LUG 2021 NUMERO 2 コトダマ
KOTODAMA Altri tipi di Corpi
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Tanti tipi di corpi Una donna sulla trentina, dopo aver visto in televisione un incontro di box, rimane affascinata dai corpi dei bodybuilder. Non ne è attratta in senso fisico, ma fatto sta che quell’immagine si radica a tal punto dentro di lei che decide di iscriversi in palestra e diventare anche lei bodybuilder. Ovviamente, dietro questa scelta così radicale, c’è la volontà di mostrare un cambiamento, una trasformazione che si manifesta attraverso l’aspetto fisico. Il desiderio di una delle protagoniste di Yukiko Motoya è solo uno degli infiniti modi a cui il corpo si adatta per darvi voce. Il corpo, però, è anche trappola. È la prima cosa che si vede dall’esterno, che ci caratterizza al punto tale da diventare stereotipo. Corpo inteso come linguaggio, espressione, caratterizzazione: in questo numero di Kotodama si è deciso di dare voce a tanti tipi di corpi. Il Giappone ha, infatti, un culto del corpo molto particolare, complesso e antichissimo. Per parlarne in tutte le sue forme, Kotodama è ancora una volta cambiato, accogliendo nuovi articoli e nuove autrici. Tra le nuove voci, Sara Odri ci parla delle Olimpiadi 2021 e del body shaming che ne è seguito e che ha portato, tra l’altro, a diverse dimissioni; Elena Fabbretti, invece, ritorna con un nuovo articolo sugli ukiyo-e e di una mostra fatta “di scheletri beffardi, corpi in movimenti improvvisi e torsioni disperate”. Kotodama ospita anche una nuova rubrica sul cinema, Akushon!, diretta da Chiara Zennaro. In Body Horror e Film d’Expolitation, Chiara ci parla del rapporto tra corpo e dolore, tra corpo e punizione attraverso questi generi cinematografici. La nuova ospite, Eleonora Guglielmi, ci parla di Yuriko Tiger, di come il cosplay è diventato per lei non solo un lavoro ma un modo per esprimere “un sogno, una fantasia, la gioia”. Del rapporto che c’è tra il corpo e il cibo ce ne parla Eleonora nel suo Kyō no Ōbento; Donatella in Manga café ci spiega perché i personaggi degli anime e dei manga vengono disegnati sempre con gli occhi grandissimi. Giada, poi, ci analizza il linguaggio del corpo in Kotobā, mentre Loris per La tribù delle rose scrive della fisicità nella comunità LGBT giapponese. Ancora, Carmen parla di spersonalizzazione del corpo nelle opere di Murata Sayaka, mentre in Tsuyu Damiana analizza il binarismo corpo-anima in poesia. Nella traduzione di questo numero si può leggere una nuova traduzione di alcuni passi del “Makura no Sōshi” a cura di Dafne.
Quella di Dafne non vuole porsi come una ri-traduzione, ma come un altro modo per introdurre l’opera di Sei Shōnagon ai lettori di Kotodama. Un’altra traduzione è quella dell’articolo in giapponese che la professoressa Ehara ha scritto ancora una volta per noi. Il suo articolo in lingua ci offre la possibilità di leggere di un’esperienza personale, oltre che essere un’occasione per leggere in giapponese. Altri tipi di corpi, per l’appunto, di cui Guenda scrive nella sua rubrica Nihon no hontō. Accanto al tema principale, Kotodama ha voluto portare con sé anche un po’ di estate, parlando di festival estivi, spiriti e fantasmi, e inserendo alcune splendide foto, tutte scattate da Jan Breede, che la redazione ringrazia di cuore. Buona lettura – e buona estate!
- La Redazione
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La redazione Kotodama - Numero 2 - Anno 1 - Cadenza Trimestrale Direttore editoriale Carmen Borrelli e Dafne Borracci Redattori Carmen Borrelli Chiara Zennaro Dafne Borracci Damiana De Gennaro Donatella Principi Eleonora Badellino Giada Zaccardi Giulia Licciardello Guendalina Fanti Loris Usai Sara Odri A questo numero hanno partecipato Barbara Gazzea Elena Fabbretti Eleonora Guglielmi Ehara Kiyomi Impaginazione e grafica Giulia Licciardello Proofreading e coordinamento editoriale Carmen Borrelli Dafne Borracci Damiana De Gennaro Giulia Licciardello Responsabili social e comunicazione Carmen Borrelli e Giulia Licciardello La copertina e alcune illustrazioni sono di Giorgia Lombardo @midoriart8 Le fotografie sono di Jan Breede @janullob Segui Kotodama su
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Sommario
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La
spersonalizzazione
del corpo in
Murata
Sayaka: da Konbini Ningen Clean Marriage
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S t r a p p a r s i
a
A
le
sopracciglia:
il corpo attraverso i l p e n n e ll o d i
Shōnagon
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I l
Sei
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A l t r i
f e s t i v a l d e ll e
s t e ll e
tipi di corpi
M o s t r u o s a m e n t e esilaranti: yokai
e yurei nel teatro
46 –
L e O l i m p i a d i “norowareta”
tra sessismo e
bodyshaming
P e r c h é
nei manga
le persone hanno
I l
corpo come
natura in bilico.
Jisei, «poesie d e ll ’ a d d i o »
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I l
linguaggio del
corpo
E t i c h e t t e
di
e s t e t i c a n e ll a
comunità
L GBT
giapponese
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a
rakugo
gli occhi enormi?
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Y u r i k o T i g e r e Ere: intervista E l e o n o r a G u g l i e lm i
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I 5 E l e m e n t i d e ll a Cucina Giapponese
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B o d y H o r r o r e f i lm
d’exploitation
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お 部 屋 探 し は フ ァ ミレスへ
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K o t o d a m a Libreria
in
H a j i m e m a s h ite
R i f e r i m e n t i bibliografici e
ringraziamenti
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C e r c a r e c a s a un Famiresu
da
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L ’ u k i y o - e c h e sfida: stampe ukiyo-e in mostra, da Kiniyoshi a Yoshitoshi
e
altri
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La spersonalizzazione del corpo in Murata Sayaka: da Konbini Ningen a A Clean Marriage a cura di Carmen Borrelli
TEMPO DI LETTURA 3’
Murata Sayaka, scrittrice contemporanea giapponese vincitrice del Premio Akutagawa nel 2016, ha sempre scritto romanzi che si ribellano agli schemi sociali, di genere e di sessualità binaria. Il corpo, che sia fisico o metaforico, prende parte a questo processo in tutti i suoi scritti. Fin dall’inizio della sua carriera di scrittrice, Murata Sayaka ha sempre scritto di mondi rovesciati e realtà capovolte. Sayaka ribalta tutto ciò che vive ogni giorno, a partire dal suo romanzo più famoso “La ragazza del convenience store” (Edizioni E/O, 2016). Keiko, trentaseienne di Tokyo, è incapace di relazionarsi con gli altri; cerca di sfuggire ai desideri del mondo esterno e, per questo, continua a lavorare part-time in un konbini, dove tutto è scandito da regole e codici. Keiko cerca di diventare invisibile, di uscire dal corpo e di entrare nella merce del supermercato: solo così pensa di poter trovare una collocazione. Ma la sua asocialità diventa sempre più inquietante man mano che si va avanti, fin quando di fronte al nipote appena nato, si trattiene dall’ucciderlo per non sentirne
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più il pianto.
Ripenso al momento in cui ho visto mio nipote in ospedale attraverso l’ampia vetrata del nido, dopo la nascita. Dall’altra parte del vetro sento provenire una voce limpida e vivace molto simile alla mia. Le mie cellule vibrano all’unisono in ogni angolo del corpo, le sento agitarsi sottopelle, risvegliate dalla musica soave del konbini. Se però Konbini ningen parla soprattutto di non conformità restando nell’ambito del reale, molto più potente è Materiale di prima scelta. Si tratta di un racconto contenuto in Freeman’s – Scrittori dal futuro (Black Coffee, 2018), dove Murata entra
nella distopia, immaginando un mondo in cui i vivi indossano le spoglie dei morti. I corpi vengono smantellati: dai denti vengono fatti degli anelli, dalle ossa dei mobili, dai capelli dei maglioni; dalla pelle, addirittura, un velo da sposa.
Non vedo cosa ci sia di male a trasformare le persone in vestiti o mobili quando ormai sono morte […] è solo un prezioso e nobile passo avanti compiuto dalla nostra specie, quello di non sprecare i corpi delle persone che muoiono.
vive”, quella dei personaggi di Sayaka Murata non sembra neppure più umana, ma composta, invece, di frammenti di plastica e stringhe di codice. Infine, in A Clean Marriage, racconto tradotto solo in inglese e pubblicato su Granta, Sayaka scrive di una coppia sposata che vive “like brother and sister, without being a slave to sex”, ma che decide comunque di avere un bambino in una clinica di fertilità.
L’ossessione di servire, nel senso di essere utile anche dopo la morte, si spinge oltre, tanto che non è normale chi crede che tutto ciò sia orrido e grottesco. Questa combinazione di morte e di vita, di giusto e sbagliato, rende horror un semplice racconto di una coppia in procinto di sposarsi. Non è normale, dai. Tutti finiremo per diventare maglioni, orologi o lampade, che ci piaccia o no. Noi esseri umani siamo anche materia prima, ed è meraviglioso! Come scritto in un articolo de “Il Tascabile”, se, come dice Emma Glass in Carne “la pelle è un organo molto anomalo, fatta di cellule morte e vive. Mezze morte, mezze 9
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Liberare il corpo femminile dal sesso e dalla maternità è una delle lotte principali di Murata. Nella letteratura giapponese, i primi esempi di eroine che hanno cercato di liberare se stesse dai loro corpi e dalle rispettive funzioni riproduttive appaiono nelle opere di scrittrici della uman ribu – il movimento di liberazione delle donne giapponesi sorto tra gli anni Sessanta e Settanta. Nonostante l’avanguardia del movimento, queste scrittrici non riuscirono a trovare un approccio che separava il piacere sessuale dalla procreazione, a causa dell’idea che vedeva maternità l’unica differenza tra i due sessi. L’approccio di Murata, invece, si potrebbe definire quasi neutro: la protagonista acconsente a spingersi contro i limiti accettabili della modernità, vivendo in modo diverso e amando in modo diverso.
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すらすら
Strapparsi le sopracciglia: il corpo attraverso il pennello di Sei Shōnagon a cura di Dafne Borracci L’autrice
tempo di lettura 9’
Sei Shōnagon (966-1025 ca.) è una scrittrice e poetessa del Periodo Heian (794-1185). Prestò servizio dal 993 al 1000 presso l’Imperatrice Teishi, consorte dell’Imperatore Ichijō. Si ritirò da corte, dopo sette anni di servizio, in seguito alla morte di Teishi. Le notizie certe che abbiamo di Sei Shōnagon non sono molte. Non conosciamo il suo nome reale: Sei è la lettura cinese del primo carattere di Kiyohara; il suo cognome, Shōnagon era una carica governativa piuttosto elevata, che né suo padre né suo marito rivestirono mai e nessuno sa dire con esattezza perché le fu affibbiato questo soprannome.
Figlia del poeta Kiyohara no Motosuke, fin da giovane Sei spiccò per la sua profonda cultura, la sua intelligenza, il suo talento letterario e il suo carattere irriverente. Per un periodo, fu sposata con il Governatore di Mutsu, Tachibana no Norimitsu, da cui ebbe anche un figlio, Norinaga; tuttavia, la coppia divorziò molto presto. Nel 993, Sei Shōnagon fu chiamata a servizio di Teishi con il preciso scopo di alimentare e portare nuova linfa vitale al “circolo” culturale che ruotava intorno all’Imperatrice. In un’epoca in cui l’imperatore aveva numerose mogli e concubine, questo era l’unico modo per mantenere vivo l’interesse del sovrano nei confronti della Consorte Principale. Purtroppo tutti gli sforzi di Sei Shonagon e delle sue colleghe furono vani poiché l’Imperatrice Teishi e la sua famiglia andarono incontro a una fine tragica: alla morte del padre, lo zio Michinaga esiliò il fratello maggiore di Teishi e fece entrare a corte 11
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la propria figlia Shōshi come Prima Consorte. In seguito, Teishi fu esclusa dalla scena politica e subì innumerevoli umiliazioni prima di morire di parto a soli 21 anni. Non serve specificare che suo figlio non divenne mai Erede al Trono. Dopo il ritiro dalla vita di Corte, la vita di Sei Shonagon è avvolta dal mistero. Probabilmente si risposò con Fujiwara no Muneyo e che l’abbia seguito nella Provincia di Setsu, dove l’uomo aveva un incarico governativo. Alcuni secoli dopo la sua morte, nell’Epoca Kamakura (1185-1333), la memoria di questa scrittrice subì numerose umiliazioni. Con il rafforzamento dell’autorità della classe guerriera e l’affermazione della dottrina buddhista, si fecero strada nuovi valori morali secondo i quali la condotta troppo “libera” delle donne del Periodo Heian e il loro sfoggio eccessivo di cultura andavano condannati. Sei Shōnagon, insieme alle sue colleghe scrittrici e poetesse Murasaki Shikibu, Ono no Komachi e Izumi Shikibu, divennero le protagoniste di alcune leggende atte a screditare le loro figure. Le dicerie più diffuse su Sei Shōnagon sono che fosse brutta come un demone, che avesse pochi capelli e portasse una parrucca, che una volta si fosse spogliata completamente e avesse mostrato il proprio sesso a dei militari che l’avevano scambiata per un uomo e stavano per ucciderla. La leggenda più antica e famosa narra che, da anziana, Sei Shōnagon fosse stata abbandonata da tutti e vivesse in assoluta povertà in una casa fatiscente. Passando di fronte a quell’abitazione, alcuni giovani nobili in carrozza avrebbero commentato a voce alta che la vecchia Sei Shōnagon si era ridotta proprio male. La donna, udendoli, aveva sollevato la sua cortina di bambù, scoprendo la sua figura simile a quella di un orribile demone e aveva risposto: “Dunque non comprereste le ossa di uno stallone?”. Le sue parole si riferiscono a un antico racconto cinese che narra di un re che vorrebbe comprare il miglior stallone del regno e affida mille monete d’oro a un suo servo. L’uomo ne spende la metà per acquistare le ossa di un cavallo morto. Il sovrano inizialmente si adira con lui e chiede spiegazioni, al che il servo risponde che tutti i proprietari dei migliori cavalli del regno, venuti a conoscenza del fatto che il re aveva versato una tale somma di denaro per un cavallo morto, sarebbero senz’altro accorsi in gran numero per vendergli i propri destrieri. A quel punto il sovrano avrebbe potuto valutare di persona tutti i migliori cavalli del regno e acquistare il migliore sapendo di aver speso bene i suoi denari e così fu. La risposta di Sei Shōnagon dimostra, oltre alla sua profonda conoscenza dei testi cinesi, anche il suo eccessivo sfoggio di cultura, una caratteristica considerata poco elegante in una donna.
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L’opera In Le Note del Guanciale, Sei Shōnagon decise di immortalare solo i tempi felici a Corte, quelli in cui la famiglia di Teishi era al potere e nessuno aveva messo in discussione la posizione della giovane Imperatrice. Facendo così, Sei omise deliberatamente i particolari più drammatici degli ultimi anni di vita di Teishi e per questo ricevette forti critiche da un’altra grandissima scrittrice, sua contemporanea: Murasaki Shikibu. Tuttavia è sbagliato pensare a “Le Note del Guanciale” come a una cronaca diaristica ed edulcorata della permanenza di Sei Shōnagon a corte. È piuttosto una sorta di “Zibaldone”, un contenitore di testi eterogenei dove episodi di vita vissuta si intrecciano con considerazioni di ordine estetico, digressioni sulla poesia, sulle stagioni e sulle cose del mondo. Alcuni passaggi somigliano più ad appunti frettolosi scritti con l’unico scopo di fermare su carta dei pensieri fugaci. Ciò che caratterizza tutto “Le Note del Guanciale” è però riassumibile in una parola: “wokashi” (をかし). Questo aggettivo esprime l’emozione che ci colpisce quando qualcuno coglie un attimo, afferra al volo un’occasione e fa una battuta arguta. È quello che in francese chiamano “esprit”. È un umorismo sottile e arguto, mai banale, che nasce nel tempo di una scintilla. Per questo i toni del pennello di Sei Shōnagon sono allegri, a tratti sopra le righe, accompagnati sempre da un velo d’ironia. A distanza di mille anni dalla stesura de “Le Note del Guanciale”, riusciamo ancora a cogliere l’intenzione di Sei Shonagon di non prendersi troppo sul serio e la sua ricerca di una leggerezza non scontata, considerando che l’autrice narra fatti che, in verità, ebbero esiti tragici. Sei Shōnagon non nasconde i propri difetti: sa di essere una lingua lunga che ama i pettegolezzi, e non risparmia le descrizioni di quando si prende gioco (in modo più o meno malizioso) dei suoi contemporanei. Non ha peli sulla lingua quando si tratta di dire cosa le piace e cosa no, eppure è forse questa spontaneità che la rende ancora oggi una delle scrittrici più amate della storia del Giappone. In questo numero di Kotodama ho deciso di proporvi la traduzione di alcuni brevi spezzoni de “Le Note del Guanciale” in cui si parla del corpo. Corpo inteso come entità estetica, ma anche come involucro sofferente e fragile, tempio di contraddizioni, mezzo di salvezza. Un bel viso, infatti, può spalancare le porte del Nirvana, mentre una fanciulla di bell’aspetto che soffra di mal di denti può costituire uno spettacolo curioso e inusuale. Esiste già una traduzione integrale de “Le Note del Guanciale” a cura di Lydia Origlia e edito da SE e ci tengo a precisare che il mio tentativo non è che il frutto di un mio passatempo personale e della volontà di introdurre questa opera ai lettori di Kotodama. Segnalo una differenza importante tra il brano 173 nell’edizione SE e la traduzione che 13
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vi proponiamo in queste pagine: nell’edizione SE, la capigliatura della donna riflette le luce lunare e dona vita a uno spettacolo talmente mozzafiato che l’amante se ne va via in silenzio, incapace di formulare una frase di senso compiuto. Tuttavia, a causa dell’ambiguità del testo originale, è possibile ipotizzare un’altra lettura, più calzante con la personalità irriverente di Sei Shōnagon. Brani tratti liberamente da “Le Note del Guanciale” I maestri predicatori che leggono i sutra dovrebbero avere un bel volto. A forza di fissare i loro lineamenti, ciò che insegnano ci sembrerebbe ancor più prezioso. Al contrario, un predicatore brutto lo si finisce per guardare solo di sfuggita e in un battito di ciglia ci si dimentica di prestare attenzione a ciò che spiega; per questo motivo, ad ascoltare le prediche di un maestro dal volto detestabile sembra quasi di commettere un peccato. Forse dovrei fermarmi qui e non proseguire oltre... Quand’ero un po’ più giovane ho scritto un sacco di cose peccaminose ma, con l’età che ho adesso, le punizioni divine hanno cominciato a farmi una gran paura. (Brano 31, prima parte)
Cose di un volto che suggeriscono profonda commozione: un naso che cola, una voce che parla interrotta continuamente dal rumore di una soffiata di naso; l’espressione di quando ci si strappano le sopracciglia*.
