Sotto il segno del pesce gatto
Formatosi nell’attiva zona tettonica dove le placche del Pacifico e delle Fi lippine entrano in collisione con quella dell’Eurasia, l’arcipelago giapponese è regolarmente colpito da eruzioni vulcaniche, tifoni, terremoti e tsunami. Tali fenomeni hanno stimolato una ricca tradizione di risposte visuali alle calami tà della natura. Si potrebbe addirittura dire che il disastro sia stato una forza generativa di arte e cultura. È stato, di certo, un catalizzatore per cambiamenti sociali, circostanze politiche.
Si dice che subito prima dei terremoti, il pesce gatto si comporti in modo strano. Nuotando nel fango, a stretto contatto con la terra, è forse perché si accorge delle sue prime, lievissime vibrazioni. L’immagine del pesce gatto emerge così in alcune mappe talismaniche, conosciute come Dai Nihonkoku jishin no zu (Mappe del terremoto nel grande Giappone), che erano ideate per prevenire terremoti e predire le loro future conseguenze. Queste mappe, di cui si ha traccia a partire dal quattordicesimo secolo, divennero popolari nel sedicesimo, quando si diffusero su almanacchi e nell’ambito di cerimonie per esorcizzare demoni.
È proprio a partire dalle Mappe del terremoto che ha origine l’associazione leggendaria tra i disastri naturali e il pesce gatto. Sulle Mappe, infatti, l’ani male appariva affiancato a una grande pietra, conosciuta come kaname ishi. Secondo la leggenda, la kaname ishi era sotterrata nelle profondità della ter ra, posata sulla testa di un enorme pesce gatto, sul cui corpo si appoggerebbe l’instabile suolo giapponese. La forza esercitata dal dio del tuono Keshima sulla kaname ishi avrebbe il ruolo di mantenere fermo il pesce gatto che, se fuori controllo, avrebbe dato luogo a terremoti devastanti.
Allegoria di distruzione e conseguente rinascita, al tempo stesso buona e cattiva sorte, il pesce gatto, (namazu), è protagonista di numerosissime stam pe a tema satirico (namazu-e). Se il popolo, da un lato, venerava il pesce gatto in quanto forza distruttrice di un sistema sociale ingiusto, esso era anche il presagio di imminenti e incalcolabili disgrazie. Molti namazu-e, per esempio, esprimono simpatia per la condizione della classe operaia, presentando il terremoto come un evento positivo che renderà possibile una molto auspicata distribuzione delle ricchezze.
Il quarto numero di Kotodama esplora, sotto il segno del pesce gatto, il legame tra il Giappone e la sua pericolosa natura, senza rinunciare al tocco sublime delle stagioni.
Buona lettura!
DAMIANA DE GENNAROLa Redazione
Kotodama - Numero 4 - Anno 2 - Cadenza Trimestrale Kotodama ©2020
Direttore editoriale
Carmen Borrelli e Dafne Borracci
Proofreading e coordinamento editoriale
Redattori
Alessia
SaraLorisNaomiGuendalinaGiadaEleonoraEharaDonatellaDamianaDafneChiaraCarmenTrombiniBorrelliZennaroBorracciDeGennaroPrincipiKiyomiBadellinoZaccardiFantiCavaliereUsaiOdri
Partecipanti a questo numero:
Minori Shimizu
Luca
Giulia DamianaAlessiaLicciardelloTrombiniDeGennaro
Impaginazione e grafica Alessia Landolfi @alesh_art
La copertina è di Giada Palumbo @komorebi_studiodesign
Le fotografie sono di: @traprofumoditatamieincenso
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Sommario
L’albero di ginkgo e il girasole strappato: il doppio volto della natura in Yasunari Kawabata
Quando le divinità giocano con il Dafuoco“natura”
a “malattia”: l’evoluzione dei rapporti omosessuali in RiguardoGiapponealGrande
Terremoto dell’1 settembre del dodicesimo anno dell’Era Taishō Fukushima anno zero. Fra natura e progresso
Riguardo al Grande Terremoto dell’1 settembre del dodicesimo anno dell’Era Taishō - continuo
Kajii Motojirō e la cupa osservazione della natura
Riguardo al Grande Terremoto dell’1 settembre del dodicesimo anno dell’Era Taishō - continuo
Arte e paesaggio nei musei del Giappone contemporaneo
L’albero di ginkgo e il girasole strappato: il doppio volto della natura in Yasunari Kawabata
a cura di Carmen Borrelli TEMPO DI LETTURA 7’Si potrebbe affermare, con molta facilità, che letteratura e natura in Giappone vanno di pari passo.
In particolare, “l’amore per la natura” è un concetto incorporato da sempre nella cultura giapponese: è l’idea che, fin dai tempi antichi, la cultura giapponese ha sempre avuto un rapporto armonioso con la natura.
A differenza delle sue controparti europee, la maggior parte della letteratura giapponese classica – a partire dal Kojiki e dal Man’yōshū – presenta interconnessioni intime tra le persone e gli ambienti; tende a concentrarsi sugli aspetti miti, gentili ed estetici del mondo non umano, piuttosto che sforzarsi di dare impressioni oggettive, scientifiche o corrette.Lastruttura stessa del linguaggio poetico giapponese, insieme a tecniche letterarie classiche come engo e kakekotoba, accentua una profonda connessione tra le persone e la natura.
È quindi una letteratura che evidenzia l’impermanenza della flora e della fauna.Sitratta comunque di un’impermanenza prevedibile, “naturale” e celebrata; i fiori sbocciano e svaniscono, ma lo fanno a tempo con le stagioni e non c’è quindi un elemento di sorpresa.
Nei suoi testi, le persone cercano rifugio nella natura e traggono ispirazione da essa, non alterandola radicalmente. Sono gli ambienti che danno forma alle persone, a volte danneggiandole fisicamente o economicamente, altre volte arricchendole in maniera artistica o spirituale.Unfamoso uso della letteratura per spiegare in parte il buon rapporto con la natura è il discorso fatto da Kawabata nel 1968, quando ha ricevuto il Nobel per la Letteratura.
Kawabata parla delle poesie di Myōe e vede in loro un confine permeabile tra il poeta e la luna, spiegando che Myōe “non si limita a descriverla ‘come compagna’ ma si confonde con essa, guardandola diventa luna egli stesso mentre la luna si trasforma in lui, ed egli si immerge nella natura, diviene tutt’uno con la natura1”.
Lo scrittore trova “notevole dolcezza e compassione” nella prima poesia, chiedendo alla luna se il vento penetra e se la neve è fredda e interpreta “questa poesia come espressione di un profondo, caldo e tenero sentimento di partecipazione nei confronti della natura e degli esseri umani, come una poesia che ha in sé la profonda delicatezza dell’animo giapponese”.
1 Maria Chiara Migliore, “La bellezza del Giappone e io”, in Amitrano Giorgio (ed.), Kawabata Yasu nari, Romanzi e racconti, “Meridiani”, Milano: Mondadori, 2003, p. 1239.
Ma, ancora una volta, l’immagine che siamo abituati ad attribuire al Giappone ci fa pensare a un mondo che vive solo in armonia con la natura e non in contrasto con essa.
Proviamo a ribaltare questa idea leggendo in una chiave completamente diversa un capolavoro della letteratura giapponese, Il suono della montagna di Kawabata Yasunari.
Armonia o paura della natura?
Osservando il ruolo che la natura svolge nei romanzi di Kawabata – e in particolare nel romanzo sopracitato – si può notare che la natura è strettamente legata all’evoluzione dei loro personaggi e della loro psicologia.
La sua importanza è così grande da annullare la possibilità di scambiare questi elementi, perché sia la trama che la natura sono strettamente connesse.
Si tratta, in realtà, di un romanzo in cui niente accade. Non ci sono colpi di scena o catastrofi improvvise: è la semplice storia di una famiglia giapponese del dopoguerra, in bilico tra tradizione e cambiamenti.
Questa condensazione tra natura e trama dà alla prima la stessa funzione di una kigo di un haiku. Con questo parallelo, si può suggerire che la natura, nel romanzo, è così determinante che senza non si possono apprendere i sentimenti espressi dai personaggi: senza di essa, infatti, sarebbe tutto sradicato, opaco e senza vita.
La natura, imponente e dinamica, viene vista nei suoi cambiamenti e nei suoi elementi, desiderosi di raggiungere la percezione della bellezza naturale giapponese, che è basata su cambiamenti stagionali. È un’intimità questa, tra natura e personaggio, che non può essere interrotta.Shingo,protagonista del romanzo, guarda alla natura quando non capisce la realtà che lo circonda.
La natura, però, gli dà delle risposte dure, che infrangono le sue speranze:
Poi, all’improvviso, Shingo udì il suono della montagna. […] Certe notti si udiva il rumore delle onde. All’inizio, perciò, Shingo aveva pensato che si trattasse del suono del mare. Era chiaramente il suono della montagna, invece.
Somigliava al rumore del vento lontano, ma aveva una forza profonda come di rimbombi della terra. Pareva quasi che gli risuonasse qualcosa in testa. […]
Il suono cessò.
Dopo che il suono fu cessato, per la prima volta Shingo ebbe paura. Rabbrividì pensando che forse era il preannuncio della morte.
E così, mentre Shingo sente l’angoscia della vecchiaia che gli fa perdere la giovinezza, cerca allo stesso tempo qualcosa che gliela faccia ritrovare o una bellezza nascosta che non ha ancora trovato in sé stesso.
L’albero di ginkgo è probabilmente lo specchio di come si sente Shingo: ha vissuto a lungo, ma è, allo stesso tempo, limitato.
Così il grande ginkgo germogliava di nuovo.Rientrando, girato l’angolo della strada maestra, e imboccata la via stretta che conduceva a casa, Shingo si dirigeva verso il ginkgo. Lo guardava tutti i giorni e lo osservava anche dal soggiorno di casa sua.
“Si capisce che il ginkgo è più resistente del ciliegio. Mi colpisce la vitalità di quest’albero che dimostra la sua forza nelle circostanze avverse” osservò Shingo. “Quanta forza deve avere un albero così vecchio per gettare fuori le gemme in autunno!”
“Ma le foglie hanno un’aria triste” disse Kikuko.
“Sì. Sto guardando se quelle foglie riusciranno a diventare grandi come quelle germogliate in primavera. Non stanno crescendo molto.”
Se l’albero di ginkgo è Shingo, quello di ciliegio non può che essere Kikuko. Questa semplice associazione può essere il postulato di uno spunto più importante. Possiamo infatti osservare come i personaggi maschili di Shingo e Shūichi in primis sembrino dominare sui personaggi femminili, secondo l’organizzazione sociale giapponese dell’epoca. Ma la supremazia maschile viene rappresentata in maniera sottile anche attraverso elementi naturali, a partire dagli ideogrammi usati per i nomi dei personaggi.Adesempio, il primo carattere che compone il nome di Shingo, ovvero shin 信 significa “fiducia”, mentre il primo di Kikuko, kiku 菊 è “crisantemo”. Ancora, il primo kanji di Shūichi, shū 修 indica “disciplina”; quello di Fusako, fusa 房 sta per “bouquet”.
Mentre la maggior parte dei caratteri dei personaggi femminili ha rimandi alla natura, ai fiori e alla terra stessa, quelli dei personaggi maschili sono legati a processi cognitivi o all’apprendimento, quindi ad azioni che poi trasformano la natura. Il dominio del maschile sul femminile viene dimostrato anche con questa sottigliezza: gli elementi culturali sono associati all’uomo, mentre quelli naturali alle donne.
Così facendo, il principio maschile si allontana da quello femminile, non riuscendo a comprenderlo; un allontanamento che si traduce nella paura dell’uomo per la natura e i suoi cambiamenti.Shingohapaura davanti ai mutamenti naturali che, invece, dovrebbero essere accettati con serenità.
Ha paura della fine e della morte:
Lo stelo si era rotto una ventina di centimetri sotto il fiore, che era caduto su un lato della strada. Il fiore era rimasto per terra alcuni giorni. Sembrava di vedere per terra una testa di uomo.
I petali attorno erano appassiti per primi; poi lo stelo robusto aveva perso la sua freschezza, aveva cambiato a poco a poco colore e si era coperto di fango.
Ogni volta che Shingo passava di lì per andare al lavoro o per rincasare, doveva stare attento a non calpestarlo, ma non gli piaceva il fiore.
La base dello stelo, dopo che la testa era stata tagliata, era rimasta in piedi accanto al cancello. Non aveva più neanche una foglia.
Lo stesso girasole, poche pagine prima, era stato definito da Shingo come “la testa di un grande eroe”:
I petali sembravano una corona, una specie di passamaneria, e il disco centrale era formato per la gran parte dagli stami. I filamenti degli stami s’accumulavano a formare il disco compatto e gonfio. Tuttavia essi non contrastavano tra loro, e regnavano con calma e ordine sull’insieme del fiore. Ne traboccava una forza indicibile. Il fiore era più grande della normale circonferenza di una testa umana. Il suo volume, che obbediva a un ordine preciso, doveva aver ricordato a Shingo il cervello umano. Poi, nel vigoroso volume della forza naturale, Shingo aveva intuito un enorme simbolo maschile. Senza capire cosa succedeva tra stami e pistilli in mezzo a quell’immenso disco, Shingo aveva percepito la forza virile.
Vedere quello che per Shingo è simbolo di “forza virile” a terra, spazzato via da un tifone che, il giorno precedente, era arrivato anche a Kamakura, lo scuote nel profondo.
Anche il girasole funge da promemoria per la morte che si avvicina: il ciclo della natura è tale per tutti e la fine arriva anche per l’uomo considerato forte e indistruttibile.
FONTI E APPROFONDIMENTI
● Tutte le citazioni de Il suono della montagna sono prese da: Yasunari Kawabata, Il suono della montagna, Milano: Bompiani,2019.
Per maggiori approfondimenti, si rimanda a:
● Ernesto Atsushi Sambuichi, Cristian Rosoga, Saturnino José Valladares, “A natureza em o som da montanha de Yasunari Kawabata”, in Diálogos Ecocríticos, vol. 1 n. 3, 2019.
● Adiga Preetham, Lewis Anupa, “Perspectives on the use of Eco-critical tropes in Yasunari Kawabata’s Novels: Thousand Cranes and The Old Capital”, in International Journal of Management and Applied Science, Vol. 4, N. 3, 2018.
Quando le divinità giocano con il fuoco
Di Marty TraduzioneBorsottiacura di Sara Odri e Elia Barone TEMPO DI LETTURA 12’I diversi livelli dei riti agrari giapponesi
Nascosta tra le montagne della parte centrale del Kyushu, dove si incontrano le prefetture di Oita, Kumamoto e Miyazaki, sorge la città rurale di Takachiho, descritta come il luogo di nascita della mitologia giapponese. Questo appellativo trae le proprie origini da un posto specifico del territorio: Ama no Iwato 天の岩戸, la pietra della Caverna Celeste in cui Amaterasu, adirata con Susanō, si era rinchiusa gettando il mondo nell’oscurità. Questo episodio mitologico ha tutt’oggi una grande influenza sulla città di Takachiho, non solo per quanto riguarda la caverna di Ama no Iwato, ma anche perché la sua rappresentazione nel tipico spettacolo locale (minzoku geinō 民俗芸能) costituisce l’apice della danza kagura notturna di Takachiho. Ogni kagura notturna, yokagura 夜神楽 in giapponese, consiste in un insieme di trentatré danze sacre eseguite nel corso di una notte da alcuni officianti della città. Viene organizzato in modo autonomo tra novembre e febbraio dai borghi della cittadina.
Si dice che le odierne yokagura di Takachiho abbiano mantenuto sin dai tempi del periodo Edo (1608-1868) la forma di un matsuri 祭 che unisce i rituali ereditati dai monaci asceti agli spettacoli teatrali urbani popolari all’epoca: Nō, Kabuki e Sarugaku. Caratteristica delle yokagura è l’utilizzo di maschere sacre per mettere in scena le divinità del pantheon shintō e incanalare i loro poteri per conferire protezione e prosperità ai borghi.
Nel 1978, le danze kagura appartenenti alle varie frazioni della città furono nel loro insieme dichiarate jūyō mukei minzoku bunkazai 重要無形民俗文化財, “importante e intangibile proprietà culturale del popolo giapponese”. Oggigiorno, è stato aggiunto un nuovo aspetto alla yokagura di Takachiho: non solo rappresenta una forma locale di fede e intrattenimento, ma è anche diventato un importante assetto economico per lo sviluppo dell’industria turistica. Le ricerche su questo argomento possono essere condotte attraverso vari approcci; pertanto, ho deciso di limitare la nostra analisi a un elemento particolare della yokagura, che manifesta la consapevolezza del potere distruttivo della natura e la sua relazione con gli abitanti del luogo.
Un rituale legato all’acqua per controllare il potere distruttivo del fuoco
In questo articolo mi concentrerò solo su una delle trentatré danze che compongono la yokagura, ovvero la okie 沖逢, così come viene eseguita nel borgo di Kami Naga no Uchi del villaggio Iwato, nella parte est della città. La okie è una danza ricorrente in molte yokagura dei borghi e dei villaggi di Takachiho, e consiste in un rituale con cui si venerano le suijin 水神, le divinità dell’acqua, per proteggere la cittadina dagli incendi. Quattro danzatrici interpretano altrettante divinità connesse all’acqua in modo da incanalarne il potere con i loro movimenti e conferire protezione divina al quartiere. Tuttavia, la versione della danza del borgo di Kami Naga no Uchi si differenzia dalle altre perché è preceduta da un rituale unico, il Sumitōshi 炭通し, in cui le quattro ballerine siedono al centro della scena sacra e si scambiano un pezzo di carbone ardente con le mani bagnate solo da gelida acqua salata. Lo scambio avviene in un lasso di tempo piuttosto breve e in genere viene trascurato dagli spettatori, che ne approfittano per prendersi una pausa ignari della rarità dell’evento che sta avendo luogo davanti ai loro occhi. Infatti, questo è l’unico caso di un simile rituale in tutta la città, la cui raison d’être risale alla storia secolare e alla topografia del borgo, rendendolo ancora più degno di nota.
