L'america a Pomigliano d'Arco

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Felice Dileo

L’AMERICA A POMIGLIANO D’ARCO QUESTA È L’ITALIA CHE PIACE MENO Prefazione di Giorgio Cremaschi


Impaginazione Gianfranco Traetta © Copyright 2012 LAB edizioni Associazione culturale Puglianet Altamura (Bari) www.lab-edizioni.com Contatti: info@lab-edizioni.com – 320.0558862 ISBN xxx xxx xxx xxx


Indice

9  Prefazione 15 Preambolo 16 Introduzione 22  Capitolo I. Una breve premessa storica   i.1 L’insediamento dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco 27  i.2 Dalle partecipazioni statali alla Fiat capitolo II. La Fiat nell’era della globalizzazione 30  ii.1 Il Gruppo Fiat 36  ii.2 L’impatto col nuovo millennio 40  ii.3 La strategia Marchionne 45  ii.4 L’accordo separato di Pomigliano capitolo III. Le ricadute sociali del marchionnismo 50  iii.1 I diritti o il lavoro 55  iii.2 La terziarizzazione infinita 61  iii.3 Salari e stock option 66  iii.4 Il sindacato ai tempi di Marchionne capitolo IV. L’ambiente di lavoro 73  iv.1 Fordismo e post-fordismo 79  iv.2 Wcm e Ergo-Uas 84  iv.3 Il Giambattista Vico


90  capitolo V. Il valore sociale del lavoro v.1 C’era una volta la classe operaia 95  v.2 Pomigliano tra Metalmezzadri e Marxisti 102  Considerazioni finali 116  Indice dei nomi




Prefazione

Da tempo conosco Felice Dileo. Ho apprezzato direttamente il suo rigore e la sua testardaggine, sia nelle lotte operaie alla Natuzzi, sia nell’impegno per la democrazia sindacale dentro la Cgil. Ora questo suo minuzioso rigore viene messo in opera in questo bel lavoro, che nasce come tesi di laurea, ma che è giustamente destinato a tutte e a tutti coloro che vogliono saperne di più di quello che sta avvenendo in fabbrica. Così come Felice Dileo è un operaio la cui cultura è una visione del mondo, così nel suo libro emergono operai, in particolare i delegati Fiom di Pomigliano, che rappresentano un punto di vista opposto a quello del mercato e del padrone. “L’America a Pomigliano d’Arco” ricostruisce l’avvento di Sergio Marchionne e l’operazione e la ristrutturazione dello stabilimento campano della Fiat, cogliendone tutti gli aspetti ed in particolare quelli che colpiscono direttamente la condizione di lavoro.

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Giustamente Dileo sottolinea che quella che si sta realizzando in quello stabilimento Fiat non è una cosa nuova, non è un nuovo modello più avanzato di organizzazione del lavoro, ma una forma di taylorismo spinto, di ulteriore parcellizzazione delle mansioni, che comporta in realtà un ulteriore asservimento del lavoro alle scelte aziendali. Non siamo lontani, quindi, dall’omino interpretato da Charlie Chaplin, travolto dalla catena di montaggio in Tempi moderni. Certo, questo sistema di parcellizzazione spinta del lavoro si intreccia con la fabbrica flessibile e toyotista, con la frantumazione dell’organizzazione del lavoro e con il decentramento produttivo, ma tutto questo non solo non produce vera innovazione, ma anzi scarica la flessibilità giapponese sulla rigidità taylorista dell’organizzazione del lavoro. In sintesi scarica tutto sul lavoratore in carne ed ossa. E questo è il punto centrale, secondo noi, della vicenda Marchionne in Fiat. Dopo trent’anni, dalla sconfitta sindacale dell’Ottanta, nei quali si è progressivamente peggiorata la condizione di lavoro, mentre il reddito degli operai ha subito colpi progressivi a partire dal taglio, ricordato da Dileo, della scala mobile. Dopo trent’anni insomma, nei quali il mondo del lavoro è andato indietro, l’Amministratore delegato del Lingotto è riuscito a presentare come innovativo un processo di estrema restaurazione del potere di impresa sul lavoratore. E proprio questo è il messaggio universale che ha fatto sì che la vicenda sindacale di Pomigliano negli ultimi due anni diventasse in qualche modo emblematica in tut-

