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L’intervista a Luigi Serafini
Intervista a Luigi Serafini
Pittore, scultore, architetto, sognatore e viaggiatore onirico nel subconscio: Luigi Serafini (Roma, 1949) lavora da sempre nell’immaginario surrealista e i suoi disegni di creature e paesaggi fuori da questo mondo, sempre dal grande realismo artistico , hanno fatto strabuzzare gli occhi di critici, appassionati o di persone imbattute casualmente nel suo lavoro. Il Codex Seraphinianus, la sua opera più conosciuta, è un libro scritto e illustrato, tra il 1976 e il 1978, come una vecchia enciclopedia di fine ottocento: con tutte le didascalie e i disegni illustrativi (più di mille immagini!) ma il tutto scritto in una grafia indecifrabile, seppur bellissima nelle curve e nei ghirigori. Il Codex Seraphinianus è oramai diventata l’enciclopedia surreale per eccellenza, ed è stata molto apprezzata da personaggi come Italo Calvino, Federico Zeri, Giorgio Manganelli, Achille Bonito Oliva, Tim Burton, Douglas Hofstader e Philippe Decoufle’. Il libro sembra essere diviso in capitoli, ognuno trattante una diversa materia, quali la zoologia, la botanica, la mineralogia, l’etnografia, la fisica, la tecnologia e l’architettura. In molti cercano una qualche sorta di traduzione al codice dell’opera, nonostante l’autore abbia più volte ribadito che si tratta puramente una grafia asemica (senza nessun contenuto semantico), mentre altri sostengono che Serafini si sia rifatto al Codice Voynich, antico scritto medievale dalla scrittura ancora non decifrata.
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Come ti presenti?
Non c’ho mai una risposta, perché ogni tanto mi viene chiesto, dipende un po’ dall’umore del momento alla fine. Direi che sono un appassionato disegnatore fin dalla più tenera età, come tanti bambini, solo che non ho smesso, diciamo così, e ancora oggi disegno. E quindi il disegno è sicuramente il mio tratto caratteristico se mi devo presentare. E mi presenterei anche come disegnatore, se non avesse un senso un po’ deformato e riduttivo, io credo che il disegno per me sia stato fondamentale perché è la base di tutto: con il disegno si progetta e dopo si fa qualsiasi cosa; io sono sempre partito dal disegno, nel caso del Codex è evidente, però anche successivamente, anche quando ho fatto sculture e eccetera, sono sempre partito dal disegno. Non appartengo a quegli artisti che vanno a presa diretta, ho sempre bisogno di una serie di progetti per iniziare, e il progetto si fa disegnando. Per me il disegno è come la scrittura, alla fine uno scrive per raccontare ed anch’io disegno per raccontare, descrivere quello che magari poi farò. Per esempio, anche nel Codex ci sono tanti disegni che potrebbero diventare architetture, sculture, oggetti e quant’altro.
Dato che lo hai già nominato tu, com’è che invece presenteresti il Codex a qualcuno che non lo conosce affatto?
Lo presenterei come un’ enciclopedia di un mondo alieno, non so quanto distante o se con delle intersezioni con il nostro. Un ottimo strumento, anche didattico, per esercitare la fantasia. Se ci fosse una materia come Fantasia, il Codex ne potrebbe essere il libro di testo.
È da poco uscita una ristampa del manoscritto
Voynich, viste le varie somiglianze con il Codex, sono in molti ad aver teorizzato una tua possibile ispirazione da quel libro.
La cosa è singolare perché il Codex è stato fatto nel 1981, mentre il Voynich fu trovato a Villa Mondragone a Frascati, che era all’epoca una residenza dei gesuiti, da questo bibliofilo mercante d’arte, che si chiamava appunto Voynich, il quale lo comprò dai Gesuiti. Dopo varie compravendite, ad un certo punto è stato donato alla biblioteca di Yale in America. Voynich era polacco, e per rimanere in ambito slavo, sembra che il manoscritto sia stato venduto a Rodolfo II imperatore del Sacro Romano Impero, appassionato di alchimia e occultismo. Tutto questo per dire che non c’è alcuna relazione con il Codex, tranne che una vicinanza curiosa: tra Villa Mondragone, che sta leggermente fuori Frascati andando verso il monte Porzio Catone, e il fatto che io da piccolo facevo sempre la scampagnata in famiglia fuori porta, e si andava a Frascati, pochi chilometri da Villa Mondragone. Ho sempre ritenuto che il codice sia stata una fregatura, prodotta da qualcuno con l’intenzione di venderla a un personaggio importante, come l’Imperatore appassionato di scienze occulte, un cliente facilmente raggirabile.
In molti ipotizzano che lei abbia fatto uso di stupefacenti durante la realizzazione del Codex.
