudini di molti.

Non lo danno a vedere, ma i giapponesi sono curiosi e anche abbastanza prevedibili. Per ogni お国は どこですか?“Da quale paese vieni?” si avrà un ええええ “ehhhhh” di approvazione in risposta, seguito da frasi di circostanza. Purtroppo in molti hanno visto l’Italia solo attraverso tour organizzati, sballottati tra monumenti e città che non sanno neanche più distinguere tra i loro ricordi, e hanno avuto pochi contatti con le persone locali.

E l’Italia in Giappone?

Lo scambio tra le due culture

Dal lato opposto, mi sembra che l’immagine dell’Italia dei media giapponesi sia sempre la stessa: immutata da almeno venti anni. Accompagnata da un interesse abbastanza superficiale e condita con i soliti cliché. Al grande pubblico siamo rappresentati da Girolamo Panzetta, un personaggio televisivo estroverso che potete trovare ogni mese sulla copertina della rivista Leon. Vestito di tutto punto, è spesso accompagnato da una ragazza in una posa sensuale. A volte porta gli occhiali da sole (abitudine poco comune in Giappone, ma che caratterizza noi stranieri), altre tiene un sigaro tra le dita. L’immagine non è negativa, ma un po’ riduttiva. Ad ampliare l’immagine ci pensano la cucina, il Made in Italy e vecchi film. I giapponesi sanno ri30

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conoscere e apprezzano la qualità. Ho mangiato più pizze buone qui che in Italia e sapete che uno tra i paesi esteri in cui viene esportato più prosecco Ferrari è proprio il Giappone? Ma anche la cucina spesso è immutabile: i soliti menù un po’ adattati per la clientela giapponese, in ristoranti con piatti appesi alle pareti e pacchi di pasta e lattine di pelati esposti.

Rimango dell’idea che l’immagine che il contatto e lo scambio tra due culture sia la somma del background culturale che ci è stato dato più la nostra esperienza personale e unica. Non esiste l’Italia, non esiste il Giappone. Esistono i nostri punti di vista, i ricordi e gli scambi che abbiamo visto e vissuto che sono molteplici e variegati, tenuti insieme anche dai famosi stereotipi, che però ci fanno partire avvantaggiati qua: come non si fa ad amare l’Italia? Semplificata e con un’immagine un po’ riduttiva, ma l’Italia c’è: è qui presente ogni giorno. La ritrovo nei pacchi di spaghetti Barilla tra gli scaffali di un supermercato, tra grandi le firme nelle boutique di centri commerciali eleganti, nella Maserati parcheggiata sotto casa o nelle borse di pelle dei signori in metropolitana. Potrei andare avanti all’infinito, perché lo stesso uomo che ha creato i confini, oggi li sta cancellando. Anche il Giappone lo vedo in Italia e vedo la sua immagine che si trasforma e che crea stima, passione. Vedo che il Giappone vi fa sognare… impossibile resistere al suo richiamo. Sono geni nel sapersi vendere bene, ammettiamolo!


Avere la possibilità del libero accesso a informazioni è il vero lusso dei nostri tempi. Non solo chi di voi sogna il ramen di notte ora lo può trovare in centro e io che posso sopperire alla mia astinenza da Nutella andando al supermercato, ma molto di più. Bastano pochi secondi per poter fare un viaggio virtuale dall’altra parte del mondo, ascoltare una lingua diversa, entrare in contatto con la cultura che amiamo da sempre, ma che ci era sembrava così lontana. Viviamo in realtà contaminate, ma che abbiamo fortemente voluto. La contaminazione è positiva, il mescolarsi è crescita. L’essere italiani e basta esiste ancora sul passaporto, ma non esiste più nelle nostre quotidianità. Viviamo anche in un mondo fatto di stereotipi? Sì! Ma ognuno di noi ha i mezzi per informarsi e decidere personalmente se ne vuole fare parte o meno. Ognuno di noi oggi ha letteralmente accesso al mondo e, se lo vogliamo, i confini non esistono più.

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Non abbastanza orientale: Murakami e la ricerca dell’identità a cura di Maria Menduni

«Guardo le gocce di pioggia e rifletto. Non so bene neanch’io cosa voglia dire far parte di qualcosa, né avere qualcuno che piange per me. Sembrano cose lontane, irreali. Che accadono sulla luna. […] Ho la sensazione che per quanto possa allungare le braccia, per quanto veloce possa correre, non lo raggiungerò mai.» - Dance Dance Dance, Murakami Haruki Leggere i romanzi di Murakami significa addentrarsi per le strade di mondi reali dalla costituzione ibrida – perennemente in comunicazione tra Oriente e Occidente – e altri mondi che appartengono a una dimensione a sé, slegata da qualunque altra cosa. Una dimensione che alcuni definirebbero “spirituale” a causa degli incontri con entità di diversa natura, eventi difficilmente decodificabili e frasi che risuonano come un messaggio divino. Eppure, più che rappresentare dinamiche di tipo religioso, si avvicinano in maggior misura a quelle dell’onirico. Così, proprio come accade nei sogni, si mescolano elementi di vite diametralmente opposte, geograficamente distanti; vengono meno le leggi che sottendono la nostra realtà e lasciano spazio alle libere associazioni dell’inconscio. Questo ampliamento del contesto narrativo è probabilmente uno dei motivi per cui Murakami è stato in grado di comunicare con successo con lettori di tutto il mondo. Pur facendo parte di un popolo che ai nostri occhi potrebbe risultare estremamente peculiare e ben riconoscibile, i suoi racconti si portano dietro il carattere dell’universalità: il protagonista può anche vivere in una città del Giappone, ma il suo essere e la sua realtà sono contaminati, positivamente, dall’apertura verso l’Occidente. In questo modo, la storia si dispiega davanti al lettore dedicando, con rispettoso affetto, uno spazio ai piatti della tradizione giapponese e italiana, tra una canzone dei Beatles, riferimenti a marchi globali e un libro di un grande maestro americano o russo. Inoltre, la suddetta versatilità narrativa dipende fortemente anche da una componente emozionale e tematica: sensazioni di inadeguatezza, smarrimento, malinconia e dolore, spesso associate a un evento traumatico, investono il protagonista durante il suo percorso.

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La motivazione dietro a questo tipo di costruzione, sia che la si creda intenzionalmente artificiosa o spontanea, è facilmente riconducibile a una questione di tipo storico, esperienziale e identitario. Infatti, se fino alla prima metà del 1800 il Giappone era rimasto chiuso nei confronti dell’Occidente e fortemente legato alla propria tradizione, dalla seconda metà in poi iniziano a fluire in entrambi i sensi nuove culture e conoscenze. Nonostante ciò, nel corso del 1900 rimane piuttosto vivo il conflitto tra tradizione e interesse nei confronti dell’esterno che, in linea con il tardo capitalismo e con lo sviluppo dei media, genera una crisi identitaria che trova espressione nella letteratura postmoderna. Murakami a questo punto, oltre a imporsi in ambito letterario come elemento di rottura tra l’alta letteratura e quella popolare, aprendo una strada nuova per molti altri scrittori, si ritrova al centro di un dibattito che mette in discussione il suo valore, ponendolo in relazione alla sua identità: «Per alcuni – riporta Hazel Rowland - è un genio che rafforza le giovani generazioni giapponesi con un tipo di letteratura stimolante. Per altri, è un ultra-occidentalizzato autore pop che manca sia di sostanza che di senso della tradizione».


Effettivamente, il Giappone di Murakami Haruki non esiste. Non solo viene distorto dagli ormai distintivi elementi di realismo magico, ma viene spogliato in gran parte delle sue radici culturali, subendo allo stesso tempo critiche nemmeno troppo velate per il lettore più avvezzo. In ogni caso, capiamo bene che un tale meccanismo di rigetto – o perlomeno distanziamento – mina a quel bisogno sociale di appartenenza, che ricopre un ruolo piuttosto importante nella piramide di Maslow. Se non fosse che in Murakami, la difficoltà nel riconoscersi in un gruppo è già presente fin dalla sua adolescenza: ha raccontato spesso di aver preso lui stesso le distanze dai movimenti di protesta e occupazione delle rivolte studentesche del ‘68, di non aver voluto cantare l’inno scolastico e di essersi allontanato dalle lezioni universitarie per trascorrere, invece, molto tempo in sola compagnia di prodotti musicali, letterari, teatrali e cinematografici. Allo stesso modo, quando le prime critiche in merito ai suoi scritti si sono fatte avanti, Murakami è fuggito dal Giappone cercando un nuovo equilibrio mentale spostandosi tra Grecia e Italia. Seguendo questa logica, è possibile supporre che lo stesso senso di alienazione e di turbamento dei protagonisti dei suoi romanzi, rifletta la condizione nella quale si ritrova l’autore e che la scrittura diventi il giusto mezzo inquisitivo per riallinearsi con il proprio Io. Dopotutto, seppur in maniera insolita, lo afferma lui stesso nell’intervista di Deborah Treisman per The New Yorker: «Una volta che comincio a scrivere, vado da tutt’altra parte. Apro la porta, entro, e guardo che succede lì dentro. […] Vado sempre più a fondo, in una sorta di mondo sotterraneo mentre mi concentro sulla scrittura. […] E se c’è dell’oscurità lì dentro quell’oscurità viene da me, e magari ha un messaggio, sai? Cerco di comprenderlo, per cui mi guardo intorno e cerco di descrivere quello che vedo e poi torno. È importante tornare indietro». Insomma, sembrerebbe mettere in pratica quello che Bach ne Il gabbiano Jonathan Livingston auspicava per i suoi lettori, ovvero una profonda ricerca del proprio valore e della propria identità in una dimensione trascendente. Il che, in ultima battuta, risulta essere un perfetto parallelismo con tutti quegli animali che risiedono nei romanzi di Murakami, pronti a guidarci (o a guidare lui stesso?) nell’intimo viaggio nelle notti oscure dell’anima, per dirla alla Fitzgerald. Una decostruzione dell’individuo che viene avviata dall’ambiente esterno e che si ricompone volgendo lo sguardo all’interno. E ancora. E ancora. E ancora. Fino a comprendere la bellezza del concetto di identità, che è dinamico, che riceve e dà, che scopre e modella il nostro posto nel mondo.

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Kyō no obentō

Yoshoku e Doria a cura di Eleonora Badellino

Con il passare degli anni, l’incrocio tra le diverse culture ha fatto sì che anche l’aspetto gastronomico del Giappone subisse delle trasformazioni, adattandosi al fenomeno della globalizzazione e arricchendosi di nuovi sapori. Avete mai sentito parlare di “Yoshoku”? Con questo termine si indicano tutte quelle ricette caratterizzate dall’utilizzo di ingredienti o tecniche di cucina occidentali (principalmente europee e americane), rivisitati così da assecondare i gusti giapponesi. Molto popolare nella cucina casalinga, questa categoria di piatti viene servita principalmente nei Cafè, o nei famosi “Family Restaurant”, diffusi ormai sotto forma di catene, a ogni angolo del paese. Fanno parte del Yoshoku i tanto discussi (in particolare da noi italiani) Naporitan Spaghetti, spaghetti con salsa a base di ketchup serviti con würstel e peperoni verdi, il curry, l’omurice, l’hanbagu, hamburger servito senza pane e ricoperto da una salsa agrodolce, e altri. Come identificare un piatto Yoshoku in un ristorante? Se avete un po’ di dimestichezza con la lingua, soltanto osservando un menù, vi salterà all’occhio la distinzione di questi piatti rispetto alla cucina tradizionale giapponese in quanto i nomi, che mantengono i suoni della lingua originale, vengono scritti in katakana, l’alfabeto riservato alle parole straniere. Nonostante siano piatti molto lontani dalla cucina tradizionale giapponese (Washoku), hanno raggiunto un livello di popolarità tale da essere considerati parte della cultura gastronomica del Paese. Nell’Obento di oggi voglio proporvi una ricetta meno conosciuta alle orecchie di noi occidentali, ma molto popolare tra i giapponesi. Si tratta della “Doria”, un piatto ispirato alla cucina del “Gratin Francese” ma rivendicata più volte come una creazione giapponese. L’inventore di questo piatto fu lo svizzero Saly Weil, chef presso il grand Hotel di Yokohama, che si dice gli fornì questo nome in onore all’ammiraglio genovese Andrea Doria (il motivo è apparentemente sconosciuto). In poco tempo questo piatto si diffuse in tutto il paese ed è tuttora uno tra i più popolari (entrando in un Family Restaurant lo troverete sicuramente sul menu!).