Invocare il potere delle divinità
Se dovessimo discutere del simbolismo che si cela dietro il rituale, tre elementi salterebbero immediatamente all’occhio: le divinità, il carbone ardente e l’acqua salata. Quello che viene rappresentato è la sigillatura e la dominazione di un potere dirompente: l’elemento del fuoco, rievocato attraverso il carbone ardente, che viene soggiogato dalle divinità acquatiche mediante l’acqua salata. Quest’ultimo elemento non è casuale in quanto, nella cultura e nelle superstizioni giapponesi, il sale è spesso associato a proprietà protettive, purificatrici ed esorcizzanti. Nello specifico, questa pratica affonda le proprie radici nel sistema di credenze sincretiche ed esoteriche denominato Shugendō 修験道, che si narra sia stato trasmesso agli abitanti di Takachiho dai monaci che praticavano l’ascesi nelle montagne circostanti. Una delle caratteristiche delle pratiche Shugendō è l’invocazione delle divinità dotate sia di natura buddhista che shintō, un concetto descritto nella teoria dello Honji Suijaku, secondo cui a ogni kami 神, ovvero a ogni divinità shintō, ne corrisponde una buddhista. È molto probabile, quindi, che i monaci asceti li invocassero entrambi quando officiavano i rituali per gli abitanti del villaggio. Il rituale è stato loro tramandato così: l’atto di scambiarsi un carbone ardente con mani bagnate da acqua salata acquisisce improvvisamente una connotazione esoterica, poiché trae il proprio potere protettore da queste pratiche centenarie che uniscono Shintō, Buddhismo e Taoismo. Se analizzato da questa prospettiva, il rituale potrebbe essere considerato come una reliquia di un’arcaica tradizione sciamanica che trae i propri poteri dall’ambiente che circonda chi la pratica, la cui natura nascosta è svanita dopo secoli di trasmissione tra gli abitanti comuni del villaggio.
Manifestazione della Weltanschauung locale
A una prima osservazione, questo rituale potrebbe essere raggruppato con la moltitudine di casistiche simili che si possono trovare nell’arcipelago giapponese. Eppure, prestando particolare attenzione al borgo di Kami Naga no Uchi, diventa palese un nuovo livello interpretativo. Un antropologo metterebbe in discussione il lavoro sul campo per poter comprendere perché questo borgo nello specifico ha deciso di rafforzare ulteriormente il valore ritualistico della danza okie con un prologo più tangibile e altamente simbolico. Uno degli indizi principali, utile a risolvere questo enigma, è l’ambiente del borgo e soprattutto il suo essere soggetto alla siccità. Kami Naga no Uchi è situato sul fianco di una valle scoscesa, in un punto piuttosto distante dal fiume che ne erode il fondo, e per secoli gli abitanti del luogo sono stati afflitti dalla scarsità d’acqua. Anche se i tempi moderni hanno portato lo sviluppo di una rete idrica domestica, la fornitura d’acqua è stata una sfida continua per i residenti, che ancora oggi hanno difficoltà nell’irrigare le proprie colture. Una simile relazione di dipendenza dalla natura viene incarnata dalla yokagura locale, di cui sono particolarmente evidenti i tratti legati alla danza della pioggia: l’augurio di un anno prospero, ricco di precipitazioni e di un clima favorevole.
Ritornando al focus dell’articolo, quello che ci interessa in particolare è il Sumitōshi, il rituale a protezione del fuoco, la manifestazione della sensibilità locale verso la natura e il suo potere incontrollabile. Dovremmo tentare di immedesimarci in un abitante del XVIII secolo per poter comprendere a pieno quello che viene veicolato attraverso l’atto – apparentemente semplice – di scambiarsi un carbone ardente. Il focolare occupava un ruolo centrale nella vita rurale, fornendo alle persone calore e permettendo loro di cucinare i propri pasti. Il carbone era un bene con cui i contadini erano familiari e che utilizzavano nella loro quotidianità, nonostante fossero consapevoli del suo potere distruttivo. Maneggiare con poca cura quei piccoli oggetti avrebbe potuto avere chissà quali conseguenze, portando perfino alla completa distruzione del villaggio. Non c’erano a quell’epoca strade e ponti che collegassero i villaggi situati sui lati opposti della valle, e l’accesso all’acqua dipendeva dalle condizioni climatiche. Nel caso di un incendio, gli abitanti del borgo avrebbero potuto fare affidamento solo su se stessi per contenerlo; se ciò fosse accaduto durante una siccità, non avrebbero probabilmente avuto altra opzione che la fuga, in quanto i pozzi vuoti e la vegetazione secca avrebbero reso vano ogni tentativo di domare il fuoco. Tenendo a mente questo, la tutela dagli incendi era una delle più importanti richieste che venivano fatte alle divinità. Non solo il rituale serviva come mezzo per chiedere la protezione divina, ma era anche un monito costante per i cittadini del potere distruttivo intrinseco dell’ambiente in cui vivevamo. L’atto di invocare varie divinità aveva sia la funzione di sigillare il potere del fuoco che quella di rammentare agli spettatori la loro stessa caducità.
È possibile che l’intimità della sfumatura del rituale possa essere colta appieno solo dalle persone che hanno vissuto in queste aspre condizioni. Probabilmente questa è la ragione per cui al pubblico contemporaneo il rituale non sembra così coinvolgente come le danze più enfatiche. Semplicemente, chi guarda non ha la stessa relazione e dipendenza dall’ambiente locale, non avendo vissuto la solennità di questa rappresentazione sulla propria pelle. Il rituale del Sumitōshi di Kami Naga no Uchi è perciò un prezioso patrimonio che ci trasmette il mondo come lo concepivano gli abitanti del periodo preindustriale. Mentre la sua forma e le sue sfumature possono sembrare difficili da comprendere pienamente, crediamo che un rituale così semplice possa ancora comunicare un potente messaggio: ci ricorda della nostra relazione di dipendenza dalla natura e la nostra incapacità di dominarla.
Marty Borsotti è nato a Montpellier nel 1994. Laureato in Giapponologia alla facoltà di lettere dell’università di AixMarseille nel 2017, ha successivamente effettuato un anno di scambio (20172018) partecipando al programma JTW dell’università del Kyushu a Fukuoka. Rientrato in Francia ha intrapreso un corso di laurea specialistica in Giapponologia e Antropologia all’università di Aix-Marseille conclusosi nel 2020. Membro fondatore del progetto editoriale Wasshoi! Interdisciplinary Magazine on Japan, per il quale ricopre le cariche di managing editor e articolista. Trasferitosi di recente in Giappone per motivi familiari ha come progetto di condividere gli usi e costumi dell’arcipelago mostrandone la varietà e la ricchezza culturale. Questo articolo nasce dalla collaborazione di Kotodama e Wasshoi
a cura di Loris Usai
TEMPO DI LETTURA 5’
Tra i filoni di manga più popolari oggi, specialmente all’interno di una specifica nicchia di lettor*, c’è sicuramente il genere BL, acronimo di Boys Love che rappresenta principalmente storie di relazioni sentimentali e carnali tra due protagonisti maschili.
Il pubblico straniero, molto spesso, interpreta questo fenomeno come la concreta manifestazione di un certo spirito progressista del Giappone nei confronti di quelle che oggi vengono chiamate “minoranze sessuali”, ma questa lettura della realtà è fallace perché manca di prendere in considerazione le radici storico-culturali delle relazioni sentimentali tra uomini in Giappone.
Le radici del Boys Love affondano in un una pratica conosciuta con il termine nanshoku 男色 (in alcuni casi pronunciato anche danshoku) che letteralmente significa “colori maschili”. Il nanshoku, ossia la pratica dell’amore tra uomini, era un elemento culturale estremamente diffuso sin da tempi antichissimi. Esistono testimonianze dell’amore tra uomini già all’interno di testi antichissimi come l’antologia Nihon Shoki (Annali del Giappone) del 720 d.C., o ancora la raccolta poetica Man’yoshu (Raccolta delle diecimila foglie) del 759 d.C. e ovviamente all’interno del primo “romanzo” moderno, il Genji Monogatari (Storia di Genji), dell’XI secolo.
Le prime testimonianze scritte al di fuori dell’ambito letterario risalgono al periodo Kamakura (1185-1336) all’interno delle quali il nanshoku è rappresentato come una cornice di sublime valore morale ed estetico a uso quasi esclusivo delle classi sociali abbienti, come l’aristocrazia e il clero. Dal periodo Muromachi (1336-1573) in poi, e per tutto il periodo Tokugawa (1603-1867) fino alla caduta dello shogunato, il nanshoku inizia a diffondersi anche tra la gente comune e diventa un elemento imprescindibile della mascolinità giapponese. L’amore tra uomini, seppur rigidamente codificato all’interno di specifiche coordinate, era tutto fuorché un tabù, una dinamica assolutamente “naturale” che non indicava una minoranza.
Da “natura” a “malattia”: l’evoluzione dei rapporti omosessuali in Giappone
L’evoluzione (o involuzione?) del nanshoku in Giappone ci dà una chiara prospettiva di quanto ciò che viene considerato “naturale” sia in realtà culturale e abbia poco (o niente) a che fare con la biologia.
Prima di addentrarci nel discorso di quando, come e perché il nanshoku sia diventata una pratica “innaturale”, tabù e propria di una minoranza, vediamo prima di tutto in che cosa consisteva.
Sarebbe infatti un errore considerare il nanshoku l’equivalente del termine “omosessualità” di uso moderno. Sono due contenitori ben diversi e, se nell’ottica macroscopica di una rapporto di intimità tra due individui dello stesso sesso, è necessaria molta attenzione.
Innanzitutto il termine contemporaneo “omosessualità” riguarda anche i rapporti lesbici tra donne, cosa che il nanshoku esclude completamente. In contrapposizione al nanshoku, specialmente durante il periodo Tokugawa, veniva utilizzato il termine joshoku 女色 (colori femminili) che però non stava a indicare i rapporti amorosi tra due donne, bensì quelli tra un uomo e una donna. Insomma, il fulcro del discorso era, tanto per cambiare, l’uomo (o meglio: un certo tipo di uomo) e le sue relazioni sentimentali e sessuali erano definite in base al sesso del partner con cui sceglieva di intrattenersi.Il
nanshoku era una pratica “naturale” largamente diffusa. Ma quali erano le condizioni fondamentali alla base di queste dinamiche amorose? Contrariamente al concetto moderno di “omosessualità (maschile)”, non era sufficiente essere biologicamente “maschi”. Il nanshoku avveniva all’interno di una cornice ben strutturata. In primis, era fondamentale che tra le due parti in causa vi fosse una consistente differenza anagrafica e che a questa fosse associata una altrettanto evidente disuguaglianza in termini di status sociale. A ciò si doveva accompagnare anche una netta distinzione nell’aspetto fisico in termini di virilità, prestanza e tratti estetici secondari come l’abbigliamento e l’acconciatura.
Vi era quindi questa netta contrapposizione tra nenja 念者 (lett. “la persona che si prende cura”), ossia un uomo adulto, affermato dal punto di vista sociale, virile, con la parte superiore della testa rasata, e wakashu 若衆 (lett. “giovane adolescente”), un giovane fanciullo ancora privo di sicurezza economica e di status sociale, dai tratti delicati, femminei, con i capelli più o meno lunghi e sempre con la frangetta. All’interno di queste dinamiche speculari fondate su una palese disparità, il nenja ricopriva un ruolo “attivo” sotto ogni punto di vista, arrogandosi la prerogativa dell’atto penetrativo in ambito sessuale, e di conseguenza la sua controparte “passiva”, il wakashu, ricopriva il ruolo ricettivo. Ovviamente questo valeva anche per il discorso sulla prostituzione maschile dei giovani kagema 陰間 (lett. “persone nell’ombra”), considerata ugualmente “naturale” al pari di quella eterosessuale.
Le relazioni tra maschi erano considerate “naturali” ammesso che fossero condotte secondo questi rigidi dettami. Si trattava di relazioni sbilanciate fondate sui concetti di lealtà, devozione, fedeltà e bisogno del giovane sottoposto nei confronti della figura guida dell’adulto affermato socialmente, il cosiddetto “provider”. Non a caso, il nanshoku si sposava alla perfezione con l’etica samuraica, sia per ideali di fondo, sia per la convivenza continuativa in ambienti fortemente omo-sociali come accade per chi vive costantemente in guerra come i giapponesi del XV-XVI secolo. Infatti, specialmente in epoca Tokugawa, non esisteva guerriero che fosse estraneo alla pratica, da Oda Nobunaga a Tokugawa Ieyasu. Lo stesso valeva per la classe religiosa di monaci e sacerdoti, ai quali era proibito svolgere atti sessuali con donne e nel caso in cui fossero stati scoperti avrebbero subito rigide punizioni.
Il nanshoku era una pratica “naturale” anche per i poeti e i letterati dell’epoca come Matsuo Bashō e ovviamente Ihara Saikaku, il quale inquadrò con estrema precisione le coordinate “naturali” di questo amore tra uomini nella sua celebre opera Il grande specchio dell’omosessualità maschile. Secondo Ihara Saikaku, il nanshoku vantava in Giappone origini divine in quanto, fino alla comparsa della coppia divina maschiofemmina di Izanagi e Izanami, esistevano solo divinità maschili e si amavano tra di
percezione della “naturalità” del nanshoku iniziò a cambiare progressivamente con la fine dello shogunato Tokugawa e l’ingresso del Giappone nel periodo Meiji (1868-1912), quando il Paese mise fine al periodo di chiusura interna e cominciò a fagocitare saperi stranieri per avviare al massimo della velocità il processo di trasformazione del Paese in nazione moderna pronta a competere sulla scena internazionale.Ilbuddhismo e lo shintoismo giapponesi non avevano mai posto al bando le relazioni amorose tra individui di sesso maschile, considerandole unioni “naturali”, ma l’introduzione massiccia del cristianesimo e dei valori cristiani che si applicavano di rimando anche al discorso in campo medico imperversante in quegli anni in Europa, comportò uno shift sulla concezione del Giappone nei confronti del nanshoku.
Anche durante il periodo Meiji una fetta della popolazione maschile definita “stoica” continuò a preferire relazioni virili e stimolanti con altri uomini piuttosto che indugiare in un rapporti “melliflui” con delle donne, ma nel 1873, per la prima volta nella storia giapponese, i rapporti di penetrazione anale furono dichiarati illegali.
Il Giappone cercava di tenere il passo con le potenze europee e non poté ignorare la pratica dei rapporti omosessuali, un vero e proprio tabù in Occidente. In realtà il codice penale che metteva al bando i rapporti penetrativi anali venne rivisto e corretto appena nove anni dopo, e già dal 1882 gli atti di sodomia non erano più considerati fuorilegge, ma ormai era avvenuta una virata decisiva nell’opinione pubblica e il nanshoku, seppur non più illegale, iniziò a tutti gli effetti a essere considerato un atto immorale, spregievole, nocivo alla salute… in una parola, “innaturale” e malato.
Riguardo al Grande
Terremoto dell’1 settembre del dodicesimo anno dell’Era Taishō
traduzione a cura di Dafne Borracci
TEMPO DI LETTURA 15’ di Akutagawa Ryūnosuke
L’autore
Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927) scrittore e poeta, è considerato uno dei maggiori autori giapponesi di racconti del Novecento. L’inizio canonico della sua carriera letteraria viene individuato con la pubblicazione di Rashōmon 羅 生門 nel 1915, racconto che gli valse l’apprezzamento di Natsume Sōseki e che, successivamente, fu adattato nell’omonimo film di Kurosawa Akira, Leone d’oro a Venezia nel 1951.
Oltre Rashōmon, Akutagawa è stato autore di numerosi altri racconti annoverati oggi nel canone della letteratura giapponese, fra cui Il fazzoletto (1916), Il filo del ragno (1918), La scena infernale (1918) e Kappa (1927).
Le prime opere di Akutagawa sono fortemente influenzate dalle sue letture giovanili dei classici cinesi e prendono la forma di novelle dove emerge il contrasto tra la bellezza della prosa ricercata e la bruttezza e crudezza delle tematiche descritte.
Negli ultimi anni di vita, invece, complice l’aggravarsi delle sue condizioni mentali, Akutagawa inizia a sperimentare la narrativa dell’Io. In opere come La ruota dentata e Vita di uno stolto esplora il proprio dramma emotivo trasformandolo, attraverso una scrittura sublime, in un’opera d’arte.
La scrittura di Akutagawa è influenzata principalmente dalle vicende familiari travagliate – la malattia mentale della madre e la sua adozione in casa della zia, la sua formazione letteraria e il periodo storico in cui visse, spaccato a metà tra una folle corsa all’industrializzazione e all’occidentalizzazione e gli equilibri centenari della cultura giapponese.
Gli stessi motori che alimentarono la sua scrittura, tuttavia, lo portarono a soffrire di disturbi psichiatrici e, nel luglio del 1927, dopo aver descritto il suo gesto in una nota autobiografica, si suicidò con un’overdose di barbiturici.
L’opera
Successivamente al Grande Terremoto del Kantō del 1923, Akutagawa scrisse alcune note che vi presentiamo per la prima volta tradotte integralmente in italiano in questo numero di Kotodama.
Il terremoto di magnitudo 7.9 avvenne alle 11:58 del mattino del primo settembre 1923. Coinvolse l’intera area di Tokyo e Kanagawa e buona parte delle prefetture di Ibaraki, Chiba e Shizuoka. Come apparirà chiaro anche dalle parole di Akutagawa, non fu il crollo degli edifici, bensì gli incendi a causare la morte della maggior parte dei due milioni di feriti e dei centomila morti; il sisma era avvenuto a mezzogiorno, nel momento in cui in molte case si stava cucinando e il fuoco era acceso. I primi incendi divamparono così e si estesero rapidamente di casa in casa, di quartiere in quartiere a causa del forte vento.Attratto
in modo quasi magnetico da tutto ciò che era brutto e miserabile, Akutagawa non perse tempo e – come scrive lui stesso e come sarà poi confermato da Kawabata Yasunari – appena terminato il sisma iniziò a perlustrare le macerie della Tokyo rasa al suolo con un entusiasmo folle e autodistruttivo. La devastazione, la distruzione e i cadaveri che si perdevano a perdita d’occhio devono aver influenzato la sua scrittura molto più di quanto egli stesso non abbia ammesso nelle sue annotazioni, poiché è negli anni seguenti che l’autore inaugura il capitolo più lugubre e tetro della sua produzione con Il Registro dei Morti (1926), Domande e risposte del buio (1927) e La Ruota Dentata (1927).