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to il paese. Di fronte alla crisi economica che avanza Marchionne rappresenta nella maniera più pura e brutale il progetto di radicalizzazione del modello economico liberista. Per uscire dalla crisi, per lavorare, bisogna accettare tutto quello che chiede l’azienda, diventare una rotella usa e getta del suo ingranaggio, essere merci totalmente competitive nel mercato selvaggio della globalizzazione. Il progetto di Sergio Marchionne è dunque un progetto industriale ma anche un modello sociale. Esso corrisponde in fabbrica a quello che il Fondo monetario internazionale, la Banca europea, i governi di centro destra e il cosiddetto riformismo, su cui ironizza Felice alla fine del suo libro, propongono per uscire dalla crisi a tutta l’Europa. Dopo trent’anni di riduzione dei diritti sociali si dovrebbe ancora andare indietro, si dovrebbe ancor di più ridimensionare quella che è la più grande conquista del mondo del lavoro europeo, e forse mondiale: lo stato sociale. Marchionne stabilisce un suo regime extralegale ed extrastatale nelle aziende ove comanda. Non a caso esce dal contratto nazionale, anche da quello separato di Cisl e Uil, e dalla Confindustria e si fa un proprio sistema, imponendolo a tutte le organizzazioni sindacali complici e compiacenti. Chi, come la Fiom, non ci sta diventa quindi antiazienda e antisistema. In questo c’è un’accentuazione, un portare all’estremo il modello Fiat degli anni Cinquanta. Quello governato da Vittorio Valletta, che amava distinguere gli operai in costruttori e distruttori. Questi ultimi erano i comunisti, i socialisti, la Fiom.AlloraValletta non

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riuscì ad eliminare totalmente la presenza Fiom in fabbrica, nonostante terribili sconfitte, e rimase sempre un simbolo di rappresentanza sindacale aperto a tutti nelle commissioni interne. Marchionne va oltre, supera il contratto e la legge e impone che i sindacati dissenzienti non possano semplicemente esistere nelle sue aziende. È un modello dittatoriale che, se trasferito alla nostra democrazia, propone scenari assolutamente inquietanti. E così si crea un’inevitabile parallelo tra l’autoritarismo in fabbrica e le imposizioni che oggi vengono dai centri finanziari europei e mondiali, dalle agenzie di rating, dai governi ad essi compiacenti. Queste imposizioni spiegano che non è più possibile avere una politica economica, una politica sociale, una politica del lavoro, che non rispondano alle esigenze del mercato e che non lo rassicurino. Questa terribile espressione, usata normalmente nella comunicazione di massa – rassicurare i mercati – dà il senso del degrado della democrazia. Le scelte economiche e sociali di un governo non devono servire a rassicurare i cittadini ma gli investitori e i finanziatori, in particolare quelli multinazionali. E così i principi della Costituzione, le leggi a favore del lavoro, l‘articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori e i contratti, non hanno più alcun valore assoluto, sono applicabili se e nella misura in cui garantiscono i profitti a chi investe. È un totale ribaltamento dei principi fondanti della nostra democrazia sociale. Non è più l’iniziativa privata che deve sottostare alle esigenze complessive della società, come dice l’articolo 41 della Costituzione, ma è la

