Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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TRENTO DOC
BOLLICINE SUPERIORI A TUTTE? LO AFFERMA LA CARTA D’IDENTITÀ
LA MADIA EDITORE
ANNO XXXI - Dicembre 2015 - N. 303 - €E 4,00 - Direttore ELSA MAZZOLINI
SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 303 GOURMETFOOD Dietologicamente parlando Carni conservate, tumori ed educazione al cibo di Primo Vercilli................................................................ pag. 8
di
Alessandro Ricci
pag. 36
La scelta vegana Le alternative alla carne di Silvia Bianco................................................................. pag. 12 Assaggi di Galateo Il Bon Ton in occasione delle festività di Fabio Ferrantino........................................................... pag. 16 Golavagando Corrado Fasolato di Cristina Vannuzzi.......................................................... pag. 20 Pasticceria Le Armonie a Cervia
AQUA CRUA
di Maria Chiara Zucchi...................................................... pag. 22
La cucina con l’innocenza di un bimbo.
MondoChef - Cuocomercato a cura di Alessandra Meldolesi........................................ pag. 26 Golavagando “Mon Trésor”
GOURMETFOOD
di
Claudio Mollo
Ristorante Kursaal di Jerry Bortolan.............................................................. pag. 28 Trattoria La Griglia di Daniele Briani............................................................... pag. 30 Trattoria da Ghigo di Claudio Mollo............................................................... pag. 32 GourmetFood Il nuovo volto di Casa Coppelle, a Roma.......................... pag. 42 Prodotti Eccellenti
pag. 54
Errico Recanati interpreta Divine Creazioni Surgital.................................. pag. 46 GourmetFood Vincanto a Firenze
SCHLOSS ELMAU
di Cristina Vannuzzi.......................................................... pag. 60
Un fidelio tutto italiano diretto da Umberto Gorizia.
Alla ricerca delle tradizioni milanesi e lombarde di Enza Bettelli................................................................. pag. 62 Prodotti Eccellenti
VINARIA
di
Gianluca Ricci
6ª Giornata del Jamón Ibérico in Italia di Maria Chiara Zucchi...................................................... pag. 70 Chef di Spirito Antonio Pisaniello di Sonia Leo..................................................................... pag. 76 Faccio cose... vedo gente... a cura di Elsa Mazzolini.................................................... pag. 84 Buone Nuove..................................................................... pag. 85 Vinaria
pag. 90
Il focus di Alessandro Magnum di Alessandro Rossi......................................................... pag. 86 Citra di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 94
TRENTODOC
Assaggio di libri................................................................. pag. 96
Lo Spumante di montagna, con bollicine superiori a tutte.
EDITORIALE di
Elsa Mazzolini
PIATTI IN COPYRIGHT Caro Maestro, non mi dire che ci credi. Non dirmi che credi davvero di poter tutelare una ricetta con un marchio, un brevetto, un diritto d’autore quando, nel Tuo “Codice Marchesi”, Tu stesso asserisci che “una ricetta non è mai unica, ci sono infinite sfumature possibili che pur senza stravolgerla, la rendono diversa”. Sta proprio in ciò che hai detto, a mio modesto parere, la debolezza nel tuo progetto volto a tutelare la proprietà intellettuale in cucina. Per carità, mi piacerebbe, ma Tu sai bene con quante scappatoie e cavilli in Italia si copia e si millanta impunemente! Ti faccio un esempio personale. Anni fa ho lavorato per quasi un anno ad un mio evento che avevo deciso di condividere con una certa nota istituzione simil-benefica nazionale. Bene. Ad un mese dall’inaugurazione, il mio “socio di fatto” mi telefonò per dirmi che l’evento diventava suo, semplicemente con un nome diverso da quello concordato. “Tanto – mi disse, forte delle sue coperture socio/politiche – basta che io cambi una virgola al tuo format, e quello diventerà il mio”. Era un avvocato, sapeva perfettamente cosa diceva e mi liquidò con due lire per il lavoro svolto e, di fatto, acquisito. Di lì partì il “suo” progetto. Alla luce delle migliaia di fatti analoghi a questo, davanti alle mille passatine di ceci di Fulvio Pierangelini scopiazzate in ogni angolo d’Italia, davanti alle mille spesso maldestre imitazioni del Tuo Dripping di pesce by Pollock o addirittura alle varianti derivate dal Tuo mitico riso, oro e zafferano, Tu parli di proteggibilità dei piatti d’autore? Sai bene che non esiste un codice della cucina italiana certificato, ma un patrimonio comune di usanze e ricette mutate nel tempo. Mi auguro che, come sempre, Tu abbia però ragione e che il copyright a tutela della proprietà intellettuale dei tuoi piatti o di quelli di chi, davvero, li sanno inventare, abbia una sua validità pratica. Ma ci credo poco…
ME
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DIETOLOGICAMENTE PARLANDO
a cura di
Primo Vercilli Medico Dietologo
CARNI CONSERVATE, TUMORI ED EDUCAZIONE AL CIBO Voglio proporvi una riflessione su come, il più delle volte, quello che sentiamo dire (anche da fonti autorevoli) rappresenti la punta di un iceberg, che poi, addirittura, ci può mettere sulla cattiva strada, pur partendo da presupposti assolutamente corretti. Mi spiego meglio. Spesso nel mio lavoro sento dire dai miei pazienti che i wurstel fanno male o l’aspartame fa venire il cancro, e così via... cosa c’è di vero dietro queste affermazioni? E soprattutto: dobbiamo fidarci ciecamente di simili proclami? Vi faccio un esempio preciso, in modo che possiate comprendere la dinamica del fenomeno. Prendiamo i wurstel, che i nostri amici Americani chiamano Hot Dog! Primo dato certo: i wurstel contengono i nitriti, che sono sostanze usate nelle carni conservate, utili ad uccidere i batteri e per contribuire a dare al prodotto un colore rosato e un sapore più appetitoso. Secondo dato certo: i nitriti, nel nostro organismo, reagiscono formando le nitrosammine. Terzo dato certo: già dagli anni 70, diversi studi hanno concluso che “si presume ragionevolmente che le nitrosammine siano carcinogeni umani”. Cioè ci sono evidenti prove per pensare che queste sostanze facciano venire il cancro. Ovviamente, notizie di questo genere vengono immediatamente catturate dai media, che iniziano con le loro campagne sensazionalistiche e immettono il “virus” nell’opinione pubblica: basta mangiare carni conservate, altrimenti vi viene il cancro. Su un messaggio di questo genere siamo tutti estremamente sensibili! Ma, andiamo al quarto dato certo: esaminiamo almeno uno studio scientifico che ha portato
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a “presumere ragionevolmente” che le nitrosammine siano carcinogene. In uno studio di ricerca sulla N-nitrosarcosina (NSAR), venti ratti erano stati suddivisi in due gruppi, ciascuno esposto ad un livello diverso di NSAR. Ai ratti esposti alla dose elevata era stata somministrata una quantità doppia rispetto a quelli esposti alla dose bassa. È emerso che poco più del 35% dei ratti a cui era stato dato il livello più basso di NSAR era morto di cancro alla gola, mentre il 100% dei ratti a cui era stata somministrato il livello più alto era morto di cancro nel corso del secondo anno di esperimento. Ma quanta NSAR era stata data ai ratti? Ad entrambi i gruppi (anche nel gruppo con dose bassa) era comunque stata somministrata una dose incredibile di NSAR. Permettetemi di spiegarvi in che cosa consisteva la dose “bassa” (non quella alta!), fornendovi uno scenario concreto. Immaginiamo che per ogni pasto voi vi rechiate a casa di un vostro amico; costui ne ha fin sopra i capelli di voi e ha deciso di farvi ammalare di cancro alla gola esponendovi alla NSAR, così vi propina l’equivalente del “basso “ livello somministrato ai ratti. Vi offre quindi un panino imbottito con mezzo chilo di mortadella! Lo mangiate, lui ve ne offre un altro e poi un altro e un altro ancora… vi toccherà mangiare 270mila panini alla mortadella prima che lui vi lasci andare! Ma, sarà meglio che vi piaccia la mortadella, perché il vostro amico ha intenzione di nutrirvi in questo modo ogni giorno per più di 30 anni! Se lo farà, la vostra esposizione alla NSAR (per peso corporeo) sarà pari a quella dei gruppi a “basso” dosaggio.
