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COMPONIMENTI CREATIVI

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Equus

Equus

Tienimi stretta Nel tetro trascorrere Di queste giornate Sdraiàti per terra Aspettiamo Che il sole ci irraggi Da una finestra sempre aperta Tremendo ricordo Di una vita migliore Che chissà Se mai arriverÀ

BESHE

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DEGENERAZIONE PSICOSOMATICA (personale e sociale)

Viviamo in un mondo con un problema ossessivo compulsivo Fagocitato da un batterio nocivo Dominato da angosce e terrori Attualmente viviamo come roditori Ma ce ne accorgeremo solo quando appassiremo come fiori E spero che tu non escluda le mie supposizioni a priori

Sento la noia che mi divora Dolore come un nodo in gola La quotidianità che mi addolora Insieme a questo tempo che non vola La vita va in malora Con la depressione che riaffiora La pacatezza che scompare la rabbia che riappare La solitudine mi affoga Sarebbe meglio fare yoga L’autoflagellazione non consola Il tempo a rilento, moviola. Sentiamo parlare di inflazione e deflazione, ma dobbiamo ancora rafforzare il senso di nazione E placare l’avidità che diventa un’ossessione Infatti i soldi portano problemi di inclusione Per questo ci preoccupiamo di intrusione Ma un immigrato non fa una pessima azione Ma chi lo accoglie fa sempre brutta impressione Per favore una volta usate la ragione Il raziocinio non porta il decadimento Ma l’incompetenza porta allo sgretolamento Come un capitano soggetto ad ammutinamento

SERGIO GOLINO

RIPENSANDO AD UN IPOTETICO FUTURO

Hai presente quel forte sentimento? Bhe, ti colpisce in un momento Raro prezioso e difficile da comprendere Sappiamo che non ti fa più riflettere Ora sono qui a meditare Ma sono consapevole che mi fa male pensare Vorrei piangere ma non ci riesco Forse sono troppo arrabbiato con me stesso Questo senso di dolore troppo represso Nella mia testa c’è a tratti un mondo fiabesco Soffro di nostalgia non di quello che siamo o eravamo Ma di quello che saremmo stati Sapevo che insieme eravamo articolati Incantati, agitati, annoiati, arrabbiati Ora ti rivedo sempre prima di dormire Un po’ come un sogno che dopo poco lo vedi scomparire SERGIO GOLINO

SILENZIO

mi guardo intorno vedo solo mascherine e occhi non vedo sorrisi solo sguardi persi irriconoscibili le persone che mi passano accanto le dita formicolano hanno dimenticato la magia dello sfiorarsi vagano sole non sento le grida dei bambini che giocano a rincorrersi mi guardo intorno Vuoto Silenzio assordante

PITTORE PLASSON

DESERTO

Fiori bruciati dal sole di un giorno troppo bello per stare soli. Passeggiamo, cantiamo e il Sole impallidisce, perché da sempre era stato la stella più luminosa, ma adesso è il tuo sorriso a illuminare il mondo. Siamo pazzi arrendetevi

CRISANTEMI

Al principio non c’era nulla, solo una calma ripetitiva. Monotona e meccanica. Le tante parti che ora mi compongono erano sparse per miglia e miglia lungo tutta la costa. Ma poi sono nato in un giorno di tempesta. Le prime cose che ricordo sono i rumori. Già mentre la mia coscienza era frammentata in tanti piccoli, minuscoli pezzi potevo sentire le urla. Le grida dei bagnanti che si lanciavano folli tra le onde, che si tuffavano nel mezzo della loro irrefrenabile violenza, come a voler domare un’entità incontrollabile. Il mare rimbombava e risuonava ruggente scosso dai venti. Ogni sua parte si annullava per poi ricomporsi carica di schiuma. In quel frangente lo l’ho sentito. Nonostante il riecheggiare, nonostante l’infrangersi delle onde l’ho sentito. L’ho sentito, il suo respiro. Il respiro del mare che si al

