PIANO
ZEN
DI
PALERMO
MUSICA&PERIFERIA
ORTI-ALTI CORVIALE STREET ART CONCORDIA
RENZO
PERIFERIA FRONTIERA ALEJANDRO ARAVENA
ISSN 2385-0884
03-04/2016
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LEARNING ARCHITECTURE & BUILDING
LAB2.0 MAGAZINE- ISSN 2385-0884 E’ un supplemento di dailySTORM ISSN 2421-1168 (www.dailystorm.it) Testata giornalistica iscritta al Registro della Stampa del Tribunale di Roma, autorizzazione n. 12 del 15-01-2013 LAB2.0 Magazine è gestita dall’associazione culturale LAB2.0 sede: viale Liegi, 7 – Roma, 00198 www.lab2dot0.com Direttore responsabile / Editor in chief Patrizia Licata Coordinamento editoriale / Deputy editor Piera Bongiorni Lorenzo Carrino Staff di redazione / Editor staff Antonio Amendola Gabriele Berti Luca Bonci Pasquale Caliandro Francesca Canali Veronica Carlutti Simone Censi Elvira Cerratti Andrea Filippo Certomà Ines Cilenti Francesca De Dominicis Maria Teresa Della Fera Beatrice Durante Gilda Messini Lisa Patricelli Tommaso Zijno Hanno collaborato / Contributions Angela Benfante Daniele Bigi Velia Bonaffini Federica Favara Scacco Camilla Gironi Gianni Ja Voceira Pierluigi Mastroianni Guido Mitidieri Margherita Vicario Marco Vidor Traduzioni / Translations Elisabetta Fiorucci Agnese Oddi Lucrezia Parboni Arquati Maria Letizia Pazzi Martina Regis Grafica / Graphic & Editing Andrea Bonamore Editore Triade Edizioni Srl Contatti di redazione / Editorial Staff redazionelab2.0@gmail.com Responsabilità. La riproduzione delle illustrazioni e degli articoli pubblicati sulla rivista, nonché la loro traduzione è riservata e non può avvenire senza espressa autorizzazione. Alcune delle immagini pubblicate sono tratti da internet. In caso di involontaria violazione dei diritti d’autore vi preghiamo di contattarci per indicare, nel numero successivo, il nome/link del proprietario in base al modello di copyright utilizzato. I manoscritti e le illustrazioni inviati alla redazione non saranno restituiti, anche se non pubblicati.
In prima di copertina / Cover © Marco Fabri
LAB2.0 Learning Architecture & Building
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Indice Index 4 6 10 14 16 20 24 26 30 34 38 40
Editoriale Editorial - di Camilla Gironi
Il senso del limite prima delle periferie: quando la città era ancora definita - di Daniele Bigi The sense of limit before periphery: when the city was still defined Architetture di frontiera: indagine, partecipazione e sintesi - di Gabriele Berti Architectures of the border: study, partecipation and synthesis Il paradosso della periferia e l’eterno conflitto tra etica ed economia - di Pierluigi Mastroianni The paradox of the suburbs and the eternal conflict between ethical and economic issues Denuncia musicale dello stato di degrado delle periferie italiane - di Lisa Patricelli Musical complaints on the deteriorating state of the italian suburbs Apologia di un architetto: il quartire Zen di Palermo - di Marco Vidor Apology of an architect: the Zen district of Palermo Il nuovo respiro di Corviale - di Veronica Carlutti The new breath of Corviale Operazione giardini segreti - di Francesca Canali The Secret gardens mission Nuovi colori per la città contemporanea - di Margherita Vicario New colours for a contemporary city Quando la periferia diventa il nuovo centro: Concordia sulla Secchia - di Angela Benfante When the suburbs become the new centre: Concordia sulla Secchia RACCONTO: Il mondo è un posto terribile - di Guido Mitidieri The world is a terrible place STONETALES - Roma, 20 aprile - 22 maggio 2016 Racconto fotografico
Editoriale di Camilla Gironi
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La periferia è un concetto, un’idea spaziale e una questione morale. La nascita di una città, intesa nella sua più pura accezione di nucleo di condivisione, implica sempre e inevitabilmente, nello stesso istante, la spontanea formazione di un ambiente “all’intorno” più esterno e più sfaldato, e di una sottile linea di confine che divide – e poi separa – il centro della vita e delle attività urbane dall’aureola rarefatta di brulicante sospensione che è la periferia. Una sorta di merletto che vede al suo centro il disegno più complesso, con trame e intrecci fitti, solidali, dal quale si delinea lentamente il decoro più ampio, più libero, che prende forma tra le mani di un distratto tessitore secondo un progetto indefinito, lasciato al caso, al mero momento creativo. Una fotografia a grandangolo in toni di grigio con messa a fuoco su dettagli chiari, finissimi, concentrati in un punto, e con un intorno fuori focale deformato, deviato, schiacciato dalla prospettiva. La propagazione circolare di vibrazioni nell’acqua ferma di un lago, dal punto in cui è caduto il sasso, di onde concentriche sempre più larghe e sempre meno definite, che vanno a perdersi oltre il delicato fronte d’onda. Nasce dalla disattenzione, dall’eco della civiltà che si racchiude dentro le mura e lascia trapelare solo brevi impressioni, tradotte in sobborghi e ghetti. La materia che compone lo spirito di una civiltà, che si esprime attraverso l’architettura, sembra esaurirsi mano a mano che la città si espande dal suo centro, che racchiude il nucleo essenziale, diminuendo gradualmente di densità e di intensità – estetica, significativa, insediativa, demografica. Nei primi anni del Novecento, Le Corbusier immaginava un prototipo di Città Radiosa in cui centro e periferia sono indistinti (o meglio, non esistono). Strade rettilinee, angoli retti e lotti codificati disegnano un concetto del tutto nuovo e razionale, lo zoning: ogni spazio ha la stessa importanza, le funzioni sono concentrate in settori, il sistema di trasporto è intuitivo, immediato. Una città-organismo in cui ogni componente dipende dall’altro e in cui le parti collaborano in un equilibrio urbano e sociale che, con lo sguardo sull’attuale realtà e su quella del passato, sembra un’utopia. Sin dall’antichità, la formazione di una città dipende dapprima dall’istituzione di un nucleo centrale di clan e famiglie che danno vita a una cellula abitativa destinata a crescere e a moltiplicarsi. L’innalzamento di mura perimetriche diviene, inevitabilmente, sinonimo di barriere culturali e sociali che lasciano tagliato fuori chi si trova sul margine. La periferia come esclusione è, prima ancora di essere una causa, una conseguenza del degrado. Questo deriva dalla mancanza di sentimento, di desiderio sociale nella quale vengono relegati gli outsider, gli esclusi, i non-compresi nel perimetro. Individui che danno inizio alla propria giornata ancor prima che sorga l’alba, fermi su banchine e in fermate dissestate, in attesa (e nella speranza) di affidarsi a quei mezzi di trasporto in direzione centro città che molto spesso deludono le aspettative, nonché i diritti innegabili di ogni cittadino. La periferia corre su strade asfaltate di buche e di crepe, in spazi di abbandono dove natura, infrastrutture e architettura combattono, si propagano senza regole, muoiono sotto i colpi del tempo. La grande dispersione formale che caratterizza la periferia e che dà vita allo sprawl urbano è terreno fertile per la sperimentazione, in tutte le sue forme, da quella architettonica a quella sociale. Abusività e speculazione edilizia s’insediano facilmente, indisturbate, e piantano radici profonde che spesso si nutrono di un terreno già vessato, violento; maxicantieri nascono e si sviluppano nell’insofferenza (e spesso nell’inconsapevolezza) di chi vive quelle terre, quei “deserti di emozioni” che nella maggior parte dei casi sfociano in violenza, precarietà, silenzio. L’espansione dello spazio periferico è, in senso meccanico, inarrestabile. L’inaccessibilità – in termini economici e dimensionali – delle zone urbane centrali ne è la causa principale, che lascia a un costruire privo di amore, che prescinde dalle necessità e dai bisogni effettivi della comunità, a un piano urbanistico pressoché inesistente, privo degli accorgimenti e delle predisposizioni che, se applicati, non permetterebbero tale discontinuità. Il disordine stilistico e la discrepanza di funzionalità dei fabbricati, che spesso non confluiscono nella destinazione d’uso per la quale sono stati progettati, sono causa e conseguenza di quel disagio profondo al quale viene comunemente associata l’idea di periferia, nonché di “gente di periferia”, assodato il fatto che l’individuo è semplicemente il riflesso dell’ambiente in cui vive. Ed è proprio questo a richiamare il significato intrinseco dell’architettura, che è estremamente politico, e oggi tragicamente urgente: rispondere alle richieste della comunità attraverso la trasposizione formale delle soluzioni ai bisogni espressi, e generalmente condivisi, dell’uomo. Uno spazio insediativo su misura, con aree verdi e infrastrutture efficienti; edifici di cultura e spazi di condivisione; la dignità di un ambiente che custodisca quello spirito originario da cui nasce la città: la civiltà. Il ruolo dell’architetto è un ruolo di pioniere, di uomo politico – della pòlis – nonché di cittadino condotto e consapevole, che sappia tradurre la civiltà in aggregazione urbana e sociale; la missione dell’architetto è la risoluzione, la rigenerazione dei tessuti offesi dall’incuria e dal disprezzo che si compie attraverso sottili opere di “rammendo” (cito Renzo Piano) distribuite nel tempo. Opere mirate, fatte di microcantieri e di interventi non invasivi, di piccoli atti d’amore civico e civile ispirati dal desiderio di costruire la pace. In scenari di incertezza morale e formale, diffusi in ogni città del mondo, un progetto, che nasce dalle idee e dall’incontro con gli utenti, si rivela un doveroso impegno dell’architetto nei confronti dei suoi concittadini. Risanare i deserti periferici è la prima tappa di un lungo cammino per fermare la desertificazione dell’anima.
Suburbs are a concept, a spatial idea and a moral issue. The birth of a city, considered in its purest sense of sharing core, always and inevitably involves, at the same instant, the spontaneous formation of an environment “around”, the most external and the most flaked, and a thin boundary line that divides - and then separates - the center of life and urban activities from the halo of rarefied teeming suspension that is the periphery. A sort of lacework that finds the most complex design at its centre, with weavings and textures close together, jointed, from which a more free and wider decor is slowly outlined, taking shape between the hands of a forgetful weaver following an indefinite project, left to chance, to the mere act of creating. A wide-angle photography in gray tones focusing on clear, fine details concentrated in one point, with an off-focal zone, blurred, deflected, flatted by perspective. The circular propagation of vibrations in the still water of a lake, from the point where the stone fell, of concentric waves getting wider and wider and less and less defined, getting lost beyond the delicate wave front. Born from the lack of care, from the echo of a civilization shut behind the city walls only letting out short impressions, rendered in suburbs and ghettos. The substance of which the spirit of any civilization – that finds in Architecture its best way of expression – is made of seems like fading as the city grows and expands from its centre, which holds its essential core, decreasing in density and intensity – of aesthetics, significance, settlement, and demography. In the early years of the twentieth century, Le Corbusier was designing a prototype of Radiant City where the centre and the periphery are joint (for better, they do not exist). Straight roads, right angles, encoded sites outline a brand new and rational concept, the zoning: all places have the same relevance, all functions are settled in sectors, the transport system is intuitive, direct. An organism-city whose components are dependent on each other and every part cooperates in a social and urban equilibrium that, looking at the current reality and the past one, seems like an utopia. Since ancient times, the making of a city firstly depends on the establishment of a central nucleus of family and clans setting up a living cell meant to grow up and multiply. Raising the perimeter walls gets to be, unavoidably, the synonym of social and cultural walls cutting out those living on the borderline. The suburbs, regarded as a symbol of exclusion, even before being the cause, are the effect of decay. This comes from the lack of feeling and social agreement in which all the outsiders, the excluded ones, those cut out of the perimeter are exiled. People who start their own day long before the dawn breaks, standing in stations and bumpy bus stops, waiting (and hoping) for those transport means leading to the city centre that often disappoint the expectations, as well as the undeniable rights of every citizen. Suburbs run on roads asphalted in holes and cracks, in abandoned spaces where nature, infrastructure and architecture struggle, spread out of control, and die under the shots of time. The great formal dispersion characterizing the suburbs and developing the urban sprawl is a fertile ground for experimentation, in all its shapes, from the architectural to the social one. Abusiveness and building speculation settle easily there, undisturbed, rooting deep and feeding on an already harassed, violent ground; maxi construction sites start up and spread in the intolerance (often in incognizance) of those who live there, in those“emotional deserts”that mostly fall in violence, precariousness, silence. Mechanically, the expansion of suburban areas is unstoppable. Central urban zones’inaccessibility – in economical and dimensional terms – is the primary cause of that, which lets a loveless way of building grow stronger, regardless of the community’s necessities and actual needs, an almost inexistent urban plan, bare of those arrangements and predispositions that, if applied, would not allow such discontinuity. The stylistic disorder and the discrepancy of functionality of the buildings, that often end in another use (different from the intended one), are cause and consequence of the deep disease to which the concept of periphery is generally associated, as well as the concept of “periphery people, established that an individual is the reflection of the environment he lives in. This is to call architecture’s intimate meaning, that is most political, and now tragically urgent: to respond to the necessities of the community by the formal transposition of the solutions to human expressed, and globally shared, needs. A customized settlement space, with green areas and efficient infrastructure systems; cultural buildings and sharing places; the dignity of an environment keeping that original spirit from which the city is born: civilization. The role of the Architect is to be a pathfinder, a politician – from the polis – as well as a conscious and conducted citizen, meant to be able to translate civilization to urban and social aggregation; the architect’s mission is resolution, regeneration of the urban fabric, injured by carelessness and contempt, operated by a fine work of “mending” (cit. Renzo Piano) distributed over time. Targeted works, made with micro sites and non-invasive interventions, small acts of civic and civil love inspired by the desire to build peace. In moral and formal uncertainty scenarios, spread throughout all the cities in the world, a project, born from fresh ideas and the meeting with users, shows a due commitment for the architect towards his fellow citizens. Restoring the peripheral deserts is the first step of a long path to stop the desertification of the soul.