(Brano 81)
* Nel Periodo Heian, era usanza che le donne si depilassero le sopracciglia e che le ridisegnassero, più grandi e più scure, in mezzo alla fronte.
Una volta, in un certo posto, un tipo che non si poteva dire di buona famiglia ma che tutti ritenevano al passo con i tempi, sensibile al fascino delle cose, si recò presso una tale Principessa-qualcosa. 14
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Era il nono mese, e nel cielo chiaro dell’alba restava, offuscata da una nebbia spessa, una luna bellissima e luminosa. Volendo far rivivere ciò che restava di quell’incontro notturno alla donna, l’uomo le disse addio spendendosi in mille parole, tanto che la donna, ormai convinta che se ne stava andando, lo salutò da lontano e non c’erano parole per descrivere quanto fosse bella e raffinata in quel momento. L’uomo, che aveva finto di uscire di casa, tornò sui suoi passi e si nascose all’ombra degli scuri, senza riuscire ad andarsene, e stava giusto per dire un’ultima parola d’addio all’amata quando, udendola bisbigliare i versi “nel cielo dell’alba resta ancor la luna”, la sbirciò attraverso una fessura tra le assi e vide che i suoi capelli non erano più fissati sulla sua testa ma le erano scivolati davanti per circa quindici centimetri e splendevano come lumi accesi, mentre la luna non faceva che aumentarne la lucentezza. L’uomo, che era rimasto sconvolto, se ne andò senza proferire parola. Così mi hanno raccontato, almeno. (Brano 173) Le malattie vengono: con dolori al petto; a causa di spiriti maligni; agli arti inferiori. Possono manifestarsi, inoltre, con la semplice mancanza di appetito. È affascinante vedere una ragazza sui diciotto, diciannove anni, con capelli splendidi e curatissimi che le scendono giusto fino ai piedi, folti e morbidi anche all’altezza dell’orlo della veste, bella grassa, di carnagione candidissima e con un volto adorabile un’autentica bellezza, insomma - che sia afflitta da un atroce mal di denti e che abbia le ciocche di capelli al lato del volto completamente intrise di lacrime, il volto tutto rosso e se ne stia seduta premendo il punto che le duole. Nell’ottavo mese, una donna elegantissima, con indosso una veste sfoderata bianca molto raffinata, abbinandola con gran gusto a degli hakama e sfoggiando in modo impeccabile una sopravveste color lilla, soffriva tremendamente al petto. Andarono a trovarla tantissime dame di compagnia sue amiche, e anche tanti giovani rampolli di buona famiglia si recarono in visita. Qualcuno commentava con frasi di circostanza come: “Che dispiacere! Soffre sempre così tanto?”. Era divertente vedere come uno di questi giovani, che era innamorato della donna, dentro di sé fosse in gran pena e non smettesse di sospirare. Anche la figura di lei, con i capelli perfettamente legati, che si alzava a sedere e diceva di dover vomitare, era toccante. Poiché quando l’Imperatore aveva saputo della faccenda aveva provveduto ad inviare dei monaci dalla bella voce per la lettura dei sutra, intorno alla donna erano state disposte delle cortine per consentire ai religiosi di passare. La casa era piccolissima, e poiché le persone in visita erano molto numerose, le figure delle dame che ascoltavano i sutra, impossibili da nascondere del tutto, sbucavano da dietro le tende. I monaci lanciavano loro continui sguardi mentre recitavano i sutra, e non c’è dubbio che così facendo si siano guadagnati molte punizioni divine... (Brano 181) 15
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Il festival delle stelle a cura di Giulia Licciardello tempo di lettura 3’
Due innamorati separati, desideri da affidare alle divinità e una serata di festeggiamenti per sconfiggere la calura estiva. Il Tanabata (七夕) Matsuri è una festa tradizionale giapponese, forse la più conosciuta in Occidente, ed è la notte perfetta per i sognatori. Quante volte in un anime avete visto una puntata in cui i protagonisti si recano a un matsuri estivo con indosso colorati yukata dove giocano al kingyo sukui (il gioco dove bisogna raccogliere i pesci) e creando situazioni romantiche e imbarazzanti? Il mio primo ricordo del Tanabata matsuri è legato a Ranma ½, quando a casa Tendō giunge la principessa Ori (Orihime) che Ranma e Akane aiuteranno a far ricongiungere con il fidanzato, Keiju (Hikoboshi). Sono entrata a contatto con la maggior parte della cultura giapponese tramite questo anime, ma questo episodio e questa festa mi sono entrati subito nel cuore, portandomi a ricrearla e festeggiarla a mia volta quando possibile. La leggenda a cui sono legate le origini, come altre storie popolari, è molto apprezzata in Giappone per il suo romanticismo con una forte vena malinconica. Le origini della festa Il Tanabata, letteralmente “settima notte”, si celebra la settima notte del settimo mese secondo il calendario lunare, perciò la data varia ogni anno. La festa ha origini cinesi, dove viene celebrata col nome di festa di Qixi, e risale alla dinastia Han (206 a.C.) e successivamente viene esportata in diversi Paesi, tra cui il Giappone. In Giappone arriva nel 755 e diventa Tanabata, un festival estivo fatto di decorazioni, colori, bancarelle di strada, lanterne, parate e atmosfere romantiche che prende piede soprattutto a partire dall’epoca Edo. 18
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L’aspetto più iconico della festa sono sicuramente i tanzaku 短冊, delle strisce di carta colorata su cui vengono scritti dei desideri da appendere ai rami di bambù, sperando che Orihime li legga ed esaudisca, e molti innamorati chiedono fortuna in amore, ma in tempi recenti anche nello studio. La leggenda La leggenda fa parte dei miti che spiegano i fenomeni naturali, infatti si basa sulle stelle Vega e Altair divisi dalla Via Lattea. Le due stelle sono i protagonisti della storia, rispettivamente la tessitrice Orihime, figlia del sovrano del Cielo, e Hikoboshi, un guardiano di buoi. Orihime tesseva splendidi arazzi con i colori del cielo, quando una sera d’estate restò incantata dal suono melodioso di un flauto. Seguendo la musica, incontrò il giovane Hikoboshi sulla sponda del fiume, dove il mandriano si riposava dopo una giornata di lavoro. I giovani così iniziarono a suonare e cantare insieme, decisi a incontrarsi ogni giorno. Dopo tanti incontri, i due si innamorarono, e quando decisero di sposarsi l’abito cerimoniale della principessa era così bello e luminoso da far brillare anche gli occhi di coloro che la guardavano dalla Terra. A causa del loro amore, però, i due giovani smisero di adempiere ai loro doveri, finendo per oscurare il cielo e lasciando pascolare i buoi per tutto il regno celeste. Il sovrano del Cielo, così, dovette punire gli sposi, separandoli. Orihime su una sponda del Fiume Celeste (la Via Lattea) e Hikoboshi sull’altra. Gli innamorati ripresero i loro compiti, ma profondamente addolorati, e il sovrano del Cielo, impietosito dalla figlia, decise di farli ricongiungere un giorno all’anno, il settimo del settimo mese. Quel giorno, uno stormo di gazze forma per i due sposi un ponte, così da permettere loro di incontrarsi di nuovo. Il tropo degli innamorati separati (o star-crossed lovers) non è cosa recente e si ritrova in molte storie popolari sia in Oriente che in Occidente (basti pensare alla tragedia di William Shakespeare, Romeo & Giulietta, emblema di questo tropo letterario), ma rimane molto gettonato anche tra gli autori contemporanei. Una storia travagliata dove tutto va contro gli eroi, ma che alla fine riescono a stare insieme, vincendo le difficoltà e dimostrando che nonostante 19
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gli ostacoli l’amore prevale sempre. Sarà per questo che la festa è così apprezzata dai giapponesi? Si dice infatti che chi scriverà il proprio nome insieme a quello della persona amata su un tanzaku, durante il Tanabata, resterà insieme a quella persona per sempre, come dono di Orihime. Se sia vero non è possibile saperlo, ma l’atmosfera è così magica e suggestiva che è impossibile non sperarci almeno un po’.
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Manga Café
Perché nei manga le persone hanno gli occhi enormi? a cura di Donatella Principi
tempo di lettura 3’
Una caratteristica propria del manga è la sua immediatezza: è fatto per essere letto e fruito velocemente per cui è molto importante il linguaggio non verbale. Il corpo assume un ruolo fondamentale ai fini della comunicazione, anche se a volte non ce ne rendiamo nemmeno conto. Il manga non si pone come obiettivo quello di rappresentare in maniera realistica la realtà, ma il modo in cui noi la viviamo. Jean-Marie Bouissou sostiene che a differenza dei fumetti europei o americani, che richiedono che si legga e si osservi molto, i fumetti giapponesi cercano di “far sentire”. È dunque molto importante che le immagini stabiliscano un collegamento il più diretto possibile con il lettore e che comunichino con immediatezza anche gli stati d’animo. L’uomo tende a proiettare se stesso in quello che vede e a ricondurre qualsiasi disegno a un volto o a 21
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un forma umana. Come dice Scott McCloud: noi umani siamo una razza egocentrica, la nostra mente è capace di prendere un cerchio, due punti e una linea e trasformarli in un volto. Questo permette l’identificazione fra noi e una figura bidimensionale che vediamo su carta. Tezuka Osamu, il dio del manga, fornì delle linee guida per disegnare manga mostrando, ad esempio, una gamma di espressioni facciali efficaci da poter inserire nel fumetto. Una rappresentazione più o meno universale in cui chiunque potesse riconoscersi e che si rifà alle maschere del teatro kabuki. Gli attori infatti esasperavano le emozioni e questa caratteristica è stata ripresa poi dal manga. Quando si pensa allo “stile manga” una, forse la prima, caratteristica che ci viene in mente sono gli occhi. Tezuka fu anche uno dei primi a capire l’importanza dell’immedesimazione e a disegnare i suoi personaggi con occhi grandi. Inizialmente questa era una necessità pratica perché utilizzando un solo pennello, come era uso in origine, c’era il rischio che l’inchiostro si espandesse oltre gli occhi. In seguito vennero sfruttati gli occhi grandi anche per il loro potere comunicativo. Nella vita di tutti i giorni tendiamo molto a soffermarci sugli occhi e la bocca delle altre persone, sono due particolari importanti nella comunicazione verbale e non. I mangaka hanno sfruttato proprio questi elementi per riuscire a trasmettere ai lettori i sentimenti dei loro personaggi costruendo un ponte (o una connessione) di empatia. In linea generale possiamo notare come nei manga i volti siano spesso minimali e semplificati per permetterci di immedesimarci o di vedere in quei tratti qualcosa di familiare. Al contrario gli occhi sono grandi e particolareggiati poiché, come si dice spesso, sono lo specchio dell’anima e dei sentimenti. Proprio per la loro importanza su carta molto spesso i volti dei personaggi vengono deformati assumendo una forma, come quella a triangolo, che faciliti l’inserimento degli occhi.
Nel fumetto giapponese l’aspetto esteriore ha un ruolo decisivo per comunicare senza parole molte informazioni 22
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Dalle sembianze di un personaggio possiamo subito capire la sua indole e il suo carattere, se nella storia avrà un ruolo positivo o negativo e così via. Se infatti per ricercare empatia i protagonisti, il più delle volte, hanno volti ben puliti e privi di particolari, gli antagonisti hanno tratti più realistici per enfatizzare l’estraneità rispetto al lettore. Gli autori possono inserire poi una serie di piccoli elementi utili a fornire maggiori dettagli al lettore circa, ad esempio, la sua nazionalità o la sua età. Quante volte vi è capitato di sorridere di fronte alla stravagante capigliatura di un personaggio? Ebbene, anche i capelli fanno la loro parte: dal momento che i volti dei personaggi sono appena abbozzati, molti fumettisti ricorrono all’hairstyling per distinguere i vari protagonisti dei loro fumetti.
Queste sono tutte piccole sfumature a cui non si presta sempre attenzione, ma che ci arrivano immediatamente come informazioni importanti senza bisogno di analizzarle. I personaggi dei manga possono sembrare tutti uguali, con gli stessi tratti e le stesse fisicità, ma diversamente ci risulterebbe difficile immedesimarci e andrebbe a mancare una caratteristica cardine di questo medium. La grande forza del fumetto risiede anche nell’universalità del linguaggio visivo perché grazie a quelle linee semplificate su carta ognuno di noi è in grado di leggerci qualcosa, di vedere se stesso e la realtà che lo circonda.
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Tsuyu
Il corpo come natura in bilico. Jisei, «poesie dell’addio» a cura di Damiana De Gennaro tempo di lettura 3’
«Jisei si chiama in giapponese l’ultima poesia, quella composta quando il mondo attorno comincia, silenziosamente, ad allontanarsi e si resta soli con se stessi di fronte al passo più difficile», scrive Ornella Civardi nella postfazione del volume da lei curato Jisei, Poesie dell’addio Nell’ambito della poesia giapponese premoderna, è piuttosto insolito imbattersi in versi che affidano al corpo la propria espressione. Il codice delle immagini classiche prescrive infatti un lessico di fiori, piante e animali, che si alternano nel ritmo circolare delle stagioni. Cicale e oche selvatiche; fiori di pruno e garofani; o ancora pini e alberi di cedro, sono parole di gran lunga più frequenti in confronto a mani, schiene o ginocchia. Per chi volesse approfondire, il recente volume La natura in versi (Giuseppe Giordano, Ariele, 2021), raccoglie nella forma di un dizionario la straordinaria varietà di flora e fauna che costituisce il canone della poesia giapponese classica. Il corpo del poeta, schermato dall’elemento naturale o dalla manica di una veste, solo raramente affiora in superficie. La rimozione del dato fisico si può in parte attribuire alla tradizione confuciana, che relega il corpo e i suoi umori all’ambito delle impurità. Anche la cultura occidentale, del resto, ci ha abituati a qualcosa di simile: il corpo inteso come accessorio corruttibile dell’anima. Nel Fedro, per esempio, Platone immagina l’anima come una biga alata. L’auriga, che rappresenta la ragione, deve condurre due cavalli: uno bianco e l’altro nero. Quando l’anima è perfetta e dotata di ali, vola in alto e governa tutto il cosmo; ma quando perde le ali, è trascinata in basso fin quando non riesce ad afferrare qualcosa di solido, nel quale stabilisce la propria dimora. Il corpo terrestre, grazie alla potenza dell’anima, dice Platone, sembra muoversi da solo. Il binarismo corpo-anima, l’impurità opposta all’ideale a cui ci hanno abituato le tradizioni occidentali come quelle orientali, è forse superato in due momenti: quello in cui si ama e quello in cui si muore. Mi sembra che queste siano le occasioni che permettono al corpo di entrare con una certa naturalezza, sin dall’antichità, in una delle tradizioni poeti24
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che più rigidamente codificate. «Jisei si chiama in giapponese l’ultima poesia, quella composta quando il mondo attorno comincia, silenziosamente, ad allontanarsi e si resta soli con se stessi di fronte al passo più difficile», scrive Ornella Civardi nella postfazione del volume da lei curato Jisei, Poesie dell’addio (SE, 2017). I poeti, in bilico tra il distacco dal mondo e il piacere di vivere, dischiudono così un desiderio estremo, che sembra rilassare i contorni dell’io, del corpo.