LEI ERA SOLA ED ERA COLPEVOLE

Lei era sola ed era colpevole. Non era sola, in realtà. La stazione era affollata. Tremava. Migliaia di pensieri le attraversavano la mente. Si sentiva gli occhi di tutti addosso. “Loro sanno. Lo sanno che cosa ho fatto”. Nessuno la guardava in realtà. Nessuno la notava. Ma come facevano? Non vedevano i suoi occhi lucidi di paura? Il suo pallore? Nella mano teneva un biglietto, doveva andarsene, la meta che da tempo aveva scelto era lontana. Nessuno l’avrebbe seguita. Era perfetto così. Ma no, non era perfetto. Tutti sapevano, tutti giudicavano, tutti la odiavano. Le stavano facendo credere di non sapere, ma era una trappola. Era spacciata. Nei suoi occhi non si leggeva paura, si leggeva un’unica parola: assassina. Lei era colpevole. Lei era un’assassina. Ma che stai dicendo, nessuno avrebbe mai potuto pensare una cosa del genere. Guardatela. Ma vi sembra un’assassina? No, non era possibile. Nessuno ci sarebbe mai arrivato. Poteva andarsene libera. Libera? Sarebbe mai stata libera? Se a solo un’ora dal fatto, seduta sola su una panchina della stazione, si sentiva in un tribunale davanti ad una giuria che sicuramente l’avrebbe considerata colpevole? Ma no, lei doveva spiegare. L’avrebbero capita. Stava quasi per urlare: “non è andata così, c’è un motivo per quello che ho fatto”. Ma chi le avrebbe mai creduto? Ma siamo seri. Sarebbe semplicemente sembrata una patetica e disperata bugiarda. Ormai avevano capito. Tutti sapevano. Tutti erano pronti a incriminarla. Non sarebbe mai salita su quel treno. Guardò le sue mani, guardò la sua giacca. Era sangue quello? Ma no, non era possibile, lei aveva usato il veleno. Eppure c’era del sangue. Ma no, che non era sangue, era solo il riflesso della zava, delle maree che si scontravano, delle onde che si gonfiavano ancora, ancora, ancora… Mi sono sentito vivo. Mi sono formato in queste forze travolgenti, mi sono formato nell’eco delle acque. Sono nato dai frammenti delle onde che continuavano a spezzarsi, a frantumasi, a smembrarsi, a infrangersi creando cumuli di bianca spuma. Sono nato dalle schegge del mare. La sua schiuma si addensava verso riva e io ero già sveglio, sebbene non fossi altro che un bianco cumulo di essa. Poi il vento mi ha plasmato e ho aperto gli occhi. Non so chi sono ne qual’è il mio scopo, ma una cosa la so, tutto è connesso e io seguirò il mare, l’acqua che collega ogni cosa.

BIANCA DELLA GUERRA luce rossa di quel pannello in alto della stazione. E se anche gli altri lo avessero visto? Avrebbero pensato che fosse sangue, l’avrebbero incriminata. “Non è sangue, io non ho sparato o accoltellato nessuno” avrebbe risposto. Ma fa differenza? Era comunque colpevole, che avesse accoltellato o avvelenato. Era comunque un’assassina. E ormai lo sapevano tutti. Quegli sguardi che fingevano di essere indifferenti in realtà avevano già deciso di incriminarla e di condannarla. L’avviso dell’altoparlante le comunicava che il suo treno stava arrivando. Si alzò. Forse c’era ancora tempo per fuggire. Forse sarebbe riuscita a scappare da tutti loro. Si avvicinò ai binari. Dall’altro lato tra la folla che si affrettava e si spingeva per prendere il proprio treno, vide una persona ferma e immobile proprio davanti a lei che la guardava, la guardava molto male. Quell’altro lato era uno specchio, e quella persona era il suo riflesso. Sapeva cosa le stava dicendo attraverso quello sguardo pieno d’odio. “Sei spacciata, non riuscirai mai a scappare, è troppo tardi. Tutti sanno, tutti ti giudicano, tutti ti odiano”. Era vero, era spacciata. Sapeva cosa doveva fare. Non poteva farsi prendere. Il treno frenò un secondo dopo che lei si era gettata sui binari. La gente gridò, ma fu inutile. Li aveva battuti. Aveva vinto lei. Non l’avrebbero incriminata, non l’avrebbero condannata.