Le memorie che Akutagawa ci lascia sul Grande Terremoto del Kantō, tuttavia, sono tutt’altro che lugubri. Le descrizioni dei paesaggi devastati e le scene di morte sono intervallate dalle tinte soavi dei fiori e da riflessioni accorate sul senso più profondo della vita umana e dell’arte. Ritroviamo il coesistere di bellezza e bruttezza, di dolore e speranza che costituisce il fil rouge di tutta la produzione dell’autore, in un ragazzino ustionato che cerca sollievo
immergendosi fino al collo in un canale e inizia a cantare; negli sfollati che si stringono in un’atmosfera solidale, quasi come se stessero facendo un picnic; nel gesto apparentemente insignificante del mettere in salvo un rotolo scritto da un maestro stimato; negli edokko, i tokyesi da generazioni, che restano vicini alle loro case nonostante siano diventate un pugno diIlcenere.terremoto diventa, a tratti, un pretesto per riflettere su cosa sia la natura e il suo rapporto con l’essere umano, sul ruolo salvifico dell’arte e sui piccoli miracoli che avvengono nei cuori della gente quando questa si trova a dover affrontare situazioni catastrofiche e disperate.
Durante la traduzione, è stato inevitabile riportare alla mente le scene che in questi giorni stanno facendo il giro del web: la banda che si esibisce per le strade bombardate di Kiev, i civili ucraini che si oppongono all’avanzata dei carri armati russi, le persone strette nelle metropolitane e negli scantinati.
C’è anche un lato oscuro, tuttavia, su cui vale la pena riflettere. Nelle parole di Akutagawa troviamo anche l’alienazione dell’uomo moderno nei confronti della propria casa e della propria terra, tipico degli abitanti delle metropoli industrializzate, e la facile tendenza al complottismo. Dopo il Grande Terremoto del Kantō, infatti, si diffusero innumerevoli teorie complottiste che attribuivano il diffondersi dei roghi ai comunisti o alle comunità d’immigrati coreani, che furono perseguitati: anche qui è inevitabile fare un confronto con le bufale girate durante la fase acuta della pandemia di Covid-19 e la totale mancanza di dialogo, comprensione e pietà tra le fazioni anti e pro-mask, anti e pro-vax, anti e pro-green pass.
Akutagawa sembra dunque dirci che la natura non solo è indifferente agli esseri umani, ma che è capace, come un medico scontroso, di sbattere loro in faccia sia il referto medico delle loro malattie sia la ricetta per curarle.
Annotazioni varie sul Grande Terremoto
Parte prima
Nell’agosto del dodicesimo anno Taishō, Ichiyūtei e io ci recammo in gita a Kamakura, ospiti presso la Villa Hiranoya. Osservando il giardino dalla veranda in cui sedevamo, al di là della tettoia si estendeva a perdita d’occhio un gazebo di glicini rampicanti e, qua e là fra le foglie verdissime, si scorgevano dei fiori violacei: una fioritura di glicini in pieno agosto era un evento degno di essere ricordato negli annali. Ma c’è dell’altro. Sbirciando dalla finestrella del bagno il terreno sul retro della casa, si potevano notare anche dei cespugli di yamabuki ricoperti di fiori dalle corolle multistrato.
Colpendo gli yamabuki raggi di sole simili a stecchini di legno - Ichiyūtei
(NB: C’erano dei paletti di legno a sostegno delle piante)
Tuttavia, lo spettacolo più strano in assoluto fu senz’altro quello dello stagno del giardino Komachien, dove fiori di loto e iris sgomitavano per contendersi il poco spazio a disposizione.
Fiori di loto dalle foglie rinsecchite e intrico d’iris - Ichiyūtei
Glicini, yamabuki e iris… Non poteva essere una mera coincidenza. Era indubbio che la Natura fosse un po’ impazzita. Da quel momento in poi, presi a dire a tutti che sentivo che si sarebbe presto scatenata una qualche calamità; tuttavia, nessuno mi prese sul serio. A cominciare da Kume Masao, sorridevano sornioni e mi schernivano.
Rientrammo a Tokyo il 25 agosto; il Grande Terremoto avvenne esattamente otto giorni«Quandodopo. ci hai messi in guardia non abbiamo esitato a darti contro, ma in realtà la tua premonizione era corretta… Veramente assurdo».
Lo stesso Kume che alcuni giorni prima mi aveva preso in giro, in seguito parve seriamente impressionato dal mio presentimento. Ma questo punto ve lo posso anche confessare: neanch’io avevo creduto davvero alla mia premonizione.
Parte seconda
“Sono sulla barca di Hamachōgashi. Firmato: Sakuragawa Sankō”.
Questo era solo uno degli infiniti annunci attaccati sulle macerie carbonizzate di Yoshiwara.“Sonosulla barca” poteva trattarsi di una frase qualunque, scritta per i più disparati motivi. Tuttavia non potevo fare a meno di trovarla anche tristemente raffinata. Bastò quella singola riga di testo affinché mi balenasse davanti agli occhi la sagoma dei barcaioli che richiamavano i clienti e che erano praticamente di casa sui tanti bordelli galleggianti del quartiere. La Yoshiwara decantata dagli scrittori di Edo era svanita e non sarebbe tornata mai più, vero? Eppure, almeno per quel giorno, gli eleganti barcaioli del quartiere a luci rosse vivevano ancora su quei volantini.
Parte terza
Dopo che la terra smise di tremare, pare che la gente sfollata in strada improvvisamente avesse iniziato a ricercare la compagnia e il conforto altrui. A Watanabechō, Tabata, Shinmeichō… Praticamente ovunque tutti si parlavano con familiarità, si offrivano tabacco e pere, badavano gli uni ai bambini degli altri senza limitarsi a interagire solo con la stretta cerchia dei vicini di casa. Soprattutto gli sfollati sul prato del Poplar Club di Tabata, forse per via delle fronde dei pioppi che si agitavano alle loro spalle, si erano rilassati e sembravano divertirsi al punto che si sarebbe detto stessero facendo un picnic. Al mattino, in modo particolare, sembrava di essere dentro
Il Terremoto in Cile di Kleist. Anzi Kleist, forse perché nella sua opera l’eccitazione post-terremoto si acquieta in fretta, descrive anche il momento spaventoso in cui la gente torna bruscamente a convivere con le pene e i rancori di sempre. Certo, può darsi che anche chi era scampato al pericolo radunandosi sul prato dei Poplar Club avesse provato diverse volte a eliminare un vicino malato di tubercolosi, o che fosse andato in giro a spifferare le tresche segrete della signora dirimpetto; questo lo sapevo benissimo anch’io. Tuttavia, la visione di quella gente che si mostrava affettuosa verso gli altri come mai prima di allora era semplicemente bellissima e avrei voluto conservarne il ricordo per sempre.
Parte quarta
Anch’io ovviamente, come tutti gli altri, in quei giorni vidi moltissimi cadaveri carbonizzati. Tra loro, quello che mi rimase più impresso si trovava nel carcere provvisorio del viale centrale di Asakusa ed era appartenuto probabilmente a un malato. Le fiamme l’avevano bruciato al punto che sul volto, nerissimo, era ormai impossibile distinguere occhi e naso, mentre sul suo corpo avvolto in un leggero yukata e sui suoi arti smagriti non c’era traccia della minima ustione. Tuttavia, il motivo per cui non posso dimenticarlo è un altro. La maggioranza delle persone morte tra le fiamme aveva braccia e gambe raggomitolate; questo cadavere, invece, aveva le gambe ben distese sulla coperta di merino scampata all’incendio. Anche le mani erano incrociate sul petto con apparente risolutezza. Questo non era il cadavere di qualcuno agonizzato tra atroci sofferenze, ma quello di una persona che aveva silenziosamente accolto il suo destino. Probabilmente se il volto non si fosse carbonizzato, sulle sue labbra livide si
Parte quinta
Io sono un cittadino modello. Al contrario, secondo la mia personale opinione, Kikuchi Kan è piuttosto manchevole di questa qualifica.
Dopo che fu instaurata la legge marziale, durante una pausa sigaretta mi ritrovai a scambiare con lui quattro chiacchiere. Per la verità, non parlammo di niente che non fosse relazionato con il Grande Terremoto. Io dissi che a quanto pareva, la causa dell’incendio era stata ○○○○○○○○1 .
Kikuchi Kan sollevò le sopracciglia e mi rimproverò dicendo: «Ma che ti salta in mente?!». Non potei far altro che dirgli: «Mah, si tratterà di una bufala». Tuttavia colsi l’occasione per aggiungere che tutti gli affari di ○○○○ parevano essere in mano ai bolscevichi. Kikuchi, sempre con le sopracciglia aggrottate, mi riprese duramente: «Cosa vai dicendo, è una menzogna!». «Ma come, anche questa era una bufala?» chiesi, e ritirai all’istante la mia teoria.
Secondo il mio parere, un cittadino perbene dovrebbe credere all’esistenza della cospirazione tra i bolscevichi e ○○○○. E, nella remota possibilità che non ci creda, dovrebbe quantomeno fingere di farlo.
Ma quell’incivile di Kikuchi non solo non ci credeva, ma neanche si sforzava di nasconderlo. È più che giusto, quindi, considerarlo uno che ha completamente calpestato la qualifica del buon cittadino. Io, che oltre a essere un modello di virtù, sono anche un eroico membro del Corpo di Vigilanza, non posso fare a meno di provare pena per lui. Credo nella massima: “chi un buon cittadino vuol diventare, parecchio deve
1penare”.Censurato
nel testo originale
Parte sesta
Un giorno mi feci strada tra le macerie carbonizzate di Marunouchi. Era la seconda volta che lo facevo. Quando ci ero passato in precedenza, c’era della gente che nuotava nel canale di Babasaki. Osservai la riva opposta; in un punto, il muricciolo di pietra era crollato giù sgretolandosi in terra rossa come il cinabro. I punti della banchina rimasti privi di detriti, invece, erano coperti come al solito d’erba verde su cui l’ombra dei pini tremolava impercettibilmente. Le persone che vedevo, chiaramente, non stavano nuotando per divertimento. Tuttavia, agli occhi di un passante come me, il paesaggio di quel giorno sembrava proprio una scena di bagnanti raffigurata in qualche dipinto a olio da un pittore occidentale. A ben pensarci, la volta precedente avevo sorpreso l’operaio di un cantiere mentre urinava sulla riva; quel giorno, invece, non avvenne niente di simile e mi sembrò che ovunque regnasse una gran pace. sarebbe intravisto qualcosa di simile a un sorrisetto. Vedendolo, mi sentii profondamente commosso davanti alla fugacità dell’esistenza. Tuttavia, quando provai a raccontarlo a mia moglie, lei mi rispose: «Dev’essere senz’altro morto prima del terremoto». In effetti, ora che me lo diceva non riuscivo a escludere del tutto quell’ipotesi. Non mi restò altro che detestare in silenzio il modo in cui mia moglie aveva distrutto le mie fantasie di romanziere.
Proseguii a passeggiare, osservando il panorama. Improvvisamente, dal canale si levò un canto che mi colse del tutto di sorpresa. La canzone era una traduzione in giapponese di My Old Kentucky Home; la stava cantando un adolescente immerso nell’acqua fino al collo. Mi sentii vagamente eccitato; anch’io volevo unire la mia voce alla sua. Il ragazzo cantava con tanta innocenza… Eppure quella semplice canzone riuscì a distruggere in un battito di ciglia la negatività che mi aveva pervaso sino a quel momento.Dicono che l’arte non sia un bene di prima necessità, bensì un surplus della vita e talvolta mi trovo a concordare; tuttavia, ciò che ci rende davvero umani non è mai un bene di prima necessità. Abbiamo il dovere di creare quel surplus per rispetto della dignità umana e dobbiamo crearlo affinché sia bello come un gigantesco mazzo di fiori. Dare origine a quell’extra significa rendere la vita davvero piena e degna di essere vissuta.Mifeci strada tra le macerie carbonizzate di Marunouchi, ma ciò che colpì il mio sguardo è qualcosa che neanche il rogo più violento avrebbe mai potuto distruggere.
(つつく continua a p. 33)
Fukushima anno zero. Fra natura e progresso
a cura di Donatella Principi TEMPO DI LETTURA 3’Pubblicato in Italia in occasione del decimo anniversario dal disastro, Fukushima anno zero raccoglie manga di Katsumata Susumu incentrati sul tema del nucleare e sul rapporto dell’uomo con la natura.
Ex studente di Fisica nucleare, Katsumata Susumu ha visitato diverse centrali nucleari negli anni Ottanta prendendo nota, in particolare, delle condizioni di lavoro degli operai e riportandole nei suoi lavori. Nel 1976 inizia la collaborazione con il Fujin Minshu shinbun (Giornale delle donne democratiche) per cui produce strisce satiriche a tema sociale e nucleare e illustra Perché il nucleare fa paura? e Piani per il futuro dell’energia post nucleare. Il fumetto diventa il mezzo attraverso cui denuncia lo sfruttamento dell’energia nucleare. In Fukushima anno zero, pubblicato da Rizzoli Lizard a marzo 2021, in occasione del decimo anniversario dal terremoto che colpì la regione del Tōhoku, troviamo due fra i suoi contributi più significativi sul tema del nucleare: Pesci da fondo e Il polpo.
«Volevo raccontare la realtà delle condizioni di lavoro degli operai della centrale. Ma un bel pezzo di quel mondo è impossibile da rappresentare.»
– Katsumata SusumuAttraverso il punto di vista degli operai emergono le contraddizioni più forti, le misere condizioni di lavoro e gli alti rischi a cui vengono esposti i lavoratori. C’è chi perde capelli, chi si raschia una ferita perché esposta alle radiazioni e chi conta gli anni di vita rimanenti. Tutto però deve rimanere ben nascosto, non può uscire dalle mura della centrale che all’esterno deve mostrarsi come un’ottima macchina funzionante.
«Da fuori, la centrale sembra bella pulita. Dentro è come una fabbrica qualsiasi: un gran disordine. Cavi elettrici scoperti, tubi esposti, cavi intrecciati per terra. Non è un bello spettacolo, non c’è traccia di organizzazione. Quel posto sembra tutto meno che un esempio di tecnologia all’avanguardia.»
– Katsumata Susumu. Centrale di Fukushima Dai-chi, settembre
1984Anche
nel momento in cui c’è un incidente grave, non è possibile chiamare i soccorsi. Chi lavora si rende conto dei rischi, ma si trova in una posizione per
cui meglio lavorare così che non lavorare affatto e alcuni accettano le mansioni più pericolose per avere in cambio un indennizzo. L’autore sottolinea questa condizione alternando momenti quotidiani a vere e proprie scene di lavoro che offrono uno sguardo più concreto all’interno delle centrali. Ciò che colpisce fin da subito è il linguaggio utilizzato e la maniera molto diretta di esporre i fatti. Seguiamo persone normali che si apprestano a fare un lavoro come un altro, parlano di radiazioni e tumori come se fosse la normalità. Per loro sicuramente lo è, ma chi legge non può fare a meno di riflettere.
In netto contrasto con il progresso e la modernizzazione, troviamo altri racconti che hanno al centro uomini ordinari, spesso in situazioni di difficoltà, ma questa volta in scenari rurali e che si confrontano con la natura e alcune figure del folclore giapponese. Katsumata Susumu è nato in un piccolo paese del Tōhoku, una regione che è sempre stata sinonimo di povertà e arretratezza. Probabilmente anche in questo caso attinge dalla propria esperienza per raccontare queste storie. Qui c’è un ritorno alle origini e alla tradizione fra racconti realistici e altri più misteriosi, quasi fossero delle favole moderne. Come per i racconti sul nucleare, i protagonisti sono uomini umili, molto spesso messi alle strette e “invisibili” agli occhi della società. Un tratto comune a diversi altri mangaka del periodo come
Yoshiharu, Tsuge Tadeo e Mizuki Shigeru.Lanatura che emerge dalle tavole dell’autore è criptica e spesso inospitale per l’uomo, qualcosa di più grande e forse di indecifrabile. Un mondo di kappa e tanuki, di leggende giapponesi che, negli anni in cui sono stati scritti questi manga, andava via via scomparendo per far posto alla modernità. Il contrasto fra natura e progresso è molto forte e sentito dall’autore. Uno dei racconti fa riferimento al cambiamento: i lavori di ampliamento del villaggio portano il bosco a spopolarsi, di volpi ormai non ce ne sono più, nelle mura domestiche fa capolino la televisione e dei tanuki si erano fatti degli scaldacollo. La città aveva inasprito il volto del protagonista e lo aveva forse anche disilluso.
Queste storie sono ben distanti dai fatti accaduti nel 2011, tuttavia la narrazione risulta estremamente attuale e i timori purtroppo fondati. L’uomo rappresentato da Katsumata Susumu è destinato al fallimento quando si scontra con qualcosa di più “grande”, è impotente e in balia dell’ambiente che lo circonda, sia esso dominato da macchine o dalla natura.
● Fukushima anno zero, Susumu Katsumata ESono rientrato dalla gita con Ichiyūtei a Kamakura. Kume, Tanaka, Suga, Naruse, Mukawa e gli altri sono venuti ad accompagnarci in stazione. Siamo arrivati a Shinbashi verso l’una.
Con Ichiyūtei abbiamo subito chiamato un taxi e siamo andati a trovare Endō Kogen che era ricoverato all’ospedale di San Luca. Kogen era quasi completamente guarito e giocherellava con dei colori a olio; abbiamo incrociato casualmente anche Kazama Naoe.Leattrezzature nelle stanze dell’ospedale, le divise delle infermiere, la pulizia impeccabile… Ho trovato che tutto fosse semplicemente adorabile. Un’ora dopo abbiamo preso il secondo taxi; Ichiyūtei è arrivato a casa per primo e verso le tre anch’io sono rientrato a Tabata.
Ha fatto un caldo terribile. Mi è venuta voglia di tornare a Kamakura. Dalla sera ho iniziato a essere scosso dai brividi. Secondo il termometro avevo trentotto gradi e sei di febbre.Hochiamato il dottor Shimojima, che mi ha visitato e mi ha detto che mi sono beccato l’influenza; in casa la mia matrigna, mia zia, mia moglie e i bambini erano tutti un po’
Diario del Terremoto agosto agosto agosto
Inizioraffreddati.asentirmi meglio. Resto coricato e leggo Shibue Chūsai di Mori Ōgai. Ricordo che in passato, in Imogayu usai l’espressione “quasi per niente” e fui deriso da Kume per questa scelta stilistica. Adesso, leggendo Chūsai, mi sono accorto che anche il maestro Ōgai ha utilizzato le parole “quasi per niente”. Impossibile trattenere un sorriso.