Editorial
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Il senso del limite prima delle periferie: quando la città era ancora definita Testo e traduzione di Daniele Bigi Periferia s. f., dal latino tardo peripherīa «circonferenza», gr. a. περιϕέρεια, der. di περιϕέρω «portare intorno, girare».
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ulla complessa e sempre aperta questione intorno alla città, al concetto di periferia si è soliti associare l’idea di un quartiere monoreddito o monofunzionale, distante dal centro cittadino, privo di identità. E’ chiaro che il paesaggio oggi percepibile, landscape dell’esistenza umana, sia il risultato delle trasformazioni che l’uomo nel corso del tempo ha impresso sull’ambiente naturale. Ma nel considerare la periferia degli sprawl, dell’abusivismo o slum come la volontaria rinuncia di un disegno urbano da parte degli architetti contemporanei, riportando un pensiero di Vittorio Gregotti, sorge spontaneo un interrogativo: si è rivelato fallimentare il surplus dei segni che nella storia l’uomo ha prodotto sul paesaggio per trasformarlo in base alle proprie esigenze o è ancora la mancanza di un segno forte ad identificare i territori delle periferie come spazi estranei alla città? L’ invito ad un’attenta riflessione può essere suggerito da alcune fonti letterarie antiche, che avvolgono il ragionamento dell’architetto-urbanista al filo nostalgico di un racconto mitologico, ed in questo caso narrano la potenza di un semplice solco d’aratro nel processo di configurazione della forma di Roma arcaica. Al capitolo settimo del libro I degli Annali di Tito Livio, Ab Urbe condita, si legge: «Romulum Remumque cupido cepit in iis locis, ubi expositi ubique educati erant, urbis condendae». Lo storiografo augusteo narra il mito della nascita di Roma e le righe citate possono facilmente essere tradotte in italiano come «Romolo e Remo furono colti dal desiderio di fondare
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una città in quei luoghi in cui erano stati abbandonati ed allevati». Come progettisti contemporanei, eredi della tradizione moderna e quindi consapevoli del «god is in the details» sostenuto da Mies van der Rohe, se si prova ad applicare la lezione d’architettura al campo della filologia ci si può accorgere che la traduzione dal latino del passo di Tito Livio perde una sfumatura, fondamentale per comprendere la concezione della città presso i romani. La cupido urbis condendae, letteralmente il desiderio di fondare una città, incarna l’ambizione dei giovani fratelli di emulare il nonno materno, l’anziano Numitore, re acclamato di Alba Longa; il termine cupido viene espresso al caso nominativo ed assume la funzione di soggetto, proprio per sottolineare una volontà che viene dal Cielo. E’ dunque un tale desiderio, parola che nella sua etimologia contiene a sua volta il sostantivo sidera (letteralmente le stelle), a possedere Romolo e Remo ed a conferire un carattere magico, per meglio dire sacro, all’atto di fondazione di una città. Lo stretto collegamento esistente in passato tra la dimensione religiosa e la sfera politica, di cui la forma della città altro non è che il segno tangibile su un territorio dell’ideologia sociale di un popolo, è caratteristico di tutta l’età antica. Così il concetto moderno di periferia, ufficialmente introdotto con la nascita e lo sviluppo della scienza urbanistica nel XX secolo, non è applicabile alla concezione di insediamento abitativo degli antichi romani, presso i quali la distinzione tra città e campagna, la stessa che nel mondo greco sussisteva nella dicotomia tra polis e non polis, era netta ed evidente. A Roma la divisione della terra era definita con la tecnica della limitatio, lo strumento che attribuiva valore sacro al terreno civile che ha
impostato strutture geometriche basilari per il catasto, ancora oggi rintracciabili nelle planimetrie delle nostre città: l’asse stradale NordSud detto cardo o linea antica, l’asse Est-Ovest detto decumano o linea postica, il punto d’incrocio tra le due detto “decussis”, la collocazione nel terreno di cippi o termini, esprimono l’antica esigenza di marcare dei limiti all’insediamento urbano, la sicurezza di possedere riferimenti che, al contrario, la città contemporanea, con la sua espansione a macchia d’olio secondo logiche imposte da esigenze tecniche e dagli interessi economici dominanti, ha dimenticato. Nel riprendere la cronaca del mito, la storia narra che appena gli auspici scelsero come sovrano Romolo, il re manifestò immediatamente l’esigenza di separare l’urbs dall’ager. Egli riportò un forte segno sul terreno del Palatino tale da distinguere tutto ciò che aveva pertinenza con la città da ciò che non era città, seguendo la consuetudine del rito etrusco che consisteva in una simile procedura: «Messi a giogo un toro e una vacca, si che questa fosse dalla parte di dentro, con l’aratro conducevano un solco in giro, per ripararsi con fossa e muraglia: il vano fatto col cavar la terra, dicevano fossa; e il terrapieno alzato, arrovesciandola indentro, murus cioè muraglia. Il circolo, che seguiva a questi ripari, era il principio della città, e se ne diceva il pomerio, quasi postmoerium, perché era dietro alla muraglia: esso era il confine degli auspici urbani» (Varrone, De lingua latina, V, 143). L’operazione di delimitazione effettuata con l’aratro e finalizzata a segnare il territorio “girandogli intorno” (che rimanda all’origine etimologica del termine periferia), presupponeva piccoli tratti in cui il vomere era tenuto sollevato. Nel circuito del solcus primigenius si creavano delle piccole interruzioni necessarie a consentire la
permeabilità tra il mondo interno, intra muros, e il mondo esterno, extra muros. Per il principio quasi sempre ricorrente in architettura che fa corrispondere un’idea forte all’elaborazione di un solido progetto, una radice etica e morale va a comporre l’idea della cinta muraria, organismo architettonico articolato in fortificazioni e porte, concepito sia per assolvere esigenze difensive, sia come preciso landmark di identificazione del paesaggio nello spazio, il primo generatore dell’imago urbis percepibile da chi si appresta ad entrare in città. Varrone continua la sua trattazione specificando che sull’esempio di Roma, le colonie, definite urbes dal connubio semantico di orbis (circolo) ed urvum (aratro), venivano fondate con la stessa modalità «chiuse dentro al pomerium». Attualmente tanti esempi di città murate che si sono conservati nel corso della storia testimoniano l’antica volontà, espressa tramite l’architettura delle fortificazioni, di marcare un limite facilmente rintracciabile dall’esterno, di definire i contorni per risaltarne l’aspetto e conferire identità all’insediamento urbano. Oggi è la mancanza di un limite definito la componente assente della città contemporanea. Le periferie, spazi nell’antichità inesistenti sia concettualmente che materialmente, sono per lo più luoghi anonimi, spogliati della complessità delle funzioni e della qualità del costruito. L’ epoca postmoderna ha ufficialmente consegnato alla società contemporanea una configurazione della città caratterizzata da un elevato consumo di suolo. Di sicuro non si potranno immaginare ben visibili o inespugnabili, definiti da cippi o da fortificazioni, ma sulla lezione degli Antichi, per un sostenibile sguardo al futuro, sarà forse il caso di porre dei nuovi limiti al modello di città diffusa? 7
The sense of limit before periphery: when the city was still defined
Periphery n., from the late Latin peripherīa «circumference», from the ancient Greek περιϕέρεια, deriving from περιϕέρω «to carry around, to carry about».
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onsidering the complex and unsolved issue of the city, periphery is usually associated with the idea of a monofunctional or single-income district, far from the city centre, without identity. The landscape we know today, which has marked human existence, is clearly the result of the mutations imprinted overtime on the natural environment by mankind. Sprawl periphery or slum areas represent the voluntary denial of urban design by contemporary architects, like Vittorio Gregotti said; a question arises spontaneously: can artificial creations, built up by mankind throughout history, be considered a failure or is periphery still considered an outer edge of the city due to the lack of a marking change? A careful reflection may be suggested by ancient literary sources, which link the architect-urban planner to a nostalgic mythological tale, and declare the power of a simple furrow of a plough in the process of development of the archaic Rome. Titus Livius, in the seventh chapter of the Book One of Ab Urbe condita, wrote: «Romulum Remumque cupido cepit in iis locis, ubi expositi ubique educati erant, urbis condendae. The Augustan historian tells the myth of the birth of Rome, and the abovementioned lines» can be translated as «Romulus and Remus were craving for founding a city in those places where they had been abandoned and raised». If contemporary designers, heirs of modern tradition and therefore
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aware of the belief «god is in the details», supported by Mies van der Rohe, tried to apply the lessons of architecture to the field of philology, they would realize that the translation from Latin of Livy’s lines does not include a fundamental element in order to understand the conception of the city for the Romans. The cupido urbis condendae, literally the craving for founding a city, embodies the ambition of the young brothers to emulate their maternal grandfather, the elder Numitore, acclaimed king of Alba Longa; the term cupido is in the nominative case and has the function of subject, in order to underline a desire that comes from Heaven. The word “desire” etymologically derives from the noun sidera (literally “stars”); in the case of Romulus and Remus the term gives a magical character, rather holy, to the foundation of a city. During the ancient times, the political dimension was defined by the interaction between the shape of the city and the social beliefs of a culture and it has always been linked to the religious dimension. Therefore, the modern concept of periphery, officially introduced when urban science started to develop in the twentieth century, is not applicable to the concept of housing settlement of the ancient Romans. They actually made a large and definite distinction between town and country, the same one which clearly existed in the Greek world between polis and non-polis. In Rome, the land was divided by using the technique of limitatio, the tool which set the basic geometric structures for the real estate registry and attributed a holy meaning to civil estate. These characteristics are still traceable in the plans of our cities: the North-South road axis called cardo or old line, the East-West axis
called decumanus or linea postica, the crossing point between the two, called decussis, the placement of stones or soils in the land, express the ancient need to limit the urban settlements, the security of owning references that, on the contrary, the contemporary city, with its spreading expansion through technical needs and primary economic interests, has forgotten. The previously-mentioned myth has it that when the auspices chose Romulus as sovereign, the king immediately ordered to separate the urbs from the ager. He reported a strong mark on the Palatine ground so to distinguish all that was related to the city from what was not, following the Etruscan ritual that consisted in a similar procedure: «Many founded towns in Latium by the Etruscan ritual; that is, with a team of cattle, a bull and a cow on the inside, they ran a furrow around with a plough (for reasons of religion they did this on an auspicious day), that they might be fortified by a ditch and a wall. The place whence they had ploughed up the earth, they called a fossa ‘ditch,’ and the earth thrown inside it they called the murus ‘wall.’ The orbis ‘circle’ which was made back of this, was the beginning of the urbs ‘city’; because the circle was post murum ‘back of the wall’ it was called a post-moerium; it sets the limits for the taking of the auspices for the city» (Varro, De lingua latina, V, 143). The delimitation carried out with the plow and designed to mark the territory “by going around it” (which refers to the etymological origin of the term periphery), presupposed small sections where the plow was held up. In the circuit of solcus primigenius small interruptions, which are necessary to allow permeability between the inner world
(intra muros), and the outside world, (extra muros). In architecture the principle of equating a strong idea to the development of a solid design is very common, it is followed for the idea of the city wall, an architectonic element provided with doors and fortifications and connected to a deep ethic and morality. It is designed to fulfil defensive needs, as a specific landmark to identify the space and as the first generator of the imago urbis perceived by those who are preparing to enter the city. Varro continues his discussion by specifying that colonies, defined urbes from the semantical blend of orbis (circle) and urvum (plow), were «closed inside the pomerium» to emulate Rome. Currently many examples of walled cities, preserved throughout history, witness the ancient will, expressed through the architecture of the fortifications, to mark an easily detectable limit from the outside, define the boundaries, bring out the appearance and confer identity to urban settlement. Nowadays, the lack of a defined limit represents the missing component of the contemporary city. Anciently, periphery existed both conceptually and materially, but now they are mostly anonymous places, stripped of the complexity of functions and quality. The postmodern era has officially handed over to contemporary society a configuration of the city characterized by a high land consumption. Imagining visible or impregnable new limits, defined by boundary stones or fortifications is definitely an utopia, but considering the lesson of the ancients, for a sustainable look to the future, would new limits on urban sprawl model be necessary? 9