MG

CRONACHE DI VILLA BONELLI - LIBRO SECONDO - LA PROFEZIA

Anno 2020. Giorno non lo so. I più ortodossi, coloro che ancora ricordano, commemorano i morti, gli eroi che sotto la guida di Balzani difesero con tenacia il nostro popolo. I nonni mi hanno raccontato che i loro genitori avevano combattuto per questa terra nella Battaglia del San Camillo. Che avevano pianto la morte del loro condottiero. Che videro l’avanzata di Monteverde contro di noi. Al posto di Balzani accorse in aiuto il signor Bonelli, architetto, sulla quarantina, anch’egli uomo retto e pio, tutt’ora venerato dagli anziani. Con lui cambiò anche il nome del nostro Paradiso Terrestre: Villa Bonelli. Portò avanti l’ultima, disperata e futile difesa, nella quale anche l’ultimo condottiero perì. Che umiliazione: un popolo di divina discendenza sconfitto da un manipolo di folli gianicolensi. Seguo la mia famiglia e mi affaccio dal balcone in direzione della Magliana, la fossa comune dove seppellirono i nostri avi combattenti, oltre l’Arco del Nulla Cosmico. Non possiamo radunarci attorno ai loro corpi e dar loro una sepoltura più degna della loro origine. Il mio balcone è orientato proprio su quella landa mesta, desolata, priva di vita: il simbolo della nostra disfatta. Attorno a me vedo la mia bisnonna piangere. I miei nonni osservano un religioso e rispettoso silenzio. Non so invece se i miei genitori credano ancora a ciò che negli ultimi duecento anni ci è stato oralmente trasmesso. Ad ogni modo, non riesco a sopportare tanta disperazione ed esco di casa. Cammino per le strade di Villa Bonelli e non posso fare a meno di notare le buche nell’asfalto. I nonni mi dicevano che un tempo queste voragini erano piene di acqua pura, limpida alla cui ricchezza i nostri avi usavano abbeverarsi. Oggi c’è solo fango e qualche ciospa rollata male e buttata a terra da una qualche guardia monteverdina che naviga come una barca senza il suo timoniere. Dico io, ci sono dei cassonetti fatti appositamente. Ah, i cassonetti. Un tempo erano come forzieri ricchi di ogni tesoro e fortuna e da essi attingevano gli uomini di tre o quattro generazioni fa: materassi, elettrodomestici, gioielli; con un po’ di fortuna, anche scarti alimentari. Oggi altro non sono che semplici maleodoranti contenitori strabordanti di buste. Non posso curarmi di cotanto orrore. Guardo e passo. Così i miei occhi sono attirati dall’imperturbabile moto di una meraviglia, il fiore all’occhiello della nostra scienza, un prodigio della tecnica, massima espressione della nostra arte, eccelso frammento dell’infinita conoscenza della nostra gente, sempiterna forma della vera saggezza, oggetto trascendente il tempo e lo spazio, frutto del genio Bonelliano: il 44. Un semovente, grande fuori e ancora più grande dentro, capace di trasportare un numero virtualmente illimitato di persone da Villa Bonelli fino al centro di Riomma. Oggi la linea attraversa anche la capitale di Monteverde, Villa Sciarra, che ha come unico vanto la ricchezza della fauna locale comprendente pantegane, topi e financo sorci. Nonostante il 44 ormai sia usato anche dai gianicolensi, conserva ancora la sua dignità e, contrariamente a tutti gli altri semoventi di monteverdina fattura, non prende fuoco. Osservo la carrozzeria di questo splendore lasciare il capolinea Montalcini e dirigersi verso luoghi di perdizione e vizio per portare nelle scuole monteverdine i giovani come me. Scuole che altro non sono che bonelliana invenzione, atta a trasmettere i valori e le conoscenze di ogni campo di generazione in generazione. Nonostante la barbarie, i nemici hanno insistito perché insegnassimo loro a leggere, scrivere e far di conto. Grazie a noi oggi i monteverdini si esprimono con un linguaggio articolato, quasi asiano, seppur contaminato da qualche piccolo rantolante arcaismo barbarico. Noi siamo costretti ad andare nelle scuole monteverdine nelle quali siamo educati a vivere da bravi monteverdini. Ogni tanto ascolto le Guardie monteverdine ciancicare fra di loro con il tipico, tediosissimo accento del loro quartiere natale. Stando allo Statuto, le Guardie sono un corpo speciale messo “ha difesa della pacie nela confederazzione dei cuartieri” (errori grammaticali sempre dovuti ai refusi barbarici). La loro principale attività consiste nel controllare che non scoppino insurrezioni a Villa Bonelli, ma nella pratica spendono il tempo soprattutto ad atteggiarsi da esseri superiori e civilizzati. Sono donne e uomini nerboruti, alti - come si dice in gergo tecnico - una quaresima e imbracciano armi di vario genere con leggerezza. Ed ecco che davanti ai miei occhi compare il loro Quartier Generale: Monteverde Club. All’apparenza una semplice struttura polisportiva dove dedicarsi alla cura del