Verso mezzogiorno ho terminato il mio pane e il mio latte e, proprio mentre stavo per sorseggiare del tè, è arrivata una violentissima scossa di terremoto. Mi sono precipitato fuori assieme alla mia matrigna. Mia moglie invece è corsa a mettere in salvo Takashi che dormiva al secondo piano, mentre mia zia, in piedi in fondo alle scale, non smetteva di chiamare lei e il bambino. Finalmente anche le due donne sono uscite con Takashi in braccio. È stato a quel punto che ci siamo accorti che mancavano all’appello sia il mio patrigno sia mio figlio Hiroshi. Mia moglie è rientrata dentro e in un batter d’occhio ha trascinato fuori anche Hiroshi. Mio padre, invece, ci ha raggiunti dal giardino sul retro girando intorno al perimetro della casa. In questo lasso di tempo, l’edificio non ha mai smesso di oscillare violentemente, e camminare era molto difficile. Una decina di tegole è volata giù dal tetto. Non appena la scossa è terminata, forti raffiche di vento ci hanno sferzato il volto e non si riusciva quasi a respirare per tutta la polvere e il terriccio che aleggiava nell’aria. Il mio patrigno ha fatto una ricognizione dentro e fuori casa, concludendo che gli unici danni erano le tegole cadute e una lanterna di pietra ribaltata. Dopo poco è sopraggiunto Engetsudō per assicurarsi che stessimo tutti bene. La sua espressione era calma e composta, ma è indubbio che anche lui fosse rimasto piuttosto sorpreso. Nonostante fossi ancora un po’ raffreddato, con uno sforzo mi sono unito a lui e sono andato a verificare che nel vicinato stessero tutti bene. Superato il distretto a luci rosse di Shinmeichō, abbiamo iniziato a contare alcune abitazioni crollate. Ci siamo fermati solo una volta giunti nei pressi del ponte Tsukimi e abbiamo osservato il cielo di Tokyo in lontananza; era del colore del fango e ovunque si levavano spirali di fumo denso. Una volta rientrato, ho constatato che le lampadine in casa non funzionavano e ho iniziato a preoccuparmi per la scarsità di provviste, perciò ho incaricato i miei familiari di andare a procurare candele, riso, verdure e cibo in scatola.
A sera, sono tornato al ponte Tsukimi con Engetsudō. Le fiamme che avvolgevano Tokyo erano diventate più violente e alte rispetto a qualche ora prima e pareva di trovarsi davanti a un’enorme fornace.
A Tabata, Nippori, Watanabechō e dintorni la gente ha sistemato sedie e tatami per strada e non sono in pochi quelli che si apprestano a dormire fuori. Rincasato per la seconda volta, ho spiegato che ritenevo improbabile che arrivasse una nuova scossa di terremoto forte come la precedente e ho convinto i miei familiari a dormire al chiuso. Con lampade e gas spenti, ho spalancato la finestra del secondo piano sul cielo rossoParefuoco.cheoggi la moglie del dottor Shimojima sia entrata tutta sola in farmacia e abbia sorretto gli scaffali dei medicinali affinché non crollassero; è solo grazie a lei se le polveri non sono esplose e non ci furono ustionati nel quartiere. Io non avrei mai avuto tanto fegato… Quella donna dev’essere la reincarnazione di Madama Io, la moglie di Shibu Chōsai, o qualcosa di simile.
2 settembre
Il cielo di Tokyo è ancora avvolto da una spessa cortina di fumo e il giardino di casa è ricoperto di cenere. Ho visto Engetsudō che si stava recando in visita dagli Ushigome e dagli Shiba, suoi parenti. Poco dopo, è giunta la notizia che Tokyo è stata rasa al suolo; poi è stato il turno di Yokohama e dell’area di Shōnan, che ci raccontano essersi ridotte a un cumulo di macerie. Per tutto il giorno ho avuto il cuore in subbuglio al pensiero degli amici bloccati a Kamakura.
Engetsudō è rientrato al crepuscolo e ha annunciato che gli Ushigome sono tutti salvi, mentre al posto della residenza degli Shiba non resta che terra bruciata. La casa di sua sorella e quella di suo fratello erano completamente carbonizzate e lui mi è sembrato sconfortato all’idea di non sapere neppure se siano ancora vivi, da qualche parte.
Oggi, all’orizzonte, la fila di sfollati che attraversano Tabata per dirigersi verso il monte Asuka sembra non avere inizio né fine. Nell’eventualità che le fiamme si spingano fino al nostro quartiere, mia moglie ha riposto tutti i vestitini dei bambini in un cestino, mentre io ho avvolto una preziosa calligrafia del maestro Sōseki in un furoshiki. Abbiamo abbandonato come tutti gli altri l’idea di impacchettare anche mobili e utensili domestici, poiché trasportarli sarebbe troppo difficile. Non è che siamo diventati di colpo tutti meno materialisti, semplicemente c’è in gioco la nostra stessa vita.
Stasera la febbre mi è salita a trentanove gradi. Ogni tanto ho anche dei sintomi di
. Mi sento la testa così pesante da non riuscire neppure a mettermi in piedi. Engetsudō si è incaricato della ronda notturna al posto mio e, con la corta spada a tracolla e l’elsa della katana di legno stretta in mano, sembrava proprio un vero ○○○○. (つつく continua a p. 41)
Kajii Motojirō e la cupa osservazione della natura
traduzione a cura di Sara Odri TEMPO DI LETTURA 8’L’autore
Kajii Motojirō (19011932) nasce a Nishi-ku, uno dei quartieri di Osaka. È uno scrittore del primo periodo Shōwa conosciuto per le sue storie brevi estremamente poetiche. Nel 1924 si iscrive al dipartimento di letteratura inglese all’Università di Tokyo. Nonostante sia uno dei partecipanti più attivi della rivista Aozora e abbia un grande interesse per la letteratura, a causa dell’aggravarsi della sua condizione fisica non riuscirà mai a laurearsi. Il tono autobiografico delle sue opere e il ricorso alla
prima persona fanno sì che venga incluso tra i rappresentanti dello shi-shōsetsu, il racconto dell’Io, anche se il suo stile è molto lontano da quello della corrente letteraria. Tutto è basato sull’osservazione pungente e metodica di ciò che lo circonda, su un’analisi lucida di una realtà deprimente rischiarata solo da brevi attimi di felicità. Kajii è alla ricerca di un equilibrio tra inquietudine e armonia, tra angoscia e gioia improvvisa: un esercizio funambolesco che pervade tutta la sua breve, ma originalissima esperienza letteraria. Le sue opere più famose sono Remon (Limone), Kōbi (Accoppiamenti), e Sakura no ki no shita ni wa (Sotto i ciliegi), di seguito tradotto.
Sotto i ciliegi
Ci sono dei cadaveri sepolti sotto i ciliegi!
Dev’essere così. Altrimenti come potrebbero i ciliegi fiorire con tanto splendore? Sono stato preso dall’inquietudine negli ultimi due tre giorni proprio perché non riuscivo a credere alla loro bellezza. Ma ora ho finalmente capito: ci sono dei cadaveri sepolti sotto i ciliegi. Dev’essere così.
Perché ogni sera sulla strada verso casa mi torna in mente, tra tutti gli oggetti che ci sono nella mia stanza, come una premonizione, la lama di un rasoio di sicurezza, così piccola e fragile? ― So che mi hai già risposto che non lo sai, non riesco a capirlo nemmeno io. ― eppure, non ho dubbi sul fatto che siano due cose collegate.
Quando qualsiasi albero da fiore raggiunge quella che viene chiamata piena fioritura, un’atmosfera misteriosa si sprigiona tutt’intorno. È come il contorno illusorio che lascia un riprodursi febbrile, è come la trottola inarrestabile che cede ad una perfetta immobilità, o ancora, è come lo stato sognante in cui ti trasporta un’ottima performance musicale. È una bellezza vivida, incantevole, che non può fare a meno di colpire il cuore delle persone.
Ma ieri e il giorno prima di ieri mi quei fiori mi hanno solo fatto provare una terribile angoscia. Mi sentivo come se non riuscissi a credere a tanta bellezza. Al contrario, mi sono sentito inquieto, malinconico, vuoto. Ma ora ho finalmente capito.
Immagina che sotto ognuno di questi meravigliosi ciliegi nel pieno della fioritura sia sepolto un cadavere. Allora capirai cos’era ad angosciarmi.
Cadaveri di cavalli, di cani e gatti, cadaveri di esseri umani, tutti in decomposizione, brulicanti di vermi, dall’odore insopportabile. Eppure, goccia dopo goccia, da loro fuoriesce un liquido cristallino. Le radici dei ciliegi, come avide piovre, li afferrano stretti; i capelli si raggruppano come i tentacoli di un anemone di mare e assorbono quel fluido.
Cosa potrebbe creare petali del genere, cosa potrebbe creare pistilli simili? Riesco quasi a vedere quel liquido cristallino risucchiato dai capelli formare una fila ordinata e risalire lungo i fasci fibrovascolari. Lo vedo come fosse un sogno.
― Sembri turbato da qualcosa. Non pensi che sia una visione meravigliosa? Posso tornare a concentrare il mio sguardo sui fiori di ciliegio. Mi sono finalmente liberato dal mistero che mi attanagliava nei giorni scorsi.
Due o tre giorni fa scendevo in questa valle, camminavo aggrappandomi alle rocce. Ho visto, come Afrodite che viene al mondo, formicaleoni emergere da spuzzi d’acqua qui e lì, poi puntare al cielo e volare via. Come ben saprai, celebrano lì la loro unione. Ho camminato un altro po’ e mi sono imbattuto in un qualcosa di strano. Era lì, in una piccola pozzanghera nel letto del fiume prosciugato della vallata. Affiorava sulla superficie un’inaspettata luminosità, come se vi galleggiasse del petrolio. Ti starai chiedendo cosa fosse. Ebbene, erano migliaia di cadaveri di formicaleoni, impossibile contarli tutti. Coprivano l’intera superficie dell’acqua senza lasciare spazi, le loro ali sovrapposte si erano raggrinzite al sole e abbagliavano come petrolio. Una volta deposte le uova, quello diventava il loro cimitero.
Questa vista mi aveva provocato una fitta nel petto. Avevo assaggiato la brutale estasi del degenerato che depreda i cimiteri incuriosito dai corpi morti.
Non c’era niente in quella valle che potesse farmi provare gioia. Gli usignoli e le cinciallegre, i germogli sugli alberi che sfumano di verde la bianca luce del sole, non sono altro che labili immagini mentali. Io ho bisogno di tragicità. Mi dona quell’equilibrio necessario affinché le mie rappresentazioni mentali si facciano limpide. Il mio cuore è assetato di tristezza come un demone. Si placa solo quando raggiunge la tristezza più completa.
― Ti stai asciugando le ascelle, eh? Stai sudando freddo? Proprio come me, allora. Ma non c’è ragione di lasciarsi turbare. Immagina che sia appiccicoso, immagina che sia come sperma. Così la nostra tristezza sarà completa.
Ah, ci sono dei cadaveri sepolti sotto i ciliegi!
Quei cadaveri, la cui visione venuta dal nulla mai avrei saputo prevedere, sono diventati per me un tutt’uno con i fiori di ciliegio. Per quanto possa scuotere la testa, non è più possibile separarli.Eora,con
gli stessi diritti degli abitanti del villaggio che apparecchiano i loro banchetti sotto gli alberi di ciliegio, mi è venuta voglia di bere del sakè ammirando i fiori di ciliegio.
In un pomeriggio di tarda primavera ero sull’argine che costeggia la strada principale del villaggio a godermi il sole. In cielo c’era una nuvola enorme che per un bel po’ era rimasta immobile. La parte rivolta verso terra aveva delle sfumature blu scuro. La sua grandezza e il suo colore cupo mi avevano riempito di una vaga malinconia.
Ero seduto sul limitare del più ampio spazio aperto del villaggio. Lì il panorama consisteva quasi del tutto in montagne e vallate; si poteva guardare ovunque, ma non c’era un terreno che non fosse in pendenza. Il paesaggio era costantemente minacciato dalla legge di gravità. Il passaggio dalla luce al buio aveva da sempre dato alle persone relegate nelle gole una sensazione di tensione. Ma in un villaggio del genere non c’era niente di più rilassante che guardare quel panorama soleggiato, lontano dalle ripide vallate. Ma quel giorno, davanti a quello scenario bagnato dal sole, provavo una nostalgia tale da risultare in tristezza. Il luogo dove vivono i Lotofagi, una terra che è sempre al tramonto – mi faceva pensare a questo.
La nuvola si estendeva fino ai margini dello spazio aperto, sopra le montagne ricoperte di alberi. Dalle loro fronde si levava costante il canto dei cuculi. Non vedevo niente che si muovesse, a parte una ruota idraulica che rifulgeva alla base di una montagna. Percepivo solo la serena pigrizia della campagna su cui splendeva il sole della tarda primavera. E avevo pensato che in qualche modo fosse a causa della nuvola se quella placidità m’intristiva.
I[…]miei
occhi, guizzanti su quel panorama, avevano scorto quella nuvola che avanzava imperterrita, così tenue da lasciar intravedere il cielo azzurro sopra la foresta che separa le due vallate, ed erano stati inconsciamente assorbiti da lei. La nuvola si muoveva veloce in avanti, si espandeva enorme nel cielo davanti a me, brillava sotto i raggi del sole.
Da un lato si formava inesauribile e roteava lenta. Dall’altro, il cielo azzurro inghiottiva continuamente il suo bordo lacero. Chiunque vedendo un cambiamento simile in una nuvola non avrebbe provato delle emozioni profonde, dei sentimenti indefinibili. Ma i miei occhi, testimoni della trasformazione, annaspavano in quell’infinito ciclo di creazione e distruzione, e proprio in quel ripetersi si era fatta largo una strana sensazione di paura nel mio petto. Quella sensazione mi soffocava, consumava a poco a poco il senso di equilibrio del mio corpo tanto da farmi credere che se non si fosse presto interrotto sarei precipitato nella peggiore delle ipotesi in un luogo simile all’inferno. E, come una bambola di carta in mezzo ai fuochi d’artificio, ogni parte del mio corpo avrebbe visto la sua energia prosciugata.
Cielo Azzurro– Venivo risucchiato da questa sensazione e i miei occhi non riuscivano a credere alla distanza sempre minore che si imponeva tra me e la nuvola. Poi, di colpo, avevo notato uno strano fenomeno: la nuvola non nasceva al di sopra delle ombrose foreste di cedri delle montagne, ma da un luogo ancora più remoto. Era stato solo allora che ero riuscito a vedere da dove arrivasse. E lì, davanti ai miei occhi, si era stagliata la sua figura imponente –
Nella mia testa non si acquietava la folle idea che ci fosse una montagna in cielo che non riuscivo a vedere. Un pensiero si era insinuato in me: ecco com’era vivere il buio della notte in questo villaggio.
E[…]allora
avevo capito. Mentre la nuvola si creava e si disfaceva, quello che era apparso nel cielo non era una montagna offuscata, non era una baia misteriosa, era il nulla più assoluto! Oscurità che sorge in pieno giorno. Come se la mia vista si fosse temporaneamente offuscata, avevo provato una tremenda infelicità.
Blu profondo, nugoli di fumo: più guardavo quel cielo primaverile più lo riuscivo a percepire solo come mera oscurità.
● Dodd, Stephen. “Darkness Transformed: Illness in the Work of Kajii Motojirō.” Journal of Japanese Studies 33, no. 1 (2007): 67–91. http://www.jstor.org/stable/25064679 .
● https://www.aozora.gr.jp/cards/000074/files/427_19793.html
● https://www.aozora.gr.jp/cards/000074/files/427_19793.html●http://www.rokko-island.com/●https://orizzontiblog.it/tag/nagasaki/●https://www.youtube.com/watch?v=-Yh_dal5A-U●https://www.youtube.com/watch?v=ETLVqETJAFQFONTIEAPPROFONDIMENTI
Capitolo 3
Considerazioni sul grande terremoto
Neppure una rivista mi incaricò di scrivere qualcosa a proposito del terremoto. Se così fosse stato, avrei dovuto omettere due o tre cose su ordine dell’editore, che avrebbe senz’altro messo bocca sul come descrivere cosa e quali parti tralasciare. Ma fortunatamente, stavolta non c’è stato nessuno a criticare l’incuria che traspare in queste note.
Il visconte Shibusawa Ei’ichi ha detto di considerare questo sisma come un castigo divino. Secondo lui, ognuno di noi ha qualche scheletro nell’armadio e prima o poi doveva pur arrivare una meritata punizione e che, anche qualora non fosse arrivata, ci saremmo comunque dovuti aspettare che giungesse da un momento all’altro.
Eppure, in quei giorni capitava di imbattersi nelle case di gente che aveva ucciso moglie e figli scampati come per magia alle fiamme ed era inevitabile constatare quanto la giustizia divina non fosse poi così giusta. Converrete con me che credere in una giustizia divina ingiusta equivale a non crederci affatto. No, non si trattò di una punizione del cielo, bensì della prova inconfutabile della totale indifferenza della Natura nei confronti degli esseri umani.
La Natura è indifferente nei confronti di noi umani. Il Grande Terremoto non ha fatto distinzione tra borghesi e proletari; i roghi non hanno scelto chi bruciare tra i virtuosi e i disonesti. È vero quel che dice la poesia di Turgenev, ovvero che per la Natura non c’è alcuna differenza tra un uomo e una pulce.
Neanche la Natura che risiede dentro ogni essere umano prova alcun tipo di compassione verso lui e la sua specie. Dopo il Grande Terremoto e i roghi, i cittadini di Tokyo iniziarono a mangiare le anatre e le gru che fino al giorno prima avevano sguazzato felici nello stagno del parco di Hibiya; se non fossero arrivati i soccorsi, può darsi che i tokyesi avrebbero iniziato a divorarsi tra di loro come bestie selvatiche. Dovremmo stare in guardia quando si verificano situazioni simili a quelle che hanno spinto la gente a mangiare le anatre e le gru del parco di Hibiya. Non è sufficiente temere che la gente mangi le gru e le anatre e neppure che mangi altra gente: la Natura è crudele con noi, persino quella che risiede dentro di noi e che ci impedisce di provare pietà verso i nostri simili. Dopotutto l’aver chiamato bestie i tokyesi solo perché si sono avventati su delle gru e delle anatre – e, per estensione, l’aver affermato che tutti gli esseri umani non sono che dei selvaggi – non denota altro che un sentimentalismo privo di spina dorsale.
La Natura è spietata con gli umani. Tuttavia gli umani, proprio in virtù della loro Natura, non dovrebbero disprezzare l’umanità di cui sono dotati. Non dovrebbero gettare via la loro dignità, neanche quando sopravvivere senza divorare altri umani diventasse quasi impossibile. Piuttosto mangiassero se stessi.