Architetture di frontiera: indagine, partecipazione e sintesi Il processo architettonico nei progetti tra Cile e Messico di Alejandro Aravena Testo e traduzione di Gabriele Berti 10
Architectures of the border: study, partecipation and synthesis
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uello che viene solitamente concepito come periferia sono aree della città spesso connotate da degrado architettonico e sociale, frutto di pianificazioni sbagliate o causato dal completo abbandono e disinteresse da parte delle amministrazioni locali. Allo stesso modo, allargando il nostro campo visivo al contesto europeo e mondiale, possiamo considerare come periferiche molte regioni e nazioni dove lo sviluppo incontrollato e la non salubrità urbana diviene norma. Nonostante l’attenzione del mondo dell’architettura sia solitamente concentrata nei centri cittadini e mondiali, queste zone “periferiche” rappresentano la stragrande maggioranza degli spazi abitati e dei cittadini. Lo rende evidente il fatto che, come intelligentemente evidenziato da Alastair Parvin, l’architettura ad oggi si sia spesso limitata a fornire il proprio contributo all’1% della popolazione mondiale,
cioè la parte che detiene la maggior parte della ricchezza. Ma cosa succede quando l’architettura decide di “scendere in campo”, spingendosi verso le periferie e verso quel 99% di popolazione che le abita? Una risposta ci viene data da Alejandro Aravena, premiato col premio Pritzker del 2016, direttore dello studio ELEMENTAL di Santiago del Cile, e curatore della prossima Biennale di Architettura di Venezia. «Come architetti, viviamo in un tempo i cui i paradigmi sono cambiati. Nel passato la scala dei nostri progetti era in continua crescita, ma quante persone venivano da essi realmente coinvolte? Oggi comprendiamo meglio la vera complessità dei problemi in gioco quando progettiamo edifici, quartieri e persino intere città – e questo richiede un nuovo e, più aperto, approccio». Egli raccoglie la sfida, interrogandosi sui problemi che caratterizzano il mondo delle periferie ed, in risposta, propone soluzioni architettoniche ed
hat is usually conceived as suburbs are city areas frequently characterized by architectural and social decay, result of wrong planning or caused by the complete abandon and indifference from local administrations. In the same way, widening our field of view to the european and world context, we are able to consider as peripheral a lot of regions and nations where the uncontrolled development and the lacking of healthiness become a norm. In spite of the attention of the architectural world is usually focused on the city and world centers, these “peripheral” zones are representing the biggest part of the populated spaces and inhabitants. This becomes evident when we see that, as smartly enhanced by Alastair Parvin, architecture today is often giving its contribution only to 1% of the world population, the ones holding the biggest part of richness. However, what’s happening when architecture take the decision to “step in the field”, going toward the suburbs and towards that 99% of population living in them? A response is coming from Alejandro Aravena: «As architects, we are living at a time of shifting paradigms. In the past, the scale of our designs grew large, but how many people were we really engaging with? Today, we understand better the sheer complexity of the issues at play when we design and plan buildings, neighborhoods and even entire cities – and this demands a new, more open approach». He is taking up the challenge, questioning himself about problems affecting the suburbs world and, as a response, proposing innovative architectural and urban solutions. From the analysis of his architectures we are able to identify two main working fields: institutional architectures and architectures for the people. Apparently, this two themes are completely the opposite, one the counterbalance of the other one, but in Aravena’s architecture they are contained under the same research field. Considering for example the council housing complex realized in South America, between Mexico and Chile, the architect set as fundamental 11
Nella pagina precedente: Villa Verde Housing, 2013, Constitución, ph. ELEMENTAL ; in basso, a sinistra: Quinta Monroy Housing, 2004, Iquique, ph. Cristobal Palma; destra:Villa Verde Housing, 2013, Constitución, ph. Cristian Martinez On the first page: Villa Verde Housing, 2013, Constitución, ph. ELEMENTAL ; below, on the left: Quinta Monroy Housing, 2004, Iquique, ph. Cristobal Palma; on the right:Villa Verde Housing, 2013, Constitución, ph. Cristian Martinez
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urbane innovative. Dall’analisi delle sue opere possiamo individuare due principali campi di applicazione: architetture istituzionali e architetture per il popolo. Apparentemente queste due tematiche risultano essere agli antipodi, una il contraltare dell’altra, ma nell’architettura di Aravena, vengono racchiuse sotto un unico campo di ricerca architettonica. Prendendo ad esempio i complessi residenziali popolari realizzati in Sud America, tra Messico e Cile, l’architetto individua come punto fondamentale il processo architettonico: non solo come la comprensione e risoluzione di problematiche tecnologiche e di programma, ma inteso come una forte commistione tra essi e la partecipazione attiva dei futuri abitanti, raccogliendone i pensieri, le necessità, le tradizioni e facendo della sua architettura un potente strumento di sintesi che porta ad un risultato concreto, sublimazione di tutto il processo che lo ha preceduto. «Vogliamo imparare da architetture che, nonostante (o considerando) la scarsità di mezzi, facciano tesoro di ciò che è disponibile invece di
lamentarsi per ciò che manca» Alejandro Aravena Nel progetto Quinta Monroy Housing a Iquique, del 2004, ed in Villa Verde Housing a Constitución, del 2013, la potenza della sintesi risulta evidente. In particolare nella seconda città cilena, fondata sul delta del fiume Maule ed ad esso legata a doppio filo, dove un forte terremoto con conseguente tsunami aveva distrutto un largo numero di abitazioni, con un elevato numero di vittime e sfollati. Lo studio venne coinvolto direttamente per la ricostruzione ed utilizzò il processo di sintesi e la partecipazione dei cittadini come elementi fondativi dei progetti. Nelle Residenze Villa Verde, il fondamentale contributo dello studio sta nel trovare una soluzione che risponde sia alle ristrettezze economiche dell’amministrazione, sia alle necessità presenti e future degli abitanti. Negando l’edificio a blocco come paradigma dell’abitazione popolare, fornisce ai futuri inquilini un limite, una struttura al cui interno ognuno di essi possa subentrare all’architetto costruendo il
proprio futuro. I nuovi edifici in linea progettati da Aravena, si configurano come una proposta tipologica innovativa, in risposta al complicato tema delle abitazioni popolari. Il nuovo sistema, fornendo patii esterni ed una composizione di spazi interni essenziali, riesce a garantire una salubrità, in termine di spazi interni ed esterni, caratteristiche solitamente non peculiari di questa tipologia abitativa. Ogni blocco di abitazioni contempla nel progetto uno spazio “di vuoto”, della stessa dimensione della residenza, atto ad ospitare la crescita futura dell’edificio, consentendo lo scorrere e lo svilupparsi della vita all’interno di essi: un’architettura che si presenta come una sorta di canovaccio aperto all’improvvisazione ma che mantiene forti le strutture ed gli elementi fondativi. Alejandro Aravena ed ELEMENTAL forniscono un esempio e un approccio di valore al tema delle periferie, banco di prova per un’architettura che possa essere in grado di proporre soluzioni intelligenti alle problematiche contemporanee.
the architectural process: not only in the meaning of understanding and solving technological and programme problems, but a strong mixture of them and the future inhabitants active participation, collecting thoughts, needs, traditions and establishing his architecture as a powerful synthesis tool leading to a concrete result, the sublimations of the whole previous process. In the Quinta Monroy Housing project in Iquique, of 2004, and in Villa Verde Housing in Constitución, of 2013, the power of synthesis is evident. Especially in the second chilean city, founded on the delta of the river Maule and strongly tied to it, a powerful earthquake and a tsunami destroyed a large amount of houses, with a high number of victims and homeless. The office was involved directly in the reconstruction and used the synthesis process and the participation of the citizens, as founding acts of the project. In the Villa Verde Housing, the important contribution of the office lies in founding a solution that responds to the economical tightness of the urban administration, and to current and future needs of the inhabitants. Denying the block building as a typology for council housing, is providing the future tenants a boundary, a structure in where everyone of them will be able in the future to take over the architect and build his own future. These new line-building built by Aravena, are amounting to propose an innovative typology, in response to the complicated theme of the council housing. The new system, providing courtyards and a composition of essential inside spaces, succeed in guarantee housing healthiness, in term of inside and outside spaces, characteristics those are not typical of this housing typology. Each block is considering in the project a “gap” space, with the same dimension of the house, appointed to host the future grow of the building, allowing the flowing and developing of life in them: an architecture showing itself as a sort of plot outline open to improvisation but maintaining strong structures and founding elements. Aravena and ELEMENTAL are providing an example and valuable approach to the suburbs theme, testing field of an architecture that could be able to propose smart solution to contemporary problems. 13
Il paradosso della periferia e l’eterno conflitto tra etica ed economia Testo di Pierluigi Mastroianni Traduzione di Agnese Oddi
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ggetto di attenzione da parte dei mass media, le periferie delle grandi città, oggi, sono spesso chiamate in causa per questioni legate al degrado. Sono, dunque, noti a tutti i problemi in cui versano le aree marginali delle metropoli contemporanee: dal vandalismo ai rifiuti, dallo spaccio di droga alla criminalità, sintomi non solo di uno stato di decadenza urbana ma anche di un diffuso malessere sociale. Fenomeno ampiamente diffuso in questi ultimi anni è quello dell’intensa e frenetica attività edificatoria che interessa la maggior parte delle periferie urbane, tra cui quelle romane, costellate di cantieri aperti. Chi abita fuori città può facilmente incontrarli mentre percorre il tragitto per raggiungere il centro storico: lo skyline della periferia è sempre più caratterizzato da profili di gru e di strutture in calcestruzzo armato erette su immense distese di terreno. Oggi è possibile assistere ad una radicale trasfigurazione del nostro territorio: le aree rurali, trasformate nel giro di pochi anni in quartieri nuovissimi, non rappresentano più una novità. Nonostante il diverso contesto storico, sociale ed economico, l’edilizia sorta nella seconda metà del secolo scorso aveva un carattere più “umano”: ad esempio il piano INA - Casa, nato nel secondo dopoguerra con la finalità di realizzare edilizia residenziale pubblica, assicurò alloggi a tutte quelle famiglie che avevano un basso reddito. Successivamente, il boom economico e il conseguente diffondersi di cantieri per l’edilizia privata, portò allo sviluppo incontrollato delle città. Oggi quel carattere sociale di fare edilizia sembra quasi essere totalmente scomparso: nonostante l’emergenza abitativa esista ancora, si ha la sensazione che a muovere il mondo delle costruzioni siano motivazioni di carattere puramente economico, in particolare di profitto. Non sembra esserci la volontà di risolvere realmente il problema: i nuovi quartieri hanno un carattere prevalentemente residenziale ma la maggior parte delle
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palazzine risultano sfitte o invendute a causa del loro alto costo (Legambiente, nel 2012, denunciò la presenza di 250 mila appartamenti vuoti nella capitale); e gli unici luoghi di aggregazione sembrano essere quei grandi centri commerciali che sorgono lungo il perimetro urbano. Altra questione fondamentale è la emergenza abitativa: assistiamo sempre più frequentemente ad episodi di occupazione abusiva di edifici da parte dei cosiddetti “comitati popolari di lotta per la casa” e allo sfratto di famiglie con evidenti difficoltà economiche. Tra i famigerati “palazzinari” e le famiglie disagiate troviamo l’amministrazione pubblica che non riesce né a mettere un freno all’espansione della città né a risolvere la questione abitativa. Non c’è ombra di dubbio sulla possibilità che, attorno a questa vicenda che li coinvolge, ci siano figure disposte a muoversi nell’illecito per ottenere dei benefici o trarre profitto. In un simile scenario, fortunatamente, qualcuno inizia a muoversi in maniera differente: il gruppo G124, nato su idea Renzo Piano, si occupa proprio del recupero delle periferie. L’architetto, in un suo articolo per Il Sole 24 Ore datato 26 gennaio 2014, scriveva: «La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio. […] Oggi la crescita anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c’è un sacco di spazio disponibile. Parlo d’intensificare la città, di costruire sul costruito». L’azione che deve essere condotta oggi è quella del “rammendare”, dunque, aggiustare (adattando la definizione al contesto) per mezzo di fili passati ad intreccio con l’ago, parte di quel tessuto urbano danneggiato. Sempre più importante diviene, quindi, gestire con giusto criterio le aree più esterne della città perché una buona immagine delle periferie non può far altro che valorizzare l’immagine della città intera.