DIETOLOGICAMENTEPARLANDO
Ora, ragionate un attimo su quanto vi ho esposto e confrontate tutto questo con quei titoli o proclami sensazionalistici in cui, di tanto in tanto, vi capita di imbattervi. È comunque evidente che l’esperimento con i topi è stato viziato da un irrealistico bombardamento di nitrosammine, che non può trovare riscontro nella vita quotidiana dell’uomo. Nessun uomo sulla terra sarebbe in grado di consumare (non dico 270mila) 10 panini al giorno con mortadella per 30 anni! Attenzione però: non sto assolutamente affermando che i wurstel non facciano male: quindi partendo dal presupposto corretto, cioè che i prodotti di carne meccanicamente separata (tipo i wurstel) fanno effettivamente male, facciamo un po’ di riflessioni. Prima riflessione: se veniamo a sapere che le carni conservate e quelle meccanicamente separate aumentano il rischio di tumore, molti di noi cercano di evitarle (giusto atteggiamento!). Per cui focalizzano un particolare (questi tipi di carne fanno male) e fanno delle scelte solo in virtù di quel particolare: alla fine, si convincono di mangiar sano solo perché hanno eliminato i wurstel e la mortadella, oppure non usano l’aspartame (altro alimento molto discusso), oppure evitano tutti i prodotti con olio di palma. Quante volte sento dire dai miei pazienti che sono certi di mangiar sano e come esempio mi portano proprio quegli esempi che vi ho appena esposto. Poi magari si scopre che, mangiano, si e no, un frutto al giorno, che la verdura sì, ma “non tutti i giorni”, oppure che, qualche volta, una patatina ci vuole, oppure che, non mangiano la carne, ma tutti i giorni consumano formaggio, ecc. ecc. Mangiare bene significa rispettare pienamente una armonia e un equilibrio nella frequenza, nella rotazione dei cibi, nelle proporzioni e nelle combinazioni, tali per cui ogni piccola parte del nostro organismo ne possa trarre beneficio. Cosa volete che sia eliminare la mortadella (che già mangiamo poco, magari 2 volte al mese) e poi non consumare tutti i giorni le nostre necessarie porzioni di frutta? Cosa volete che sia fidarsi del fatto che è meglio non mangiare la carne rossa (sempre perché fa venire i tumori) e poi consumare pressoché quotidianamente formaggi? Cosa volete che sia evitare di consumare 3 compressine di aspartame al giorno, per dolcificare 3 caffè, (sempre perché fa venire i tumori) e poi consumare sempre e soltanto cibi e cereali raffinati, introducendo, si e no, 7 grammi di fibre al giorno, contro i 30 grammi necessari? Seconda riflessione: se continuiamo questo gioco di fossilizzarci su un particolare, non cambieremo mai le nostre abitudini alimentari. Riprendendo l’esempio dei wurstel e delle carni conservate, dopo che ci sono state queste scoperte sul danno che i nitriti possono causare, ovviamente l’industria alimentare è corsa ai ripari, riducendo in modo sensibilissimo la concentra-
zione di queste sostanze in tutti i prodotti che le contenevano. Come per dire: ora, cari signori, potete mangiare wurstel a volontà, perché non fanno più venire il cancro! E allora, ci basta leggere l’etichetta “privo di nitriti” per pensare che il prodotto sia assolutamente sano. È come quando compriamo la bevanda light perché contiene poche calorie! È tutto un meccanismo contorto attraverso il quale l’industria alimentare continua a fare di noi ciò che vuole! Se tu non compri i miei wurstel perché contengono i nitriti, allora ti creo i wurstel senza nitriti! Se tu non compri la mia bibita perché contiene calorie, allora io ti do la stessa bibita senza le calorie! Ma alla fine, ciò che conta, è che tu rimanga legato ad un sapore, ad un gusto, che tu ti ricordi di quel gusto sempre, quando hai sete, quando hai fame, quando sei sul divano a vedere la televisione. La chiamano fidelizzazione! È una vera e propria dipendenza! Il problema di mangiare o no i wurstel esula completamente dal fatto che abbiano i nitriti o meno. A nessuno verrà un tumore, se, nell’ambito di una alimentazione corretta, una persona mangia un hot dog 2 volte al mese. Il problema è se quel gusto dell’hot dog è qualcosa che poi la persona cerca sistematicamente in quel prodotto o in altri simili, facendo in modo che quotidianamente sia presente un prodotto ad alto contenuto di sodio, ad alto contenuto di proteine, ad alto contenuto di fostati, ecc. Se io mi “fidelizzo” ad un certo gusto sapido, ricco, proteico, untuoso, dopo quel gusto lo cercherò sempre: una volta con l’hot dog, un’altra volta con la mortadella, un’altra ancora con un formaggio grasso, un’altra con le patatine fritte, ecc… Stessa cosa per le bevande light. Le beviamo perché così ci sentiamo tranquilli, tanto hanno “zero calorie”. Ma il vero problema è che, più ne beviamo, più ci “fidelizziamo” ad un gusto dolce, che poi condizionerà le nostre scelte quotidiane! E alla fine ci ritroviamo a non bere più acqua, ma a dissetarci chimicamente! Ora, ognuno di noi faccia un piccolo esame di coscienza e cerchi di capire, in cuor suo, se veramente mangia bene oppure se, proprio perché va dietro i soliti proclami, le solite mode, le solite pubblicità, non sia semplicemente schiavo e dipendente di sapori e gusti costruiti in laboratorio o su un bancone industriale. Si può mangiare tutto, ma o tutto rientra in una proporzione, in un’armonia, in una logica dettata dalle reali esigenze dell’organismo (e non da quello che noi pensiamo abbia bisogno) oppure tutto diventa un mix micidiale che porta, per ben che vada, a sovrappeso e obesità e, nei peggiori dei casi, a problematiche ben più gravi. Il primo passo è quello di riappropriarci di gusti semplici, lineari, non industriali, non chimici. Il secondo è quello di fidarci di un medico che ci dica di cosa ha realmente bisogno l’organismo. Il terzo, cominciare a compiere un cammino educativo per far coincidere le esigenze dell’organismo con un appagamento totale di quello che mangiamo!
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LA SCELTA VEGANA
a cura di
Silvia Bianco testimonial di cucina vegana
LE ALTERNATIVE ALLA CARNE: SEITAN, MOPUR E MUSCOLO DI GRANO
Dicembre è un mese speciale per me, perché celebro sei anni dal momento in cui ho deciso di diventare vegan. Sei anni da quando ho capito che potevo condurre una vita escludendo, per quanto possibile, ogni forma di sfruttamento e crudeltà verso gli animali per procurarmi cibo, vestiti e per qualsiasi altro scopo, impegnandomi a trovare alternative a beneficio dell’uomo, degli animali e dell’ambiente e a condividerle con chiunque mi circondi. La mia è innanzitutto una scelta etica e d’amore, sarà per questo che il passaggio da un’alimentazione onnivora ad una senza derivati animali non è stato difficile. Non ho mai patito la mancanza di alcun prodotto animale in particolare, è anche vero che non ho lasciato nulla al caso, anzi mi sono informata bene su come strutturare un’alimentazione vegana sana senza incorrere in carenze. Troppo spesso sento infatti dire che l’alimentazione vegan è incompleta e quindi poco salutare, ma non è propriamente così. Se non ci si prende la briga di informarsi su ciò di cui il nostro corpo ha bisogno e da quali cibi possiamo prendere il nostro combustibile, qualsiasi alimentazione risulterà sbilanciata. Il consiglio che mi sento di dare a chiunque voglia intraprendere un’alimentazione vegana è quella di informarsi il più possibile, prendendosi il tempo necessario, leggendo libri, documentandosi tramite internet dove non abbiamo che l’imbarazzo della scelta tra innumerevoli blog e siti e, se ancora non ci si sente sicuri, affidarsi alle conoscenze di un buon nutrizionista vegan. So che molti di voi ora staranno chiedendosi come fare ad ave-
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re la giusta quantità di proteine in una dieta vegana, perché, erroneamente, si pensa che non mangiando carne, uova e latte, un vegano abbia poche possibilità di introdurre proteine nella propria alimentazione. Bene, sono felice di potervi dire che il vegano ha veramente una vasta scelta di cibi con alto contenuto proteico: partiamo dai legumi, specialmente lenticchie e ceci, oppure i lupini che sono un concentrato di proteine con un bassissimo apporto di carboidrati, il tofu, il tempeh ed il natto, prodotti derivanti dalla soia, il TVP ovvero proteine vegetali strutturate derivanti da farina di soia sgrassata, hemp-fu derivante dalla canapa, il seitan, il muscolo di grano ed il mopur derivanti dalla lavorazione del glutine di grano. Tra le fonti proteiche da ricordare ci sono anche cereali e pseudocereali come ad esempio avena, quinoa, amaranto e miglio che contengono delle buone quantità di proteine che vanno a completare lo spettro amminoacidico dei legumi. Non scordiamo che frutta secca come semi di canapa, mandorle, noci brasiliane, semi di zucca e le alghe sono delle ottime fonti di proteine oltre che di minerali e vitamine. Nei prossimi numeri affronteremo in dettaglio tutti questi prodotti proteici, mentre oggi ci soffermiamo su seitan, muscolo di grano e mopur. Il seitan altro non è che il risultato della lavorazione di una farina ricca di glutine (come ad esempio la manitoba), mentre muscolo di grano e mopur sono un’evoluzione più recente del seitan. Partiamo con alcuni cenni storici. Il seitan ha origini molto