(RiguardoMi rivolgo a voi: è in momenti come quelli in cui pur di mettere qualcosa in pancia sareste disposti a divorare carne umana che non dovete esitare a riempire d’amore chi vi circonda a cominciare dai vostri genitori, coniugi, figli e vicini di casa. Dopodiché, se vi restasse ancora qualche energia, amate il paesaggio che vi circonda, amate l’arte, amate ogni singola disciplina forgiata dall’intelletto umano.
Tutti noi abbiamo qualche scheletro nell’armadio. Io, poi, ho così tanti armadi pieni di scheletri che ormai non so più neanche dove metterli. Ma fortunatamente per me, non credo affatto che il Grande Terremoto sia stato una punizione divina, anzi, non riesco neppure a maledirlo, questo terremoto.
Ha ridotto in cenere la casa dei miei fratelli e ha strappato la vita ad alcuni amici e conoscenti e per questo al massimo provo un infinito senso di vuoto e di tristezza. Abbiamo tutti qualcosa di cui rammaricarci, ma ciò non significa che dobbiamo disperare. La disperazione è una porta spalancata sulla morte e sull’oscurità.
Fratelli e sorelle, datevi un contegno! Smettete di credere nelle punizioni divine come se foste degli studenti delle medie beccati mentre copiano durante un compito in classe. Il motivo per cui vi dico questo è per dimostrarvi l’eloquenza derivatami da uno straordinario intelletto, niente di paragonabile al discorsetto del visconte Shibusawa. Ma non è l’unica ragione. Fratelli e sorelle, discendenti di Adamo, mantenetevi saldi e non fatevi mettere in ginocchio dalla spietatezza della natura. Non lasciate che il vostro spirito si pieghi di fronte alla negatività, rendendovi schiavi.
Gente di Tokyo
Sono nato, cresciuto e ho vissuto a Tokyo per quasi tutta la vita, eppure non ho mai empatizzato con lo struggimento che certa gente prova verso il suo paese natio. Anzi direi che la mancanza di empatia è sempre stata una mia specialità.
Di solito, chi è nostalgico della sua terra, quando non frequenta le associazioni di Prefettura dove potrebbe incontrare i suoi conterranei né si mette al servizio dell’ex signore feudale della sua regione, è un individuo inutile come una scarpa senza suola. Anche chi ama Tokyo rientra in questa categoria di persone. Avevo stabilito dentro di me che tutti quelli che non facevano altro che dire Tokyo di qua e Tokyo di là con aria piena di gratitudine, correndo da una parte all’altra eccitati, fossero tutti degli zotici campagnoli che vivevano ai margini della città finché, il giorno dopo il Grande Terremoto, non m’imbattei in Noguchi della tintoria di kimono Daihiko. Stava acquistando tutto allegro una bottiglia di sidro e la sua aria era in netto contrasto con il fumo dei roghi di Tokyo che stava imbrattando il cielo su Tabata. Quel giorno Noguchi non indossava il solito haori in garza di seta dalle maniche stondate ma sfoggiava un cappuccio antincendio fatto di seta trapuntata decorata con un Colsidragone.l’occasione per notare come le vittime stessero, a poco a poco, abbandonando tutte Tokyo.
«Ma non capisce? Quella è tutta gente di altre province che se ne ritorna al suo paese», rispose prontamente Noguchi, «in città sono rimasti solo gli edokko».
All’udire ciò mi sentii lievemente rassicurato. Non so se per via dello strano abbigliamento di Noguchi, del cielo nero di fumo, oppure se perché anch’io ero profondamente scosso dal terremoto, ma tutto intorno a me aveva contorni confusi, eppure non posso negare che, in quell’istante, percepii nitidamente qualcosa di simile a struggimento verso la mia terra natia e mi sentii inondare di coraggio. A quanto pare dentro di me si nascondeva qualcosa di quegli edokko che avevo tanto disprezzato.
Tokyo, metropoli abbandonata
Signor Katō Takeo, sono stato informato della Sua richiesta di scrivere un discorso commemorativo per le vittime di Tokyo. Non posso neppure negare che, in un primo momento, io abbia accettato. Tuttavia, ogni volta che ho provato a scrivere qualcosa in merito non sono riuscito a calarmi nel giusto stato d’animo. Me ne voglio scusare indirizzandoLe questa lettera.
C’è una poesia di un tale vissuto mi pare durante la Rivolta Ōnin che recita:
Anche tu sai bene che dell’antica capitale non restano che campi di sterpi da cui si levano in volo le allodole e su cui cadono incessanti le lacrime.
Mi sono sentito più o meno così mentre attraversavo i resti carbonizzati di Marunouchi. Stavo per mettermi a singhiozzare mentre il drammaturgo Mizuki Kyōta e gli altri si facevano strada tra le macerie di Ginza (ci tengo ad anticiparLe che in questa lettera di rifiuto non troverà niente di troppo sdolcinato). Tuttavia, pur essendo stato più volte sull’orlo del pianto, alla fine non ho versato una sola lacrima. Forse le parole che dirò mi faranno apparire come una persona priva di scrupoli ma, seppur bizzarra, questa è la verità: ciò che mi ha quasi fatto piangere è stato il ricordo della Tokyo di prima. Non è che mi sia rammaricato poi troppo per quella Tokyo perduta per sempre, dato che non vi ero molto affezionato. Vorrei, inoltre, che non salti alla conclusione affrettata che sono un nostalgico dell’antica Edo, poiché per provare struggimento verso un luogo che non ho mai visto dovrei vivere completamente nel mondo dei romanzi. No, la Tokyo che amavo era la mia Tokyo, quella in cui passeggiavo, quella della Ginza costeggiata da filari di salici, la città tranquilla che non sostituiva le botteghe di shiruko con i café all’occidentale… Sono sicuro che anche Lei se la ricorda, la Tokyo che calcava in testa cappelli di paglia e si vestiva con haori sottili. Quella Tokyo ormai è andata perduta e qualsiasi tentativo di riportarla indietro è destinato a fallire. Non resta che una distesa di terra bruciata. Prima di questa improvvisa tragedia, non pensavo ad altro che alla volgarità di questa città; oggi mi pento non aver ricordato questo lato di Tokyo anche mentre mi aggiravo tra le macerie di Marunouchi. Tutto era così tranquillo… Sono convinto che un giorno riuscirò a rammentarmi della Tokyo volgare e sguaiata e a sublimarne il ricordo. Ma in fin dei conti, l’unica cosa che posso affermare di aver provato sinora è stata solamente quella voglia di piangere. Ecco perché non riesco a pensare a una sola parola commemorativa per Tokyo e le sue vittime; dopotutto non è sufficiente citare il verso “cadono incessanti le lacrime”? Ho scritto una sfilza di cose sconclusionate senza capo né coda, ma spero che mi potràConclusascusare.questa lettera, cenerò con del riso integrale in una casa piena di parenti sfollati da ogni angolo della città. Dopodiché accenderò una candela per la mia lanterna e mi recherò nel quartier generale della ronda notturna. Cordiali saluti.
L’impatto del Grande Terremoto sulla Letteratura
I danni derivati dal Grande Terremoto, al contrario di quanto avviene durante le guerre, ovviamente non sono dipesi dagli esseri umani. La terra si è semplicemente messa a tremare, dando luogo a incendi e provocando la morte di molte persone: non è questo il genere di cose che colpisce noi autori o, almeno, non è quanto basta per cambiare radicalmente la nostra visione sulla vita. Ma se proprio devo elencare ciò che potrebbe aver influenzato noi scrittori, direi ciò che segue.
Il Grande Terremoto ha fatto vacillare noi scrittori per la vastità dei danni che ha causato; infatti, ci ha fatto sperimentare un amore, un odio, una pietà e un disagio violenti. Finora, ci siamo occupati inconsapevolmente di descrivere una psicologia umana delicata, ma può darsi che d’ora in poi saremo in grado di tracciare sentimenti con contorni molto più spessi e oscuri; per rievocare questi sentimenti, ritorneremo con la mente ai giorni del terremoto e ai roghi. Non so cosa succederà in realtà, ma è probabile che ciò avverrà.
Dopodiché, anche se Tokyo verrà ricostruita dopo il terremoto, per il momento ci dovremo accontentare di un panorama monotono e triste. Noi scrittori, perlomeno quelli che hanno già questa tendenza, non proveremo più l’interesse di prima verso il mondo esterno e inizieremo ad apprezzare di più quello nascosto dentro di noi.
In conclusione, faremo qualcosa di simile a quei poeti cinesi in cui ci s’imbatteva in tempi turbolenti e che apprezzavano l’eleganza di una vita da eremiti. Sebbene non possa prevedere con assoluta certezza neanche questo, le probabilità che ciò avvenga sono piuttosto alte.
Il primo esempio che ho fatto riguarderà romanzi che saranno letti dalle masse; il secondo, romanzi che solo in pochi sapranno apprezzare. Insomma, si tratta di reazioni antitetiche ma non posso escludere a prescindere né l’una né l’altra.
Amaro addio ai libri antichi
È stato un vero peccato che a causa di questo terremoto siano bruciate tante opere d’arte e libri antichi. Le ceramiche esposte allo Heikeikan sono andate quasi tutte perdute e non c’è dubbio che si siano distrutti moltissimi altri artefatti. Tuttavia, vorrei lasciare per un attimo da parte le opere d’arte e concentrarmi, invece, sui libri antichi degli archivi di Kurokawa, Yasuda e della biblioteca che sono andati in fumo e non potranno mai essere recuperati. Anche molte librerie, tra cui la Murakō, la Asakuraya e la Yoshikichi sono state quasi interamente divorate dai roghi.
Lasciando da parte le collezioni private, il fatto che sia bruciata la biblioteca è frutto della negligenza di chi la gestiva. Tanto per cominciare, era posizionata vicino alla farmacia universitaria, un luogo pieno di sostanze che avrebbero potuto prendere facilmente fuoco in qualsiasi momento. Anche il fatto che nei giorni festivi non ci fosse che un semplice guardiano è inammissibile (infatti, quest’ultimo durante il terremoto, non avendo la minima idea di quali fossero i libri preziosi, non è riuscito a metterne in salvo neppure uno). L’archivio, inoltre, era stato progettato architettonicamente male e ciò ha impedito di prevenire molti danni.
E se proprio vogliamo dirla tutta, il fatto peggiore in assoluto è che la biblioteca si era limitata a mettere i libri antichi sugli scaffali più alti, senza preoccuparsi di crearne più copie possibili. Non ho paura di accusare apertamente quegli studiosi e ricercatori che adesso piangono sulle ceneri dei documenti andati perduti di essere loro stessi, in primo luogo, i responsabili di questa enorme perdita.
Mi rammarico profondamente anche per il fatto che la collezione di libri a cui Ōno Shachiku aveva dedicato un’intera vita sia andata bruciata. Non c’erano che due copie della sua raccolta di haiku Il Salice degli Ottantanove Giorni di Pioggia e, dopo il terremoto ne rimane soltanto quell’unica nell’archivio di Katsumine Shinpū.
- settembre del Dodicesimo Anno Taishō
Arte e paesaggio nei musei del contemporaneoGiappone
a cura di Luca Prosdocimo TEMPO DI LETTURA 4’現代日本の美術館の芸術と風景
Arte e paesaggio nei musei del Giap pone contemporaneo - Il “美秀美術 館 - Miho Museum” di Shigaraki
Secondo Daniel Libeskind “la valenza estetica di una sua opera architettonica conta quanto l’espe rienza personale che se ne può fare al suo interno”1. Per raggiungere questo risultato si rende necessario: osser vare, valutare, occupare uno spazio naturale per comprenderlo, per dar gli un significato e infine realizzare il capolavoro.Durantequesti mesi di frequenza del dottorato in Asia, Africa e Medi terraneo, che sto svolgendo presso l’Università degli Studi di Napoli L’O rientale, per via della mia ricerca che ha per oggetto “Acquisizioni, trasferi menti interculturali e riproduzioni di antichità greche, etrusche, italiche e romane nei musei dell’Asia orientale: il caso del Giappone”, mi son trovato a interagire con numerose istituzio ni museali nipponiche di notevole pregio.Lasensazione percepita nell’ana lisi delle architetture museali giap ponesi, che spesso sono in perfetto connubio con il precipuo concept di acquisizione delle collezioni in esse contenute, è quella di essere, come teorizzato da Libeskind, in eufonica
1 D. Libeskind, Breaking Ground. Un’avventura tra architettura e vita, Sperling & Kupfer, Milano, 2005, p. 205
armonia con l’ambiente naturale circostante.Pertanto gli ambienti didatti ci museali giapponesi, sembrano non apparire mai quali semplici “spazi didattici” o “espositivi”, ma piuttosto “spazi significanti”, che rispecchiano in forma olistica il pa trimonio del museo, il suo progetto educativo e la natura che li circonda.
Mi piacerebbe in questo mio pri mo intervento dedicare uno spazio al Miho Museum, ubicato a sud est di Kyoto, nella prefettura di Shiga presso la città di Shigaraki.
Si tratta di un museo divenuto qualche anno fa piuttosto noto in Italia a causa delle vicende giudi ziarie a esso riconducibili e relative a problemi di “illegittima” acquisi zione di opere d’arte, ovvero oggetti provenienti da scavi clandestini ef fettuati nel bacino del Mediterraneo, in particolare nel sud dell’Italia.
In questa occasione mi occuperò di ripercorrerne le fasi legate alle origini, alla nascita delle collezioni e alle finalità didattico-educative. Mi piacerebbe in futuro affrontare l’aspetto cosiddetto “giudiziario”, quasi di genere poliziesco.
Realizzato negli anni Novanta e inaugurato nel novembre del 1997 su progetto dell’architetto Ieoh Ming Pei (già noto, fra l’altro, come autore della Piramide del Louvre), il Miho Museum è la concretizzazione di un sogno coltivato da una delle donne più ricche del Giappone, Koyama Mihoko (1910-2003), da cui il mu seo prende il nome, ricca ereditiera delle attività tessili della Toyobo Corporation2.Koyamaera già nota per aver par tecipato alla fondazione, nel 1970, del movimento spirituale Shumei di Okada Mokichi (1882-1955), che an cora oggi conta numerosi adepti in tutto il mondo. Okada sosteneva che la vera natura della civiltà risiedesse nella bellezza e nell’arte. Sotto la sua guida, Koyama Mihoko si dedicò a una vita di fede, fondando così l’organizzazione 神慈秀明会, Shinji Shumeikai.Neglianni Novanta la signora Koyama diede direttive affinché la costruzione del museo avvenisse in prossimità del tempio Shumei e che la struttura venisse incorniciata nel suggestivo panorama dei monti Shigaraki.L’architetto
Ieoh Ming Pei era già stato in passato coinvolto nella rea lizzazione della torre campanaria di Misono, centro spirituale dell’orga nizzazione Shumei, prima ancora di ricevere la commissione del progetto del museo da Koyama Mihoko e da sua sorella, Koyama Hiroko. Il cam panile di Misono è tra l’altro chiaramente visibile attraverso le finestre del museo Miho, secondo un’idea
2 AA.VV., Catalogo del Museo Miho. L’ala sud, (1997)
progettuale immaginata dall’artista, e non per pura casualità.
L’opera dell’architetto cinese pre vedeva sin da subito la collocazione dell’edificio nel paesaggio collinare e boscoso. Circa tre quarti dei 17.400 m² dell’edificio sono sotterranei, intagliati nella roccia viva delle cime collinari. Il soffitto è una grande co struzione in vetro e acciaio, mentre il pavimento e le mura, sia interne che esterne, sono realizzate in pietra calcarea francese di calda tonalità beige; si tratta degli stessi materiali impiegati da Pei nella reception del Louvre.Ildesign è stato ispirato dall’e terea utopia descritta nel Taohua Yuan Ji (La primavera in fiore del pesco), antica opera cinese scritta da Tao Yuanming nel 421 d.C. L’opera racconta la storia di un pescatore che si aggira in una grotta dopo essere stato attratto dal profumo intenso di peschi in fiore. Una volta attraversato il bosco, si ritrova all’in terno di un idilliaco villaggio di abi tanti che vivono in piena gioia e che accolgono il pescatore festosamente nelle loro case.
Il Miho Museum si mostra quale versione “reale e palpabile” di que sto villaggio immaginario. Una per fetta mescolanza di bellezze naturali, architettura, arte e cibo sullo sfondo di vibranti colori stagionali.
Il museo ospita oggi la collezione privata della fondatrice, caratte rizzata da opere d’arte provenienti dall’Asia e dal mondo occidentale
sono conservati oltre 3000 pezzi, dei quali circa 250/500 sono in esposizione permanente e proposti al pubblico secondo una ro tazione periodica. Ogni reperto è stato selezionato con cura, tenendo conto sia dell’intrinseca bellezza artistica che del significato e del contesto storico. Gran de attenzione viene dedicata ai criteri espositivi che generano nel visitatore una notevole suggestione, secondo i principi dell’esibizione immersiva dell’arte.Larealizzazione di questo stupefa
cente complesso museale ci consente così di ben comprendere quanto nella progettazione di un edificio, in partico lare di un nuovo museo, non dovrebbe essere considerato solo l’aspetto visivo e spettacolare dell’opera.
Gli studi sulle relazioni tra emozioni e architettura, seppur ancora esigui, hanno dimostrato che l’esperienza che gli individui compiono negli ambienti diventa di tipo multisensoriale e che la relazione che si instaura con un luo go avviene prima di tutto attraverso il sistema neurologico3, stimolando dun que una vasta gamma di emozioni che spingono a “godere” del momento della scoperta del “nuovo” con totale intensi tà. Energia vivifica che soltanto la per fetta sintonia tra arte e paesaggio può generare; principio che in questo museo trova la più alta forma di realizzazione.
Consiglio vivamente di visitarlo e goderne le caratteristiche più uniche che rare.
3 H. F. MALLGRAVE, L’empatia degli spazi. Ar chitetture e neuroscienze, Raffaello Cortina Edito re, Milano, 2015, p.131. La definizione, citata da Mallgrave, è consultabile integralmente in versione originale in: R. EPSTEIN, N. KANWISHER, A cor tical representation of the local visual environment, in Nature, 392, 1998, pp. 598-600.