The paradox of the suburbs and the eternal conflict between ethical and economic issues S
ubject of attention from the media, the suburbs of big cities, today, are often called upon to related degradation issues. They are, therefore, known to all the problems faced by the marginal areas of the city: from vandalism to waste, from drug-dealing crime in general, not just symptoms of a state of urban decay but also of widespread social unrest. However, it is well placed in the background all those that could be the causes of these hardships, discouraging the research aimed at providing strategies for overcoming them. Widespread phenomenon in recent years is that the intense and hectic built activity that affects the majority of urban suburbs, including those in Rome, dotted with construction sites. Those who live out of town can easily meet them and follow the route to reach the city center: the suburban skyline is increasingly characterized by crane profiles and reinforced concrete structures erected on huge expanses of land. Today you can watch a radical transfiguration of our territory: rural areas, transformed within a few years in brand new neighborhoods, are no longer a novelty. Despite the different historical, social and economic, the kind construction in the second half of the last century had a more “human”: for example, the INA - House floor, born after World War II with the aim of achieving public housing, assured accommodation to all those families who had a low income. Subsequently, the economic boom and the consequent spread of sites for private construction, led to urban sprawl. Today that social housing to make it almost seems to be totally disappeared: despite the housing crisis still exists, there is a feeling that move entrepreneurs are economic reasons, profit in particular. There seems to be a willingness to really solve the problem: the new districts have a predominantly residential character but most of the buildings are vacant or unsold because of their high cost
(Legambiente, in 2012, denounced the presence of 250.000 empty apartments in capital); Furthermore, new infrastructure and equipment are made poorly or superficially. Often the only gathering places, in these suburbs, appear to be represented by those big shopping centers that are located in the immediate vicinity. Another major issue is the housing crisis: we see more and more frequently in episodes of illegal occupation of buildings by so-called “people’s committees of struggle for the house” and the eviction of families with obvious economic difficulties. Among the notorious “building speculators” and disadvantaged families are the government that can neither put a stop to the expansion of the city or to resolve the housing issue. There is no shadow of doubt on the possibility that, around this story that involves them, there are figures arranged to move in illegality to get the benefits or profit. In such a scenario, fortunately, someone starts to move in a different way: the G124 group, born thanks to Renzo Piano, takes care of the recovery of the suburbs. The architect, in an article for Il Sole 24 Ore dated January 26, 2014, writes: «The first thing to do is not to build new suburbs. We need the peripheries become the city but without widening wildfire. [...] Today, the explosive growth instead must be implosive, you have to complete the former industrial areas, military or railway, there is a lot of available space. I speak to intensify the city, to build on existing buildings». Second Floor, the action that needs to be conducted today is the “mending”, therefore, adjusting (adapting the definition to the context) by wire passed interlaced with the needle, some of that damaged urban fabric. It is important that the government manages with right criterion peripheral areas of the city because a good image of the suburbs can not help but enhance the image of the city itself. 15
Denuncia musicale dello stato di degrado delle periferie italiane Testo e traduzione di Lisa Patricelli
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a periferia, uno degli effetti negativi del boom economico italiano degli anni ‘60, è un tema ancora attuale, affrontato dai più grandi cantautori italiani. La periferia rappresenta l’effetto di un’urbanizzazione funzionale che non ha mai saputo rispondere totalmente ai bisogni sociali dei cittadini. Si tratta di quell’area in espansione, al confine con i nuclei urbani, che rappresenta il gap, la linea di confine tra l’organizzato, il bello, il turistico ed il dimenticato. Prendiamo in considerazione la periferia italiana, che esiste dai tempi dell’antico Impero romano ma che è diventata situazione di emergenza a seguito del boom economico ed edilizio del dopo guerra. Da allora, i maestri di tutte le discipline artistiche hanno cercato di denunciare lo stato di degrado, di abbandono e di noncuranza dei quartieri lontani dai centri civici: le periferie. Nel 1966, Adriano Celentano pubblica un 45 giri contenente una delle sue più note produzioni: Il Ragazzo della Via Gluck. Il quartiere Greco a Milano, in quegli anni, stava subendo trasformazioni radicali a causa dell’espansione urbanistica della capitale della moda italiana e Celentano cita: «solo case su case, catrame e cemento, là dove c’era l’erba ora c’è una città». Nello stesso anno il grande maestro Giorgio Gaber risponde ironicamente alla provocazione sociale dell’amico Adriano, pubblicando La risposta al ragazzo della via Gluck: è un brano poco conosciuto, ma decisamente interessante in quanto offre una visione completamente opposta a quella di Celentano. In questo brano, il problema non è relativo alle aree verdi cementificate, ma alle aree urbanizzate in degrado e destinate alla realizzazione di aree verdi. Gaber scrive: «e quel palazzo un po’ malandato va demolito per farci un prato; il nostro amico la casa perde per una legge del piano verde». Infatti, il protagonista della storia di Gaber, con fitto bloccato,
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viene sfrattato perché la sua casa deve essere abbattuta. Ovviamente, in questo testo si ritrova il gusto di ricostruire le dinamiche politiche degli anni del boom edilizio, in particolare si fa riferimento al 2 Giugno 1961, quando il quarto governo Fanfani firmava il Piano Verde per lo sviluppo agricolo. Si tratta degli anni di attuazione delle grandi manovre urbanistiche che si ponevano come obiettivo il superamento della fase di arretratezza attraverso grandi dibattiti sugli standard urbanistici, sulle aree destinate ai servizi o ancora sui piani urbani. Celentano e Gaber non sono gli unici cantanti ad affrontare il tema. Nel 1979 anche Renato Zero affronta il problema delle periferie, scrivendo: «C’è chi fin là non giunge mai: è lì che muore il mondo. E la città oltre non va, dove anche il cielo è di fango. Periferia, le baracche e più avanti la ferrovia. Là tutto fa colore, rifiuto e povertà». La descrizione mostra come in un decennio la situazione nel confine delle metropoli urbane non sia esattamente la stessa cantata da Gaber in Come è bella la città, nel 1969. Gli anni passano. Il genere musicale si evolve. Ad un anno dalla scomparsa di Giorgio Gaber, l’amico Celentano lavora ad un programma televisivo noto come Rockpolitik in cui viene denunciata la situazione sociale delle aree suburbane, sempre più in degrado, ma anche tutta la situazione politica e civica del Paese. Si ricorda che il programma televisivo è andato in onda su RAI1 in quattro puntate nel 2005 raccogliendo un’audience superiore agli 11 milioni di spettatori a puntata. Adriano e i suoi ospiti parlano della politica, della città e della società: qui la nuova generazione di artisti sente il bisogno di riaprire temi caldi tra cui, appunto, quello delle periferie. È il caso di Babaman, pseudonimo di Massimo Corrado, noto cantante reggae italiano proveniente dall’interland milanese che, nel 2008,
pubblica Periferia. Cambia, quindi, il genere musicale ma la situazione sociale delle aree suburbane identifica ancora quel gap di cui si parlava negli anni precedenti. A tal proposito Babaman scrive: «e nelle cantine ai piedi di case popolari nascondigli per badman e spacciatori sono le pistole a far la voce dei padroni, nelle vie intorno ai palazzoni mi chiedo che sarà di quei ragazzini nel parchetto». Se 30 anni prima Gaber denunciava lo sfratto di «un uomo che non poteva sposarsi senza un tetto», oggi Corrado fa un appello civile per le troppe vittime della droga: «qualcuno per la coca ha venduto l’appartamento, se pensi che sia uno scherzo, tu non conosci la realtà». È con il testo di questa canzone che Babaman invia il suo «messaggio al ghetto d’Italia». La nota è raccapricciante: non è un caso se Mr. Baba usa il termine “ghetto”. Occorre fermarsi sul concetto che racchiude questa parola e ricordare che nasce per indicare il quartiere ebraico, ovvero quella zona di città in cui gli ebrei erano confinati ad abitare. Nella nomenclatura moderna il termine si riferisce a quella parte malfamata di città, sfortunatamente coincidente con le periferie, aree in cui le persone considerate di un determinato retroterra, etnia o unite da una determinata cultura, vivono in gruppo, volontariamente o forzatamente in un regime di reclusione più o meno stretto. Il quadro è deludente. La situazione delle periferie è andata degradandosi sempre più, testimone lo è la musica italiana negli ultimi 50 anni. Il problema organizzativo, economico, culturale e sociale è al limite dell’esplosione. Una riflessione da parte di tutte le discipline umanistiche sorge spontanea. La domanda alla quale si deve rispondere è quale ruolo gioca l’urbanistica contemporanea, ed in che modo dovrebbe essere affrontato il problema per evitare una degenerazione futura? 17
Musical complaints on the deteriorating state of the italian suburbs
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eriphery is one of negative consequences of economical boom in Italy during ‘60s. This subject as topic remains still pertinent and then faced by the greatest Italian singer-songwriters. Urban outskirts are a result of urbanism, and the periphery has never been fully able to respond to the needs of citizens. The expansion area at the edge of urban city defines the gap between what is well-organized, tourist-friendly, and beautiful, and the chaotic, forgotten spaces. The Italian suburb has existed since the ancient Roman Empire. Following World War II, both economics and a housing boom resulted in a crisis situation. And for just as long, influential artists have placed blame upon the deteriorating condition of uptown areas, as well as their abandonment. In 1966, the Italian singer Adriano Celentano released his most famous song: The Boy from Gluck Street. In that time, in the Greek quarter of Milan, the city was changing radically due to urban expansion. As Celentano described: «just house on top of house, asphalt and cement. Where there was grass, now there is a city». In the same year, influential artist Giorgio Gaber replied to his friend Celentano’s social criticism with The Reply to the Boy from Gluck Street. While it is a little known track, it is notable for its meaning, offering the opposite of Celentano’s view. While in Celentano’s masterpiece the problem is related to green areas being covered in concrete, Garber’s song is about the degradation of urbanized areas caused by too much zoning. Gaber has written: «and that palace a little bit degraded has to be demolished to become a grass; our friend loses the house because of the Green Plan». In fact, the main character in Gaber’s story is evicted from his home because of his apartment building’s demolition, resulting from zoning restrictions that labelled the area as “green.” It is possible to have an idea of
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the political events during that housing boom, specifically the 2nd of June 1961. This date occurred during the fourth term of the Fanfani government, and found the signing of the Green Plan to promote agricultural development. The song is about the historical period in Italy when great manoeuvres were made with the goal of eliminating the backwardness of the country, with great debate and focus placed upon developmental plans, intended uses, services and urban plans. Celentano and Gaber were not the only ones speaking about the crisis in the outskirts. In 1979, Renato Zero spoke to the problem of peripheries and wrote: «there are those who fails to come over there: that’s where the world will die. The city doesn’t go beyond, where also the sky is made by mud. Periphery, barracks and up ahead there is the railway. That’s where everything makes colours, refuse, poverty». This description shows how in just a decade, the situation at the edge of the metropolitan area became very different than the one described in Gaber’s track How Beautiful is the City, released in 1969. The years go by and new forms of music are born. A few years after Giorgio Gaber’s passing, his friend Celentano works on a television show known as Rockpolitik, in which the social situation in the urban outskirts is discussed, as well as their degraded state and the social and political situations in the entire country. Adriano and his guests have been speaking for many years about political situations, the periphery, metropolitan areas, and society: there is a new generation of artists who are expressing and debuting hot topic issues. Babaman, the pseudonym for Massimo Corrado, popular singer of Italian Reggae, comes from the Milan Interland and released a track in 2008 known as Periphery. In this song, the musical genre has evolved, but the
social situation at the border of the metropolitan area continues to identify with the new generation, despite being discussed in previous years. In this regard, Babaman has written: «there are hiding places for Badman and pushers to underground areas at the bottom of social housing. There are guns to ensuring their owner’s voices in the streets around by those buildings. I’m wondering what’s become of those guys in the park». If 30 years before, Gaber was reporting about the eviction of «a man who cannot get married without an roof over his head», today Corrado makes a social appeal against drugs, which claim too many victims: «Someone sold his apartment because of the cocaine, if you think that it’s a joke, you don’t know the truth». It’s with this lyric that Babaman sends his «message to the Italian slum». His note is horrifying: it’s no coincidence that Mr. Baba uses the word “ghetto”. The song forces us to stop and think about the concept of enclosure that is found in the slum. In particular, it reminds us that the word “ghetto” was born to indicate a Jewish area, a zone at the border of the city where Jewish people were confined to live. Coincidental to the outskirts is that these zones often find people that have different considerations and different priorities in life, due to coming from another region, ethnicity, or culture. They are considered to be living together and acting in groups, whether voluntary or forcibly. The scene is disappointing. The situation at the border of metropolitan cities has been getting worse, judging by the Italian music over the last 50 years. The organizations, economics, cultures and social situations are all on the verge of explosion. The big question that needs to be asked is about what kind of role needs to be played by contemporary urbanism, and the specific ways to approach its problems in order to avoiding future degeneration. 19
Apologia di un architetto: il quartire Zen di Palermo Testo di Marco Vidor Traduzione di Lucrezia Parboni Arquati