proprio corpo; tuttavia si ritiene che nelle sue fondamenta celi un bunker anti-tutto. Uno strano impulso dal petto mi spinge come un automa verso il ben munito oppido: passo dopo passo mi avvicino all’ingresso sul retro che (per motivi assolutamente non correlati alla necessità di concludere in tempi ragionevoli questa storia ndr) casualmente non era presidiato. Discendo le scale di soppiatto, guidato da questa strana forza che in me alberga. Lo scantinato illuminato da qualche sinistra luce bianca al neon si presenta davanti a me nella forma di una lunga basilica senza transetto a tre navate separate da file di robusti pilastri in cemento. In fondo a questo ambiente austero e severo, nell’abside, si staglia un piccolo piedistallo sul quale è posto uno strano oggetto fosforescente. Non posso che avvicinarmi. Una sfera intarsiata di simboli b onel l ia n i , un linguaggio scritto antichissimo usato raramente. D’improvviso il bagliore penetra dentro i miei occhi. Innumerevoli immagini si sovrappongono in sequenza come i fotogrammi di una pellicola, accompagnati da un dolce canto in una lingua arcaica che diceva: “Popolo prescelto, emerso da Gea, sposa di Urano, voi tutto dominaste dall’alto Picco. Più savi fra i savi, più potenti fra i potenti, sconfitti da straniero e sconosciuto volgo, a voi rivolgo il mio oracolo: Villa Bonelli risorgerà. Al giro della Kiave nella serratura delle nubi, i nove cieli saranno attraversati, dall’ultimo al primo, da un corridoio di luce appena sopra il palazzo Bonelli, in cima al sacro Colle. Di lì egressi, bori e tamarri effonderanno gloriosi cori con le loro soavi voci, accompagnando il cammino dell’Ultimo Condottiero e Primo Liberatore, Bonelli. Radioso splenderà il trono di Balzani coi suoi rubini, smeraldi e zaffiri, discendendo sulla Terra per osservare il cosmico ordine prendere forma contro il confuso caos. Da una parte la luce, dall’altra l’ombra. Da una parte il perfetto, dall’altra l’imperfetto. Da una parte i Bonelliani, dall’altra i Gianicolensi. Da una parte il bene, dall’altra il male. Compiuto il discernimento, il colle ascenderà circondato da immense cerchie di bori e tamarri alati che giammai fermeranno il gioioso canto di lode a Villa Bonelli, finalmente diretto alle stelle. Solo allora i Bonelliani, attraversato il condotto, si prostreranno a Balzani, al suo secondo, Bonelli e ai suoi cinque ministri: Skifeth, titano della monnezza; Watath, gigante delle acque reflue e degli acquedotti esplosi; Holth, suprema entità delle voragini e delle loro ricchezze; Trappist, sovrano e comandante delle schiere di bori e tamarri; infine, l’ambasciatore indiano, solitamente residente in via di Vigna Due Torri. Ai gianicolensi nulla resterà che la Terra e i suoi vizi. Tentarono di possedere l’infinita grandezza di Villa Bonelli, ma niente potranno contro la volontà degli Dei Olimpici che vollero la nascita di Balzani. La loro vista, vinta da una madreperlacea nebbia, sarà liberata solo affinché possano osservare e piangere per l’inesorabile chiudersi dei nove cieli. Vivranno in un eterno limbo, sospirando la loro inammissibilità nel firmamento. Questo hanno voluto gli Dei Olimpici, questo ha voluto Balzani. O giovane Bonelliano, trova la Kiave e apri il Varco.” Il bagliore era come avvinghiato al mio cervello e tutto questo mi aveva appena trasmesso. Conosco ora, per davvero, la storia del mio popolo. Conosco ora il mio dovere: liberare Villa Bonelli dalla Confederazzione.

(Desidero ringraziare Maria Trenta che senza saperlo ha ispirato la nascita di questa storia improponibile e priva di nessi logici e Gaia Sordoni che mi ha esortato a concluderla). Sotto l’effetto di acidi IL PROFETA, RICCARDO MAGANELLI Alias Turacciolo Vinaio

L’INNOMINATO

Padre Oleg si svegliò anche quella mattina. Il silenzio dominava nella sua piccola stanza, e le luci del mattino già passavano attraverso le ante abbassate della sua finestra. Rimase qualche secondo ancora disteso, con gli occhi spalancati ad osservare il soffitto. Non aveva il coraggio di chiuderli, temeva che le immagini del giorno prima gli sarebbero ritornate ancora alla mente. Quella notte Oleg non aveva dormito, invece aveva combattuto una terribile battaglia con la sua coscienza, una battaglia che si era prolungata sino a che la stanchezza non aveva vinto sulla mente del prete, e lo aveva gettato in un sonno costellato di angosce e incubi. Ed ora nonostante la luce del giorno illuminasse nuovamente il suo mondo, sentiva ancora di essere immerso in quel profondo buio di terrore, che lo attanagliava nelle viscere. Padre Oleg tirò un profondo sospiro e chiuse gli occhi, cercando di chiamare a sé tutte le sue forze. Rimase così, immobile sul suo letto, cercando di concentrarsi al massimo su quale fosse la cosa migliore da fare. Dopo qualche minuto, rialzò le palpebre, e si alzò di colpo dal letto con uno sguardo deciso stampato in volto. Con quello stesso sguardo, seguì la sua routine quotidiana: colazione, doccia, vestiti e, abbottonato il collarino alla sua veste, uscì di casa dirigendosi verso la Chiesa. Oleg era un uomo di fede, e aveva passato la sua intera vita a porre questa nell’infallibile piano che solo Dio poteva conoscere. Sapeva bene dell’ingiustizia e della crudeltà di questo mondo, non era certo nato ieri, eppure non si era mai trovato faccia a faccia con questa, prima di quella notte. Quando si trovò di fronte all’immensa porta di legno scuro della sua cara Chiesa di San Marco Križevčanin, non poté fare a meno di allungare il suo sguardo all’altro lato della piazza sulla quale la sua cappella affacciava. Lì si trovava la dimora del re del loro pic