Molto spesso quando visito qualche blog, oppure Instagram, leggo che dicono “Ma che prendeva Serafini quando faceva il Codex?” Come se ci fosse un rapporto fra allucinogeni e Codex. Tra l’altro avevo fatto anni prima un’esperienza con la mescalina (allucinogeno) per vedere se c’era corrispondenza tra il viaggio psichedelico e i miei disegni, e fui molto deluso perché non trovai alcuna somiglianza, al contrario: il lavoro fatto durante il viaggio (come si chiamava all’epoca) era molto scadente. Evidentemente non c’erano delle forme di sintesi, di controllo, di analisi, di critica, tutta una serie di facoltà che erano temporaneamente sospese. Mi sono arreso di fronte al fatto che si tratta di semplice fantasia: se uno cerca una stimolazione chimica (ma anche alcolica) non funziona, perché la fantasia ha bisogno di una struttura per potersi muovere, altrimenti diventa nulla. È un cavallo pazzo, se uno non lo fa andare in una certa direzione, se non lo ingabbia, non porta a niente. Al massimo ho sempre ammesso di essermi fatto qualche bicchiere di Vaporicella (vino rosso del lago di Como), perché a Via Sant’Andrea delle Fratte ( dove ho realizzato il Codex), all’ epoca, c’era una trattoria dove si pagava poco. Quello è l’unico ricordo di un “aiuto”, a parte la presenza di una gatta, che mentre disegnavo si accoccolava sulla mia spalla, lei sicuramente mi ha aiutato.
Noi siamo a conoscenza di tutti i tuoi lavori dopo il Codex, ma prima c’era stato qualche progetto che non ha mai visto la Luce?

Io ho sempre disegnato, però negli anni ’70 ero andato in America, perché studiavo architettura e volevo conoscere l’ambiente newyorkese, e quindi ero molto focalizzato su una carriera d’architetto. Non immaginavo quello che avrei fatto dopo. Non si poté realizzare il mio sogno di entrare in uno studio di architetti a causa di una delle ricorrenti crisi economiche americane, gli architetti non assumevano studenti d’estate, come d’abitudine. Quindi cominciai a girare gli Stati Uniti in quattro mesi, e quando sono tornato, nel ’71, ho incominciato il Codex.

Girando per i social si trovano spesso artisti di stampo surrealista che inseriscono dei piccoli camei alle tue opere o talvolta piccoli plagi, come ti relazioni con il fatto di essere un punto di riferimento per diversi disegnatori ?
Mi fa sentire bene, come anche questa moda o interesse per i tatuaggi con i disegni del Codex. Il pensiero che una persona che si porti un’immagine del Codex per un arco di tempo, mi affascina; magari il libro sarà scomparso e ci saranno ancora persone che gireranno con un mio disegno.
Il tuo ultimo libro è stato Pulcinellopedia. Perché Pulcinella proprio tu, che non sei napoletano?
Ma in realtà qualche contatto con Napoli ce l’ho, perché mia nonna paterna era di Pedaso, un paese del sud delle Marche, a 30 chilometri dallo storico confine con il Regno di Napoli, e il suo cognome era Di Giacomo, che in questo paese era conosciuto. Nella mia infanzia si parlava spesso di Salvatore Di Giacomo (poeta); non sapevo all’epoca chi fosse, poi una volta ne ho visto la foto e ho visto che era identico a mio zio. Tra l’altro i genitori di Salvatore di Giacomo erano abruzzesi, poi si erano trasferiti a Napoli. Fatta questa premessa fantasiosa, Pulcinella in realtà nasce all’inizio degli anni ottanta per una ragione. Altra premessa: Pulcinella in realtà è stato punto d’interesse per altri artisti romani ottocenteschi e c’erano anche commedie, non solo in napoletano, con Pulcinella protagonista. Questa premessa per dire che Pulcinella era molto presente anche nel Lazio, soprattutto nel centro-sud. La nascita del libro è legata al Carnevale di Venezia, organizzato da Scaparro nel’79, per far rivivere l’antica festività, dove furono chiamati i migliori teatranti e Pulcinella da Napoli. E io fui chiamato a fare una maschera di pulcinella da portare sul Canal Grande in gondola, quindi andai a Venezia e lavorai a questa grande scultura, per la quale, sempre tornando al discorso di prima, feci molti disegni preparatori. Ne tengo una copia in miniatura nell’ingresso: è una grande maschera di Pulcinella, con un attore dentro che fa uscire le braccia dagli occhi della maschera e poi sbuca tra il cappello e la maschera, e poi sul cappello floscio tante teste di Pulcinella a scalare. E quindi disegnando questo Pulcinella, vennero fuori talmente tanti disegni che mi dissi: “Perché non fare un libro dedicato a Pulcinella?”
Franco Battiato fece una serie di concerti improponibili e inascoltabili, al fine di distruggere il suo personaggio che si era creato dopo il suo grandissimo successo, per poter ricominciare da zero e far nascere il Battiato che noi conosciamo di più. Anche tu hai mai sentito l’esigenza di dover “distruggere” il tuo lavoro precedente per creare un nuovo inizio?