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DORIA - ドリア Con Doria ci si riferisce a una base di riso al burro, cosparsa da una crema bianca, simile alla besciamella, insaporita con pollo e verdure, frutti di mare o curry, guarnita con formaggio e cotta al forno, fino a che la superficie non si sia leggermente dorata. Dimenticatevi lo stereotipo della dieta “leggera” fatta di riso al vapore e pesce crudo, quando si tratta di dare sfogo alle creazioni culinarie, i giapponesi non si pongono limiti (e se siete mai stati per le strade di Harajuku a testare vari snack, sapete cosa intendo). Vi propongo qui sotto la sua versione “base”, a cui potrete aggiungere o togliere gli ingredienti che più vi piacciono. LET’S COOK! Pre riscaldiamo il forno a 180 gradi, e iniziamo a preparare le verdure. Laviamo i funghi e, nel caso stiate usando gli Shimeji, dividiamoli in piccoli mazzetti. Se invece avete optato per un’altra tipologia con un cappello più ampio, tagliatelo semplicemente a listarelle. Peliamo la cipolla e la tagliamo alla julienne. Con l’aiuto di un coltello affilato, tagliamo il pollo a cubetti, di dimensioni facili da imboccare. Lo insaporiamo con sale e pepe e lo rosoliamo su entrambi i lati in una padella insieme a un filo di olio.

*Per il formaggio, qui in Giappone, non essendoci una grande cultura casearia si utilizza del formaggio per pizza quasi insapore. Sogno di preparare questo piatto ricoperto da fontina fusa!

Aggiungiamo le cipolle, i funghi e lasciamo cuocere il tutto per 3-4 minuti a fiamma bassa mescolando di tanto in tanto così da cuocere in maniera omogenea tutti gli ingredienti.

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Proseguiamo con la preparazione della parte cremosa del piatto, molto simile di consistenza e sapore alla besciamella, ma preparata nella padella insieme al pollo e le verdure. Nella padella aggiungiamo la farina e mescoliamo così da andare a “impanare” tutti gli ingredienti. Aggiungiamo il latte, il dashi, e continuiamo a mescolare a fuoco basso finché il latte non si sia addensato. In questa fase è importante tenere la fiamma bassa e mescolare continuamente. Una volta pronto, insaporiamo con sale e pepe, spegniamo la fiamma e mettiamo da parte. In un’altra padella sciogliamo il burro a cui aggiungiamo il riso già cotto, un pizzico di sale e, una volta pronto, andiamo a disporlo sulla base di una pirofila da forno. Aggiungiamo la crema di verdure e pollo, e uno strato di formaggio sulla superficie.

Cuociamo in forno per 10 minuti a 180 gradi e la nostra Doria sarà pronta per essere mangiata!

いただきます! Buon Appetito!

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La Tribù delle Rose

L’incontro e la fusione di genere nelle arti performative giapponesi a cura di Loris Usai

La diffusione massiccia di riferimenti o manifestazioni concrete di travestitismo all’interno della società giapponese è un fenomeno che frequentemente richiama l’attenzione e l’interesse dell’opinione pubblica straniera. Risalta particolarmente all’occhio come questa realtà sia presente in larga misura nel mondo dell’intrattenimento, a partire dal celeberrimo Miwa Akihiro, stella indiscussa del locale “Gin Paris” a Ginza, artista di chanson che dagli anni 50 ammalia il Giappone con il suo fascino androgino in abiti femminili. O ancora Ikehata Shin’nosuke, conosciuto con il nome d’arte di “Peter”, stella del cinema e della televisione divenuto celebre con il film Il corteo funebre delle rose, un cult della filmografia di genere, fino ad arrivare ai giorni nostri con le popolarissime personalità televisive di Matsuko Deluxe e Haruna Ai. Da una società in cui i ruoli di genere sono sempre stati, e sono tuttora, fortemente polarizzati ai due estremi dello spettro, constatiamo con comprensibile stupore che le sfumature contenute nel mezzo di questa dicotomia uomo-donna occupano un posto di non trascurabile rilevanza nella sfera pubblica giapponese.

Le origini antichissime della fluidità di genere in Giappone La fluidità di genere non è una fantasia partorita dai media in tempi moderni, bensì è un elemento presente da millenni nella cultura giapponese. La flessibilità dei contenitori “uomo” e “donna” in Giappone affonda le sue radici in tradizioni antichissime risalenti addirittura all’epoca Yayoi (300 a.C. – 250 d.C.), confermate dal ritrovamento di resti appartenenti a sciamani di sesso maschile adornati degli stessi accessori posseduti anche dalle sciamane di sesso femminile. Il travestitismo si è manifestato in Giappone in maniera consona ai tempi e alla struttura sociale di ciascuna epoca storica, trovando di volta in volta modalità espressive diverse. Dallo sciamanismo degli otoko yuta, gli oracoli delle isole sub-tropicali dell’arcipelago giapponese, alle figure di uomini in abiti femminili raffigurate nei rotoli di poesie del XIII secolo, e ancora il cosiddetto “terzo genere”, ossia quegli uomini e quelle donne che non compivano il genpuku, la cerimonia di ingresso nell’età adulta rimanendo “bambini”. Questa cerimonia prevedeva, tra gli altri rituali, quello simbolico del taglio della frangetta e della rasatura dei capelli sulla parte centrale della testa.

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Le arti performative di epoca Tokugawa: il wakashu kabuki La tradizione artistica nel campo delle arti performative durante i primi decenni dell’epoca Tokugawa (16031868) aveva portato allo sviluppo del teatro Kabuki, una forma di recitazione principalmente a scopo di intrattenimento dai caratteri più leggeri rispetto al teatro Nō. Gli attori kabuki non indossavano maschere ma giocavano su un sistema di movenze stereotipate che simboleggiavano le caratteristiche di ciascun personaggio. Nella sua fase iniziale, durante la prima metà del XVII secolo, il teatro kabuki ammetteva la presenza di attrici donne sul palcoscenico, in alcuni casi anche in vesti maschili. Tuttavia, a causa dei disordini generati dalle contese tra gli spettatori per ottenere i favori sessuali delle attrici, che nella maggior parte dei casi svolgevano anche l’attività di prostitute, nel 1629 le autorità del governo centrale Tokugawa proibirono alle donne di esibirsi. Si sviluppò da questo momento una nuova forma di kabuki detta wakashu kabuki, ossia uno stile teatrale in cui la compagine di attori in scena era composta interamente da uomini, tra cui anche giovani adolescenti maschi che ancora non erano entrati ufficialmente nell’età adulta per mezzo della cerimonia del genpuku. Erano i cosiddetti wakashu, i giovani adolescenti che interpretavano sia ruoli maschili (otokogata) che femminili (onnagata). Tuttavia, anche in questo caso, la loro immediata popolarità si intrecciò alla crescita esponenziale della prostituzione, sia con clienti uomini che con clienti donne. I favori sessuali di questi giovani e attraenti attori venivano ardentemente contesi tra gli spettatori e, molto spesso, diventavano ancora una volta fonte di violenza e disordine. La situazione raggiunse il suo apice nel 1652, anno in cui l’amministrazione di Edo decise di vietare anche l’attività teatrale dei wakashu per ristabilire il decoro sociale e urbano. Questi provvedimenti chetarono sicuramente la situazione ma gettarono il quartiere dei teatri in uno stato di depressione che non giovava all’economia della città. Gli abitanti di Edo domandarono con insistenza la riapertura dei teatri ai giovani attori e ben presto gli spettacoli di kabuki ripresero a circolare. Tuttavia le autorità dello shogunato Tokugawa imposero due condizioni: la prima era che i giovani attori svolgessero la cerimonia del genpuku tagliandosi la frangetta nella foggia consona a un uomo adulto, la yarō atama. In epoca Tokugawa, infatti, l’acconciatura costituiva un simbolo identitario molto forte. I giovani attori wakashu, portavano la frangetta sul viso che ne esaltava la misteriosa sensualità e li rendeva attraenti agli occhi degli spettatori che ne ricercavano i favori. La seconda condizione era che si tornasse a uno stile teatrale che privilegiasse la rappresentazione di eventi storici, un tipo di repertorio a cui ci si riferiva con il termine monomane kyōgen tsukushi, evitando gli elementi coreografici e le danze eccessivamente sensuali e provocatorie. Questa nuova mascolinità imposta dall’alto e proiettata sugli attori diede vita a un nuovo stile teatrale, quello denominato yarō kabuki, o “teatro kabuki degli uomini adulti”, la cui sensualità tuttavia non svanì nel nulla contrariamente a quanto auspicavano le autorità politiche. 39

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La Takarazuka Revue e le rappresentazioni teatrali al femminile Sempre per rimanere in tema di arti performative, in Giappone esiste una compagnia teatrale tutta al femminile che vanta una storia di oltre cento anni: la Takarazuka Revue. Fondata nel 1914 da Kobayashi Ichizō nella città di Takarazuka, piccolo centro situato nella prefettura di Hyōgo vicino Osaka, la compagnia teatrale Takarazuka Revue mette in scena musical di stampo occidentale e giapponese, spaziando da rappresentazioni drammatiche a storiche, di fantascienza e ovviamente sentimentali. Lo scopo iniziale del progetto era di dare vita a un gruppo di recitazione femminile da associare all’attività promozionale del centro commerciale Hankyū Department Store, con sede appunto nella regione del Kansai, come risposta alla banda musicale maschile che Kobayashi aveva visto esibirsi fuori dall’illustre centro commerciale Mitsukoshi di Tokyo agli albori del XX secolo. Le attrici della compagnia teatrale Takarazuka Revue svolgono sia i ruoli femminili, i cosiddetti musume yaku, che quelli maschili, gli otoko yaku. La ripartizione dei ruoli è decisa principalmente in base alla costituzione fisica, l’altezza, la profondità del timbro vocale. Le attrici possono esprimere una preferenza, ma è la direzione ad avere l’ultima parola sul loro ruolo di genere. Un tempo erano i ruoli femminili a godere di maggiore popolarità, mentre attualmente sono quelli maschili a essere più quotati tra i fan della compagnia.. L’accesso alla squadra della Takarazuka Revue è circoscritto alle allieve diplomate direttamente alla scuola di recitazione preparatoria istituita dalla compagnia teatrale stessa, ed è regolato da severi principi. Ad esempio, tutte le attrici devono essere nubili, e una volta lasciato il posto non sarà più possibile essere riammesse, in nessuna circostanza. In particolare questo ultimo principio sottolinea il legame indissolubile che lega tra di loro le attrici della compagnia, il cui stesso motto è: “con purezza, onestà e bellezza”, valori che rispecchiano appieno le rappresentazioni e lo spirito di semi-devozione con cui le attrici portano in scena le opere. Lo sviluppo e la crescita della compagnia teatrale Takarazuka Revue è storicamente legata alla fioritura del genere dei manga shojo dagli anni 70 in poi. Infatti, non a caso, una delle opere di maggior successo di tutti i tempi nella storia della compagnia teatrale è proprio Le rose di Versailles, il manga di Ikeda Riyoko del 1972 simbolo per eccellenza dell’incontro e della fusione di genere.

