EDITORIALE Il mondo è pieno di strade, ma sono sempre in pochi coloro che decidono di percorrere quelle meno battute. Che sono più difficili, certo, ma spesso conducono nei luoghi più affascinanti. Se tu sei tra coloro che preferiscono le vie più tortuose e ancora da scoprire, allora sei nel posto giusto. Qui troverai storie di imprese grandiose, mai fatte prima, dove il coraggio, la voglia di esplorare e di fare qualcosa di nuovo, sono gli ingredienti principali. Racconti in cui lo sport diventa un’esperienza di adrenalina pura. Ma non è tutto: ti racconteremo anche storie di persone che, come te, hanno voluto fare della propria vita un’esperienza unica. Di persone che non si sono accontentate della banalità quotidiana, ma hanno voluto dare una svolta alla propria vita. Le strade dritte sono noiose, lasciale a chi ha paura di osare.
TURN THE CORNER!
INDICESTRADE
08 ONEKOTAN: THE LOST ISLAND 18 DALTON HIGHWAY 30 CLIFF DIVING WORLD SERIES 40 COOL RUNNINGS
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50 BLACK COFFEE 62 BENJAMIN VON WONG 74 STREET FOOD A SINGAPORE 82 BILL CASWELL
ONEKOTAN: THE LOST ISLAND
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Sciare su un vulcano in un’isola sperduta nell’Oceano Pacifico: ecco l’incredibile impresa di Matthias Mayr, Matthias Haunholder e Phil Meier.
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robabilmente non avete mai sentito parlare di Onekotan. Perché questo nome non vi dice nulla? Si tratta di una piccola isola del Mar di Okhotsk, nell’Oceano Pacifico, che è racchiuso tra la costa orientale della Siberia, la penisola della Kamcatka e la costa settentrionale dell’isola di Hokkaido, appartenente al Giappone. Un tempo l’isola di Onekotan era sotto il dominio nipponico, invece ora è russa. Se c’è qualcuno che ci vive? No. È un’isola unica, perché in quell’isola c’è un lago, e in quel lago c’è un’altra isola che, in realtà, è un vulcano. Eccezionale. E se vi dicessimo che qualcuno ha deciso di sciare su quel vulcano? Doppiamente impressionante. I tre freeskier – Mattias Mayr, Mattias Haunholder e Phil Meier – che hanno deciso di intraprendere questa pazzia sono stati seguiti da Simon Thussbas che ha filmato l’intera impresa permettendo così la realizzazione di un cortometraggio di 18 minuti che nel 2014 è uscito con il nome di “Onekotan - The Lost Island”. Onekotan è nota per alcune cose (e nessuna di loro riguarda le piste da sci): in primo luogo, la sua distanza remota.
“
Nessuno è stato lì in inverno, nessuno ha mai sciato lì, non ci sono persone che vivono lì. Tutti dicono che è impossibile, e più la gente dice che è impossibile, più si è motivati a farlo
,,
È molto, molto difficile da raggiungere. Nessuno vive lì. Non c’è spazio per l’atterraggio degli aerei, l’unico modo per arrivarci è in barca... e questo significa dover parlare con il capitano e fare un viaggio di 250 chilometri.
Non è esattamente il posto in cui si vuole andare per una vacanza sulla neve, eh? Be’, sembrava un’avventura del diavolo. Per nulla intimoriti dalla distanza dell’isola, i tre freeskier hanno deciso di essere le prime persone a sciare sul vulcano di Onekotan. Ovviamente, sapevano che questo non sarebbe stato un compito facile. Così hanno studiato il progetto, e viaggiato. E, in qualche modo, hanno “convinto” una barca a portarli verso l’isola e, con numerose difficoltà, ci sono arrivati. Naturalmente, una volta arrivati, hanno scoperto che la vita su un’isola
Pagina precedente: veduta aerea dell’isola di Onekotan. Sopra: i tre freeskier Matthias Mayr, Matthias Haunholder e Phil Meier. Sotto: Simon Thussbas
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remota, situata vicino al Circolo Polare Artico, in pieno inverno, non era poi così facile. La prima cosa da fare? Costruire un riparo che li proteggesse dal vento incessante e dalla neve e un igloo per dormire durante la notte. Hanno costruito un campo base vicino all’acqua, dove faceva meno freddo, e un secondo campo più in alto per le ascensioni più rapide verso il vulcano. Non esattamente uno chalet svizzero. Ma trovare un posto per dormire non era l’unico problema. Dovevano anche tracciare il percorso attraverso terre inesplorate verso il vulcano, che non era vicino, ed è stata una lunga camminata verso il lago. L’altra cosa per cui Onekotan è nota sono i due vulcani, situati alle due estremità dell’isola, uno dei quali è affondata in un lago, rendendo l’impresa ancora più ardua per gli esploratori. “L’isola è come essere su un altro pianeta. È qualcosa che si pone su un livello completamente nuovo; è così unica e inesplorata.” Il team ha combattuto contro venti estremi (80-100 chilometri orari), feroci tempeste di neve (con 40-50 centimetri di neve) e freddo intenso, il tutto prima ancora di intravedere
il vulcano. Poi, la breve escursione prevista per raggiungere il vulcano – una camminata di tre ore – si è trasformata in un viaggio di 13 ore, senza nemmeno raggiungere il vulcano, poiché i freeskier si sono imbattuti in venti ancora più forti e un terreno impegnativo. Tuttavia, la battaglia del team contro madre natura era solo all’inizio. Una volta che il gruppo ha raggiunto il vulcano, le loro sfide erano tutt’altro che finite, ma d’altronde, se fosse facile non sarebbe un’esplorazione. Anche se si ha costantemente la sensazione che gli sciatori facciano un passo in avanti e tre indietro, “Onekotan - The Lost Island” è una vera storia di avventura. Una storia di pura esplorazione di fronte a un territorio inesplorato. E già questo, da solo, è qualcosa di incredibile in quest’epoca. Ovviamente, dopo aver sciato giù per il vulcano, l’avventura non era finita! I ragazzi dovevano tornare sulla terraferma e il viaggio di ritorno si sarebbe rivelato difficile. Ma la loro tenacia ha permesso di portare a termine quest’impresa pazzesca e se oggi gli si chiedesse se ne fosse valsa la pena, la loro risposta sarebbe “Assolutamente sì!!”
