Case perduteEditoriale
di Damiana De GennaroIl movimento Metabolista, un gruppo di architetti d’avanguardia formatosi in Giappone negli anni Sessanta, introduce una metafora biologica per definire la struttura urbana di Tokyo: il concetto di Metabolismo si lega alla metamorfosi o alla trasformazione, un processo di continuo cambiamento all’interno degli organismi.
Ashihara Yoshinobu, in un saggio intitolato L’ordine nascosto, si riferisce alla metropoli nei termini di ameba toshi: la città ameba.
Come si legge ne La metropoli come natura artificiale (Edizioni Scientifiche Italiane, 1992), ciò non deve sorprendere, visto che, se è vero che gli edifici in cemento armato vanno sempre più aumentando, è anche vero che spesso, piuttosto che sostituire impianti elettrici e infrastrutture ormai vecchie, i giapponesi ritengono conveniente abbattere gli edifici e ricostruirli né più e né meno come fanno con quelli costruiti in legno.
La metafora biologica applicata alla città in continuo mutamento fa da sfondo a un racconto di Francesca Scotti, contenuto nella raccolta
Il tempo delle tartarughe (Hacca, 2022). La signora Nakano è la narrazione delicata e pungente del destino di una signora anziana residente a Tokyo. Da alcuni giorni davanti alla
sua unica finestra che dà sulla strada è comparso un grosso cartello: rinnovano il quartiere e per farlo distruggeranno lo stabile.
Alla signora Nakano non rimane altra scelta se non quella di trasferirsi in un Centro con altri anziani, ma non ha alcuna intenzione di spostarsi dal proprio luogo di appartenenza. Come fare per restare quando, tuttavia, gli operai si presenteranno con le ruspe?
La signora Nakano risponde così: Ha presente i camaleonti? Ecco, è una cosa molto simile. Molti anziani scoprono di saperlo fare quando non c’è più posto per loro.
Fra gli appunti conservati nell’archivio a lei dedicato, Gae Aulenti annota: Qualunque oggetto dell’uomo non può eludere il suo rapporto con la città, luogo di rappresentazione della condizione umana; la sua analisi è quindi possibile solo se si può definire l’oggetto, forma discontinua dell’insieme: se si può dimostrare in che modo esso vi trovi il suo posto e la sua legge di apparizione. L’esistenza dell’oggetto si precisa nelle positive condizioni di un suo rapporto con la città.
Ogni ora da vivere è buona per parlare / o stare accucciato come un cauto animale / sul divano grigio, contro i doppi vetri, / dai linguaggi ambigui dei moti circondato / e da oscillanti visioni di edifici che mai crollano… / Ogni agone può bruciare tutta un’ora / può bruciare la lingua fin nelle radici. Così il poeta marchigiano Eugenio De Signoribus scrive nella raccolta di poesie intitolata Case Perdute (19761985).
Provare a cogliere la lingua bruciata fin nelle radici della città in continua metamorfosi è la sfida di questo numero di Kotodama.
La Redazione
Kotodama - Numero 6 - Anno 3 - Cadenza Trimestrale
Kotodama ©2020
Direttivo
Carmen Borrelli
Dafne Borracci
Damiana De Gennaro
Coordinamento editoriale
Alessia Trombini
Impaginazione e grafica
Alessia Landolfi @alesh_art
Redazione
Naomi Cavaliere
Kiyomi Ehara
Guendalina Fanti
Andrea Matafora
Chiara Napolitano
Sara Odri
Donatella Principi
Giada Zaccardi
Chiara Zennaro
La copertina è di Giada Palumbo
@komorebi_studiodesign
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Sommario
10
Sul fondo della città, di Yokomitsu Riichi Dafne Borracci
19
idolâtrie x SHIBUYA
Damiana De Gennaro
22
Il cuore della città giapponesi, lo shōtengai Guendalina Fanti
28
La città come epicentro di violenza e fallimenti nei film di Kitano Takeshi
Chiara Zennaro
Il letto dell’anguilla: mappa invisibile delle storie di Kyoto
Chiara Napolitano
Sul fondo della città, di Yokomitsu Riichi
di Dafne Borracci
TEMPO DI LETTURA 6’
Yokomitsu Riichi (横光利一, 1898~1947) fu romanziere, poeta e critico letterario, oltre che fondatore della Scuola delle Nuove Percezioni ( 新感覚派, Shinkankakuha) insieme a Kawabata Yasunari. Sebbene sia stato definito una “divinità del romanzo” dallo scrittore Shiga Naoya, impressionato dal suo celebre racconto modernista La macchina (『機械』, 1930), dal Secondo Dopoguerra è stato collocato ai margini del canone letterario. Il dibattito relativo ai meriti della sua produzione è, ancora oggi, molto acceso.
Sin dall’epoca degli studi all’Università di Waseda, Yokomitsu Riichi cominciò a pubblicare riviste amatoriali con gli amici, finché non esordì con due racconti sperimentali sulla rivista Bungei Shunjū (「 文芸春秋」), diretta da Kikuchi Kan. Nel 1924 fondò la rivista Bungei Jidai (「文芸時代) con Kawabata Yasunari. I suoi esperimenti d’esordio, dallo stile violento e aggressivo, immediatamente attirarono l’attenzione della critica: era l’inizio di una nuova estetica, che esprimeva l’urgenza di trasmettere la dimensione dei sensi in modo crudo e diretto.
Sebbene la Scuola delle Nuove Percezioni si estinse dopo pochi anni, ebbe un’enorme risonanza sia in patria che all’estero. Yokomitsu Riichi e Kawabata Yasunari continuarono a sviluppare insieme la loro idea di letteratura, interrogandosi su cosa rimanesse del Giappone classico, al di là dell’influenza esercitata dell’occidente, del colonialismo e della modernizzazione sfrenata degli ultimi decenni.
Il romanzo più celebre di Yokomitsu Riichi è Shanghai (『上海』, 1932). L’opera descrive una realtà vitale e delirante, resa ancora più caotica dalla difficile situazione politica e coloniale della metropoli. Per alcuni versi, può essere considerata un’opera speculare a La Banda di Asakusa (『浅草紅団』), che Kawabata Yasunari pubblicò tra il 1929 e il 1930.
Scritto nel 1925, a soli due anni dal terribile terremoto del Kanto, Sul fondo della città è un racconto breve, ma che già fa intravedere la scintilla d’ispirazione che porterà Yokumitsu Riichi alla stesura di Shanghai. Nel corso della narrazione, l’autore dipinge i bassifondi
cittadini in tutta la loro più torbida miseria. Il protagonista, nei momenti in cui la tristezza esistenziale sembra sopraffarlo, si aggrappa alle “illusioni frammentate della città” e inizia a passare la realtà sotto la lente deformante della fantasia, grazie alla quale persino un logoro negozio di kimono si trasforma in un iridescente fondale marino. Lasciatosi alle spalle forme mostruose e magiche per salire su una “verde collina”, il protagonista può riprendere fiato e osservare con distacco il luogo disperato da cui proviene. La collina è il luogo sia fisico che metaforico dell’elevazione: qui per qualche ora l’uomo può dimenticarsi della propria miseria, persino del bisogno di guadagnarsi da vivere. Da qui riesce a vedere anche i quartieri ricchi della città, senza, tuttavia, sentirsi attratto da essi. I bassifondi, invece, lo richiamano con la loro palpitante vitalità. Anche i ricchi abitanti delle strade in cima alla collina, che di sera si riversano tra i banchi di paccottiglia del mercato notturno, ne subiscono l’inevitabile fascinazione.
Il mondo misterioso e sovrannaturale dei bassifondi, dominato dal fango e dal degrado, diventa una dimensione quasi spirituale dove il male funge da fertilizzante per la fantasia e la bellezza. Così, l’assenza di pensieri ancorati alla realtà si trasforma nell’unica cura possibile. Il protagonista finisce con il rinunciare al poco che ha per aiutare una vecchia cieca ancor più disperata di lui e, al tempo stesso, fuggire ancora una volta – per necessità più che per volontà – dalla “tristezza della vita”. Solo dopo aver smesso di pensare alla propria disastrosa situazione arriva a vedere, nella strada più fatiscente, un campo di fiori che ondeggiano al vento.
Sul fondo della città
All’angolo della strada si trovava un calzolaio; dentro, le pareti erano stipate fino al soffitto di scarpe nere, tutte uguali. Tra quei muri di calzature, simili a pesanti portoni, se ne stava sempre afflosciata una ragazza. Accanto al calzolaio si trovava un orologiaio e gli orologi esposti erano così tanti da sembrare la fantasia di un tessuto. Subito dopo ancora, c’era un negozio di uova; qui un anziano pelato con una pezzuola sul capo sedeva in mezzo a una distesa di uova infinite, simili a bollicine di schiuma. Di fianco, c’era un rivenditore di vasellame. Contro lo sfondo bianco e freddo della porcellana, che faceva subito venire in mente il colore delle cliniche mediche, la giovane moglie del padrone saltellava da una parte all’altra, rischiando ogni volta di tirare un calcio a una delle alte pile di piatti.
Poi c’era un fioraio; la giovane che vi lavorava era più peccaminosa di tutti i suoi fiori messi insieme. Eppure, talvolta, la faccia di un giovanotto dall’aria tonta compariva
tra i bouquet. Nel negozio di abbigliamento all’occidentale di fianco, uno strano essere senza collo si trascinava stancamente mentre il padrone, raschiandosi via il cerume dalle orecchie con un dito anemico, fiutava il profumino proveniente dal ristorante dirimpetto. Ancora accanto, una libreria-armatura spalancava la bocca. Appena oltre si trovava un negozio di kimono dove montagne di mussola di varie tonalità di nero e blu si sovrapponevano l’una sull’altra come correnti di un oscuro fondale marino; in un angolo sprofondava una donna incinta ossuta, con degli occhi brillanti come quelli di una sogliola azzurrina. Di fianco al negozio di kimono c’era il cancello di una scuola femminile da cui, alle tre del pomeriggio, si riversava in strada un’onda di fanciulle di tutti i colori. L’edificio vicino era un bagno pubblico; qui delle sirene bollivano in grandi vasche di vetro, per poi schiantare i propri corpi nudi e giovani su delle assi di legno. Ancora oltre c’era un fruttivendolo. Il figlio sferrava colpi alla frutta con il piede
vigoroso di chi è abituato a prendere a calci le aiuole fiorite. Dopo il fruttivendolo, si trovava una clinica di medicina esterna dalla cui finestra immacolata si sporgeva sempre un collo grasso e ciondolante.
Come ogni giorno, l’uomo passò davanti a tutti quei negozi in silenzio e si arrampicò su per la verde collina che si trovava sul retro della via: quell’altura, accerchiata da tre strade dritte come fusi, era un cono ricoperto d’erba rigogliosa che si lasciava piegare docilmente dal vento. L’uomo, in mezzo a quell’erba, si lasciava investire in pieno dalla luce e rimaneva immobile, cercando di assorbire il più possibile le speranze che animavano quel paesaggio di strade e stradine. Non poteva lavorare; aveva l’impressione che anche solo entrare nell’ordine di pensieri necessario a svolgere un lavoro gli danneggiasse il cervello. Di conseguenza, non aveva niente da mangiare. Non gli restava che salire ogni giorno su quella collina e apprendere il prezioso valore dell’inerzia.