Per approfondire Il film Il corteo funebre delle rose, Bara no sōretsu (薔薇の葬列) del 1969 del regista Matsumoto Toshio racconta la vita di un gruppo di travestiti (josoko) giapponesi alla fine degli anni 60, un periodo storico di svolta e di fermento a livello internazionale.

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L’invenzione dei “gialli” e il razzismo scientifico a cura di Francesca Paola Liberti All’interno delle pratiche di costruzione dell’alterità le teorie naturalistiche hanno rivestito un ruolo fondamentale, in quanto furono utilizzate per dare una base scientifica all’idea della superiorità dell’uomo bianco. Nel periodo fascista, l’argomento razziale venne ripreso più volte al momento del confronto con l’alleato giapponese. La distinzione fra “bianco” (europeo) e “giallo” (asiatico) risale a un periodo relativamente recente: solo a partire dall’Illuminismo, con la classificazione in razze da parte di Carlo Linneo nella decima edizione del Systema naturae e le prime teorie evoluzioniste di George-Luis Leclerc e Jean-Baptiste de Lamarck, che attribuivano la differenza nei tratti somatici a particolari condizioni ambientali e alla capacità di adattamento di ognuno, si iniziò a teorizzare una gerarchia ben precisa. In questo modo i cinesi, i giapponesi e i mongoli, raggruppati sotto il nome di homo asiaticus, talvolta definiti semplicemente come “mongoli”, diventarono improvvisamente gialli, nonostante secoli di relazioni e incontri senza distinzioni esplicite di colore. Tuttavia, l’idea della separazione non fu sicuramente figlia della mente di pochi scienziati; il fatto che in Asia vivessero popoli più avanzati rispetto agli “altri” ma meno abili e tecnologici degli europei era un giudizio ben consolidato, che di lì a poco avrebbe incoraggiato l’affermazione inglese in Cina. Fu infatti proprio l’Ottocento, con il suo clima positivista, a condannare definitivamente gli asiatici all’etichetta di “razza giallognola”. L’opera di Charles Darwin fu letta e interpretata in maniera tale da adattare la teoria evolutiva all’ideologia imperialista dell’epoca, andando a delineare la spietata “legge del più forte” secondo un determinismo biologico che Darwin aveva cercato di contrastare, non di dimostrare. Cesare Lombroso, per esempio, influenzato dal darwinismo sociale, nel suo famoso trattato L’uomo bianco e l’uomo di colore. Letture su l’origine e le varietà delle razze umane, individuò una continuità evolutiva che parte dal “nero”, definito come la

forma di uomo più primitiva, al “giallo”, la forma intermedia, e, solo come ultimo stadio, si arriva al “bianco”, secondo una filogenesi che ne determina la superiorità intellettiva. Inoltre, Lombroso ricercò in specifiche caratteristiche fisiche l’origine della criminalità, sottolineando più volte come la “pelle colorata” o “gli occhi obliqui”, caratteristiche legate a razze inferiori, rispecchiassero temperamenti violenti, stupidità e cattiva gestione degli istinti, aspetti stereotipicamente attribuiti ai non caucasici. In questo quadro che vedeva i “caucasici” da un lato e i “colorati” dall’altro, il Giappone interpretò un ruolo abbastanza particolare. Con l’inizio del contatto con l’Occidente nel periodo Meiji, uno dei primi tentativi dei giapponesi fu quello di dimostrare agli stranieri la loro vicinanza alla razza bianca. Un esempio di questo tentativo furono le riforme sociali di stampo estetico di Taguchi Ukichi, messe in atto con l’intenzione di avvicinarsi ai canoni di bellezza occidentali ed eliminare così la differenza sul piano morfologico fra la “razza bianca” e la “razza Yamato”; tuttavia, l’atteggiamento giapponese cambiò radicalmente con l’inizio del XX secolo, quando, in seguito alla guerra russo-giapponese, l’Occidente iniziò a temere quello che presto, nei discorsi politici e dalla stampa, venne definito “il pericolo giallo”. Ad aggravare la situazione e a segnare il netto cambio di prospettiva del Giappone fu l’atteggiamento delle potenze occidentali (in particolare Stati Uniti, Inghilterra e Francia) alla Conferenza di Parigi del 1919 dopo la fine della Prima Guerra Mondiale: esplicitamente rifiutato nella sua richiesta per la parità razziale, non solo il Giappone identificò nel mancato riconoscimento del suo intervento militare 41

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una sorta di “vittoria mutilata” che lo avrebbe avvicinato ideologicamente all’Italia, ma si fece portatore della voce dei “colorati” contro l’arroganza e l’imperialismo “bianco”. Tuttavia, le analogie ideologiche, i sentimenti nazionalistici e le necessità strategiche che portarono alla costituzione dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo fecero avvicinare Italia e Giappone, anche se in un modo abbastanza ambiguo. Questo è evidente in molti degli articoli e racconti di viaggio scritti durante il periodo fascista dai giornalisti che visitavano il Giappone e riportavano le loro impressioni, spesso offuscate dal pregiudizio razziale. L’interessamento per la politica giapponese e per il contesto orientale, infatti, non escludeva, ma al contrario rafforzava, la tendenza esotizzante e paternalistica verso il diverso. Per esempio, interessante è il caso degli articoli di Ercole Patti pubblicati per la Gazzetta del Popolo, dove i giapponesi venivano rappresentati con uno stereotipo, seppur modificato, molto in voga ancora oggi: un popolo di uomini freddi, ordinati, precisi come cronometri, più vicini alle macchine che al genere umano. Descrivendo la gioventù giapponese, inoltre, Patti si scandalizza per la compostezza dei ragazzi, così diversi dai “giovanotti di tutte le razze”, troppo composti mentre parlano e ridono senza un motivo comprensibile all’osservatore e disinteressati alle fanciulle che passano, comportamento che viene definito in più occasioni come stupido o inquietante. Eppure, con il definitivo appoggio reciproco nella campagna di Etiopia e nell’invasione della Manciuria, il riconoscimento della superiorità dei giapponesi, troppo avanti per essere considerati alla stregua dei cinesi, viene più volte ribadito nel giornale La difesa della razza. Qui venne delineato un futuro florido per il Nuovo Occidente, con a capo l’Italia, e il Nuovo Oriente, terre destinate al comando giapponese, sottolineando come i giapponesi non potessero essere “gialli”, ma dovessero essere considerati quasi come dei “bianchi”. La dinamica utilitaristica che univa le due potenze si scalfì subito dopo il 1943; tuttavia, la seconda metà del Novecento costituì un terreno fertile per coltiva42

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re relazioni che ancora oggi uniscono i due Paesi, in un’ottica, per fortuna, molto diversa. L’Italia, infatti, investita in pieno dal fenomeno del Cool Japan, è stata una grande estimatrice e consumatrice di prodotti giapponesi, nonostante tutte le problematiche legate alla traduzione, censura e generali incomprensioni di cui tuttavia non discuteremo. Nonostante questo, è importante sottolineare che la costruzione dell’altro è un processo che non è mai terminato. Influenzati da particolari retaggi culturali e da echi appartenenti a pseudo-scienze ormai superate, spesso continuiamo, sia in negativo che in positivo, a metterci in opposizione all’altro, creando nuovi tipi di differenze o, paradossalmente, riadattando vecchi stereotipi in un mondo che diventa sempre più globalizzato.


a cura di Giada Zaccardi

L’altro. In giapponese l’altro, colui fuori da sé, ha diverse sfumature e si sviluppa su molteplici livelli. Per comprendere i quali, come sempre accade, possiamo lasciarci guidare dai kanji. Questi diversi livelli si propagano in cerchi concentrici, come quelli che si formano nell’acqua, quando vi lanciamo un sasso. E questa è anche la struttura della rubrica di questo mese, concentrica, ove al centro immaginiamo l’io, l’interno. Fuor di metafora, è così che intendo affrontarli in questo angolo delle parole, partendo dal più ampio. L’altro in giapponese è, tanto per cominciare, lo straniero.

外国人 じん がいこく jin gaikoku

Gaikokujin, con i kanji di fuori 外, Paese (nel senso di nazione) 国 e persona 人, quindi potremmo tradurlo come persona di un paese fuori dal Giappone (esterno).

In differente versione qui, con i kanji di fuori e persona, Gaijin indica sempre una persona esterna. Per chi non conosce il linguaggio dei kanji potrebbero sembrare la stessa parola e, invece, pur essendo quasi sinonimi, manca qui il kanji di Paese e in un momento, la persona passa da esterna a estranea. Persona (di) fuori. Infatti, questo termine viene anche utilizzato con un’accezione negativa.

外人 がいじ ん gaijin

Come già avrete notato Soto è il protagonista assoluto, quando si vuol indicare qualcosa di fuori da sé. Letteralmente, infatti, significa fuori e così come questa rubrica è iniziata con lui, sarà anche lui a chiudere il cerchio (sino al più piccolo).

外 そと、ガイ soto, gai

Inoltre, l’altro è anche l’Occidente. Avvicinandoci di un passo al nostro centro immaginario, l’interno, abbiamo un altro “altro”: l’Occidente, in tutte le sue promanazioni. 43

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A evidenziare l’antinomia troviamo i kanji di 和 (ワ, wa) che sta a indicare tutto ciò che è giapponese. 和室 washitsu: stanza in stile giapponese. 和食 washoku: cibo giapponese. 和服 wafuku: vestiti in stile giapponese.

洋 (ヨウ, yō) Al contrario, indica tutto ciò che è in stile occidentale. 洋室 yōshitsu: stanza in stile occidentale. 洋食 yōshoku: cibo occidentale. 洋服 yōfuku: vestiti in stile occidentale. Ancor più addentrandoci, arriviamo al cerchio forse più interessante, poiché squisitamente giapponese. Si tratta di una linea tra interno ed esterno, tracciata dall’uso dei suoi diversi metodi di scrittura.

Katakanago

In giapponese si definisce impropriamente “alfabeto” un sistema di scrittura composto di more, l’unità prosodica della lingua giapponese, come per l’italiano lo è la sillaba. Di questi “alfabeti” ne esiste uno che si utilizza per le parole di origine straniera, importate nella lingua giapponese. Questo “alfabeto” si chiama katakana. Quindi implicitamente, anche questa caratteristica nipponica in piena regola, nel linguaggio viene immediatamente percepito se quella parola ha origine interna o esterna. Qui è, dunque, la scrittura che da sola ci indica l’altro. Spesso queste parole, oltre a essere scritte diversamente rispetto a quelle che vantano origini asiatiche, indicano concetti antinomici a quelli tradizionali, così da sottolineare la differenza.

Kazoku vuol dire famiglia, attraverso i kanji di 家 casa e 族 tribù, club, gruppo. Sembrerebbe un termine neutro. Tuttavia, è apparsa un’altra parola per indicare la famiglia: Famirī.

ー リ ミ rī ァ フ ami f

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家族 かぞ kaz く oku

Traslitterazione del termine inglese family che viene utilizzata per quella che viene considerata la “famiglia-non-tradizionale”. Ed ecco subito chiara, anche a colpo d’occhio, la differenza. Il katakana, porta dentro la lingua giapponese a colpi di spigolosissime sillabe, concetti e contenuti “altri” rispetto a quelli tradizionali, dai tratti affascinanti e sinuosi.


Infine, arriviamo all’ultimo cerchio, il più stretto vicino al centro, all’Io. L’ultimo livello dell’altro, del quale, come anticipato, è sempre protagonista 外. Questa volta però cambia il termine di paragone, l’antinomia infatti è tra 外 (soto, fuori) e 内 (uchi, dentro). Per 内 (uchi, dentro) si intende se stessi e poi le persone vicine a sé. Non solo i familiari e i propri cari, ma anche chi viene percepito più vicino a se stessi dell’interlocutore. Per 外 (soto, fuori), al contrario, si intende tutto ciò che è fuori da se stessi o dal gruppo che si ritiene interno. Si tratta di concetti duttili e che, come tali, variano di persona in persona e anche a seconda dall’interlocutore con chi o di cui si parla.