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’assetto del territorio italiano, durante e dopo l’incredibile ripresa economica, ha visto uno stravolgimento diffuso che coinvolse indistintamente nord e sud del Paese. I centri cittadini si sono svuotati, divenendo luoghi di monumenti e uffici, abbandonati da persone che cercavano la serenità nelle periferie e nei sobborghi, lontani dal caotico centro urbano. Nacquero così, in tutta Italia, centri di aggregazione periferica, veri e propri quartieri residenziali perfettamente indipendenti e autonomi rispetto al cuore storico della città; di esempi ce ne sono in abbondanza e si sprecano nella loro descrizione progettuale. Sarebbe interessante analizzare con attenzione le caratteristiche tipologiche di questi nuovi centri abitati, per definirne similitudini e soprattutto per sottolinearne le differenze che a volte segnano la poca attenzione con cui questi modelli di espansione sono stati difesi e sviluppati. Da Milano a Palermo, molto spesso, questi insediamenti sono solo il simbolo di una commistione tra poteri forti, politica - economia - impresa costruttrice, che non hanno nulla a che vedere con l’architettura. Se il caso delle Vele di Scampia, con la sua delinquenza dilagante, è già noto ai più, in merito al quartiere Zen di Palermo qualche parola va ancora spesa. L’acronimo, che sta ad indicare la Zona di Espansione Nord della città, ha qualcosa di paradossale e quasi ironico. Da sempre è, infatti, sinonimo di degrado economico e sociale. Sviluppato sulla base di un concorso vinto dal team composto da Vittorio Gregotti, Franco Amoroso, Salvatore Bisogni, Hiromichi Matsui e Franco Purini, lo Zen è un quartiere di edilizia popolare, pensato lungo la direttrice
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che porta da viale Strasburgo allo svincolo autostradale per Trapani. L’idea progettuale voleva che il nuovo quartiere, che di lì a poco avrebbe visto la luce, fosse una sorta di isola galleggiante tra il verde dei giardini di agrumi e i quartieri storici della città, come ad esempio San Lorenzo o Pallavicino. Un’operazione di sovrapposizione, che si poneva l’obiettivo di collegarsi alla complessa rete di rapporti che si stabiliscono nel centro storico della città. E’ lo stesso Franco Purini, progettista assieme a Vittorio Gregotti, a sottolineare l’innovativa natura di un’interpretazione del tutto palermitana di un tema che traeva origine dell’esperienza razionalista italiana, mettendo in relazione il lavoro di Terragni e Sartoris per Como del 1938 con la netta e forte struttura della città siciliana di più antica fondazione. Come l’intricata soluzione dei percorsi, vie, borgate e giardini di ville sono state la matrice su cui è andata sviluppandosi la città nella Conca d’oro, così lo Zen aveva la velleità di dialogare con tutto ciò, pur evidenziando il suo forte spirito contraddittorio. La complicata struttura spaziale ipotizzata dai progettisti sarebbe stata possibile anche senza soluzioni di continuità, perché la disposizione urbanistica prevedeva un’attenta costruzione di gerarchie tra percorsi e spazi, distribuiti su differenti livelli, che avrebbero alternato e soprattutto diversificato quelli veicolari da quelli pedonali, gli spazi pubblici attrezzati da quelli comuni interni alle residenze vere e proprie, le piazze dai cortili e via dicendo. La diversità e la ricchezza dei rapporti gerarchici tra i diversi spazi si sarebbe dovuta basare sull’attenta articolazione dell’architettura della insula, descritta con sistemi di aggregazione delle unità abitative a
vari livelli; sarebbe stata permessa, così, una diversificazione dei modi di fruibilità e di utilizzo, in modo da controllare le intersezioni negative dei percorsi ma evitando l’isolamento, salvaguardando la natura collettiva dell’abitare e richiamando ancora una volta il centro storico della città di Palermo. Tutte le premesse lasciavano presagire un progetto di grande architettura, ma qualcosa nelle fasi successive andò evidentemente storto. L’impietosa revisione operata sistematicamente da chi si proclamava paladino del moderno, da chi per vari motivi, anche i più vili, non ha compreso il senso o ha tradito i principi, per trarne una qualche utilità biecamente contingente, ha segnato il limite e la fine di questo progetto così come era stato pensato. E’ dunque così che tutte le modifiche subite dal progetto iniziale, almeno quelle non avvallate dal gruppo di progettazione, hanno di fatto distrutto le intenzioni, modificandone le ipotesi di lavoro, per realizzare qualcosa che non ha più niente di un intervento unitario di grande valore architettonico e urbano; risulta essere, in definitiva, solamente un accumulo di edifici mal progettati e ancor peggio costruiti. Alla scala urbana, in cui forse il progetto sarebbe stato meglio apprezzato, ciò che più ha segnato negativamente le intenzioni progettuali è stata la rinuncia ad eseguire quell’intervento unitario come inizialmente pensato, nella sua completezza e morfologia, non realizzando servizi ed attrezzature necessarie che avrebbero permesso il giusto rapporto con l’esistente ma soprattutto con il territorio; non meno grave è stata l’azione di rottura della compattezza delle insule, con la non realizzazione di alcune o lo spostamento di altre, andando a creare così una serie di vuoti non progettati e sfalsando gli allineamenti con il
tessuto esistente o che comunque si stava formando. La non realizzazione e la diversa organizzazione degli edifici e degli spazi che avrebbero consentito una reale connessione con la città in continua espansione hanno negato i valori ed i legami che erano invece il nucleo centrale del progetto del team guidato da Gregotti. In una sorta di regressione verso una primitiva forma di città fortezza, che incide in maniera ancor più negativa il progetto, è stato aggiunto un anello stradale che ha sostituito gli edifici per servizi e i fronti delle insule stesse inizialmente progettati come limite stesso del nuovo nucleo insediativo. Tutta questa lunga serie di variazioni, alcune immediate e imposte agli stessi progettisti, altre arrivate da qualcuno che sta più in alto e che aveva scopi poco pregevoli, hanno smantellato e distrutto un progetto che, se completamente realizzato, avrebbe dato una svolta positiva alla storia dell’urbanistica palermitana; invece, per queste ragioni appena elencate e per altre, il progetto Zen è diventato sinonimo di un errore progettuale, un intervento assolutamente negativo e sbagliato fin dalle sue battute iniziali. Un quartiere simbolo di disagio sociale e urbano che non si è legato al resto della città ma anzi ne ha incentivato il degrado. Un progetto che si è perso nei meandri della burocrazia e della politica, un architetto che non è riuscito a difendere un complicato e difficile intervento urbanistico, una società che si è adeguata a ciò che ha trovato. «Invece di tentare di strappare ordine dal caos, il pittoresco viene strappato dall’omogeneo, il singolare liberato dallo standardizzato». La città secondo Rem Koolhaas diventa junkspace, «Non c’è forma, solo proliferazione». 21
Apology of an architect: the Zen district of Palermo
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he structure of the Italian territory, during and after the incredible economic recovery has seen a widespread distortion both in North and South. The city centers are empty, becoming places of monuments and offices, they were abandoned by people who moved in the outskirts and in the suburbs, far from the chaotic city center, loking for serenity. This is how born, throughout Italy, peripheal aggregation centers, real residential neighborhoods completely independent and autonomous compared to the historical heart of the city; there examples are many and abound in their project description. It would be interesting to analyze carefully the typological characteristics of these new towns, to define similarities and especially to emphasize the differences that sometimes mark the little attention with which these migration patterns have been defended and developed. From Milan to Palermo, very often, these settlements are only the symbol of a blend of strong powers, politiceconomy- building enterprise, that have nothing to do with architecture. If the case of the Vele di Scampia, with its crime, is already known to most people, on the ZEN neighborhood of Palermo few words have to be spent. The acronym, which stands for the Expansion of North Zone of the city, has something paradoxical and almost ironic. In fact, it has always been synonym of economic and social degradation. Developed on the basis of a competition won by the team composed by Vittorio Gregotti, Franco Amoroso, Salvatore Bisogni, Hiromichi Matsui e Franco Purini, Zen is a public housing district, thought along the route that leads from Viale
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Strasburgo to the highway junction to Trapani. The projectual idea wanted the new neighborhood, which soon would see the light, to be a kind of floating island in the green of citrus gardens and the historic districts of the city, such as San Lorenzo or Pallavicino. An operation of overlapping to the signs in the area, which had the goal to connect to complex network of relationships that are established in the historical center of the city. It is Franco Purini, designer with Vittorio Gregotti, to emphasize the innovative nature of a properly palermitan of an issue originated by Italian rationalist experience, linking the work of Terragni and Sartoris of Como 1938 with the clear and strong structure of the more ancient Sicilian city. Such as the intricate paths, streets, working-class suburbs and gardens villas have been the matrix of which has been developed Conca d’Oro, so Zen had the ambition to dialogue with all, while showing her strong spirit contradictory. The complicated spatial structure assumed by the designers would also have been possible even without interruption, because the urban disposition stated a careful construction of hierarchies between routes and spaces, distributed on different levels, who would alternate and especially diversified the vehicular ones from the pedestrian ones, the public spaces equipped from the common internal in the actual residences, squares from the courtyards and so on. The diversity and richness of the hierarchical relationships between the different spaces would have be based on careful architectural articulation of the insula, described with aggregation systems of housing
units at various levels; would be allowed, so, a diversification of ways of usability and usage, in order to control the negative intersections of routes but avoiding isolation, preserving the collective nature of living and recalling once again the historic city centre of Palermo. If all the conditions would predict a great architectural project, something in the later stages must have gone wrong. The merciless revision systematically carried on by those who are proclaimed champions of the modern, by those who for various reasons, even the most vile, do not understand the meaning or has betrayed the principles, to draw some grimly utilities, marked the limit and the the end of this project as well as had been thought. All the changes undergone by the initial project, at least those not endorsed by the design group, have in fact destroyed the intentions, changing the working hypotheses, to achieve something that has nothing of an unitary intervention of great architectural and urban value; it turns out to be, ultimately, only an accumulation of buildings poorly designed and worse built. The urban scale, in which perhaps the project would have been better appreciated, what most negatively affected the design intentions was the renounce to run the operation as originally thought, in its entirety and morphology, not realizing services and necessary equipment would allow the right relationship with the existing but especially with the territory; also important was the action of breaking of the compactness of the insulas, with the non-realization of someone or moving other, going to create a series of empty and not designed by
staggering the alignments with the existing fabric or that otherwise it was forming. The omission and the different organization of the buildings and spaces that would have allowed a real connection with the city expanding denied the values and links that were instead the core of the project of the team led by Gregotti. In a kind of regression to a primitive form of fortress town, which impacts in an even more negative way on the project, was added a ring road which replaced the buildings for services and islets fronts initially designed as a limit the same nucleus of the new settlement . All this long series of changes, some immediate and imposed to the same designers, others are coming from someone who is higher and who had little valuable purposes, dismantled and destroyed a project which, if fully realized, would give a positive twist to the story urbanism Palermo; instead, for these reasons mentioned above, and others, the ZEN 2 project has become synonym of a design error, an absolutely negative intervention and wrong right from the opening bars. A district symbol of social and urban unrest that has not been linked to the rest of the city but in fact it has encouraged degradation. A project that has been lost in bureaucracy and politics, an architect who could not defend a complicated and difficult urban intervention, a company that has adapted to what he has found. «Instead of ripping order off chaos, the picturesque is ripped off the homogeneous, the singular liberated off the standardized». The city according to Rem Koolhaas becomes junkspace, «there is no form, only proliferation». 23
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Il nuovo respiro di Corviale RESPIRO, il progetto vincitore del concorso Rigenerare Corviale, mette a sistema diverse scale di intervento per tentare di ricucire il legame spezzato tra la dimensione urbana e l’intimità domestica Testo e traduzione di Veronica Carlutti
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rasformare quella che oggi si può definire una città fortificata in un complesso permeabile e accogliente: questa la sfida lanciata dal Concorso Internazionale di Progettazione “Rigenerare Corviale” bandito dall’ATER (Azienda territoriale Edilizia Residenziale). Restituire una dimensione umana ad una struttura architettonica-urbana fuori scala, le cui proporzioni stranianti riducono e comprimono lo spazio vitale degli individui, è l’idea da cui scaturisce Respiro, il progetto vincitore dell’architetto Laura Peretti di Studio Insito. L’intuizione vincente della Perretti è quella di mettere a sistema diverse scale di intervento per ricucire il legame tra la dimensione urbana e l’intimità domestica, inserendo uno spazio intermedio. In questo modo l’architetto intreccia, pazientemente, un sistema di relazioni e di punti di connessione tra le abitazioni e con la città. La visione che il progetto propone è una dilatazione del piano terra, ottenuta traslando e ridisegnando la strada parallela all’edificio – via Poggio Verde. Lo spazio generato tra la direttrice viaria e l’edificio accoglie una sequenza sinuosa di piazze dalle quali si snodano i diversi percorsi di accesso alle abitazioni e di attività pubbliche - atelier, centro di ricerca agricolo, laboratori e negozi – resi permeabili e percepibili grazie all’ampio uso di superfici vetrate. Lungo l’attacco a terra, la fluidità del terreno viene assecondata e i naturali declivi vengono sfruttati per ottenere i percorsi pedonali ed aree verdi con spazi attrezzati per il gioco dei bambini e gli orti urbani. La natura e l’architettura si toccano fino a
compenetrarsi l’un l’altra e l’architetto Perretti fonde con sensibilità, la netta matrice di composizione dell’edificio con la leggerezza e la naturalezza dei declivi verdeggianti che le fanno da contrappunto. Una pausa nel verde del parco, una grande piazza, centro vitale dell’intero sforzo creativo, interrompe la linearità dell’edificio e un grande varco al piano terra dà respiro all’edificio creando un rapporto visivo tra la piazza e la campagna retrostante. Dopo aver elaborato il sistema paesaggistico, la Peretti scende di scala e progetta gli accessi e i corpi scala. Forse è presto per stabilire se questo sarà solo il primo intervento di un progetto di recupero completo ed efficace del Serpentone, come affettuosamente ribattezzato dai romani; di certo c’è che un primo e concreto passo è stato fatto per porre l’attenzione su tutte quelle esistenze periferiche che vivono un disagio profondo e per individuare, con questa esperienza, una strada da seguire. E proprio l’intuizione di questo architetto potrebbe offrire un spunto di riflessione. Lo spazio di transizione - rappresentato dall’accesso agli appartamenti - è il punto focale dell’intera soluzione progettuale: luogo catalizzatore di esperienze collettive e relazioni di vicinato, attraverso il quale si concretizza la connessione tra la dimensione pubblica e la dimensione individuale e domestica, si fa carico di diversi valori relazionali e di intermediazione, estetici, sociali. Per questo, la sua complessità deve essere declinata alle diverse scale paesaggistica, urbana, architettonica – e sapientemente controllata.