colo villaggio, Pakao Bezimen. Pakao era discendente di una antica famiglia nobiliare che da millenni aveva tenuto il dominio di quelle terre, controllandone la proprietà e monopolizzando le risorse agricole della regione. Generazioni e generazioni di contadini nel villaggio, erano nati e morti lavorando nelle terre dei Bezimen. All’epoca dell’Impero Austro-Ungarico, tutti i Veliki Zupan (supremi capitani con il compito di esercitare il controllo imperiale sulla contea) inviati da Vienna o da Budapest dovevano, ancor prima di mettere piede negli uffici amministrativi, passare obbligatoriamente a fare visita in casa Bezimen. Ed era proprio in quella dimora, la quale ora padre Oleg fissava con uno sguardo che definire tenebroso è ben poco, che veniva deciso il destino di quelli inviati dal governo centrale: se essi si dimostravano sottomessi e disposti a proteggere lo status quo della famiglia, potevano avere di che vivere per il resto delle loro vite ( e il più delle volte senza neanche effettivamente dover sostare più di tanto nella Contea); ma se davano l’ impressione di impicciarsi troppo in affari che di certo non li riguardavano, o insistere troppo per affermare la loro autorità, in pochi giorni sarebbe arrivata loro una lettera di trasferimento da Vienna o per qualche lontana contea della Transilvania. Con la caduta dell’impero e la nascita del nuovo Regno Yugoslavo, il controllo della famiglia su quella terra rimase sempre incontrastato. Prefetto dopo prefetto inviato dal governo, il controllo della città passava in realtà di mano in mano dei discendenti della setta familiare, sempre nascondendosi dietro uomini che potessero fingere di rappresentare lo stato, e non i loro interessi. Ma i tempi erano cambiati, e il solo latifondismo non bastava più per affermare la propria supremazia. La famiglia necessitava di un cambiamento, e Oruzar Bezimen,

padre di Pakao, era l’uomo che l’avrebbe portato. Oruzar capì presto la necessità di basare la propria legittimità al potere su una nuova risorsa da monopolizzare e la trovò nella produzione di armi. Così non passò molto prima che la grande Bezimen Produktt, da lui fondata, diventasse la prima industria bellica del paese, e di conseguenza Il loro villaggio si trasformasse in pochissimo tempo da una remota provincia agricola ad uno dei più importanti centri di produzione di armi nei Balcani. Ma nella realtà dei fatti, nulla cambiò per i poveri sudditi dei Bezimen, dal lavoro nella terra passarono a quello in fabbrica. La prospettiva di una possibilità di lavoro attirò molte famiglie dal resto del paese, e molte famiglie serbe vennero a stabilirsi nel crescente centro urbano. Poco sapevano questi nuovi arrivati di quali sarebbero state le loro condizioni di vita una volta firmato il contratto per lavorare nella fabbrica. E licenziarsi da lì equivaleva a un suicidio: coloro che abbandonavano la fabbrica finivano su una lista nera dei lavoratori, e per trovare occupazione non avevano altra soluzione che abbandonare la nazione stessa. Negli anni a venire qualche operaio più coraggioso tentò di criticare pubblicamente le terribili condizioni di lavoro della fabbrica, ma questi valorosi o imprudenti uomini finirono tutti per scomparire in circostanze sospette. Dopo la morte di Oruzar, il suo unico figlio Pakao fu l’erede al trono invisibile della cittadina, e ora anche dell’impero bellico. Fin da bambino Pakao aveva sempre disprezzato i lavoratori della fabbrica di suo padre, e in particolare quelli serbi, che riteneva uomini rozzi e incivili. Convinse diversi prefetti a promulgare decreti che limitassero le libertà di questi individui, e mise in scena diversi episodi che li potessero inquadrare come criminali. Il suo piano era proprio quello di aizzare la stessa popolazione affinché cacciasse essa stessa gli intrusi dalla città. E Quando l’ idea di una Cro