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Latte e sangue, Goffredo Parise e Yasunari Kawabata a cura di Carmen Borrelli

Cos’hanno in comune Goffredo Parise e Yasunari Kawabata – oltre al fatto di essere due grandissimi autori? La risposta la si può cercare nei Sillabari. Italia, fine anni Sessanta. Goffredo Parise, giornalista, reporter e scrittore, vede nella piazza sotto casa un bambino con un sillabario; si affaccia curioso sul quel quaderno e legge “L’erba è verde”. In mezzo a tante parole difficili, quella semplice frase era “un richiamo all’essenzialità”: Un giorno un uomo conobbe una giovane signora in casa di amici ma non la guardò bene, vide che aveva lunghi capelli rossastri, un volto dalle ossa robuste con zigomi sporgenti da contadina slava e mani tozze con unghie molto corte. Gli parve timida e quasi impaurita di parlare e di esprimersi. Il marito, un uomo tarchiato con occhi sottili e diffidenti in un volto rinchiuso pareva respirare con il collo gonfio e gli ricordò i ranocchi cantanti. Aveva però caviglie fragili e senili e le due cose, collo e caviglie, davano al tempo stesso una idea di forza e di debolezza.

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Giappone era un Paese che “stava per divenire”, culla di speranza. Il suo viaggio, confluito in L’eleganza è frigida, viene raccontato sotto forma di romanzo dal suo protagonista, Marco. È stato un reportage ampiamente criticato da moltissimi yamatologi, per essere impreciso e forse anche troppo idealizzato. Nonostante Parise fosse un amante del Giappone e leggesse moltissimi autori giapponesi, non era un esperto e quindi alcuni passi possono far storcere il naso a molti puristi. Tuttavia, è innegabile che Parise riesca comunque a cogliere, da attento osservatore, alcuni tratti fondamentali. Nel capitolo dedicato al sumō, infatti, intuisce che dev’essere il grado di cattiveria nello sguardo dei lottatori quello che incorona il vincitore. Curiosa, inoltre, è anche la parte dove dice di incontrare la moglie di Yasunari Kawabata, allora già vedova. L’incontro di per sé non gli dice nulla di nuovo – il tutto si risolve in un breve scambio di formalità – ma diventa interessante perché è una prova della sua profonda ammirazione per il primo premio Nobel giapponese.

Ed essenzialità, infatti, è quello che è alla base dei Sillabari, una sorta di raccolta di racconti brevissimi – definiti per questo “poesie in prosa” – che inizialmente Parise pubblica sul Corriere della Sera, fra il 1971 e il 1973. L’idea è quella di parlare dei sentimenti e di porli in ordine alfabetico, come in una sorta di dizionario. Tuttavia, Parise arriva solo alla S. «La poesia mi ha abbandonato» dice nell’Avvertenza alla raccolta, «e a questa lettera ho dovuto fermarmi». A questo proposito, si prenda in analisi uno dei racconti dei Sillabari, ovvero Famiglia. In queste brevi Lo spirito essenziale che rimanda allo zen non pagine, Parise ci presenta una famiglia talmente uniè l’unico motivo per cui si è deciso di parlare ta da riuscire ad affrontare una nascita molto difficile. di lui in questo numero di Kotodama. Il loro bambino, nato prematuro, è costretto a restare Quasi contemporaneamente alla stesura dei racconti, per i primi tempi in un’incubatrice. L’amore, però, Parise viene inviato a Tokyo come reporter, sempre che lega i coniugi tra di loro, risveglia l’invidia di dal Corriere. Quando lo scrittore arriva a Tokyo, il un loro amico ancora solo, narratore della storia.


Un passo stupendo del racconto è quello in cui il bambino deve prendere il latte materno. Essendo ancora molto debole, la mamma glielo versa in una boccetta e l’uomo, incuriosito, chiede di poterlo assaggiare. L’uomo lo sorbì con molta attenzione e con il cuore che batteva, sentì prima il tepore e la densità del latte e poi stando attentissimo sentì il sapore che era di latte, di miele, di margherite piccole o erba e di persona umana. Poi il latte si sciolse in bocca e tutto scomparve ma gli bastò per capire fino a che punto l’uomo era privilegiato fra tutti gli animali e quale è la sua fortuna di nascere, di allattare e di vivere. Questa descrizione del latte è stata particolarmente influenzata proprio da Kawabata e dal suo La casa delle belle addormentate. Eguchi, il suo protagonista, ha quasi 67 anni, sente sempre più forte l’avvicinarsi della morte e del proprio degrado fisico. Per questo, si reca in una casa di piacere molto particolare in cui i clienti vanno a trascorrere una notte con delle ragazze, pesantemente addormentate da barbiturici. Non ci sono rapporti fisici, quindi: è una casa per degli uomini che sentono, però, ancora bisogno di una vicinanza fisica. L’ambiente chiuso e a tratti opprimente ci consente una scesa nella psiche di Eguchi, di cui percepiamo i ricordi risvegliati ogni volta dalla vicinanza dei corpi nudi delle ragazze. Non essendoci conversazione tra di loro, la discesa nella sua mente non viene ostacolata. Il seno di una delle prime ragazze, in particolare, funziona da catalizzatore. Guardando il suo seno, infatti, sente odore di latte, tratto singolare perché la ragazza non ha partorito. Si tratta di una sorta di allucinazione olfattiva, che gli ricorda una vecchia amante. In quell’occasione, lui aveva ferito il seno di questa donna, facendo uscire del sangue.

quando, finiti quei momenti di follia, Eguchi si era distaccato dalla donna, lei non avvertì dolore. Che quei due ricordi gli tornassero alla mente era cosa da stupire, tanto erano lontani nel tempo. Né sembrava che, essendo ormai sopiti, potessero avere a che fare con l’odore di latte della ragazza dormiente. E tuttavia, a pensarci bene, i ricordi o le memorie degli uomini sono tali da non potersi definire recenti o vecchi, remoti o vicini. Ci sono cose dell’infanzia che si rammentano più nette e vivide di altre vissute il giorno innanzi. E non è forse vero che questo accade soprattutto quando si è vecchi? Non ci sono casi in cui sono proprio gli eventi dell’infanzia a formare il carattere di un individuo e a guidarlo per tutta la vita? Questo rapporto tra latte e sangue ha colpito molto Parise che, infatti, ha scritto anche L’odore del sangue, in cui racconta il suo rapporto con la compagna. Parise deve aver letto, quindi, tantissime volte questo passo di Kawabata, interiorizzandolo al punto da riversarlo nei suoi racconti in versi.

Una volta, ritirando il volto, Eguchi si accorse che il capezzolo di lei era leggermente venato di sangue. Rimase per un attimo impaurito, ma poi, come se nulla fosse accaduto, riaccostò delicatamente il viso, e succhiò. La ragazza, trasportata nell’estasi, non si rese assolutamente conto di nulla. Anche 47

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La pelle e lo specchio – un racconto inedito di Angela Carter a cura di Damiana De Gennaro

Angela Carter, nata a Eastbourne nel 1940, è stata scrittrice, giornalista, poeta. La pelle e lo specchio, dalla raccolta di racconti Fireworks (1974), mostra il lucido spaesamento di un’europea appena tornata a Tokyo dopo un soggiorno in Inghilterra. Il grande tema è quello dell’inconsistenza dell’identità. La città, raccontata in un registro vivido e grottesco, è il palcoscenico su cui la protagonista mette in scena una sorta di delirio romantico. Attraverso il dispositivo della metanarrazione, Angela Carter ci consegna il disturbante e seducente ritratto di una donna che si muove in quella che l’architetto Ashihara Yoshinobu ha definito «la città ameba». docile, malinconica folla che invade l’umida ragnaEra mezzanotte – ho stabilito il tempo e le scene tela di stradine sotto un falso soffitto di ombrelli. con la precisione di un’artista. Non avevo forse at- Ogni cosa appariva desolata come il Martedì Grasso. traversato ottomila miglia per trovare un clima con Stavo cercando tra la moltitudine di volti sconosciuti dentro abbastanza angoscia e isteria da soddisfarmi? il viso di quello che amavo mentre la calda, densa, Ero arrivata a Yokohama quella sera dopo un viag- forte pioggia estiva ungeva la superficie scura delle gio in Inghilterra e nessuno era venuto a prendermi, strade fino al punto che, dopo un po’, le stesse iniziasebbene io aspettassi lui. Così avevo preso il treno vano a splendere come lisce pellicce di foche appena per Tokyo, circa mezz’ora di viaggio. All’inizio ero emerse dal fondo del mare.

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arrabbiata, ma poi l’intensità della mia situazione mi aveva invaso, ed ero triste. Tornare dalla persona amata e trovarla assente! Il cuore mi saltava nel petto come i cani di Pavlov al pensiero di un trattamento simile; la prospettiva dell’infelicità bastava a farmi salivare, ero sicura che fosse quella la vita reale. Mi dicono che sembro sempre solitaria quando sono sola; questo è perché, quando ero un’adolescente insopportabile, avevo imparato a sedermi con il colletto della giacca rialzato in modo solitario, così che le persone mi parlassero. Non riesco a disfarmi dell’abitudine nemmeno adesso, anche se ora è solo un’abitudine: nient’altro che, devo ammettere, un’abitudine rapace.

La folla si rovesciava su di me come un’onda piena di occhi, fin quando non mi sembrava di camminare in un oceano i cui abitanti muti e gesticolanti, come quelli di cui i filosofi medievali riempivano i paesi degli abissi, erano sistematici rovesciamenti o immagini specchiate degli abitanti della terra. Mi muovevo dentro queste prospettive espressioniste nel mio vestito nero, ero io a creare tutto e anche me stessa, nel mio vestito nero, innamorata, in lacrime, mentre attraversavo la città in terza persona singolare, la mia stessa eroina, e ogni cosa era stimolata alla vita dai miei occhi come dal fulcro di una ruota si irradiano i raggi.

Era mezzanotte e stavo piangendo amaramente mentre passavo sotto i fiori di ciliegio artificiali che usano per decorare le lampade da aprile a settembre. Lo fanno affinché i quartieri di piacere abbiano l’aspetto di un continuo carnevale, non importa quale effetto di agitazione possa disturbare l’incessante, nevrotica, silenziosa,