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società, con i suoi diritti e le sue leggi, che deve essere sufficientemente flessibile per rendere conveniente l’iniziativa privata. Marchionne ha dato il colpo di maglio finale al sistema dei diritti nel nostro paese e per questo ha avuto un consenso quasi unanime nel Parlamento. Perché la crisi industriale in Italia coincide con la crisi politica e culturale di un paese i cui anticorpi democratici sono stati progressivamente resi inerti da trent’anni di craxismo prima, berlusconismo poi. Per questo il no degli operai di Pomigliano, dei Mimmo Loffredo e dei Ciro D’Alessio, il no della Fiom, ha parlato a tutta quella parte del paese che non vuole diventare pura merce competitiva. Così attorno alla vicenda di Pomigliano abbiamo visto annunciarsi i simboli e i contenuti di quello che sarà il conflitto sociale e democratico di tutti i prossimi anni. Da un lato un mercato in crisi, che reagisce alle sue difficoltà riproponendo in maniera ancora più accentuata le scelte economiche e il modello sociale che sono alla base della crisi stessa, dall’altro il primo riorganizzarsi di forze, idee e persone che pensano che da questa crisi capitalistica si esca prima di tutto rifiutando il modello servile del lavoro voluto da Marchionne e poi costruendo un’alternativa sociale e democratica. Siamo solo agli inizi di uno scontro che coinvolgerà le fabbriche, il sistema economico, i governi e la politica e che riscriverà anche le rappresentanze. È evidente infatti che un’alternativa al modello Marchionne è estranea a quelli che oggi sono in Italia e in buona parte d’Europa gli schi-

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eramenti di centrosinistra e di centrodestra, che si alternano ai governi per realizzare sostanzialmente le stesse politiche. Il governo di Mario Monti pare come il compimento del progetto Marchionne. L’Amministratore delegato della Fiat non può che identificarsi in un Presidente del consiglio che l’ha difeso e sostenuto e che sostanzialmente ne traduce in politica economica e sociale le scelte aziendali. Per questo la lotta contro il modello Marchionne è oggi in Italia anche quella contro il governo Monti e ciò che rappresenta. E, nella fabbrica come nella società come nella politica, decisivo è il lavoro di analisi e spiegazione di ciò che sta avvenendo. Giorgio Cremaschi

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INTRODUZIONE L’accordo separato di Pomigliano d’Arco del 2010 tra Fiat e parte del sindacato, il referendum seguito, l’estensione del merito e del metodo di tale accordo agli stabilimenti di Mirafiori prima, Grugliasco poi, fino a diventare il contratto collettivo di lavoro per tutto il gruppo Fiat, aldilà delle congetture maturate in ciascun soggetto interessato, ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito pubblico nazionale le tematiche riguardanti le condizioni di lavoro degli operai. Negli anni antecedenti la vertenza di Pomigliano, infatti, sembrava che le stesse questioni fossero diventate del tutto secondarie per telegiornali, quotidiani e convegni di approfondimento politico.Alcuni sostenevano che ciò fosse dovuto all’estinzione nei paesi occidentali della “Classe operaia”, figura retorica sorta con la prima rivoluzione industriale e superata con la terza, ovvero, quella della cibernetica e di Internet, in cui il lavoro si intellettualizza e il conflitto tra l’imprenditore e i suoi dipendenti diventa anacronistico, facendo questi parte di un’unica squadra in competizione con altre, sparse in ogni angolo del mondo. Dunque, dal momento in cui il presente testo viene prospettato, già offre una prima risposta alle teorie appena avanzate: persiste ancora una classe operaia che aliena parte di se stessa, come Karl Marx spiegava, nel proprio lavoro che, nella fattispecie in considerazione, è organizzato secondo un sistema ibrido, in cui ci sono molti elementi del