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DOVE TROVARE L’INTERO DOCUMENTARIO: European Outdoor Film Tour https://www.eoft.eu/it/tour/eoft-1516/onekotan-the-lost-island/
DALTON HIGHWAY: THIS IS ALASKA
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Isolamento e paesaggi mozzafiato : racconto di un’avventura lungo l’autostrada più a nord del continente americano
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ulla Dalton Highway, la maggior parte delle conversazioni riguarda la Dalton Highway. Anche se non ci sono molte persone sulla strada, queste parlano inevitabilmente della strada stessa. La prima conversazione che Alan Feuer intrattenne con un essere umano lungo il suo viaggio di tre giorni attraverso l’autostrada più isolata dell’Alaska, fu con un uomo di nome Steven Duffy, cameriere del Yukon River Camp, una stazione di servizio quattro ore a nord di Fairbanks. “Allora? Com’è la strada?” Chiese Mr. Duffy. Era un grosso omone, con barba e spalle corpulente, e mentre consegnava ad Alan il menù, gli diede anche qualche consiglio. “Prenditela comoda sulle colline, pulisci bene i parafanghi, tieni sempre d’occhio gli specchietti e, soprattutto, sempre guidare piano nel fango. Questa non è Anchorage” l’avvisò. Poi aggiunse, sebbene non ce ne fosse davvero bisogno “Qui siamo nel bel mezzo del nulla.” La James W. Dalton Highway, che taglia la parte più selvaggia della regione nell’estremo nord dell’Alaska, non può essere descritta in altro modo se non “nel bel mezzo del nulla”. Aperta nel
1974 a seguito della scoperta dei primi giacimenti di petrolio nello Stato, in un momento storico in cui, a causa della conflittualità con gli stati arabi, l’America necessitava più che mai di una propria riserva d’oro nero, la strada lunga 414 miglia fu costruita in soli 5 mesi e corre dalla cittadina di Livingood (13 abitanti) alle fredde coste della baia di Proudhoe. Lungo il percorso si passa dalle foreste boreali alle nebbiose pianure marittime. L’autostrada vanta, se così si può dire, il più lungo tratto di strada priva di servizi di tutto il continente nord-americano. Per 240 miglia, da Coldfoot a Deadhorse, non ci sono stazioni di rifornimento, servizi igienici, negozi, ristoranti, nemmeno strutture sanitarie, nè hotel, nè stazioni di polizia, ricezione telefonica, niente connessione ad internet, niente radio — niente di niente, per sette ore, quando va bene. C’è solo la strada. Apparentemente non ci sarebbe nessun buon motivo per chiunque, al di fuori dei camionisti, per affrontare le temperature — che variano tra i 2°C e i 21°C nei mesi estivi e i -40°C raggiunti durante l’inverno — l’assenza di luce solare in inverno
e quella della notte d’estate, la pioggia, la nebbia, il fango. Il “non-buon-motivo” che aveva spinto Alan sulla Dalton fu la serie TV “The Wire”. Agli inizi di giugno, la sua ragazza, Cheyne, era partita per l’Europa alla volta della propria avventura, e, in sua assenza, Alan decise di che avrebbe passato il tempo su Netflix. Tuttavia qualcosa andò storto: Alan non riusciva a concentrarsi su ciò che stava guardando; non arrivò neanche alla fine dei crediti di testa. Decise allora di dedicarsi alla lettura,
“Allora? Com’è la STRADA?„
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ma lo stesso problema si ripresentò. Quando cercò di diagnosticare cosa non andasse si rese conto che era rimasto solo.
Per la prima volta in 20 anni Alan era completamente solo. Era un’inquietante epifania, ma mentre ci ragionava Alan realizzò che, come con i vaccini, qualche volta il veleno nella vita di un uomo può anche esserne la cura. Fu così che si ritrovò a googlare “strade più solitarie d’America.” Due mesi dopo stava atterrando in Alaska. Noleggiato un RAV 4 modificato con battistrada tripli e radio CB, riempito il serbatoio, controllati i freni e l’olio, Alan era già in moto. Tutto ciò che aveva con sé era una borsa di vestiti, acqua, formaggio e noccioline e una vaga convinzione che se dovesse
essere solo, tanto valeva che fosse molto solo e sulla strada. Dopo il pranzo allo Yukon River accese la radio. L’esperimento fallì. I numeri digitali si susseguirono per un po’ fino a che finalmente la radio si sintonizzò sulla frequenza 88.3, una stazione radio cristiana appena fuori Fairbanks. Per mezzo minuto, Alan poté godere del brano “Trust in Jesus”, dopo il quale ogni traccia di voce umana sparì. Sette ore dopo era arrivato a Coldfoot: una cittadina che potrebbe essere facilmente contenuta in un campo da football, la cui unica raison d’être è di fungere da “census - designated place”, nonché unico luogo in cui acquistare legalmente alcolici su tutta la Dalton. Entrato nel bar della stazione di servizio, Alan ebbe modo di far conoscenza con Mark. Questi era stato per anni medico
in Portland, Oregon, fino a ché, stanco di quella vita, decise di trasferirsi in Alaska, lavorando come operaio dell’oleodotto. Invero, nei suoi tre giorni di viaggio Alan non incontrò mai gente del posto: uomini provenienti dalla Florida, dalla Virginia, una donna del Connecticut e un tizio della British Columbia a bordo della propria Harley, accompagnato dal suo cane nel sidecar. Sulla Dalton è facile stringere legami, e fu così che Alan e Mark si trovarono a parlare di lavoro, amore, politica e, naturalmente della strada. Fu a quel punto, quando Alan accennò di essere diretto a Deadhorse, che un collega di Mark si avvicinò con un commento. “Oh, diavolo, no!” esclamò. “Fidati, non vuoi trovarti da quella parte dell’autostrada.” Poi, sorseggiando il suo drink, aggiunse “Immagino che andrà