LASCELTAVEGANA
lontane, che risalgono a oltre mille anni fa, quando i monaci buddisti Mahayani cinesi si adoperarono per trovare una valida alternativa alla carne (erano vegani) e, una volta scoperta la ricetta, questa raggiunse anche il Giappone dove i monaci buddisti di quel tempo vollero chiamare il seitan con il nome di kofu (glutine di grano). Nei primi anni ’60, con l’avvento della cucina macrobiotica, il suo inventore giapponese, George Osawa, propose il termine seitan, la cui etimologia è “saythan”, ovvero “say” (poi più comodamente scritto “sei”) che significa “è, essere, fatto di” e than (tan) che vuol dire “proteine”. Il seitan è quindi un concentrato di proteine, ottenuto estraendo il glutine da farina di grano o di farro impastato energicamente con acqua, a cui seguono cicli di lavaggio, con alternanza di acqua fredda e tiepida fino all’eliminazione dell’amido (idrosolubile) per ottenere una massa di glutine che è la parte proteica dei cereali. La “palla” ottenuta la si può arrotolare ed avvolgere in un canovaccio pulito o in una garza
per alimenti o carta stagnola, conferendole una forma cilindrica e chiudendo bene le estremità con dello spago a mò di caramella. Si sottopone la forma a bollitura in pentola per 60 minuti circa in acqua aromatizzata con spezie e verdure come alloro, alga Kombu o Wakame, carote , cipolle, sedano, salsa di soia, aglio, zenzero, etc. Al termine della cottura, si estrae la caramella dall’acqua e la si lascia raffreddare (la si può tagliare a fette più o meno spesse a seconda delle esigenze). La si può conservare sottovuoto, oppure tenuta con l’acqua di cottura all’interno di un contenitore ermetico in frigorifero per circa 5 giorni. Le proprietà nutrizionali del seitan corrispondono a circa il 20% di proteine, con solo l’1,5% di grassi per porzione media di 100 grammi e un contributo calorico pari a 120 Kcal. Il seitan a livello proteico è quindi pari alla carne, senza però i grassi saturi e colesterolo contenuti in quest’ultima. L’ideale è consumare il seitan unitamente a legumi come ceci,lenticchie, piselli nello stesso piatto o nell’arco di 24/48 ore per completare
il profilo amminoacidico del seitan che scarseggia in lisina. Da questa carenza nutrizionale è nato il “muscolo di grano”, un’evoluzione del seitan inventata da Enzo Marascio nel 1991. Di origine calabrese, era affetto da diabete e alla ricerca di cibi che lo aiutassero a migliorare il suo stile di vita alimentare. Dopo aver provato il seitan, iniziò le sue ricerche per migliorare il valore biologico del prodotto. Fu così che, tra i vari esperimenti culinari, aggiunse della farina di lenticchie alla lavorazione dell’impasto del seitan, cuocendolo con aromi e spezie mediterranee. Il risultato fu il muscolo di grano, un prodotto simile al seitan, ma più morbido e con un sapore più intenso. Il nome “muscolo di grano” venne coniato da Enzo Marascio perché, durante i suoi esperimenti, notò che il panetto assumeva delle striature molto simili alle fibre di un muscolo. A favore del muscolo di grano bisogna dire che la presenza dei legumi arricchisce sia il profilo ammioacidico che quello degli acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi derivanti dai legumi, ottenendo
LE RICETTE Chef Pasticcere vegan Stefano Broccoli Pasticceria vegan “La DolceVita” - Bergamo
Ravioli
di zucca, noci e patate PROCEDIMENTO Impastare 400 grammi di semola di grano duro, un cucchiaio da minestra di farina di grano tenero 00, un cucchiaino di sale, un cucchiaino di curcuma, ml. 200 di acqua ed un cucchiaio di olio evo. Lasciar riposare l’impasto per un’ora avvolto nella pellicola, quindi stenderlo con il mattarello e ritagliare dei ravioli. Riempire i ravioli con un impasto preparato con 200 grammi di zucca e patate lessate (rispettivamente un 80% e 20% o viceversa, a seconda dei gusti), noci a pezzettoni e 60 grammi di lievito alimentare in scaglie. Condire i ravioli con una crema di zucca ottenuta facendo saltare la zucca a cubetti assieme a porri e carote in olio evo. Aggiustare di sale e frullare.
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LA SCELTA VEGANA
Silvia e gli esperti rispondono...
così un prodotto più completo. Un notevole salto di qualità del seitan e del muscolo di grano è il mopur, la cui differenza sostanziale sta nell’aggiunta di lievito madre all’impasto di lavorazione della farina di frumento ed l’utilizzo di farina La dieta vegana è ricca di legumi, ma soffrendo di intestino irritabile faccio fatidi lupino (ma si può usare anche quella di altri legumi come ca ad introdurli: hai dei consigli? ceci, soia, lenticchie, etc). L’idea innovativa sta proprio nel lievito madre che, fermentando, scinde il glutine in modo Suggeriamo di introdurli dalle 3 alle 5 volte a settimana ma in piccole dosi come 50/80 tale da abbattere la sua presenza di oltre il 40%, rendendo il grammi cotti usando soprattutto lenticchie rosse decorticate, piselli e fagioli rossi azuki prodotto più digeribile, molto più morbido e con una consiche sono i più digeribili. Si potrebbe iniziare a consumarli passati nel passaverdure, stenza ancor più similare a quella della carne. sottoforma di purea, crema, hummus o quenelles per eliminare le fibre. In casi gravi Nonostante il salto qualitativo dal seitan al muscolo di graè bene sentire il proprio medico e, nel frattempo, ridurre al minimo le fibre preferendo no e al mopur, è bene ricordare che questi sono prodotti cereali raffinati, tofu e legumi sbucciati e passati. contenenti glutine (il seitan più di tutti) e quindi chi presenta Inviate le vostre domande a: lamadia@lamadia.com delle intolleranze o sensibilità a questa proteina deve consumarli con parsimonia o, a seconda dei casi, escluderla totalmente. Seitan, muscolo di grano e mopur possono essere cotti in svariate modalità, con una base di soffritto in padella, stufato, grigliato, macinato sottoforma di ragù, impanato, al forno e tutto ciò che la vostra fantasia vi suggerisce. Con l’occasione delle feste natializie, vi lascio un tris di ricette ideate dello Chef Pasticcere vegan Stefano Broccoli della pasticceria vegan “La DolceVita” di Bergamo, grazie al quale potrete comporre un menu vegan intero e soddisfare palati golosi. Oltre a dei ravioli tipicamente invernali a PROCEDIMENTO base di zucca, ci propone un “arrosto” con base rivisitata a metà tra seitan e muscolo di grano ed Far sciogliere 10 grammi di agar-agar in ml. 600 una mousse di cacao e mandorle leggera ma ghiotta.
Mousse
gelato di cacao e frutta
di latte di mandole aggiungendo ml. 100 di
Seitan
malto di riso ed un cucchiaino di cacao amaro. Aggiungere un cucchiaio di fecola di patate e
con lenticchie, carote e daikon con purea di fave e barbabietole al cumino PROCEDIMENTO Impastare 1 chilogrammo di farina manitoba con ml. 500 di acqua, aggiungere 250 grammi di lenticchie secche gialle intere (e quindi crude) ed una volta ottenuto un impasto liscio ed omogeneo, metterlo a bagno in un recipiente e lavarlo continuando ad impastarlo sotto l’acqua corrente per circa venti minuti o fino a quando si è lavato via tutto l’amido. A questo punto steccare il composto ottenuto con il daikon e la carota, avvolgerlo in un telo o carta stagnola, metterlo in una pentola capiente e farlo bollire in brodo vegetale per circa 50 minuti. Una volta raffreddato, lo si può affettare e ripassare ogni fetta in padella con olio evo e cipollotti. Lessare separatamente le fave e le barbabietole, passarle al passaverdure o frullarle. Fare un soffritto con scalogno e semi di cumino in olio di sesamo. Unire il soffritto allo scalogno ad entrambe le due puree tenute separate ed al posto del sale unire della salsa di soia alla purea di barbabietole, mentre aggiungere del sale affumicato alla purea di fave. Procedere con la composizione del piatto.