Adesso credo di sapere che cosa stavo cercando di fare. Volevo sottomettere la città trasformandola nella proiezione delle mie sofferenze. Che arroganza solipsistica! La più grande città al mondo, la città progettata per non soddisfare nessuna delle mie aspettative da Europea, la città che si presenta allo straniero con l’enigmatica trasparenza, la chiarezza indecifrabile dei sogni. È il sogno che lui, l’Euro-


peo, mai avrebbe potuto sognare. Lo sconosciuto, lo tra le braccia di un perfetto sconosciuto che le chiese straniero pensa di avere il controllo, ma è precipitato come mai stesse piangendo. Lei andò con lui in un nel sogno di un altro. inequivocabile hotel con uno specchio sul soffitto e il cui letto evidentemente illecito era decorato con Non puoi mai sapere cosa succederà a Tokyo. un lascivo pizzo nero. I suoi occhi avevano la forma Tutto può succedere. Della città mi attraeva il so- di lustrini. Per tutta la notte una sottile, pallida falce spetto che contenesse enormi risorse istrioniche. di luna con una sola stella che pendeva dalla punta Frugavo sempre nel camerino del mio cuore per inferiore galleggiò sulla pioggia che batteva contro cercare la posa più adatta alla città. In questo modo la finestra e si sentiva un meccanico frinire di cicale. tenevo alte le mie difese: all’epoca soffrivo molto Talvolta, la campanella che pendeva dalla grondaia all’idea di avvicinarmi troppo alla realtà, il netto emetteva un suono deliziosamente triste. mondo quotidiano con i suoi spigoli duri e la luce Il lirismo erotico di questa dolce, triste notte pioviolenta non dava abbastanza risonanza all’eco del- vosa d’estate non faceva parte delle mie aspettative: le pretese che avanzavo sull’esperienza. Era come mi aspettavo, piuttosto, che lui mi strangolasse. La se non avessi mai avuto esperienza dell’esperienza mia sensibilità avvizziva sotto il peso della reazione. come esperienza. La vita non aveva mai soddisfatto La mia sensibilità affondava sotto i colpi dei miei le mie aspettative – la sindrome di Madame Bovary. sensi. La mia immaginazione era stata svuotata in Immaginavo sempre cose diverse da quelle che poi anticipo. succedevano, e così mi sentivo sempre truffata, insoddisfatta. La stanza era una scatola di carta oleata piena degli echi della pioggia. Quando la luce fu spenta ed Sempre insoddisfatta anche se, come un’eroina eravamo stesi vicini, potevo ancora vedere l’unica perfetta, me ne andavo, piangendo, alla ricerca di- forma del nostro abbraccio nello specchio sopra di sperata di un amante perduto nell’aromatico labirin- me, una congiunzione meravigliosamente inaspettato di stradine. E non ero in Asia? Asia! Per quan- ta estratta a sorte dall’enigmatico caleidoscopio della to ci vivessi, mi sembrava sempre lontana da me. città. Sui nostri corpi si proiettavano le sagome delle Era come se ci fosse del vetro tra me e il mondo. tende in pizzo ed era come se la nostra pelle fosse Ma riuscivo a vedere me stessa perfettamente bene una misteriosa uniforme distribuita dalla direzione dall’altro lato del vetro. Ero lì, mi alzavo e andavo allo scopo di rendere anonimi tutti coloro che facea dormire, consumavo pasti, facevo conversazioni, vano l’amore in quell’hotel. Lo specchio annichiliamavo, ero indifferente e così via. Per tutto il tempo va il tempo, lo spazio, l’individualità. Nella consareggevo i fili della mia marionetta; ero questa ma- crazione di questo alloggio, allo specchio spettava rionetta che si muoveva dall’altra parte del vetro. E il compito di riflettere abbracci casuali. Per questo assistevo alle più meravigliose avventure con l’oc- motivo rifletteva la pelle in una maniera esemplare, chio annoiato dell’agente che con un sigaro guarda con indifferenza e carità. l’ennesima audizione. Battevo il tempo e chiedevo agli eventi: “Che altro avete da mostrare?” Lo specchio estraeva l’essenza di tutti gli incontri fra sconosciuti la cui percezione dell’altro Così provavo a ricostruire la città sul tracciato esisteva solo nella forma dell’abbraccio casuale, della mia immaginazione come lo sfondo nel quale l’accidentale. Nel tempo senza durata che abbiamo si muoveva la mia marionetta, ma la città si oppo- impiegato per fare l’amore, non eravamo noi stessi, neva duramente alla mia ricostruzione. Stavo solo chiunque essi fossero, ma in un certo senso eravamo immaginando di starla ricostruendo. La notte in cui i fantasmi di noi stessi. Ma gli io che non eravamo, vi ero tornata, per quanto cercassi quello che amavo, gli io della nostra abituale percezione di noi steslei non lo trovava da nessuna parte e la città la portò si, avevano una sostanza quanto più insostanziale di 49

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quella riflessione. Lo specchio magico mi aveva rivelato una nozione di me che mi era rimasta finora sconosciuta. Senza che ne avessi l’intenzione, ero stata definita dall’azione riflessa nello specchio. Mi tormentai. Ero il soggetto della frase scritta sullo specchio. Non la stavo guardando. Non c’era niente oltre la superficie di vetro. Niente mi riparava dal fatto, dall’atto; ero stata partecipe della conoscenza delle vere condizioni della vita. Gli specchi sono oggetti ambigui. La burocrazia dello specchio mi consegna il passaporto per il mondo, mi mostra le mie sembianze. Ma a cosa serve il passaporto a chi viaggia solo con la fantasia? Le donne e gli specchi sono complici nell’estraniare l’azione che io/lei interpreta che lei/io non posso guardare, l’azione con cui esco fuori dallo specchio, attraverso cui assumo le mie sembianze. Ma questo specchio rifiutava la mia complicità; era come il primo specchio che avessi mai visto. Rifletteva l’abbraccio sotto di esso, candidamente. Tutto ciò che mostrava era inevitabile. Io stessa non avrei mai potuto sognarlo. Vedevo la pelle e lo specchio ma non potevo scendere a patti con ciò che vedevo. La mia

reazione più immediata fu la sensazione di evadere dal mio personaggio. Il travestimento che avevo indossato per adattarmi alla città mi aveva tradito per una stanza, un letto e una modificazione di me stessa che non aveva niente a che fare con la mia vita, non con quella che finora mi ero guardata interpretare. Allora evasi dallo specchio. Ero corsa fuori dalle sue braccia e sedevo al margine del letto con in mano una sigaretta accesa dal fondo di una usata. Continuava a piovere. La mia dimostrazione di turbamento era perfetta in ogni dettaglio, come nei film. Applaudii ad essa. Ero compiaciuta del fatto che lo specchio non mi avesse convinto ad agire in modo che avrei pensato inappropriato: dormire tranquilla, come se l’infedeltà non avesse avuto alcuna importanza. Adesso tremavo al presentimento disturbante che l’uomo dagli occhi luccicanti che era stato gentile con me fosse il sostituto ironico dell’altro, quello che amavo, come se il carnevale arbitrario delle strade mi avesse graziosamente offerto quest’uomo giovane per provare che potevo evadere dal mio personaggio e poi proiettare la nostra intersezione sullo specchio, come se fosse una lezione oggettiva sulla


natura delle cose. Così, dopo essermi vestita, appena ci fu luce corsi via. Nella misteriosa, incolore luce dell’alba dei corvi volarono fuori da un tempio per posarsi su un palo del telegrafo, gracchiando un ritornello minaccioso che echeggiava nelle strade adesso svuotate di tutti quelli che cercavano il piacere. Non pioveva più. Il cielo era coperto da uno strato di nubi e faceva così caldo che sudavo al più lieve movimento. Le sconcertanti insegne elettriche della città di notte erano spente. Tutte le prospettive erano pallide, l’aria era piena di polvere grigia. Non avevo mai visto un mattino così banale. La mattina prima della scorsa notte, la mattina prima di questa mattina opprimente, mi ero svegliata nella cabina della nave. Per tutto il giorno, mentre ci avvicinavamo alla costa nel tempo luminoso, avevo fantasticato sul nostro incontro: il ritrovo degli amanti rinfrescato da tre mesi di distacco, dopo essere tornata a casa per un lutto. Tornerò più presto che potrò, scriverò, verrai a prendermi al molo? È sicuro, è sicuro che lo farà. Ma lui non era al molo. Dov’era?

Così sono partita per la città e ho iniziato il mio giro disperato per i quartieri di piacere, cercandolo in tutti i locali dove avrei potuto trovarlo. Non era da nessuna parte. Naturalmente non conoscevo il suo indirizzo; si trasferiva continuamente da una stanza in affitto all’altra con l’agilità di un incosciente e ci scrivevamo con indirizzi sempre provvisori, da caffetterie, uffici postali, ecc. C’era stato uno spostamento di posta reminiscente degli eccessi dei romanzi del diciannovesimo secolo, in un modo così difficile da credere, che poteva solo essere causato dalla disperata necessità sentimentale di fare quanta più confusione possibile. Eravamo entrambi orgogliosi delle nostre sensibilità appassionate, naturalmente. Ecco una cosa che avevamo in comune. Così, per quanto pensassi di essere lo spettacolo più romantico che si potesse immaginare mentre me ne andavo piangendo tra le stradine, in verità ero in pericolo – ero caduta in una delle buche disseminate per la vita; queste buche peculiari che portano agli sportelli dove paghi il prezzo di vivere nel modo in cui vivi.

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Il caso opera in relazione a queste lacune esistenziali: ci cadi dentro per fame, disperazione, insonnia, allucinazione o quelle accidentali-volontarie incomprensioni dell’ora di un treno o di un aereo che producono vuoti margini di tempo, in cui ti smarrisci. Sei in balia degli eventi. È per questo che mi piace essere straniera; viaggio solo per l’insicurezza. In quel momento, però, non lo sapevo. Ho trovato il mio auto-imposto destino, la persona che amavo, piuttosto presto quella mattina, ma subito abbiamo iniziato a litigare. Abbiamo litigato per tutto il giorno assiduamente, e quando mi sono sforzata di reggere le fila di me stessa e prendere il controllo della situazione, ho scoperto con stupore che ciò che volevo era un disastro, un naufragio. Vedevo la sua faccia come se fosse in rovina, per quanto fosse la vista che conoscessi meglio al mondo. La prima volta che l’avevo vista, non mi era sembrata una faccia sconosciuta. Sembrava in qualche modo corrispondere all’idea che avevo della mia stessa faccia. Sembrava una faccia conosciuta da molto tempo, familiare, una faccia che era sempre stata imminente nella mia coscienza come un’idea che trovava in essa la sua prima espressione visiva. Immagino dunque che non conoscevo bene il suo aspetto, forse non lo conoscerò mai, poiché era chiaramente un oggetto creato tramite la mia fantasia. La sua immagine era già presente da qualche parte nella mia testa e io stavo cercando di scoprirla nel mondo fisico, guardando ogni faccia che incontravo nel caso fosse quella giusta – cioè la faccia che corrispondeva alla mia nozione della faccia sconosciuta della persona che avrei dovuto amare, la faccia creata autonomamente dal rabbioso desiderio di amare che mi consumava. Il suo sé, dunque, e con il suo sé intendo dire quel che lui intendeva di essere, mi era abbastanza sconosciuto. L’ho creato solo in relazione a me stessa, come un’opera d’arte romantica, un oggetto che corrisponde al fantasma dentro di me. Quando lo amai per la prima volta volevo smontarlo, come un bambino smembra il suo giocattolo meccanico, per comprendere gli imperscrutabili meccanismi al suo interno. Volevo vederlo molto più nudo di quanto fosse senza i vestiti. Svestirlo era piuttosto 52