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STRADE tutto bene. Forse.” Il giorno successivo, Alan si svegliò alle 5 del mattino e si rimise in marcia prima che la pioggia iniziasse a cadere. Fu quando si trovò nel mezzo di un banco di nebbia, con i dossi della strada che lo spintonavano, che Alan si dimenticò di essere solo. Se l’isolamento è una presa di coscienza dell’essere soli, ciò che Alan stava provando era qualcosa di diverso: si sentiva solitario, era sì solo, ma non provava più la necessità di fuggire
da quello stato d’animo che in primo luogo l’aveva spinto sulla strada. Fu con questo pensiero che arrivò finalmente a Deadhorse, facilmente annoverabile tra i peggiori posti al mondo. Se Stalin avesse fatto costruire un gulag nella zona cargo dell’aeroporto JFK, questo sarebbe stato probabilmente molto simile a Deadhorse. La - per così dire - città è l’apoteosi dello squallore petrolchimico: una landa desolata di serbatoi di petrolio, fiamme d’acetilene, negozi di riparazione e assistenza per grandi macchinari e servizi
di riparazione perdite per l’oleodotto, il tutto coperto di pioggia gelida e bucato da pozzanghere e fango. Dal suo arrivo al rifornimento presso la pompa di benzina, Alan aveva già visto abbastanza di Deadhorse e dopo un pranzo frettoloso era di nuovo in strada per tornare a Coldfoot. Il giorno seguente, nel tornare a Fairbanks, Alan passò nuovamente per Yukon River Camp. Sentendosi socievolmente solitario, decise di fermarsi per salutare Steven Duffy. Per sfortuna, questi non c’era.
A quanto pareva , si trovava a Fairbanks per controllare la sua squadra di fantefootball su internet, ma la cameriera che servì Alan lo rimpiazzava benissimo. Alan ordinò un caffè e mentre gli consegnava il resto la cameriera gli chiese:
“... Allora, com’è la strada?,,
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CLIFF DIVING WORLD SERIES: MOSTAR
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Tuffi dallo Stari Most: torna lo sport su un ponte simbolo
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l 26 luglio, a Mostar, in Bosnia, si è svolta la 449esima edizione del Tradicionalni skokovi sa Starog Mosta , il “Tradizionale salto dal Ponte Vecchio” Stari Most, innalzato nel 1566 per volere di Solimano il Magnifico. Era stato proprio il sultano, una decina di anni prima, a chiedere all’architetto Mimar Hayruddin di costruire un ponte solido, in pietra, in grado di dare continuità ai commerci tra l’Adriatico e l’entroterra balcanico e di togliergli l’ansia delle piene del fiume Neretva, che ogni anno minacciavano i manufatti provvisori in legno. Per la paura che la sua opera non tenesse, l’architetto organizzò il proprio funerale nel giorno dell’inaugurazione. La funzione non si svolse, per sua fortuna.
Quell’arco unico appeso a venti metri d’altezza sul fiume, lungo 29 metri e largo quattro, era stato progettato così bene che per più di quattro secoli sarebbe stato un crocevia di avventure, di incontri, di commerci, di vita insomma.
E come tutti i luoghi di questo genere, Mostar - il paese dei “guardiani del ponte” - iniziò a crescere, ad attrarre persone. Divenne città, la più multietnica della zona. Dalle valli vicine, per secoli i ragazzi più coraggiosi avrebbero raggiunto le spallette di quel capolavoro in pietra per affrontare un rito di passaggio: il tuffo sulle acque gelide della Neretva. “Il tradizionale salto dal ponte vecchio”, appunto. Il 9 novembre 1993, le cannonate di un carro armato croato trascinarono sul fondo del fiume anche questa piccola scintilla di sport, insieme alle macerie del ponte e a quelle della pace nei Balcani.
STRANIERI
Ventidue anni dopo, e a undici dalla ricostruzione del nuovo “Ponte Vecchio” dov’era e com’era, sul punto apicale dello Stari Most è stata innalzata una piattaforma di legno. Per la prima volta, Red Bull ha portato nel cuore della Bosnia le proprie “Cliff Diving World Series” e ha voluto aggiungere altri sette metri ai 20 di volo verso l’abisso del torrente. Oggi, alle quattro del pomeriggio, 14 tra
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i migliori tuffatori dalle grandi altezze si daranno appuntamento lassù. Il loro atto di coraggio starà nell’aggiungere al volo le evoluzioni più spettacolari, nei tre secondi che passano tra lo stacco e l’immersione in acqua, da fare rigorosamente con i piedi. Sono attesi migliaia di spettatori per un evento che, a guardar bene, poteva essere organizzato soltanto da qualcuno venuto da fuori. Perché a vent’anni dalla fine della guerra, Mostar fa fatica a essere quella che era Se il ponte è stato ricostruito, per i legami che lo attraversavano ci vuole più tempo.
Le cannonate croate del 1993 non avevano valore strategico, il fronte non passava su quel ponte. Il significato era simbolico: noi croati stiamo a Est della Neretva, voi musulmani ve ne state a Ovest. Non siamo una città.
ANCORA DIVISI
Ancora oggi quel messaggio rimane sottotraccia e influenza tutto. Anche i tuffi. Già nel novembre 2001, alla commemorazione della distruzione del ponte non parteciparono i bambini delle scuole della parte Ovest, mentre
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quelli della zona musulmana gettavano fiori sulla Neretva. Pochi anni più tardi, quando riprese il “tradizionale salto”, gli organizzatori musulmani misero le mani avanti: “Certo che inviteremo anche i tuffatori croati. Su questo ponte il criterio non è la nazionalità, ma se sei abbastanza coraggioso da buttarti. Tutto il resto non conta”. Nel 2007 però, gli stessi organizzatori aggiunsero alla denominazione dell’evento la parola “Viteski”, cioè “Cavalieri”. Il “441° tradizionale salto dei cavalieri dal ponte vecchio” fu boicottato dai croati. Perché “Cavalieri” era uno dei nomi della brigata bosniaca che combattè contro le forze bosniaco-croate. Il presidente del “Club dei saltatori dal ponte Stari Most”, Semir Drljevic, era poi anche il capo dell’associazione dei veterani di guerra bosniaco-musulmani. Passano lente, le acque della Neretva sotto lo Stari Most.