Lassù, due paesaggi cittadini facevano a gara per entrare nel
suo campo visivo: sull’altopiano a nord erano allineate delle spaziose residenze nobiliari. Quello era il punto della città dove luce e aria scorrevano con maggiore libertà. Talvolta qualche alto funzionario o qualche dama raffinata comparivano nei pressi dei cancelli in pietra di una di quelle case e, appoggiandovisi con aria pensosa, mandava qualcuno a chiamare un taxi. Altre volte capitava che splendide danzatrici adolescenti venissero mandate in dono, proprio come mazzi di fiori, in una di quelle case. Di tanto in tanto si avvistava un cappello di seta lucido, o un frac a coda di rondine. Ma vedendo tutte queste cose, l’uomo non pensava a niente in particolare. Allora abbassava lo sguardo verso sud, sulle strade stipate nell’angusta fessura tra due colline. Laggiù i fumi del carbone che formavano una pesante cappa, la polvere sollevata dal vento dell’est, i malati di tifo e i fumi degli arsenali gli apparivano animati di libertà. Non c’erano piante. In compenso vi si ammassavano tegole, microbi,
bottiglie vuote, merci invendute dei mercati, lavoratori, prostitute e topi.
«A cosa dovrei pensare?», si chiese tra sé e sé.
Voleva dieci sen. Se solo li avesse avuti, avrebbe potuto spendere un altro giorno senza pensare a niente, e l’assenza di pensieri era l’unico palliativo per il suo male. Per colpa dell’attività fisica iniziò a sentirsi affamato e si rese conto che, con la pancia vuota, dieci sen per quel giorno non gli sarebbero bastati. Si accovacciò sull’erba, come un insetto verdolino che tenti di mimetizzarsi, e rimase seduto su quella collina per tutto il giorno. Solo quando il sole accennò a tramontare scese giù e strisciò nuovamente dentro la città. A volte capitava che venisse travolto dalla valanga sfinita degli operai neri e blu dell’arsenale che smontavano dal turno; formavano una lunga fila indiana e si riversavano nella città, silenziosi e incurvati su se stessi, come partecipanti a un corteo funebre. Quella sera, come gli capitava di fare talvolta, s’intrufolò di nascosto in mezzo a un gruppo di operai
affamati e entrò in una tavola calda. Dentro, si intravedevano dalla cucina dei maiali e delle vacche scotennati e accasciati in un angolo; nella penombra li si poteva scambiare per dei cinesi addormentati. Gli operai generalmente sedevano in silenzio, stretti l’uno accanto all’altro, a un piccolo tavolo. Tuttavia, se le loro ordinazioni tardavano ad arrivare, si mettevano a battere con impazienza le bacchette contro le ciotole vuote e, quando davvero non ne potevano più di aspettare, i loro volti diventavano gonfi e paonazzi. Quella sera lui, dopo che si fu riempito la pancia con gli scarti di una testa di manzo, lanciò dieci sen sul tavolo e rientrò alla sua abitazione, in un vicoletto ombroso e angusto. Si trattava di una stanza in affitto di appena tre tatami sul retro dell’abitazione di un’altra famiglia. In mezzo c’era una colonna storta e piena di schegge; i muri erano anneriti come l’interno di una stufa e, su una strana mappa di legno marcio disegnata dalla pioggia, comparivano qua e là degli escrementi di mosca. Lui si
sorresse alla colonna, spazzò via delle cartacce dal pavimento con un piede e, con noncuranza, si mise a riflettere sulla possibilità di suicidarsi. Fuori, dei bambini si aggrappavano a una staccionata e facevano l’imitazione degli animali dello zoo. Poi nella viuzza angusta spuntò una massaggiatrice cieca che, camminando, richiamava a gran voce i clienti; allora i bambini le sciamarono alle spalle e si misero a imitare lei. Lui si distese e sbirciò verso la strada, finalmente avvolta nel silenzio: attraverso un buco nel muro mezzo sfondato della casa di fronte vide un enorme seno rigonfio: era sempre il solito seno livido di un’inferma. L’immagine di quel seno, rubata con malacreanza, era l’unica cosa familiare ad accoglierlo quando tornava al proprio alloggio. Gli era ormai così abituato, che aveva l’impressione appartenesse a una sua parente e cominciò a desiderare di vedere almeno per una volta il volto di quella sconosciuta. Non importava quando sbirciasse verso la fessura nel muro, quel seno se ne stava sempre appeso lì,
immobile e gonfio. S’incantò a fissarlo finché tutto il suo mondo non divenne un enorme seno, e senza che se ne accorgesse scese il crepuscolo. Ormai il rigonfiamento di quella mammella, sotto la lampadina elettrica, proiettava già le sue ombre lussuriose nell’ambiente circostante; le linee che adesso si allungavano sui muri parevano gli infiniti detriti di una torretta distrutta. Scesa la sera, uscì di casa. Persino quelle strade infossate, simili e immondezzai, di notte rifulgevano come se vi si fosse svolto un festival. Sotto le basse tettoie si succedevano uno dietro l’altro dei baracchini sui cui banchi erano esposte montagne di piccoli giocattoli e oggetti metallici che, riflettendo la luce artificiale, brillavano. La folla scendeva dalle strade sopra le verdi colline e si riuniva qui; per prendere una boccata d’aria, quella gente si recava fino al mercato ortofrutticolo che si allargava sulle sponde dei canali fangosi. Nei dintorni, degli orticelli improvvisati crescevano lungo la strada, sul fondo della città, assorbendo la luce delle
lampade ad acetilene. Verdure dall’aria abbacchiata crescevano in fila l’una accanto all’altra come se si fossero trovate in un vero orto e, quasi fossero alimentate da una verde brezza, sprigionavano senza sosta un odore fresco e delicato che si andava a confondere nella calca.
In silenzio lui, inebriato per alcuni istanti dallo stato di leggerezza che aveva nel cuore, sbirciò con simpatia una montagna di monetine di rame accumulate su una stuoia. Nella strana torre formata da quella massa di rame appiccicaticcio, gli pareva di percepire una certa eleganza. Cominciò a sembrargli come se la massa meccanica di quelle monete, che se ne stavano in silenzio sul fondo della città, fosse il chiodo che teneva al loro posto le alte colline che si ergevano tutt’intorno.
«Ma certo! Se estraessi quel chiodo...».
Percepì tutte le illusioni
frammentate della città e, soddisfatto, sgusciò via sparendo tra le spalle della gente. Tuttavia, venendo investito dal fetore di tutti
quei corpi, all’improvviso e senza alcuna ragione in particolare, si bloccò colpito da una profonda tristezza, lucente come una lama di piombo consumata. Subito si riprese con un sogghigno e tornò a camminare. Deviò tra i magazzini straripanti di bottiglie vuote, rincasò e, senza neppure cambiarsi d’abito, si cacciò nel futon e si rannicchiò su se stesso.
Sapeva che se fosse riuscito a vendere tre riviste, avrebbe guadagnato dieci sen. Finché teneva a mente questa semplice regola, pensare al futuro non lo terrorizzava.
Un giorno vendette tre riviste e, con il denaro ottenuto, fece per uscire sulla via principale; in quell’istante, sulla porta, comparve una vecchia cieca e scalza che non aveva mai visto prima. Teneva in mano alcune spazzole e continuava a chinare il capo in segno di supplica. «Ho settant’anni, l’età in cui mio marito è morto, e anche il mio unico figlio è morto. La polizia non mi lascia mendicare per strada quindi per favore, vi scongiuro, comprate almeno
una di queste spazzole. Avevo qualche soldo da parte, ma per il funerale di mio marito ho speso diciotto yen, e ora non mi resta neanche un mon. Vi supplico di comprare almeno una spazzola... Per l’alloggio mi prendono trentotto sen a notte, e se non riesco a guadagnare almeno questa somma non so che ne sarà di me. Per favore, compratene almeno una».
Lui prese i suoi dieci sen e vi strinse intorno le dita screpolate della vecchia. Poi, andò a sedersi in cima alla verde collina.
«La mia vita è fatta così...». Sentiva la testa dolergli, qualsiasi cosa pensasse. Tacque, poi si andò a incamminare per una strada soleggiata. La città si srotolava tutto intorno a lui. Dal calzolaio all’angolo non proveniva alcun rumore. Accanto, l’orologiaio aveva il solito aspetto geometrico; tra gli infiniti orologi spigolosi, quelli che si muovevano segnavano all’unisono le tre del pomeriggio. Proseguì e si fermò di fronte alla scuola
femminile. Un’onda di fanciulle variopinte si riversò fuori dal cancello, puntando proprio verso di lui. Rimase in piedi, come il palo di un pontile che resiste imperterrito alle correnti; davanti a lui, l’onda di ragazze si divise in due e scorse via placida, tremolando come un campo di fiori sfiorato dalla brezza.
idolâtrie x SHIBUYA
di Damiana De GennaroTEMPO DI LETTURA 6’
state of emergency – so beautiful to be
Jóga, Björkshibuya fiorita – shibuya piovosa – shibuya che vuoi vendermi qualcosa – shibuya sciamana, adescatrice – shibuya-lolita che aspetta il professore – shibuya spettro, coda di sirena –shibuya masticata, deglutita, risputata – quante linee della metro attraversano shibuya? – quante primavere servono a colmare una voragine? – ci incontriamo a shibuya, a mezzogiorno?
al bistrot, shibuya era il mio soprannome. Questo la Signora Cactus non lo sa: per lei shibuya è solo un posto in cui incontrarsi, un po’ scomodo, per la verità. Non sa nemmeno di essere la Signora Cactus, anche se forse lo intuisce. Il nostro amore si regge sul mio non dire e sul suo non domandare. Abbiamo cose più importanti a cui pensare, come i missili della Corea del Nord annunciati
stamattina al telegiornale. La diverte il fatto che un poco mi spaventano: si vede che sono appena arrivata e mi devo ancora abituare. Poi c’è la questione dei prezzi che salgono, e che solo il 20% delle aziende assicuri l’aumento degli stipendi ai dipendenti. La gente ancora fa fatica a immaginare viaggi all’estero, si scelgono destinazioni entro i confini nazionali, in cui spostarsi
togliendo la mascherina solo se proprio necessario. La televisione suggerisce alcuni paesi del SudEst Asiatico da ammirare, tra le varie cose, per la rapida crescita economica. I ciliegi domani raggiungeranno la piena fioritura, ma la Signora Cactus non ha tempo per guardarli. È così impegnata, è così stanca. Io le dico di non sforzarsi troppo, che comunque presto o tardi
moriremo per un dispetto geopolitico, un terremoto devastante, o la fine silenziosa di un amore immaginato. Lei sorride il suo sorriso storto: così so che in parte il nostro è salvo. Subito dopo aver pranzato più o meno dolcemente, iniziamo la lezione. Non è che tu abbia dimenticato il giapponese, dice, è solo scivolato sul retro del cervello, e bisogna rievocarlo
come lo spirito di un morto. Sediamo al tavolo del fami-resu, la musica classica è snervante, e mentre facciamo i nostri esercizi-rituali penso che il problema non sia tanto la lingua in sé, quanto più il fatto di non sentirmi più fisicamente attratta da lei: l’unica persona con cui abbia mai desiderato comunicare veramente. Questo lo sappiamo bene entrambe, ma non possiamo dirlo,
e così diamo pacificamente colpa all’incidente. Quando lei pronuncia la parola incidente a me viene da piangere, ma riesco a trattenermi. Vorrei dirle: quel giorno una parte addormentata di me ha provato a uccidermi; un’altra, subito prima, aveva provato a baciare qualcuno che amabilmente rifiutava: un bacio sulla guancia e uno schiaffo sul sedere:
perché ci teneva molto a considerarsi fedele; un’altra parte ancora era in fuga da qualcosa che potrei riassumere così: il fantasma della madre, alcuni commenti agrodolci di mio padre, come per esempio: – vorresti fare carriera nella ristorazione? –; l’e-mail in cui il professore si diceva deluso dalla tesi anche se mi attribuiva il massimo dei voti con la lode, la delusione mai espressa ad alta voce delle donne di famiglia; il selvatico silenzio di una figura –amata? idealizzata? – che ormai dura quattro anni, il mio non essere né voler fare la parte della vittima; tutto questo vorrei dirle, ma lei beve il caffelatte e aspetta solo che io scelga quale verbo aggiungere nello spazio bianco lasciato tra parentesi, se la a., la b., la c., o la d.
shibuya, vorrei dirle, è morta con l’estate.