Che malinconia se penso alla fine, il mio corpo sopra i prati in rigoglio sfumare in nebbia sottile. Ono no Komachi Primo periodo Heian (900 circa) A mani vuote sono venuto me ne vado a piedi nudi, la partenza e l’arrivo confusi in un unico segno. Kozan Ikkyō Dodicesimo giorno del secondo mese del quindicesimo anno Shōhei (1360) Apro gli occhi e ha il colore dei sogni l’iris d’acqua. Shūshikijo Diciannovesimo giorno del quarto mese del decimo anno Kyōhō (1725)
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Gusci di cicala, nudi come siamo venuti così ce ne andiamo. Tachiba Fukaku Ventunesimo giorno del settimo mese del terzo anno Hōreki (1753) Un filo di moccio, l’ultima luce prima del buio sulla punta del mio naso. Akutagawa Ryūnosuke Ventiquattro luglio del secondo anno Shōwa (1927) A luce spenta di soppiatto s’insinua al mio fianco, ed è quasi un piacere ora farci amicizia. Nakajō Fumiko Tre agosto del ventinovesimo anno Shōwa (1954)
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Intervista
Yuriko Tiger e Ere: intervista a Eleonora Guglielmi tempo di lettura 8’
“Per quanto sembrino cose di secondaria importanza, la missione degli abiti non è soltanto quella di tenerci caldo. Essi cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi, e cambiano noi agli occhi del mondo. […] Così si potrebbe sostenere con qualche ragione che sono gli abiti che portano noi, e non noi che portiamo gli abiti; noi possiamo far sì che essi modellino per bene un braccio, o il petto, ma essi modellano i nostri cuori, i nostri cervelli, le nostre lingue a piacer loro” Virginia Woolf, Orlando Tra i vari fenomeni contemporanei, il cosplay è controverso: popolare tra gli appassionati, quasi invisibile per il mondo della cultura ufficiale, è oggetto di derisione da parte di chi non ne è attratto. Combina diversi elementi: moda, recitazione, talvolta il lavoro artigianale. Da un punto di vista psicologico, è interessante: indossare panni altrui per mostrare aspetti sommersi dell’identità. Così, quella che per tutti è la tipica secchiona, può rivelarsi la sensuale eroina di un fumetto, e viceversa. Qualcuno riderà alle sue spalle, qualcun altro 28
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la crederà fuori di testa, ma il travestimento la renderà più paradossalmente simile all’idea che ha di se stessa. Forse è esagerato dire che i personaggi interpretati proiettano come in un prisma le diverse possibilità della persona che era, che è diventata? Spesso protagonista nell’ambito di eventi e spettacoli televisivi, Yuriko Tiger ha conquistato il pubblico calandosi nei panni di personaggi di manga, anime e videogiochi, interpretando con carisma le varie personalità. Si potrebbe pensare che Yuriko stessa
sia un personaggio inventato per riflettere come uno specchio i colori di altri personaggi. Yuriko, dunque, è prima di tutto un’interpretazione. Una performance in una performance. È fantastico, è post-moderno. Ma non è detto che i rischi e le incertezze non colgano il percorso scintillante di questa ragazza, Eleonora, che da diversi anni vive e lavora a Tokyo e ha fatto del cosplay la sua professione. Ciao Eleonora, benvenuta su Kotodama. Iniziamo con le domande ‘semplici’. Cosa esprime Yuriko, dentro di te? Ci racconteresti come è nata?
vano i propri, ma non li comprendevo. Volevo fare qualcosa che fosse piaciuto per prima a me stessa per poi ispirare gli altri. Così, in assenza di amicizie, creai Yuriko a 10 anni. Nella mia testa era tutto ciò che non ero ai tempi. Quando hai capito di voler fare del cosplay il tuo lavoro e trasferirti in Giappone? Non sapevo nemmeno se fosse possibile o no lavorare come cosplayer, però volevo farlo. Avevo intuito che in Italia sarebbe stato difficile, ma in Giappone avrei avuto una minima possibilità di successo.
I primi anni in Giappone sono stati un po’ come uno shock per me. Da una parte ero al settimo cielo per aver realizzato i miei sogni, dall’altra però ero come chiusa in una gabbia.
Yuriko Tiger per me esprime un sogno, una fantasia, la gioia. Non avevo particolari idoli, da piccola. Tutti ave-
Credo che, in fondo, chiunque voglia fare della propria passione un lavoro, quindi penso l’idea sia germogliata proprio nei miei primi anni da cosplayer. L’idea di andare in Giappone però l’ho avuta fin da piccola, ho solo cambiato i miei piani lavorativi. 29
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In Italia, nonostante una certa disapprovazione da parte dell’opinione pubblica, le fiere del fumetto sono un fenomeno in costante crescita. Quali sono le differenze che hai percepito tra le convention italiane e quelle giapponesi, come ad esempio il Comiket e il World Cosplay Summit? Il Comiket e il WCS sono eventi completamente diversi. Il Comiket è un evento di Doujinshi, ovvero anime/manga e prodotti amatoriali legati alla pop culture giapponese, e c’è anche il cosplay. Il WCS invece, che si svolge a Nagoya, è stato proprio il primo evento cosplay ad aver ospitato cosplayer da tutto il mondo e ha creato la prima gara mondiale di cosplay. Tra i due, sono molto legata al WCS. Da piccola, passavo le nottate ogni estate ad aspettare questo evento in streaming. Ai tempi su Nico Nico Douga, un sito solo in giapponese e difficile da utilizzare. Sventolavo la mia bandierina italiana in camera da sola dicendo “Forza Italia!”. Una tifosa di calcio probabilmente avrebbe riso un sacco guardandomi. La qualità dei cosplayer nelle gare era altissima e si poteva notare un gran lavoro di squadra. Uno dei miei sogni era parteciparvi ma non ho mai trovato un partner adatto e le mie abilità di cucito non sono proprio le migliori. Arrivata in Giappone, venni chiamata come ospite e presentatrice. Anche l’anno scorso con il WCS ONLINE. In un modo o nell’altro, sento di aver 30
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realizzato questo sogno. Il Comiket, che invece si trova a Tokyo, ha un non so che di mistico. Ogni cosa sembra sia consentita, anche le più erotiche. Molte cosplayer partecipano con l’obiettivo di farsi fotografare e diventare famose su internet. Nelle varie zone del Comiket si possono trovare diverse tipologie di cosplayer: le ero-cosplayer, i pro-cosplayer, i meme-cosplayer, le ninki-cosplayer... Purtroppo gli episodi scomodi sono più di quelli positivi perché si raduna davvero tanta, troppa gente. Si perde facilmente il controllo delle regole, così. Ho avuto però l’opportunità di intervistare i creatori del Comiket e capire anche i loro diversi punti di vista. La mentalità, in breve, è molto chiusa. Altri eventi non sono nemmeno paragonabili al nostro Lucca Comics & Games. A differenza del WCS, non è un evento che consiglierei a un occidentale. Per questo numero di Kotodama abbiamo selezionato il tema del corpo. Un problema che ci sta a cuore è quello de #CosplayIsNotConsent. Tu che ne pensi al riguardo? In Giappone non se ne parla molto ma penso sia un tema importante che ha bisogno di attenzione anche qui. Nella vita bisogna imparare prima di tutto ad avere rispetto per gli altri ed evitare giudizi affrettati.
Il tuo stile personale richiama l’estetica punk di Vivienne Westwood, e più in generale si avverte il tuo stretto legame a Nana, il celebre manga di Yazawa Ai. Ci parleresti di queste tue fonti di ispirazione? Qualche anno fa ho iniziato a notare che le mie opere preferite avevano sempre due lati. In Nana, per esempio, le due protagoniste hanno lo stesso nome ma sono completamente diverse. Tra i videogiochi, in Life Is Strange, la dinamica è simile. Nel campo cinematografico Kamikaze Girls, uguale. Una parte dolce e femminile si oppone sistematicamente ad una irriverente e punk. Io stessa, allora, mi sono domandata se non avessi una sorta di doppia personalità. Ho riguardato Nana in Giappone e, vedendo quanto Vivienne Westwood andasse di moda ai tempi, grazie a KERA e Fruits, due famose riviste di moda alternativa giapponese, è di-
ventata subito tra le mie serie preferite. I primi anni in Giappone sono stati un po’ come uno shock per me. Da una parte ero al settimo cielo per aver realizzato i miei sogni, dall’altra però ero come chiusa in una gabbia, lontana dai miei genitori e senza nessuno di fidato vicino. Quando mi sentivo triste andavo in un café di Shibuya per guardare una puntata di Nana mentre mangiavo. Stranamente, mi tirava su di morale. La mia mania è esplosa dopo un episodio un po’ drammatico della mia vita, che mi ha portato a diventare molto simile alla Nana punk. Così è nata Ere. Può capitare che il personaggio, nel tuo caso Yuriko, cresca a tal punto da rompere gli argini della performance, finendo per straripare nei territori più intimi nell’identità. Ti è mai capitato di ribellarti alla tua stessa creazione? È strano che qualcuno mi faccia questa domanda ma inizio a pensare che si noti. (Ride) Una delle ribellioni è stata proprio Ere, la mia personalità punk. Ere è stata come un autosabotaggio per Yuriko. Qualcosa aveva iniziato a starmi stretto e volevo ribellarmi.
La mia mania è esplosa dopo un episodio un po’ drammatico della mia vita, che mi ha portato 31
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a diventare molto simile alla Nana punk. Così è nata Ere. Quale miglior modo se non con il punk. Yuriko Tiger è stata creata per un pubblico puramente giapponese, ma che si divide con quello Italiano. A differenza dell’Italia, in Giappone non posso essere me stessa. Proprio perché un personaggio deve restare tale... ma ho voluto comunque sperimentare, in parte fallendo o vincendo, a seconda del punto di vista. C’è ancora qualcosa che mi vuole far staccare da Yuriko. Lo sento da diversi anni ma sto cercando di conviverci e di controllarla. Spesso, anche nella vita reale, non mi accorgo di quando lo divento. Sono gli amici più stretti a farmelo notare! “Ora stai facendo un po la Tigra”, è divertente ma a volte anche confusionario. Rischio sempre di fare cose perché piacerebbero di più a Yuriko che a me stessa. A proposito di speranze e sogni, quali sono i tuoi progetti per il futuro? Per hobby sto creando una band, anche se la pandemia rende tutto più difficile. Il progetto sta procedendo perché ormai erano due anni che volevo provare! È fantastico entrare in un mondo completamente diverso dal proprio. Per il futuro, vorrei vivere nel virtuale e dedicarmi di più a piattaforme di streaming e creare magari un altro personag32
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gio, indipendente da Yuriko. Sto avviando anche una rubrica interessante su YouTube chiamata TOKYONESE, insieme alla mia amica Sara Waka. Dopo i trent’anni immagino che la mia immagine cambierà ancora, la renderò più adulta e professionale. Yuriko, intanto, continuerà a esistere online. Ovviamente questa è solo un’idea. Spero di tornare presto a un evento in Italia. E non vediamo l’ora di riaverti qui! Grazie per averci dedicato il tuo tempo e aver condiviso con i nostri lettori i tuoi pensieri. Ti auguriamo il meglio per il futuro!
Eleonora Guglielmi, in arte Yuriko Tiger, è una cosplayer, modella e attrice italiana che dal 2008 vive e lavora in Giappone, a Tokyo. La sua carriera inizia da cosplayer ma inizia presto a ricoprire altri ruoli come quello di idol, attrice, doppiatrice, presentatrice e modella per le emittenti giapponesi e negli eventi di promozione. Da qualche anno, oltre a Yuriko Tiger, esiste anche Ere, la personalità più punk di Eleonora.
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日本のホント
Altri tipi di corpi a cura di Guendalina Fanti
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Giappone e Italia, tra realtà e idealizzazione. Come convivere al perenne confronto? Paese che vai, corpo che trovi. Preparatevi a mettere in discussione tutto quello che avete sempre ritenuto la vostra normalità e aprire un occhio verso un altro tipo di bellezza. Quando mi sono accorta che quello che vediamo non è lo stesso da Paese a Paese? Eh, sì, qui le cose sono diverse. La prima volta che sono venuta in Giappone, ad agosto, ero ben armata di canottierine leggere e svolazzanti, oc36
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chiali da sole e un vestitino scollato dietro da mettere la sera. Mi sono resa conto presto che non era l’outfit adatto, ma nonostante ciò quando ho fatto la valigia per il mio trasferimento in Giappone ho rincarato la dose con completi per “andare a ballare”, short e rossetti multicolore. Ma siamo in Giappone: un altro fusoorario, un’altra lingua, un’altra cultura con altri gusti, mode e canoni estetici. Visto che l’estate si avvicina, oggi ci tuffiamo nel mare dell’estetica e dei corpi del Giappone quotidiano. Prendete ma-
schera e boccaglio e seguitemi in questo snorkeling un po’ particolare… Iniziamo dalla superficie: lo stile. Ero al terzo anno di università, a Bologna, e avevo conosciuto una ragazza giapponese in scambio. Un viso dolcissimo, un corpo magro ed elegante. Passeggiavamo tra le vie del centro, stavamo andando a fare un aperitivo insieme quando un ragazzo passa in bici e le urla qualcosa sulla sua gonna. Non è stato niente di particolarmente scortese, ma la gonna giapponese di Yumi aveva attirato l’attenzione. Ma come era questa gonna? Era bianca, lunga fino alle caviglie e… fatta di strati di tulle! Quella moda in Italia sarebbe arrivata solo qualche anno dopo, così lei, con la sua nuvola di tulle svolazzante con sotto le sneaker, spiccava particolarmente tra noi studentesse in jeans e maglietta. Ora che sono qua, in Giappone, da qualche anno penso a quell’episodio e sorrido. Ogni giorno esco di casa e vedo ragazze con gli stili - per noi - più strani e improbabili. Le vedo con le t-shirt bianche sotto alle canottiere, con i sandali e i calzini sotto un abitino a fiori con le amiche a sbuffo, le vedo passeggiare con camicie oversize, borse a forma di gatto e zeppe di dieci centimetri e calzettoni con il pizzo. Le guardo e le trovo
molto carine. Poi mi guardo e penso che io non potrò mai essere carina come loro con quei vestiti: ho smesso di comprare abbigliamento in Giappone, perché non mi riesco a sentire a mio agio. Nonostante ciò (o forse proprio per questo) da quando sono qua ho assorbito molti dei loro standard, adattato il mio modo di vestire, rendendolo più “opportuno e omologato” alle usanze di qui, in modo da non sentirmi fuori posto o troppo diversa, o per non portarmi dietro l’immagine che spesso danno alle straniere, di essere vistose, con una forte personalità, alla moda e… facili. Così ogni volta che torno in Italia devo ribaltarmi la testa e il guardaroba! Ma vediamo insieme quale sia questa “omologazione”. Prendete un respiro dal vostro boccaglio e chiudete gli occhi e pensate: come siete vestiti oggi? Oppure visto che è estate… Quanto siete s-vestiti oggi? Braccia e schiene scoperte, scolli più o meno profondi sono una rarità qua. Si intravede la spallina del reggiseno? Oh mamma! Pantaloni a vita bassa? Visti raramente. In generale, la parte superiore rimane piuttosto coperta, mentre le gonne corte mi sembrano molto più in voga, in ogni stagione! Guardarsi intorno in Giappone apre il panorama su stili e su altri tipi di corpi. Ognuno cerca di valorizzarsi secondo i canoni estetici a cui ci si ispira. In generale le forme non sono accentuate, ma rese più morbide o nascoste, i colori pastello delle gonne, i sandali con 37
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il laccetto alla caviglia, gli accessori per i capelli luccicanti e il make up spesso va ingrandire, arrotondare l’occhio e ad addolcire il viso. I rossetti e gli smalti rossi che mi ero portata non li ho usati più di due volte. Non perché non si possa fare, ma perché inevitabilmente richiama sguardi e non sempre si ha voglia di riceverli. Diciamo che la tendenza generale è quella di non dare nell’occhio…
quotidiano. Questi posti sono i sento e gli onsen, degli spazi tipicamente giapponesi dove ci si spoglia completamente, ci si siede su un sgabello di plastica davanti a una doccetta e, dopo essersi lavati accuratamente il corpo, si scivola in vasche di acqua calda, o termale.
Continuiamo a esplorare, nuotando insieme nel mare dello stile, del corpo e dell’apparenza del Giappone quotidiano. Con la nostra maschera scrutiamo ogni piccolo particolare intorno a noi e poi, con un colpo di gambe, scendiamo in profondità. Abbiamo parlato dello stile e di come, anche in questo caso, si cerchi l’omologazione. Con il corpo, invece? Ammetto che spesso mi sono sentita diversa anche con il mio corpo. Questi fianchi, questo naso e questi capelli che… “Ma è davvero il tuo colore naturale?”. Se si guardano le campagne pubblicitarie, le modelle o i talent televisivi, si percepisce che a livello fisico si va verso un voler essere tutte uguali: frangia, capelli con le onde, depilate e… magrissime. Tant’è che all’inizio pensavo “ma sono tutte uguali!”, perché sì, i modelli delle ragazze che si vedono in tv, nei cartelloni, le commesse in divisa nei negozi o le signorine dei punti informazioni sono davvero tutte uguali. Ma ci sono posti invece che riallineano le cose e che ci regalano un punto di vista più realistico del Giappone, quello 38
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Questi posti sono generalmente divisi maschi e femmine e sono delle porte per un mondo senza finzione. Andando negli onsen ho capito che non esistono corpi tutti uguali. Anzi, sono (siamo!) tutti diversi ed è una normalizzazione della quale avevo bisogno. Negli onsen si è messi nella condizione di accogliere quello che siamo.
Ci si guarda allo specchio, ci si guarda un pochino intorno e si prende atto che il corpo non è quello che vediamo nelle locandine alla fermata della metro. Le ragazze non sono tutte delle bambole fatte con lo stampino, non ho mai visto un corpo o un viso uguale.
Bisogna piuttosto imparare ad accogliere il fatto che esista “un altro tipo di corpo”: la bellezza è in tanti posti diversi, che siano le mani con le dita affusolate della cassiera o la schiena un po’ ricurva di una signora anziana.