The new breath of Corviale
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ransforming what is now described as a ‘walled city into a permeable complex” is the challenge issued by the International Design Competition “Regenerate Corviale”. Return a human dimension to an out of scale architectural/urban structure, whose alienating proportions reduce and compress the living space of individuals, is the idea from which “Respiro”, the winning project by the architect Laura Peretti from Studio Insito, comes to life. The winning intuition of Perretti is to combine different scales of intervention to repair the link between the urban dimension and the domestic intimacy, entering an intermediate space. In this way the architect patiently intertwines a system of relationships and connection points between the housing and the city. The vision that the project proposes is an expansion of the ground floor by translating and redesigning the street that runs parallel to the building. The space created between the road and the building is a sinuous sequence of squares from which the different routes of access to housing and public activities made permeable and perceptible thanks to extensive use of glass surfaces, wind through. Along the basement, the fluidity of the land is seconded and the natural slopes are exploited to realize pedestrian paths and green areas with spaces for children to play and urban gardens. The nature and architecture penetrate each other and the architect Perretti blends the squared building’s composition with the lightness and naturalness of the green slopes. A pause along the park, a large square, the vital center of the entire creative effort, breaks the linearity of the building and a large gate on the ground floor of the building will give breath creating a visual relationship between the square and the back country. After elaborating the landscape system, Peretti focuses on the design of the accesses and the stairwells. Perhaps it is too early to determine whether this will be only the first step of an effective recovery of the building or not; certainly, a first step was made to focus attention on all those suburban existences living a profound discomfort and to identify, with this experience, a way forward. 25
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Operazione giardini segreti Crisi e rigenerazione, cronache da un quartiere Testo e traduzione di Francesca Canali
«La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura» - Albert Einstein
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orino, San Salvario. Stazione, case di ringhiera, multi-etnicità. Questi attributi basterebbero da soli ad etichettare un quartiere come malfamato e pericoloso, da evitare assolutamente, soprattutto la notte. Non si può negare: fino a pochi anni fa, San Salvario è stato soprattutto questo. Densamente popolato, conosciuto come primo approdo per gli immigrati che arrivavano per lavorare nelle industrie cittadine, lo spaccio e la prostituzione ne hanno determinato la crisi a livello d’immagine e di qualità della vita. Crisi, si tocca il fondo e poi piano piano si risale, dal basso, con coraggio; rigenerare significa, prima di tutto, mettersi alla prova, sperimentare, servono ricerca e progettazione tecnica, mirando a un obiettivo ben preciso. Rigenerare non può e non deve essere un’azione singola, ma presuppone un intervento partecipato, collettivo, coordinato e capace di costruire rete tra cittadini residenti ed istituzioni. Nel 2010, l’architetto torinese Elena Carmagnani, di Studio 999, con
base nel quartiere San Salvario, sviluppa, con gli architetti Emanuela Saporito e Marta Carraro e con la sociologa Laura Sacco, una tra le azioni più significative nel contesto: il progetto Oursecretgarden, che ha come finalità la trasformazione del tetto piano dell’edificio in un orto a servizio di tutto il condominio, oggi aperto liberamente al pubblico. Nasce così OrtiAlti, start-up d’innovazione sociale al femminile, vincitrice del “Premio Innovazione Amica dell’Ambiente” di Legambiente Italia nel 2010. OrtiAlti, facendo tesoro dell’esperienza dell’orto pensile sul tetto dello Studio 999, grazie all’immediato successo mediatico e di pubblico, riscontrato nei mesi successivi, si propone come una strategia adatta per rigenerare le città e il tessuto sociale perché in grado di intercettare temi sensibili come il verde urbano, il risparmio energetico, il cibo a km0, la sharing economy, nuove forme di prossimità e condivisione degli spazi. I bassi fabbricati dei cortili, i tetti piani di capannoni industriali, supermercati,
Secret gardens mission
«Crisis is the greatest blessing for people and countries, because crisis leads to progress. Creativity is born from anguish as the day is born from the dark night» - Albert Einstein
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urin, San Salvario. Train station, “case di ringhiera”, multiethnicity. These peculiarities are enough to label a neighbourhood as infamous and dangerous, so an area which should be absolutely avoided, especially at night. It cannot be denied: until a few years ago, San Salvario was, above all, this. Densely populated, it was known as point of entry for immigrants coming to work in the cityindustries, then drugs trafficking and prostitution rackets contributed to its image crisis and to deteriorate quality of life. Crisis, by reaching rock bottom is, then, possible to ascend gradually with bravery and tenacity; to regenerate means, first of all, to test themselves, to experiment through research and technical design, aiming at a precise objective. To regenerate cannot and must not be an individual action, but it requires participation, so a collective and coordinated intervention able to form network between citizens living in the area and institutions. In 2010, Elena Carmagnani, a Turin-based architect of the Studio 999, located in San Salvario neighbourhood, along with two other architects, Emanuela Saporito and Marta Carraro, and the sociologist Laura Sacco, developed one of the most significant action in the context: Oursecretgarden project, whose aim is the transformation of the building’s flat roof into a surface organized as vegetable garden, now open to public. Thus OrtiAlti was born, which is actually a female, socially innovative start-up, winner of the “Eco-friendly Innovation 27
Nella pagina precedente, a destra e in basso: Ortialti, Torino quartiere San Salvario, www. ortialti.com On the first page, on the right and below: Ortialti, Turin quartiere San Salvario, www.ortialti.com
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ecc. costituiscono il 20% circa della superficie urbana non utilizzata. Perché non possono diventare, allora, spazi di miglioramento ambientale? I vantaggi di avere un orto sul tetto sono numerosi: riduzione fra il 10% e il 30% dei consumi energetici, controllo del flusso dell’acqua piovana (ne garantisce l’assorbimento di oltre un terzo), mitigazione dell’effetto delle isole di calore, assorbimento di CO2 e riduzione dell’ inquinamento acustico. Però promozione sociale e verde urbano non sempre fanno rima con risorse accessibili: OrtiAlti è parte di un network internazionale eppure manca ancora un progetto concreto di collaborazione con le
istituzioni; fino ad ora, infatti, non si segnalano progetti condivisi tra OrtiAlti e Comuni o Regioni. D’altra parte, tuttavia, si deve dare credito all’iniziativa della città di Torino, che dal 2012-2013, ha deciso di avviare un esperimento per San Salvario in grado di gettare basi forti e concrete allo scopo di rilanciarlo come “eco quartiere”, lavorando sui temi di energia e mobilità, di consumo e cultura sostenibile e proponendo un nuovo modo di pensare il territorio, la relazione tra i cittadini e, più in generale, il futuro. Il tessuto associativo e il melting-pot culturale fanno di San Salvario un terreno fertile, ricco di buone pratiche e soggetti capaci di concorrere alla realizzazione di tali finalità.
Award 2010” sponsored by Legambiente Italy. OrtiAlti, building on current experience of the vegetable garden realized on the roof of Studio 999, thanks to the immediate success in the media and with the public, is presented as a suitable strategy to regenerate the city and the social fabric because able to deal with sensitive issues such as urban greenery, energy-saving, zero-mile food, sharing economy, new forms of common spaces. Low height buildings in courtyards, flat roofs of factories, supermarkets, etc. constitute about 20% of the not used urban surfaces. So, why not turn them into places of environmental improvement? Several are the advantages in having a vegetable garden on the roof: reduction of energy consumption by 10% to 30%, quantity control of rainwater (absorbing over one third of water), mitigation of urban heat islands effects, CO2 absorption and reduction of noise pollution. But, social progress, urban greenery, aggregation don’t always rhyme with accessible resources: OrtiAlti is part of an international network, however, a precise and well defined project in collaboration with institutions is still missing; until now, indeed, there have been no significant joint projects among OrtiAlti and municipalities or regions. On the other side, it is necessary to trust into the initiative of the City of Turin, which , from 2012 to 2013, has decided to start an experiment for san Salvario, in order to lay down solid foundations and relaunch it as “eco-neighbourhood”, working on items such as energy, mobility, sustainable consumptions, culture and suggesting a new way of thinking about territory, relationships among inhabitants and, more generally, the future. The associative fabric and the cultural melting-pot characterize San Salvario as breeding ground, rich of good examples and of a multitude of subjects capable of contributing to the realization of these purposes.