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far sobbollire per 5 minuti. Togliere dal fuoco e farlo raffreddare a 45°C ed aggiungere 70 grammi di burro di cacao. Metterlo in frigorifero per due ore, quindi frullarlo e disporlo con il sac a poche nel piatto di portata, aggiungendo frutta di stagione innevata da zucchero a velo. Completare affiancando il dolce con della panna di latte di cocco freddissimo, che abbia una base minima dell’80% di grasso. Dolcificarla con zucchero semolato e montare nella planetaria, come se fosse panna montata.
Gala teo ASSAGGI DI
a cura di
Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico
IL BON TON IN OCCASIONE DELLE FESTIVITÀ L’ARTE DELL’ACCOGLIENZA E LE REGOLE PER ESSERE UN PERFETTO INVITATO Quando si pensa al mese di dicembre viene subito alla mente la tradizione, le feste e lo stare in famiglia. Occasioni più o meno formali nelle quali le regole di galateo ed il bon ton ci possono essere di grande aiuto per affrontare diverse situazioni, soprattutto quelle in cui ci possiamo sentire a disagio. Sia che siamo anfitrioni che invitati, bisogna che osserviamo alcune norme per risultare persone rispettose e per essere rispettati. Le cose da fare e non fare per invitare, accogliere, ringraziare e servire gli ospiti: affrontiamo qui alcuni passi fondamentali sull’arte dell’accoglienza. Tutto parte da un invito che può essere fatto in diverse maniere. Spesso si ricorre all’uso del telefono, una forma meno aggraziata rispetto all’invito fatto di persona, che sottolinea l’attenzione verso l’ospite e l’occasione. Un modo molto elegante e adatto anche alle occasioni formali è l’invito cartaceo, che possiamo considerare come caduto in disuso, ma che, proprio per questo, può diventare originale e attuale se personalizzato. Questo può essere consegnato a mano, oppure spedito, se vogliamo invitare qualcuno che abita distante da noi. Ricordiamoci di farlo per tempo, particolarmente per i parenti meno stretti e per gli amici. Momenti come la vigilia o il pranzo di Natale sono legati maggiormente ad una convivialità vissuta in ambiente familiare piuttosto che al ristorante, soprattutto in periodi austeri come questo. In queste occasioni il ristoratore può comunque creare forme di invito, assimilabili a proprie azioni di marketing, per invogliare a trascorrere le festività nel proprio hotel o ristorante. Perché non invitare i propri clienti fedeli con un invito cartaceo che esprima in modo curato ed elegante il nostro calore e la nostra gioia nell’averli come ospiti per queste occasioni? Un gesto semplice, ma di grande efficacia. Da sconsigliare l’utiliz-
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zo della posta elettronica per rivolgere qualsiasi tipo di invito, che sia più o meno informale: è uno strumento non adatto e poco garbato per questo genere di avvenimenti. Da invitati non bisogna mai presentarsi a mani vuote: pensiamo a un dono semplice da offrire, che sia una bottiglia di vino, dei dolci o una pianta da presentare con cura e da porgere, una volta arrivati, alla padrona di casa. In un ambiente familiare o di ristorazione professionale è importante che gli elementi della tradizione siano presenti anche se in dosi differenti. In queste occasioni è meglio non essere troppo alternativi sia nella decorazione e presentazione della tavola, sia nell’ambiente. Si possono non utilizzare colorazioni tipiche del Natale come il rosso e l’oro; un’alternativa può essere rappresentata da runner posti su tovaglie dalle tonalità chiare. Se abbiamo un bel tavolo in legno o in vetro, possiamo non utilizzare la tovaglia, ma solo il runner o, in alternativa, delle eleganti tovagliette americane. Per decorare, utilizzare dei centro tavola non troppo alti per evitare che ostacolino la conversazione: è una di quelle poche occasioni dove il fiore reciso può non apparire, per far posto ad elementi naturali che richiamano l’atmosfera invernale nei profumi e nei colori. Possono ad esempio essere utilizzate delle bacche, delle erbe aromatiche come il rosmarino, delle spezie come la cannella, della frutta come le arance da decorare con chiodi di garofano o, perché no, dei simpatici biscottini di pan di zenzero o di frolla da poter donare agli ospiti a fine pasto. In una cena o pranzo informale in famiglia cerchiamo di stuzzicare la curiosità degli ospiti: un esempio sono delle piccole bowl di vetro nelle quali imprigionare delle essenze da scoprire, il tutto decorato con neve finta. Si può spaziare con la fanta-
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sia senza appesantire la tavola con troppi dettagli che creerebbero solo confusione e non un senso armonioso di eleganza. Ricordiamoci sempre alcune regole base dell’accoglienza. All’arrivo dell’ospite al ristorante si porgerà un augurio adeguato, non dimenticando di sorridere, mentre un cameriere prenderà il soprabito e un altro addetto accompagnerà gli ospiti al tavolo. Spesso si vedono cappotti e giacche appese a vista nella sala ristorante: questo è assolutamente da evitare, sia per lo sgradevole impatto visivo, sia per non inzuppare di odori i soprabiti. Quando si parla di Natale non ci si può scordare certo dei bambini che, a volte, sono difficili da gestire per le loro necessità. Il consiglio se sono tanti e se la maggior parte ha meno di dodici anni è quello di farli accomodare in un tavolo separato e, se la cena dovesse protrarsi fino a tardi, di farli iniziare a mangiare prima degli adulti. Se sono pochi, allora siederanno con i genitori e saranno serviti per primi in modo da non farli spazientire. Al ristorante possiamo prevedere per i nostri piccoli ospiti uno spazio dedicato a loro con un’animazione specifica che li segua durante il pasto e sviluppi delle attività ricreative coinvolgenti, in modo da permettere ai genitori di restare seduti al tavolo in tranquillità. Quando disponiamo i nostri invitati a casa (compito della padrona di casa) non dimentichiamo che il principio base è rendere l’ospite il più felice possibile sia per la scelta della sua collocazione a tavola, sia per la compagnia. Se non conosciamo l’invitato in maniera profonda, andiamo a rigor di logica: sarà bon ton dell’invitato non disquisire sul posto assegnatogli. In casa o al ristorante rispolveriamo le precedenze del servizio. Come accennato, i bambini avranno la precedenza se siedono con gli adulti, ma solo in queste occasioni meno formali. La precedenza spetta solitamente alle donne, poi agli uomini in base all’età, prima i più anziani fino ad arrivare ai più giovani. Se vi sono uomini di chiesa, politici o alti funzionari, spetterà loro la precedenza nel servizio. Da invitati ci potremmo trovare in cene o pranzi formali di lavoro per la chiusura del bilancio annuale, dove si prevedono mise en place corpose, composte da svariate forchette (ricordiamoci la scena del film Titanic nella quale la miliardaria Margaret, “Molly” Brown, suggerisce a Jack, Leonardo di Caprio, di iniziare sempre dall’esterno). La posateria posta nella parte superiore dinnanzi al piatto è dedicata al dolce. Per i bicchieri, da destra a sinistra, troveremo prima il bicchiere da vino bianco, poi quello da vino rosso e per ultimo quello da acqua, in ordine decrescente di grandezza. Il galateo ci ricorda, come regola, quella di non usare il “buon appetito” in quanto è un augurio che riconduce al solo desiderio di sfamarci e dunque sminuisce il momento di convivialità ad un bisogno fisico; se altre persone sedute con noi
Gala teo ASSAGGI DI