No, non ne ho mai sentito il bisogno e mi sembra un po’ una stronzata, scusate. Se penso che Manzoni ha riscritto i Promessi Sposi cinquanta volte, mi viene più da credere che questa sia una cosa legata a questioni di mercato, di narcisismo; sinceramente non lo capisco. Ma non è il primo. Questa cosa di dover dire “io ho finito quella fase, adesso ne comincio un’altra”, allora che vuol dire, che devi ricomprarti i dischi incisi da quel momento in poi, oppure se compri una vecchia incisione non vale più? Non mi sembra che grandi compositori se ne siano mai preoccupati, semmai sono i critici che definiscono le fasi di un’artista, ma uno che dice di cambiare fase… mi sembra una cosa talmente ridicola e non so che dire. Il percorso di un artista è chiaro che si evolve, magari cambia anche la sua vita, cambia città, tutte cose che incidono sulla sua creatività. Poi le ultime due edizione del Codex sono stato arricchite, come se fossero “aggiornate”: io continuo ad aggiungerci qualcosa. Non sono mai entrato in competizione con me stesso, mai ho pensato che il Codex non facesse vedere altro che ho fatto.
Come Sean Connery e James Bond?
Hai detto proprio una cosa giusta, la stavo per dire prima. Lui odiava proprio James Bond, e ad un certo punto finì in clinica, talmente era confuso e disorientato su se stesso. Questa confusione che c’è tra realtà e finzione mi fa pensare a questa sto-
ria di santi: la vicendia di San Ginesio, un pagano grande attore dell’epoca di Diocleziano. Fu chiamato dallo stesso imperatore, incuriosito dai cristiani che lui stesso perseguitava e dalla loro storia che poco conosceva, a mettere in scena la vita dei cristiani (una specie di Discovery Channel). Così San Ginesio preparò questo spettacolo istruttivo. Avviene questa rappresentazione, ma gli attori, che avevano studiato la vita dei cristiani, interpretarono i personaggi talmente bene, che arriva lo Spirito Santo direttamente sul palcoscenico e li converte tutti. Per cui, a causa della loro bravura, c’è questo passaggio dalla finzione alla realtà. E alla fine dello spettacolo Diocleziano è costretto a farli fuori tutti. Infatti San Ginesio è il protettore degli attori.
Una volta mi raccontasti che la tua passione per il disegno era iniziata dalle fotografie degli animali.
Ero appassionato di animali, e di natura in generale. Naturalmente ho incominciato copiando, copiando queste immagini che trovavo sulle prime riviste a puntate. La mia si chiamava “Natura Viva”. Passavo molto tempo a copiare queste immagini, ma davvero molto tempo, con grande preoccupazione dei miei genitori. Forse quella rivista è stato il primo serbatoio di immagini da copiare.
Tu sei sia scultore che pittore, cos’è che ti da’ un impulso per fare un’opera a due o a tre dimensioni?
Questo proprio non lo so, dipende veramente dall’umore, da tantissime cose.
Dopo aver finito un’opera mastodontica come il Codex, non ti sei sentito completato, finito?
Sicuramente ero contento di aver finito il lavoro, ma l’avevo interrotto perché l’editore era spaventato dai costi, io sennò avrei continuato. Così lui mise le mani avanti e mi disse: “fermati”, anche perché all’epoca fare una stampa a colori era un impegno abbastanza gravoso.
Hai qualche futuro progetto in cantiere, di cui ci vuoi rendere partecipi?
Questo non te lo so dire, perché non lo so neanche io!
le. Qual è il tuo consiglio per un ragazzo che si affaccia nel mondo dell’arte?
Bisogna commettere una specie di esame, di autoanalisi. Fare lo storico, anche lì ci vuole passione, certo, ma nel fare l’artista… se non ci sono già state evidenti tracce di manualità, uno non arriva certo al terzo liceo e decide se fare farmacista, artista o geografo; è una cosa molto evidente. In musica è ancora più facile, si vede subito se hai un talento, è come se ognuno avesse una propria predisposizione.
E se uno pensa di non aver ancora trovato nulla che faccia per lui?
Mi sembra un po’ strano che uno arrivi a fine adolescenza senza segnali molto precisi in campo artistico, se parliamo di ambiti di storia dell’arte, penso che dovrebbe già manifestarli. Mentre in altri campi, anche in campi umanistici, c’è un ampio spettro. In ambito artistico uno dovrebbe aver dato dei segnali abbastanza forti, e semmai è l’intensità dei segnali la cosa importante: se uno vede che la libreria è piena di un particolare tipo di libri e non di altri, che di fronte a un’immagine contemporanea o antica uno ha una particolare attrazione… ecco, ci sono una serie di segnali che uno dovrebbe capire se esistono o meno. Oggi non credo ci siano più molte delle barriere di una volta. Nel mio caso, mio padre voleva facessi l’ingegnere; lui amava l’arte ma temeva la pratica dell’artista, il lato irrazionale, con le emozioni, terreni non facilmente identificabili; la pratica artistica è anche molto pesante, va bene se hai riconoscimento, ma è difficile. O hai il così detto successo, oppure non esisti. Però in generale si può dire che la pratica artistica richieda un grande sacrificio. L’arte è una cosa estrema (la pratica), non c’è alternativa. Il successo, spesso, neanche arriva da vivo, non c’è nessun’altra pratica dove questo accade.
GABRIELE ASCIONE