Il cuore della città giapponesi, lo shōtengai
di Guendalina FantiTEMPO DI LETTURA 4’
Se vi dico Giappone, quale immagine vi viene in mente per per prima? È una città, un giardino zen o una strada di Kyoto con ragazze in kimono? Non c’è una risposta giusta, ma sarei proprio curiosa di sapere a cosa avete pensato.
Quando pensavo al Giappone, ai tempi dell’università, non avevo un’idea precisa di come fossero le strade, le stazioni o i palazzi, né tantomeno di come fossero davvero la periferia e la campagna. Tutto quello a cui i miei occhi sono abituati, oggi, per me è stato spesso fonte di sorpresa all’inizio e mi ricordo ancora i momenti precisi in cui ho visto per la prima volta Tokyo e Kyoto.
Ogni viaggio è una scoperta sì, ma allo stesso tempo tutte le città in cui sono stata mi danno l’impressione di assomigliarsi molto. Le stazioni, gli autobus, i mercati coperti. L’uniformità di certi elementi mi ha sempre lasciato un po’ dubbiosa. Anche l’Italia vista con occhi stranieri è così? E gli altri Paesi?
Non so più se il Giappone mi sembra tutto un po’ uguale perché lo guardo con i miei occhi da occidentale, o perché effettivamente lo è.
Durante i miei viaggi mi esalto per una strada con case ancora vecchio stile, in legno, e quando attraverso Shibuya sto con il naso all’insù, meravigliata dai palazzi splendenti. Ma ammetto che viaggiando, ultimamente, mi sono trovata a sorprendermi più per un fischio diverso del segnale delle strisce pedonali, o del pulsante per prenotare la fermata, mentre raramente ho ritrovato la sensazione di bellezza scaturita dagli splendidi palazzi e dalle piazze che ho provato viaggiando e tornando in altri paesi, Italia prima fra tutti.
Il fatto che non ci sia quello stesso effetto “wow” non vuol dire però che non ci sia la gioia di essere in quel posto, o che non sia comunque bello. Potrebbe essere che mi sono resa conto che scoprire una nuova città in Giappone spesso è ritrovare degli elementi conosciuti, riconoscere lo schema che caratterizza le città e successivamente cercare e scoprire i posti più particolari. Spesso mi sembra di sovrapporre le città nuove a quelle che conosco, associare le vie, le stazioni, i templi e piano piano cerco di capire cosa caratterizza davvero un determinato luogo.
In particolare, c’è un elemento al quale sono legata; lo cerco e lo rincorro in tutti i luoghi in cui vado, perché è uno di quei posti sempre uguali a se stessi, ma anche sempre un po’ diversi.
Quando penso alle città giapponesi e me viene in mente lui: lo shōtengai.
Ho pensato di condividere alcuni ricordi legati a uno dei miei “must go” delle città, chissà, magari avremo qualche ricordo in comune?
Il mio primo shōtengai
Avete mai sentito questa parola? È formata da tre kanji 商店街 e significa “via dei negozi”, può essere un grande mercato coperto, come Teramachi a Kyoto, o una strada a cielo aperto, come Kitasenjū a Tokyo. Quando sono arrivata a Kyoto per studiare abitavo nell’area nord della città. I primi due giorni mi ero avventurata solo nelle zone circostanti: al supermercato per fare la spesa, una passeggiata in un tempio vicino. Obiettivi tranquilli e sicuri, dato che non avevo internet e mi sentivo una formichina in mezzo a tutte quelle strade un po’ simili. Ricordo che anche solo tornando dal supermercato ho infilato la traversa sbagliata due volte. Per questo motivo, per il primo giorno di scuola, ho controllato più di dieci volte il percorso da fare, quale autobus prendere, a quale fermata, quale minuto sarebbe passato, insomma... Ho controllato e scritto tutto. Tutto. Tranne come tornare a casa.
Ringrazio lo shōtengai che ricordo di avere visto, con sorpresa, dall’autobus
all’andata. Una versione moderna e colorata dei portici, una strada coperta dove i negozi si susseguivano uno dopo l’altro. Ce n’erano di un po’ datati, di quelli tutti aperti con i banchi che si affacciano sulla strada che di solito vendono verdure, pesce o articoli per la casa. Poi c’erano botteghe più nuove, con le porte colorate e le insegne moderne, parrucchieri più simili a dei bar molto carini e caffè che invece sembravano negozi di libri. C’erano tante persone che camminavano tra i negozi, biciclette che sfrecciano di qua e di là e ricordo di essermi sorpresa di avere una zona tanto vivace vicino a casa. Ancora oggi, ogni volta che passo per la via Horikawa, ringrazio lo shōtengai per avermi aiutato a ritrovare la zona di casa. Sono scesa a una fermata a caso non appena l’ho visto. Certo, per trovare la share house vera e propria ho poi scomodato altre tre persone e gli impiegati di un ufficio postale, ma di questo ne parliamo un’altra volta! Lo shōtengai di Horikawa, a Kyoto, lo considero il mio primo amore tra i mercati coperti, quello che mi ha
accompagnata a casa dal primo giorno fino alla fine del mio anno di studio.
Lo shōtengai a Osaka
Nello scegliere un appartamento, fin dall’inizio per me è stato importante vederne la posizione, la vicinanza alla metro soprattutto. Solo vivendoci, poi, ho capito che altri due elementi sono fondamentali: avere vicino un parco o uno spazio verde e un mercato coperto dove poter “scendere a fare la spesa”.
Senza volere a Osaka ho trovato entrambe le cose, e anche di più, ed è qui che ho iniziato una relazione stabile con gli shōtengai.
A nord della stazione di Tsuruhashi si trova il mercato coperto di Tamatsukuri, tappa fondamentale per fare la spesa, ma anche meta indiscussa per andare a mangiare qualcosa: funziona un po’ come via del comfort food, vai nello shōtengai e sai che troverai il tuo ramen, un ottimo sushi e una pizza fatta ad hoc.
La musica un po’ retrò, il tetto che nei giorni di sole si apre e lascia lo spazio al cielo blu… Ho attraversato quel mercato quasi ogni giorno, a piedi, in bici, da sola, con Takaya o con i miei amici a cui volevo assolutamente
far provare il sushi più buono che ci sia. Mi ha dato l’occasione di chiacchierare e conoscere qualche personaggio e mi ha fatto sentire benvoluta e a casa. A est e a sud della stazione invece, si estende un altro mercato, un po’ più particolare: la Koreatown di Osaka, fatta di stradine buie e fitte di negozi di calzini che si alternano a pescivendoli e rivendite di vestiti tradizionali coreani. Un mix assurdo e colorato, il cui sottofondo sono le urla dei commercianti che invitano i clienti a entrare e i gridolini di sorpresa degli avventori, quando scoprono la quantità di cibo, oggetti e vestiti che si trovano per quelle vie.
Cercare gli shōtengai in vacanza
Ogni volta che andiamo in una città nuova, la tappa ai mercati locali è d’obbligo. Li cerco e guardo in alto le insegne che raccontano i nomi di negozi che molte volte non ci sono più. Guardo il colore dei pavimenti, il design della targa che conferma l’inizio della strada dei negozi, ascolto le canzoni passate in filodiffusione. Se c’è il tetto, cerco di capire se si può aprire o se sia fisso e mi domando sempre poi chi è che li apre questi tetti e come, avranno un pulsante? Una manovella?
Un simpatico shōtengai che ricordo è quello della località di vacanza che si trova a Ito, cittadina della penisola di Izu, relativamente vicina a Tokyo. La città è piccolina, ha una strada di lastricato con qualche casetta tradizionale, il fiume che l’attraversa e lo shōtengai che funziona un po’ come una capsula del tempo: una volta dentro, si è catapultati a una quarantina di anni fa… fantastico. In un kissaten abbiamo preso il “set della colazione” accanto a dei signori che leggevano il giornale fumandosi una sigaretta.
Per quanto io ami i templi, i santuari e tutto ciò che ai miei occhi rimanda l’idea di Giappone, credo che il cuore pulsante delle città si trovi in queste strade di negozi. Inevitabilmente portano sempre con sé una vena di malinconia, perché i negozi singoli fanno fatica a competere con i supermercati e i centri commerciali. Molte botteghe, spesso a gestione famigliare, chiudono, rimpiazzate da villette su due piani. Ci sono però anche molti progetti che cercano di salvare o dare nuova vita ai mercati coperti e spesso vi si aprono nuovi ristoranti, pop-up store e anche hotel.
La città come epicentro di violenza e fallimenti nei film di Kitano Takeshi
TEMPO DI LETTURA 7’
Kitano Takeshi è uno dei registi giapponese degli anni 90 e 2000 più conosciuti all’estero, consolidando la sua fama internazionale con la vittoria di un Leone d’Oro alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1997 con il film HANA-BI (Kitano, 1997). Regista, attore, sceneggiatore, montatore e produttore della maggior parte dei suoi film, Kitano si può definire come un vero auteur, termine francese che significa autore e viene utilizzato nel linguaggio cinematografico per indicare un regista i cui film presentano delle caratteristiche e uno stile riconoscibile e ricorrente. Nel caso di Kitano infatti, riferirsi a una qualsiasi delle sue opere come “un film di Kitano” ci dice più del film che stiamo per vedere rispetto a descriverlo come una commedia o un road-film o uno yakuza eiga.
Nonostante il suo alter ego (così da lui stesso definito) di Beat Takeshi, ovvero uno dei comici e attori più famosi del Giappone, si lasci intravedere nei suoi film in sporadici momenti umoristici e il perfetto tempismo comico del montaggio, i film di Kitano sono caratterizzati da un sottofondo di malinconia e una visione pessimistica della vita, simboleggiate dalla città. I suoi film sono caratterizzati da inquadrature di lunga durata, prive di montaggio (long-take), che rimangono su un soggetto o una scena più a lungo di quanto “dovrebbero” durante le quali la trama non procede e i personaggi sembrano non star facendo nulla di importante. Come la vita frenetica della città moderna e le onde del mare dove capiteranno molti dei suoi personaggi a un certo punto del film, i momenti di calma sono bruscamente disturbati da improvvisi scoppi di violenza e da un montaggio visibilmente più rapido. L’impatto emotivo e l’estetismo di questi film non è ottenuto con scene grandiose ma attraverso la semplicità delle riprese e il soffermarsi su momenti apparentemente insignificanti. Questi momenti di “dolce far niente”, di gioco e di catarsi, però, possono essere vissuti dai personaggi solo allontanandosi da Tokyo, ovvero dalla vita priva di legami della città moderna.