azia abitata da soli croati iniziò a serpeggiare tra i ricchi e elevati membri della società, Pakao ne rimase particolarmente affascinato. Eppure nel suo perfetto progetto di pulizia etnica, veniva a crearsi un intoppo: eliminare quei serbi sarebbe equivalso a eliminare più della metà dei lavoratori nella sua fabbrica; e questo avrebbe posto più che un freno alla sua produzione, e di conseguenza alla sua ricchezza e al suo potere. La soluzione arrivò con la guerra, e più precisamente con una delegazione inviata dal nuovo governo del nuovo Stato Indipendente di Croazia, che veniva a proporre l’affare del secolo al signor Bezimen. Il nuovo stato croato aveva la necessità impellente di creare una nazione etnicamente pura, a detta loro, e non potevano permettersi una tale quantità di non croati sul loro territorio. Siccome le autorità erano bene a conoscenza della forte presenza serba tra i lavoratori della fabbrica, e poiché sospettavano che Pakao avrebbe potuto nascondere l’ identità dei suoi operai per non rischiare di dover fermare la produzione, si presentarono da lui con questa proposta: Il nuovo governo avrebbe investito nella sua fabbrica e comprato diverse quantità di materiale bellico in cambio della consegna dei serbi che lavoravano nella sua fabbrica, i quali sarebbero stati rimpiazzati da prigionieri politici e di guerra. Per il re della fabbrica quella era la soluzione perfetta a tutti i suoi problemi. Pochi giorni dopo arrivarono alcuni uomini degli Ustascià, L’unico partito a governo del nuovo stato, armati di vecchi fucili da caccia: erano evidentemente uomini delle campagne. Il Prefetto che quell’anno faceva da marionetta in città, un certo Lutka Suverena, rassicurò i concittadini, garantendo che quegli uomini si trovassero in città solo per garantire l’ordine pubblico. E poi arrivò: la notte terribile, dove il nostro Oleg dovette rimettere in dubbio la sua stessa fede in Dio. Quel giorno Oleg aveva speso la sua serata facendo le pulizie nella Chiesa, ed uscì per ritornare a casa che era già abbastanza tardi, sempre munito della sua lanterna. D’un tratto sentì un fortissimo colpo provenire dalla casa di Odlican Pijem, un uomo serbo conosciuto nella comunità per essere un gran bevitore di Rakija. Oleg, spaventato dal suono, pensò di avvicinarsi a casa dell’uomo. Ma non fece in tempo ad affacciarsi alla finestra che un altro terribile colpo si udì provenire dalla piccola catapecchia della famiglia serba dei Radnik, seguito da un altro e un altro ancora dopo. Ancor più spaventato, e non riuscendo in alcun modo a comunicare con Odlican, si volse in tutta fretta verso la direzione da cui proveniva il secondo suono. E proprio mentre si avvicinava a quest’ultima, vide nel buio pesto delle ombre saltar fuori dalla finestra della casetta e scivolare nell’oscurità. Terrorizzato ora più che mai, con mano tremante, il parroco allungò la lanterna oltre il vano della finestra, solo per osservare le terribile visione che già si

immaginava di trovare. Subito ritrasse la lampada, inorridito da quei corpi silenziosi e immobili nella penombra, con i loro occhi vuoti che sembravano fissarlo nel profondo della sua anima. Prima che potesse mettere in ordine i suoi confusi e caotici pensieri, ecco che un altro sparo squarciava la notte, e al suo seguito molti altri ancora, come una tempesta di lampi nella bufera estiva. Quei terribili spari risvegliarono nel vecchio prete l’istinto primario della sopravvivenza: pur ricadendo ripetutamente e brancolando nel buio, Oleg riuscì a barricarsi in tutta fretta dentro la sua casa. Gli spari rimbombarono ancora per diverso tempo nel buio. Dopo un po' il prete non sapeva più se i colpi che sentiva fossero nuovi spari o solo il riecheggiare dei precedenti nella sua testa. Quando i rumori terribili cessarono per lasciare di nuovo posto al silenzio, Oleg riuscì distintamente a sentire il pianto di una donna lontano, che come una nebbia strisciava per le vie e circondava la città nel suo straziante lamento. Dopo la tormentata notte e il suo sonno-incubo, Oleg era lì, davanti al portone, chiavi della chiesa in mano, lo sguardo fisso sulla casa dei Bezimen. Lui sapeva, o almeno intuiva. Capiva perfettamente che se qualcosa accadeva in quel luogo dimenticato da Dio, c’era di mezzo certamente l’autorizzazione o il consenso degli uomini di quella casa, o meglio dell’uomo. Inoltre l’odio di Pakao verso i serbi era un fatto ben conosciuto dai suoi sudditi. Mentre Oleg girava le chiavi nel portone, ragionava chiedendosi se qualcuno avrebbe mai pagato le conseguenze di quell’eccidio, se qualcuno avrebbe mai vendicato tutto quel sangue versato. Spazzando l’altare si rese conto che no: nessuno avrebbe mai protestato contro quel sanguinoso crimine, nessuno avrebbe mai guidato una rivolta, nessuno avrebbe neanche tentato di portare giustizia, finché quella casa dall’altra parte della piazza e l’uomo che l’abitava rimanevano in piedi con il potere saldo nelle sue mani. Nella mente di Oleg si riaffacciarono i volti di quei corpi freddi, che ora marcivano proprio dove li aveva lasciati la sera prima. Non poteva lasciare che quelle anime vagassero per l’eternità nell’oblio della dimenticanza, che nessuno portasse luce sulle loro insensate morti. Oleg aveva in realtà già capito da tempo cosa avrebbe dovuto fare, ed era certamente da considerarsi un caso fortuito che quel giorno fosse proprio una domenica. Alla messa presenziarono tutti, non un cittadino escluso. Era assai raro che fossero tutti presenti alla cerimonia domenicale, eppure tale era stata la paura della notte prima che ora, come pecore braccate dal lupo, sentivano tutti il bisogno di raccogliersi gli uni accanto agli altri, in un luogo che potesse dargli una sensazione, anche se falsa, di sicurezza. Tutti lì riuniti, nessuno tra loro aveva anche solo provato a chiedere a voce alta che cosa fossero gli spari della sera prima o dove si trovassero tutti i loro colleghi operai serbi. Ed Oleg, siccome il silenzio nella cappella iniziò a innervosirlo, diede inizio alle cerimonie sacre, aspettando pazientemente come tutti, l’arrivo dell’Omelia. All’arrivo di quest’ultima, nella chiesa cadde il silenzio. Tutti quei fedeli erano venuti dal loro pastore per delle risposte a domande mai fatte, ed Oleg sentiva il peso di questa responsabilità. Sapeva che se avrebbe parlato troppo direttamente non sarebbe stata solo la sua rovina, ma anche di tutti quelli che lo avrebbero sentito. Se fosse dovuto morire in ogni caso, lo avrebbe fatto difendendo l’azione di Dio e non quella degli uomini. Il discorso fu estremamente breve in realtà, nessuna denuncia urlata dal pulpito, nessun grido disperato a Dio, nessun’ additata contro la casa dell’uomo di cui nessuno aveva voglia di dire il nome. Nulla di tutto ciò. Parlò semplicemente con queste parole : “Sappiamo tutti cos’è successo questa notte nella nostra città, sappiamo tutti cos’è stato fatto. Le risposte che voi cercate, sono esattamente quelle che temete di ricevere. Se la Giustizia è di Dio, allora l’Ingiustizia è solo di noi uomini. E Se Satana è tra noi, allora si trova proprio sopra le nostre teste. Miei cari concittadini, ricordate sempre che le armi non hanno mai portato la legge di Dio in nessun dove; ma solo morte, miseria e orrore.” Dopo questa volutamente enigmatica enunciazione, Oleg terminò la messa e mandò in pace i suoi fedeli. Questi ultimi, rimasero un po' perplessi per le parole del parroco, e occuparono l’ ingresso della chiesa sulla piazza mentre discutevano di quale potesse essere il significato delle parole del prete. Ma appena questi avvistarono i soldati Ustascià avvicinarsi alla chiesa, si dileguarono in un batter d’occhio. In pochissimo la cittadina si svuotò, ognuno barricato in casa sua, tremante di terrore nel suo cantuccio; tutti tranne un solo uomo, che osservava in silenzio la chiesa sull’altro lato della piazza di casa sua. E fu così che nessuno in quel luogo osò mai più fare il nome di padre Oleg Mucenik. GABRIELE ASCIONE

