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Alle Porte dell’Europa
La guerra del Donbass
Certe volte noi europei siamo convinti di vivere in un continente sicuro, lontano da qualsiasi guerra. Lo stesso concetto di guerra è da noi visto come relegato al passato o perlomeno appartenente a luoghi più o meno remoti, come il Medio Oriente, l’Africa Centrale o magari il Sud America. Insomma, chi combatte più in Europa nel Ventunesimo Secolo? Ve lo diciamo noi. I n casa di Oleg si percepisce un certo tepore. Forse la minestra o l’atmosfera raccolta dell’abitazione. “Per me questa è la mia vita. Ho visto la disperazione di queste persone.” Oleg è un ucraino come tanti. A causa delle Guerra del Donbass, una terra nel sud-est del paese, ha deciso di lasciare il suo lavoro per salvare le vite dei più anziani. Loro, vittime del fuoco incrociato, hanno perso tutto: i loro amici e parenti sono morti, le loro case sono rimaste distrutte dalla follia umana. “Non li abbandonerei mai a loro stessi, non importa in che condizioni siano. Io non li lascerò mai soli” dice alla reporter dell’UNCHR, Helena Christensen. Ma facciamo un passo indietro. Tutto ha inizio nel 1991 con lo scioglimento dell’Unione Sovietica. La vittoria del liberalismo sul comunismo giunse con la caduta del Muro di Berlino e lentamente la tensione fra Occidente e Oriente si attenuò. I popoli degli stati-fantoccio ottennero uno ad uno l’indipendenza dalla Madre Russia e si schierarono con la NATO. Non tutti però. Tre paesi fecero eccezione: Moldavia, Bielorussia e Ucraina. Quest’ultimo paese, in particolare, ha una storia molto singolare. Nata in pieno medioevo come territorio dei Rus’ e con Kiev, capitale del cristianesimo ortodosso, l’Ucraina in passato fu già dominata da numerose nazioni e la
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sottomissione russa fu sicuramente la più atroce: conosciamo tutti i metodi non propriamente democratici dei russi, no? Ecco, fra carestie, povertà e centrali nucleari che esplodono, gli ucraini furono fra coloro che più subirono la non propriamente eccellente gestione economica dell’URSS. Tuttavia, anche quando ottenne l’indipendenza, questo paese presentava già alcune criticità non di poco conto. Infatti, negli oblasti (regioni) più orientali dell’Ucraina, il Donbass, e nella Repubblica Autonoma di Crimea (regione a statuto speciale ucraina) la maggioranza degli abitanti è russa e costituisce un’importante fetta della popolazione totale. E, considerato che gli ucraini provano un sensibile risentimento nei confronti del popolo che per anni li ha soggiogati, non può che insistere una certa tensione fra le due parti. Ora, nel 2010 alle elezioni del parlamento si presentarono due blocchi principali: da una parte il moderato e filoeuropeo Blocco di Julija Tymošenko, donna dal passato politico-economico discutibile e dirigente di numerose compagnie energetiche privatizzate dopo la caduta dell’URSS, nonché nota attivista della Rivoluzione Arancione del 2004; dall’altra il conservatore Partito delle Regioni, guidato dal filorusso Viktor Yanukovych, il quale, con il 52% dei voti a suo favore, sconfisse l’avversaria per soli 3 punti di differenza. Da qui in poi cominciano i veri problemi: il paese è diviso a metà, con ad ovest e a Kiev i sostenitori del Blocco (principalmente ucraini) e ad est quelli di Yanukovich. Nel 2012, nonostante la vicinanza a Mosca, il Presidente ucraino stava avviando alcuni trattati commerciali con l’Unione Europea. Quest’ultima però si mostrò riluttante ad accettare gli accordi a causa di alcune questioni che ledevano lo stato di diritto
e la democrazia in Ucraina: Yanukovych promise che avrebbe accettato ogni condizione e si raccomandò col parlamento affinché provvedesse a fornire le basi necessarie alla firma del trattato. Ma nel 2013 la Russia impose nuove regole doganali all’Ucraina per impedire che siglasse gli accordi. Dopo tutto, l’Ucraina è un paese ricchissimo di risorse naturali, di conseguenza l’intenzione dei russi non poteva che essere quella di evitare che l’occidente ottenesse un nuovo alleato, commerciale per l’UE e militare per la NATO, strategicamente posizionato al confine con la Federazione. Nei mesi seguenti il PIL ucraino calò drasticamente, problema che si sommò alla terribile crisi economica e ai peccati di cui si era precedentemente macchiato Yanukovich quali: svendita della manodopera ucraina alla Cina, interessata alle ricchezze di Kiev, con conseguente incremento della disoccupazione; delocalizzazione delle imprese ucraine in Russia, con ancora un conseguente incremento della disoccupazione; e, ciliegina sulla torta, abuso d’ufficio e favori ad amici e familiari. La bomba è innescata. La notte del 21 novembre 2013 in Piazza Indipendenza a Kiev scoppia un’enorme protesta filoeuropea che l’emittente radiofonica ucraina Radio Free Europe battezzò Euromaidan (Europiazza). I manifestanti, al freddo e al gelo, chiedevano di riprendere le trattative con l’UE e le dimissioni di Yanukovich. Contro le europiazze la polizia rispose col fuoco: cominciarono scontri sanguinosi fra il braccio armato, nazista e nazionalista del movimento e le forze dell’ordine, con entrambi i lati che sparavano ad altezza uomo e cecchini tuttora ignoti. Nonostante la dura repressione, le piazze si moltiplicarono in tutta Ucraina vedendo la partecipazione di migliaia di manifestanti ogni volta. La