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COOL RUNNINGS: HOTTEST THING ON ICE
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Un quarto di secolo fa un gruppo di ragazzi caraibici raccolse la sfida di due miliardari statunitensi. E alle Olimpiadi di Calgary 1988 entrò nel mito. Ecco la loro (vera) storia
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entotto febbraio 1988, Calgary. Terza manche della gara di bob a quattro delle Olimpiadi invernali. I fratelli Chris e Dudley Stokes, Devon Harris e Michael White, componenti del team giamaicano di bob, perdono il controllo del loro mezzo dopo una caduta rovinosa a pochi metri dal traguardo. Varcano la linea finale a piedi. Ed entrano nel mito. Cinque anni dopo, un regista americano girerà un film “Cool Runnings” romanzando la vicenda dei caraibici. Ecco la loro vera storia.
BOBBISTI PER CASO
La corsa della Giamaica verso i suoi primi Giochi Olimpici invernali inizia dalla sfida di due miliardari statunitensi George Fitch e William Maloney. L’idea di una Federazione Giamaicana nasce davanti ad un bicchiere di rum in un locale notturno della capitale in Giamaica: l’uomo d’affari George Fitch assiste a una delle tipiche gare di carretti che si svolgono per le strade della splendida isola caraibica. I ragazzi giamaicani imparano fin da piccoli a
Pagina accanto: frame dal film “ Cool Runnings�. Sopra e sotto: la squadra giamaicana in una gara a due e a quattro.
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STRADE dare una spinta vigorosa, al momento della partenza, a dei rudimentali mezzi a quattro ruote su cui si sfidano in una corsa sfrenata, proprio come nel bob. L’imprenditore William Maloney coglie la folgorazione dell’amico e insieme danno vita al sogno giamaicano. I due prima cercano prima di reclutare gli sprinter più forti del paese, dopo il rifiuto si rivolgono all’Esercito giamaicano. Cercano volontari e li trovano dopo una selezione. Sono Devon Harris, ex mezzofondista che ha fallito la qualificazione a Los Angeles 1984, il capitano Dudley Stokes, addestrato nell’accademia britannica di Sanshurst, il radiotelegrafista Michael White. Fitch e Maloney propongono ai tre l’impresa, che accettano. A loro si aggiungeranno Freddy Powell, Clayton Salomon e per ultimo Allen Casswell.
statunitensi, tra cui Pat Brown, sono un disastro. Sulle Alpi Tirolesi incontrano Sepp Haidacher, allenatore austriaco. I consigli del coach migliorano le prestazioni mentre i media Usa cominciano a interessarsi alla squadra.
LE OLIMPIADI
L’avventura dei quattro ragazzi guidati da Pat Brown arriva anche alle orecchie della Federazione Internazionale che acconsente a far partecipare il team a entrambi gli eventi in calendario alle Olimpiadi di Calgary. Ma la sfortuna è dietro l’angolo. I giamaicani, arrivati a Calgary con qualche settimana di anticipo per rifinire la preparazione perdono Allen Caswell, il quarto membro dell’equipaggio, che si infortuna scivolando sul ghiaccio mentre fa jogging. Per sostituirlo i tecnici scelgono Chris Stokes, fratello di Dudley, buon velocista PREPARAZIONE TRA NORD AMERICA E AUSTRIA che si stava allenando per le selezioni La squadra è formata e inizia a provare spinte e partenze. I primi tentativi li fanno giamaicana per Seul 1988 e che era arrivato in Canada a tifare per il fratello. in una base militare in Giamaica su un carretto, poi si spostano a Lake Placid negli Alle Olimpiadi la prima gara del programma del bob è quella di coppia. Stati Uniti e a Igls in Austria. Partecipano Dudley Stokes, come Gli inizi, sotto la guida di tecnici
guidatore e Michael White come frenatore. La coppia caraibica si piazza 30sima dopo 4 manches, riuscendo nella seconda ad arrivare addirittura al 21 posto provvisorio. E’ l’inizio del delirio giamaicano. Trainato dai media Usa, decisi a “riempire” il vuoto lasciato dall’eliminazione della squadra statunitense di hockey su ghiaccio i quattro ragazzi si trovano al centro dell’attenzione di mezzo mondo. Ma manca ancora una gara. Quella in quartetto. Si svolge tra il 27 e il 28 febbraio
e comincia con due brutte prestazioni, e finisce con l’infortunio alla spalla di Dudley Stokes e la caduta rovinosa nella penultima manche, a seguito della quale i quattro atleti, bob in spalla, varcano la linea finale a piedi. L’esito della gara, insomma, è disastroso, ma la squadra raccoglie la simpatia del pubblico di tutto il mondo, per la unicità di un equipaggio che la neve l’aveva vista solo in televisione. La nazionale giamaicana di bob non riuscirà a coronare il sogno olimpico, ma verrà ricordata per la
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tenacia, l’impegno, la determinazione e la grande simpatia.
MA IL SOGNO NON FINISCE
La caduta di Calgary non è la fine del bob in Giamaica. La favola di Cool Runnings continua ancora, a Evanston in Wyoming, dove il team si allena per preparare le gare. Dopo l’Olimpiade canadese i bobbisti caraibici hanno partecipato a tutti i Giochi fino al 2002, e nel 2001 la Giamaica del bob raggiunge un obiettivo incredibile: la squadra vince la medaglia d’oro ai Campionati del mondo di spinta. Nel 1993, le gesta degli atleti giamaicani ispireranno la Disney per la produzione di “Cool Runnings – 4 sotto zero”, un film che riscontrerà un grande successo tra il pubblico.
