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Domavamo la giovenca V. Grechi
by La Pagina
DOMAVAMO LA GIOVENCA
Tanti anni fa, quando la meccanizzazione in agricoltura non era ancora arrivata, ogni contadino, oltre a un bel po’ di figli, aveva bisogno di animali da lavoro in numero sufficiente Vittorio GRECHI rispetto agli ettari di terreno posseduti. Come minimo doveva possedere un’asina e una vacca. L’asina era il mezzo di trasporto principe: dovevi andare in paese a comprare qualcosa o a sbrigare una faccenda? Montavi sopra con l’ombrello legato con una cordicella (come fosse un fucile) e messo a tracolla, e via per boschi e campi utilizzando le secolari scorciatoie che avevano calpestato i tuoi antenati. Così se avevi bisogno di portare la legna a casa per l’inverno o le fascine secche da forno per cuocere il pane o due sacchi di erbe per alimentare i conigli. Perché un’asina? Perché quando partoriva si poteva vendere l’asinello realizzando un guadagno. Una vacca poteva servire per lo stesso scopo e in più si poteva accoppiare con un’altra vacca presa in prestito, onde formare la coppia per tirare l’aratro. Ovviamente la vacca singola andava prestata al vicino che ne aveva tre in modo da poter formare due coppie per due aratri o due coppie per tirare la perticara di ferro con le ruote quando si dissodava un terreno di pianura particolarmente duro. Quando la vacca partoriva, se nasceva una femmina in genere si allevava e quando diventava giovenca bisognava domarla sotto il giogo, a coppia con la madre. Se la madre era stata domata a sinistra, la figlia si La giovenca metteva alla destra del giogo. imparava rapidamente. Per fare questi allenamenti si sceglievano giorni nei quali non si poteva lavorare nei campi, o perché era piovuto, o perché era callafredda (dopo un forte temporale estivo), o magari perché era un giorno festivo e dopo il pranzo ci si dedicava a cose non faticose. La giovenca era già stata abituata al morso al naso e a ubbidire a ordini semplici come: Aaaaa che voleva dire “vai, cammina”; oppure Leeee che voleva dire “fèrmati”. Accoppiata con la madre o con una vacca adulta, la giovenca imparava rapidamente. Il problema veniva fuori quando al giogo si attaccava un aratro. All’ordine di andare avanti, la vacca adulta si muoveva e l’aratro affondava nel terreno, mentre la giovenca rimaneva indietro col giogo che le premeva sulla gobba del collo. Allora il contadino ripeteva l’ordine accompagnandolo con un colpo di frusta sulle natiche della giovane, che sobbalzava e trovava più comodo mettersi di traverso piuttosto che usare la gobba per consentire all’aratro di avanzare. Allora l’aiutante di
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sostegno -bisognava essere almeno in due-, sempre sotto la minaccia di un bastone, faceva rimettere la riottosa in parallelo con quella più anziana e la solfa ricominciava. Dopo un paio di ore bisognava smettere perché il collo della giovenca si era gonfiato a forza dei colpi presi dal giogo, sia quando essa strappava in avanti sotto i colpi della frusta, sia quando in avanti ci andava l’altra vacca e la giovane, stando inchiodata a terra, subiva il rinculo del giogo sempre sul suo collo. Allora, con santa pazienza, il contadino riportava le vacche nella stalla, accarezzava la giovenca, le parlava, le dava una manciata di sale del quale era ghiotta d’estate quando mangiava l’erba verde, poi le faceva delicatamente un massaggio sul collo indolenzito col grasso che usava per i suoi scarponi, fatto con l’omento del castrato e detto in dialetto l’assogna. A forza di esercitazioni e di massaggi, la gobba sul collo della giovenca si induriva rendendola adatta a fare forza sul giogo per tirare l’aratro, l’erpice, la traglia o un carro. Altrettanto tempo doveva essere impiegato per domare una puledra d’asina a portare prima il basto da solo, poi con una persona o una fascina di legna a destra e una a sinistra. Quando si toglieva il basto e si portava l’asina all’aperto, essa annusava il terreno, si inginocchiava con le zampe anteriori coricandosi per terra per poi rotolarsi da una parte all’altra per grattarsi la schiena. E mentre si grattava emetteva rumorosi peti scalciando verso il cielo e manifestando così la propria gioia. Se non avete mai visto uno spettacolo del genere avete perso qualcosa della vita di campagna dei vostri antenati.