La nuotata che stiamo facendo insieme sta andando bene? Immagino siate un po’ stanchi, quindi ora ci prepariamo per tornare. Vorrei che da questa riflessione fatta insieme tornassimo a galla consapevoli. Raggiungiamo il pelo dell’acqua, ci sfiliamo maschera e boccaglio e prendiamo un respiro. Abbiamo visto come essere in un paese diverso ci faccia sentire diversi. Le mode, lo stile, il make-up. Ma non solo: gli standard di bellezza e i modelli a cui ci si ispira sono differenti. Gli occhi si abituano a un altro tipo di immagine e si inizia a percepire come strano il proprio corpo. Tutto questo confronto può lasciare spaesati, o almeno così è stato per me, ma la cosa bella è che non esiste una soluzione universale. Non esiste uno stile migliore, un corpo fatto meglio.
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Mostruosamente esilaranti: yokai e yurei nel teatro rakugo A cura di Dafne Borracci Tempo di lettura 7’
A cosa vi fa pensare l’estate? Al mare? Al gelato? Alle cene all’aperto? Se ponete questa domanda a un giapponese, è molto probabile che vi risponda: “alle storie del terrore”. In Occidente tendiamo ad associare mostri e fantasmi con le atmosfere lugubre e fredde dell’autunno inoltrato (complice anche Halloween e la festività di Ognissanti) e potrebbe sembrarci strana l’associazione di idee che fa andare la stagione più luminosa dell’anno con i racconti del brivido. Tuttavia, c’è una spiegazione molte semplice dietro tutto questo. A metà agosto, in Giappone, si celebra la festività di Obon: si tratta di circa cinque giorni in cui si crede che gli spiriti dei defunti escano dall’Aldilà e vadano a fare visita ai loro parenti ancora in vita. Si vocifera che durante l’Obon possa capitare di imbattersi in eventi paranormali di ogni tipo e ciò potrebbe aver contribuito a far associare l’estate alle storie di fantasmi. Un’altra motivazione è senz’altro la rapida diffusione delle malattie durante la stagione calda. In passato, quando le conoscenze mediche erano ancora molto limitate, in Giappone si credeva che le malattie venissero causate dall’influenza di spiriti maligni. L’estate giapponese è caratterizzata da un clima afoso, con temperature che sfiorano i quaranta gradi centigradi e tassi di umidità molto alti, e non è difficile credere che il caldo causasse l’abbassamento delle difese immunitarie e il proliferare di batteri, funghi e muffe nocivi per la salute. Condite il tutto con una sana dose di credenze e superstizioni e otterrete una stagione piena zeppa di fantasmi, spiriti e mostri pronti a tormentarvi. Ovviamente oggi in Giappone queste credenze sono state (forse?) ampiamente superate e si sa che quando ci viene un colpo di calore bisogna rivolgersi a un medico e non a un esorcista. Allora perché le storie del terrore continuano ancora a spopolare durante questa stagione? Beh, perché si dice che non ci sia niente di meglio che qualche sano brivido per scampare alla calura estiva! 40
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Il racconto del terrore, kaidan (怪談) in giapponese, è amatissimo dal popolo del Paese del Sol Levante da secoli! Si è sviluppato di pari passo insieme a una delle tradizioni folkloristiche di mostri, spiriti e fantasmi più ricche al mondo. Basti pensare alla varietà di termini che indicano creature soprannaturali: primi fra tutti gli yokai (妖怪), creature a metà fra mostri e spiritelli, a volte innocue, altre letali. Abbiamo poi i bakemono (化け物, ovvero i mutaforma, i mononoke (物の怪), spiriti malvagi che si divertono a possedere persone e oggetti, e infine gli yurei (幽霊), spettri di persone defunte che vagano ancora nel mondo dei vivi. Le leggende e le storie del terrore sono nate probabilmente per giustificare fenomeni naturali inspiegabili, ma anche piccoli misteri della vita quotidiana (un esempio alla portata di tutti: perché quando tiriamo fuori il bucato dalla lavatrice, qualche calzino è puntualmente disaccoppiato?), ma chissà, forse alcune storie hanno un fondo di verità... I primi kaidan comparvero già in epoca medievale, in raccolte di racconti brevi come ad esempio il Konjaku Monogatarishu (今昔物語集) ma fu nell’era Edo (1603-1868) che questo genere divenne veramente popolare. I kaidan finirono con l’ispirare opere di teatro kabuki, come ad esempio la storia del fantasma di Oiwa in “Yotsuya Kaidan”, romanzi quali “Racconti di Pioggia e di Luna” di Ueda Akinari e “La lanterna delle peonie” di Encho San’yutei, oltre a numerose stampe ukiyo-e. (mettere foto con titoli e artisti). L’approfondimento di oggi, tuttavia, riguarderà un genere teatrale molto particolare: il Rakugo. Si tratta di un monologo comico in cui l’unico attore in scena siede in ginocchio e racconta una storia divertente interpretando numerosi personaggi modificando la parlata, l’espressione del volto e le movenze delle mani. Gli spettacoli di Rakugo sono davvero esilaranti e viene da domandarsi come sia possibile mischiare comicità e racconti del terrore, eppure il repertorio dei cosiddetti “kaidanbanashi” (怪談噺, storie del terrore scritte appositamente per il rakugo) è vastissimo! In genere gli attori iniziano queste performance con un’introduzione che fa più o meno: «In questi giorni d’estate così afosi non si trova pace, allora ho pensato 41
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che non c’era niente di meglio di una bella storia del terrore per provare qualche brivido freddo!» Di seguito troverete la trama di due famosi kaidanbanashi. Purtroppo non saranno divertenti come gli originali, ma lasciano intuire molto bene lo humor tipico del rakugo! “La Villa dei Piatti” (Titolo originale: 皿屋敷, “Sara Yashiki”) Il signore del Castello di Himeji si era innamorato della sua serva Okiku, che però non lo ricambiava. Accecato dalla rabbia, aveva deciso di creare un’occasione propizia per farla fuori. Le aveva così affidato dieci preziosissimi piatti, sottraendone uno mentre la fanciulla dormiva. Quando poi le chiese di restituirglieli, le fece contare i piatti uno a uno per verificare che ci fossero tutti ma, come c’era da aspettarsi, ce n’erano solo nove. Okiku fu accusata di furto e venne annegata nel pozzo del castello. La notte seguente il signore del castello udì strane voci provenire dal pozzo. Uscì per controllare e scoprì che il fantasma di Okiku stava contando: «Un piatto... due piatti... tre piatti...» L’uomo rimase paralizzato dal terrore e quando Okiku arrivò a contare il nono piatto, il suo spirito vendicativo si scatenò contro il suo assassino uccidendolo. Passarono molti anni: lo spirito di Okiku usciva dal pozzo ogni notte per ripetere la sua macabra conta e uccidere chiunque si trovasse nei paraggi quando avesse pronunciato le fatidiche parole “Nove piatti... dov’è il decimo?”.
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Un uomo amante del brivido, una notte, si appostò vicino al pozzo e scoprì che Okiku, persino da morta, era un’autentica bellezza. Verso il sesto piatto se la diede a gambe e, una volta tornato in città, disse ai suoi amici che Okiku era la donna più bella che avesse mai visto. Dalla sera seguente, sempre più curiosi si recarono al pozzo per vedere il volto del fantasma e scappare appena in tempo per non essere ucciso. Nel giro di un mese, Okiku era diventata una star e gente da ogni dove andava a vederla. Una sera, Okiku ripeté la sua solita conta: «Un piatto... Due piatti... Tre piatti...» e così via. Avvenne tuttavia una cosa molto strana. Iniziò a contare in modo frettoloso, tanto che la gente, presa dal panico non riuscì neppure a scappare in tempo. «Nove piatti, dieci piatti, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette e diciotto! Contenti? Oggi ho contato anche i piatti di domani, perciò mi prendo un giorno di ferie! Com’è stancante essere una star!», e così dicendo sparì dentro il pozzo lasciando tutti con un palmo di naso. “Un’altra mezza” (Titolo originale: もう半分, “Mou hanbun”) C’era una volta una coppia di coniugi che gestiva un negozietto di sake. In questo negozio si poteva anche consumare il sake sul posto e uno dei clienti abituali era un anziano molto particolare. Entrava sempre chiedendo mezza coppa di sake e, dopo averla gustata, chiedeva sempre: «Un’altra mezza!», e si faceva ri-riempire la coppa fino a metà. I gestori del locale gli avevano chiesto perché non ordinasse direttamente una coppa intera e l’uomo aveva replicato che lo faceva per ingannare se stesso. Non aveva abbastanza soldi per due coppe, ma ordinando due volte aveva l’impressione di aver gustato più sake. Un giorno l’uomo se ne andò e dimenticò nel locale un fagotto. La coppia di gestori pensò che si trattasse del necessario per i bagni pubblici e si disse che l’uomo sarebbe senz’altro tornato sui suoi passi ma quando lo presero in mano realizzarono che pesava troppo per contenere un semplice asciugamano. Lo aprirono e scoprirono cinquanta monete d’oro scintillanti. I due si lasciarono tentare dall’avarizia e decisero di usare l’oro per loro e per l’ampliamento del locale. L’anziano tornò poco dopo nel locale chiedendo del fagotto e i gestori finsero di non saperne niente. L’uomo insistette:«Vi prego, quei soldi li ha guadagnati la mia povera figlia prostituendosi a Yoshiwara». I due non batterono ciglio, allora l’anziano se ne andò e, disperato, si gettò in un 43
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fiume e annegò. Qualche tempo dopo alla coppia nacque un figlio. Il neonato era pieno di rughe e la sua faccia era una copia inquietante di quella dell’anziano cliente. La moglie fu così spaventata da quella vista che le venne un colpo al cuore e morì all’istante. L’uomo si disse che prendersi cura di quel bambino era il contrappasso per ciò che aveva fatto all’anziano e decise di accudirlo a ogni costo. Chiamò varie balie, ma tutte o scappavano solo al vedere l’orribile esserino, oppure resistevano un giorno e poi se ne andavano. L’uomo un giorno chiese all’ennesima balia che presentava le dimissioni il perché di quel gesto. La donna gli disse: «Guardate voi stesso». Quella notte, il padre si appostò nella stanza accanto a quella dove dormivano il neonato e la balia e li spiò attraverso una fessura nella porta di carta di riso. Verso le due di notte, il neonato si svegliò e senza proferire parola, si mise in piedi e sgattaiolò vicino al futon della balia. Afferrò una ciotola in una mano, la brocca dell’olio per le lampade dell’altra, si versò dell’olio e poi lo bevve con aria soddisfatta. L’uomo balzò nella stanza e gridò: «Orribile vecchio, che stai facendo?» Il neonato per tutta risposta gli porse la ciotola e esclamò: «Un’altra mezza!»
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Le Olimpiadi “norowareta” – tra sessismo e bodyshaming
a cura di Sara Odri
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Il Ministro delle Finanze Tarō Asō le ha definite norowareta, maledette. Quelle di Tokyo del 1940 vennero annullate a causa della Seconda Guerra Mondiale; quelle di Mosca del 1980 furono boicottate dal Giappone come protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan; quelle del 2020, sempre a Tokyo, sono state rimandate causa Coronavirus. Per il Ministro Asō è un dato di fatto: quello delle Olimpiadi è un problema che si presenta puntuale ogni 40 anni. Questa volta però è diverso: John Coates, vicepresidente del COI (Comitato Olimpico Internazionale), conferma che i Giochi non verranno cancellati o ulteriormente rinviati, si faranno quest’estate con o senza virus.
Le olimpiadi definite norowareta, maledette. Eppure, sembra non esserci tregua. Gli incidenti e le morti sul lavoro, le accuse di plagio del logo, lo stato di emergenza prolungato, il divieto per i turisti stranieri di assistere, l’aumento (83%) dei cittadini giapponesi contrari allo svolgimento dei Giochi: tutto pare essere a sostegno dell’ipotesi della maledizione avanzata dal Ministro. 46
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Un anatema che ha creato più di uno scandalo negli ultimi mesi, andando a minare la credibilità dei comitati organizzativi delle Olimpiadi di Tokyo. Uno degli ultimi eventi che ha causato scalpore in Giappone e all’estero è stato quello delle dimissioni di Hiroshi Sasaki, ormai ex-direttore creativo delle Olimpiadi 2020. Sasaki, incaricato di gestire tutte e quattro le cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi olimpici e para-olimpici, ma la sua proposta non ha riscosso il successo sperato: l’idea di calare nello stadio una donna vestita di rosa, una messaggera olimpionica con delle orecchie da maiale si è dimostrata tanto ridicola quanto irrispettosa. Si era convinto che l’assonanza tra “Olympic” e “Olympig” celasse un irresistibile potenziale comico, ma si è ritrovato costretto Sasaki ad allontanarsi dall’incarico. Ciò che rende il tutto ancora più incredibile è che la donna che si sarebbe dovuta prestare alla scena è Naomi Watanabe, un’attrice e comica nonché attivista del movimento body positive in Giappone. Watanabe si è espressa in molte interviste sulla necessità di eliminare gli standard di bellezza tradizionale che ossessionano le donne giapponesi, criticando l’importanza che la società dà al peso e all’aspetto esteriore. È anche la fondatrice di Punyus, un brand di moda plus-size che ha come obiettivo quello di creare capi accessibili e rispettosi di ogni forma e taglia. Pare assurdo che un’idea così sminuente possa essere stata anche solo avanzata a una donna che ha fatto del proprio corpo una bandiera contro gli stereotipi. Watanabe stessa si è sorpresa della trovata di Sasaki, ammettendo che si sarebbe di certo rifiutata di partecipare alla cerimonia di apertura a queste condizioni. «Sono felice così come sono con il mio corpo» ha commentato l’attrice «Quindi, come sempre, vorrei continuare a esprimere me stessa come “Naomi Watanabe”, senza porre l’attenzione sul mio peso». Ha concluso poi aggiungendo che spera in un mondo in cui «l’individualità e il modo di pensare di ogni persona possa essere rispettato e riconosciuto».
�Sono felice così come sono con il mio corpo� Le dimissioni di Sasaki giungono in successione a quelle dell’83enne Yoshirō Mori, ex-presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo 2020, accusato di aver detto frasi sessiste durante una riunione del comitato olimpico. Il ruolo di Mori è stato poi assegnato all’ex-olimpionica Seiko Hashimoto che ha posto fin dall’inizio del suo mandato l’attenzione su inclusività e uguaglianza di genere. Rimpiazzare un uomo con una donna dopo delle semplici scuse non basta per archiviare l’incidente, eppure vedere una professionista come Hashimoto a capo del Comitato può rappresentare una piccola vittoria per le donne giapponesi. Il problema, però, resta: il fatto che a un mese di distanza due uomini ai vertici or47
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ganizzativi delle Olimpiadi siano stati costretti a dimettersi per sessismo non è forse sintomo della presenza di una mentalità dannosa all’interno della società giapponese? Risa Kamio, membro del Consiglio del quartiere Setagaya di Tōkyō, ha commentato i due episodi dicendo che si tratta solo della punta dell’iceberg, che la misoginia è molto più radicata in
Giappone di quanto sembri. Basti pensare che secondo il Global Gender Report 2021 del World Economic Forum, il Giappone è 120º su 156 nazioni quando si parla di parità di genere, 40 posizioni più in basso rispetto alla classifica del 2006. Che questi episodi siano frutto o meno di una maledizione come suggeriva il Ministro Asō, quello che queste Olimpiadi hanno reso palese è la mancanza di una discussione collettiva e costruttiva sul corpo delle donne e sul loro ruolo nella società giapponese. Per questo, organizzazioni no-profit come “No Youth No Japan”, fondata dalla studentessa e attivista politica Momoko Nojo, sono esempi lampanti di come le giovani donne giapponesi sentano sempre più la necessità di far ascoltare la propria voce, di combattere l’idea stereotipata che il Giappone ha di loro. «Negli Stati Uniti le donne forti sono cool» dice Mako Tanaka, membro dell’organizzazione, «in Giappone veniamo educate a essere ubbidienti». Insomma, la strada è lunga, ma le giovani generazioni giapponesi mostrano uno slancio diverso e sembrano decise a cambiare ciò che non va della società in cui vivono. Le discriminazioni basate sul genere, sulla religione, sulla nazionalità e sull’orientamento sessuale vanno contro quelli che sono i principi della Carta Olimpica: l’augurio è che questi valori inizino a essere esportati e rispettati non solo in onore di questa manifestazione sportiva, ma che diventino parte integrante di ogni società moderna.
“Negli Stati Uniti le donne forti sono cool, in Giappone veniamo educate a essere ubbidienti”
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Il linguaggio del corpo A cura di Giada Zaccardi Tempo di lettura 4’
Il corpo comunica, alle volte molto più delle parole. Ogni Paese ha la sua lingua e assieme a questa anche il suo modo di atteggiarsi dei corpi, sia individualmente sia nelle relazioni tra individui. Le abitudini legate alla comunicazione hanno origini antichissime, sia in Europa sia in Asia. Quello che intendo fare in questo spazio è confrontare le abitudini comunicative ed espressive tra Italia e Giappone. Per fornire degli esempi pratici, mi servirò di alcuni esempi del linguaggio corporeo. 49
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Il saluto In Italia ci si saluta con la stretta di mano in situazioni più formali, o al primo incontro, oppure con il bacio, quando il contesto è meno formale. Questi due gesti hanno origini lontanissime, il bacio sembrerebbe risalire almeno all’Impero Romano, mentre la stretta di mano sembra essersi diffusa prima tra i babilonesi (quindi prima in Oriente che in Occidente). La convenzione attuale, tuttavia, sembra esserci stata tramandata nell’Alto Medioevo, con il significato di piena fiducia verso l’altro: infatti dando la mano destra non ci si sarebbe potuti difendere (non si sarebbe potuti riuscire a sfoderare la spada). In Giapponese, invece, ci si saluta inchinandosi. Anche l’inchino (お辞儀, おじぎ ojigi) ha origini molto antiche e ne esistono di diversi tipi, più è profondo, più esprime rispetto per l’interlocutore. Sembra essere nato in Cina, come forma di rispetto, legato dapprima alla religione. Poi, si è diffuso come forma di saluto, di ringraziamento e di scuse. Sembra che l’origine del gesto fosse quella di porgere la testa all’interlocutore, mostrandosi indifesi, anche qui, dunque, come dimostrazione della massima fiducia verso l’altro. Trovo incredibilmente interessante la comune origine di questi due saluti, nonostante si tratti di popoli che si trovano da parti opposte del mondo, hanno trovato delle soluzioni protese a esprimere fiducia verso l’altro. Mi colpisce sempre come l’essere umano sia lo stesso, ovunque sia nato, ma anche quanto sia affascinante scoprire che ci sono molte possibilità diverse per esprimere la stessa emozione, non solo quella che già conosciamo.