La produzione di Kitano regista (e non di Beat Takeshi, il comico) degli anni 90 è composta soprattutto da yakuza eiga o film dove in qualche modo i personaggi sono
parte della yakuza o in maniera più o meno centrale alla trama hanno degli scambi con essa. Come i film noir, i film gangster e i film sulla mafia, gli yakuza eiga di Kitano iniziano con la città come sfondo: Tokyo, la città moderna, è un posto solitario, un posto di crimine dove vivono i mafiosi e i criminali e dove questi si trovano come in un limbo, senza essere in grado di creare alcun vero legame con le altre persone e le cose che li circondano. La rappresentazione della città, nei film di Kitano, rispecchia la situazione della società giapponese moderna che il regista critica per aver perso la sua autenticità e i suoi vecchi valori, a favore della modernità e la tecnologia. Nei suoi film è evidente, infatti, la critica alla forzata mascolinità dell’uomo di città e la quasi totale assenza e inaffidabilità della tecnologia che, anche quando presente, spesso tradisce o non funziona come dovrebbe.
In San tai Yon ekkusu Jyūgatsu (Boiling Point, 1990), Sonatine (1993), HANA-BI e Kikujiro no Natsu (1999) inizialmente incontriamo i personaggi a Tokyo, ovvero in città, dove però non rimarranno a lungo. Alcuni poliziotti violenti e corrotti, altri membri della yakuza, ma nessuno di loro, in particolare quelli interpretati da Kitano, ha un vero e proprio scopo nella vita: vagano per la città rassegnati al fatto che l’unica via di fuga e di catarsi
sia la morte. Questa visione pessimistica vede una leggera svolta a partire da Kids Return (1996), il primo film dopo un incidente in moto nel 1994 che quasi costò la vita a Kitano e lo lasciò con una parziale paralisi facciale e il tic all’occhio che diventerà il suo marchio. Nella sua filmografia post-incidente, infatti, questo pessimismo assoluto lascia spazio alla ricerca di una sorta di redenzione. I personaggi dei suddetti film riescono a ottenere catarsi e redenzione solo una volta lasciata Tokyo: a Okinawa nel caso di San tai Yon ekkusu Jyūgatsu e Sonatine e nella campagna giapponese in HANA-BI e Kikujiro no Natsu. Uscendo dalla città e avvicinandosi alla natura (soprattutto al mare), riescono a entrare in comunione con essa e ritornare bambini imparando di nuovo a giocare. La città è grigia e violenta, mentre al di fuori regnano il blu (lo stile di Kitano viene definito da molti critici come Kitano-Blue), la calma e il gioco. In questo limbo possono dimenticarsi della loro vita a Tokyo e il tempo si ferma. Lo spettatore e i personaggi sanno benissimo che si tratta solo di effimeri momenti di pace, ma allo stesso tempo sembra che possano durare in eterno. Lo stato d’animo che raggiungono sulla spiaggia gli permette di tornare a giocare come bambini e sembra simboleggiare il raggiungimento della pace dei sensi necessario per accedere al Nirvana buddhista. Questa purificazione/
redenzione che inizia sulla spiaggia può essere completata solo con il tanto sognato ricongiungimento a madre natura che, nella gran maggioranza di questi film, equivale alla morte. La morte per Kitano non ha quindi un significato puramente negativo, ma anche di rinascita e purificazione dalla vita violenta e priva di senso a cui la società e la città moderna ha portato i suoi personaggi.
Come ci dimostra però il personaggio di Kikujiro (Kitano Takeshi) in Kikujiro no Natsu, ci sono anche altri modi per ottenere questa comunione con la natura e redenzione e riuscire così a tornare alla vita in città da persona “rinata”. Kikujiro, allontanatosi da Tokyo, riesce a completare questo processo grazie all’incontro con altri personaggi, anch’essi estraniati dalla città moderna, e all’adempimento al ruolo di figura paterna per il piccolo Masao (Sekiguchi Yusuke). I personaggi di Kitano, incontratisi al di fuori della città dove sono isolati e sconnessi dal resto del mondo, si riconoscono come simili e riescono finalmente a formare delle connessioni che permettono loro di intraprendere due strade: raggiungere la pace dei sensi (morte) o tornare rinati e purificati nella città moderna e tentare nuovamente di rimanere bambini di fronte al caos e violenza che vi troveranno.
Il letto dell’anguilla: mappa invisibile delle storie di Kyoto
di Chiara NapolitanoTEMPO DI LETTURA 10’
Le storie di Kyoto camminano per la città sin dalla sua origine, quando si chiamava Heiankyō: hanno accumulato le energie cosmiche del feng shui, le inondazioni violente del Kamogawa, i fuochi e le grida della Guerra Ōnin, il buio pieno di occhi del Sanjūsangendō, l’odore dei mochi abbrustoliti di Kita. Per sopravvivere, hanno imparato a mimetizzarsi tra il vetro e il metallo di Shijō e Karasuma. Se si vuole snidarle, occorre inoltrarsi nei roji, che a Kyoto si pronunciano rooji, vicoli stretti e quasi invisibili, dove persino lo sguardo onnisciente di Google Maps fatica a sbirciare.
I roji sono bocche che si schiudono su un altro mondo, squarci di una Kyoto che dal dopoguerra in poi è stata lentamente erosa da calcestruzzo e plexiglass. A cielo aperto o coperti da verande sottili, dal tratto serpentino o lineare, silenziosi o pervasi da un chiacchiericcio soffuso, i roji innervano
il corpo della città antica sin dal Periodo Muromachi. Quando non è stata modificata, la configurazione classica comprende uno spazio interno, che può assumere la forma di un culde-sac o di una piccola coorte. Se si obbedisse alle logiche edilizie contemporanee, questo sarebbe considerato spazio di risulta. Le manshon, i condominii, le case prefabbricate che bordano dori e oji lo riducono al minimo, perché in una città come Kyoto, che non può espandersi senza intaccare le montagne sacre attorno, ogni spazio non usato è mottainai.
Eppure, questo vuoto è essenziale per gli abitanti dei roji. A Sarashiya, i bambini lo hanno coperto con scarabocchi di gesso che disegnano la mappa affettiva della città: la scuola, il parco, la casa dei nonni. A Shikiami, ospita un modesto ma lustro altarino, da dove Jizō osserva l’imponente struttura di metallo che incapsula la casa tradizionale da cui partiranno le celebrazioni per i matsuri stagionali. In un roji senza nome, all’angolo del monumento che commemora il luogo dove morì il monaco Dōgen (1200-1253), le verande di legno creano un corridoio lungo quanto la strada, il luogo perfetto per farsi tagliare i capelli da un vicino. Lo spazio dei roji è inutile, dicono alcune agenzie, e pericoloso - soggiungono i pianificatori urbani - perché è troppo stretto per permettere a polizia e vigili del fuoco di muoversi agilmente in caso di emergenza. E dunque, nessuno si sorprende quando, dalla notte al giorno, un buco come la bruciatura
di una sigaretta si apre là dove prima c’erano due o tre case adiacenti, e dove adesso figura un parcheggio a ore, o una lavanderia, o un prefabbricato della Panasonic.
I roji popolano un mondo a parte, il luogo dove le storie non raccontate della città cercano un rifugio. Il problema, con queste storie, è che non parlano la lingua dei suoni, ma quella dei segni. E interpretare lo spazio dei segni può essere molto difficile, soprattutto quando il mondo attorno non vuole più vuoto, non vuole più tempo, non vuole più nulla che sia mottainai.
Interrogare una casa, un quartiere, una strada, ha bisogno di un certo tipo di investimento: passeggiate oziose, pause superflue in café nascosti, chiacchierate a casaccio con ragazzini che imparano ad andare in bicicletta. Stringendo amicizia con questo mondo discreto, ci si accorge che le case dei roji hanno una struttura peculiare: condividono le mura esterne e si allungano verso l’interno, passando gradualmente dalla luce all’oscurità. I giapponesi dicono che le nagaya, così si chiamano, hanno una pianta “a letto d’anguilla”. Per questo sono scomode, commentano alcuni, si vive sempre in penombra, ma questa penombra racconta una storia, quella delle famiglie di artigiani e commercianti dell’epoca Tokugawa. Troppo poveri per costruirsi una dimora individuale, affittavano per un prezzo più basso il retro di queste abitazioni, dove in una sola stanza
dormivano, mangiavano, si radunavano per discutere. I più fortunati avevano a disposizione shōji per dividere gli ambienti; quelli che avevano successo potevano affittare la parte anteriore per usarla come bottega o laboratorio.
La particolarità di queste case è che, prima di essere abitate dagli uomini, sono abitate dagli dèi. Se è vero che tutta la città di Kyoto è permeata dai flussi geomantici, e anche vero che gli stessi flussi vengono considerati con grande cura nella pianificazione, collocazione ed edificazione di un’unità abitativa. Non solo: anche quando si deve decidere se comprare o affittare una struttura già costruita, non è raro che ci si rivolga a un indovino ben prima di iniziare le pratiche contrattuali. La divinazione tiene conto di una serie di elementi, tra cui l’anno di edificazione, l’orientamento, la posizione delle stanze (soprattutto quella dell’ingresso) e la presenza del kimon. Il kimon, o “portale dei demoni”, è l’angolo sfortunato, corrispondente alla congiuntura Nord-Est, un punto dove le energie protettive sono vulnerabili. Malattie, eventi tragici e demoni del malaugurio sfruttano il kimon per insinuarsi all’interno dell’ambiente domestico. Le camere da letto non vanno mai posizionate a nord-est, così come l’ingresso, che dovrebbe essere idealmente orientato verso Sud.
La stessa Kyoto segue questa regola: da millenni si protegge dal kimon attraverso il Monte Hiei, che fa da barriera, e i suoi templi posti come guardiani dalle energie negative. Tra le famiglie storiche della città, molti credono che sia questo il motivo per cui l’antica capitale è stata risparmiata dalla distruzione delle guerre recenti - o meglio, non risparmiata: protetta. Nelle abitazioni tradizionali, la porta dei demoni è chiusa da un piccolo recinto di sassi bianchi; un confine sottilissimo, ma di importanza vitale. E non è l’unica forma di protezione presente nell’abitazione. Un amuleto di carta è sempre posto accanto al focolare - anche quando questo ha assunto la forma di una modernissima cucina in grais - perché, come il kimon, quello è un punto vulnerabile, e non per le energie invisibili.