rivolta ebbe fine il 21 febbraio 2014 con la fuga in Russia di Yanukovych. A maggio, quindi, sarebbero state indette nuove elezioni alle quali avrebbe vinto l’europeista Petro Poroshenko, che avrebbe riavviato le trattative con l’Unione. Si contano quasi 100 morti, fra civili, nazionalisti e poliziotti. Dunque, quello che avete appena letto, però, è sostanzialmente solo il prologo di una tragedia molto complessa. Infatti, non appena Oleksandr Turcinov, braccio destro della Tymošenko, divenne presidente ad interim in attesa delle elezioni di maggio, il mondo filorusso reagì con sdegno: la Russia accusò l’Occidente tutto di aver ordito un colpo di stato deponendo il legittimo presidente per avvicinare l’Ucraina alla NATO, mentre il governo di Crimea contestò il rimpiazzo politico, definendolo incostituzionale. Mossa da queste ragioni la Federazione Russa occupò la penisola di Crimea inviando l’esercito da una base navale che Mosca da tempo possedeva a Sebastopoli, generando una forte tensione. Questione di un mesetto: l’11 marzo la Repubblica Autonoma di Crimea dichiara unilateralmente l’indipendenza e il 16 marzo il 97% della popolazione esprime voto favorevole al referendum sull’annessione della penisola alla Federazione Russa. È inutile dire che solo un paese riconobbe la validità del referendum, difendendolo con il principio di autodeterminazione dei popoli, mentre l’Ucraina e il resto del mondo lo chiamarono referendum-farsa perché non si era dato un tempo costituzionalmente ragionevole per garantire a entrambe le parti di portare avanti le proprie campagne referendarie. Ma a poco servirono le lamentele, ormai il dado era tratto: negli oblasti di Doneck e Lugansk (il Donbass) i filorussi seguirono l’esempio crimeano e con un referendum dichiararono l’indipendenza e la nascita della Repubblica Federale della Novorussia. A sostengo delle forze indipendentiste ovviamente c’era la Russia che, come di consueto, negò qualunque coinvolgimento nella faccenda. Peccato che poco dopo la NATO riportò l’arrivo di nuove truppe russe vicino Donetsck (capitale novorussa) e al confine. La guerra ebbe inizio. Intere città cadono sotto il controllo dei separatisti che erigono vecchie statue di Lenin, Stalin e altri eroi sovietici, decorano i muri coi colori della bandiera russa e disegnano falci e martelli in ogni dove. Le truppe separatiste, ricevendo viveri, armi e rinforzi da Mosca, risultano un avversario alquanto ostico per le truppe ucraine e per questo Kiev assolda gruppi volontari armati, popolati principalmente dai famosi ultranazionalisti che già avevano dato il meglio di loro negli Euromaidan. Spari, esplosioni, trincee, carri armati, mine antiuomo. A combattere al fronte, oltre ai russi, c’è anche un numero non indifferente di foreign fighters provenienti da tutta Europa, Italia compresa: uomini anche giovanissimi decidono di trovare la loro ragione di vita nella lotta per l’indipendenza del Donbass poiché vedono nella Federazione Russa il loro futuro, i loro orizzonti e un ottimo alleato alternativo all’UE e alla NATO per il proprio paese di origine. A poco sono serviti gli accordi ratificati a Minsk nel 2016, che prevedevano un immediato cessate il fuoco e una restituzione dei prigionieri di guerra. A poco sono servite le promesse di maggiore autonomia per i due oblasti dal governo centrale. Le milizie ultranazionaliste volontarie, nonostante gli ordini di Kiev, non hanno smesso di lottare assieme all’esercito regolare. Mosca, dal canto suo, ha continuato a supportare gli indipendentisti militarmente ed economicamente. La guerra ha proseguito come se nulla fosse. Gelo. Oleg ha rischiato la sua stessa vita attraversando il fronte e portando in spalla a casa sua i più deboli. “Molti mi dicono: ‘dai, lascia perdere, perché mai devi fare tutto questo?’. Ed io spesso rispondo loro: ‘come potrei dormire in pace se non lo facessi’?”. E contro il freddo dell’entroterra europeo e della guerra si oppone il tepore della solidarietà. RICCARDO MAGNANELLI