La seduta Il modo di sedere che si lega al Giappone è una seduta a terra o su cuscini molto bassi, sulle ginocchia (正座, せいざ seiza). È nato con altri nomi, si è modificato nel tempo, ma poi è stato chiamato “seduta corretta” ed è rimasto nella tradizione. Tuttavia, sembra che l’origine della diffusione di questa seduta sia piuttosto recente (circa un secolo, in questa specifica variante) poiché nelle epoche precedenti, durante il regime militare, i guerrieri si sedevano in posizioni dalle quali fosse più facile difendersi qualora venissero attaccati. Infatti, alla diffusione di questo modo di sedere ha contribuito la cerimonia del tè. Nella stanza della cerimonia non potevano entrare armi e sedersi sulle ginocchia veniva considerato un modo per comunicare che non c’era intenzione di attaccare, e quindi di 50
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pace. Attualmente anche in Giappone sono diffuse le sedie e anche i tavoli alti e questo modo di sedere (dovuto all’arredamento) resta per situazioni molto formali o in ristoranti o case tradizionali. In Italia, invece, ci sediamo abitualmente su una sedia (o una sua variante), ma non è sempre stato così, infatti, fino all’Epoca dell’Impero Romano le sedute erano riservate a ceti nobiliari oppure al clero, mentre tutti gli altri si sedevano a terra. La diffusione della sedia come oggetto di uso comune, sembra essere dovuto a degli studi ortopedici tedeschi (databili intorno al 1800) secondo i quali sedersi su una sedia gioverebbe alla postura. Credo sia da notare che, anche se a occhi contemporanei sedersi a terra sembri lontanissimo, è senza dubbio la forma più spontanea e che ci è appartenuta per secoli e secoli, quindi non qualcosa di sconosciuto o incredibile. Forse anche in questo caso, ci ritroviamo ad esssere più simili di quanto avremmo pensato.
Il brindisi In giapponese al suono di 「乾杯, かんぱい kanpai」e in italiano a quello di “Salute!”. Il brindisi sembra avere la stessa origine. Nel Medioevo, sembra che l’alcol venisse considerato residenza del demonio e che lo si riuscisse a scacciare con il rumore dei bicchieri durante il brindisi. Inoltre, sembra anche volesse confermare che la bevanda non contenesse veleno, poiché brindando le gocce della propria bevanda finiscono nel bicchiere dell’altro e viceversa, quindi nuovamente un modo per infondere fiducia nell’altro. In Giappone, che il brindisi sia un’usanza relativamente nuova,
iniziata con i rapporti con gli USA. Poiché in America il brindisi era già diffuso, anche i giapponesi si trovarono inclusi 51
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in questa pratica, che poi conservarono. Ho pensato di proporre qualche esempio a confronto per evidenziare quanto c’è in comune nel linguaggio del corpo e nella gestualità anche se non sembra. Infatti, andando sino all’origine si può scoprire come alcune volte si tratti solo di soluzioni o idee diverse per esprimere le stesse emozioni, per l’esigenza di approssimarsi all’altro. Questo è un invito per voi a non fermarvi mai al primo sguardo, a non imbarazzarvi se qualcuno si avvicina o si allontana in modo diverso. Al contrario, esprimendo nel modo che sentite le vostre emozioni sarete sicuramente compresi, anche in Giappone, poiché il tipo di gesto ha senso in funzione della comunicazione, e non il contrario. Per finire, in questo numero ci tenevo a donare uno spazio all’interno di ことバー anche a chi ha appena iniziato a studiare giapponese, inserendo qui i nomi delle parti del corpo. Spero vi sia utile per memorizzarle!
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La Tribù delle Rose
Etichette di estetica nella comunità LGBT giapponese a cura di Loris Usai
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La cultura giapponese è un sistema di norme strutturate sulla base di una chiara dicotomia tra ciò che è “dentro”, uchi, e ciò che rimane “fuori”, soto, tra chi fa parte di un circuito interno, e chi viene collocato in un cerchio esterno, più distante dal nucleo. Si tratta di una distinzione tanto netta quanto fluida, poiché ciò che è interno e ciò che è esterno è definibile solamente in base al fulcro che prendiamo come punto di riferimento. Tutto ciò fa sì che quella giapponese sia una società modellata intorno al concetto di “esclusività”. C’è chi fa parte di un gruppo ed è interno a esso, e chi invece ne rimane fuori da quella categorizzazione in favore di un altro “recipiente”. La comunità LGBT giapponese non è estranea al meccanismo della categorizzazione interna, e fa della fisicità un ulteriore criterio per stabilire il diritto di appartenenza a un sotto-gruppo specifico. L’aspetto esteriore e la gestione individuale del proprio corpo, forniscono le basi per l’assegnazione di un’etichetta “fisica” sull’etichetta relativa alla sessualità. Se questo è vero per la comunità LGBT in tutto il mondo, in Giappone si raggiungono livelli di precisione e di rigore probabilmente sconosciuti in Occidente. Di seguito ho indicato alcune delle categorie più importanti, tanto nell’ambito dell’omosessualità maschile che di quella femminile (e un piccolissimo bonus su alcune terminologie transessuali) tramite cui i membri della comunità LGBT giapponese descrivono e identificano se stessi sulla base delle scelte che essi stessi operano in merito al proprio aspetto esteriore. Per ragioni di spazio la lista non poteva estendersi ulteriormente, ma le categorie esistenti non si esauriscono certo con questo elenco.
Gergo diffuso all’interno della comunità gay maschile Aniki 兄貴 Lett. “fratello maggiore”. Indica un tipo di gay “adulto”, anagraficamente e psicologicamente. Conforme allo stereotipo di maschio virile e protettivo, sia nell’aspetto fisico che nei modi di fare. In genere non utilizza termini, movenze o toni di voce considerati effemminati. 56
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Sujikin スジ筋 Lett. “muscoli muscolosi”. Indica una tipologia di uomo dal fisico asciutto, con una bassissima percentuale di massa grassa e una buona struttura muscolare con spalle larghe e addominali in evidenza. Nella maggior parte dei casi, si applica a chi pratica sport a livello regolare. Il termine è entrano in diffusione sulle pagine della rivista Barazoku all’inizio degli anni 90, come slang nato in contrapposizione ai fisici esageratamente prorompenti dei body-builder, per indicare la struttura fisica più definita e squadrata, meno “pompata”, tipica degli atleti. Sinonimo: surikin スリ筋. Imo-kei イモ系 Lett. “stile patata”. Indica un uomo dall’aspetto poco elegante, rozzo, dalla palpebra singola* e dalle sopracciglia folte. È sinonimo di persona dalla corporatura tozza e piazzata. Caratterialmente indica spesso una persona introversa, timida e “di basso profilo”. * Una delle caratteristiche per descrivere il volto della gente in Giappone è il numero di pieghe della palpebra (singola o doppia). La palpebra doppia è associata a un canone estetico più “occidentale”, mentre quella singola è sinonimo di un tipo di bellezza “yamato”, nativa giapponese. Ikanimo イカニモ Lett. “senza dubbio”. Indica uno degli stereotipi di fisicità più diffusi tra gli omosessuali giapponesi e prevede corporatura piazzata, capelli corti e barba. I gay ikanimo Indossano spesso capi di Abercrombie & Fitch, Canterbury of New Zealand, Ralph Lauren, Gap, Tommy Hilfiger, ecc. Alcuni accessori tipici sono il berretto, i jeans a vita bassa, camicia a quadri, scarponcini da lavoro, canottiera… Sinonimo: ikahomo イカホモ (contrazione di ikanimo homo, lett. = “senza dubbio omosessuale”)
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Ora-ora-kei オラオラ系 Lett. “stile forza forza”. Indica un uomo gay dall’aspetto sportivo, o che si veste in maniera tale, e che specialmente durante il sesso manifesti azioni e linguaggio tipici dei contesti sportivi. In genere ha un’attitudine energetica e tendente all’iniziativa. Debu デブ Lett. “grasso”. Indica una tipologia di uomo sovrappeso. Gachidebu ガチデブ Lett. “grasso robusto”. Indica una tipologia di uomo muscoloso ma al tempo stesso fornito di una notevole percentuale di grasso corporeo. Gachimuchi ガチムチ Lett. “grosso robusto”. Indica una tipologia di uomo dall’ossatura robusta e una bella corporatura con il giusto equilibrio di muscoli e grasso. È la contrazione di gacchiri mucchiri. Gacchibi ガッチビ Lett. “nano robusto”. Indica una tipologia di uomo di statura molto piccola ma muscoloso. Yurupo ゆるぽ Lett. “flaccido grassoccio”. Indica un uomo dal fisico morbido e rotondo, abbondante ma non eccessivamente, non abituato all’attività sportiva. Fuke-sen フケ専 Lett. “specializzato in anziani”. Indica gli uomini gay che provano attrazione solamente per altri uomini di età molto più avanzata. Oke-sen オケ専 Lett. “specializzato in botti”. Oke è l’abbreviazione di “kan’oke” ossia “bara”. Indica gli uomini gay che provano attrazione solamente per altri uomini di età talmente avanzata da essere prossimi alla morte. 58
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Saru-kei 猿系 Lett. “stile scimmia”. Uomo le cui sembianze ricordano vagamente quelle di una scimmia. per costituzione e forma del cranio. Tipicamente ha la palpebra singola, e i capelli schiariti o tinti di castano. Kuma-kei 熊系 Lett. “stile orso”. Uomo barbuto, peloso, in carne. Ōkami-kei 狼系 Lett. “stile lupo”. Uomo particolarmente peloso dalla corporatura media o magra. Saafaa-kei サ ーファー系 Lett. “stile surfista”. Stereotipo del surfista con capelli lunghi o di media lunghezza, la pelle più abbronzata della media e un fisico tonico e asciutto. Jani-kei ジャニ系 Lett. “stile Johnny’s”. Johnny’s net è un’agenzia di talenti fondata negli anni 60 che recluta giovani ragazzi maschi e li cresce affinché diventino “idol”, chiamati collettivamente “johnny’s”. Lo stereotipo di ragazzo “johnny’s” è magro o dalla corporatura asciutta, ha un volto pulito, una capigliatura folta e curata, lineamenti delicati. Gai-sen 外専 Lett. “specializzato in stranieri”. Si riferisce agli omosessuali giapponesi interessati solamente agli stranieri (e con stranieri, in questo caso, si intende quasi sempre cittadini stranieri non asiatici). Dare-sen 誰専 Lett. “specializzato in chi”. Indica quegli uomini gay che non propendono verso nessuna categoria specifica, e che sono interessati a qualsiasi tipo di fisicità.
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Gergo diffuso all’interno della comunità lesbica Suka-tachi スカタチ Lett. “attiva in gonna”. Indica una donna che nell’atto sessuale assume il ruolo attivo ma nella vita di tutti i giorni indossa la gonna (ossia veste abiti stereotipicamente femminili). Attualmente, per indicare questa tipologia di donna, viene preferito il termine femme-tachi (femme attiva). Zubo-neko ズボネコ Lett. “passiva in pantaloni”. Indica una donna che nell’atto sessuale assume il ruolo passivo ma nella vita di tutti i giorni indossa i pantaloni (ossia veste abiti più stereotipicamente maschili). È sinonimo di boi-neko (boy passiva). Danaa ダナー Lett. “marita”. Trae origine dal termine danna, ossia “marito”. Indica una donna fisicamente femminile ma che presenta una personalità spiccatamente maschile e si comporta di conseguenza. A volte indica anche identità transgender di donne che si identificano con il genere maschile. Questo termine si è diffuso tramite un sito di incontri specializzato nel matching di questo genere di profili. Chūsei 中性 Lett. “neutra”. Indica una donna il cui aspetto fisico non propende palesemente né sul versante di genere maschile né su quello femminile. Bucchi ブッチ Lett. “macho”. Dall’inglese butch, indica le donne lesbiche particolarmente mascoline. ma in Giappone si utilizza raramente in favore di termini più frequenti tra cui tachi (attiva). Bari-tachi バリタチ Lett. “solo attiva”. Come dice il termine, indica la donna lesbica che svolge solo il ruolo attivo nel rapporto sessuale. Fisicamente ha i capelli corti, spesso indossa un giubbotto in pelle e jeans. A seconda dei casi è difficile differenziare una lesbica bari-tachi da una persona transgender FtM. Booisshu ボーイッシュ Lett. “boyish”. Una donna lesbica il cui aspetto fisico ricorda quello di un ragazzino adolescente o una lesbica chūsei. Esistono entrambe le specificazioni “attiva” (boy-tachi) e “passiva” (boy-neko).
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Femu フェム Lett. “femme”. Una donna lesbica il cui aspetto fisico è stereotipicamente femminile. Esistono entrambe le specificazioni “attiva” (femu-tachi) e “passiva” (femu-neko). Femu x Femu フェムxフェム Lett. “femme x femme”. Una donna lesbica il cui aspetto fisico è stereotipicamente femminile attratta solamente da donne lesbiche altrettanto femminili. Rippusutikku rezubian リップスティック・レズビアン Lett. “lipstick lesbian”. Una donna lesbica che fa uso di cosmetici. Questo termine nasce dal fatto che la percentuale di donne lesbiche che non fa uso di prodotti di cosmetica è relativamente alta. Tra le lipstick lesbian sono molte le femme. Inoltre, per quanto riguarda le persone transessuali, esistono alcune terminologie specifiche utilizzate per descrivere lo stato attuale del proprio percorso di trasformazione fisica. Ari-ari ありあり Lett. “con con”. Indica una persona transessuale MtF che ha portato a termine l’operazione chirurgica di mastoplatica additiva ma che possiede ancora l’organo genitale maschile. Ari-nashi ありなし Lett. “con senza”. Indica una persona transessuale MtF che ha portato a termine sia l’operazione chirurgica di mastoplatica additiva sia quella per il cambio di sesso biologico. Nashi-nashi なしなし Lett. “senza senza”. Indica una persona transessuale FtM che ha portato a termine l’operazione chirurgica di mastoplatica riduttiva ma che possiede ancora l’organo genitale femminile. Nashi-ari なしあり Lett. “senza con”. Indica una persona transessuale FtM che ha portato a termine sia l’operazione chirurgica di mastoplatica riduttiva sia quella per il cambio di sesso biologico.
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今日のお弁当
I 5 Elementi della Cucina Giapponese a cura di Eleonora Badellino
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Al giorno d’oggi, più che in passato, la relazione corpo/cibo ha preso delle direzioni che spesso ci portano fuori strada. Quando parliamo di dieta salutare, l’attenzione va sempre a concentrarsi su cosa non 62
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mangiare (no ai carboidrati, no ai grassi, ecc...) e di cosa assolutamente non possiamo fare a meno (proteine, frutta, verdura...). I nostri piatti sono spesso monocromatici, poco equilibrati, usiamo gli stessi ingredienti in qualsiasi mese dell’anno, e il sapore del primo boccone, difficilmente ci suscita emozioni. Dov’è finita la gioia del mangiare, della scoperta di nuovi sapori e della consapevolezza del cibo come medicina del corpo e della mente? Su questo aspetto la cucina giapponese tradizionale ha molto da insegnarci e oggi vorrei mostrarvi come.
“Japanese must be doing something right in the way they eat, given that they live longer on average than people from any other nations” Racconta Bee Wilson, giornalista per “The Guardian” e scrittrice del libro “The way we eat now”, e tutti i torti non ha. Nutrizionisti e antropologi celebrano la cucina giapponese in quanto basata principalmente sull’uso di carboidrati complessi (riso), proteine vegetali (soia) e una grande varietà di verdure che vengono servite a tavola seguendo la stagionalità. Insomma, una dieta semplice, facile da digerire, povera di grassi e ricca di nutrienti, proprio come da manuale. Ma a tutto ciò, si aggiunge un particolare, che la rende unica, invitante e mai noiosa. Avete mai sentito parlare dei 5 elementi? 五色 五味 五法 - Goshoku Gomi Goho Come si sa, i colori accesi hanno la capacità di tirarci su di morale, mentre quelli più pacati ci trasmettono un senso di calma. Questa teoria si può applicare al make-up, ai vestiti e gli arredamenti, ma avete mai pensato al cibo? La cucina tradizionale giapponese (come in realtà anche quella cinese e coreana) basa la sua filosofia sul concetto secondo cui un pasto capace di rispettare i “五色” (cinque colori), non è solo in grado di nutrire il corpo, ma anche la mente. Citando il Tenzo Kyoku (Istruzioni del cuoco), importante saggio scritto dal monaco buddista, filosofo e scrittore Dōgen Zenji, nonché colui che gettò le basi della cucina 63
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Shojin-ryori, i diversi colori ci permettono di abbracciare una vasta gamma di ingredienti, ma non solo. Alternando ai colori i 五法 (cinque metodi di cottura) e i 五味 (cinque gusti) nello stesso pasto, saremo in grado di esaltare i sapori di semplici ingredienti, riuscendo a vivere un’esperienza sensoriale che inevitabilmente ci renderà soddisfatti e felici (un po’ come Proust e le sue Madeleines).