ci rivolgono queste parole, è bene rispondere cortesemente con un: altrettanto. Piatto della tradizione natalizia per gran parte delle tavole italiane sono i tortellini o cappelletti in brodo. Qui il galateo è chiaro: non si soffia sul brodo, come su altre sostanze calde, in quanto atto di maleducazione. Monsignor Della Casa scrive: “Perciò che si dice che mai vento fu senza acqua…” l’alito è vapore acqueo, quindi teniamolo per noi prima di invadere le pietanze altrui. Non si fa rumore quando si sorseggia qualcosa di liquido e, se dovesse rimanere un po’ di brodo, è meglio inclinare il piatto verso l’esterno aiutandoci a raccoglierlo con il cucchiaio. Se nel menù è presente della pasta lunga, non si utilizza mai il cucchiaio per arrotolare gli spaghetti o le tagliatelle con la forchetta, quindi questo non si deve predisporre neanche nell’apparecchiatura e sarebbe scortese chiederlo. Non si domanda alla padrona di casa una posata se non prevista nell’apparecchiatura, come è maleducazione chiedere il sale, sinonimo di poco gradimento di ciò che è stato preparato per noi. Se per la vigilia, come tradizione, si prepara un menù di pesce, nella mise en place seguiamo il galateo utilizzando le posate apposite che stanno brutalmente scomparendo dai nostri ristoranti. Non dimentichiamo che il tovagliolo va posizionato sempre a sinistra del piatto, di fianco le forchette verso la parte esterna. Se siamo a casa, cerchiamo di prediligere i tovaglioli di stoffa a quelli di carta. Nei ristoranti evitiamo forme arzigogolate dei tovaglioli: più particolare sarà la forma data al tovagliolo, maggiore sarà stata manipolazione da mani che non sono le nostre. Quindi, conferiamoli una forma classica con poche pieghe o lasciamolo nel posto che gli spetta, di fianco alla posateria. Da buon invitato bisognerà sapersi destreggiare anche nella conversazione; Monsignor Della Casa nel suo Galateo ci riporta alcune regole: “Né a festa né a tavola si raccontino istorie maninconose, né di piaghe né di malattie né di morti o di pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione o ricordo”. Dunque evitiamo di parlare di cose tristi, di denaro, di chiedere a una persona se è fidanzata o meno, di mortificare il vegano o il parente più grande bacchettandolo su ciò che mangia per via del suo colesterolo alto e così via, creeremo solo situazioni imbarazzanti e non utili al clima conviviale. Dulcis in fundo, i regali. Con un po’ di fantasia potremo fare felici tutti i nostri ospiti, sia al ristorante che a casa propria, confezionando qualcosa di carino da lasciar portare via. Oltre ad un centro tavola/ cadeau, come detto in precedenza, possiamo pensare a qualche dolce regalo, appunto: praline di cioccolato incartate, un macaron rosso e oro in una scatolina di cartone oppure piccoli
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lavoretti manuali come degli origami che riprendano il tema natalizio. “A Natale si è tutti più buoni”. In un periodo in cui l’avidità sembra essere una delle peggiori comuni forme di maleducazione, non dimenticatevi mai di ringraziare tutto lo staff che lavora per la vostra attività. Dovete sempre far sentire il vostro luogo di lavoro come un bell’ambiente sereno, dove poterci lavorare rappresenti un privilegio. Un dono più o meno originale sarà sempre ben accetto soprattutto quando viene esteso a tutta la famiglia del dipendente.
È CONCESSO FARE “CIN-CIN”? Il rito del brindisi affonda le radici nell’antichità. È presente nella maggior parte delle culture e ha la funzione di auspicare qualcosa di buono verso persone, ricorrenze, accordi o altre occasioni. Il brindisi è un bel momento che corona la festa. Sembra che la pratica di far toccare i bicchieri fra loro sia nata nel medioevo dove tale gesto permetteva lo scambio di un po’ di liquido fra i commensali, in modo da appurare che non ci fosse veleno: costituiva dunque un atto di fiducia reciproca. Il termine brindisi deriva dal tedesco bring dir’s, cioè “lo porto a te”, come forma di saluto esportato dai Lanzichenecchi in Spagna, che si trasformò in brindis, divenuto poi brindisi in italiano. Molto diffuso un tempo anche il termine Prosit che deriva dal latino con il significato di “sia a tuo favore, a tuo giovamento”, quello che oggi possiamo tradurre “alla salute” o come dicono i francesi “à votre santé”. Ma veniamo al “Cin-Cin”. Questa esclamazione sembra derivi dal termine cinese qǐng qǐng che significa “prego prego”, utilizzato come saluto scherzoso dai marinai di Canton e poi esportato nei porti europei. Dato che ricorda, come forma onomatopeica, il tintinnio dei bicchieri, fu adottata proprio per il brindisi. Tale termine però sembra avere anche un significato imbarazzante in alcune lingue orientali, quindi facciamo attenzione a dove e a quando lo usiamo. Come per il “buon appetito”, seguiamo le norme di bon ton, dunque, se gli altri commensali pronunceranno la parola “Cin-Cin”, uniamoci anche noi senza far notare nessun disappunto. La cosa migliore è alzare il bicchiere verso il festeggiato o i commensali senza sbatterlo e augurare un semplice: “Salute”. Un errore che è spesso ricorrente riguarda la scelta del bicchiere adatto per questo momento. La flûte è indicato per lo champagne o per gli spumanti secchi, mentre la coppa è appropriata per gli spumanti dolci, in modo da evidenziare il loro perlage. Se verranno servite entrambe le tipologie di spumante, possiamo optare per un bicchiere che costituisca un buon compromesso fra i due.
GOLAVAGANDO
IL VENETO SULLO SFONDO NELLA CUCINA DI
CORRADO FASOLATO di
Cristina Vannuzzi
Dopo 25 anni di lavoro all’estero e dopo avere conquistato tre forchette del Gambero Rosso e due stelle Michelin, Corrado Fasolato è tornato a casa per ritrovare i suoi silenzi, le vette imbiancate, l’aria frizzante, ma principalmente per recuperare le sue origini. Il mondo nostalgico di Corrado Fasolato si chiama Spinechile Resort e per arrivarci bisogna inerpicarsi sulle colline che circondano il comune di Schio, in provincia di Vicenza: un tornante dopo l’altro ci si immerge nei boschi e, giunti
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in Contrà Pacche, l’emozione si trasforma in un colpo al cuore davanti a tanta bellezza. Circondato dalla natura che lo ispira, Corrado Fasolato esercita un lavoro di alto artigianato, di ricerca di prodotti, di innovazione e ricordi, con la sua terra e il Veneto sullo sfondo. Lo chef spiega così il suo impegno professionale: “Il Veneto è la prima regione turistica d’Italia e, per una buona parte dei suoi ospiti (il 33%), la spinta propulsiva verso il Veneto viene dall’enogastronomia e dalla ristorazione che
SPINECHILERESORT
Zabaione
di tabacco con gelatina al rum INGREDIENTI per 4 persone
PROCEDIMENTO
g. 200 di tuorlo, ml. 100 di latte
Mescolare il latte e la panna con i rossi, la vaniglia e lo zucchero,
intero, g. 100 di panna, g. 110 di
porre sul fuoco a bagnomaria e portare il composto ad 85°C°.
zucchero, g. 30 di tabacco per pipa,
Unire il tabacco e lasciare in infusione per circa 15 minuti, filtrare
g. 10 di vaniglia in stecche, g. 200
e versare in un sifone per panna. Inserire due bombolette di gas,
di Rum, ml. 100 di acqua, g. 15 di
sbattere bene e tenere in caldo. Far scaldare il rum con l’acqua e
colla di pesce.
lo zucchero, unire la colla di pesce precedentemente ammollata e porre in frigorifero sino ad indurimento avvenuto. Frullare la
Per la mousse al cioccolato: g. 500
gelatina con il cutter.
di mascarpone, g. 100 di zucchero,
Sciogliere il cioccolato fondente, unire il mascarpone, lo zucchero
g. 100 di polvere di caffè, 3 fogli di
e la colla di pesce e, quando incomincia a solidificarsi, unire la
colla di pesce, 1 stecca di vaniglia,
panna montata. Mettere la mousse in un sac a poche. Porre nel
g. 500 di panna montata.
bicchiere la mousse di cioccolato, la gelatina tritata e coprire con lo zabaione caldo. Spolverizzare con del cacao e servire con dei savoiardi o dei cannoli farciti di panna e rum.
ha saputo esaltare le straordinarie caratteristiche dei tradizionali prodotti agroalimentari del territorio. Il mio sogno era quello di creare un posto, un luogo, un insieme fatto da tante cose: ospitalità, silenzio, panorama, prati e neve, sentieri e alberi, cibo e prodotti coltivati da me, rilanciando il ruolo del “ristorante” come canale di promozione e valorizzazione della cultura alimentare del territorio locale, delle produzioni tipiche, della qualità dei prodotti e dei servizi. Qui ho creato un “gruppo”: mia moglie e i figli, coinvolti nel coltivare e allevare tutto quanto poi viene portato in tavola. La mia è stata una sfida. Dopo anni di città fatte di caos, rumore e inquinamento, corse affannose con l’occhio all’orologio e agli appuntamenti, ho voluto creare un mio progetto: coniugare il piacere del buon cibo con la conoscenza del territorio, in pratica “vivere il territorio” in tutte le sue declinazioni”.