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Toyotismo, ma soprattutto del Fordismo-taylorismo, quello più stressante sia fisicamente che psicologicamente, perché ripetitivo e scandito da tempi di produzione predefiniti. Dato per assunto che il lavoro alla catena di montaggio è tutt’altro che superato, gli obiettivi della seguente opera sono di evidenziare come i mutamenti macroeconomici globali incidono sulle condizioni economiche e di lavoro, se gli stessi mutamenti sono migliorativi o peggiorati, se ineluttabili o meno e se, oggettivamente, sia umanamente possibile chiedere maggiori sforzi ai lavoratori. Quindi, si cercherà di ricostruire il percorso che ha portato alle vicende legate allo stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco, con una disanima delle motivazioni di chi quel progetto ha proposto o appoggiato e di chi, viceversa, allo stesso progetto si è opposto. Un altro obiettivo prefissato è quello di analizzare se persistono, nel terzo millennio, quegli archetipi sociali diffusisi in Italia a cominciare, soprattutto, dagli anni del “Miracolo economico” e legati al binomio operaiomassa. Per essere più pratici nell’esplicazione, si tenterà di mettere in luce tutti quei luoghi comuni con le rispettive contraddizioni da essi causate, dilaganti tra i lavoratori, in particolar modo dell’industria, durante il 900, sintetizzati ottimamente nel film di Elio Petri del 1971: La classe operaia va in Paradiso, in cui, tra le tante allegorie presenti, il cognome del protagonista interpretato da Gian Maria Volontè, non a caso è Massa. Poi si verificherà ciò che resta degli stessi stereotipi, soffermandosi maggiormente

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sulle vicende dell’azienda e del territorio preso in considerazione. Il già citato accordo separato di Pomigliano ha indubbiamente offerto discreti elementi su cui lavorare, soprattutto per la volontà dell’Amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, di sottoporre l’intesa a referendum tra i lavoratori, una condizione, in cui ciascun soggetto in causa deve necessariamente “uscire allo scoperto” assumendo una posizione netta, senza molte possibilità di disquisizioni astratte. Entrando più nel merito del testo, si comincia col ricostruire l’insediamento industriale a Pomigliano d’Arco, dall’assemblaggio dei motori aerei Daimler, avviato durante il ventennio fascista e continuato nel settore automobilistico con l’insediamento dell’Alfa Romeo, grazie al progetto dell’Alfa Sud S. p. A. per arrivare all’acquisizione del marchio da parte della Fiat. L’obiettivo del capitolo sarà far emergere le criticità endemiche del sito produttivo in osservazione, soffermandosi, seppur in maniera sintetica, sui punti di svolta della sua storia. Il secondo capitolo assumerà un ruolo propedeutico per gli obiettivi prefissati. Esso, infatti, dopo una panoramica sull’assetto logistico, produttivo e commerciale del Gruppo Fiat, esaminerà come l’azienda torinese ha affrontato la globalizzazione, quali ricette ha adottato all’inizio del nuovo millennio e quali, attualmente, si stanno concretizzando sotto la guida di Sergio Marchionne, non trascurando di evidenziare la cultura imprenditoriale dello stesso e il modo di relazionarsi con le controparti.

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capitolo i Una breve premessa storica

i.1 L’insediamento dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco Pomigliano d’Arco è una cittadina di circa 40 mila abitanti dell’entroterra napoletano, situata a 20 Km ad est del capoluogo partenopeo e a nord del Vesuvio, nell’area compresa tra Afragola e l’agro nolano. Si estende su un territorio del tutto pianeggiante e fertile. La città presenta una zona storica ed una zona più moderna, sviluppatasi negli anni ‘60 e ‘70 in conseguenza della forte attrattiva che suscitava il polo industriale, che si andava completando in quegli anni. L’esperienza dell’Alfa Romeo (A. L. F. A. come Anonima Lombarda Fabbrica Automobili e Romeo dall’imprenditore Nicola Romeo) nel territorio di Pomigliano d’Arco ha inizio nel 1938, quando l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che già nel 1932 ne aveva acquisito il Marchio, incaricò la stessa industria automobil-