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Nuovi colori per la città contemporanea Esperienze di street art e compartecipazione narrano di nuove periferie Testo di Margherita Vicario Traduzione di Agnese Oddi
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ffermatasi come uno dei maggiori fenomeni di controcultura del XX secolo, la street art nasce nei sobborghi della New York degli anni ’70, acquisendo elementi provenienti dalla pop art e dal graffitismo. Ben presto il fenomeno raggiunge anche l’Europa, diffondendosi nelle maggiori città. Qui, come in America, si impone come rottura delle regole di quel mercato dell’arte ufficiale che riempiva le gallerie e come arte di denuncia e volontà di rivalsa di chi viveva in quei quartieri e sobborghi più periferici, luoghi di crescenti tensioni sociali e senso di emarginazione. Che sia per rivendicare attenzione o per protesta gli artisti di strada vedono nei muri degradati di periferia, nei sottopassi, nelle stazione e nelle fabbriche abbandonate, i luoghi ideali dove creare la propria arte, affermare la propria presenza e la volontà di rivalsa esprimendo se stessi e lasciando così un messaggio visibile a tutti. Per questo, la street art sembra avere il suo più forte legame con quei quartieri figli dell’incontrollata espansione urbanistica del dopo guerra, luoghi in cui si è manifestato il tragico fallimento delle periferie che hanno perso ogni accezione positiva per diventare quartieri dormitorio privi di servizi e infrastrutture. Per il messaggio che manda e per il suo modo di agire, la street art viene spesso considerata dalle istituzioni una forma di degrado da mettere a tacere in tutti modi. «Chi davvero sfregia i nostri quartieri sono le aziende che scribacchiano slogan in formato gigante sulle
facciate degli edifici e sulle fiancate degli autobus, cercando di farci sentire inadeguati se non compriamo la loro roba. Pretendono di urlarci in faccia il loro messaggio da qualsiasi superficie utile, ma a noi non è mai permesso replicare. Se le cose stanno così, sono stati loro a scagliare la prima pietra e il muro è l’arma prescelta per controbattere». Così scrive Banksy, l’artista inglese dall’identità misteriosa, che intorno agli anni 2000 ha portato sotto gli occhi di tutti l’arte di strada. Il crescente interesse del grande pubblico per questa forma d’arte ha cambiato la percezione che ne hanno istituzioni e critica, per i quali gli street artist sono, oggi, molto apprezzati e spesso ricercati. In alcuni casi, i ruoli si sono invertiti: se alcune amministrazioni commissionano opere di grandi dimensioni, allo stesso tempo alcuni curatori di mostre cercano di raccontare l’arte di strada nei musei, decontestualizzandola completamente. Si sta diffondendo sempre di più l’idea che la street art possa divenire un motore di cambiamento delle zone periferiche degradate e che possa attivare nuovi processi di riqualificazione. Così, da controcultura e arte di denuncia, viene spesso trasformata in arte su commissione a servizio delle istituzioni. Ma questo nuovo e inedito binomio street art – periferie porta con sé alcune ambiguità, infatti, se da una parte la street art viene istituzionalizzata e commissionata, dall’altra viene ancora perseguitata arrivando quindi a stabilire
New colours for a contemporary city
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stablished itself as one of the major phenomena of the twentieth century counterculture, street art was born in the suburbs of New York of the ‘70s, acquiring elements from pop art and graffiti. Soon the phenomenon also reaches Europe, spreading in major cities. Here, as in America, it stands out as breaking the rules of the official art market that filled the galleries and art as a complaint and desire for revenge of those who lived in those neighborhoods and outlying suburbs, places of growing social tensions and a sense marginalization. The growing interest of the public for this art form has changed the perception of those institutions and art criticism, for which street artists have become very popular and often sought after. In some cases, the roles were reversed: if some administrations commissioned large-scale works, at the same time some curators try to tell the street art in museums, decontextualising completely. It is spreading more and more the idea that street art can become an engine of change in the degraded areas and devices that can enable new redevelopment processes. So, from the counterculture and protest art, it is often transformed into art in the institutions of fee service. But this new and unprecedented street art duo - suburbs brings some ambiguity, in fact, if one part street art is institutionalized and commissioned, the other is still being persecuted and then coming to draw the line between art and art of the street legal illegal street. There are now many projects around the world where groups of street artists bring to the community to give new life to the slums. The delicate objective of these artists is to get in touch with the place where they work, with people who live, so as to create, together with the community, a shared capital that can pass on their message even when the work is finished. «We want our work as a tool that transforms the streets and creates bonds between people. We feel a sense of responsibility towards the city and the time in which we 31
Nella pagina precedente: Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, Peter Eisenmann, Berlino, ph. Hélène Binet; a sinistra: Il Grande Cretto, Alberto Burri, Gibbellina, ph. Studio ESSECI On the first page: Memorial to the Murdered Jews of Europe, Peter Eisenmann, Berlino, ph. Hélène Binet; on the left: Il Grande Cretto, Alberto Burri, Gibbellina ph. Studio ESSECI
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un confine fra arte di strada legale e arte di strada illegale. Sono ormai molti i progetti in giro per il mondo dove gruppi di street artist si mettono a servizio della comunità per donare nuova vita ai quartieri più degradati. Il delicato obiettivo di questi artisti è quello di entrare in contatto con il luogo in cui lavorano, con le persone che lo vivono, in modo da creare, insieme alla comunità, un capitale condiviso che possa tramandare il proprio messaggio anche a lavoro terminato. «Intendiamo il nostro lavoro come strumento che trasformi le strade e che crei legami fra le persone. Sentiamo un senso di responsabilità nei confronti della città e del tempo in cui stiamo vivendo». Il gruppo madrileno Boamistura ha fatto di questa filosofia il proprio lavoro e dal 2001 esporta la propria arte in tutto il mondo. Nel 2012, sono arrivati fino a Brasilandia, favela di San Paolo, con il progetto Luz Nas Vielas (Luce nei vicoli), che ha coinvolto l’intera comunità dipingendo i vicoli e scrivendo le cinque parole che meglio la descrivono, beleza, firmeza, amor, doçura, orgulho, parole di speranza e rivalsa che gli abitanti continueranno a portare con sé. Uno dei più recenti esempi tutto italiano è invece il progetto Big City Life nella storica borgata romana di Tor Marancia che si propone come progetto di arte pubblica partecipata per la riqualificazione urbana, culturale e sociale. Il progetto, partito l’8 gennaio e conclusosi il 27 febbraio 2015, in circa due mesi, ha completamento cambiato l’aspetto del quartiere grazie a ventidue
artisti provenienti da dieci paesi diversi. Ogni artista ha tenuto un laboratorio creativo e insieme ai residenti hanno dato via alle ventidue opere che hanno decorato le facciate di undici palazzine. «Trasformeremo un lotto abitativo in un distretto di arte contemporanea» così presenta il progetto l’organizzatrice Francesca Mezzano. A fine lavori è stata infatti istituita fra i residenti l’associazione culturale Rude, che si occupa della promozione, manutenzione e valorizzazione delle opere d’arte che fanno di Tor Marancia un vero e proprio museo a cielo aperto con tanto di visite guidate. Dopo questo inaspettato interesse, per gli abitanti di Tor Marancia è arrivato il momento del cambiamento: sono loro i primi che esigono maggiori attenzioni dalle istituzioni e che chiedono che vengano realmente risolti i problemi. Per questo, il dubbio che rimane è: sono sufficienti questo tipo di interventi per riqualificare le nostre periferie? Certamente, ciò che di più interessante hanno questo genere di progetti, non è il nuovo abito che viene dato alle periferie, ma l’essere fonte d’ispirazione e lasciare qualcosa dentro a chi, questi luoghi, li vive tutti i giorni. E ancor di più accendere i riflettori su quelle periferie che, come dice Renzo Piano, «sono il grande progetto e la sfida dei prossimi decenni», luoghi per troppo tempo abbandonati e trascurati dalle istituzioni, ma che «rappresentano la bellezza che ancora non c’è». E allora, che l’arte di strada possa essere una scintilla per questa nuova sfida.
are living». The Madrid Boamistura group has made this philosophy their work and since 2001 exports its art worldwide. In 2012, they came up to Brasilândia, favela of Sao Paulo, with the project Nas vielas Luz (Light in the alleys), which involved the whole community by painting the streets and writing the five words that best describe it, beleza, firmeza, amor, doçura, orgulho, words of hope and revenge that residents will continue to bring. One of the most recent examples, all Italian, is instead the Big City Life project in the historic Roman town of Tor Marancia which is proposed as participatory public art project for urban, cultural and social regeneration. The project started on January 8 and ended February 27, 2015, in about two months, has changed the face of the completion through twenty-two artists from ten different countries district. Each artist has held a creative workshop and together with residents they gave away to the twenty-two works that have decorated the facades of eleven buildings. “We will transform a residential lot in a contemporary art district” so presents the project organizer Francesca Mezzano. A work order was instituted among the residents the cultural association Rude, which deals with the promotion, maintenance and enhancement of works of art that make Tor Marancia a real open-air museum complete with guided tours. After this unexpected interest, for the inhabitants of Tor Marancia now it is the moment of change: they are the first who demand more attention by the institutions and are seeking to be truly solved the problems. For this, the question that remains is: are enough such actions to redevelop our suburbs? Certainly, what is most interesting that have this kind of projects, is not the new dress that is given to the suburbs, but be a source of inspiration and let something inside those who lives these places every day. And even more so turn the spotlight on those suburbs which, as Renzo Piano, “is the great project and the challenge of the coming decades”, places for too long abandoned and neglected by the institutions, but that “represent the beauty that is not yet there ‘is”. And then, that the street art might be a spark for this new challenge.
Quando la periferia diventa il nuovo centro: Concordia sulla Secchia Testo e foto di Angela Benfante Traduzione di Velia Bonaffini
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a periferia, la sua delimitazione geografica, il suo significato, i suoi confini fisici e mentali che ogni città porta con sé nella sua intimità; poi l’evento sismico che stravolse l’Emilia Romagna nel 2012 e cosa resta, fisicamente e concettualmente, del centro storico? E cosa ne è della periferia? E’ il caso di Concordia sulla Secchia, un piccolo paese di meno di 9000 abitanti in provincia di Modena, colpito dal grande sisma che stravolse l’Emilia Romagna nel 2012. Questa catastrofe distrusse il centro storico con i suoi edifici più antichi e la vita stessa dei suoi abitanti che in pochi attimi hanno visto sgretolarsi i luoghi dove erano cresciuti. Un piccolo borgo a sviluppo longitudinale, una strada su cui si affacciano edifici residenziali caratterizzati da porticati a piano terreno che ospitavano le funzioni commerciali e le botteghe che animavano la vita di Concordia sulla Secchia. Gli edifici lungo la strada durate il sisma crollano o in parte o completamente, le macerie portano via con sé la gioia, la vitalità e i ricordi del centro storico lasciando spazio alla tristezza e all’abbandono. Il silenzio diventa l’unico elemento che caratterizza le strade e gli edifici di Concordia sulla Secchia. Le forti scosse, i crolli, l’abbandono del centro storico. Una sensazione di tristezza e di assenza che si respira ancora oggi, dopo quattro anni dal terremoto. Desolazione, silenzio, un paese traumatizzato e congelato dopo il sisma. Le crepe negli edifici, le crepe dentro le persone. Camminare lungo le strade del centro storico di Concordia sulla Secchia, oggi, vuol dire guardarsi intorno e chiedersi che fine abbiano fatto le persone, le attività, le centralità amministrative e il futuro della città. Gli edifici principali come il Municipio, la Chiesa, il teatro e le scuole sono ancora chiusi, completamente cinti da
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sostegni che li proteggono da ulteriori crolli, edifici ingabbiati e congelati nel momento della loro massima sofferenza, resistono ma mostrano tutta la loro fragilità e paura legate alla voglia di risorgere e tornare in auge ma tristi che questo non avverrà al più presto. Basta muovere pochi passi, superare quel sottile confine che divide il vecchio borgo dalla periferia per ritrovare un nuovo centro. Qui, strutture prefabbricate ospitano oggi il nuovo Municipio, la nuova Chiesa, una palestra comunale e una scuola. Poco distante, baracche accolgono i commercianti del vecchio borgo, invadendo quella che fino a poco tempo prima era la periferia della città. Le abitazioni della periferia, sopravvissute al sisma perché opere di successiva edificazione, organizzate come villette isolate in un reticolo regolare lasciano il posto ai piccoli manufatti temporanei e alle nuove costruzioni mostrando la volontà di rivalsa degli abitanti sulla catastrofe alterando però del tutto il tessuto della città. Il nuovo centro viene ricostruito con forme e linguaggi distanti dal luogo stesso proprio lì sul limite tra la città e il paesaggio agricolo; gli edifici infatti risultano perfettamente riconoscibili rispetto al contesto, dotati di dimensioni e proporzioni che appaiono quasi un fuori scala rispetto all’edificato. Il disegno del territorio viene alterato e sovvertito con l’inserimento del nuovo centro. Poco più in là, di fianco alla nuova Chiesa e alla nuova palestra comunale si scorgono le tracce lasciate dalle baracche dismesse dove gli abitanti hanno alloggiato nel momento immediatamente successivo al sisma; proseguendo, però, ci si accorge che alcune di queste non sono ancora state smantellate e non per mantenere la memoria di quei giorni ma bensì perché ancora abitate. Disposte
in modo allineato come case a schiera, fingono di essere abitazioni vere e proprie, dotate di logge, di illuminazione esterna, di percorsi pedonali di collegamento, di ripari per le biciclette, di reti di separazione, di sedie, di panni stesi. Segni di un luogo che ha perso la sua dignità ma che lotta per recuperarla appropriandosi delle nuove spazialità. Strutture nate come temporanee, chiaramente leggibili dai materiali e dalle scelte costruttive adottate, sembrano essere obbligate a prendere un carattere di permanenza. Gli abitanti torneranno mai ad abitare il vecchio borgo, o le persone saranno obbligate a vivere in una nuova Concordia per sempre? Qui a seguito delle necessità e dell’urgenza è stata creata una nuova città senza tener conto dei legami col luogo, con la storia e dimenticandosi di tutte le disquisizioni sull’urbanistica della città e sul disegno urbano che nel tempo si sono susseguite nella storia dell’architettura; ciò che è stato costruito rende evidente la sua vocazione di temporaneità, ma sarà davvero questo il suo destino? Il risultato è una città fantasma che ha smarrito momentaneamente la sua identità, una città desolata e desolante che lotta per una ricostruzione totale e un recupero del centro storico completo sia per la sua valenza storica che culturale e sociale come i piani di ricostruzione del comune e i concorsi di architettura mostrano. Qual è quindi ad oggi il centro di Concordia della Secchia, quello vecchio o quello nuovo, e quale la periferia? Forse in un futuro questa ambiguità verrà meno e la città riconquisterà i suoi spazi, la sua storia e la sua dignità ma ad oggi vive in una situazione in cui non vi è distinzione e le persone perdono progressivamente le ragioni per restare. 35
When the suburbs become the new centre: Concordia sulla Secchia
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he suburbs, their geographical boundaries, their meaning, their physical and mental borders are constants that each city brings. Key points, such that an earthquake can overturn radically changing the structure and the urban form of the city as well as the relationship between the centre and the periphery. The earthquake that hit the Emilia Romagna in 2012 is an obvious example: some cities in the region have been deeply affected leaving open the question of what remains of the historical centre and what happened to their suburbs. It’s ‘the case of Concordia sulla Secchia, a small town of less than 9000 inhabitants in the province of Modena. The disaster destroyed the historical centre with its ancient buildings and the very life of its inhabitants in a few moments they saw crumble the places on which collective and individual memory were founded. A small village in the longitudinal development, one main street lined with residential buildings with arcades on the ground floor that housed the commercial functions and workshops that animated the life of the village. During the earthquake the buildings collapsed completely or in part along the way and that’s the feeling one has by walking today in Concordia sulla Secchia is that of sadness and neglect where the silent scaffolding seems to have become the only characterizing element. After four years, even today, is observed a traumatized and frozen village after the earthquake and walking along the streets of the historic centre means looking around and wonder what happened to the people, activities, administrative centrality and to the future of the town. The main buildings of the town such as the Town Hall,
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the church, the theatre and schools are still closed, completely enclosed by supports that protect from the further collapse; crated and frozen buildings in the moment of their greatest suffering, resist but show their weakness and fear together with the desire to resurrect and return to functioning. But this will not happen soon. Just move a few steps, through that thin line that divides the old town from the suburbs to find a new centre. Here, prefabricated structures are home to the new City Hall today, the new church, a municipal gymnasium and a school. Nearby, shacks welcome traders of the old village, invading what until recently was the first outskirts of the town. Homes in the suburbs, survived the earthquake because of subsequent building works, organized as isolated houses in a regular lattice, give way to small temporary objects and new buildings showing the will of the inhabitants revenge on the disaster but entirely altering the fabric of the town. The new centre is being rebuilt with forms and languages far from the place itself right there, on the border between the city and the rural landscape. The buildings are perfectly recognizable to the context, with dimensions and proportions that appear almost out of scale with the built up. The design of the territory is changed and subverted by the insertion of the new centre. A little further on, next to the new Church and the new municipal gym one can see the traces left by disused barracks where the people stayed in the moment immediately after the earthquake; continuing, however, we realize that some of these have not yet been dismantled because they are still inhabited. Arranged so aligned as terraced
houses, pretend to be real homes, with lodges, outdoor lighting, pedestrian paths connecting, shelter for bicycles, separation nets, chairs, hanging clothes. Signs of a place that has lost its dignity, but struggling to recover it seizing the new space. Structures created as temporary, clearly legible by the materials and construction methods adopted, seem to be forced to take a character of permanence. Forced by circumstances and inability to stand up for obviously economic issues and perhaps political that govern the reconstruction, they seem to have become customary. The residents will never return to inhabiting the old village or will be obliged to live forever in a new Concordia? Here as a result of the need and urgency it was created a new city that makes clear its vocation as temporary, without taking into account the links with the place, with the history and forgetting all the disquisitions on urban planning of the city and the urban design which over time they have followed. The result is a ghost town that has momentarily lost its identity, a desolate and bleak city that struggles for a total reconstruction and recovery of the complete old town both for its historical value and cultural and social as the reconstruction plans of the town and architectural competitions show. So what is today the centre of Concordia sulla Secchia, the old one or the new one, and what the suburbs? Perhaps in the future this ambiguity will be eliminated and the city regains its spaces, its history and its dignity, but to date Concordia lives in a situation where there is no distinction but only questions, and people lose gradually the reasons for staying. 37
Il mondo è un posto terribile devi combattere per tutto quello in cui credi: un’intervista a Mr L.