Quali sono dunque questi elementi? > 五法 Cinque metodi di cottura: crudo, bollito, al forno, al vapore e fritto. > 五味 Cinque Sapori: acido, amaro, dolce, salato e piccante. > 五色 Cinque Colori: bianco, nero, giallo, rosso e blu (verde). In cui, per esempio, il bianco è ben rappresentato da riso, pasta, ravanello, radice di loto, patate, pesce bianco e pollo. Il rosso da verdure come pomodori e angurie, frutta e carne e pesce magro. Il verde da verdure come gli spinaci. Il nero dalle alghe e dal sesamo nero. Il giallo dalla carota, zucca, mandarino, ecc. A primo impatto può sembrare difficile pensare a come inserire i cinque elementi nella propria dieta quotidiana, ma in realtà, almeno qui in Giappone, viene naturalmente praticato senza saperlo. Un tipico esempio è il bento. Riso bianco, prugne rosse sottaceto, alghe nere, spinaci verdi, uova gialle, salmone rosso... Il più familiare menù bento non solo ha un buon equilibrio tra gusto e nutrizione, ma anche una deliziosa combinazione di cinque colori, metodi di cottura e sapori, che aumentano l’appetito e ci fa stare bene. 今日のお弁当 L’obento di oggi rispetta quelle che sono le regole per creare un pasto completo seguendo i 5 elementi. Vedetelo un po’ come un esempio, o una linea guida per creare il vostro lunch box ideale!
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Bianco - Cottura al vapore - Dolce Il riso è senza dubbio un elemento immancabile in un pasto in stile giapponese, e la cottura al vapore offerta dai famosi rice cooker facilita di non poco la sua preparazione nella vita di tutti i giorni. Sapevate però che potete prepararlo anche utilizzando una semplice pentola in terracotta o in ghisa? Procedimento - Let’s cook! Laviamo accuratamente il riso finché l’acqua non diventa limpida; scoliamo completamente l’acqua di lavaggio e aggiungiamo le due tazze di acqua per la cottura. Inseriamo il coperchio e mettiamo sul fuoco a fiamma alta. Quando inizia a bollire, mettiamo a fiamma bassa. Attenzione! Da questo punto in poi non apriremo mai il coperchio o rischieremo che il vapore di cottura fuoriesca facendo attaccare il riso al fondo della pentola. Cuociamo il tutto per 15 minuti e, trascorso il tempo, spegniamo il fuoco e lasciamo proseguire la cottura del riso (sempre a coperchio chiuso) per altri 10 minuti. 65
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Rosso - Crudo - Acido Il rosso dell’obento non può che essere rappresentato dall’immancabile e celebre umeboshi. Ma che cos’è esattamente? L’umeboshi è un frutto appartenente alla famiglia delle prugne (梅 - Ume) che non può essere mangiato crudo in quanto velenoso. Per poterlo rendere commestibile viene messo sotto sale, lasciato fermentare per un minimo di un mese (siamo intorno a fine maggio, periodo che coincide generalmente con l’inizio della stagione delle piogge). Viene poi lasciata essiccare al sole per tre giorni di fila nel mese di luglio e servito tutto l’anno principalmente sopra deliziose ciotole di riso fumante. Si dice che “mangiare un umeboshi al giorno tenga il medico lontano” (ebbene sì, qui in Giappone sostituisce il detto della mela), in quanto ottimo aiuto per il nostro stomaco e sistema immunitario. Non a caso è un ingrediente che, data l’elevata capacità di conservazione, viene consumato in diverse occasioni tutto l’anno e, in alcune famiglie, tutti i giorni.
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Giallo - Fritto - Salato Rispettando la stagionalitá, il giallo non poteva che essere collegato al mais. Sapevate che in Giappone il consumo di mais nei mesi estivi è molto popolare? Cotto con il riso, grigliato e cosparso con un mix di salsa di soia, mirin e zucchero, arrostito o sotto forma di zuppa. Tra le numerose versioni in cui viene preparato, la tempura è senza dubbio una di quelle più sfiziose. Provare per credere. Procedimento - Let’s cook! Iniziamo staccando i grani del mais con l’aiuto di un coltello. In una ciotola aggiungiamo 1 cucchiaio di farina, il mais e mescoliamo. Aggiungiamo quindi la restante farina, l’uovo, l’acqua, il sale e mescoliamo nuovamente fino a ottenere un composto omogeneo. Mettiamo l’olio in una pentola, e raggiunti i 170℃ - 180℃ , con l’aiuto di un cucchiaio versiamo il composto, così da formare irregolari palline, e lo cuociamo 67
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per 2-3 minuti. Una volta dorato, lo estraiamo dalla pentola, lo adagiamo su della carta da cucina così che si asciughi l’olio in eccesso e, ancora caldo, lo insaporiamo con un bel pizzico di sale.
Nero - Grigliato - Piccante Non è facile proporre la piccantezza in un obento, in quanto è generalmente un pasto mangiato a lavoro o a scuola, ma se gestita in maniera salutare, è un gran piacere per il palato nonché un elemento in piú per rendere il nostro pasto piú completo e invitante. Sempre seguendo la stagionalità, il colore nero, la tecnica di cottura grigliata e il sapore piccante, sono rappresentati dalla melanzana. Procedimento - Let’s cook! Tagliamo le melanzane a listarelle e le immergiamo in una ciotola con acqua fredda. Nel frattempo, prepariamo la salsa. Mescoliamo insieme aceto, salsa di soia, zucchero, peperoncino e olio di sesame. Passati 10 minuti, asciughiamo accuratamente le melanzane, e le facciamo grigliare su entrambi lati in una pentola con un filo di olio, fino a quando non diventano dorate. Una volta pronte, dopo averle asciugate leggermente con carta da cucina, ancora calde le immergiamo nella ciotola con i condimenti e le lasciamo riposare per almeno un’ora così che assorbono i sapori.
Verde - Al forno - Amaro Nella cultura gastronomica giapponese vige il detto 「春の皿には苦味を盛れ」 che significa letteralmente “Metti l’amaro in un piatto primaverile”! La primavera è infatti la stagione in cui le nostre difese immunitarie oscillano (ad esempio a causa di sbalzi di temperatura, o di fronte alle terribili allergie), e ciò di cui il nostro corpo ha bisogno sono nutrienti in grado di ricaricarci dopo il “letargo” dell’inverno. 68
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Le verdure considerate “amare” ne sono un ottimo esempio, e non ha caso, la primavera, è la stagione in cui trovano il loro massimo splendore. Poiché molti alcuni di essi non sempre si possono facilmente trovare in Italia, nell’obento di oggi ho deciso di utilizzare l’asparago selvaggio, verdura dal colore verde e caratterizzato da un sapore amaro, preparato al forno con salsa di sesamo bianco. Procedimento - Let’s cook! Pre riscaldiamo il forno a 200°. Laviamo gli asparagi, li disponiamo distanti l’uno dall’altro in una teglia e li cuociamo per 10 minuti. Una volta pronti li tagliamo in tre pezzi e li lasciamo raffreddare. Nel frattempo prepariamo la nostra salsa. In un piccolo mortaio, tritiamo i due cucchiai di sesamo bianco (possiamo usare il frullatore o ancora meglio un mortaio). Aggiungiamo salsa di soia, olio di sesame, aceto e senape, mischiamo il tutto e lo lasciamo riposare per almeno 30 minuti in frigo. Una volta passato il tempo, versiamo la salsa sopra i nostri asparagi ed il gioco è fatto! 69
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Akushon!
Body Horror e film d’exploitation a cura di Chiara Zennaro tempo di lettura 9’
In Italia e nei vari paesi dell’occidente, quando si sente nominare il “cinema giapponese” i primi titoli che vengono in mente alla maggior parte delle persone non sono i classici o i capolavori di Kurosawa Akira, Ozu Yasujiro o Koreeda Hirokazu, ma quei film bizzarri, iper-violenti o tendenti al porno che possiamo classificare all’interno dell’ampia e vaga categoria dei cult asiatici. In quest’articolo voglio esplorare le ragioni socio-culturali che hanno portato non solo alla proliferazione di titoli associati al genere del body horror e d’exploitation in Giappone (soprattutto a partire dagli anni 70-80) ma anche alla loro popolarità all’estero, in particolare per quanto riguarda il mondo occidentale. Un aspetto del cinema che è spesso purtroppo ignorato al di fuori del mondo anglofono è il suo valore storico-culturale, ovvero quello che il cinema può rivelarci su un certo Paese durante uno specifico periodo storico: la sua cultura, modo di pensare e tradizioni ma anche i suoi rapporti con altri paesi e questioni politiche interne. Per quanto riguarda il Giappone, la sua storia è molto complessa ed è frutto della fusione del nuovo e del di fuori, con il locale e indigeno che ha creato qualcosa di nuovo che però mantiene i vecchi valori tradizionali: la cultura giapponese moderna non è altro che la combinazione armoniosa del tradizionale e ritualistico con la razionalità e innovazione occidentale. La cultura popolare giapponese in riviste, film e musica, infatti, sebbene manifesti originalità e unicità, riflette anche l’influenza della cultura popolare occidentale, specialmente dopo la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. A partire dagli anno 60 il Giappone si sviluppò notevolmente anche per quanto riguarda i mass media e l’industria dell’intrattenimento.
Ma, a causa della globalizzazione, non è più possibile parlare di una cultura popolare moder72
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na di un paese senza metterla in contrasto con influenze estere (soprattutto americane) ed è per questo che nonostante il tema di questo articolo sia il cinema giapponese, non sarebbe possibile discuterne se non insieme alla sua controparte occidentale. La globalizzazione infatti, soprattutto a partire dagli anni 80, è diventata un paradigma estremamente importante per riuscire a comprendere i maggiori cambiamenti socioculturali nel mondo. Intendendo globalizzazione come il processo per cui aree separate del globo si intersecano in un singolo spazio immaginario, il concetto di cultura globale può essere inteso come un traffico trans-nazionale. A causa della globalizzazione, la distanza e la chiara separazione tra il mondo occidentale e quello orientale si stanno facendo sempre più sottili. Un esempio evidente di ciò è l’impatto che ha avuto su nozioni di bellezza femminile nel mondo, in quanto idee occidentali sui concetti della forma femminile si sono estesi su scala globale attraverso l’industria dei cosmetici e della moda. Una cosa importante da tenere a mente però è il fatto che non si può parlare di globalizzazione esclusivamente con il significato di “occidentalizzazione”. in quanto l’impatto di forme d’arte e cultura asiatica sul mondo occidentale eguaglia quello dell’Ovest ha sull’Est.
Non è più possibile parlare di una cultura popolare moderna di un paese senza metterla in contrasto con influenze estere È proprio da questa duplice fecondazione che sono nati i body horror e film d’exploitation giapponesi ed è per questo che molti di questi titoli sono diventati cult nell’occidente. Molti sono a conoscenza del fatto che, soprattutto da parte di case di produzione americane, ci sono stati vari tentativi di riproporre remake di film cult giapponesi con mediocri o scarsi risultati se non in termini di qualità tecnica, in termini di successo con il pubblico. Quello che molti non sanno però è quanto i “classici cult” giapponesi devono al cinema americano e europeo. Infatti, prima del proliferare del body horror e exploitation nel cinema giapponese, questi generi caratterizzarono l’art house e avanguardia americana e europea. Tra gli esempi più mainstream e degni di nota 73
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in cui compaiono mutazioni e/o violenza corporea sono Terminator (1984), Robocop (1987); altri che calzano meglio la definizione di horror come La Cosa (1982), Eraserhead (1977), La Mosca (1986) e Videodrome (1983).
Negli anni 70 proliferarono i cosiddetti film d’exploitation (tradotto come “film di sfruttamento”) che raffiguravano esplicite scene di sesso, di violenza e di sesso violento. Spesso si trattava di film a sfondo politico prodotti dalle minoranze e ne esistono vari sottogeneri tra cui i film di blaxplotation (black-exploitation, ad esempio Sweet Sweetback’s Baadasssss Song del 1971), film realizzati da afro-americani con lo scopo di promuovere l’emancipazione. Inconsciamente o deliberatamente, tutti i rappresentati del body horror e cosiddetto cult giapponese tra cui Tsukamoto Shinya e Miike Takeshi devono inspirazione a uno o più di questi titoli occidentali. L’influenza americana è evidente soprattutto in film in cui appaiono zombie, “mostro” tipicamente occidentale, come Wild Zero (1999) e Katakuri-ke no Koufuku (2001). Lo stesso vale per titoli che traggono l’horror e gli abusi da ambientazioni cristiane come film categorizzabili nel genere del nunsploitation (sfruttamento delle suore) come School of the Holy Beast (Seiju Gakuen, Suzuki Norifumi, 1974), voluti a esplorare e in un certo senso deridere la religione occidentale dominante unendo sesso, violenza e cattolicesimo. La globalizzazione e l’influenza del cinema anglofono possono essere visti come una delle principali cause all’origine della proliferazione del “cinema delle trasgressioni” in Giappone ma guardiamo ora al perché i generi violenti e trasgressivi come il body horror e exploitation hanno attecchito così bene nella terra del Sol Levante. Prima di tutto c’è una ragione pratica, ovvero la stragrande abbondanza di produzioni indipendenti in Giappone rispetto industrie cinematografiche occidentali. In Giappone, infatti, già negli anni 90 la percentuale di film prodotti indipendentemente raggiungeva il 30%. Non far parte di uno studio che detta le regole ha i suoi pro e i suoi contro. Trovare distributori a film completato poteva poi rivelarsi (molto) difficile, il che si riflette nel budget particolarmente basso di questi film, ma per quanto riguarda la produzione non ci sono limiti a quanto grottesco e trasgressivo un film possa essere. Infatti in Giappone esistevano già dagli anni 60 varie tradizioni di cinema d’arte d’avanguardia che, nei decenni successivi, inspirarono un seguito sia in Giappone che all’estero. Esempi di questi film includono Funeral Parade of Roses (Bara no Souretsu, Matsumoto Toshio, 1969) che fa parte del canone queer ed è detto di aver ispirato Stanley Kubrick per lo stile visivo di Arancia Meccanica. Anche i pink film, come Ecstasy of Angels (Tenshi no Koukotsu, Wakamatsu Kouji, 1972) erano tendenzialmente molto politici a differenza della loro controparte americana e europea dove il significato della 74
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pornografia e il suo potenziale era visto in maniera diversa. Una seconda spiegazione per cui il Giappone rappresenta un terreno fertile per i film d’exploitation può essere ricercata nella cultura e tradizione del Paese, il suo rapporto con il corpo e tradizioni e credenze legate ai suoi abusi e mutilazioni. Tradizioni scientifiche diverse tra l’Oriente e l’Occidente, infatti, producono inevitabilmente concetti diversi di natura e conseguentemente diverse concezioni del corpo. Il concetto di “corpo” è estremamente legato a processi sociali e significati culturali profondi e ampi in quanto rappresenta sia un mezzo per il comportamento umano che, almeno per quanto riguarda gli aspetti corporei che sono malleabili, un prodotto della cultura e tradizioni di un popolo. Il Giappone come molti paesi asiatici presenta un culto del corpo peculiare, complesso e risalente a tempi antichi. Il rapporto con il corpo in culture diverse può essere analizzato studiando le pratiche di infliggere dolore e violenza sul corpo.
In molte culture il dolore è inteso come mezzo attraverso il quale una società stabilisce la propria autorità sull’individuo ma è anche un mezzo con cui l’individuo può rappresentare un torto che gli è stato fatto. In Giappone un esempio sono pratiche eseguite dalla yakuza (la mafia giapponese), molte volte protagonista o per lo meno presente nei film più violenti caratterizzati da mutilazioni, stupri e violenza. La yakuza infatti prevede iniziazioni come quella di ricoprire il corpo di tatuaggi eseguiti nella maniera tradizionale estremamente dolorosa così che i nuovi membri dessero simultaneamente prova della loro lealtà e della loro capacità di sopportazione del dolore. Un’altra rinomata tradizione della yakuza è quella di offrire la falange del mignolo della mano in segno di scuse se falliscono un compito o se recano in qualsiasi modo offesa al capo famiglia. L’esempio più famigerato del sottogenere dell’exploitation con protagonista la yakuza è Ichi the Killer (Koroshiya Ichi) di 75
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Miike Takeshi (di cui sconsiglio altamente la visione anche ai più forti di stomaco), conosciuto in Occidente proprio perché per renderne possibile la distribuzione sono stati tagliati oltre 5 minuti di pellicola. In Giappone inoltre, la morte dolorosa soprattutto se autoinflitta dopo una sconfitta (il famoso seppuku o harakiri) era considerata onorevole. Questa pratica è assente nella cultura occidentale e per questo film violenti su samurai e vendette come Lady Snowblood e Shogun Assassin non sono replicabili evitando l’appropriazione culturale al di fuori del Giappone e hanno sempre suscitato fascino nei cineasti e nel pubblico americano e europeo. Il pensiero giapponese si distacca dal pensiero occidentale anche per quanto riguarda la filosofia e la religione. La differenza più evidente sta forse nell’idea della resurrezione/reincarnazione. Nel buddhismo ortodosso, la nozione della continua esistenza dell’anima nell’aldilà è contraria ai suoi insegnamenti. L’inferno (jigoku o naraka) esiste ma non è una condizione eterna ma di durata e intensità equivalente alla pena dettata dalla legge del karma che detta anche la reincarnazione. In molte storie medievali giapponesi (buddhisti e non), inoltre, troviamo vari esempi di metamorfosi. Credo che ci sia una diretta connessione tra gli aspetti sopraelencati del pensiero giapponese e gli innumerevoli esempi di body horror che figurano mutazioni, abusi e mutilazioni corporee, spesso come conseguenza di un comportamento immorale, nei cosiddetti cult giapponesi. Uno dei titoli più famosi è il classico cyberpunk di Tsukamoto Shinya, Testuo (Testsuo the Iron Man, 1989), che dimostra quanto detto. Il film, in bianco e nero, si apre con un feticista del metallo che procede con l’infilarsi un palo di ferro nella gamba per poi realizzare che, invece di trasformarsi nel super eroe della Marvel, troverà solo larve a mangiare la sua gamba ormai marcia. Solo dopo la morte violenta inizierà a mutare incontrollabilmente in una specie di grottesco zombi di metallo. Lo stesso anno usciva anche il film anime internazionalmente famoso Akira (Otomo Katsuhiro, 1988) che, nonostante non si tratti di un horror né di un film d’exploitation presenta una scena in cui uno dei personaggi dopo aver abusato del suo potere soprannaturale è sopraffatto da questo finché non si trasforma in un ammasso informe e nefasto di carne e metallo. 76
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Prima di concludere, vorrei brevemente introdurre un’altra questione che sorge spontanea: se questa tradizione di body horror e film d’exploitation esisteva già in Occidente, perché vengono prodotti remake di film giapponesi talvolta oscuri anche in patria e perché questi remake quasi inevitabilmente falliscono? Una prima risposta potrebbe essere che, come ad esempio il kimono e la danza tradizionale sono configurati per stare bene su un corpo giapponese e quando adattati su un corpo occidentale con forme diverse possono apparire in un certo senso strani, così vale anche per questi film. In realtà la risposta è semplice e va cercata nella definizione di concetti di asiafilia e orientalizzazione. Già il fatto che viene detta asiafilia ma intendiamo soprattutto film prodotto in Giappone e Hong Kong dice molto su questo concetto.