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semplice, poi ho preso il bisturi e ho iniziato il vero lavoro. Ma, essendo così occupata nella dissezione, ho scoperto solo quel che di lui già sapevo dall’esperienza passata. Se anche mi capitava di trovare qualcosa di nuovo, ignoravo quel qualcosa fermamente. Ero così assorbita dal lavoro che non mi sono mai chiesta se potesse fargli male. Al fine di creare così l’oggetto amato e munirlo di certificato di autenticazione, come amato, dovevo anche elaborare l’idea di me stessa innamorata. Mi osservavo con circospezione: ero in cerca di segnali, ed eccoli apparire in quel preciso istante. Desiderio, auto-abnegazione, ecc. Mostravo tutti i sintomi. Anche così, malgrado la fuga di sentimenti, non avevo sentito altro che piacere quando l’uomo giovane che mi aveva raccolto dalla strada mi penetrò nella pornografica stanza da letto. Mi sentii colpevole solo dopo, quando capii che sul momento non mi ero sentita minimamente colpevole. Ero forse me stessa quando mi sentivo in colpa oppure no? Ero perplessa. Non capivo più la logica del ruolo che interpretavo. Il mio copione era stato confuso alle mie spalle. L’operatore era ubriaco. Il regista aveva avuto una crisi di nervi ed era stato portato in una casa di cura. Il mio partner aveva raccolto dolorosamente sé stesso dal tavolo operatorio e aveva iniziato a rattopparsi secondo il proprio disegno! Tutto questo era successo mentre stavo guardando nello specchio. Immagina l’offesa. Abbiamo litigato fino a notte fonda e mentre litigavamo ci siamo fatti strada in un altro hotel, che era in ogni aspetto la parodia dell’hotel della notte prima. (Ecco a cosa somigliava: squallore e umiliazione! Ah!) Qui non c’erano tendaggi in pizzo né campanelle al vento né luce lunare né umidi sospiri di pioggia lugubre e seducente; questo posto era cupo, meschino e triste, le lenzuola sul materasso che ci avevano buttato a terra poco prima erano macchiate, anche se all’inizio non ci avevamo fatto caso, occupati com’eravamo a fingere la passione urgente che avevamo provato tempo fa. Adesso non la sentivamo più, ma era come se interpretando quella passione con sufficiente intensità sperassimo


di ricrearla artificialmente, anche se la nostra pelle (che ci conosceva meglio di quanto non facessimo noi) ci diceva che il periodo della reciprocità era finito. Era una stanza vile, le finestre affacciavano su un parcheggio oltre cui c’era un’autostrada, e così la carta da parati era scossa dai riverberi dell’infernale clamore del traffico. C’era un fiacco ventilatore con delle mosche morte nelle ventole e una singola striscia di neon che illuminava noi e tutte le altre cose con una luce a stento tollerabile e senza scrupoli. Una donna trasandata con un sudicio grembiule ci portò dei bicchieri di annacquato e freddo tè all’orzo e poi uscì sbattendo la porta. Non avrei lasciato che lui mi baciasse tra le cosce perché temevo che avrebbe assaporato le tracce dell’avventura di ieri notte: un lieve tocco di paranoia in quell’inganno. Non so fino a che punto la colpa avesse a che fare con la scelta dello scenario, ma mi sembrava assolutamente appropriata. L’aria era più densa del tè che era rimasto tutto il giorno sul lavello e ricordo che c’erano scarafaggi sul soffitto. Ho pianto per tutta la prima parte della notte, ho pianto finché non sono stata esausta ma lui era girato dal suo lato e dormiva – aveva capito il mio stratagemma – a differenza mia che non sapevo di stare mentendo. Non riuscivo a dormire a causa del traffico che faceva sobbalzare i muri. Avevamo spento la lampada accecante; quando vidi un lampo di luce sulla faccia del mio compagno pensai: “è troppo presto perché sia già mattina”. Era infatti un tizio che si introduceva silenziosamente nella stanza che non era stata chiu-

sa a chiave; qualsiasi cosa può succedere in questo hotel poco raccomandabile. Avevo urlato e l’intruso era sparito. Svegliato dal mio grido il mio compagno mi immobilizzò istantaneamente, nel caso stessi provando ad ucciderlo. Forse aveva pensato che fossi impazzita. Eravamo entrambi abbastanza vecchi da aver visto di meglio. Quando accesi la luce per vedere che ora era, notai con stupore che i suoi tratti diventavano indistinti, come vecchie scritte su un palinsesto. Non aspettammo molto prima di separarci. Solo pochi giorni. Non puoi tenere a lungo un tale ritmo. La città scomparve; cessò, quasi istantaneamente, di essere un luogo magico e grottesco. Un giorno mi svegliai ed era diventata casa. Lo stesso continuo ad alzare il colletto della giacca in modo solitario e guardare la mia immagine riflessa negli specchi: sono solo abitudini e non hanno niente a che fare col mio personaggio, qualsiasi cosa esso sia. Agire con naturalezza: non è forse questo il ruolo al mondo più difficile da interpretare? Il resto è artificio.


生け花とコロッケ a cura di 江原清美

日本語教師の先輩から「大連の大学でベテランの日本人教師を探してい るので行かないか」という話でした。それまで多くの中国人学習者には 接していましたが、旅行でも中国に行ったことは一度もなく、地理的に は隣であっても政治から生活習慣まで様々な点で違いが大きく「住む」 ということは想像したこともありませんでしたので、「即お断り」をし ましたが、その後再三ラブコール(笑)をもらい、気持ちが変わってい きました。赴任を決断した一番の理由は「one chance last chance」と いう語が頭を過ったからです。 既に50代後半だった私はこんなチャンスは2度ない!と決心したので す。 さて、多くの不安と好奇心の中、大連での教師活動が始まりました。 私に期待されていることは何か、日本人として教科書以外の何かを伝え ることに集中した2年間でした。 アジア圏の隣の国とはいえ、文化も習慣も違う若者に日本のアニメ以外に直接触れて日本文化 の何かを感じて欲しい、知って欲しいと思い最初に選んだのは「花道」実習です。 「花道」は流派によってスタイルは様々ですが「生きている花の命をいつくしみ愛でる」という 心を伝えられればと取り組みました。学生に希望者を募ると、あっという間に100人超え!中国 では開店祝いに大きな花輪を店の外に置いたり、造花はホテルや店にも飾られていますが、家庭 に生の花を生けるという習慣はまだなく、この授業で一番苦労したのは「生花」の入手でした。 大きな生花店でも花の種類はバラ・ガーベラ・極楽鳥花など数種しかなく日本の生け花に使う花 材はほとんどありません。しかも日本より高価で、予算面からも大変でした。 花器はIKEAで買ったお皿、剣山の代用はオアシスです。それでも私の花の師匠と花屋から国 際電話で相談しながら、「生け花らしく」なるよう試行錯誤し「生け花クラブ」を続けました。 花材集めの苦労が続く中、学長の許可のもと学内の藪や林の中の木の枝や花を摘み、花器も空 いたぺットボトルなどをそれぞれに使い摘んできた季節の自然の木の枝や実、花を思い思いに挿 すという自由な発想にレベルアップの授業に変化しました。トイレにおいた空き瓶にさした小さ な野の花が一瞬心を和ませてくれました。大学の歴史で全くなかった光景だそうです。 するといつしか学生は、道端の花を摘んで花を飾るということが日常的になり自室の机に飾る ようになったそうです。この活動は現在も大学で中国人の先生が継承してくださっていると聞い ています。「花道」は、高価な花や決まった花器などがなくてもいい、そして「何を楽しみ、何 を大切にすればいいのか」そんなことを感じてくれたのならうれしい限りです。 目の楽しみの次は、味の楽しみです。食は文化です。職員寮のキッチンで学生といっしょにコロ ッケやカレーを作り、お返しに餃子を教えてもらい、日本語学習+料理教室です。 これは生け花以上に大好評。材料の買い物も学生と市場に行き、おしゃべりしながらコロッケ 54

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づくり。餃子の包み方は地方によって違い、出来上がりは地方色豊かないろいろな形の餃子が並 びました。料理と言うのは、言葉がわからなくてもいいように思いますが、これは誤解でレシピ は食材の名前や手順、量が正確でなければおいしいものが作れません。言葉の勉強にはとてもい い教材です。 何よりおいしいものを食べるという目的があるので、力が入ります。 私が日本の自宅でも時折このレッスンをしていました。今はコロナ下で行えませんが。 大学の先生が帰りがけに寮のキッチン「江原食堂」に寄ってくださり、私の作ったインスタン トラーメンを食べながらおしゃべりしたのも楽しいひとときでした。 異文化の体験や、交流はonlineでは難しく早くこのようなレッスンが再開できることを願うばか りです。人はやはり五感で得た体験はいつまでも残っているものです。

Guida alla lettura 教師 (きょうし) insegnante 接する (せっ)する avere a che fare con, incontrare 想像 そうぞう immaginazione 「即お断り」そくおことわり rifiuto immediato ラブコール invito caloroso 笑 da わらう ridere 赴任を決断した (ふにんをけつだん)する decidere di accettare il nuovo lavoro (di spostarsi per un nuovo lavoro) 決心 decisione, determinazione けっしんする decidersi 多くの不安と好奇心の中 (おおくのふあんとこ うきしんのなか) con molte preoccupazioni e curiosità に集中した しゅうちゅう concentrarsi su アジア圏 アシアけん area asiatica 「花道」かどう la via dei fiori 流派 りゅうは scuola di ikebana (arte floreale tradizionale giapponese) 取り組む とりくむ trattare 開店祝い かいてんいわい cerimonia di inaugurazione di un negozio 花輪 はなわ ghirlanda 造花 ぞうか fiori artificiali 飾る かざる decorare (spesso usato per i fiori) 極楽鳥花 ごくらくちょうか sterlizie 花器 かき vaso da fiori 剣山 かんざん kenzan, pettine che si usa per fissare i fiori nelle composizioni di ikebana 師匠 ししょう maestro

「生け花らしく」いけばな qualcosa di simile all’ikebana 試行錯誤 しこうさくごう procedere per tentativi ed errori 許可 きょか permesso

藪 やぶ bosco 枝 えだ ramo 摘む つまむ raccogliere 花を思い思いに おもいおもいに ciascuno a suo modo 挿す さす inserire 継承 けいしょう successione, eredità 職員寮 しょくいんりょう il dormitorio del personale 誤解 ごかい malinteso 手順 てじゅん procedimento コロナ covid-19 「江原食堂」えはらしょくどう la cucina in stile Ehara 体験する たいけんする sperimentare 五感 ごかん cinque sensi

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Ikebana e crocchette a cura di Ehara Kiyomi

tradotto da Damiana De Gennaro Questo testo, la cui versione in lingua originale è nelle pagine precedenti, racconta l’esperienza di una donna giapponese che ha vissuto in Cina per due anni. Tra ricerche di fiori e imprevisti, chiacchiere e buon cibo non sono mai mancati. Una volta un collega più anziano mi ha detto: «All’Università di Dalian stanno cercando un insegnante di giapponese esperto, perché non vai tu?». Fino ad allora ero entrata in contatto con molti studenti cinesi, ma non ero mai stata in Cina. Nonostante la prossimità geografica, la politica e le abitudini cinesi mi sembravano troppo distanti da quelle giapponesi: non avevo mai immaginato di poter abitare lì. Ho rifiutato subito. Al terzo invito caloroso, però, qualcosa in me ha iniziato a cambiare. Mi sono venute in mente le parole “one chance, last chance”, e così ho deciso di accettare il nuovo lavoro. Ormai ho superato i cinquantacinque anni, non mi capiterà di nuovo un’occasione del genere, ho pensato. La mia docenza a Dalian è iniziata con molta ansia e curiosità. Durante i due anni trascorsi lì, quello che mi era chiesto di fare, in quanto giapponese, era di trasmettere ciò i libri di testo non dicono. Volevo che i giovani, con cultura e abitudini diverse anche se di un paese asiatico vicino, avessero modo di toccare con mano aspetti della cultura giapponese che andassero oltre la pop culture. La prima cosa a cui ho pensato è stata la pratica dell’ikebana. A seconda delle diverse scuole, esistono molti stili di ikebana, ma ciò che volevo trasmettere era un certo amore per i fiori freschi. Prima che potessi rendermene conto, più di cento studenti avevano richiesto di partecipare. In Cina, quando si inaugura un negozio, all’ingresso viene sistemata una grande ghirlanda di fiori; alberghi e negozi sono decorati con fiori finti, ma l’abitudine di tenere fiori freschi in casa non esiste. Il maggiore ostacolo che ho dovuto superare è stato proprio quello di procurarmi i fiori freschi. I fiorai avevano solo rose, sterlizie o gerbere, ma non i fiori che di solito vengono usati per l’ikebana. Inoltre, il prezzo era più alto del previsto, e anche l’aspetto economico era un problema. Come vasi di fiori ho usato dei piatti comprati all’Ikea. Anche così, mentre mi confrontavo al telefono con la mia maestra e vari fiorai, procedendo per tentativi, ho portato avanti il club dell’ikebana. Continuando la disperata ricerca del materiale, con il permesso del rettore, raccoglievo fiori e rami nei boschetti vicino del campus, usando come recipienti bottiglie di plastica. L’ora di ikebana così è evoluta in un momento di libera ispirazione in cui ciascuno disponeva fiori e rami con piccoli frutti di stagione. Una volta in un bagno ho trovato un fiore di campo in un vasetto, e in quel momento ho provato una grande tenerezza. Sembra che nessuno avesse mai visto una cosa del genere, all’Università di Dalian. Qualcuno 56