CHE FINE HANNO FATTO?
A un quarto di secolo dall’impresa i membri dell’equipaggio originale non hanno perso del tutto il contatto con gli sport invernali. Dudley Stokes è il presidente della Federazione giamaicana di bob, come lo è stato suo fratello Chris. Il frenatore Michael White vive negli Stati Uniti ed è tornato in Canada per le Olimpiadi di Vancouver con un team di sciatori giamaicani. Devon Harris fa lo scrittore e il motivatore, mentre coach Pat Brown continua a “insegnare” bob. Il più sfortunato è stato Allen Casswell che nel 2012 ha avuto qualche problema con la giustizia.
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BEING A DREAMER:
BLACK COFFEE
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Chiacchierata circa sogni, ambizioni e macchine con uno dei produttori e DJ più di successo nello scenario musicale odierno
“È
la macchina più costosa del mondo,” mormora reverentemente qualcuno, mentre Black Coffee, all’anagrafe Nkosinathi Maphumulo, ammira una McLaren bianca. In pochi secondi, la sua attenzione si sposta su una Mercedes-Benz AMG. “Questa è la macchina dei miei sogni”, esclama davanti alla carrozzeria splendente. È uno dei DJ e produttori più di successo nella musica moderna, uno degli uomini più ammirati del pianeta, e in questo momento saltella in giro, su di giri, come un teenager. È chiaro che è appassionato proprio di questo: di macchine. Bè, di macchine e di musica. Black Coffee ha costruito una vita intera sull’amore per la musica. Cresciuto nella polverosa Mthatha, nella provincia del Capo Orientale, Sud Africa, il giovane Maphumulo non permise che le sue modeste origini ponessero freno alle proprie ambizioni.
All’età di 14 anni, si lesionò permanentemente il braccio sinistro - lo stesso giorno in cui Nelson Mandela venne rilasciato dalla prigionia - ma non smise per questo di sognare. Immaginò la propria carriera, le proprie macchine, la casa, la sua futura vita.
Tramite la forza della propria visione e la pura determinazione, Black Coffe si è plasmato come essere umano. Poi, con il talento e la strategia, divenne uno dei più produttori dance più di successo al mondo. Ora come ora, è probabilmente il più grande prodotto d’esportazione musicale di tutto il Sud Africa. I suoi singoli sono costantemente in cima alle classifiche di Traxsource, e lo stesso vale per i suoi album - e tutti i grandi nomi della musica vogliono lavorare con lui.
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Q
Fanatico di motori? Non proprio. Amo le macchine, ma... è come con la musica, in realtà. Non sono mai stato quello che ti sapesse dire la storia di ogni etichetta discografica, o di un producer.
& A
Quindi sei più un fan che un fanatico? Esatto. Anche con le macchine, non saprò dirti i dettagli del motore o cose così... Sono un artista, è il design che mi attrae, l’aspetto della macchina. Poi penso, “Ok, cambiamone il suono. Cambiamone il colore. Leviamo la cromatura. Mettiamoci
stato o è nato solo in seguito? L’ho sempre avuto, sin da quando ero bambino. In paese i bambini fanno un gioco, in cui stai in piedi vicino alla strada, e quando passano le macchine ne scelgono una e dicono “Quella è mia!”. Non mi sono mai posto dei limiti da piccolo, nonostante il luogo in cui sono nato. Ho sempre voluto il meglio, anche se non mi era ben chiaro come ottenerlo. Prendevo un pezzo di carta e disegnavo la mia casa ideale, la mia macchina ideale e la mia famiglia. Volevo essere un DJ e allo stesso tempo un uomo di famiglia. Insomma non una vita da rockstar. Ma tu vivi una vita da rockstar! Solo nei weekend!
una marmitta diversa.” Non voglio che sembri normale. Dev’essere unica.
Quindi, in un certo senso, hai progettato la tua vita? Questo è esattamente ciò dico ai ragazzi di fare. Ultimamente sto girando per le scuole superiori del paese per parlare con loro circa il rispetto per sé stessi, condividendo la mia storia. Dico loro “Immaginatevi tra un paio di anni. Ditevi: ‘Indosserò quesi vestiti, guiderò quel tipo di macchina’. Sono cose che dovete delineare adesso, e questo vi aiuterà ad ottenerle. Abbiate una visione chiara!”
Come hai costruito la tua visione e i tuoi progetti oltre i paesaggi rurali di Capo È come se stessi sempre remixando Orientale? Sì, esatto! È tutto qui [Indicando la testa]. Non c’è bisogno di trasferirsi da qualche parte Qual è stata la tua prima macchina? Una Volkswagen Polo Playa. Ero in Pretoria per pensare in grande. Sta a te. Se non hai niente, la cosa più grande che puoi fare e avevo bisogno di muovermi da un per te stesso è pensare, “Come posso fare evento all’altro. Amavo quella macchina. per scappare da qui?”. Visualizzalo. Sii Le cambiai i cerchioni, e anche un sognatore. Creati una vita. Da piccolo l’impianto stereo. sognavo ad occhi aperti che Michael Jackson venisse a trovarmi. Il tuo unico Il tuo amore per le macchine c’è sempre
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limite è te stesso. A quel tempo anche fare il DJ era solo un sogno. Guardando la mia vita adesso, ce l’ho quasi fatta. Come hai imparato a fare il DJ? Non penso fossi circondato da DJ quando eri piccolo Sono crescito a Capo Orientale: ogni mattina, alle 5, mia nonna mi svegliava, mi preparava toast e caffè, e uscivo di casa che era ancora buio. Da solo. Avevo 14 anni. Camminavo fino a dove tenevamo il bestiame. Mungevo le mucche. Almeno due, a volte anche tre o quattro. Poi mi cambiavo velocemente e andavo a scuola. Finite le lezioni alle 2 del pomeriggio, avevo un’ora da passare con i miei amici. Finita la pausa, prendevo i secchi e tornavo a mungere le mucche. Ogni - singolo - giorno. Ero esposto a questo.