Può essere visto in due modi contrastanti: uno è come un’apertura visto un’altra cultura e l’altro come un feticizzare la cultura asiatica. In pratica hanno successo in Occidente perché sono diversi. Il successo di questi film ci dice di più sull’opinione e l’idea che gli occidentali hanno sul cinema asiatico che del cinema asiatico in sé. L’asiafilia crea una falsa e rifratta impressione del cinema del sud est asiatico che finiscono per pensare che sia tutto bizzarro, trasgressivo e estremo. In conclusione, la proliferazione di questi film violenti è dovuta a motivi socio-culturali specifici del Giappone che hanno fatto sì che questi genere attecchissero ma anche alla globalizzazione e all’asiafilia che li hanno portati al successo all’estero che ne ha permesso la continuazione.
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お部屋探しはファミレスへ a cura di 江原清美
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「ファミレス」とはご存知のように客の対象を家族にした「ファミリーレ ストラン」の略語である。日本のファミレスの歴史は1970年代後半から始ま り、今や東京都内には800余店あるそうだ。さて、そのファミレスに私は15年 ほど前足しげく通っていた。当時受講していた学習の課題のために、本を読ん だりレポートの下書きをしていた。自宅でもできないわけではなかったが、主 婦という立場でもあると、雑然とした部屋の中で、電話や宅配便などの対応に しばしば思考が中断され、集中できない・・まあ、それら主婦の仕事をさぼる 言い訳でもあり、またファミレスだと食べたり飲んだりを楽しめるのも、図書 館とは違う大きな魅力だった。 3年ほどファミレス通いが続いたが、ファミレスには、ただ手軽に食べら れる場所というだけではない魅力があることに気が付いた。ファミレスと一口 に言っても、チェーン店、価格帯にも幅があり、それにより客の年齢層は当然 違う。しかしそれだけでなく、同じ「○○」という店でも、立地場所によって 客層や雰囲気、サービスがかなり違うことがわかった。例えば平日に学校帰り の学生が多い店、サラリーマンのランチ中心、ママたちのおしゃべり場所、な どなど年齢層や立場が同じでも店舗の立地場所によって、彼らの雰囲気やおし ゃべりの内容、店での様子はかなり異なる。また、店内の照明やテーブルの配 置も住宅地だと、比較的ゆったりとしていて、照明もそれほど明るくなく、ス タッフのサービスもこまやかな気がする。 一方学生が多い店はドリンクバーがあり、人の動きやおしゃべりも多く落ち 着かず読書には向かない。地方とは事情が違うだろうが、私の行動範囲であっ た世田谷や目黒、渋谷あたりの狭い地域に限定しても駅一つ、バス停がいくつ か違うだけで、その様子がガラッと違うことがままある。そして、週末は本来 の「ファミレス」になるが、多くが近隣の住民が先ほどまでいた自宅の居間か ら「ドラえもんのどこでもドア」で瞬間移動してきたように普段着で普段の家 族の会話を楽しんでいる。どんなものを好んで食べる家族なのか、親子関係や 夫婦の会話など、気取りのない家での様子がうかがえる。平日のママ友たちの おしゃべりは、今のトレンドや学校や幼稚園の中の話がわかり、ひとりで聞く ともなく見るともなく眺めている私の耳はだんだん「ダンボの耳」になってい る。知らない町でも、しばらくそこにいるとその街にどんな学校があってどん な人が住んでいるか・・など想像を膨らませることができる。 79
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今は、早朝の仕事の時に、職場近くのファミレスで朝食を取ることがしばし ばある。 以前との大きな違いは、年配者(おじいちゃん、おばあちゃん層)が一人で 朝食を食べているのを多く見かけることだ。朝のウオーキング帰りか、毎日の 日課か、店のスタッフとも顔なじみらしく、まだ混んでいない店で新聞を読み ながら、ゆったりとモーニングタイムを過ごしている。男女共にだ。 15年前、私は既に家を建てていたが、もし今借家暮らしで、次の住居を 決める必要があるなら、候補地のファミレスに日参すると思う。 不動産屋からの情報ではわからないその町のことが、ファミレスには詰まっ ている。 創設当初から、半世紀が経ち一人世帯が激増している都会では「ファミレ ス」が「ファミリーレストラン」の略語だということさえわからなくなってし まうのではないだろうか。 ともあれ、もし東京でお部屋を探すなら、どうぞファミレスへ・・あなた に合った町を きっと見つけることができるでしょう・・。
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Cercare casa da un Famiresu a cura di Ehara Kiyomi
traduzione di Damiana De Gennaro tempo di lettura 3’
Come forse sapete, i Family Restaurant, abbreviato in Famiresu, aspirano a creare un ambiente familiare per il cliente. La storia dei famiresu in Giappone inizia dopo la metà degli anni 70, e Tokyo oggi ne conta più di ottocento. Circa quindici anni fa, frequentavo i famiresu piuttosto spesso. Ci andavo per svolgere i compiti di un corso che frequentavo, leggere libri o abbozzare dei report. Non che non potessi farlo da casa, ma dovendo sbrigare varie faccende, come rispondere al telefono o al corriere, nel disordine diffuso non riuscivo proprio a trovare la concentrazione. Stando in casa mi sembrava di rifuggire i miei doveri, e, a differenza delle biblioteche, nei famiresu c’era il grande vantaggio di poter mangiare e bere. Avendo frequentato i famiresu per circa tre anni, mi sono accorta del fatto che questi non sono solo dei luoghi dove consumare un pasto leggero. In breve, i famiresu appartengono a varie catene che presentano diverse fasce di prezzo, e in base a questo sono frequentati da persone più o meno giovani. Ma non è tutto qui. Un locale della stessa catena cambia aspetto in base alla zona, al servizio, alla clientela. Durante la settimana, per esempio, il locale si affolla di studenti di ritorno da scuola, impiegati che pranzano, mamme che chiacchierano, e, anche se il posto è lo stesso, i discorsi ne modificano molto l’atmosfera. La disposizione dei tavoli ricrea un ambiente domestico, anche se in proporzione c’è più spazio, l’illuminazione è buona, il servizio piacevole. Se, tuttavia, il piano bar è affollato da studenti o la gente chiacchiera senza posa, non si può certo dire che sia un luogo ideale per leggere. Muovendomi tra Setagaya, Meguro e Shibuya, mi sono resa conto del fatto che in base alla zona – la stazione o la fermata dell’autobus più vicine – il mood del locale cambia radicalmente. Nel fine settimana, inoltre, il famiresu diventa quasi una porta dokodemo di Doraemon: ti teletrasporta nel soggiorno di una qualsiasi famiglia del quartiere. Se si tende l’orecchio e si aguzza lo sguardo, è possibile indovinare abitudini alimentari, dinamiche familiari e di coppia, disseminate in frammenti di conversazioni senza filtri. È così che, un po’ alla volta, si può arrivare a immaginare che tipo di scuole e di persone 81
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abitino in un quartiere altrimenti sconosciuto. Mi capita anche oggi, qualche volta, di andare a fare colazione in un famiresu nei pressi del posto dove lavoro. La più grande differenza rispetto a prima è che si vedono molti anziani mangiare da soli. Anche di ritorno da lavoro, o quando devo organizzare le attività della giornata, può capitare che io trascorra lì la mattinata in tranquillità, leggendo un giornale insieme ad altri uomini e donne, sotto gli occhi familiari dello staff. Quindici anni fa avevo già una casa, ma se oggi dovessi scegliere un nuovo quartiere dove abitare, credo che andrei prima di tutto in un famiresu della zona. Lì dentro c’è tutto ciò che un agente immobiliare non saprebbe dire. A un mezzo secolo dalla fondazione di questa tipologia di locali, il numero delle famiglie unipersonali è notevolmente aumentato. Viene quasi da pensare che famiresu, non sia davvero solo l’abbreviazione di Family Restaurant. Ad ogni modo, se cerchi casa a Tokyo, perché non provi a passare prima per una famiresu? Di certo troveresti così l’atmosfera perfetta per te.
Ehara Kiyomi vive e lavora a Tokyo. È specializzata nella didattica della lingua giapponese e tiene corsi di formazione per insegnanti di giapponese. In passato è stata una personalità televisiva e della radio presso la NHK. Sfruttando la sua esperienza nei media, da 25 anni lavora nell’ambito della didattica della lingua giapponese. Attraverso scuole di lingua, aziende e lezioni individuali, lavora a contatto di studenti provenienti da più di 30 paesi. Per due anni ha insegnato giapponese in Cina, presso l’Università di Dalian. Dallo scorso anno continua a insegnare attraverso le piattaforme Skype, Zoom e Teams, dando a chiunque la possibilità di fare lezioni con lei, tramite il suo contatto kiyomie7147@yahoo.co.jp e collabora con la rivista Kotodama.
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L’ukiyo-e che sfida: stampe ukiyo-e in mostra, da Kiniyoshi a Yoshitoshi e altri
a cura di Elena Fabbretti
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Stravagante, originale e sorprendente, Utagawa Kuniyoshi (1798-1861) è stato un artista delle stampe ukiyo-e attivo alla fine del periodo Edo. Allievo di Utagawa Toyokuni (1796-1825), Kuniyoshi ha lasciato una originale impronta in qualsiasi genere si sia cimentato: dalle stampe di guerrieri, ai paesaggi, dalle caricature alle opere a sfondo satirico. Non mancano nella sua produzione influenze della pittura occidentale, di cui pare custodisse qualche centinaia di riproduzioni. “Non posso disegnare opere vere come quelle”, si dice che si lamentasse in giro paragonando i suoi disegni a quelli occidentali. La mostra itinerante L’ukiyo-e che sfida è dedicata principalmente alle stampe di Kuniyoshi, ma offre uno spazio anche a quelle dei suoi allievi come Tsukioka Yoshitoshi (1839-1892), esponendo uno spaccato di circa 150 opere che si protraggono fino all’inizio dell’epoca Meiji. Quattro tematiche cardine si srotolano agli occhi del pubblico: gli eroi, il grottesco, 83
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Utagawa Kuniyoshi, “La principessa Takiyasha che evoca lo scheletro mostruoso nel vecchio palazzo di Sōma” Ca 1845-46.
le figure umane e le notizie in voga all’epoca. Ciò che sorprende è che scheletri beffardi, corpi in movimenti improvvisi e torsioni disperate, scene drammatiche intrise di gocce di sangue, animali e caricature che un tempo hanno senza dubbio suscitato spavento o meraviglia continuino a farlo tuttora! Tra le numerose stampe, merita attenzione lo scheletro gigante che si erge sul Palazzo a Sōma. Qui Kuniyoshi eccelle nella rappresentazione di un unico grande scheletro anziché tanti, come vorrebbe la narrazione in cui era inserita l’opera, generando così un effetto ancor più drammatico e di tensione. Sembrerebbe che per la realizzazione dello scheletro Kuniyoshi abbia attinto dalle immagini riportate nei libri di medicina europei. La drammaticità è anche il tratto distintivo che ricorre nelle serie ukiyo-e dei due allievi Yoshitoshi e Yoshiiku (1833-1904) in cui il protagonista indiscusso sembra essere il sangue. Poco consigliabile ad un pubblico sensibile, la raffigurazione delle gocce rossosangue colpisce per la resa realistica: ma come era possibile creare quel colore? Mescolando una sorta di gelatina o collante, chiamato nikawa 膠, ottenuto dalla pelle o dai tendini degli animali, si produceva una sostanza brillante e appiccicosa da sembrare sangue coagulato che poi veniva usato nel processo di stampa a matrice in legno. Inoltre, tra le immagini che basta vedere una volta per non dimenticarle più, segnalo la macabra scena di una donna incinta, semi nuda, con la pancia visibil-
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mente grande e pesante, appesa a testa in giù, legata da funi e bendata. Disegnata da Kunitoshi, è quanto di più violento si possa immaginare di fare a un corpo umano, soprattutto se lo si guarda con uno sguardo occidentale poco avvezzo a certe scene cruente. Infatti se si pensa alla storia dell’arte europea il corpo della donna è spesso associato a quello della Vergine Maria e esaltato come un’immagine sacra. Dopo stampe grottesche e macabre, la mostra si conclude con una caricatura, segno del genio eclettico di Kuniyoshi. “Sono davvero felice che molte persone vicine abbiano costruito il mio volto. È grazie agli altri che la mia faccia sembra quella di una persona!” Questo è il testo che accompagna la buffa raffigurazione di quella che nelle ukiyo-e doveva essere generalmente una bijin, una bella donna. È dall’incastro di corpi nudi che si dà vita al volto della protagonista dell’opera (e, se guardiamo meglio anche alla sua mano!) e l’effetto finale è come dice il titolo che “Sembra vecchia, ma in realtà è giovane”. Non è divertente? Questo è solo un breve excursus su una mostra notevole che sarà visitabile anche al Museo di Kyoto dal 26 febbraio al 10 aprile 2022. Prendete nota!
Elena Fabbretti. Nata a Gradoli (VT) nel 1991. Si è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso La Sapienza di Roma. Durante il percorso triennale ha svolto un anno di scambio presso l’Università Ochanomizu di Tokyo e durante la magistrale è stata ricercatrice speciale presso l’Università del Tohoku a Sendai, dove è tornata per svolgere un Phd in Innovative Japanese Studies con il supporto della borsa MEXT. Si occupa delle stampe ukiyo-e nella letteratura moderna giapponese. Nella pagina Istangram @ElenaMonogatari presenta le stampe del mondo fluttuante sotto diversi aspetti.
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Tsukioka Yoshitoshi Dalla serie Ventotto famosi omicidi con poesie “L’omicidio di Ohagi da parte di Saisaburō” 1867
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Utagawa Kuniyoshi “Sembra vecchia, ma in realtà è giovane” 1847
Tsukioka Yoshitoshi “La casa solitaria nella landa di Adachi” 1885
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Kotodama in Libreria
Storie di Fantasmi del Giappone
È il 1980 quando Lafcadio Hearn arriva in Giappone. Fino ad allora, era già stato in America per lavorare come reporter, e poi nelle Indie Occidentali come corrispondente.
Lafcadio Hearn e Benjamin Lacombe per L’Ippocampo Edizioni
La sua era vita senza radici, fin quando non arriva in Giappone: decide di stabilirsi, ottiene un posto come professore all’università di Tokyo, sposa una donna giapponese e ottiene lui stesso la cittadinanza, diventando Koizumi Yakuno. Da allora, il suo obiettivo è sempre stato quello di raccontare il Giappone. Storie di fantasmi del Giappone è uno dei modi per conoscere il paese del Sol Levante attraverso leggende pericolose e paurose.I dieci racconti sono storie di fantasmi, di creature pericolose e di morte, tutte accompagnate dalle illustrazioni fantastiche di Benjamin Lacombe. Le sue tavole, a metà tra lo stile di Burton e quello dello studio Ghibli, ricordano gli ukiyo-e, creando un clima oscuro perfetto per la narrazione delle storie.
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Il protagonisa di Il lato positivo della vita di Hada Keisuke ci tiene a tenersi in forma fisicamente, in quanto in questo modo riesce a prendere le distanze dal nonno che non è più autosufficiente e viene considerato un peso dalla famiglia. D’altro canto, il nonno accentua le sue debolezze fisiche per cercare di ispirare compassione e farsi non accudire, ma considerare.
Camille Monceaux inizia con il volume “La maschera del Nō” la sua teatrologia ambientata nel Giappone di epoca Edo, un romanzo di formazione con atmosfere fantasy e di un tempo passato. I protagonisti sono Ichiro, giovane che segue la vita solitaria della Via della Spada, e Hiinahime, una misteriosa ragazza che si nasconde dietro una maschera di un personaggio del teatro Nō. Edito da L’Ippocampo nel 2021, il secondo volume “La spada dei Sanada”89 uscirà in autunno.