SPINECHILE
Contrà Pacche, 2 36015 Schio (VI)
Tel 04451690107
spinechileresort@tiscali.it
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PIADINERIA IL BIANCOMANGIARE Via Camillo Torres, 208/C Castiglione di Ravenna (RA) Tel. 338.5634633 lorenza-righini@libero.it
PASTICCERIA
LE ARMONIE A CERVIA di
Piadina secondo la tradizione romagnola
e anche di kamut, di farro, integrale, farcita...
in 50 varianti di gusto!
NOVITÀ
Piada VEGetAriaN
Maria Chiara Zucchi
Il maestro pasticciere Mario Lombardo, assieme alla moglie Grazia, ha realizzato una grande pasticceria vicino al centro di Cervia, con un bellissimo giardino e una saletta dedicati a ricevimenti ed eventi. Il lunghissimo banco, oltre ad una vasta scelta di paste per la prima colazione, propone le più svariate tipologie di piccola pasticceria da asporto. Rinomato per la qualità delle torte e dei semifreddi, per Natale propone un’ampia gamma di soffici panettoni e colorati tronchetti natalizi, popolati da funghetti di zucchero e animaletti colorati.
PASTICCERIA LE ARMONIE Via Caduti della Libertà, 45 48015 Cervia (RA) Tel. 0544 978236 - learmonie@aruba.it
M
NDO
chef
MARCHESI SENZA BRANCA Sciame sismico per tutto lo stivale, in questo concitato finale 2015, prima del botto di Champagne del veglione. Cominciando da Milano, dove in primavera tornerà finalmente all’opera Luigi Taglienti in un ristorante tutto suo ma di respiro internazionale, in collaborazione con la società MB America. Intanto Gianluca Branca, chef del ristorante Marchesi e prima ancora dell’Albereta a Erbusco, nella sfera del Gran Lombardo dal 1996, si prepara a eseguire il suo ultimo servizio in Piazza della Scala per intraprendere un’avventura in solitario, fuori dal gruppo. Buona fortuna.
LA LIGURIA SENZA COSTA Ormai è certo: Flavio Costa, chef del 21/9 di Albissola, si trasferisce. “È cosa fatta. Non ci saranno sorprese. Ad accogliermi sarà un’azienda agricola importante, in una struttura nuova completa di camere. Molti pensano che la mia sia una cucina di mare, ma è solo parzialmente vero. Da sempre il mio menu è bipartito, con il pesce e la carne.
CUOCOMERCATO
Anzi cucino la selvaggina più volentieri del resto, forse. Poi continuerò a proporre il mio pesce: siamo in contatto con un’azienda di Genova che si occuperà delle forniture. Compio questo passo a malincuore, perché la Liguria è la mia terra, ma era in programma da anni. Aspettavo solo l’occasione giusta. Purtroppo non vedo spiragli per una regione esclusa dal turismo enogastronomico, le cui rotte convergono invece sulle Langhe”. La ristorazione ligure perde così il suo fuoriclasse, in partenza da Albissola il 21 gennaio; al termine della ristrutturazione dell’area banchetti, l’apertura è prevista per l’inizio di marzo.
FILIPPO APRE A LORENZO Cambio di chef invece da Filippo, indirizzo cult di Pietrasanta, il cui carismatico patron Filippo Felice Di Bartola ha deciso di offrire a Lorenzo Barsotti, già all’opera presso l’omonima trattoria di Marzabotto e il Celler de Can Roca, la sua grande occasione. Per il ristorante, finora impostato su numeri importanti e su una tradizione eseguita con grandi prodotti e giusta tecnica, una svolta verso la creatività. Gli chef attuali, Andrea Gemignani e Fabio Mazzei, resteranno in brigata nelle vesti di secondi.
a cura di Alessandra Meldolesi
“I nostri cavalli di battaglia, come le polpette al sugo e i tordelli, saranno sempre in carta, affiancati da proposte di taglio differente che stiamo studiando e concordando insieme”, commenta Filippo, membro di Noi di Sala, che vuole rilanciare anche il servizio attraverso finiture davanti all’ospite. E Lorenzo chiosa: “Punteremo sulle verdure e sul pesce povero, ma non mancherà qualche ricordo di Marzabotto, per esempio l’uovo a bassa temperatura con la pollastra e il suo succo, sottoposto a lievi aggiustature”.
ULTIMI SPETTACOLI Ciro Pepe, giovane chef allievo di Nino Graziano, dopo 5 mesi di stop in una braceria è tornato nel suo ristorante La Veranda di Misilmeri. Mentre si addensano le nubi su nomi prestigiosi della ristorazione italiana: Filippo Chiappini Dattilo starebbe infatti valutando la chiusura della sua Osteria del Teatro, uno dei locali più importanti dell’Emilia Romagna; e pare ormai certo il divorzio burrascoso fra Enrico Bartolini e il Devero, cui ha regalato tante soddisfazioni. Sipario abbassato, infine, sulle performance alpine di Gianfranco Vissani: la sua esperienza presso il ristorante dell’hotel Bellevue di Cortina si è conclusa dopo due anni.
LA BOTTIGLIA DI MONTIN Corso M. Crawford, 69 80065 S. Agnello (NA) Tel. e Fax +39 081 0200661
www.famiviaggiandtours.com
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La nuova avventura di Gianluca Montin si chiama “La Bottiglia”. Grazie all’imprenditore Marcello Raimondi, nasce un nuovo ristorante in provincia di Padova dedicato ad una cucina raffinata e di cultura. In un ambiente caldo e intimo, si potranno assaggiare le creazioni del giovane e dinamico chef, accompagnate da un’ampia scelta di vini. Una realtà tutta da scoprire.
I ristoranti
on
Trésor
Scopriamo insieme quali sono i locali che racchiudono piccoli grandi tesori...
Ogni ristorante, locanda o trattoria, famosa o meno, può vantare il proprio “Mon Trésor”, un personalissimo tesoro fatto di attenzione per i dettagli, cura dei propri ospiti, professionalità in cucina e in sala. Noi abbiamo individuato alcuni di questi “Mon Trésor” e li segnaliamo nelle prossime pagine...
golavagando montresor di Jerry
Bortolan
DAL 1950
KURSAAL
È MARE A TUTTO TONDO A OSTIA LIDO Ancora oggi, dopo più di mezzo secolo dalla sua creazione, Il Kursaal è lo stabilimento balneare di Ostia, a Castel Fusano, più conosciuto e frequentato nel tempo da vip e star che ne hanno consacrato il successo, con la sua storica e grande ruota colorata che si staglia sullo skyline, dominando la lunga spiaggia: assomiglia un poco al simbolo della pace. Il Kursaal è stato per molti anni il sogno di intere generazioni e, per la sua esclusività, vi si poteva accedere solo se soci o dietro presentazione. Sicuramente, ha segnato uno storico ed euforico momento degli anni 60, quelli dell’inizio del boom economico italiano. In questo contesto, il ristorante del Kursaal – che vanta una straordina-
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Trésor
KURSAAL - Lungomare Lutazio Catullo 40 - Ostia (RM) - Tel. 06.56477093 Sempre aperto a pranzo e cena - www.kursaalvillage.com
ria copertura circolare autoportante a fungo dell’edificio, progettata da Pierluigi Nervi – offre un solido e gustoso percorso gastronomico realizzato da Aureliano, lo chef patron del locale. Grazie alla sua grande esperienza tra i fornelli, Aureliano ci colpisce con una serie di proposte culinarie che abbracciano il repertorio classico, realizzato, però, con superba interpretazione. Lo chef è aiutato da un team di due cuoche d’altri tempi che rispondono ai dettami della sacra cucina tradizionale, apprezzata da tutti i palati, anche se a volte alcuni piatti spingono molto sul fronte delle salse, evidentemente molto gradite a clienti che amano i gusti accentuati. Una cosa va sottolineata: il valore aggiunto di questo ristorante dato dal luminoso e bellissimo spa-
zio che guarda il mare e la ruota del Kursaal, magari in una giornata d’inverno, con un caldo sole, seduti insieme alla famiglia o, più intimamente, con il proprio amore, spiluccando con le mani un fritto di alici, o di moscardini, o testando una infinità di provocazioni come i sorprendenti antipasti, tutti a base di pesce, annaffiati da un profuma-
to sauvignon altoatesino o da uno chardonnay, per poi continuare con un superbo spaghetto all’Aragosta. Si dà un senso al piacere della vita che è quello di godersi il tempo e il cibo. Le proposte, come dicevamo, sono tante, ma tutte ben realizzate e con i tempi giusti. La cantina non è vastissima, ma contiene ottime etichette con i giusti ricarichi.