Ti sei fatto male al braccio quando avevi 14 anni - quell’incidente ha costituito un limite? Avrebbe potuto esserlo, ma è successo quand’ero ancora solo un ragazzino, e questo ha aiutato. Se fosse successo più tardi, probabilmente sarebbe stato molto più drammatico, sarei stato molto più consapevole di me stesso. Mi avrebbe ucciso. Ma essendo ancora piccolo avevo ancora la mia innocente convinzione che tutto fosse possibile. Quell’innocenza mi ha portato dove sono. Ho riportato un grave danneggiamento ai nervi della spalla. Feci fisioterapia... quasi impazzii. Alle fine, realizzai che non stava avendo alcun effetto, non mi stava aiutando. Un giorno dissi a mia nonna che non volevo più andarci, ed è stato liberatorio. Da lì in avanti, quasi mi dimenticai che ero stato ferito, non ci ho più pensato e ricominciai
a giocare con gli altri bambini. Ricordo un giorno in particolare, stavo correndo, e ad un certo punto ho pensato ‘Fammi mettere la mano in tasca’, una cosa che era ancora strana allora. Ed era fatta. I miei amici guardarono la mia nuova soluzione e dissero “ok!”. Cos’è venuto prima: il DJ o il producer? Ho iniziato facendo il DJ. Sono un DJ old-school. Cominciai con le cassette. Andavo agli spettacoli con una penna per riavvolgere o mandare avanti i nastri. Ma hai iniziato a produrre piuttosto presto... Sì. Il mio approccio era differente. Provenivo da un epoca in cui gli album compilation andavano forte. I DJ locali si davano battaglia per decidere di quali brani prendere la licenza per la loro prossima compilation. Revolution era uno dei pochi artisti dance che faceva i propri album. Questo mi ispirò. Pensai, invece che registrare la mia etichetta su Traxsource e tentare di introdurmi sul mercato, cercando brani per una compilation, potrei vendere la licenza dei miei pezzi alle altre etichette. Lasciare che fossero gli altri a introdurmi. Quando rilasciai il mio terzo album, divenne il più richiesto. Producer internazionali lavorano magari a due canzoni all’anno. Io preferivo tenere da parte il mio album e rilasciare un singolo per un’etichetta, quello successivo per un’altra. Stavo impressionando tutti - in un anno avevo rilasciato sei canzoni. You Turn Me On è stata al primo posto per un anno intero. L’anno dopo era Superman. È così che mi sono fatto conoscere anche oltreoceano. Hai fondato la tua etichetta, Soulistic, molto presto. C’è qualcosa che distingue
il business della musica da qualsiasi altro business? Ci sono moltissime opportunità nel mondo della musica. Puoi essere un editore, una compagnia di management, puoi essere un’etichetta discografica e concentrarti sulle vendite. Oltreoceano il merchandise va forte. È un business unico nel suo genere. Quali artisti ti ispirano? Chris Brown. Il suo approccio alla musica non ha eguali.
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Molti sono bedroom producer, che consiglio daresti loro? “Segui il tuo istinto”. Certa gente si lascia depistare da cosa va di moda, cercando di seguire il nuovo sound. Ma prendi Happy di Pharrell Williams. È una hit, ma non fa parte di un trend ed è diversa dai suoi brani hip-hop. Quando segui il tuo istinto sei avvantaggiato perché fai ciò che sai fare. Anche quando fai il DJ segui questa strada? Un DJ ha il compito di formare i gusti delle persone. Senza i DJ che mandano quel particolare brano, la gente rimarrebbe all’oscuro delle novità. Quando sei un DJ hai sempre la tentazione di andare sul sicuro e mandare ciò che è popolare, invece a me piace rischiare. Specialmente all’inizio di un set, quando il pubblico è
ancora attento, mi piace sfruttare la loro attenzione per “educarli” e introdurre pezzi nuovi. Inizio con una canzone che la gente non conosce. Non so ancora nemmeno io dove voglio andare a parare. Continuo a scavare, fino a quando raggiungo le canzoni che il pubblico conosce. Da lì ritorno a quelle che non conosce, e così via. C’è ancora qualche sogno di quel bambino in Mthatha che devi ancora realizzare? Certamente. È un peccato che Michael Jackson se ne sia andato.
Dall’ingegneria alla fotografia: la svo
Benjamin VON WO
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enjamin Von Wong non conosce la parola “relax”. Subito dopo essersi licenziato dal suo lavoro come ingegnere minerario, nel 2012 si lancia nella carriera di fotografo full-time. Spinto dal desiderio di superare l’impossibile nella creatività, Benjamin, che lavora a Montreal, è divenuto noto per il suo stile epico nella fotografia. Cattura l’attenzione degli spettatori con uno stile artistico iper-realistico: un’innovativa fusione di fotografia realistica ed effetti speciali. Grazie ai suoi studi di ingegneria, Benjamin ha un approccio davvero unico alla risoluzione dei problemi creativi. Così, una difficoltà tecnica diventa per lui una amichevole competizione. Spinto dal desiderio di unire le persone, l’artista è particolarmente bravo a trovare i talenti che possano dare vita alle sue complesse storie. Partecipa inoltre attivamente alla community fotografica, condividendo le sue esperienze e tecniche attraverso blog, social media, laboratori e video. Abbiamo parlato con Wong su come crea i suoi lavori epici, sulle possibilità offerte da Facebook, e sul trovare la propria passione.