Shizen’na iyashi
Una guarigione naturale
a cura di Naomi Cavaliere
TEMPO DI LETTURASe in questo modo il mondo si riempisse d’amore Sai, ho proprio la sensazione che qualcosa cambierebbe Di sicuro, sotto questo stesso cielo è questo il grande sogno di una me così piccola
YOASOBI, Tsubame
Kitsune Records è il nuovo angolo di Kotodama dove scoprire di volta in vol ta uno scorcio del panorama musicale giapponese contemporaneo attraverso un gruppo o cantante, scelto per il tema della YOASOBIrivista.Questoduo,a
cui ci si riferisce in giapponese come ongaku yunitto 音楽ユニット, formato dalla cantautrice ikura – pseudonimo di Ikuta Rira – e dal produttore musicale Vocaloid Ayase, ha un modo molto particolare di comporre i suoi testi. Ogni brano è ciò che potremmo definire la traduzione in musica di un racconto breve, scelto molte volte tra quelli pubblicati sul sito Monogatary.
Ayase e ikura non si limitano a comporre un testo basato sulla trama, ma si impegnano a trasmettere anche attraverso la parte strumentale le atmosfere e le emozioni della storia che dà origine alla canzone. Le storie
scelte trattano di temi sensibili e attuali nella società contemporanea giapponese, soprattutto se si pensa che questi racconti sono perlopiù scritti da adolescenti intenti a scontrarsi con le difficoltà della vita.
Il singolo che segna il loro debutto è Yoru ni Kakeru 夜 に駆ける (Precipitando nella notte). Pubblicato nell’ottobre del 2019, è basato sul racconto breve Thanatos no Yūwaku タナトスの 誘惑 (La seduzione di Thanatos) di Hoshino Mayo caricato sulla piattaforma Monogatary il 13 luglio 2019. Utilizzando una parte strumentale dall’ambigua e caotica allegria apparente, ikura canta la storia di uno shinjū 心中, ovvero il
doppio suicidio di due innamorati, riuscendo a trasmettere sia lo stato d’animo di ebrezza provata all’inizio dell’innamoramento, sia la disperazione e il caos interiore nel momento in cui il ragazzo co-protagonista del racconto si rende conto che la fidanzata vuole suicidarsi. La parte testuale del brano è la perfetta trasposizione del racconto in canzone, incorporando in modo coerente alla melodia anche parti di dialoghi presenti nella storia originale. Con questo singolo la unit non ha fatto della commercialità la qualità prioritaria su cui puntare il successo della loro attività, ma ha preferito giocare fin da subito con l’aiuto di una base accattivante e orecchiabile come veicolo di trasmissione di testi che riflettono sulle difficoltà della vita contemporanea. Questo contrasto è sicuramente una dei motivi principali della loro popolarità.
TSUBAME - ツバメTomo ni ikiru 共に生きる (Vivere insieme), è il tema del concorso ambientalista bandito dalla NHK chiamato YOASOBI to tsukuru mirai no uta YOASOBIとつくる未 来のうた (Componi con YOASOBI la canzone del futuro) rivolto a persone dell’età compresa tra i 9 e i 19 anni. Tra i settecento e più racconti concorrenti, è stata la storia breve di Ototsuki Nana, una ragazza di quindici anni di Tokyo, intitolata
Chiisana tsubame no ōkina yume 小さなツバメの大きな夢 (Il grande sogno di una piccola rondine) a ottenere la vittoria e a trasformarsi nel nuovo singolo di YOASOBI e nella sigla di apertura del programma per bambini Hirogare! Irotoridori trasmesso dalla NHK per la divulgazione dei Sustainable Development Goals (SDGs). Per SDGs si intendono i diciassette obiettivi fissati dalle Nazioni Unite per la salvaguardia dell’ambiente e per il miglioramento delle condizioni di vita di esseri umani e animali da raggiungere entro il 2030. Tra questi obiettivi vi sono lo sviluppo dei Paesi più deboli, porre fine a qualsiasi tipo di discriminazione e ridurre l’inquinamento attraverso l’adozione di uno stile di vita ecosostenibile, tenendo sempre presente che ogni azione in un’area del pianeta avrà un effetto su un’altra zona e che quindi lo sviluppo e le attività di recupero devono tenere conto dell’equilibrio da proteggere nelle varie aree della sostenibilità sociale, economica e ambientale.Ototsuki racconta di aver avuto l’idea di questa storia proprio grazie al fatto di aver affrontato a scuola la tematica degli SDGs e, riflettendo sui problemi ambientali che affliggono sia il mare che la terraferma, le è venuta in mente l’immagine di una rondine che durante le sue migrazioni riesce a vedere l’effetto delle attività umane su entrambi gli ecosistemi. Tema principale è l’uguaglianza non solo tra esseri umani ma anche con le piante e gli animali, coltivando un senso di appartenenza alla stessa casa – il pianeta Terra – e rispetto della vita reciproca. L’immagine che voleva trasmettere è quella di un esserino che seppur piccolo e indifeso, si muove di propria volontà per fare un passo per migliorare la vita di qualcuno.
Protagonista del racconto breve di Ototsuki è una piccola rondine che, rientrando in Giappone per la primavera, guarda dall’alto la natura modificata e deturpata dalle attività umane, scoprendo isole di plastica e foreste di grattacieli. Nonostante riconosca la pericolosità dell’uomo, cerca di convincere una sua compagna rondine che gli esseri umani non sono solo distruttori della natura, ma che ci sono anche persone gentili e in difficoltà, invitando alla ricerca di un equilibrio per poter vivere in armonia sotto lo stesso cielo, tema ricorrente nella produzione giapponese in modo intermediale.
Dopo aver ascoltato dalla finestra della classe di un asilo la storia de Il Principe Felice di Oscar Wilde, si imbarca in un’avventura per portare un po’ di gioia nelle vite di una mamma e del suo bambino in difficoltà economiche, trasmettendo il messaggio che ognuno nelle sue possibilità può fare qualcosa di concreto per migliorare la vita di un’altra persona anche solo per un breve lasso di tempo, non per forza attraverso la donazione di oro e pietre preziose, né tantomeno dovendosi annullare e sacrificare come invece accade alla statua del principe nell’opera di Wilde. La felicità e la guarigione da ricercare, quindi, sembrano essere soprattutto di tipo psichico, non c’è da stupirsi che questo messaggio sia di particolare importanza nel periodo storico attuale in cui l’attenzione alla salute mentale diventa sempre più di rilievo. Una possibile soluzione
è attraverso il riavvicinamento alla natura poiché, prendendo in prestito il concetto espresso dalla ricercatrice Kobayashi Natsumi, l’essere umano è interpretabile come natura ferita dalla vita contemporanea il cui recupero è possibile grazie al ristabilimento di una primordiale connessione con la flora e la fauna e l’acquisizione di una coscienza e consapevolezza ecologica.
Un altro modo in cui la natura si fa strada nella quotidianità giapponese attraverso la tradizione è con le hanakotoba 花言葉. Ogni fiore viene dotato di un set di parole che gli forniscono un significato ben preciso; all’interno del racconto le rondini decidono di donare agli esseri umani delle violette (sumire スミ レ in giapponese), che secondo le hanakotoba significano “piccola felicità”, come quella che i piccoli uccelli cercano di regalare alle persone della storia.
Tsubame, il singolo di YOASOBI nato dal racconto, è un meraviglioso equilibrio tra reale e fantastico che sfrutta l’energica esibizione di ikura, riuscendo ad alimentare il senso di speranza verso una guarigione futura del mondo e degli esseri viventi che lo abitano. Il duo è riuscito a condensare i sentimenti di speranza e il desiderio di riconciliazione non solo tra esseri umani e natura, ma anche riguardo ai rapporti umani. Il brano si inserisce nel genere chiamato iyashi kei 癒し系 – ovvero genere curativo, ne fanno parte anche romanzi e altri tipi di produzione d’intrattenimento – la cui peculiarità è quella di riuscire a rassicurare un animo tormentato e ferito dallo stile di vita urbano e dai sistemi della società contemporanea. Questo genere, nella maggior parte dei casi, cerca di trasmettere un tipo di positività proattiva verso la cura della propria salute mentale unitamente alla cura dell’ambiente, collegando
il benessere umano a quello dell’elemento naturale, capace di raccogliere e curare le persone e al contempo di trarne beneficio tornando a prosperare. L’inno alla vita in comunione con flora e fauna è sempre accompagnato da una aspra eco-critica sui profondi danni provocati dalle attività umane.
Ayase, il compositore, dichiara in un’intervista per Hirogare! Irotoridori di aver utilizzato nella parte strumentale la melodia di un sanshin 三線, strumento musicale originario delle isole di Okinawa famose per i loro paesaggi mozzafiato e la presenza di percorsi per la forest therapy, per trasmettere anche attraverso la musica quella freschezza e delicata determinazione della speranza portata dalla rondine.
La musica è la forma d’arte con cui possiamo entrare in contatto facilmente ogni giorno, dice Ayase, e tramite la sua ripetizione, cantando, ballando tutti insieme, possiamo facilmente assimilare e trasmettere attraverso essa l’importanza di temi essenziali come il vivere in armonia con la natura, e creare l’occasione anche per gli adulti di riflettere sui propri valori. Con Tsubame, aggiunge ikura, il suo intento era quello di rendere possibile l’immedesimazione di chi ascolta il brano nella piccola rondine, in modo da far sentire tutti capaci di poter cambiare il mondo, perfino con un solo sorriso.
Con entusiasmo mi libro in volo sulla superficie dell’acqua che brilla, tagliando il vento Sbattendo le ali andiamo verso quella città Oltre il mare Sono una rondine così piccola, nella città in cui sono arrivata sono stata accarezzata dalla voce allegra di persone e di amici che vivono tristemente Mentre ognuno è intento a proteggere il proprio stile di vita così diverso non si accorge del perché finiscano per ferirsi a vicenda Sotto lo stesso cielo Noi viviamo le nostre vite colorate assieme a questo luogo Tutti, persone, piante, fiori, uccelli Viviamo fianco a fianco Le cose che desideriamo, il futuro che dipingiamo, sono diversi Però se ci prendiamo mano nella mano Di sicuro tornerà il giorno in cui rideremo Perchéancora forse noi possiamo ancora fare Dietroqualcosala ricchezza su cui qualcuno ha messo le mani, c’è un amico a cui è stato rubato il luogo in cui tornare In realtà anche lui vuole soltanto vivere fianco a fianco, ma nonostante ciò, sommerso dalla tristezza, il suo cuore si è tinto di nero. Ma noi con il perdono possiamo riconciliarci. Ciò che possiamo fare adesso non cambierà matutto,almeno la giornata di una persona diventerà un po’ più colorata Non è né una pietra preziosa Né un pezzo d’oro Se in questo modo il mondo si riempisse d’amore Sai, ho proprio la sensazione che qualcosa Dicambierebbesicuro,sotto questo stesso cielo è questo il grande sogno di una me così piccola
L’origami e il racconto – Kyo Origami di Minori Shimizu
a cura di Damiana De Gennaro Intervista a Minori ShimizuTEMPO DI LETTURA 6’
Il “Kyo Origami”, origami di Kyoto, è uno stile compositivo che viene realizzato su cartone illustrando e raccontando storie, paesaggi, bellezze ed eventi legati alla tradizione dell’antica capitale. Per questo numero di Kotodama, in cui affrontiamo il tema della Natura sotto molteplici aspetti, abbiamo intervistato Minori Shimizu, artista giapponese che risiede in Italia, più precisamente a Bologna. La sua arte è legata agli origami, tecnica appresa dalla nonna, Kyo Araki, che fu tra le più influenti artiste di origami del XX secolo.
Ciao Minori, è un piacere averti con noi e poter parlare della tua arte.
Non è comune incontrare un’artista giapponese che abbia scelto di lavorare in Italia. Come sei arrivata a Bologna?
Avendo ottenuto una borsa di studio della Fondazione Rotary, mi sono inizialmente trasferita a Milano per studiare. Mi sono poi spostata a Bologna per esigenze di lavoro di mio marito.
Com’è l’ambiente del tuo studio? In quali circostanze e sotto quali condizioni trovi ispirazione per lavorare?
Il mio laboratorio si trova nel centro storico della città. L’arte e le storie che si respirano tra le strade di Bologna sono un forte stimolo per la mia creatività. Le colline intorno alla città, gli alberi, i giardini e i tipici portici sono un’ulteriore fonte di ispirazione per me.
I tuoi soggetti sembrano trarre ispirazione dalle dame protagoniste di antichi romanzi e leggende. Inoltre, il tema stagionale è molto pervasivo. Quando hai iniziato a interessarti a questi elementi?Findabambina sono stata appassionata di leggende, miti e romanzi. Non mi riferisco solo a quelli giapponesi: anche i miti dell’antica Grecia e di Roma mi hanno sempre affascinata.
Le stagioni, poi, richiamano la tradizione giapponese: è molto naturale per me soffermarmi su di esse. Ho rappresentato spesso, nelle mie opere, i fiori di ciliegio: i fiori che amo di più. Purtroppo, è raro che nel mese di aprile io sia in Giappone per assistere dal vivo alla loro fioritura.
A proposito di disastri naturali, credi che le tue opere possano essere lette come una testimonianza di resistenza, di speranza?
Ho elaborato diverse opere per trasmettere un messaggio di speranza e rinascita.
Per esempio, l’opera intitolata “Hana wa Saku ~ flowers will bloom” trae origine proprio da questo intento: la rovina dell’edificio (Ex Centro di controllo delle catastrofi) rappresenta la resistenza, in quanto è stato l’unico edificio rimasto in piedi a Minami Sanriku, dove, nel 2011, le onde terrificanti dello tsunami hanno devastato ogni cosa. I fiori di gerbera, invece, rappresentano speranza e rinascita.
Anche un’opera più recente “Uno spiraglio di speranza” è ispirata a un famoso romanzo di Akutagawa Ryunosuke e la performance ai M ondiali di Pattinaggio di figura del 2021 di Hanyū Yuzuru, due volte campione Olimpico. Il messaggio che vorrei trasmettere è che la speranza germoglia anche nelle acque torbide, nei terreni più oscuri.
Quando hai iniziato a lavorare con gli origami?
Mia nonna era una maestra di origami. Così, a tre anni, ho creato il mio primo origami insieme a lei. Ricordo ancora quanto ero appassionata e come mi sforzavo di inventare nuovi modelli. Quando mia nonna è morta, continuare a fare origami era un modo per mantenerla in vita.
Dopo il disastro dell’11 marzo 2011, ho voluto organizzare un piccolo evento di beneficenza. Volevo raccogliere fondi per aiutare i terremotati e mi sono domandata: “Che cosa so fare di tipicamente giapponese?” e mi sono ricordata degli origami che mia nonna mi ha insegnato a realizzare.Misono
fatta spedire alcuni suoi libri dal Giappone e ho creato dei piccoli quadri per questo evento: è così che ho iniziato il mio percorso artistico.
Se potessi vedere una delle tue opere esposte in un qualsiasi museo del mondo, quale sceglieresti?
“Specchio d’Acqua”: raffigura fiori di ciliegio specchiarsi nell’acqua di un Grazielago.
Minori per questo lavoricuiaSperiamointervento.dirincontrarciunaprossimapostainsarannoespostiituoimeravigliosi.
Minori Shimizu nasce a Kyoto, in Giappone, e si laurea in musica presso il Kunitachi College of Music di Tokyo.
Viene in Italia come una borsista internaziona le della Fondazione Rotary e attualmente vive a Bologna.Ilsuoatelier si trova in via Barberia 22, proprio nel cuore della città.
Il suo lavoro vede composizioni di origami su cartone, appiattiti e trasformati per dar vita a sce nari ispirati alla natura, alle fiabe, all’immaginario tradizionale giapponese.
Nel 2013 Minori è stata invitata come docente di origami a un workshop alla Sharjah Interna tional Book Fair (Emirati Arabi Uniti). Inoltre, partecipa attivamente alle attività di diffusione degli origami e della cultura giapponese tenendo seminari e mostre sugli origami in occasione di eventi organizzati dall’Ambasciata del Giappone a Roma e dal Consolato del Giappone a Milano.
Ha vinto diversi premi come il recente terzo premio al “Concorso Internazionale di pittura Metropoli di Torino” nel settembre 2021.
Ashes to Honey: un esempio di cinema ecologico
a cura di Chiara Zennaro TEMPO DI LETTURA 5’Ashes to Honey (Mitsubachi no haoto to chikyū no kaiten, 2010) è un documentario della regista giapponese Kamanaka Hitomi e tratta dell’importanza dello sviluppo di energie rinnovabili, il pericolo incombente e i danni all’ambiente causati dall’inquinamento delle centrali nucleari. Kamanaka ci parla di questo attraverso le vite degli abitanti di Iwaishima, una piccola isola del mare interno di Seto (distesa d’acqua che separa Honshu, Shikoku e Kyushu, tre delle quattro isole principali del Giappone) e la loro protesta e lotta contro la Chugoku Electric Company che all’uscita del film esisteva già da ben 28 anni.
Quest’ultima, infatti, stava (e sta ancora1) progettando la costruzione della Centrale Nucleare di Kaminoseki a Nagashima, un’isola non molto lontana da Iwaishima. Il paesaggio rurale e la protesta degli isolani per proteggere la loro madre terra è inframezzata dal paragone e confronto con il paesaggio urbano e gli scienziati e ingegneri specializzati in energie rinnovabili in Svezia.
Al contario della maggior parte dei documentari sui cambiamenti climatici e problemi ambientali (di cui l’esempio per eccellenza è An Inconvinient Truth di Davis Guggenheim, del 2006) Kamanaka sceglie di non usare immagini scioccanti di persone o animali morenti, città che vengono allagate o distrutte ma preferisce uno stile narrativo che definirei come slice-of-life, ovvero uno stralcio di vita quotidiana. Lo stile della cinematografia è un altro aspetto che aiuta a percepire il film in questo modo, infatti Kamanaka preferisce sempre riprese a mano libera senza l’uso di tripodi o altri strumenti utilizzati per stabilizzare le riprese e renderle più filmiche durante le interazioni con la gente locale.
1 Dopo il terremoto e maremoto del Tohoku del 2011, la costruzione della centrale nucleare di Kaminoseki (insieme a tutta la produzione di energia nucleare in Giappone) si fermò, ma la Chugoku Electric Company non si arrese e si espresse più volte a favore di ricominciare i lavori. A marzo 2022, nonostante il presidente voglia continuare con il progetto, i lavori non sono ancora ricominciati.
Le gocce d’acqua sulla lente della telecamera, i rumori del vento e del mare fanno sì che ci sembri quasi di star spiando gli eventi del film, entrando nelle vite dei suoi inconsci protagonisti.