Il Mon Tresor è... LA SPETTACOLARE TERRAZZA SUL MARE Un luogo magico inondato dalla luce, ideale per apprezzare ancora di più il sapore vero e intenso del pesce fresco, vera attrazione di questo locale.
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golavagando montresor di
Daniele Briani
TRATTORIA
LA GRIGLIA
LA TRADIZIONE DELLA CARNE NEL CENTRO DI VERONA Le tonalità del rosso, che possono virare al giallo/arancione se si tratta del fuoco del grande camino della sala principale, oppure al rosso/amaranto delle pareti che ricordano le sfumature autunnali o quelle scure, quasi nere, dei vini in mescita, avvolgono il commensale in un caldo abbraccio, una volta accomodatosi al tavolo. L’ambiente quasi rustico e sicuramente familiare ben si addice alla cucina casalinga che offre. Nato
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venticinque anni fa nel centro di Verona – siamo veramente a due passi a piedi da piazza Bra dietro l’Arena – da otto anni il ristorante La Griglia è condotto da “Ronny”: giovane chef dalle radici culturali e gastronomiche veronesi, trasferitosi al servizio di sala per amore del cliente, a cui trasmette quotidianamente con innata simpatia la sua passione per il cibo. In particolare per la carne cotta sulla brace, un metodo che ci riallaccia
a sapori antichi quasi primordiali, quando veniva cucinata direttamente a contatto con il fuoco. La provenienza della materia prima è d’indubbia qualità poiché è dal 1856 che il “Mastrocicciao” Secci seleziona carni succulente e prelibate, siano esse di manzo o d’agnello. Nel menù si scelgono varie versioni di filetto e costate o fiorentine con taglio a piacere del cliente, che poi decide con quale vino abbinarle. La carta dei
on
Trésor TRATTORIA LA GRIGLIA Via Leoncino, 29 37121 Verona
Tel. 045 8031212
vini è volutamente sbilanciata verso i rossi veronesi, poiché il territorio offre quanto di meglio sia possibile avere tra i rossi giovani o invecchiati dell’intero panorama enologico nazionale. A chi non fosse amante della carne rimane la scelta degli antipasti o dei primi di pasta fatta in casa e trafilata al bronzo. I bigoli al ragù di Chianina il cui sugo è rigorosamente realizzato con taglio della carne a coltello, le tagliatelle con crema di rucola, pinoli tostati e speck e i tortelloni ripieni di Monte Veronese e noci saltati con funghi porcini, sono solo alcuni esempi di quanto la tradizionale lavorazione fatta in casa può offrire. Anche per i dolci la filosofia è la medesima, per questo terminare il pranzo o la cena con una crostata alle more e mousse al cioccolato, oppure con una variante del classico tiramisù con Nutella e cocco è sicuramente appagante per il palato. Con solo cinquanta posti a sedere divisi su due sale, è sempre gradita la prenotazione sia a pranzo e soprattutto per cena, ma mai di lunedì perché il locale osserva il turno di chiusura. Inoltre da non sottovalutare la sua posizione strategica rispetto all’Arena, giacché nel periodo di concerti e altri eventi canori la cucina apre dalle ore 18,00 per dare la possibilità di cenare prima dello spettacolo, magari in compagnia di qualche vip in procinto di esibirsi.
Il Mon Tresor è... PROPRIO LA GRIGLIA! La cottura alla brace rimane la caratteristica più invitante per questo locale, anche se i primi di pasta fatta in casa rimangono a pari livello. In particolare citiamo la variante del filetto di manzo all’Amarone che invece di seguire la tradizionale cottura in padella, viene cotto sulla griglia e poi servito con una riduzione di Amarone.
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golavagando montresor di
Claudio Mollo
TRATTORIA
DA GHIGO TOSCANITÀ ALLO STATO PURO
Sergio Righetti, in arte “Ghigo”, nasce a Gavorrano in una famiglia di minatori e cresce tra i profumi e i sapori della Maremma, elemento non trascurabile quando si parla di cucina Toscana. Inizia a muoversi tra fornelli e pentole fin da giovane, come autodidatta. Appena raggiunta l’età giusta e maturata la grande passione per il cibo, nel 1989 si lancia nella sua prima attività: un’Enoteca Osteria, a Bagni di Gavorrano. Da qual momento ha inizio un curioso ma proficuo percorso, composto da diverse tappe, tutte nei territori circostanti.
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Percorso che vede crescere sempre più la sua cucina e la sua notorietà, di locale in locale fino a Suvereto - la tappa più importante - che lo consacra a ristoratore di un certo livello. Inizialmente apre l’Osteria dei Tre Briganti quindi, sempre a Suvereto, l’Enoteca dei Difficili e, non contento, anche l’Osteria Il Caminetto, proprio nel centro storico del borgo medievale. Dopo dieci anni di successi “suveretani” sposta ancora i suoi “saperi e sapori” alla Trattoria San Lorenzo, nella località omonima e, dopo altri sei anni, nel 2015 dà vita all’ennesi-
mo ristorante, che stavolta porta il suo nome: La Trattoria da Ghigo, l’attuale locale, che si trova in provincia di Campiglia Marittima ma a soli 5 minuti da Suvereto. Diverse le location e le vicissitudini, tutte gestite però in un tratto di territorio abbastanza contenuto, che da Gavorrano sale in Val di Cornia e campagne limitrofe. La cucina è toscana ed è tutta dedicata ai sapori della tradizione ma non solo, perché a Ghigo piace molto rinfrescare cucinati storici con piacevoli rivisitazioni che alleggeriscono le cotture, rendendole più piacevoli e più attuali. Le stagioni vengono rispettate rigorosamente e, quando è il momento, il menu diventa una vera e propria festa di funghi, castagne, carciofi e tante altre delizie. Tanto per citare due o tre piatti che escono dalla cucina, ci si può imbattere in un coniglio all’etrusca con dragoncello e finocchietto rifinito poi con il Vin Santo, oppure gustarsi delle pappardelle al cinghiale fatte a regola d’arte, vista la vicinanza con Suvereto, borgo nel quale si svolge da oltre 40 anni una seguitissima sagra del cinghiale. E poi ancora, un’arista ripiena di funghi e tartufo, o una tipica acquacotta maremmana, un richiamo di terra natia. Insomma la scelta non manca, in un susseguirsi di sapori e toscanità. Nei territori circostanti la scelta di prodotti coltivati o allevati è ampia
e Ghigo, nelle ore di chiusura del locale, gira molto di azienda in azienda, alla ricerca del buono quotidiano da proporre poi nei suo piatti: carni, formaggi, salumi e altre specialità artigianali reperite sia a Km “0”, che nel resto della Toscana. Anche i vini seguono la stessa sorte e, vista la zona completamente circondata da Doc più o meno blasonate, sono presenti in carta numerose etichette di Bolgheri, Val di Cornia e Monteregio, accanto a vini di altre zone della Toscana e d’Italia. In cucina al fianco di Ghigo c’è Anna Deiola, compagna anche nella vita, che si occupa dei primi piatti e dei dessert e Mathia, figlio maggiore, addetto alla griglia e alla preparazione dei secondi piatti. In sala l’altro figlio, Jacopo, si occupa invece del coordinamento generale e della gestione dei vini.Il locale, ambientato in un antico casolare di campagna molto caratteristico, dispone di un ampio spazio interno con 60 comodi coperti. Nella stagione estiva non manca un dehors esterno, con altri 40 coperti.
TRATTORIA DA GHIGO Via di Casalpiano, 11
57021 Campiglia Marittima (LI) Tel. 0565 845153
on
Trésor Il Mon Tresor è... LA GARANZIA DEL “NOMIGNOLO” “Ghigo”, un nome una garanzia! E’ proprio questo il piccolo tesoro di Sergio Righetti, il nomignolo che lo ha sempre accompagnato nel suo cammino, da un locale all’altro. Un punto fermo per i tanti amici e clienti che lo seguono ormai da tanti anni. “Si va a mangià da Ghigo”, hanno sempre detto i più, nonostante i tanti nomi dati ai locali precedenti! Ora, finalmente, il nome e il personaggio coincidono. Ghigo è sempre stato una certezza in fatto di cucina, ovunque lui fosse, e chi va a trovarlo sa che non rimarrà deluso: quantità, qualità e prezzo tornano sempre e Ghigo non ha mai tradito e continua a non tradire le aspettative di chiunque si fermi alla sua tavola.