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Q
Non sono molti i fotografi con un background in ingegneria mineraria. Com’è avvenuto il passaggio dal tuo precedente lavoro alla fotografia? Allora, quando ho lasciato il mio lavoro non avevo nessun progetto a lungo termine in mente. È stato tutto molto naturale, una mattina al mio risveglio ho realizzato che non volevo continuare ad essere un ingegnere per il resto della mia vita, anche se non sapevo ancora che cosa avrei fatto, sapevo solo che non sarei stato un ingegnere. Avevo messo dei soldi da parte e avevo una conoscenza basica della fotografia, inoltre i miei genitori mi hanno sostenuto molto. Così consegnai la mia lettera di dimissioni ed iniziai la mia nuova vita. Avevo deciso di cimentarmi nel campo dell’ingegneria perché non sapevo cosa altro fare della mia vita. A 16 anni ero bravo in matematica ed in fisica ed inoltre mio padre è ingegnere, così mi sono detto “Ok, penso sarò bravo in questo campo.” Mi ero convinto che sarebbe stato un lavoro che mi avrebbe dato l’opportunità di guadagnare soldi e di viaggiare. Ma non avevo considerato che quando avrei viaggiato non sarei stato nel centro delle città, bensì in mezzo al nulla, in campagna, dove si trovano le miniere. Mi accorsi
& A
“Dì al supe che è den di uscire
ereroe ntro di te a giocare�
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con il tempo che il lavoro minerario non era qualcosa che mi entusiasmava o che mi appassionava. C’è qualcosa dei tuoi giorni da ingegnere che hai potuto sfruttare nel tuo lavoro da fotografo, come specifiche skills o il modo di approcciarsi ai problemi? Oppure pensi siano cose totalmente separate? Tutto gioca un ruolo. Non penso ci sia necessariamente un rapporto diretto tra le due cose, ma comunque in generale essere un ingegnere aiuta nell’approccio ad un problema, nell’analizzarlo e nel divertirsi a trovare una tecnica per la sua risoluzione - e tutto ciò può essere applicato alla fotografia. Io amo risolvere i problemi, se qualcosa è già stato fatto generalmente non mi interessa molto. Mi piacciono le nuove sfide e fare cose che non ho mai provato prima. Il tuo lavoro è incredibilmente vario e fantasioso, sperimenti diverse tecniche, dalle luci nere ai giochi pirotecnici. Da dove prendi ispirazione? Moltissime delle mie ispirazioni vengono dagli incontri con le persone e dai viaggi in luoghi nuovi. Il mio senso estetico è
simile a me, nel senso che mi piacciono le cose grandiose ed epiche e ho preferenze per le cose che sono fantastiche, futuristiche o che fanno delle persone un sogno, qualcosa che è oltre la vita. Come trovi queste persone stravaganti e creative? Sono loro a contattare te o è semplicemente tramite i tuoi viaggi che ti ritrovi in situazioni che ti permettono di incontrarle? Devo dire che la mia intera carriera è stata costruita su Facebook. Sono partito da lì semplicemente postando alcuni lavori e questo mi ha permesso di connettermi con le persone. Poi ho iniziato a fare una serie di video “Behind the Scenes”, altri ancora in cui spiegavo e condividevo alcune tecniche particolari e li postavo su alcuni blog come Fstopppers e DIY Photography. In questo modo sono
diventato sempre più famoso in rete, infatti la maggior parte dei miei clienti mi contattano via Internet. Visto che le immagini che crei sono basate sul fantastico o sull’epico, quanto del lavoro è fatto in camera e quanto in post-produzione? Per me, un’immagine finale consiste in tre parti diverse. Un terzo del lavoro occorre farlo in pre-produzione, mettendo tutto nel posto giusto e nel modo giusto. Un terzo viene fatto nel momento dello scatto, quando il tutto viene catturato dall’obiettivo. E l’ultimo terzo viene fatto in post-produzione. Quante ore si spendono per parte è più o meno irrelevante, quello che conta è il risultato finale dell’immagine. Io mi sento soddisfatto quando riesco a realizzare delle immagini dove la gente fatichi
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a distinguere quel che è reale da quel che invece è falso. Per diverse ragioni le persone apprezzano la realtà, ma anche l’illusione di essa. A me personalmente non piace passare ore e ore da solo davanti al computer, ma adoro vedere un’immagine divenire realtà e ciò avviene solo dopo un lungo processo e la rifinitura dell’immagine. Secondo te cosa rende un fotografo un fotografo interessante? Ritengo che l’importante sia che la foto susciti qualcosa o racconti una storia. Non credo che tutte le mie immagini ci riescano sempre, ma è questo l’obbiettivo che io mi pongo. Pensi che la fotografia sia una forma d’arte universale? Chiunque può realizzare delle belle fotografie? Secondo me il duro lavoro è tutto. Non credo molto nel talento, penso piuttosto
che se vuoi fare una cosa e ti impegni al massimo puoi ottenerla. Poi la differenza tra chi scatta foto valide e chi invece mette dei valori nell’immagine prodotta è data dall’esperienza e dal trovare un proprio stile. Il problema di molte persone è che fanno fatica a capire in cosa sono davvero appassionate. Io ad esempio in passato ho praticato snowboard, danza, dalla breakdance alla salsa, ho suonato alcuni strumenti, come violino e piano, mi piaceva anche dipingere ad olio. Ho provato proprio di tutto, ma niente mi ha appassionato quanto la fotografia. Inizialmente i miei genitori aspettavano il momento in cui mi sarei annoiato come è successo con le altre attività, ma così non è stato. La fotografia per me è stata l’occasione di vivere tutto quel che mi piace e mi affascina: collaborare con persone diverse, visitare posti nuovi e provare sempre la novità.