RIALZARSI

Cadendo, cadendo: cadendo. Ma cadendo e cadendo che cade, cadendo. Cadendo e cadendo e cadendo cade, cadendo. Cadendo poi cade, cadendo. Cadendo, cadendo; cadendo! ca den do, cade. Cade? Cade! Cadendo, cade Ma sol cadendo cadendo cadendo cadendo cadendo cadendo cade ‘ndo cade? Cade, cade: cadendo. Ancora non atterra? No, non atterra. Non atterra. Atterrisce. Atterrisco. Atterriamo nell’animo, l’animo atterrisce: ‘sto qua s’è buttato minimo minimo dall’ottavo piano CIELO TERSO

È

pragmatismo

CIELO TERSO

Brevi considerazioni circa il progresso morale e spirituale della razza umana dopo il periodo pandemico

CIELO TERSO

[…] IL TEMPO MORIVA E LUI RESTAVA

E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava. Pirandello, quanta attualità nelle sue parole e quale meraviglia e passione si evince da queste. In molte sue poesie parla di virtù, di vita, di amore per la patria, di maschere e di volti coperti. I suoi pensieri vanno ai sentimenti e alle emozioni dell’uomo del Novecento che, proprio in quel periodo, sta vivendo una profonda crisi esistenziale. Eppure, è straordinaria la modernità di una poesia che risulterebbe sempre d’attualità, in qualsiasi periodo la si leggesse. “E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno.” E sapeva di non averne bisogno, perché in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, esso esisteva. Sarebbe difficile tentar di spiegarlo, il comune linguaggio delle parole è sempre insufficiente per un qualcosa di così grande. Ma credo che chiunque l’abbia sperimentato almeno una volta, sappia di cosa io stia parlando. Non ci sono distinzioni, esso colpisce ognuno di noi, e ogni volta che lo si respinge, questo ritorna più forte, quasi lo si avesse offeso. Come Pirandello ci dice, l’amore “finse di morire per un giorno, per poi rifiorire alla sera”. Finse, perché non avrebbe mai il coraggio di allontanarsi veramente. E non ci sono leggi che debba rispettare, perché come disse Margaret Mazzantini un bel po’ di anni dopo, nel suo capolavoro “Venuto al mondo”, “la legge può farsi una passeggiata, l’amore va lasciato dove sta.” Risiede in noi, e non possiamo negarlo. Dobbiamo solo aspettare che qualcuno con la nostra stessa passione accetti di custodire il nostro cuore. E non è facile, non potrebbe mai esserlo. Poeti, scrittori, pittori, artisti di ogni genere hanno da sempre cantato la propria sofferenza