In una struttura fatta quasi interamente in legno, una fiamma fuori controllo può finire col distruggere non solo la singola abitazione, ma anche quelle adiacenti. Per questo - spiegano gli abitanti dei roji - due secchi colmi d’acqua sono sempre in attesa davanti all’uscio di ogni casa del quartiere. Nel bene e nel male, il fuoco assimila il destino di tutte le famiglie, senza distinzione di responsabilità, e questo gli abitanti di Kyoto lo hanno imparato a loro spese. La fiamma in una casa è il fumo in quella vicina e la scintilla in quella dopo ancora. I due secchi non rappresentano unicamente una rapida - e, ad occhi esterni, piuttosto ingenua - contromisura, ma la anche la stipula di una promessa sociale: se accadrà, saremo pronti a reagire insieme.
Il letto dell’anguilla, il portale dei demoni e due semplici secchi d’acqua: titoli di storie che si raccontano sempre meno. Ce ne sarebbero altre ancora, come quella di Shōki, il medico cinese che si suicidò a causa di un errore e che oggi protegge le dimore dei commercianti dalle malattie.
Oppure Hotei, il dio delle sette volte: sette anni, sette altezze, sette statuine conservate sopra la dispensa per attirare prosperità. Queste sono storie di dèi, e quindi, in fondo, storie di esseri umani. È possibile leggerle negli archivi, nei libri specialistici, qualche volta nei diari di famiglia gelosamente conservati. È possibile, ma non è per questo che sono nate: non sono storie fatte per essere lette, ma per essere vissute, per muovercisi dentro e per reinventarle nei segni che hanno lasciato.
A Matsubara, c’è una nagaya, l’ultima di un antico roji. I solchi nel pavimento della bottega sono stati incisi dagli arcolai che tessevano gli obi dei kimono; una colonna in legno nudo crea un arco col muro, disegnando i bordi di un tokonoma scomparso; un lungo corridoio piastrellato nasconde il sito del vecchio pozzo. Questa nagaya è una akiya, una casa vuota, una palpebra chiusa su un occhio addormentato. Le sue storie si stanno perdendo e probabilmente scompariranno dalla memoria degli abitanti quando verrà demolita. Ma, almeno per ora, la casa le ricorda. La casa le racconta.
Glossario:
feng shui (風水): antico sistema geomantico basato sulla considerazione e il posizionamento di elementi naturali e artificiali, utilizzato per stabilire dove e come costruire una casa, un edificio e – in passato – una città.
Roji (路地): strade sottili la cui bocca d’ingresso ha una larghezza inferiore ai 2 metri. A Kyoto si pronunciano rooji.
Mochi (餅): dolcetti di pasta di riso morbida. Manshon (マンション): dall’inglese mansion, si riferisce a condomini multifamiliari in stile occidentale.
Mottainai (もったいない): letteralmente, “essere uno spreco/peccato”.
Jizō (地蔵): divinità venerata in apposite edicole installate sulle strade. Protettore di bambini e viaggiatori, gli è dedicata una festività che si tiene ad agosto, il Jizōbon.
Nagaya (長屋): tipologia di abitazione tradizionale tipica dell’urbano giapponese che si diffonde a partire dal Periodo Tokugawa. Ha una pianta sottile, “a letto d’anguilla” (unagi no nedoko), e condivide almeno un muro esterno con la casa adiacente.
Kimon (鬼門): letteralmente, “portale dei demoni”, l’angolo sfortunato del feng shui corrispondente alla congiuntura Nord-Est. Il suo contrario è detto urakimon.
Akiya (空き家): casa vuota, lasciata in stato di abbandono semipermanente.
a Furukawa Hideo
La lotta e la sicurezza nella metropoli
di Andrea MataforaTEMPO DI LETTURA 5’
Tokyo Soundtrack (Saundotorakku), è un punto di svolta nella carriera dell’autore, che fa coincidere l’opera con “L’anno zero dell’Era Furukawa”. I tre protagonisti Tōta, Hitsujiko e Leni condividono passati turbolenti e quotidianità scandite dalle nevrosi di una Tokyo tropicalizzata che affanna a causa dell’agire umano.
I personaggi, nelle loro personali quête, esplorano l’intricato tessuto urbano di una metropoli più labirintica di quanto si possa immaginare, agendo tra edifici abbandonati, ghetti e oscure realtà che occupano il sottosuolo. Il romanzo, però, non si occupa unicamente di sondare geograficamente Tokyo ma manifesta esplicitamente le sue problematiche sociali, svelando al lettore una realtà tanto affascinante quanto violenta.
Come ha pensato a Tokyo Soundtrack?
Quali sono stati gli impulsi e gli stimoli che hanno dato vita al romanzo?
Quando gli esseri umani provano a vivere serenamente sacrificano piante ed animali e, dopotutto, la nostra società esiste perché qualcuno viene sacrificato. Il punto di partenza di questo romanzo è proprio questo: cosa significa tutto ciò? Ad Ogasawara sono sacrificate le capre, a Tokyo i corvi, ci sono simboli del genere. Inoltre, se una generazione desidera ottenere una società per sé stessa dovrà naturalmente sacrificare un’altra generazione. Allo stesso modo, se una certa etnia vuole ottenere la propria soddisfazione, un’altra etnia verrà a sua volta sacrificata.
Tōta sopravvive ai confini sociali di Tokyo e si invischia negli affari della Yakuza; Hitsujiko, oltre ad affrontare la violenza domestica, si fa rappresentante di una generazione ribelle che si oppone alla violenza psicologica della società; Leni combatte allo
stesso tempo un Giappone razzista e dei nemici che si nascondono nei meandri di una Tokyo oscura. Si può dire che la violenza sia uno dei motori del romanzo?
Più che la violenza, penso che il vero motore del romanzo sia la lotta. Nonostante ciò, se si viene attaccati con violenza da qualcuno ovviamente la lotta per la libertà necessiterà di violenza a sua volta. Quindi penso che la violenza sia uno dei motori all’interno del più ampio motore della “lotta”.
Oltre ai protagonisti umani, Tokyo ha un ruolo fondamentale e si ha la sensazione che anch’essa rappresenti un tipo di violenza, quella ambientale. Perché ha scelto di ambientare
Tokyo Soundtrack in una Tokyo che mostra esplicitamente le proprie ferite?
Gli esseri umani non hanno scelto di vivere da soli mentre, tra le altre specie viventi, ce ne sono alcune che vivono senza aver bisogno di raggrupparsi. L’uomo, però, si unisce nella famiglia, nel corpo sociale, in villaggi e città e abbiamo quindi espanso la dimensione
della nostra comunità. Tokyo è una delle comunità a larga scala più ampie e ho quindi pensato che, ambientando il mio romanzo a Tokyo, sarebbe palesemente emerso un quesito: “Che cosa sta facendo l’essere umano al nostro pianeta?”
I personaggi di Tokyo Soundtrack sono vittime e carnefici allo stesso tempo?
Esatto, è proprio così. È simile al fatto che, se voglio vivere, devo essere vittima e carnefice allo stesso tempo. È probabilmente qualcosa che percepisci anche tu. Gli esseri viventi, tutti gli esseri viventi, sacrificano qualcosa per salvarsi e quindi tutti siamo sia vittime che carnefici. Su questo mondo non ci sono persone che non portano delle ferite con sé e penso davvero che non dovremmo mai ignorare il fatto che tutti sono, allo stesso tempo, innocenti e colpevoli.
Tokyo Soundtrack
svela le carenze di una società che non riconosce la sua stessa violenza e trasmette una auto-narrazione estremamente edulcorata. Il Giappone,
infatti, all’estero è considerato come il “Paradiso della sicurezza”. Secondo lei Tokyo è effettivamente un luogo sicuro? Quanta finzione e quanta realtà sono presenti all’interno del suo romanzo?
È indubbio che il Giappone sia un luogo fisicamente sicuro. Tuttavia, è innegabile che il tasso di suicidi in Giappone sia estremamente alto rispetto al resto del mondo. Quest’anno è stato riportato che il tasso di suicidio giovanile (fino ai diciotto anni) è il più alto di sempre. Mi chiedo allora se sia più sicura una società che uccide fisicamente le persone o una società che le uccide psicologicamente. Penso, quindi, che non dovremmo mai smettere di chiederci cosa sia la vera sicurezza.
Furukawa Hideo (Kōriyama, 1966) è uno degli scrittori più influenti del panorama letterario giapponese contemporaneo. Autore estremamente prolifico e poliedrico, con più di trenta titoli pubblicati dall’inizio della sua carriera, è noto soprattutto per la raccolta LOVE (2005) grazie alla quale si aggiudica il Premio Mishima. Ardito sostenitore della funzione sociale della letteratura, di seguito al disastro che colpisce il Giappone l’11 Marzo 2011, si dedica in particolare alla narrazione di Fukushima con opere come Umatachi yo, soredemo hikari wa muku de (2011) per dare voce alle vittime di uno dei momenti più bui della storia giapponese contemporanea. In Italia vengono tradotti per Sellerio Editore Belka (2013), Tokyo Soundtrack (2018), Una lenta nave per la Cina: Murakami RMX (2020).
サウンドトラックをどのように思い描きましたか。この 小説の執筆のきっかけになった刺激と反省は何でした か。
人間が快適に生きようとすると、他の動植物を犠牲にし たり、いずれにしても「誰かが犠牲になって」わたした ち人間の文明社会は存在しています。それはどういうこ となのだろう、との疑問が、この小説の出発点にはあり ます。小笠原ではヤギが犠牲になっていたり、東京では カラスが犠牲になっていたり、そういう姿が象徴してい ますね。また、ある世代が自分たちにとって快適な社会 を追求すれば、当然、他の世代は犠牲になりますし、あ る人種がそういうことを追求すれば、やはり、他の人種 が犠牲になります。
『サウンドトラック』の主人公たちは、それぞれある暴 力の種類を代表します。東京の社会の辺境で生き抜いて ヤクザに入りまじってしまうトウタ、家庭内暴力を受け る上、社会の精神的な暴力に反抗する世代を代表するヒ ツジコ。そして、東京の暗い底に隠れている敵と、日本 人の人種差別と戦うレニー。古川先生は、この解釈をど う考えられますか。同意見の場合、この小説の原動力の 一つは「暴力」であると言えますか。
暴力が物語のエンジンである、というよりも、僕自身は 「闘争」がこの物語のエンジンなのだと感じていまし
た。ただ、人は、たとえば他者から暴力的に扱われた ら、それに対する自由への闘争は、やっぱり暴力を用い て行なってしまいます。暴力というのはひとつのツール であって、それを含めた大きな「闘争」が、この小説の 原動力ではないのかな、と感じています。
登場人物の他には、東京も非常に重要な役割を果たして おり、また登場人物と同じくある種の暴力、つまり環境 暴力、を代表する気がします。古川先生はなぜ『サウン ドトラック』の舞台を、赤裸々に描かれた、傷だらけの 東京に設定されましたか。
人類は、個人で生きることを選びませんでした。他の動 物は、群れないで生きている生き物もいますよね。
でも、人類は、家族で群れて、共同体で群れて、やがて 村・町・都市と、その共同体の規模を拡大していったわ けです。東京という都市は、世界でも有数の大規模な共 同体であって、そこを舞台に擦れば、「いったい人類は この世界(地球)に対して、何をしてきたのか?」が明 らかになるだろうとのインスピレーションはありまし た。
『サウンドトラック』の主人公たちは同時に加害者と犠 牲者ですか。
はい、処刑人であり犠牲者です。それは、僕という人間 が、生きていれば犠牲者であると同時に加害者であるの と似ています。もしかしたらアンドレアさんもそうかも しれませんが、生きている存在(あらゆる生命体)は、 誰かを犠牲にすることで、自分の命を保っているわけで すから、加害者でもあり犠牲者でもあります。この世 に、誰かを傷つけたことのない人間はいません。この「 あらゆる犠牲者は、同時に加害者だ」との視点は、無視 してはならないと感じています。
『サウンドトラック』は現代の東京をはじめに、全日本 社会に認められない問題や欠点などを明確に、そして正 直に描く作品であると解釈できる。しかし、一般的に日 本は世界中で安全の楽園と言われています。古川先生の 考えでは、日本とその首都東京は本当に安全な場所です か。小説の中には、フィクションと現実はどの割合で混 ざっているのでしょうか。
日本は、たしかに物理的には安全でしょう。ただ、日本 の自殺率は、世界的に見ても極めて高いと思います。今 年は、子供たち(18歳以下)の自殺率が、たしか過去最 高だったと報道されたと思います。いったい、物理的に 人を殺す社会と、心理的に人を殺す社会は、どちらが安 全なのでしょうか? 「真の安全とは何か」は、問われ つづけなければならないと思います。
I doni e le anime di Edo
di Donatella PrincipiTEMPO DI LETTURA 5’
La Edo di Masahara Koichi è un insieme di valori tramandati di generazione in generazione, di sentimenti e legami invisibili che tengono unite le persone. Gli scorci sui paesaggi ricchi di natura, i dettagli dell’architettura, la cura negli abiti e nelle decorazioni ci fanno viaggiare in tempi e spazi lontani, senza perdere di vista chi siamo e facendoci riflettere sui legami, la vita e il nostro posto nel mondo.