Il “protagonista” – o meglio, colui che seguiamo per la maggior parte del tempo e ci guida nella vita quotidiana di Iwashima – è Takashi, un pescatore esperto di hijiki, un’alga commestibile che abbonda a Iwaishima. Takashi e i suoi compaesani ci spiegano quali sono i pericoli dell’energia nucleare, le conseguenze che la sua produzione ha sull’ambiente e la necessità di passare a energie rinnovabili mostrandoci come colpisce la quotidianità e le tradizioni di persone normali piuttosto di distruzioni su larga scala. Durante il documentario ci sono dei momenti in cui il voiceover della regista ci spiega alcune delle tradizioni di Iwaishima e le ripercussioni del reattore nucleare. Per la maggior parte del film però Kamanaka lascia che le persone che segue e intervista siano spontanee e lascia che lo spettatore formi la sua opinione sull’energia nucleare senza forzare delle idee nella sua mente o cercare di fargli provare ansia e paura. Lo scopo di Kamanaka è far capire alle persone che guardano Ashes to Honey che è importante concentrarsi e investire sull’energia rinnovabile, che se tutti come società contribuissimo e se il governo facesse più sforzi per ottenere questo scopo, i problemi si potrebbero risolvere come è stato fatto in Svezia.
Il film svolge eccellentemente il compito di trasmettere l’impellenza dello sviluppo di energie rinnovabili non su scala globale ma mostrandoci l’importanza delle semplici vite di pescatori e contadini.
Gli intermezzi ambientati in Svezia svolgono la funzione di mostrarci un’altra realtà e un altro approccio all’energia rinnovabile. Offrendo un confronto con la situazione a Iwaishima ci rivelano che è effettivamente possibile vivere senza centrali nucleari e che la protesta degli isolani non è né ingiusta né infondata.
Nonostante ciò, non posso dire di aver particolarmente apprezzato la scelta di inserire il paragone con la Svezia. Il paragone infatti risulta forzato dato che i soggetti messi a confronto hanno priorità, stili di vita e problemi diversi. Non ho potuto che notare la differenza di stato sociale, educazione e autorità tra gli scienziati e ingegneri svedesi che criticano i giapponesi per non investire più risorse naturali e i pescatori che sembrano subire questa critica, nonostante da quasi tre decenni combattano per questo scopo.
Ovviamente è chiaro che quelli che gli svedesi criticano sono politici e ufficiali del governo giapponese e non gli isolani, ma il problema è che a questi non viene mai dato un volto. Persone come Takashi e gli isolani stanno sacrificando e hanno in ballo molto di più degli svedesi e sentirli parlare in quel modo del Giappone senza rendersi conto della loro posizione privilegiata può risultare quasi irritante. L’inserimento del paragone con la Svezia quindi, nonostante rappresenti una forte argomentazione contro l’energia nucleare, a causa della mancanza di una controparte adeguata, sembra forzata e non contribuisce a rafforzare la contingenza di Ashes to Honey.
Il messaggio di Ashes to Honey è ancora più rilevante nel 2022 considerando il suo aspetto profetico. È stato infatti distribuito a meno di un anno di distanza dal fatidico 11 marzo 2011, ovvero la data del terremoto e il susseguente disastro nucleare di Fukushima Daiichi che cambiò il modo di guardare alla produzione di energia nucleare del Giappone e del resto del mondo.
La consapevolezza che è stata proprio l’energia nucleare e proprio in Giappone ad aver causato uno dei disastri più terribili del ventunesimo secolo non può che cambiare il modo in cui il film è percepito. Quello che poteva essere considerato l’aspetto meno convincente di Ashes to Honey, ovvero il fatto che allo spettatore viene sì detto dei rischi dell’energia nucleare ma non gli vengono mostrate le conseguenze, diventa il suo più grande punto di forza.
La maggior parte delle persone in qualsiasi parte del mondo infatti, se già non avesse sentito parlare di Chernobyl, dopo il 2011 non avrebbe avuto bisogno che il film gli mostrasse quali sono i possibili pericoli dell’energia nucleare per sapere di cosa stesse parlando. Essendo uscito prima del disastro non solo gli permette di avere più impatto, ma gli permette anche di evitare di essere accusato di “feticizzare” il disastro per avere successo o cercare di usare la consapevolezza dello stesso per instillare paura nella gente.
Quello che rende Ashes to Honey degno di nota è l’insieme di questi elementi. Parla di pescatori poveri nella campagna giapponese non perché vorrebbe in realtà far passare un messaggio più grande, ma perché tiene davvero a cuore le vite di queste persone. È un film profetico che riconosce l’importanza della lotta contro le centrali nucleari anche quando ancora in pochi se ne preoccupavano e lo fa rimanendo per tutta la sua durata sincero e umano.
Le “espressioni” naturali
a cura di Giada Zaccardi TEMPO DI LETTURA 4’Il legame del Giappone con la natura è profondissimo.
Nella sua veste migliore, quella delle fioriture, durante la quale essa decora ogni angolo del Paese come una cornice preziosa e, allo stesso tempo, nella sua veste peggiore, quella dei tifoni, dei terremoti, dei disastri, attraverso i quali colpisce e ferisce (a volte indelebilmente) il territorio e i tutti suoi abitanti.
La parte migliore della natura
Per cominciare, le adorate fioriture stagionali non sono riconducibili solo a un’adorazione del bello, al contrario, hanno un’origine antica quanto autorevole. Basti pensare che lo Shintoismo è una religione animista e, dunque, ritiene che uno specifico fenomeno o un preciso elemento naturale possa rappresentare un dio, kami.
Nell’antico calendario giapponese (くらしのこよみ del quale esiste anche un’applicazione per smartphone) le stagioni erano persino 72 in un anno e quindi cambiavano, in media, ogni cinque giorni circa. Questo ci fa capire immediatamente quanta attenzione venga dedicata (da tempo immemore) a ogni minimo mutamento naturale.
Dunque, tenere conto di ognuna di queste sfumature è diventato un modo di concepire il mondo, permeato all’interno di ogni ambito della vita giapponese, dalla poesia, che spesso si serve di cambiamenti naturali come specchio dell’animo umano, alle uscite con gli amici per fare 花見 hanami, accaparrandosi il posto perfetto per un pic nic sotto un ciliegio in fiore.
Ovviamente anche la lingua si è plasmata per poter esprimere tutte queste sfumature, tendenti all’infinito.
Fosse anche solo perché quando ci si incontra tra amici in Giappone e con parlanti giapponese, ci si saluta facendo sempre riferimento al tempo, a quanto fa caldo, a come piove, alla neve caduta il giorno prima… A seconda del caso. A differenza dell’italiano, lingua nella quale parlare del tempo spesso è sinonimo di non avere altro da dire, in giapponese è una riflessione comune, una condivisione di qualcosa che tutti viviamo insieme.
Ci sono molte parole che racchiudono concetti “intraducibili con una sola parola” in italiano.
Per fare qualche esempio, 木漏れ日 komorebi: la luce che passa attraverso i rami di un albero.
花曇り hanagumori: il cielo nuvoloso durante la stagione della fioritura dei ciliegi (a volte accompagnato da nebbia o pioggia).
山笑う yamawarau, letteralmente la montagna che ride. Si riferisce al momento della primavera nel quale in montagna iniziano a fiorire gli alberi e quindi diventano luminosi e pieni di nuove gemme.
Ci sono veramente moltissime espressioni per descrivere le altrettante situazioni legate ai cambiamenti naturali, ma non solo. Ogni fenomeno atmosferico è suddiviso in minuscole parti, con un loro nome specifico.
Infatti, ci sono circa quaranta modi per dire pioggia, o meglio per descrivere di che tipo di pioggia si tratti (e alcune volte anche a quale stagione appartenga).
In particolare, quello che desidero approfondire oggi è un aspetto curioso legato a quanto premesso: i saluti stagionali.
Infatti, le stagioni e i mutamenti naturali finiscono persino nella corrispondenza giapponese, ma non solo nelle lettere romantiche, ma anche nelle e-mail formali e, un po’ meno pomposamente, arrivano fino ai messaggi spediti con il cellulare.
I saluti stagionali
Questi saluti si utilizzano nella corrispondenza formale (lavorativa) e possiamo dividerli in saluti di “inizio” e saluti di “fine” messaggio. I primi si inseriscono nella prima parte dell’e-mail, mentre gli altri si scrivono nelle conclusioni.Laparticolarità è che variano di stagione in stagione.
Ne riporto qualche esempio.
Che potremmo rendere come “Spero stiate bene in questo periodo nel quale possiamo sentire la profondità dell’autunno, grazie alle foglie degli alberi che danzano magnificamente al vento”.
Si tratta di un saluto formale, di apertura, adatto al periodo tardo autunnale (verso l’inverno).
Questo invece è un saluto di chiusura, adatto allo stesso periodo, attraverso il quale si chiede al destinatario di prendersi cura di sé durante il periodo del freddo.
In particolare, per quanto riguarda la primavera, ci sono moltissime espressioni che rimandano alla fine del freddo e alla fioritura dei ciliegi (e nonComesolo).per
esempio:
春分を過ぎ、桜の開花が待たれる頃となりました。
“L’equinozio di primavera è passato e ora attendiamo il momento della fioritura dei ciliegi”.
Oppure: すご隆盛のこととお慶び申し上げます。
“Auguriamo alla vostra azienda tutta la prosperità delle piante, adesso in piena fioritura”.
Come accennato all’inizio, ci sono anche saluti stagionali meno formali, che possono essere utilizzati anche quando si scrive un bigliettino o un messaggio a un amico, volendo però mantenere uno stile elegante.
Per fare un esempio: 春になるとなんだかうきうきしますね。
“C’è qualcosa di così gioioso quando diventa primavera, non trovi?”.
Per chi parla o studia giapponese sarà ancor più evidente dal diverso livello di onorifici, ma anche per gli altri dovrebbe essere possibile individuare la differenza di formalità.
Trovo davvero interessante e entusiasmante che questo modo di vivere gli eventi naturali possa diffondere bellezza anche solo attraverso un’email o un massaggio.
La parte peggiore della natura
Allo stesso modo in cui il giapponese convive serenamente con ogni mutamento naturale accogliente e affascinante, ne sopporta e contiene in sé anche quelli più temibili.
Per cominciare, il Giappone ha un territorio altamente sismico e quindi non appena viene rilevata dai macchinari una scossa, viene inviato un messaggio a tutti i telefoni delle persone residenti in Giappone che avvisa di mettersi al riparo.
Un messaggio di questo tipo:
Avviso immediato di terremoto.
Terremoto a X. Preparatevi a forti scosse. (Agenzia meteorologica del Giappone)
Proprio per questa ragione sono molto diffuse spiegazioni (anche con illustrazioni) di che cosa fare in casi del genere, di come ripararsi e sono sempre indicati anche i punti di raccolta.
Inoltre, è del tutto normale trovare sulla home page di un quotidiano giapponese la legenda con i vari termini legati agli eventi catastrofici. Per esempio, nella prima pagina del sito della NHK (emittente che potremmo paragonare alla Rai in Italia).
Il Giappone e le sue isole
a cura di Guendalina FantiIl Giappone è il Paese delle isole per eccellenza. Formato da cinque isole principali - da nord a sud: Hokkaido, Honshu, Kyushu, Shikoku, Okinawa - ne conta in realtà quasi 7000, tra fazzoletti di terra sperduti in mezzo all’Oceano Pacifico, atolli tropicali a sud come Okinawa, fino alle isole glaciali
dell’Hokkaido.Arrivandoin
aereo non ci si rende conto di quanto questo “essere isola” sia parte integrante della cultura e del vivere giapponese. C’è anche un termine che descrive questo forte sentimento di appartenenza: 島国根 性 shimagunikonjyō, che si potrebbe tradurre con “spirito insulare”.
Personalmente, ho sempre associato l’idea di isola alle nostre Sicilia e Sardegna, dei paradisi naturali. Salvo alcune eccezioni, al contrario, le coste e le isole del Giappone non sono certo rinomate per essere dei paradisi come li intendiamo noi: qui il mare è temuto e, quanto più possibile, controllato.IlPaeseinsulare per eccellenza, tuttavia, ci rivela una contraddizione. Dopo una riflessione attenta risulta evidente che il controllo esercitato dall’uomo sia la soluzione migliore per far sì che la popolazione possa vivere tranquilla in un Paese in cui la natura è tutt’altro che affabile.
Le isole disabitate e le isole artificiali
In Giappone ci sono dalle 200 alle 400 isole disabitate e alcune sono anche in vendita. Scorrendo gli annunci però si nota il ripetersi della dicitura “qui non si può costruire”, che rende improvvisamente tutto meno attraente. Pochi chilometri quadrati di terra, non edificabili, e alcuni addirittura situati a chilometri e chilometri dalla costa.
Così come per l’entroterra, anche per le isole c’è un grande divario tra quelle popolate e quelle disabitate o che lo saranno nel giro di qualche
decennio.Inopposizione a questo fenomeno, per sopperire alla mancanza di spazio nelle città, dove è ben noto che ci sia il fulcro della vita e dell’economia giapponese, si contano circa 75 isole artificiali. Queste isole sono state ideate, progettate e realizzate per rispondere a dei precisi bisogni, per essere “a prova di natura”.
TEMPO DI LETTURA 4’Rokko Island, l’isola artificiale di Kobe
Ero a Kobe a trovare un’amica. Se dalla metro sopraelevata non avessi guardato fuori dal finestrino e visto il ponte rosso, la brutta zona portuale e il mare che si perde a vista d’occhio, forse non mi sarei davvero resa conto che stavamo arrivando su un’ isola.All’arrivo, la metro si fonde con un enorme centro commerciale che attraversiamo per uscire dalla stazione e dirigerci verso casa della mia amica. Passiamo per un piccolo parco dove passeggiano delle persone con i cani, attraversiamo un parcheggio e mi ritrovo davanti un complesso di appartamenti enorme.
È tutto bianco, diviso in blocchi con entrate diverse. La mia amica cammina diritta, attraversa il cancelletto, apre le porte scorrevoli inserendo la chiave nella toppa. ChiamaArrivatel’ascensore.sulpianerottolo, mi apre la porta di casa e nell’ampio genkan ci togliamo le scarpe. La casa è davvero bella: la luce del terrazzo riempie tutto il corridoio, la cucina si affaccia su un tavolo in legno. Dietro al divano si intravede la stanza in tatami, delimitata dai fusuma scorrevoli lasciati aperti a metà.
Provo una sensazione di straniamento al pensiero di trovarmi in una casa costruita dove prima c’era solo mare, su una terra messa lì dall’uomo.Usciamo
a passeggiare e arriviamo a una piazzetta che segna la fine dell’isola. Una ringhiera e poi giù il mare a strapiombo.
Dei signori stringono tra le mani la canna da pesca e stanno seduti a guardare l’orizzonte.
Snodo fondamentale del commercio con l’Occidente, il porto di Kobe è stato sin da subito una delle vie principali di accesso al Paese. Nel 1868 la sua popolazione ammontava a trentamila persone, ma la sua crescita è aumentata esponenzialmente, arrivando a contarne 1,5 milioni un secolo più tardi. La città di Kobe si è sviluppata lungo una lingua di terra che si addossa sul mare da un lato e dall’altro risale timidamente le montagne.Unavolta costruita la città su tutta la zona di terra a disposizione, non si sapeva più come affrontare la crescita demografica per evitare il sovraffollamento. Così, negli anni Cinquanta hanno iniziato a costruire la Port Island, una prima isola artificiale di circa 8 km², in cui si trovano un porto, la zona industriale, un ospedale e altri servizi. Ci sono voluti vent’anni per la sua realizzazione, ma data la buona riuscita di questo primo progetto hanno subito replicato nel 1972, costruendo a pochi chilometri di distanza la Rokko Island, un’area di 5,8 km² in cui oggi risiedono quasi ventimila persone: esistono scuole, centri commerciali, musei, parchi.
La presenza di queste due isole ha cambiato radicalmente l’aspetto della città a livello fisico; basta confrontare due cartine di decenni diversi per capire che Kobe non è più la stessa città che era un tempo.
Quello che ho imparato su Kobe e le sue isole artificiali
Non solo, è cambiata anche a livello sociale ed economico: Port Island, un’isola per lavorare, Rokko Island per vivere.
La sensazione che mi ha lasciato guardare su YouTube i documentari sulla costruzione delle isole, però, è stata un misto di stupore e repulsione: indubbiamente i giapponesi sono riusciti, ripetutamente, in una grande impresa, ma capire che possono, e devono, controllare la natura stravolgendo la sua forma mi ha lasciato un velo di spavento.
Availablefor●https://www.researchgate.net/figure/7-Artificial-Islands-in-Kobe-Port-Island-and-Rokko-Island-left-Tokyo-Bay-City-Plan_fig6_250192544Japaneseurbanartificialislands:Anoverviewofprojectsandschemesmarineci¬tiesduring1960-1990s-ScientificFigureonResearchGate.from:https://www.researchgate.net/figure/7-Artificial-Islands-in-Kobe-Port-Island-and-Rokko-Island-left-Tokyo-Bay-City-Plan_fig6_250192544●https://www.nippon.com/ja/japan-data/h00806/●https://www.aqua-styles.com/islandjapan2●http://www.din.or.jp/~heyaneko/0mujintou.html●http://www.rokko-island.com/●https://orizzontiblog.it/tag/nagasaki/●https://www.youtube.com/watch?v=-Yh_dal5A-U●https://www.youtube.com/watch?v=ETLVqETJAFQFONTIEAPPROFONDIMENTI
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Ascesa al Fujiyama
di Alfred Houette (Lindau)Alfred Houette arriva a Yokohama nel 1874, a bordo di un bastimento della marina militare francese. Del Giappone non sa molto, ma nasce in lui fin da subito un forte interesse per il Paese del Sol Levante. Decide di affrontare l’ascesa al Fujiyama, una delle tre mon tagne sacre del Giappone. Per ottenere il lasciapassa re necessario a raggiungere quella che era una meta di pellegrinaggio shintoista, organizza una presunta spedizione scientifica insieme ad alcuni commilitoni, e quindi parte all’avventura. Il racconto che ne fa rivela tutta l’ingenuità del suo sguardo e la sua estraneità alla cultura del Paese. Accennando di sfuggita agli aspetti sacrali del Fuji e alle leggende che ne abitano le foreste, le sue parole si concentrano soprattutto sul la natura che attraversa, e sulle usanze del Giappone e gli accoglienti abitanti dei villaggi che costellano il cammino, meravigliati dalla presenza di quell’inusuale gruppo di pellegrini.wconsiderazioni sulla propria vita e sulle scelte fatte o meno, questa esperienza segnerà e cambierà le esistenze di tutti.