verso una forza che ci può lasciare distrutti. L’amore, la più complessa e la più potente di tutte le passioni, è ad un tempo la più facile e la più semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si incontrano, si vedono, si guardano – e basta. Da che cosa era stato mosso quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa. Nondimeno tutti gli amori cominciarono con uno sguardo. Riusciresti tu, che stai leggendo, a spiegare razionalmente cosa ti spinse ad innamorarti di quella persona il cui pensiero ti è immediatamente balzato alla mente non appena cominciata la lettura? Probabilmente no. “L'amore [...] colpisce in modo subdolo, spesso improvviso. È un sentimento irrazionale che penetra dolcemente e invade tutto l'organismo, come un'endovenosa che si diffonde capillarmente e che modifica il nostro modo di pensare e di agire. Provocando, a volte, una narcosi totale.” È il conosciutissimo Piero Angela a parlare, e a renderci consapevoli di un altro degli effetti di questa forza ineluttabile: la straordinaria abilità che questo ha di produrre cambiamenti in colui che ama. Molte volte mi son trovata davanti a chi dell’amore aveva preso solo i suoi aspetti negativi, trovandosi in un turbine di emozioni negative e contrastanti. Spesso si crede erroneamente che questa sia la spontanea conseguenza del sentimento d’amore. Ma se così non fosse? Se l’aver incontrato la persona giusta lo si riconoscesse proprio dalla capacità che questo ha di elevarti semplicemente ad un grado superiore, pur non togliendo nulla alla tua individualità, ma anzi, esprimendola al massimo grado? Chiunque leggerà queste parole le interpreterà a proprio modo, fortunatamente. Ognuno ha dentro di sé il suo mondo segreto. Non importa quanto essa mostri sulla superficie, ognuno di noi ha dentro di sé inimmaginabili, meravigliosi, straordinari mondi. E non solo uno; centinaia, forse migliaia. Ed è bello pensare che queste parole verranno interpretate in innumerevoli modi diversi. C’è chi forse, leggendole, penserà che esse siano assolutamente prive di senso; o c’è chi forse, leggendo la poesia di Pirandello, troverà in essa un significato assolutamente personale. Chissà, io di certo non posso saperlo. Ma dal mio punto di vista, queste parole non possono rimaner inascoltate. Il significato che in esse io ho trovato è universale, e il contenuto che esse esprimono lo è in egual modo. E mentre la vita va avanti, e procede inarrestabile di minuto in minuto, seguendo la sua personalissima strada, “il tempo moriva – dice Pirandello – e lui restava.” ANONIMO

VISIONE N°7 : LA LIBERTÀ RINATA

Trovo una finestra davanti a me. Mi sporgo. Cado. Davanti a me si stende il deserto. Picconi in lontananza. Mi muovo verso il grande rumore. Davanti a me c’è una torre alta fino al cielo. Tutti gli schiavi dell’universo si sono riuniti per costruirla. Tutti gli schiavi dell’universo hanno il volto coperto. Battono. Battono in coro con i picconi. Battono, continuano a battere. Non si fermano. Il suono è continuo, la cadenza costante. Ipnotico. Un rumore che annulla. Non c’è più niente. I picconi continuano. Gli schiavi lavorano. Pietra dopo pietra la torre sale verso il cielo. Pietra dopo pietra la torre si fonde con il cielo. Gli schiavi lavorano. Salgono al cielo. Il cielo li accoglie. Tutti gli schiavi dell’universo si sono riuniti nel grande cantiere. Tutti gli schiavi dell’universo sono in piedi, capovolti nel cielo. Tutti gli schiavi dell’universo sono ammassati, formano un cerchio sopra il deserto. Si inchinano. Si prostrano e formano un’onda. Rendono omaggio alla Libertà deceduta. Formano un onda, si chinano e si alzano. Sono stretti dentro al cerchio, capovolti nel cielo. Dal centro del cerchio il cielo ribolle. La membrana si spacca. Il cielo è un’enorme placenta. La membrana si spacca. Tutti gli schiavi dell’universo si prostrano e formano un’onda. Sta rinascendo. La Libertà sta rinascendo. Si agita, viene fuori dalla membrana. Sta rinascendo. Gli schiavi si agitano. L’onda si abbatte sul cielo. La Libertà è rinata.

La Libertà è rinata dal cielo. Ho sbattuto al cancello, eh sì, fa ridere, ma è vero. Solo in una giornata coperta da quel Manto soffice e grigio, l’ho lasciata andare. L’ho fatta volare tra i nembi, l’ho persa nel grigio mi sono Perso nel pensare che tutto stava cambiando, sto perdendo tutto. Eppure a farmi riprendere, il grigio cancello: e sono di nuovo cosciente della caduca Vita, mi risveglio. Ma sono comunque perso.

JACOPO AUGENTI

Tenete accesa la luce.

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