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STREET FOOD DA STELLA MICHELIN Singapore: per la prima volta il riconoscimento stellato viene conferito a due chioschi
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e stelle Michelin, come ben saprete, rappresentano il giudizio di valutazione della presigiosa Guida Michelin. L’assegnazione delle stelle, destinata a ristoranti e alberghi a livello internazionale, varia da una a tre. Ciò vuol dire che chi ha assegnata anche una sola stella, si distingue per la buona cucina e il buon servizio. Elementi fondamentali per un ristorante che ha come obiettivo il conseguimento della Stella Michelin sono l’elevata qualità di: cucina e sala, menu degustazione,
vini biologici, arredamento e servizio. Alcune volte il traguardo viene raggiunto in poco tempo, altre volte, invece, locali che sembra possano meritare di far parte dell’Olimpo della ristorazione restano a bocca asciutta. Quest’anno però, per la prima volta, la Guida Michelin conferisce il riconoscimento di una stella - udite udite - ad un’attività Street Food. Stiamo parlando di un chiosco, anzi due, entrambi a Singapore: l’Hill Street Tai Hwa Pork Noodle e l’Hong Kong Soya Sauce
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Chicken Rice and Noodle. Chan Hon Meng, chef-proprietario della Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice and Noodle, racconta: “Quando ho ricevuto l’invito per la cerimonia, pensavo che si trattasse di un brutto scherzo. Perché Michelin sarebbe dovuto venire al mio locale? Non avevo mai sentito di un ispettore Michelin che andasse ad un bancone del mercato”. Pare tuttavia che i due chioschi si distinguano eccezionalmente per le loro preparazioni gourmet, degne di nota gastronomica: qualità del cibo ottima,
ancor più se si valuta il fatto che il cibo viene preparato per strada, come vuole il format del chiosco. L’Hill Street Tai Hwa Pork Noodle prepara piatti a base di carne di maiale ed è aperto persino all’ora della colazione, mentre l’Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice and Noodle è noto, oltre che per il maiale alla griglia, per il riso al pollo. Insomma, cibo a prezzo bassissimo che viene paragonato a quello di ristoranti di lusso. Si tratta, infatti, dei piatti Michelin più economici del mondo. A testimoniare la bontà di queste pietanze c’è l’interminabile fila fuori dai
due locali, con gli appassionati di street food che cercano di portarsi via un piatto da mangiare per strada o a casa. Nel comunicato stampa ufficiale dell’Ufficio Stampa Singapore Tourism Board si legge il commento di Micheal Ellis, direttore internazionale delle Guide Michelin, circa il nuovo riconoscimento ai due chioschi nella città sud-asiatica: “Singapore è un vero e proprio crocevia commerciale con differenti influenze culinarie provenienti da tutto il mondo che deliziano il palato di turisti ma anche di cittadini locali. La città ha una elevata reputazione, riconosciuta
Sopra: Chan Hon Meng, lo chef proprietario dell’Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice and Noodle, a lavoro. Sotto: piatti serviti al chiosco Hill Street Tai Hwa Pork Noodle di Singapore.
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in tutto il mondo, per lo street food e uno scenario gastronomico di altissimo livello animato da giovani e talentuosi chef emersi negli ultimi anni: ecco dove i nostri ispettori hanno scoperto degli autentici gioielli”. Singapore quindi come scelta ideale per introdurre anche lo street food nella guida Michelin, una metropoli che ultimamente si è distinta per una proposta ristorativa tra le più in crescita, per varietà di piatti e sapori, influenze, contaminazioni e soprattutto rapporto qualità/prezzo. Speriamo che questo sia solo l’inizio!
In alto a sinistra: Chan Hon Meng riceve il premio Michelin. In basso a sinistra e sopra a destra: piatti tipici serviti all’Hill Street Tai Hwa Pork Noodle e all’Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice and Noodle
BILL CASWELL
Come un’auto usata che valeva 500 dollari ha battuto auto da rally da 400000 dollari
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l mondo del motorsport professionale è molto difficile. Se vuoi competere con i più forti, non puoi semplicemente costruire una macchina nel garage di tua madre e presentarti ad un evento motociclistico, giusto? Sbagliato! Un tizio ha fatto esattamente questo. Ed ecco la sua eclettica storia. Bill Caswell è un uomo che ha comprato un rottame da Craigslist per competere contro auto da più di 400000 dollari in uno stage della World Rally Championship. Questa è la storia di un uomo armato solo di una saldatrice, con un po’ di carte di credito, tanto tempo libero e nessun vero finanziatore. È la storia di un uomo che ha imparato da solo come costruire una roll-bar approvata dalla FIA, perché voleva risparmiare i soldi in
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modifiche e gomme da corsa. È la storia di un appassionato di motori che ha pilotato un ammasso di ferraglia arrivando terzo in una gara autorizzata dalla FIA. Ma soprattutto, è la storia di un folle! Bill Caswell era un disoccupato di Chicago appassionato di corse, ha fatto il suo ingresso nella World Rally Championship a bordo di una BMW 318i del 1991 comprata su Craigslist, pagata $500 in totale. Un anno prima Caswell aveva preso la decisione di iniziare con il rally con Rally America. Due mesi dopo aveva già fatto schiantare l’auto e saltare il motore in soli cinque minuti dall’inizio del suo primo evento. Quattro eventi dopo ha trovato una falla nel regolamento della FIA che gli permetteva di iscrivere una macchina di vent’anni negli stessi eventi ai quali partecipavano personaggi come Ken Block e l’ex pilota di F1 Kimi Raikkonen. Come Caswell abbia fatto il suo ingresso nella WRC è pura follia: si era iscritto nel più grande evento del motorsport della sua vita senza un equipaggio, con il motore appena sostituito da una E30 M3, mai testato, e la trasmissione nuova
appena montata, trovata in una discarica; l’auto era ancora coperta dalla polvere della stagione precedente di rally “La laverei, ma mi converrebbe prima aggiustare un altro paio di cose” e un furgone preso a noleggio. Il suo co-pilota? Un genio della Rally America chiamato Ben Slocum, che aveva passato al massimo cinque minuti in macchina con lui prima dell’evento. E tutto questo non per stupidità, ma per mancanza di risorse. Voleva gareggiare, e questo era l’unico modo per farlo. Contro ogni aspettativa, arrivarono terzi nella loro categoria.
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Progetto grafico e impaginazione: 404NAMENOTFOUND Š 2016 agli autori per i testi e le immagini Carlo Cocchetti Mariapaola Gentile Lorenzo Di Leonardo Serena Gramaglia Federico Guglielmetti Marta Mengardo Francesco Meroni Politecnico di Milano A.A. 2016/17 Laboratorio di Metaprogetto - Scuola del Design Corso di Laurea in Design della Comunicazione Docenti: P. Ciuccarelli, F. Piccolini