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Revenge porn

Revenge porn la violenza online e i gruppi Telegram

Siamo agli inizi di aprile quando la rivista Wired punta i riflettori su alcuni gruppi privati Telegram in cui veniva scambiato materiale pornografico non-consensuale, nei quali si contavano 43.000 iscritti in soli due mesi. Già un anno prima Wired e il programma Mediaset Le Iene si erano infiltrati in queste comunità, scoprendo un canale che contava 2000 membri, aperto nel 2016, con lo stesso scopo. Il gruppo principale adesso è stato chiuso, ma erano già stati creati gruppi di riserva che subito si sono ripopolati, persino con più membri di prima. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno che è quasi impossibile arginare. Fermarci e sbraitare contro l’intero universo maschile non è la soluzione giusta (sarebbe solo sessismo), come non lo è ignorare il fenomeno pensando che non ci riguarda o che in fondo è normale. Cosa si trova in questi gruppi Telegram? Gli utenti, la maggior parte uomini, di cui molti minorenni, persino di undici anni, si scambiano foto di donne, ragazze e bambine ottenute senza il loro consenso, spesso inviando anche i loro dati personali, (nome, cognome, numero di telefono, indirizzo) con conseguenze devastanti per le vittime, che devono affrontare stalking e shitstorming, venendo “bombardate” da messaggi di sconosciuti ed umiliate. Queste foto sono prese dai loro profili sui social, e a volte si tratta anche di semplici foto del viso,

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o sono foto che erano state inviate al proprio ragazzo (e che si presupponeva rimanessero private). Molte sono condivise da ex fidanzati che vogliono vendicarsi (il cosiddetto revenge porn), ma ci sono anche filmati registrati di nascosto o presi direttamente dal cellulare, di cui una buona parte è materiale pedopornografico. Questo genere di materiali si trova in enormi quantità nel deep web (la parte “sotterranea” di Internet, a cui non si accede dai semplici motori di ricerca). Telegram invece è un social network molto diffuso a cui chiunque può accedere in maniera legale: ciò che stupisce è che venga utilizzato per condividere questo genere di contenuti, oltre all’esorbitante numero di membri, la maggior parte dei quali sono persone all’apparenza “normali”, mentre stupratori o pedofili effettivi sono pochi. Possiamo dire che questa è violenza di genere, poiché le persone colpite sono quasi sempre, statisticamente, donne. Ovviamente, non tutti gli uomini si comportano così, ma sono quasi solo uomini le persone che compiono questi reati. La violenza online contro le donne è molto diffusa, secondo una ricerca di Amnesty International il 17,2% delle intervistate ha subito almeno una volta violenza online e il 33% lo subisce ogni giorno. Le conseguenze sono gravi, come vediamo nei grafici, e vanno dalla perdita di autostima a stress, ansia, attacchi di panico. Tornando ai gruppi Telegram, analizzando il tipo di messaggi inviati si nota come siano normalizzate le fantasie di stupro, di dominio sulla donna, sulla sua sessualità che non può essere libera. Le donne vengono accusate di essere “troie” per delle foto provocanti o del corpo nudo, colpevolizzate per averle mandate o per l’atto sessuale in sé a prescindere dalle foto. L’eccitazione collettiva per lo stupro, il non-consenso derivante dal modo in cui vengono inviati

i materiali nel gruppo, la creazione di totem (ossia foto inviate da un altro membro del gruppo in cui si mostrano prove di un’avvenuta masturbazione su una di quelle foto non-consensuali) fino allo scambio dei dati della vittima, che rendono il tutto ancora più spaventosamente reale. Non bisogna criticare il fatto che si scambi materiale pornografico, che facilmente si può trovare online creato da pornoattori e pornoattrici, ma il fatto che le immagini siano state inviate senza il consenso delle vittime. Non dobbiamo stupirci in realtà per questo tipo di fantasie dato che nella nostra società siamo immersi nella cultura dello stupro, ossia “una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne”. (Joyce Williams, "Rape Culture" ) Le fantasie di dominio dell’uomo sulla donna sono normalizzate (ovviamente si parla di rapporti non-consensuali), con l’idea che l’uomo possa disporre a proprio piacimento della donna, senza che questa possa opporre resistenza. Le donne sono svuotate di ogni tipo di umanità: oggetti senza volere o personalità, la cui sessualità non è libera ma punita. Vi è appunto una punizione del desiderio femminile: è negativo mostrarlo, manifestarlo in alcun modo, perché se la donna invia foto “(che troia) se l’è cercata”, se sono foto pubblicate su internet “avrebbero potuto non postarle”, come se ogni foto fosse a disposizione e uso maschile. Il problema alla base è appunto quello della definizione dei ruoli di genere nella società. Piuttosto che educare le donne a difendersi bisognerebbe

porre l’accento sulla responsabilità maschile, insegnare che l’uomo può essere “uomo” senza essere aggressivo, tossico e dominatore, e in generale si dovrebbe accettare che la donna viva la sua sessualità liberamente e uscire dagli stereotipi di genere. Bisogna coinvolgere gli uomini in questa discussione, che troppo spesso sono allontanati da un finto femminismo che vuole privilegiare le donne e che si trasforma nel corrispettivo del maschilismo (quando in realtà il femminismo auspica ad una parità tra i sessi, non ad un ribaltamento della situazione attuale) Le strade a mio parere sono due e parallele: una più ideologica, ossia una rivoluzione culturale nelle nostre vite di tutti i giorni, a partire dal nostro stesso modo di pensare; l’altra più concreta, ossia cercare il più possibile di smantellare questi gruppi, anche sapendo che si riformeranno, rintracciare le persone all’interno e denunciarle, processarle e punirle per il reato di Revenge Porn (grazie alla legge del 02/04/2019), aumentare le pene, chiedere ai grandi social di contribuire, lavorare nelle scuole ad un’educazione alla sessualità e all’utilizzo dei social. IRENE ZEBI

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