Racconto di Guido Mitidieri Traduzione di Federica Favara Scacco
P
ensavo come riportare su un foglio di carta un po’ di periferia. La si può inquadrare in mille modi la periferia: nel più classico, come prodotto di una polarizzazione della città in opposizione a un centro o nel più recente, come di uno spazio di risulta della città, di un non-luogo; si possono usare parole per descrivere un ambiente socialmente complesso, si possono raccontare scelte sbagliate. Così, mentre pensavo al come e al cosa, lo spunto per cominciare a scrivere si è presentato sotto forma di ricordo, trascritto nel diario del mio ultimo viaggio. Mi trovavo a Londra. Era una serata di fine Gennaio e stavo camminando senza una meta precisa in preda ad una bulimica fame di immagini. Volevo riempire i miei occhi e il mio quaderno di scorci e prospettive. Lo sguardo di noi architetti, troppo spesso, è rivolto verso gli edifici; arriviamo a commuoverci davanti ai giochi di luce e ombra che intagliano le forme dell’architettura e, talvolta, arriviamo a dimenticare chi quello spazio lo vive quotidianamente. Quella sera, a Trafalgar Square, un individuo ha conquistato il mio sguardo. Un uomo a terra, in ginocchio, intento a scrivere. Mi sono avvicinato lentamente. Con un gessetto bianco, sulla strada nera, dipingeva versi di bellissime poesie. La parola che ricorreva più spesso era amore, Love. Quella presenza, insolita, conquistò la mia attenzione, cancellando la città intorno. Homeless è un po’ sinonimo di periferia. È una persona abituata a non essere guardata, ad essere evitata, scomoda ma necessaria. In cambio di un’intervista lo invitai a cena. La periferia era dall’altro capo del tavolo. Parlava incessantemente. Pensavo che avesse rabbia dentro di sé, che avesse spirito di rivalsa o di rivoluzione. Mr L. era solo triste. Dal suo punto di vista, la quotidianità appariva come una corsa vuota e un po’ monotona, sicuramente faticosa e avvilente che termina tutte le sere allo stesso modo: persone ammassate in vagoni della metro che scappano a rinchiudersi nella propria casetta preconfezionata. E poi si lamentano del lavoro, del poco denaro, della politica, della mancanza di rapporti umani. La mia periferia vedeva la città con gli occhi di chi se ne sente parte, ma non sa bene dove sta, quale è il suo ruolo. Perché succede questo? Perché, Mr L., viviamo così? Paura di scegliere. Perché è più facile seguire le scelte che gli altri fanno per noi, chiunque essi siano, piuttosto che fermarsi ad ascoltare la propria voce interiore. Spesso è più facile lamentarsi. Il mondo è un posto terribile. Ma, forse la verità è che non sappiamo più combattere o che lo facciamo nel modo sbagliato. Dopo la chiacchierata con Mr L., mi capita di pensare che la periferia sia diventata quasi uno stato mentale. Essa è insita in noi come percezione di inadeguatezza, di noia e di fatica. Una condizione che mi piacerebbe chiamare di “periferia emozionale”, che ci allontana dal nostro centro, dalla bellezza, dalla ricerca della felicità. Tanto che ormai non sappiamo neanche più se esiste veramente la felicità, e se c’è, dove si trova. Probabilmente nel periodo storico che stiamo vivendo, quando parliamo di rammendare le periferie, non dovremmo solo pensare agli edifici, alla loro forma, alla loro struttura, né solo allo spazio che vi sta nel mezzo. Dovremmo pensare a rammendare l’anima delle persone che ci vivono. Rammendare un’anima significa creare un nuovo ricordo emozionale, possibilmente positivo. E a modo suo Mr L. ne è un esempio: le sue poesie urbane accendono il cuore delle persone. Come sosteneva Umberto Eco, nel video intervista condotta da Hans Ulrich Obrist e proiettata alla Biennale di Venezia 2015, «noi siamo la nostra memoria, e la memoria è l’anima». Un segno un giorno mi è arrivato, sotto forma di un uomo che scriveva poesie di gesso a Trafalgar Square. Per seguire la storia e le poesie di Mr L.: The Homeless Bard | Facebook
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The world is a terrible place you have to fight for everything you believe in: an interview with Mr L.
I
was thinking on how to translate on a piece of paper a bit of the suburbs. Suburbs can be framed in many ways: in the classic way, as a product of a polarization of the city opposed to the centre, or in the most recent way, as an area of the city, a non-place; You can use words to describe a socially complex environment, you can tell about the wrong choices. So while I was thinking about these things, the inspiration to start writing was recalled by memories, that were written in the diary of my last trip. I was in London. It was a late January evening and I was walking aimlessly in the throes of a bulimic hunger for images. I wanted to fill my eyes and my notebook with views and perspectives. The look of us architects is too often facing the buildings; the game of light and shadow carving the forms of architecture moves us, and sometimes we forget who lives that places daily. That evening, in Trafalgar Square, an individual won my eyes. A man kneeling down, writing. I approached slowly. With white chalk on the black road, he painted verses of beautiful poems. The word that came up frequently was Love, Love. That unusual presence, captured my attention, erasing the city around. Homeless stands a bit for suburbs. He is a person not used to be looked at, used to be avoided. Awkward but necessary. I invited him to dinner in exchange for an interview. The periphery was on the other end of the table. He talked incessantly. I thought he had anger inside of him, he had a spirit of revenge or revolution. Mr. L. was just sad. From his point of view, the daily life appeared as an empty run a bit ‘monotonous, definitely tiring and disheartening ending every night in the same way: people crammed into subway cars fleeing to take refuge in their own readymade house. And then they complain about work, little money, politics and the lack of human contact. My outskirts saw the city with the eyes of those who feel like a part of it, but does not know where he is and what its role is. Why is this happening? Why, Mr. L., do we live this way? Fear of choosing. Because it is easier to follow the choices that others make for us, whoever they are, rather than stop and listen to your inner voice. Often, complaining is easier. The world is a terrible place. But perhaps the truth is we don’t know how to fight anymore or we do it the wrong way. After the chat with Mr. L., I happen to think that the periphery has almost become a state of mind. It is inherent in us as perception of inadequacy, boredom and fatigue. A condition that I’d like to call the “emotional periphery”, which takes us away from our centre, from the beauty, and from the pursuit of happiness. So that now we no longer even know if there really is happiness, and if there is, where it is. In the historical period we are living, when we talk about mending the suburbs, we probably shouldn’t just think of the buildings, their shape, their structure, or only the space that’s in the middle. We should think of mending the soul of the people who live there. Mending a soul means creating a new emotional memory, possibly positive. In his own way Mr. L. is an example: his urban poems illuminate people’s hearts. As claimed by Umberto Eco in the video interview conducted by Hans Ulrich Obrist and projected at the Venice Biennale 2015, «we are our memory, and memory is the soul». One day a sign came to me, in the shape of a man who wrote plaster poems in Trafalgar Square. To follow the story and poems by Mr L .: The Homeless Bard | Facebook
STONETALES
Roma, 20 aprile - 22 maggio 2016 ARCHITETTURA - ARTE - DESIGN IN PIETRA
Nell’Anno Giubilare dedicato alla Misericordia, la Facoltà di Ingegneria di Roma “Sapienza” e LAB2.0, sotto la direzione scientifica di Marco Ferrero (docente di architettura tecnica – Università “Sapienza” di Roma) e la direzione generale e artistica di Lorenzo Carrino, hanno promosso la manifestazione culturale stonetales (Roma, 20 aprile - 22 maggio). La rassegna ha proposto un ampio programma di seminari, convegni, incontri e workshop, tenutosi presso gli spazi del chiostro di San Pietro in Vincoli (sede della Facoltà di Ingegneria di Roma “Sapienza”) dal 26 al 29 aprile, coinvolgendo architetti, critici d’arte, esperti di design, artisti, responsabili dell’amministrazione pubblica e alti esponenti del mondo cattolico. Il 27 aprile, la Basilica di San Pietro in Vincoli ha ospitato l’ultima performance dello scultore sardo Pinuccio Sciola, curata da Lorenzo Carrino, dal titolo “La VOCE della PIETRA”; un dialogo tra il marmo (muto) di Michelangelo e le Pietre Sonore esposte per l’occasione al fianco del Mosè. Il programma di stonetales ha previsto una serie di esposizioni articolate in tre sezioni: ORIGINE curata da Luca Porqueddu, dedicata all’Architettura, all’interno del quadriportico della Basilica di San Clemente, ha raccolto una serie di quattordici elaborazioni architettoniche proponendo differenti equilibri tra statica ed estetica del costruire, legate dalla comune riflessione attorno alle specifiche qualità del travertino. La mostra è stata introdotta dall’incontro “DIALOGHI su PIETRA”; occasione nella quale Franco Purini e Claudio Strinati si sono confrontati sulle modalità con cui il materiale lapideo indirizza l’ideazione e l’esecuzione dell’opera artistica e architettonica. MEMORIE curata da Tommaso Zijno, dedicata all’Arte, all’interno della cripta della Basilica dei Santi XII Apostoli, ha proposto una serie di opere dello scultore Jacopo Cardillo (Jago) che decodificano il gesto dello scolpire come “atto di fede” volto a liberare, dalla “pelle” che la protegge, la “anima” più profonda che il marmo custodisce: «tutto è contenuto». RITI curata da Maria Teresa Della Fera, dedicata al Design, negli spazi della Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, ha ospitato una selezione di oggetti, realizzati dal collettivo recycled stones e da Peppino Lopez, che riconoscono nel tema della condivisione e del convivio nuove esperienze generative per gli scarti di lavorazione lapidea.
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NOVITÀ
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