La natura giapponese è un’altra cosa
di Yoshimoto Banana (Feltrinelli, solo ebook)“Finora sono andata in tanti paesi stranieri, e ho vi sto tanti scenari diversi. Ho osservato intensamente la natura meravigliosa di ognuno di quei paesi, che co municasse imponenza o una spiritualità disarmante, o che racchiudesse in sé la forza primordiale della nascita del genere umano. Ma la natura giapponese, con la sua delicatezza, è un’altra cosa. In una piccola isola coesistono a stretto contatto i più diversi ambienti naturali, in tranquillità, semplicità e forza... l’armonia dolce come musica di tutti questi elementi è una caratteristica pecu liare del Giappone. Per questo, più vado all’estero e più mi innamoro della natura giapponese, e cresce in me il desiderio di rappresentarla attraverso la scrittura.” Una delle più amate scrittrici giapponesi racconta il suo pa ese, così amato da non lasciarla mai, nemmeno quando se ne allontana. Tratto da “Un viaggio chiamato vita”.
Racconto di una luna
di Keiichirō Hirano Mentre(Lindau)il
Giappone, finalmente aperto all’incontro con l’Occidente, sta affrontando le sfide della modernizzazione, un giovane poeta si perde nei boschi rigogliosi delle montagne di Kumano, magica culla delle più antiche tradizioni nipponiche. Lanciatosi all’inseguimento di una farfalla, o di un sogno, Masaki sembra risucchiato in un mondo primordiale, in cui il confine tra immaginazione e realtà si fa via via più vago. Com’è giunto fin lì? Chi è la misteriosa donna che sembra attirarlo a sé? Cosa, di ciò che ha visto e vissuto, è realmente accaduto? Racconto di una luna è un romanzo onirico e ricco di poesia che trasporta il lettore in un Giappone lontano e incantato.
Quel che affidiamo al vento
di Laura Imai Messina (Piemme)Sul fianco scosceso di Kujira-yama, la Montagna della Balena, si spalanca un immenso giardino chia mato Bell Gardia. In mezzo è installata una cabina, al cui interno riposa un telefono non collegato, che trasporta le voci nel vento. Da tutto il Giappone vi convogliano ogni anno migliaia di persone che hanno perduto qualcuno, che alzano la cornetta per parlare con chi è nell’aldilà. Quando su quella zona si abbatte un uragano di immane violenza, da lontano accorre una donna, pronta a proteggere il giardino a costo della sua vita. Si chiama Yui, ha trent’anni e una data separa quella che era da quella che è: 11 marzo 2011. Quel giorno lo tsunami spazzò via il paese in cui abi tava, inghiottì la madre e la figlia, le sottrasse la gioia di essere al mondo. Venuta per caso a conoscenza di quel luogo surreale, Yui va a visitarlo, e con lei altre figure colpite dagli stessi tragici eventi.
La foresta millenaria
di Taniguchi Jirō Alla(Oblomov)finedeglianni 50 un forte terremoto sconvolge l’incontaminata regione di Tottori, provocando la misteriosa apparizione di un’antichissima foresta. Il terremoto porta però alla luce anche uno sconosciuto minerale simile all’uranio, il cui sfruttamento minaccia la natura selvaggia. Della sorte della foresta si prenderà cura Wataru Yamanobe, un ragazzino di dieci anni, silenzioso e attento. Trasferitosi qui dalla città, Wataru subisce profondamente il fascino di questi luoghi a lui sconosciuti e rimane turbato quando ha l’impressione di “capire la voce degli animali e delle piante intorno a lui”. Purtroppo incompiuto, La foresta millenaria è da considerarsi un vero e proprio testamento artistico: contiene infatti tutte le componenti care a Taniguchi: l’infanzia, la natura, la solitudine, le domande esistenziali.
INGIOCO
La natura è stata esaltata in ogni suo aspetto nell’arte giapponese, dalle piante agli animali, dal mare alla montagna. Gli artisti imparavano, applicavano e trasmettevano ai loro discepoli non solo le tecniche artistiche ma anche i canoni estetici da seguire in base al tipo di opera, prestando quindi molta attenzione alle pennellate e ai soggetti.
Kanagawa
Uno dei più grandi maestri della pittura giapponese, Katsushika Hokusai, ci farà proprio da insegnante in Kanagawa, un gioco dalla grafica delicata e acquerellata per 4 giocatori. O forse dovremmo definirli apprendisti, perché la stuoia all’interno della scatola funge da scuola nella quale Hokusai - che ha dipinto il famoso La grande onda di Kanagawa che dà nome al gioco - ci insegnerà a dipingere diversi soggetti. Le carte disposte sulla stuoia, infatti, consistono in due versi: da dritte mostrano il soggetto in questione (una persona, un edificio, un animale o piante), mentre rovesciate offrono una lezione su un colore (blu, giallo, marrone o verde). Starà ai giocatoristudenti, a turno, decidere come posizionare la sua carta in base alle conoscenze già apprese. L’obiettivo è fare punti creando il proprio emakimono (rotolo orizzontale illustrato), ottenendo i diplomi che dimostrano la padronanza delle tecniche imparate e rappresentando al meglio possibile lo scorrere delle stagioni nei vari pezzi del dipinto.
Fuji
Non abbiamo citato Hokusai e La Grande onda di Kanagawa a caso: questa fa parte delle Trentasei vedute del Monte Fuji, che in questo caso sta più sullo sfondo ma invece è grande protagonista del gioco omonimo: Fuji, al contrario di Kanagawa, è un gioco collaborativo ma sempre per 4 giocatori. Per chi non lo sapesse, il monte più alto del Giappone è anche un vulcano attivo, pur non eruttando dal XVIII secolo. Ebbene, l’eruzione avviene nel gioco e bisogna raggiungere la valle per mettersi al sicuro. Le carte paesaggio permettono di cambiare il percorso e gli eventi a ogni partita, insieme al lancio dei dadi con i quali i giocatori potranno scambiarsi informazioni parziali per capire da che parte andare ed evitare la lava. L’adrenalina e la tensione saranno palpabili fino alla fine.
Entrambi i giochi hanno una buona longevità e per Kanagawa, in particolare, è anche disponibile un’espansione chiamata Yōkai che aggiunge degli spiriti disturbatori e carte dipinto con nuovi soggetti (aquiloni e ombrelli)! Speriamo vi divertirete a immergervi nella natura giapponese, così elegante e al tempo stesso imponente.
HAJIMEMASHITE
Carmen Borrelli . Nata a Napoli nel 1995. Iscritta al corso di Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”, ha svolto un anno di scambio a Tokyo, alla Keio University. Gestisce da quattro anni un blog, Nessun cancello, nessuna serratura , strettamente collegato al suo profilo Instagram ( @lilyj2202 ) , citato in Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020). Tra i suoi progetti, La tua, Virginia ha portato sui social, grazie anche alla collaborazione con la Italian Virginia Woolf Society, la lettura dell’epistolario di Virginia Woolf. Ha fondato Kotodama insieme a Dafne Borracci e oltre a scrivere gestisce le pagine social.
Dafne Borracci . Nata a Firenze nel 1996. Nel 2013 ha frequentato il quarto anno di liceo a Ashiya, in Giappone. Nel 2018 ha vinto la borsa di studio MEXT Undergraduate e attualmente frequenta la facoltà di Lettere all’Università di Kyoto. Sui social parla di letteratura e storia giapponese attraverso il suo profilo Instagram, @dafneborracci , e il suo blog, Mai una soya . Periodicamente, pubblica la traduzione in italiano del romanzo di epoca Heian Torikaebaya Monogatari tramite newsletter. A luglio 2020 ha pubblicato il suo primo ebook Ikiryō - Spiriti viventi del folklore giapponese . Ha fondato Kotodama con Carmen Borrelli.
Damiana De Gennaro. Nata a Vico Equense nel 1995, è laureata in Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”. Iscritta alla magistrale presso lo stesso ateneo, ha svolto un anno di scambio in Giappone, presso l’università Tōhoku. Ha pubblicato Aspettare la rugiada (Raffaelli, 2017), opera finalista al Premio Rimini, e Shibuya Crossing (Interno Poesia, 2019). Sue poesie sono ospitate su varie antologie, tra cui Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90.Vol. I (Interno Poesia, 2019) e Abitare la parola. Poeti nati negli Anni Novanta (Ladolfi, 2019). Alcune traduzioni delle sue poesie in spagnolo, inglese e sloveno si trovano online sulle riviste Libroamerica, Literalidad, Círculo de Poesía, Centro Cultural Tina Modotti, Otata, e il blog di Primož Sturman. Collabora con la rivista di poesia Mosse di Seppia e fa parte della redazione di Kotodama.
Guendalina Fanti. Nata a Bologna nel 1992. Si è laureata in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia presso l’Università di Bologna, trascorrendo un periodo di scambio presso l’Università Sorbona a Parigi con la borsa di studio Erasmus. Dopo un periodo di studio in Spagna si trasferisce in Giappone per approfondire lo studio della lingua e ha fatto di quest’ultimo la sua casa. Attualmente vive a Osaka da dove condivide consigli di viaggio e racconta la vita quotidiana senza filtri tramite il suo account Instagram @ lamiakyoto e sul sito web www.lamiakyoto.com. Per Kotodama segue la rubrica Nihon no Honto.
Giulia Licciardello. Nata a Catania nel 1994, si laurea in Lingue e Culture Orientali e Africane all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” con percorso dedicato all’Estremo Oriente. Nel 2019 frequenta il master in Editoria dell’università di Verona e si specializza nel campo redazionale. Lavora come proofreader e correttrice bozze per GateOnGames e per Panini Comics e si occupa anche di progetti freelance. Nel tempo libero si dedica alla scrittura creativa e al suo profilo Instagram @hikari_monogatari. Ha pubblicato l’antologia di racconti Ricette d’amore e la novella A Bolt out of the Blue, entrambi disponibili su Amazon. Al momento si occupa dell’antologia di racconti ambientati in Asia Le Cronache del Drago e del Pugnale. Per Kotodama si occupa di coordinamento editoriale, proofreading e delle pagine social.
Giada Zaccardi. Nata a Roma nel 1986, è laureata in giurisprudenza e ha conseguito l’abilitazione di avvocato. Durante l’esercizio della professione intraprende lo studio della lingua giapponese, che deciderà di proseguire iscrivendosi alla laurea magistrale in Lingua, economia e istituzioni del Giappone all’università “Ca’ Foscari” di Venezia. Nel 2019 fonda il progetto の ど nodo (www.nodonodo.com e su Instagram: @nodo_no_do), per promuovere la diffusione delle lingua e della cultura giapponese in Italia. Attraverso questo progetto organizza numerosi eventi, tra cui Tokyo art in Rome nel 2019, e impartisce lezioni di lingua e cultura giapponese. Per Kotodama segue la rubrica Kotobar, approfondendo termini peculiari della lingua giapponese.
Loris Usai. Nato a Roma nel 1986, all’età di sei anni disse alla madre: “Voglio vivere in Giappone”. Inseguendo il sogno di bambino, si è laureato in lingua e cultura giapponese all’Università di Roma “La Sapienza” e ha proseguito gli studi magistrali presso l’Università Statale di Milano. Si reca in Giappone con una borsa di studio MEXT (2012-2013) per ricerche sul tema delle minoranze sessuali e di genere all’Università Meiji di Tokyo, e non sarebbe più rientrato. Vive a Tokyo dove lavora come traduttore di romanzi, light novel e manga. Su Instagram @rorisu_in_japan e sul suo sito web www.rorisuinjapan.com condivide scorci di vita quotidiana giapponese, riflessioni linguistiche e news a tema LGBTQ+.
Chiara Zennaro. Nata a Bologna nel 1996 ma cresciuta a Chioggia (VE). Nel 2014 inizia una laurea in Studi Cinematografici e Scienze della Comunicazione al King’s College London. Si trasferisce in Giappone nel 2019 per uno scambio all’università di Kyoto dove consegue la laurea nell’agosto 2020. Ora vive e lavora a Tokyo come aiuto regista (AD) per la TBS, una stazione televisiva giapponese. Cinefila con una passione per le lingue, per Kotodama si occupa della rubrica sul cinema giapponese Akushon!
Eleonora Badellino. Nata ad Alba (CN), nel 1992. Laureata presso l’Università’ di “Scienze Gastronomiche” di Pollenzo, dopo un’esperienza lavorativa nell’ambito Food in Italia e in America, arriva in Giappone dove partecipa a due progetti incentrati sullo studio e tutela del washoku, presso la città di Tsuruoka, prefettura di Yamagata (riconosciuta come “Unesco’s City of Gastronomy”), e Kanazawa, prefettura di Ishikawa. Vive in Giappone da due anni e per hobby gestisce una pagina Instagram @EveryDayObento e un blog DaidokoroLabo incentrati sulla gastronomia giapponese e non solo. Ha collaborato con la rivista The New Gastronome, con il magazine online Savvy Tokyo e per Kotodama segue la rubrica Obento.
Giada Palumbo. Nata a Bolzano il 12 Marzo del 1992, ha sempre avuto una grande passione per la moda e la grafica. Trasferitasi in Giappone dopo la laurea in Fashion Design, trova lavoro come designer di stampe in una piccola azienda nelle campagne di Kyoto. Nel 2021 crea Komorebi, una piccola realtà che progetta grafiche per eventi e brand. Per Kotodama si occupa delle copertine e delle grafiche.
Donatella Principi. Nata a Rimini nel 1991, è laureata in Acquacoltura e Igiene delle Produzioni Ittiche. Nel 2014 apre il canale YouTube e il profilo Instagram @Chibiistheway dedicati a libri, fumetti, lifestyle e alla sua passione per il Giappone, insieme all’omonimo blog . Ha collaborato con VVVVID, il canale YouTube di Animeclick.it, LegaNerd e RedCapes realizzando video e articoli dedicati al fumetto e all’animazione giapponesi. Nel 2018 partecipa al programma radiofonico Pandora di Rai Radio 2 per consigliare libri e fumetti agli ascoltatori ed è ospite a Lucca Comics and Games del panel Comics Instagrammer per parlare del rapporto social-fumetto. Nel 2019 è stata selezionata fra i 16 Bookinfluencer più influenti scelti dagli allievi del Master BookTelling dell’Università Cattolica di Milano. Appare nel libro Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020) e per Kotodama segue la rubrica Manga Café.
Alessia Landolfi. Nata a Sorrento nel 1996. Si laurea nel 2019 in Scienze della Comunicazione conseguendo in contemporanea un diploma di Cinema d’Animazione presso l’Accademia Nemo di Firenze. Inizia un percorso magistrale in Design, Comunicazione Visiva e Multimediale presso La Sapienza. Nel 2020 ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di studiare per un semestre a Zagabria, in Croazia. Si laurea a dicembre 2021 con un progetto animato sull’inquinamento marino. Ha la passione per l’arte, la grafica e l’animazione. Nel tempo libero si dedica alla sua pagina Instagram @alesh_art e al suo portfolio. Si occupa dell’impaginazione grafica di Kotodama.
Sara Odri. Nata a Frosinone nel 1993. Si è laureata in Lingue e Civiltà Orientali in lingua giapponese presso La Sapienza di Roma. Nel 2019 ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di frequentare per un anno l’Università Tohoku. Lì ha focalizzato la sua ricerca sugli autori bilingue giapponesi, in particolare Yoko Tawada e Minae Mizumura. Attualmente è iscritta al Master in Traduzione giapponese dell’Università La Sapienza.
Dal 2018 scrive per il sito d’informazione generalista Stay Nerd nel ruolo di caposezione per Anime, Manga e Giappone e conduce il podcast Japan Wildlife.
Dal 2021 collabora alla redazione di Kotodama con la sua rubrica Kotodama in gioco, nella quale consiglia giochi da tavolo rigorosamente a tema Giappone e che si possono trovare insieme a tanti altri anche sul suo profilo IG @orient_ale94
Naomi Cavaliere. Nata a Napoli nel 1995, ha conseguito la laurea magistrale in Lingue e Culture dell’Asia e dell’Africa con specializzazione in lingua e cultura giapponese all’Università di Napoli L’Orientale. Nel 2019 ha svolto un anno di scambio alla Tokyo University of Foreign Studies di Tokyo. I suoi ambiti di ricerca riguardano gli studi folcloristici, i gender studies e la letteratura contemporanea femminile giapponese. Ha insegnato sia in Giappone che in Italia e sogna di diventare una professoressa. Innamorata della lingua giapponese fin dall’infanzia, ha sviluppato un forte legame con la produzione musicale del Paese trovando nelle canzoni un utile strumento di studio. Per Kotodama segue la rubrica musicale Kitsune Records, dove propone playlist tematiche e traduzioni di testi di singoli particolarmente significativi.
Pagine amiche
ASIATIKA
Asiatika - Rivista di Studi Orientalistici nasce nel 2021, da una grande collaborazione tra studenti, ricercatori e docenti, uniti dalla passione in comune per l’Asia Orientale, per la creazione di contenuti specialistici e l’organizzazione di attività riguardanti la Cina, la Corea e il Giappone. Gli articoli della rivista sono disponibili gratuitamente online, presto anche in cartaceo. www.rivistasiatika.com
WASSHOI! MAGAZINE
Wasshoi! è un team di giovani ricercatori e studenti internazionali con un interesse comune per il Giappone coinvolti attivamente nello studio in vari ambiti e discipline. Ci siamo riuniti con l’obiettivo di condividere le nostre esperienze e ricerche, creando così un network per diffondere sapere sul Giappone sotto forma di rivista digitale interdisciplinare, disponibile per tutti. La rivista è disponibile gratuitamente e raccoglie articoli in lingua inglese.
https://www.wasshoimagazine.org
CIPANGO
Cipango è una fanzine online con notizie di cultura e attualità più interessanti e bizzarre del Giappone nelle ultime due settimane. La fanzine regala un’istantanea del Paese del Sol Levante sempre aggiornata e con un punto di vista “da insider”. È possibile ottenerla il giorno dell’uscita seguendo le storie instagram di Cristina @traprofumoditatamieincenso.
Kotodama è un’idea che nasce l’estate del 2020, da una conversazione tra Carmen Borrelli e Dafne Borracci.
In un contesto internazionale che vede il sapere assumere forme sempre più fluide, lo scopo della redazione è quello di incoraggiare, anche attraverso i so cial, lo scambio di discorsi tra persone impegnate in uno studio continuativo di lingua e letteratura giapponese.
Attraverso le rubriche cerchiamo di cogliere diverse sfaccettature della cultu ra giapponese, dagli aspetti più gradevoli a quelli più ambigui e problematici.
La pubblicazione è a cadenza trimestrale.
Per mettersi in contatto con la redazione è possibile scrivere a: kotodama.rivista@gmail.com.