Sin dai primi volumi sfogliati in libreria, c’è un elemento, nei manga, ad avermi sempre affascinato: la capacità di rendere i protagonisti in qualche modo coerenti all’ambiente circostante. Gli autori tendono a enfatizzare alcuni dettagli o ad aggiungerne altri, in base al momento della storia, i sentimenti dei personaggi o la stagione. Uno in particolare che mi ha colpita per la
costruzione della cornice della storia intorno a uno dei protagonisti del suo fumetto: Masahara Koichi.
Nato nel 1967 a Kyoto, ha debuttato come mangaka nel 1999 e nel 2011 ha ricevuto il premio nella categoria Nuovi Talenti del Japan Media Arts Festival nella sezione manga. In Italia lo abbiamo scoperto grazie alla casa editrice Bao Publishing che ha pubblicato I doni di Edo e Le anime di Edo. Entrambi i volumi raccolgono storie brevi ambientate a Tokyo, quando ancora la capitale giapponese si chiamava Edo e nel periodo che prende da essa il nome (1603-1868).
La città non si limita a essere un contorno del fumetto: è un contenitore di tradizione, cultura e sentimenti. È sì il luogo che accoglie i protagonisti dei racconti, ma non rimane lo sfondo della storia. Un particolare curioso è proprio il modo in cui l’autore ha scelto di arricchire di dettagli gli scorci che ci offre, impreziosendo paesaggi e ambienti, mentre i suoi personaggi hanno tratti semplici.
Masahara attinge dal passato per raccontare storie di persone con cui potrebbe sembrare difficile trovare un punto di incontro, ma la realtà è sorprendente. Uno dei temi ricorrenti è la famiglia, intesa come legame di sangue, ma anche come affetto che si crea fra sconosciuti: succede che un uomo che si leghi in maniera profonda a suo suocero, con cui condivide l’esperienza di essere stato adottato dalla famiglia della moglie. In quanto uomini inseriti in un contesto profondamente matriarcale, hanno faticato ad adattarsi a un nuovo stile di vita. Nel racconto La cura, invece, un maestro cerca di insegnare a due fratelli cosa sia la cura, prendendo come esempio due giovani che non hanno legami di sangue ma che nonostante tutto continuano a sostenersi come fratello e sorella.
«Immagino così i soba di Edo: frumento misto al grano saraceno, riflesso di due anime che a lungo si cercano. Ma sei lontana da me… E così divisi sembriamo soba tirati che infine si spezzano». In alcune storie i protagonisti
si trovano a dover prendere delle decisioni che riguardano il loro futuro. Li vediamo in lotta con loro stessi, divisi fra ciò che la società si aspetta da loro e quello che invece li appassiona e vorrebbero fare. Da queste storie emerge il senso di onore, di dovere verso la propria famiglia e l’ambizione. Questi personaggi sono alla ricerca di loro stessi e di un posto nella società, nel mondo. Le vicende narrate, pur lontane nello spazio e nel tempo, si avvicinano molto alla nostra quotidianità. Tutti passiamo dei momenti di sconforto, a tutti sarà capitato di sentirsi persi e davanti a un bivio. Così come tutte le persone provano amore e affetto e si sentono parte di una famiglia, che sia di sangue o meno.
Masahara Koichi è riuscito attraverso i suoi fumetti a parlare di una quotidianità moderna, in cui è possibile rispecchiarsi, e di valori antichi che ci portiamo dietro tutt’oggi. L’intento dell’autore è proprio questo. Ispirandosi a Yamanaka Sadao, regista cinematografico, e Kusunoki
Shohei, autore di gekiga, ha voluto raccontare la
contemporaneità attraverso vicende del passato.
«Se le nove storie contenute ne I doni di Edo, da me disegnate ispirandomi a tali giganti, saranno riuscite a far ritrovare i lettori in dinamiche simili a quelle dell’umanità di oggi, sarò molto lieto di esserne stato l’autore.»
Fonti:
I doni di Edo, Masahara
Koichi
Le anime di Edo, Masahara
Koichi
Tra luci e consumismo, il ritorno della melodia della bolla
di Naomi CavaliereTEMPO DI LETTURA 12’
La città delle notti insonni Inondata da luci mormoranti Una donna attraversando la strada la colora Mentre gioca con un cuore imbellettato Taeko Ōnuki, Tokai
Una piscina dai colori sbiaditi, il nuovo singolo di un cantante dal sapore nostalgico, l’atmosfera sognante di una metropoli che offre qualsiasi opportunità, il revival del City Pop ci avvolge con queste suggestioni. Le melodie stranamente familiari che fanno leva sui successi degli anni Settanta e Ottanta giapponesi sono sempre più presenti nel panorama discografico nipponico, ma
anche d’oltremare. Questo effetto a catena è dovuto alla grande influenza che sta esercitando il sound tipico del genere che viene definito City Pop – in giapponese Shitii poppu シティポップ.
Viene spontaneo chiedersi come mai, proprio in questo momento, un genere musicale nato attorno agli anni Settanta del Novecento, che all’epoca riscosse molto successo quasi esclusivamente in patria, stia vivendo una seconda età dell’oro.
Dalla fine del Secondo dopoguerra, il Giappone attraversa varie fasi di sviluppo, con un inizio particolarmente lento e difficoltoso fino ai tardi anni Sessanta, quando la vita iniziò a migliorare notevolmente. Con la crisi petrolifera del 1973, conseguenza della decisione dei Paesi dell’Opec di ridurre le esportazioni di petrolio, si ebbe un consistente rincaro sui costi della materia prima, indispensabile all’industria giapponese. Grazie a una serie di programmi economici e leggi approvate dal governo, gli imprenditori riuscirono, con l’assistenza dello Stato, a riorganizzarsi. Nonostante
il periodo di forte crisi per alcune industrie, altre ebbero una crescita esponenziale e questa fece da propulsore all’espansione di piccole e medie imprese, che traevano vantaggio dall’incremento di domande per le nuove tecnologie e processi produttivi. I fattori di questo successo furono vari: la priorità assoluta dei governi giapponesi succedutisi in quel periodo fu quella di ricostruire il Paese con interventi a sostegno del settore industriale, ma sottoponendo la popolazione a pesanti sacrifici; Tokyo era nel processo di trasformazione nella metropoli caotica e illuminata dalle luci al neon che conosciamo oggi e che faceva da spartiacque tra il Giappone pre e post-bellico, portabandiera del concetto di modernizzazione importato, talvolta acriticamente, dall’Occidente.
È in questo contesto socioeconomico che si sviluppa il City Pop, nello stile di vita consumistico e volto alla ricerca, da parte delle classi più agiate, di nuovi svaghi cittadini ed esotismo. Le riviste patinate circolano
velocemente mostrando sulle loro pagine artisti incipriati e con i capelli lucidi di brillantina, il primo luglio del 1979 fa la sua entrata nel mercato nipponico un nuovo prodotto che rivoluzionerà la fruizione della musica e che influenzerà largamente il City Pop: il walkman. Poter ascoltare la musica nel privato delle proprie cuffie, nonostante ci si trovi fuori casa, diviene il nuovo stile favorito d’ascolto e, grazie a questo, la città viene posta al centro della narrazione presente nei testi dei brani City Pop e la promenade urbana prende le sembianze di una ricerca estetica.
Ci troviamo nella metà degli anni Sessanta quando in Giappone nacque un genere musicale chiamato Nyū
Myūjikku ニューミュージ
ック(New Music), che fonde a elementi della musica folk un rock epurato da qualsiasi messaggio politico e sociale. Fino ad allora la musica folk e le canzoni di gruppo erano in voga tra i giovani, ma all’inizio degli anni Sessanta apparvero due musiciste che attirarono l’attenzione per il loro utilizzo della musica folk come scheletro delle
loro composizioni, portando una propria sensibilità musicale particolarmente rinfrescante: Arai Yumi e Inoue Yōsui furono le pioniere di una musica che intendeva tracciare una linea di demarcazione netta con la scena musicale popolare convenzionale che si era affermata nei decenni precedenti, diventando il genere mainstream della musica pop giapponese. Altri artisti iniziarono a comporre prendendo in prestito elementi e atmosfere dai generi musicali più disparati, contribuendo al processo di creazione del City Pop. Sebbene sprovvisto di rigidi schemi o metriche e nonostante le frequenti ridefinizioni ed espansioni, è stato osservato come il City Pop presenti alcuni elementi stabili che rendono i brani altamente riconoscibili: alcuni termini chiave sono ricorrenti nei testi dal 1977 al 2016, tutti collegati a concetti simili come quello della metropoli come tokai 都会 (grande città) oppure all’idea di eleganza come senren 洗
練 (raffinatezza), oshare お
しゃれ (elegante), sensu セ
ンス (buon gusto). Concetti che il genere si propone
di rappresentare, collegati con numerosi significanti visuali e quindi dal grande potere suggestivo, capace di plasmare l’immaginario comune associato alle attività urbane.
Tra gli artisti che vengono considerati fondatori del City Pop troviamo la band Happy End, che si cimentò nella combinazione di testi in lingua giapponese con una base strumentale dal sound leggero, e gli Sugar Babe, che hanno segnato gli inizi della scena City Pop influenzando profondamente tutte le produzioni successive. A cavallo degli anni Settanta e Ottanta, YMO, che aveva attirato l’attenzione con la sua Techno Pop, iniziò ad avvicinarsi al City Pop, portando i suoi ascoltatori ad appassionarsi al genere. Il City Pop si scontrava con la musica di Inagaki Junichi e Sugiyama Kiyotaka, di moda tra il pubblico femminile, e il genere enka, una sorta di musica neo-melodica giapponese. I capolavori del City Pop riuscirono a farsi strada nei cuori del popolo nipponico, salendo in cima alle classifiche annuali degli album e raggiungendo il loro
apice di successo nei primi anni Ottanta.