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mi ha raccontato che gli studenti avevano iniziato a raccogliere i fiori dal ciglio della strada e usarli per decorare le scrivanie nelle loro stanze. Il club dell’ikebana continua a esistere ancora oggi, sotto la guida di un’insegnante cinese. Anche solo aver comunicato che fare le cose con cura e allegria è più importante di avere a disposizione materiali di prima qualità, basta a rendermi felice. Al piacere degli occhi segue il piacere del palato. Il cibo è cultura. Nella cucina del dormitorio, insieme agli studenti, preparavo crocchette e riso al curry, e in cambio gli studenti mi insegnavano a fare i gyoza. Facevamo insieme lezioni di lingua e di cucina. Questa cosa era ancora più popolare dell’ikebana. Andavo al mercato con gli studenti per acquistare gli ingredienti e cucinavamo chiacchierando. Il modo di preparare i gyoza varia da regione a regione, e, con le loro peculiarità, li mettevamo tutti in fila sul tavolo. Avevano tutti forme e sapori diversi. Per cucinare bene, bisogna conoscere i nomi degli ingredienti, le procedure e le quantità. È un ottimo metodo per imparare una lingua. E poi, più di ogni altra cosa, se l’obiettivo è mangiare bene, ci si impegna. Qualche volta ho organizzato queste lezioni di cucina anche a casa in Giappone, anche se per via della pandemia non ho potuto farlo più. Era divertente quando qualche insegnante all’Università passava per la cucina del dormitorio, “la mensa Ehara”, e si fermava a chiacchierare e mangiare anche solo un ramen veloce. Fare esperienza di una cultura diversa attraverso le lezioni online è difficile, e non vedo l’ora di poter riprendere le lezioni come quelle che vi ho raccontato. Alle persone, dopotutto, rimane quel che è passato attraverso tutti e cinque i sensi.

Ehara Kiyomi vive e lavora a Tokyo. È specializzata nella didattica della lingua giapponese e tiene corsi di formazione per insegnanti di giapponese. In passato è stata una personalità televisiva e della radio presso la NHK. Sfruttando la sua esperienza nei media, da 25 anni lavora nell’ambito della didattica della lingua giapponese. Attraverso scuole di lingua, aziende e lezioni individuali, lavora a contatto di studenti provenienti da più di 30 paesi. Per due anni ha insegnato giapponese in Cina, presso l’Università di Dalian. Dallo scorso anno continua a insegnare attraverso le piattaforme Skype, Zoom e Teams, dando a chiunque la possibilità di fare lezioni con lei, tramite il suo contatto kiyomie7147@yahoo.co.jp e collabora con la rivista Kotodama.

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Kotodama in Libreria

a cura della Redazione

Iro Iro, il Giappone tra pop e sublime di Giorgio Amitrano, DeAgostini In Iro Iro, pubblicato nel 2018, ci viene presentato il Giappone attraverso le esperienze personali di Giorgio Amitrano, uno dei più famosi nipponisti italiani. Per la prima volta in veste di scrittore piuttosto che di accademico o traduttore, Amitrano ci parla della sua esperienza da studente, di quando la soba fredda era l’unico palliativo alle torride estati giapponesi; o di quando, un’altra volta, sporca di inchiostro la stanza dove stava praticando shodō. Non bisogna pensare, però, che questa sia una semplice miscellanea di aneddoti personali. Di sicuro, come suggerisce anche il titolo (iro iro significa “vario, tante cose”), uno degli obiettivi del libro è di passare da un argomento all’altro “seguendo il pennello”, ma è anche quello di dimostrare la contaminazione della cultura giapponese, costantemente tesa tra tradizione e moderno, tra “pop e sublime”, per l’appunto.

Quaderni Giapponesi di Igort, Oblomov Edizioni Si tratta di un saggio illustrato in tre volumi, disponibili singolarmente o in un cofanetto uscito a fine 2020. Igort, superbo disegnatore, documenta per filo e per segno la sua esperienza in Giappone: le attività, i luoghi visitati, le persone. Nel primo volume si concentra sull’industria del manga, nel secondo esplora l’aspetto naturalistico del Paese e il mondo dell’haiku, mentre nel terzo si sofferma sugli autori della letteratura, decorando il tutto dalle proprie esperienze personali. Tōkyō tutto l’anno di Laura Imai Messina, Einaudi In Tōkyō tutto l’anno - viaggio sentimentale nella grande metropoli, Laura Imai Messina sviscera mese per mese e giorno per giorno le tradizioni culturali della capitale giapponese. Il libro si compone di dodici macro capitoli, uno per mese, e ognuno di essi si apre con una piccola introduzione al mese stesso, con curiosità sul nome e sui suoi significati. Poi seguono racconti che spaziano dagli edifici, i festival, cibi tipici e piccole strade legate, in un modo o nell’altro, a quel mese. Non si tratta però di una mera spiegazione dei fatti, ma racconti e considerazioni scaturite da eventi quotidiani della vita dell’autrice, che spesso fa uso di questi come delle favole per i suoi figli. L’illustratore Igort ha partecipato al progetto, fornendo illustrazioni di una Tokyo tradizionale e romantica per decorare i testi, i risguardi e la copertina del volume.

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F***ing Sakura di Giulio Macaione, Panini Comics F***ing Sakura è un fumetto in due volumi pubblicato nel 2020 che vede protagonisti una coppia in viaggio verso il Giappone. Lui ne è innamorato da sempre, grazie alla cultura pop, lei invece è scettica. Non ama le stranezze e la passione del compagno, ma decide di assecondarlo. Durante il volo di andata però, i due decidono di prendersi una pausa, iniziando il viaggio in solitaria. Mentre per lui è un sogno che si realizza, per lei non è facile adattarsi a un Paese così diverso. Questo fumetto rappresenta le differenze di chi si approccia al Giappone per la prima volta: gli appassionati con gli occhi a cuoricino e i più scettici, ed entrambi verranno sconvolti dalla realtà.

Un libro da recuperare: Autostop con Buddha di Will Ferguson, Feltrinelli

A cura di Andrea Matafora Will Ferguson, autore canadese con una lunga esperienza in Giappone, scrive Autostop con Buddha, un diario di viaggio in cui si muove lungo una traiettoria ben precisa, quella del Sakura zensen, il fronte dei ciliegi, per esplorare il Giappone dalle acque incontaminate di Capo Sata nel Kyūshū sino all’estremità settentrionale di Capo Sōya in Hokkaidō, raccontando contemporaneamente una e mille storie: la sua e quelle delle persone che incontra. Autostop con Buddha è un diario di viaggio, eppure i luoghi sembrano essere delle decorazioni, dei palcoscenici minuziosamente costruiti in cui le persone, i veri protagonisti del viaggio di Ferguson, si raccontano. Autostop racconta un popolo nella sua estrema varietà e soprattutto nella sua umanità. Ferguson sembra voler esorcizzare quei luoghi comuni che rinchiudono i giapponesi nella loro facciata, nel tatemae, in un’asettica dimensione fatta di cortesia, timidezza, riservatezza. Nel viaggio con Ferguson, il lettore si trova ad aver a che fare con camionisti smodati e ubriachi che furbamente bypassano la legge, con genitori che provano sfacciatamente a combinare un matrimonio con le proprie figlie ma troviamo anche una donna di mezza età accoglie nel suo veicolo un temibile gaijin, un arzillo veterano di guerra che subito inizia a rivolgersi a Ferguson chiamandolo Willy-chan e una geisha che cammina per le strade di Kanazawa, come dipinta da Hokusai. Una gradevole peculiarità colora le scene di vita quotidiana, le quali vengono spesso intermezzate o introdotte da cenni storici e letterari. Ferguson ci presenta le storie dei daimyō, il teatro di Zeami, la vita di Nichiren e gli haiku ma senza mai attenersi obbligatoriamente alla rigidità o alla sensibilità che ci si aspetterebbe. Contemporaneamente, però, sa osare ed essere dissacrante, ironico e, spesso, estremamente sarcastico. Quindi Ferguson ci offre delle alternative, curiosa all’interno di una cultura e non la uniforma, ma la presenta così com’è, nella sua estrema varietà. La neve di Yuzawa di Maria Teresa Orsi e Fabio S. Tana, Einaudi Come suggerisce il sottotitolo, questo libro regala “immagini dal Giappone”. Un suggestivo viaggio per l’arcipelago giapponese, passando dai quartieri di Tokyo ai luoghi più remoti e sconosciuti. Il viaggio non è solo geografico, ma soprattutto storico e letterario, andando alla scoperta di autori di diverse epoche. Il viaggio si compone di ventotto tappe che toccano luoghi legati alla citazione letteraria, permettendo di abbattere i limiti del tempo e dello spazio. 59

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Un’autrice da scoprire: Suga Atsuko A cura di Maria Alessia Nanna

Nella traduzione letteraria vige una regola d’oro: tradurre solo verso la propria lingua madre. La traduttrice, scrittrice e studiosa Suga Atsuko è stata una delle poche a infrangerla con successo, traducendo dal giapponese all’italiano scrittori oggi amatissimi come Tanizaki e Kawabata, mentre dall’italiano al giapponese Ginzburg, Ungaretti e molti altri, svolgendo così un ruolo importantissimo nella diffusione della letteratura giapponese in Italia e di quella italiana in Giappone. Ai suoi esordi come scrittrice per la rivista giapponese SPAZIO, Suga Atsuko torna all’Italia dove ha vissuto per anni, unendo impressioni e ricordi a cenni di storia e letteratura. Nei testi poi raccolti nel suo primo libro nel 1990, Mirano kiri no fūkei (Milano, paesaggi nella nebbia), racconta la città di Milano, riscuotendo grande successo di pubblico e di critica e vincendo due premi letterari, il Joryū Bungaku Shō e il Kodansha Essei Shō. Il suo ritratto influenza la percezione giapponese della città, tanto che in Giappone può ancora capitare di vedere una copia di Mirano kiri no fūkei in vendita accanto a una guida di Milano. Nelle opere successive spazia fra tematiche e generi, ma il tema del viaggio e l’Italia tornano ancora: nel 1993 è il turno di Venezia con Venezia no shuku (Soggiorno a Venezia), mentre nel 1995 Suga, ispirandosi a un suo viaggio in solitaria, ripercorre le orme di Saba per le strade di Trieste in Toriesute no Sakamichi (Le salite di Trieste). Anche Napoli, in cui la scrittrice visse nel 1983 come insegnante, compare nei suoi ricordi italiani, nei capitoli Supakkanapori (Spaccanapoli) di Toki no kakeratachi (I frammenti del tempo) e Napori wo mite shine in Mirano kiri no fūkei. Il titolo di quest’ultimo capitolo è la traduzione del detto “Vedi Napoli e poi muori”, oggi molto conosciuto in Giappone anche (o soprattutto?) grazie a Suga Atsuko. Ore giapponesi di Fosco Maraini, Corbaccio Ormai lo sappiamo, per comprendere il presente, bisogna guardare sempre al passato. E per comprendere il Giappone di oggi, è necessario leggere di questo lungo e lento viaggio che Fosco Maraini, padre di Dacia Maraini, ha condotto in macchina lungo tutta l’isola. Da esperto conoscitore e poi da antropologo, Maraini cerca di spiegarci l’enigma che si nasconde dietro il Giappone, facendo riferimento alla storia delle popolazioni, dei flussi migratori, ma anche alle scritture classiche - il Kojiki, il Nihon Shoki e tanti altri. Non è sicuramente un libro da leggere per conciliare il sonno, ma il linguaggio chiaro e sempre comprensibile, arricchito a volte anche da termini toscani, lo rendono una lettura adatta anche a chi è un neofita del Giappone.