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Il Corpo sa tutto (Karada Wa Zembu Shitte Iru, 2000) è una raccolta di racconti di Banana Yoshimoto, pubblicata nel 2004 da Feltrinelli. I racconti vedono personaggi intenti alla guarigione, ma il corpo, vero protagonista dei racconti, è così attaccato al dolore da opporsi, e a ostacolare la guarigione a volte è solo la paura di nuovi dolori e ostacoli, in un caleidoscopico paesaggio del Giappone realistico e insieme visionario, doloroso e vibrante di ottimismo.
È l’ultimo giorno di agosto e il sole picchia spietato su Tokyo. Entro poche ore Atsushi, oltre a compiere trent’anni, divorzierà da sua moglie Chieko. Così, racconta alla collega Mizuki come il suo matrimonio sia naufragato in un mare di incomunicabilità. In una capitale giapponese frenetica e allo stesso tempo sonnolenta, dove l’umidità estiva avvolge ogni cosa e fa tremolare i contorni degli edifici, Atsushi percorre le strade della metropoli in ansia per il proprio futuro ma nutrendo nel cuore un’ultima, segreta, speranza. Di Itō Takami.
Dolcemente soffocante di Kawakami Hiromi, edito da Atmosphere Libri. L’infanzi e l’adolescenza, gli anni della giovinezza e dell’età adulta, fino a quelli della vecchiaia. Con un rimando ai quattro elementi che costituiscono il mondo, i racconti che compongono questa raccolta ritraggono donne in momenti diversi del loro ciclo vitale e affrontano alcuni temi cruciali dell’esistenza umana: il Sé, l’amicizia, la sessualità, la maternità, la morte.
Nella commedia dolceamara Un lavoro perfetto di Tsumura Kikuko, la protagonista rinuncia al suo posto fisso perché si impegna e si lascia suggestionare troppo da esso, causandole un burnout psicofisico. Sceglie, per tutelare la sua salute fisica e mentale, di svolgere dei lavori meno coinvolgenti e impegnativi. Rimettere al centro del proprio interesse la salute psico-fisica e ascoltare il proprio corpo che ti mette in guardia dal lasciarti coinvolgere troppo dal lavoro. Edito da Marsilio. 91
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Un libro da recuperare: Racconti di Pioggiae di Luna Nella seconda metà del diciottesimo secolo nasce un nuovo stile di produzione letteraria, lo yomihon 読本, i “libri da leggere”, in cui il testo prevale rispetto alle illustrazioni, in contrapposizione allo stile dei kana-zōshi. Si tratta di opere scritte dai nuovi letterati, soprattutto medici, che fanno uso di uno stile elegante e pieno di citazioni letterarie, in particolare a opere cinesi, cercando un viaggio verso altri mondi e altre ere, per evadere il presente. Tra gli autori più importanti riconosciamo Ueda Akinari, scrittore poliedrico sia nel campo poetico che nella prosa. Inizia per diletto, mentre si dedica alla sua carriera di medico, ma dopo una diagnosi sbagliata resta talmente sconvolto che decide di diventare un letterato a tempo pieno. Le sue opere vedono ancora le atmosfere dell’ukiyo-zōshi, con lo scopo di intrattenere e divertire, ma sono più profonde e interessanti e fa spesso riferimenti alla letteratura cinese. L’Ugetsu Monogatari (“Racconti di pioggia e di luna”, 1768) è una raccolta di nove storie di fantasmi, basate su storie folkloristiche cinesi. Si può quindi considerare un “adattamento” di storie già esistenti, ma reinventate e approfondite per diventare opere nuove. Nonostante l’influenza cinese, il testo è prettamente anti-confuciano, con atmosfere dell’orrore, spiriti e soprannaturale. Le storie di fantasmi fanno parte di una lunga tradizione letteraria giapponese, ma solo in questi decenni diventa un vero e proprio genere letterario, kaidan, con intenti di intrattenimento per aiutare il lettore a sfuggire alla quotidianità dell’epoca Tokugawa. Nella prefazione dell’opera le tematiche sono presentate in anticipo, rappresentando una “guida all’opera” e dividendo i racconti in tre macro tematiche, ispirate all’unione delle tre dottrine filosofico-religiose. La prima edizione italiana è stata pubblicata nel 2001 a cura di Maria Teresa Orsi per Marsilio Editore.
Restando in ambito kaidan e facendo un salto in avanti di un centinaio di anni, il Kaidan Botandōrō (“La Lanterna delle peonie”, 1884) di San’yūtei Enchō narra di fantasmi che appaiono tra gli uomini per amore e per vendetta. Si tratta di racconti orali che vengono trascritti e uniti in un’unica storia, passando da un personaggio a un altro e lasciando che sia il loro punto di vista a far proseguire il racconto.
Hajimemashite Carmen Borrelli. Nata a Napoli nel 1995. Iscritta al corso di Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”, ha svolto un anno di scambio a Tokyo, alla Keio University. Gestisce da quattro anni un blog, Nessun cancello, nessuna serratura, strettamente collegato al suo profilo Instagram (@lilyj2202), citato in Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020). Tra i suoi progetti, La tua, Virginia ha portato sui social, grazie anche alla collaborazione con la Italian Virginia Woolf Society, la lettura dell’epistolario di Virginia Woolf. Ha fondato Kotodama insieme a Dafne Borracci e oltre a scrivere gestisce le pagine social.
Dafne Borracci. Nata a Firenze nel 1996. Nel 2013 ha frequentato il quarto anno di liceo a Ashiya, in Giappone. Nel 2018 ha vinto la borsa di studio MEXT Undergraduate e attualmente frequenta la facoltà di Lettere all’Università di Kyoto. Sui social parla di letteratura e storia giapponese attraverso il suo profilo Instagram, @dafneborracci, e il suo blog, Mai una soya. Periodicamente, pubblica la traduzione in italiano del romanzo di epoca Heian Torikaebaya Monogatari tramite newsletter. A luglio 2020 ha pubblicato il suo primo ebook Ikiryō - Spiriti viventi del folklore giapponese. Ha fondato Kotodama con Carmen Borrelli.
Damiana De Gennaro. Nata a Vico Equense nel 1995, è laureata in Letterature e Culture comparate all’Università di Napoli “L’Orientale”. Iscritta alla magistrale presso lo stesso ateneo, ha svolto un anno di scambio in Giappone, presso l’università Tōhoku. Ha pubblicato Aspettare la rugiada (Raffaelli, 2017), opera finalista al Premio Rimini, e Shibuya Crossing (Interno Poesia, 2019). Sue poesie sono ospitate su varie antologie, tra cui Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90.Vol. I (Interno Poesia, 2019) e Abitare la parola. Poeti nati negli Anni Novanta (Ladolfi, 2019). Alcune traduzioni delle sue poesie in spagnolo, inglese e sloveno si trovano online sulle riviste Libroamerica, Literalidad, Círculo de Poesía, Centro Cultural Tina Modotti, Otata, e il blog di Primož Sturman. Collabora con la rivista di poesia Mosse di Seppia e fa parte della redazione di Kotodama.
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Guendalina Fanti. Nata a Bologna nel 1992. Si è laureata in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia presso l’Università di Bologna, trascorrendo un periodo di scambio presso l’Università Sorbona a Parigi con la borsa di studio Erasmus. Dopo un periodo di studio in Spagna si trasferisce in Giappone per approfondire lo studio della lingua e ha fatto di quest’ultimo la sua casa. Attualmente vive a Osaka da dove condivide consigli di viaggio e racconta la vita quotidiana senza filtri tramite il suo account Instagram @lamiakyoto e sul sito web www.lamiakyoto.com. Per Kotodama segue la rubrica Nihon no Honto.
Donatella Principi. Nata a Rimini nel 1991, è laureata in Acquacoltura e Igiene delle Produzioni Ittiche. Nel 2014 apre il canale YouTube e il profilo Instagram @Chibiistheway dedicati a libri, fumetti, lifestyle e alla sua passione per il Giappone, insieme all’omonimo blog. Ha collaborato con VVVVID, il canale YouTube di Animeclick.it, LegaNerd e RedCapes realizzando video e articoli dedicati al fumetto e all’animazione giapponesi. Nel 2018 partecipa al programma radiofonico Pandora di Rai Radio 2 per consigliare libri e fumetti agli ascoltatori ed è ospite a Lucca Comics and Games del panel Comics Instagrammer per parlare del rapporto socialfumetto. Nel 2019 è stata selezionata fra i 16 Bookinfluencer più influenti scelti dagli allievi del Master BookTelling dell’Università Cattolica di Milano. Appare nel libro Bookinfluencer. Chi parla di libri e dove trovarli (La Corte, 2020) e per Kotodama segue la rubrica Manga Café.
Giada Zaccardi. Nata a Roma nel 1986, è laureata in giurisprudenza e ha conseguito l’abilitazione di avvocato. Durante l’esercizio della professione intraprende lo studio della lingua giapponese, che deciderà di proseguire iscrivendosi alla laurea magistrale in Lingua, economia e istituzioni del Giappone all’università “Ca’ Foscari” di Venezia. Nel 2019 fonda il progetto のどnodo (www.nodonodo.com e su Instagram: @nodo_no_do), per promuovere la diffusione delle lingua e della cultura giapponese in Italia. Attraverso questo progetto organizza numerosi eventi, tra cui Tokyo art in Rome nel 2019, e impartisce lezioni di lingua e cultura giapponese. Per Kotodama segue la rubrica Kotobar, approfondendo termini peculiari della lingua giapponese.
Loris Usai. Nato a Roma nel 1986, all’età di sei anni disse alla madre: “Voglio vivere in Giappone”. Inseguendo il sogno di bambino, si è laureato in lingua e cultura giapponese all’Università di Roma “La Sapienza” e ha proseguito gli studi magistrali presso l’Università Statale di Milano. Si reca in Giappone con una borsa di studio MEXT (2012-2013) per ricerche sul tema delle minoranze sessuali e di genere all’Università Meiji di Tokyo, e non sarebbe più rientrato. Vive a Tokyo dove lavora come traduttore di romanzi, light novel e manga. Su Instagram @rorisu_in_japan e sul suo sito web www.rorisuinjapan.com condivide scorci di vita quotidiana giapponese, riflessioni linguistiche e news a tema LGBTQ+.
Sara Odri. Nata a Frosinone nel 1993. Si è laureata in Lingue e Civiltà Orientali in lingua giapponese presso La Sapienza di Roma. Nel 2019 ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di frequentare per un anno l’Università Tohoku. Lì ha focalizzato la sua ricerca sugli autori bilingue giapponesi, in particolare Yoko Tawada e Minae Mizumura. Attualmente è iscritta al Master in Traduzione giapponese dell’Università La Sapienza.
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Eleonora Badellino. Nata ad Alba (CN), nel 1992. Laureata presso l’Università’ di “Scienze Gastronomiche” di Pollenzo, dopo un’esperienza lavorativa nell’ambito Food in Italia e in America, arriva in Giappone dove partecipa a due progetti incentrati sullo studio e tutela del washoku, presso la città di Tsuruoka, prefettura di Yamagata (riconosciuta come “Unesco’s City of Gastronomy”), e Kanazawa, prefettura di Ishikawa. Vive in Giappone da due anni e per hobby gestisce una pagina Instagram @EveryDayObento e un blog DaidokoroLabo incentrati sulla gastronomia giapponese e non solo. Ha collaborato con la rivista The New Gastronome, con il magazine online Savvy Tokyo e per Kotodama segue la rubrica Obento.
Giorgia Lombardo. Nata a Vittoria (RG), nel 1996. Dopo essersi laureata all’Università di Catania in Mediazione Linguistica e Interculturale, si trasferisce a Roma per specializzarsi in lingua giapponese. Frequenta attualmente la facoltà di Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università di Roma “La Sapienza” e sogna di diventare traduttrice di manga. Alla passione per il Giappone, affianca quella per l’illustrazione e nel 2018 apre la pagina instagram @midoriart8 dove pubblica le sue illustrazioni di vario tema. Per Kotodama si occupa di grafica e illustrazioni.
Giulia Licciardello. Nata a Catania nel 1994, si laurea in Lingue e Culture Orientali e Africane all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” con percorso dedicato all’Estremo Oriente. Nel 2019 frequenta il master in Editoria dell’università di Verona e si specializza nel campo redazionale. Lavora come proofreader e correttrice bozze per GateOnGames e per Panini Comics e si occupa anche di progetti freelance. Nel tempo libero si dedica alla scrittura creativa e al suo profilo Instagram @hikari_monogatari. Ha pubblicato in formato ebook la raccolta di racconti Ricette d’amore. Per Kotodama si occupa di coordinamento editoriale, impaginazione, proofreading e delle pagine social.
Chiara Zennaro. Nata a Bologna nel 1996 ma cresciuta a Chioggia (VE). Nel 2014 inizia una laurea in Studi Cinematografici e Scienze della Comunicazione al King’s College London. Si trasferisce in Giappone nel 2019 per uno scambio all’università di Kyoto dove consegue la laurea da remoto nell’agosto 2020 non potendo tornare a Londra a causa della pandemia. Ora vive e lavora a Tokyo come traduttrice per un’azienda di scuole d’inglese. Cinefila con una passione per le lingue, per Kotodama si occupa della rubrica sul cinema giapponese Akushon!
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Kotodama è un’idea che nasce l’estate del 2020, da una conversazione tra Carmen Borrelli e Dafne Borracci. In un contesto internazionale che vede il sapere assumere forme sempre più fluide, lo scopo della redazione è quello di incoraggiare, anche attraverso i social, lo scambio di discorsi tra persone impegnate in uno studio continuativo di lingua e letteratura giapponese. Attraverso le rubriche cerchiamo di cogliere diverse sfaccetature della cultura giapponese, dagli aspetti più gradevoli a quelli più ambigui e problematici. La pubblicazione è a cadenza trimestrale. Per contribuire, per maggiori informazioni o altre domande è possibile scrivere all’indirizzo kotodama.rivista@gmail.com. Kotodama© 2021
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Riferimenti bibliografici e ringraziamenti LA SPERSONALIZZAZIONE DEL CORPO IN MURATA SAYAKA: DA KONBINI NINGEN A A CLEAN MARRIAGE • Il Tascabile • https://doi.org/10.24193/mjcst.2018.5.06
• Per alcune ipotesi sull’origine https://www. edo-tokyo-museum.or.jp/purpose/library/reference/alphabet/25912/正座が日本で始まった のはいつか%E3%80%82(2019年) • cfr. https://shikitari.net/kurasi-mana/dailymanners/manners/1992/ • https://www.touken-world.jp/tips/25578/
PERCHÉ NEI MANGA HANNO GLI OCCHI ENORMI? • Capire il manga. Caratteristiche grafiche e narrative del fumetto giapponese, Davide Sarti
LE OLIMPIADI “NOROWARETA” – TRA SESSISMO E BODYSHAMING • Anonimo, “Watanabe Naomi san ‘kono kaitei de shiawase’ gorin kaihei eshiki no youshi bujoku en-
• Il manga. Storia e universi del fumetto giap-
shutsu meguri”, Yahoo! Japan,18 Mar. 2021
ponese, Jean-Marie Bouissou
• Inoue, Makiko, et al. “Tokyo Olympics Official Re-
• Capire, fare e reinventare il fumetto, Scott Mc-
signs after Calling Plus-Size Celebrity ‘Olympig.’”
Cloud
The New York Times, 18 Mar. 2021
• Linguaggio audiovisivo negli anime: comunicare senza parlare di Marco Broggini
IL LINGUAGGIO DEL CORPO
• McCurry, Justin. “‘That’s a Fact’: Olympics Are ‘Cursed’, Says Japan’s Deputy Prime Minister.” The Guardian, 19 Mar. 2020. • Oi Makiko, “Nihon no joseisabetsu, dousureba nakunaru ka?” BBC News, 8 Apr. 2021 • Rich, Motoko. “An ‘Old Men’s Club’ Dominates
• cfr. https://www.focus.it/cultura/curiosita/quan-
Japan. The Young Just Put Them on Notice.” The
do-nacque-lusanza-di-stringersi-la-mano
New York Times, 26 Feb. 2021
• cfr. https://latte.la/column/26866048 • cfr. https://tmbi-joho.com/2020/12/04/chikochan-reg114/ e https://latte.la/column/26866048 • cfr. https://www.qac.jp/ blog/2013/04/25_ojigi.html
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• Takahashi, Ryusei. “Tokyo 2020 Creative Chief Quits over Naomi Watanabe ‘Olympig’ Pitch.” The Japan Times, 18 Mar. 2021.
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Un ringraiamento alle case editrici L’Ippocampo e Lindau per i libri Storie di fantasmi del Giappone,
• Originariamente Kozure Okami: Kowokashi
Le Cronache dell’Acero e del Ciliegio e Abbando-
udekashi tsukamatsuru (1972) e Kozure Okami:
nato sulle strade di agosto
Sanzu no kawa no ubaguruma (1972) parte della serie di film Lone Wolf and Cub (Kozure Okami). Si tratta della versione tagliata e editata dei primi due film della serie e doppiata in inglese. Le parti di dialogo sono state prevalentemente tagliate per lasciare le parti più violente e piene di azione.
COPERTINA E ILLUSTRAZIONI Giorgia Lombardo
ALCUNE ILLUSTRAZIONI E ICONE SONO STATE PRESE DA: • https://it.pngtree.com/so/clipart-di-promemoria • https://www.oyama-design.jp/woman-fashion-magazine-size/ • Maruyama Okyo by Tsukioka Yoshitoshi • Katsushika Hokusai • Utagawa Kuniyoshi
PER LE ILLUSTRAZIONI DI PP. 1820, 36-39 • https://www.irasutoya.com
FOTOGRAFIE Guendalina Fanti Jan Breede
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