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istica di fondare nel Sud un Centro Industriale Aeronautico con abbinato un piccolo aeroporto. Lo stabilimento risultava essere tecnologicamente all’avanguardia e, nonostante non fosse stato ultimato del tutto, era tra i più avanzati e moderni d’Europa ed in grado di elaborare al suo interno i motori aerei Daimler, all’epoca molto evoluti. Il complesso industriale diede, naturalmente, anche risposte ai problemi sociali e occupazionali che attanagliavano la popolazione locale. Infatti, oltre alle assunzioni da parte dell’Alfa Romeo, si attuò un piano di edilizia popolare per gli stessi lavoratori in un’area chiamata successivamente le Palazzine, mentre, per i dipendenti più specializzati, che per lo più non risiedevano in loco, si costruì un albergo congruo ad ospitarli. Purtroppo, la produzione fu interrotta a causa di due bombardamenti avvenuti durante la seconda guerra mondiale, che distrussero la città di Pomigliano insieme al suo moderno complesso industriale. Nell’immediato dopoguerra il territorio, nonostante versasse, come un po’ tutto il Meridione, in una situazione economica difficilissima, non vide il pronto intervento da parte del Governo centrale per un reinsediamento industriale. Infatti, a Roma si decise, viceversa, di adottare una politica di smantellamento che investì in primo luogo proprio le industrie meccaniche del napoletano che, negli anni dello sforzo bellico, avevano avuto un certo sviluppo. I motivi di tale scelta erano legati all’opinione di alcuni che ritenevano il Mezzogiorno poco competitivo sul piano in-

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dustriale: dunque era preferibile investire al Nord dove tradizioni e successi già verificati, rendevano quel territorio molto più affidabile. Furono proteste e lotte sindacali attuate dai lavoratori campani a correggere, in parte, quella scelta di politica economica. Pertanto, la produzione dei motori per aeroplani ricominciò soltanto nel 1952, quando venne completata la ricostruzione della città e dello stabilimento Alfa Romeo. Il Centro aeronautico di Pomigliano d’Arco, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, diventò anche un’importante sede di sviluppo e realizzazione di nuovi prototipi di aeronautica da combattimento. Intanto, il problema occupazionale del Sud Italia non si arrestava neanche negli anni del cosiddetto “boom economico”, tanto da spingere un numero sempre più elevato di cittadini meridionali ad emigrare, contribuendo ad un spopolamento soprattutto dei piccoli centri interni del Mezzogiorno. D’altro canto, l’Alfa Romeo avvertiva l’esigenza di allargare le sue vendite verso la fascia bassa del mercato. Infatti, la stessa casa automobilistica, nei suoi due storici stabilimenti lombardi di Arese e Portello, produceva vetture medio-grandi, mentre il mercato delle auto di più piccola cilindrata in Italia era egemonizzato dalla Fiat. Queste sono le cause alla base della decisione assunta nel 1966, dal Presidente dell’Alfa Romeo, Giuseppe Luraghi, insieme al Gruppo IRI e al Governo di Centro-Sinistra, di costituire la Società Alfasud, finalizzata a lanciare sul mer-

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cato una nuova vettura, l’Alfa Sud per l’appunto, prodotta nello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Nonostante le pressioni contrarie da parte della famiglia Agnelli, che interpretò l’operazione come un atto di ostilità verso la Fiat, la costruzione dell’impianto industriale ebbe inizio nel 1968 e nel 1972 iniziò a produrre l’Alfasud 1200, su progettazione di Rudolf Hruska e design di Giorgetto Giugiaro, dando lavoro a circa 15 mila dipendenti più l’indotto.