Sofisticato e dalle forti tinte urbane, questo genere era perfettamente in armonia con le pubblicità aziendali e l’aria consumistica che si respirava per le strade e nei depaato デパート, “centro commerciale” in giapponese. I nuovi singoli di successo, infatti, nascevano spesso da collaborazioni con pubblicità televisive di prodotti o dei nuovi dorama ドラマ- ovvero le serie TV giapponesi - della stagione, rendendo il genere un prodotto altamente crossmediale.
Ma essendo nato assieme alla scintillante baburu ekonomii バブルエコノミー - il contesto economico creatosi nel periodo della bolla speculativa - il City Pop era destinato a scomparire assieme ad essa. Con lo scoppio della bolla speculativa del 1991, un senso di stagnazione pervase la società giapponese e il numero di canzoni ascrivibili al genere iniziò a calare in modo drastico, portando l’accorpamento del City Pop alla più vasta categoria musicale del J-Pop, per poi essere dimenticato per lungo tempo.
Il nuovo millennio non riserva le sue attenzioni alla musica da città giapponese fino a circa il 2010. La riscoperta parte incredibilmente dall’Europa e dagli Stati Uniti. A seguito della diffusione di internet negli anni Duemila, lo stile d’ascolto della musica ha subito ulteriori evoluzioni grazie ai siti di streaming e ai video musicali caricati su piattaforme online. Chiunque, in qualsiasi momento e da qualsiasi parte del mondo ha la possibilità di accedere a produzioni musicali di paesi lontani facilmente, e il City Pop – che aveva goduto di un grande successo solo in patria – viene riscoperto da alcuni americani appassionati di musica anni Ottanta. Quasi contemporaneamente, in Inghilterra, i brani di Yamashita Tatsurō ottengono ottime valutazioni dalla critica locale, guadagnando gli appellativi di J-Rare groove e J-Boogie.
Sull’onda di questo revival d’oltreoceano, nel 2010 il City Pop viene riscoperto anche in Asia, grazie al gran numero di turisti che si recavano in Giappone per l’acquisto di dischi rari e merchandising originale.
Un caso particolare è rappresentato dal brano
Plastic Love di Takeuchi Mariya, originariamente pubblicato nel 1984 che, dopo essere stato caricato su YouTube nel 2018, ha registrato oltre 39 milioni di visualizzazioni al giugno 2021, diventando un fenomeno virale a quasi trentaquattro anni di distanza dal suo rilascio. Plastic Love è particolarmente emblematico perché l’iconico brano ha plasmato l’immaginario degli ascoltatori del nuovo millennio, fornendo gli elementi chiave che ci si aspetta di ritrovare quando si ascolta una canzone City Pop. Similmente al caso di Plastic Love, anche il brano Mayonaka no doa 真夜中 のドア– Stay With Me di Matsubara Miki uscito nel 1979, è diventato virale per merito di una cover della YouTuber indonesiana Rainych. Grazie alla cover, il singolo di Matsubara ha ottenuto il primo posto nella classifica J-Pop di Apple Music in dodici paesi e la casa discografica Pony Canyon, cogliendo al volo l’occasione, ne ha redistribuito l’edizione in vinile per un periodo di tempo limitato.
Ma quale potrebbe essere il motivo per cui stiamo assistendo a questa riscoperta del City Pop e alla nascita di un nuovo genere definito da alcuni Neo City Pop?
Dietro questo fenomeno ci potrebbero essere due nuove tendenze musicali: il vaporwave e il Future funk. Con Vaporwave viene inteso il genere musicale prodotto con citazioni e campionature dirette di brani degli anni Ottanta e l’estetica intermediale dal nome omonimo. Per la produzione di brani Vaporwave gli artisti si sono cimentati in una vera e propria caccia al tesoro nel mare magnum della produzione musicale anni Ottanta a livello globale. Ed è proprio durante questa ricerca di materiale da campionare e rielaborare che alcuni artisti si sono imbattuti nella produzione nipponica. In risposta al revival del City Pop, definibile come classico, attualmente alcune band estere realizzano inediti che tentano di ricrearne l’atmosfera.
In Giappone, molti artisti emergenti influenzati dal genere etichettano i propri brani come Neo City Pop,
che presenta un ulteriore elaborazione di influenze dai generi techno e hiphop. Questi vengono spinti entusiasticamente nel mercato musicale grazie a pubblicazioni su riviste come Music Magazine e su internet. Un esempio di nuovi artisti ascrivibili al genere del Neo City Pop sono Toi Hitomi e la rock-band indie Yogee New Waves.
Ma non sono soltanto artisti della scena indie a proporre brani dalle tinte cittadine e toni nostalgici: gli artisti del momento si cimentano nella creazione di brani City Pop per inserirsi nel trend e scalare le classifiche, come ad esempio il musicista Vaundy e la cantautrice Aimyon, dimostrazione di come questo genere sia tornato per farci compagnia durante le nostre passeggiate in città ancora a lungo.
To you... yes, my love to you Yes my love to you you, to you 私は私 貴方は貴方と 昨夜言ってた そんな気もするわ グレイのジャケットに 見覚えがある コーヒーのしみ 相変らずなのね ショーウィンドウに 二人映れば
Stay with me...
真夜中のドアをたたき 帰らないでと泣いた あの季節が 今 目の前
Stay with me... 口ぐせを言いながら 二人の瞬間を抱いて まだ忘れず 大事にしていた 恋と愛とは 違うものだよと 昨夜言われた そんな気もするわ 二度目の冬が来て 離れていった貴方の心 ふり返ればいつも そこに 貴方を感じていたの
Stay with me...
真夜中のドアをたたき 心に穴があいた
あの季節が 今 目の前
Stay with me...
淋しさまぎらわして 置いたレコードの針
同じメロディ 繰り返していた...
Stay with me...
真夜中のドアをたたき 帰らないでと泣いた あの季節が 今 目の前
Stay with me... 口ぐせを言いながら 二人の瞬間を抱いて まだ忘れず 暖めてた
Stay with me...
真夜中のドアをたたき 帰らないでと泣いた あの季節が 今 目の前
Stay with me...
To you... yes, my love to you
Yes my love to you you, to you
Io sono io, tu sei tu
È questo che ho detto ieri notte
E mi sento ancora così
Tu con indosso una giacca grigia
E una macchia di caffè che mi sembra familiare
Eri come al solito
Le nostre sagome riflesse nelle vetrine Stay with me...
Bussando alla porta nel cuore della notte
Non tornare a casa, piangevo
Quella stagione è ora davanti ai miei occhi
Stay with me...
Dicendo le nostre parole preferite
Aggrappandoci ai momenti insieme
Facendone tesoro, senza ancora dimenticarli.
L’amore e la passione sono due cose diverse, mi hai detto ieri notte
Anch’io ho quella sensazione
Stay with me...
Bussando alla porta nel cuore della notte
Mi si è aperto un vuoto nel cuore
Quella stagione è ora davanti ai miei occhi
Stay with me...
Sopraffatta dalla solitudine, L’ago sul giradischi
Continuava a far ripetere la stessa melodia
Stay with me...
Bussando alla porta nel cuore della notte
Non tornare a casa, piangevo
Quella stagione è ora davanti ai miei occhi
Stay with me...
Dicendo le nostre parole preferite
Aggrappandoci ai momenti insieme
Facendone tesoro, senza ancora
dimenticarne il tepore
Stay with me...
Bussando alla porta nel cuore della notte
Non tornare a casa, piangevo
Quella stagione è ora davanti ai miei occhi
Stay with me...
Con l’arrivo del secondo inverno
Il tuo cuore è ancora più distante
E se provo a guardare indietro
vedo
Che ti sentivo qui accanto a me
Playlist:
Plastic Love – Mariya Takeuchi
Stay With Me – Miki Matsubara
Tokai - Taeko Onuki
Zurui ne - chelmico
Loop - Sirup
CAREFREE - lo-key design
Lazy - kiki vivi lily
life hack - Vaundy
Ai wo tsutaetai da toka – Aimyon
Love Space – Tatsuro Yamashita
Last Summer Whisper – Anri
Tsuki no Warutsu – Isayama Mio
Mo-Eh-Wa – Fujii Kaze
Fonti:
https://www.utabito.jp/news/8164/
https://folia.unifr.ch/unifr/documents/308987
https://brutus.jp/citypop100/
R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Editori Laterza, Bari, 2017
Gli indirizzi giapponesi
di Giada ZaccardiTEMPO DI LETTURA 4’
Forse vi sarà capitato di sentir dire che in Giappone gli indirizzi non esistono. In realtà non è proprio così, perché chiaramente tutti sentono l’esigenza di potersi – e poter – localizzare nello spazio. La verità è che però, come spesso accade quando ci si confronta con l’altra parte del mondo, la risposta a questa esigenza è semplicemente diversa da quella che già si conosce.
Per spiegare il funzionamento degli indirizzi giapponesi, possiamo dire che invece di considerare le città come un insieme di linee che si incrociano (le vie numerate a cui siamo abituati in Occidente), le concepiscono come un gruppo di insiemi concentrici.
Quindi, per individuare un punto nello spazio, si procede dall’insieme più grande: la prefettura (che potremmo considerare come una regione italiana), poi la città, il quartiere e così via, sino al punto che stiamo cercando.
Fatta questa premessa, possiamo muoverci verso l’argomento più caro a questa rubrica: le parole.
Vediamo che termini e che caratteri1 possono essere utili per capire dove si trovi un determinato posto in Giappone.
Premetto che le divisioni amministrative italiane e giapponesi non trovano una corrispondenza; quindi, cercherò di paragonarle a quanto di più simile, a mio avviso, esiste in italiano, per agevolarne la comprensione.
住所 (じゅうしょ; jūsho): indirizzo. Cominciamo proprio dalla parola indirizzo, i due caratteri che la compongono sono: 住 che è il kanji con cui si scrive anche il verbo abitare (住む sumu) e 所 che significa luogo. Quindi l’indirizzo non è altro che il luogo dove si abita.
県 (けん; ken): prefettura.
Il Giappone ha 47 prefetture, che potremmo intendere come delle regioni.
府 (ふ; fu): è una divisione amministrativa più piccola, che paragonerei in italiano a provincia.
市 (し; shi): città.
町 (まち; machi): città; cittadina.
村 (むら; mura): paese, villaggio.
La differenza tra le ultime tre divisioni amministrative (市, 町 e 村) è essenzialmente relativa a come sono governate, quindi a quale organo dello Stato, e a quale livello, si occupi o meno di regolamentarne il
1. Alcuni di questi kanji hanno più letture, quindi indicherò quelle relative alle divisioni amministrative.
都 (と; to): in italiano la equiparerei a “città capitale”, “metropoli”.
丁目 (ちょうめ; chōme): distretto, sezione di una città.
区(く; ku): distretto. In italiano non usiamo questa divisione, ma potremmo paragonarla a dei quartieri.
道(みち; michi): strada.
都道府県 (とどうふけん; todōfuken): divisioni amministrative.
Vediamo ora un esempio di indirizzo.