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Hajimemashite Carmen Borrelli. Nata a Napoli nel 1995. Iscritta al corso di Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”, ha svolto un anno di scambio a Tokyo, alla Keio University. Gestisce da quattro anni un blog, Nessun cancello, nessuna serratura, strettamente collegato al suo profilo Instagram (@lilyj2202), citato in Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020). Tra i suoi progetti, La tua, Virginia ha portato sui social, grazie anche alla collaborazione con la Italian Virginia Woolf Society, la lettura dell’epistolario di Virginia Woolf. Ha fondato Kotodama insieme a Dafne Borracci e oltre a scrivere gestisce le pagine social. Dafne Borracci. Nata a Firenze nel 1996. Nel 2013 ha frequentato il quarto anno di liceo a Ashiya, in Giappone. Nel 2018 ha vinto la borsa di studio MEXT Undergraduate e attualmente frequenta la facoltà di Lettere all’Università di Kyoto. Sui social parla di letteratura e storia giapponese attraverso il suo profilo Instagram, @dafneborracci, e il suo blog, Mai una soya. Periodicamente, pubblica la traduzione in italiano del romanzo di epoca Heian Torikaebaya Monogatari tramite newsletter. A luglio 2020 ha pubblicato il suo primo ebook Ikiryō - Spiriti viventi del folklore giapponese. Ha fondato Kotodama con Carmen Borrelli. Damiana De Gennaro. Nata a Vico Equense nel 1995, è laureata in Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”. Iscritta alla magistrale presso lo stesso ateneo, ha svolto un anno di scambio in Giappone, presso l’università Tōhoku. Ha pubblicato Aspettare la rugiada (Raffaelli, 2017), opera finalista al Premio Rimini, e Shibuya Crossing (Interno Poesia, 2019). Sue poesie sono ospitate su varie antologie, tra cui Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90.Vol. I (Interno Poesia, 2019) e Abitare la parola. Poeti nati negli Anni Novanta (Ladolfi, 2019). Alcune traduzioni delle sue poesie in spagnolo, inglese e sloveno si trovano online sulle riviste Libroamerica, Literalidad, Círculo de Poesía, Centro Cultural Tina Modotti, Otata, e il blog di Primož Sturman. Collabora con la rivista di poesia Mosse di Seppia e fa parte della redazione di Kotodama. Guendalina Fanti. Nata a Bologna nel 1992. Si è laureata in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia presso l’Università di Bologna, trascorrendo un periodo di scambio presso l’Università Sorbona a Parigi con la borsa di studio Erasmus. Dopo un periodo di studio in Spagna si trasferisce in Giappone per approfondire lo studio della lingua e ha fatto di quest’ultimo la sua casa. Attualmente vive a Osaka da dove condivide consigli di viaggio e racconta la vita quotidiana senza filtri tramite il suo account Instagram @lamiakyoto e sul sito web www.lamiakyoto.com. Per Kotodama segue la rubrica Nihon no Honto.

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Donatella Principi. Nata a Rimini nel 1991, è laureata in Acquacoltura e Igiene delle Produzioni Ittiche. Nel 2014 apre il canale YouTube e il profilo Instagram @Chibiistheway dedicati a libri, fumetti, lifestyle e alla sua passione per il Giappone, insieme all’omonimo blog. Ha collaborato con VVVVID, il canale YouTube di Animeclick.it, LegaNerd e RedCapes realizzando video e articoli dedicati al fumetto e all’animazione giapponesi. Nel 2018 partecipa al programma radiofonico Pandora di Rai Radio 2 per consigliare libri e fumetti agli ascoltatori ed è ospite a Lucca Comics and Games del panel Comics Instagrammer per parlare del rapporto social-fumetto. Nel 2019 è stata selezionata fra i 16 Bookinfluencer più influenti scelti dagli allievi del Master BookTelling dell’Università Cattolica di Milano. Appare nel libro Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020) e per Kotodama segue la rubrica Manga Café.

Giada Zaccardi. Nata a Roma nel 1986, è laureata in giurisprudenza e ha conseguito l’abilitazione di avvocato. Durante l’esercizio della professione intraprende lo studio della lingua giapponese, che deciderà di proseguire iscrivendosi alla laurea magistrale in Lingua, economia e istituzioni del Giappone all’università “Ca’ Foscari” di Venezia. Nel 2019 fonda il progetto のどnodo (www.nodonodo. com e su Instagram: @nodo_no_do), per promuovere la diffusione delle lingua e della cultura giapponese in Italia. Attraverso questo progetto organizza numerosi eventi, tra cui Tokyo art in Rome nel 2019, e impartisce lezioni di lingua e cultura giapponese. Per Kotodama segue la rubrica Kotobar, approfondendo termini peculiari della lingua giapponese.

Loris Usai. Nato a Roma nel 1986, all’età di sei anni disse alla madre: “Voglio vivere in Giappone”. Inseguendo il sogno di bambino, si è laureato in lingua e cultura giapponese all’Università di Roma “La Sapienza” e ha proseguito gli studi magistrali presso l’Università Statale di Milano. Si reca in Giappone con una borsa di studio MEXT (2012-2013) per ricerche sul tema delle minoranze sessuali e di genere all’Università Meiji di Tokyo, e non sarebbe più rientrato. Vive a Tokyo dove lavora come traduttore di romanzi, light novel e manga. Su Instagram @rorisu_in_japan e sul suo sito web www.rorisuinjapan.com condivide scorci di vita quotidiana giapponese, riflessioni linguistiche e news a tema LGBTQ+.

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Eleonora Badellino. Nata ad Alba (CN), nel 1992. Laureata presso l’Università’ di “Scienze Gastronomiche” di Pollenzo, dopo un’esperienza lavorativa nell’ambito Food in Italia e in America, arriva in Giappone dove partecipa a due progetti incentrati sullo studio e tutela del washoku, presso la città di Tsuruoka, prefettura di Yamagata (riconosciuta come “Unesco’s City of Gastronomy”), e Kanazawa, prefettura di Ishikawa. Vive in Giappone da due anni e per hobby gestisce una pagina Instagram @EveryDayObento e un blog DaidokoroLabo incentrati sulla gastronomia giapponese e non solo. Ha collaborato con la rivista The New Gastronome, con il magazine online Savvy Tokyo e per Kotodama segue la rubrica Obento.

Giorgia Lombardo. Nata a Vittoria (RG), nel 1996. Dopo essersi laureata all’Università di Catania in Mediazione Linguistica e Interculturale, si trasferisce a Roma per specializzarsi in lingua giapponese. Frequenta attualmente la facoltà di Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università di Roma “La Sapienza” e sogna di diventare traduttrice di manga. Alla passione per il Giappone, affianca quella per l’illustrazione e nel 2018 apre la pagina instagram @midoriart8 dove pubblica le sue illustrazioni di vario tema. Per Kotodama si occupa di grafica e illustrazioni.

Giulia Licciardello. Nata a Catania nel 1994, si laurea in Lingue e Culture Orientali e Africane all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” con percorso dedicato all’Estremo Oriente. Nel 2019 frequenta il master in Editoria dell’università di Verona e si specializza nel campo redazionale. Lavora come proofreader e correttrice bozze per GateOnGames e per Panini Comics e si occupa anche di progetti freelance. Nel tempo libero si dedica alla scrittura creativa e al suo profilo Instagram @hikari_monogatari. Ha pubblicato in formato ebook la raccolta di racconti Ricette d’amore. Per Kotodama si occupa di coordinamento editoriale, impaginazione, proofreading e delle pagine social.

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Kotodama è un’idea che nasce l’estate del 2020, da una conversazione tra Carmen Borrelli e Dafne Borracci. In un contesto internazionale che vede il sapere assumere forme sempre più fluide, lo scopo della redazione è quello di incoraggiare, anche attraverso i social, lo scambio di discorsi tra persone impegnate in uno studio continuativo di lingua e letteratura giapponese. Attraverso le rubriche cerchiamo di cogliere diverse sfaccetature della cultura giapponese, dagli aspetti più gradevoli a quelli più ambigui e problematici. La pubblicazione è a cadenza trimestrale. Per contribuire, per maggiori informazioni o altre domande è possibile scrivere all’indirizzo kotodama.rivista@gmail.com. Kotodama© 2021

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Riferimenti bibliografici e ringraziamenti • Per la stesura de Il Giappone nel fumetto italiano, si ringrazia: Il manga. Storia e universi del fumetto giapponese di Jean-Marie Bouissou, Tunué, 2011. L’articolo Il viaggio a Tokyo di Filosa, il fumettista che voleva essere Yoshiharu Tsuge di Andrea Tosti, Fumettologica. • Per la stesura di Japonisme Mania, si ringrazia: The Great Wave: The Influence of Japanese Woodcuts on French Prints di Ives Colta Feller, 1974. The Making of Hokusai’s Reputation in the Context of Japonisme di Inaga Shigemi, 2003. • Per la stesura de L’invenzione dei “gialli” e del razzismo scientifico, si ringrazia: Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin di Stephen J. Gould, Codice edizioni, 2015. Il Giappone made in Italy. Civiltà, nazione, razza nell’orientalismo italiano di Miyake Toshio, pp.607-627 di Orizzonti giapponesi: ricerche, idee, prospettive, 2018. • La traduzione del racconto La pelle e lo specchio, è di Damiana De Gennaro. La traduzione è stata realizzata su licenza concessa da Rogers, Coleridge and White Ltd. ‘Flesh and the Mirror’ from Fireworks by Angela Carter. Published by Vintage, 1974. Copyright © The Estate of Angela Carter. Reproduced by permission of the Estate c/o Rogers, Coleridge & White Ltd., 20 Powis Mews, London W11 1JN. • La traduzione del racconto Panorama con peschi 桃のある風景 (1937) è di Dafne Borracci. • Per la stesura di Studenti di scambio di altri tempi, si è fatto riferimento a: Il diario di una bicicletta di Natsume Sōseki, Lindau, 2018

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e si ringrazia: Il romanticismo e l’effimero di Mori Ōgai, Matilde Mastrangelo (a cura di), 2014. L’articolo Mori Ōgai e la modernizzazione del Giappone raccontata nel Diario tedesco del 1884-1888, di Paolo Sciarretta, Nippop. • Per la stesura di Latte e sangue, si è fatto riferimento a: Sillabari di Goffredo Parise, Adelphi, 2004. e si ringrazia: L’articolo L’essenziale di Goffredo Parise. Un mistero sensuale e lingua quasi zen di Manuel Crispo, Treracconti, 2019. L’articolo 35 anni dopo, viaggio nel Giappone dell’ «Eleganza frigida» di Parise di Carlo Pizzati, Il Sole 24 Ore, 2015. • Per il testo italiano di Naschte, moonen riportato in La Lingualuce si ringrazia: Naschte, moonen (1993) pubblicato in italiano nella raccolta Poeti giapponesi, Einaudi, 2020. • Per la stesura di I confini non esistono più, si ringrazia: L’articolo Il boom dell’Italia in Giappone: riflessioni critiche su Occidentalismo e Italianismo di Toshio Miyake, Between Journal, 2011. L’articolo Le 10 mete emergenti di Valeria Bellagamba, Viagginews.com, 2018. • Per la stesura di L’incontro e la fusione di genere nelle arti performative giapponesi, si ringrazia: Il grande specchio dell’omosessualità maschile di Ihara Saikaku, Frassinelli, 1997. Letteratura giapponese I. Dalle origini alle soglie dell’età moderna a cura di Adriana Boscaro, Einaudi, 2005. 66

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Male Beauty Work in Japan di Laura Miller in Men and Masculinities in Contemporary Japan: Dislocating the Salaryman Doxa, Routledge, 2002. • La traduzione di Ikebana e Crocchette è di Damiana De Gennaro, mentre la guida alla lettura è stata realizzata da Damiana De Gennaro e Giada Zaccardi.

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