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i.2 Dalle partecipazioni statali alla Fiat Lo stabilimento, nei piani dell’azienda, doveva attestarsi su una produzione di 572 vetture al giorno, ma in realtà tale obiettivo non fu mai raggiunto. La stragrande maggioranza degli operai assunti non aveva nessuna esperienza di lavoro a catena, quindi dimostrava una scarsa capacità di adattamento alla tipologia di lavoro parcellizzato. Inoltre, la pianificazione del processo produttivo non diede i risultati sperati a giudicare dalle frequenti interruzioni lavorative e dalle eccessive imperfezioni del prodotto verificatesi. Questi fattori contribuirono a rendere i rapporti tra Azienda e maestranze non affatto idilliaci. I lavoratori volevano contribuire a migliorare l’efficienza del sito attraverso loro proposte rappresentate dal Consiglio di Fabbrica, in materia di tempistica, organizzazione produttiva e condizioni ambientali, ma la controparte datoriale non si dimostrava molto disponibile ad accoglierle. Dunque, il disagio dei lavoratori causava una forte conflittualità interna ed un alto tasso di assenteismo che, naturalmente, incidevano negativamente sul bilancio finanziario dell’Alfasud di Pomigliano. A questo si aggiunga la crisi economica mondiale che si determinò proprio nei primi anni di vita dello stabilimento campano, ovvero lo shock petrolifero. [Ortoleva-Revelli, 2000]. Ettore Massacesi, divenuto nel frattempo il successore di Luraghi alla Presidenza dell’Alfa Romeo, ebbe quindi

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l’arduo onere di riportare in pareggio le casse aziendali. Si stimava, infatti, che per ogni Alfasud venduta la collettività ci rimettesse circa 400. 000 Lire e il consultivo non era molto diverso riguardo alla Giulietta prodotta nel Nord. Nonostante il lieve miglioramento della produttività e dei rapporti sindacali ottenuto con l’introduzione dei Gruppi di produzione, una fase di lavoro più complessa e meno ripetitiva, nel 1981 la Direzione aziendale fu costretta a collocare 5700 dipendenti, sui 40. 000 totali dell’Alfa Romeo, in Cassa integrazione. Il provvedimento fu motivo di un ulteriore inasprimento delle relazioni industriali: la FLM (la Federazione sindacale unitaria dei metalmeccanici di CGIL, CISL e UIL) sostenne che a restare fuori dalle unità produttive fossero gli operai meno remissivi ai diktat dei vertici aziendali, mentre per Massacesi erano quelli più assenteisti. Nel 1983 termina la produzione dell’Alfasud, l’Alfa Romeo vuole lanciare sul mercato nuovi modelli e tentare nuove strategie industriali. Quindi a Pomigliano si inizia a produrre l’Alfa 33, che avrà uno stentato successo, e la parte meccanica dell’Arna, che sarà un completo flop e tra le macchine più brutte che abbiano mai circolato in Italia. L’Arna, acronimo di Alfa Romeo Nissan Auto, è frutto di una joint-venture costituita, per l’appunto, con la casa automobilistica giapponese Nissan e viene assemblata nel nuovo stabilimento costruito a Pratola Serra in provincia di Avellino. Intanto, alla Presidenza dell’Iri si era insediato Romano Prodi, questo “fin dal maggio 1983, aveva dichiarato apertamente che il suo programma sarebbe consistito nel

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cedere ogni attività “estranea” alla natura dell’Istituto e priva di carattere strategico per l’economia nazionale. Nel 1986, la Fiat acquistò (a condizioni che lo stesso Cesare Romiti, allora amministratore delegato, successivamente presidente della Fiat, riconobbe come altamente ragionevoli) l’Alfa Romeo”. [Graziani, 2000, 218] Nel 2008, l’ex stabilimento Alfasud di Pomigliano d’Arco, è stato intitolato all’illustre filosofo partenopeo Giambattista Vico. Dal 2011, l’opificio si chiama Fabbrica Italia Pomigliano e non è iscritto a Confindustria.

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Lo scrittore Marco Revelli (a sinistra) con Antonio Di Luca

Da sinistra Antonio Di Luca, Stefano Birotti e Giorgio Cremaschi


La manifestazione a Roma

Da sinistra Domenico Loffredo e Mario Di Costanzo



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