福岡県福岡市中央区天神1丁目8番1号3
福岡県: prefettura di Fukuoka;
福岡市: città di Fukuoka;
中央区: distretto Chūo;
天神: Tenjin (quartiere); 1丁目8番1号 (sezione 1, numero 8-1).
Ovviamente non è necessario scrivere l’indirizzo con i kanji, chiunque può scrivere e spedire qualcosa in Giappone anche utilizzando la variante scritta in rōmaji (caratteri latini).
Nel caso di questo indirizzo, verrebbe:
1-8-1, Tenjin, Chūo-ku, Fukuoka-shi, Fukuoka.
2. https://gimon-sukkiri.jp/city-town-village/ 3. https://hanasu-eigo.com/2017/05/17/1402/
Kotodama in gioco:
MACHI KORO
N° Giocatori: 2-4 giocatori
Diventate imprenditori e fondate la vostra città! Machi Koro è un gioco di Masao Suganuma con un’alta componente casuale e allo stesso tempo diverse possibilità di sviluppo della cittadina (machi, città) che ogni giocatore andrà a costituire. Infatti, ognuno riceve 4 carte con gli edifici principali e tre monete, insieme ad altre due con cui iniziare, tutte con una grafica che ricorda un cartone uscito da Cartoon Network o Disney Channel. I dadi stabiliscono le carte attive tra quelle allineate sul tavolo, mentre i colori delle stesse determinano anche in quale fase del turno possono essere attivate, ad esempio nel proprio turno o in quello degli avversari. Risolti gli effetti delle carte, si può fare un investimento costruendo un edificio tra quelli presenti e passare il turno. La partita finirà quando uno dei giocatori completerà tutti i propri 4 edifici principali.
In 3 o 4 persone, Machi Koro non risulta complicato, grazie alla sua variabilità che lo rende anche un po’ meno “strategico” e rapido. Saranno soprattutto le interazioni a ricordarvi un gioco, oseremmo dire ormai superato, come Monopoly, nel momento in cui dovrete riscuotere ciò che vi spetta. D’altronde, può esserci una sola grande e ricca città… sarà la vostra?
CHI SIAMO
Carmen Borrelli . Nata a Napoli nel 1995. Iscritta al corso di Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”, ha svolto un anno di scambio a Tokyo, alla Keio University. Gestisce da quattro anni un blog, Nessun cancello, nessuna serratura , strettamente collegato al suo profilo Instagram ( @lilyj2202) , citato in Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020). Tra i suoi progetti, La tua, Virginia ha portato sui social, grazie anche alla collaborazione con la Italian Virginia Woolf Society, la lettura dell’epistolario di Virginia Woolf. Ha fondato Kotodama insieme a Dafne Borracci e oltre a scrivere gestisce le pagine social.
Dafne Borracci . Nata a Firenze nel 1996. Nel 2013 ha frequentato il quarto anno di liceo a Ashiya, in Giappone. Nel 2018 ha vinto la borsa di studio MEXT Undergraduate e attualmente frequenta la facoltà di Lettere all’Università di Kyoto. Sui social parla di letteratura e storia giapponese attraverso il suo profilo Instagram, @dafneborracci , e il suo blog, Mai una soya . Periodicamente, pubblica la traduzione in italiano del romanzo di epoca Heian Torikaebaya Monogatari tramite newsletter. A luglio 2020 ha pubblicato il suo primo ebook Ikiryō - Spiriti viventi del folklore giapponese . Ha fondato Kotodama con Carmen Borrelli.
Damiana De Gennaro è nata a Vico Equense nel 1995. È laureata in Lingue e Letterature Comparate presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Ha trascorso un anno in scambio presso l’Università Tōhoku. Ha pubblicato due raccolte di poesia: Aspettare la rugiada (Raffaelli, 2017) e Shibuya Crossing (Interno Poesia, 2019). Sue poesie sono presenti su varie antologie in Italia e all’estero. Fa parte del direttivo di Kotodama.
Guendalina Fanti. Nata a Bologna nel 1992. Si è laureata in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia presso l’Università di Bologna, trascorrendo un periodo di scambio presso l’Università Sorbona a Parigi con la borsa di studio Erasmus.
Dopo un periodo di studio in Spagna si trasferisce in Giappone per approfondire lo studio della lingua. Da quell’esperienza sono passati sei anni e non è più tornata a casa. Nel 2021 si è licenziata dal posto fisso giapponese per aprire la sua attività di corsi di lingua e attività legate alla cultura meno tradizionale. Attualmente vive a Osaka da dove condivide consigli di viaggio e racconta la vita quotidiana senza filtri tramite il suo account Instagram @lamiakyoto, sul sito web lamiakyoto e l’omonimo canale youtube. Per Kotodama segue la rubrica Nihon no Honto.
Giada Palumbo. Nata a Bolzano il 12 Marzo del 1992, ha sempre avuto una grande passione per la moda e la grafica. Trasferitasi in Giappone dopo la laurea in Fashion Design, trova lavoro come designer di stampe in una piccola azienda nelle campagne di Kyoto. Nel 2021 crea Komorebi, una piccola realtà che progetta grafiche per eventi e brand. Per Kotodama si occupa delle copertine e delle grafiche.
Naomi Cavaliere . Nata a Napoli nel 1995, ha conseguito la laurea magistrale in Lingue e Culture dell’Asia e dell’Africa con specializzazione in lingua e cultura giapponese all’Università di Napoli L’Orientale. Nel 2019 ha svolto un anno di scambio alla Tokyo University of Foreign Studies di Tokyo. I suoi ambiti di ricerca riguardano gli studi folcloristici, i gender studies e la letteratura contemporanea femminile giapponese. Per Kotodama segue la rubrica musicale Kitsune Records , dove propone playlist tematiche e traduzioni di testi di singoli particolarmente significativi.
Donatella Principi . Nata a Rimini nel 1991, è laureata in Acquacoltura e Igiene delle Produzioni Ittiche. Nel 2014 apre il canale YouTube e il profilo Instagram Chibiistheway dedicati a libri, fumetti, lifestyle e alla sua passione per il Giappone. Ha collaborato con VVVVID, il canale YouTube di Animeclick.it , LegaNerd e RedCapes realizzando video e articoli dedicati al fumetto e all’animazione giapponesi. Nel 2018 partecipa al programma radiofonico Pandora di Rai Radio 2 per consigliare libri e fumetti agli ascoltatori ed è ospite a Lucca Comics and Games del panel Comics Instagrammer per parlare del rapporto social-fumetto. Nel 2019 è stata selezionata fra i 16 Bookinfluencer più influenti scelti dagli allievi del Master BookTelling dell’Università Cattolica di Milano. Appare nel libro Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli a cura di Giovanna Burzio (La Corte, 2020) e fa parte della redazione di Kotodama.
Giada Zaccardi. Nata a Roma nel 1986, è laureata in giurisprudenza e ha conseguito l’abilitazione di avvocato. Durante l’esercizio della professione intraprende lo studio della lingua giapponese, che deciderà di proseguire iscrivendosi alla laurea magistrale in Lingua, economia e istituzioni del Giappone all’università “Ca’ Foscari” di Venezia. Nel 2019 fonda il progetto のど nodo (www.nodonodo.com e su Instagram: @nodo_no_do), per promuovere la diffusione delle lingua e della cultura giapponese in Italia. Attraverso questo progetto organizza numerosi eventi, tra cui Tokyo art in Rome nel 2019, e impartisce lezioni di lingua e cultura giapponese. Per Kotodama segue la rubrica Kotobar, approfondendo termini peculiari della lingua giapponese.
Alessia Trombini. Nasce nel 1994 ed è laureata in lingua giapponese presso l’Università di Venezia Ca’ Foscari.
Dal 2018 scrive per il sito d’informazione generalista Stay Nerd nel ruolo di caposezione per Anime, Manga e Giappone e conduce il podcast Japan Wildlife.
Dal 2021 collabora alla redazione di Kotodama con la sua rubrica Kotodama in gioco, nella quale consiglia giochi da tavolo rigorosamente a tema Giappone e che si possono trovare insieme a tanti altri anche sul suo profilo IG @orient_ale94.
Alessia Landolfi. Nata a Sorrento nel 1996. Si laurea nel 2019 in Scienze della Comunicazione conseguendo in contemporanea un diploma di Cinema d’Animazione presso l’Accademia Nemo di Firenze. Inizia un percorso magistrale in Design, Comunicazione Visiva e Multimediale presso La Sapienza. Nel 2020 ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di studiare per un semestre a Zagabria, in Croazia. Si laurea a dicembre 2021 con un progetto animato sull’inquinamento marino. Ha la passione per l’arte, la grafica e l’animazione. Si occupa dell’impaginazione grafica di Kotodama.
Ehara Kiyomi vive e lavora a Tokyo. È specializzata nella didattica della lingua giapponese e tiene corsi di formazione per aspiranti insegnanti. In passato è stata una personalità televisiva e della radio presso la NHK. Sfruttando la sua esperienza nei media, da venticinque anni lavora nell’ambito della didattica. Attraverso scuole di lingua, aziende e lezioni individuali, lavora a contatto di studenti provenienti da più di trenta paesi. Per due anni ha insegnato giapponese in Cina, presso l’Università di Dalian.
Chiara Zennaro. Nata a Bologna nel 1996 ma cresciuta a Chioggia (VE). Nel 2014 inizia una laurea in Studi Cinematografici e Scienze della Comunicazione al King’s College London. Si trasferisce in Giappone nel 2019 per uno scambio all’università di Kyoto dove consegue la laurea nell’agosto 2020. Ora vive e lavora a Tokyo come aiuto regista (AD) per la TBS, una stazione televisiva giapponese. Cinefila con una passione per le lingue, per Kotodama si occupa della rubrica sul cinema giapponese Akushon!
Andrea Matafora è nato a Napoli nel 1996. Laureando in “Letterature e Culture Comparate” presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, nel 2022 è stato borsista di scambio presso la Keio University. I suoi interessi vertono sulla letteratura giapponese contemporanea e il rapporto con la metropoli. Si sta attualmente concentrando sulle forme di violenza presenti all’interno del bildungsroman Tokyo Soundtrack di Furukawa Hideo. Ha tradotto per Coppola Editore due raccolte di racconti di Kusuyama Masao, Demoni (2021) e Samurai (2021).
Chiara Rita Napolitano è nata a Caserta nel 1994. Ha conseguito la laurea triennale e magistrale in Lettere e Culture Comparate presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel 2021, è entrata nel programma di dottorato dello stesso ateneo. Attualmente si trova a Kyoto per condurre una ricerca sul campo. I suoi interessi riguardano l’architettura giapponese tradizionale, i suoi simboli e le pratiche abitative.
Kotodama è un’idea che nasce l’estate del 2020, da una conversazione tra Carmen Borrelli e Dafne Borracci.
In un contesto internazionale che vede il sapere assumere forme sempre più fluide, lo scopo della redazione è quello di incoraggiare, anche attraverso i social, lo scambio di discorsi tra persone impegnate in uno studio continuativo di lingua e letteratura giapponese.
Attraverso le rubriche cerchiamo di cogliere diverse sfaccettature della cultura giapponese, dagli aspetti più gradevoli a quelli più ambigui e problematici.
La pubblicazione è a cadenza trimestrale.
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