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GOURMETFOOD
A BARBARANO VICENTINO
RISTORANTE
AQUA CRUA LA CUCINA CON L’INNOCENZA DI UN BIMBO di
Alessandro Ricci
“La cucina deve spogliarsi dell’inutile per ritrovare la stessa innocenza che il bimbo ha nel raccontare il suo piccolo mondo”. La citazione - di Massimiliano Alajmo - campeggia nella prima pagina del menu di Aqua Crua, il ristorante e piccolo albergo che Giuliano Baldessari (foto a lato) ha inaugurato nell’estate 2013. D’altronde il legame tra i due chef è forte: “Amico e maestro”, dice Giuliano di Alajmo. Baldessari, per dieci anni, ne è stato il braccio destro, fino alla sua prima esperienza con un locale tutto suo. Nel suo curriculum, non solo Calandre, ma anche Aimo e Nadia a Milano, come chef de partie, e poi Francia, alla corte di Marc Veyrat, per due stagioni da demi chef prima all’Auberge de L’Eridan ad Annecy e successivamente a La Ferme de mon Père di Mègeve. Da lì, il lungo periodo con Alajmo.
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AQUACRUA
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A
GOURMETFOOD
E oggi l’avventura appena iniziata in questo stabile antico nel centro di Barbarano Vicentino, alle porte dei Colli Berici, ristrutturato con garbo e raffinatezza. Con lui Simone Poser, classe 1985, come sous-chef, e Mattia Garon, leva 1990, maître e sommelier. Spogliarsi dell’inutile, ritrovare l’innocenza del bimbo, raccontare un mondo. La cucina di Baldessari lo fa. È una cucina divertente, che gioca con le presentazioni e le apparenze. È una cucina essenzialmente leggera: nella mano, nei condimenti, nell’uso parsimonioso dei grassi. E nelle cotture: abolite quelle lunghe – sottovuoto compreso - in privilegio delle cotture espresse. Ha un uso insistito delle erbe e delle spezie, che definiscono molti piatti. Non ha paura di spingersi nel disequilibrio. “Se il gusto salato rappresenta la scoperta della nostra vocazione carnivora, la scoperta del gusto acido allude alla cultura: è acido il gusto della sapienza” scrive Maurizio
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Sentieri, nel suo saggio Perle ai Porci. E l’acido è certamente il gusto più indagato, e ricercato, nella cucina di Baldessari. Il risultato è una cucina in movimento, che cambia spesso, con echi orientali piuttosto netti. All’interno, l’unica sala si dispiega tra la parete di
giardino verticale che la apre e la cucina a vista al suo opposto. Nel mezzo, una sala giocata sul grigio e sul bianco, e su materiali moderni, che contrasta con il legno scuro del parquet. Al piano sotterraneo, c’è una cantina fornita. Il menu è ridotto - una dozzina di portate in tutto – e “costringe” alla degustazione (6 piatti, a 70 euro, con abbinamento vini a 110), che carbura con il “trespolo” di benvenuto: un tris di assaggi che si apre col nitidissimo e fanciullesco spaghetto fritto con salsa fresca al pomodoro e ricotta fatta in casa, e procede con il taco di grano saraceno con maionese all’albume e battuta di carne piemontese e il patè rochè con cuore croccante al curry. Il “sembra pasta” è un fuoripista che gioca con l’illusione: in realtà sono ditalini di cavolo rapa accompagnati da un concentratissimo ragù di coniglio al coltello. La capasanta lardellata con guanciale su salsa tonnata con orzo Santoleri e levistico evidenzia l’uso delle erbe e delle spezie, ma anche dei legumi come elemento di sapidità nei piatti. L’illusione, ossia una mozzarella filata in casa, che nasconde un cuore di succo di pomodoro fresco, accompagnata da capperi di Pantelleria ed extravergine è il piatto che Baldessari ha presentato, con successo, nell’ultima edizione de Le
RISTORANTEAQUACRUA
Il trespolo INGREDIENTI Per lo spaghetto g. 30 di spaghetti, g. 50 di pomodorini disidratati, g. 250 di pomodoro passata concentrato in pentola, g. 150 di olio di vinacciolo, sale, succo d’uva, olio d’oliva. Cuocere gli spaghetti per 25 minuti in acqua poco salata. Scolarli e arrotolarli su loro stessi formando dei nidi. Seccarli in forno a 60°C su Silpat fino a renderli traslucidi. Lasciarli riposare una notte. Friggerli successivamente in olio: soffieranno. Per la salsa: emulsionare i pomodorini disidratati e la passata concentrata con l’olio e aggiustare di sapore. Condire ogni nido con un ciuffo di salsa di pomodoro. Per la verza fermentata g. 20 di verza fermentata, g. 5,5 di crema di mandorla, g. 4 di miso, g. 1,2 di aceto bianco di vino, g. 1 di olio, g. 2 di succo d’uva. Per fermentare la verza: affettare in affettatrice il cappuccio, metterlo sottovuoto con una manciata di sale grosso per una notte. Scolare il liquido in eccesso e mettere tutto in marinatura (6 grammi di sale per ogni litro di acqua). Lasciar fermentare a 18°C. Controllare il pH giornalmente con cartine al tornasole e travasare l’acqua per far prendere ossigeno al cappuccio. Il pH deve restare fra i 2,5 e 4. Composizione: prendere una pallina di grissino aromatizzato al curry, ricoprire con la verza, in modo da formare una pallina, più grande. Decorare con semi di sesamo nero. Per il barbone 1 barbone diviso in 4, g. 20 di farina, 1 uovo, g. 20 di pane grattugiato, g. 50 di olio di vinacciolo, burro chiarificato. Rassodare l’uovo in acqua. Raffreddare, pelare ed estrarre il bianco. Frullarlo con il minipimer aggiungendo 50 grammi di olio di vinacciolo e poco sale, aggiustando di sapore. Friggere il barbone impanato con la farina in burro chiarificato e guarnire con uno spuntone di maionese d’albume d’uovo.
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GOURMETFOOD
Strade della Mozzarella. È un piatto iconico, mediterraneo ed immediato, che trafigge il palato e accarezza papille e ricordi. L’oriente occhieggia nel carpaccio di fassona piemontese accompagnato da salsa teriyaki maoionese di pistacchio all’acqua e astice crudo, quanto nei buoni tagliolini di grano saraceno con doppio consommé di Katsuobushi, lemon grass, aneto, ceci germinati, nocciole e zenzero: ricchi di sapidità e note piccanti. Più monocorde il risotto mantecato con nocino del Vesuvio e succo d’arancia, servito con spirulina, artemisia e tartufo umbro. Ma se c’è un piatto che racconta meglio di altri la filosofia di Baldessarri è la ricciola marinata nell’acqua di mare e servita con tamarindo, paprika affumicata, liquirizia, pane fritto e finocchietto selvatico. Proposta fredda, riesce a fondere nella complessità degli
Colombaccio INGREDIENTI 1 colombaccio g. 100 di carote g. 100 di cipolle g. 100 di sedano g. 80 di olio extravergine d’oliva g. 70 di passata di pomodoro g. 40 di Porto g. 40 di Marsala g. 40 di vino rosso g. 500 di ghiaccio l. 2 di acqua 3 grani pepe 3 chiodi di garofano PREPARAZIONE Spennare il colombaccio, eviscerarlo, ripulirlo e mettere a cuocere i durelli in un pentolino per 4-5 ore. Togliere le cosce, condirle e porle a cuocere sottovuoto a 68°C per 10 ore circa. Scottare il petto in pentola sulla carcassa e cuocerlo a bassa temperatura a 140°C per 7 minuti. Far riposare. Successivamente togliere i petti, tagliare la carcassa e rosolarla in pentola con poco olio, e le verdure. Deglassare le padelle con il porto, il marsala e il vino rosso e lasciar sfumare. Aggiungere ghiaccio e coprire con acqua dopo aver aggiunto il pomodoro. Far cuocere sino a raggiungere il peso di 250 grammi. Filtrare il tutto e immergervi i petti. Scalopparli e servirli con la coscia, il filetto e il durello condito con la salsa. Servire subito.
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RISTORANTEAQUACRUA
Carrè di agnello
INGREDIENTI Per il carrè di agnello g. 140 di carrè di agnello italiano Condire con olio e sale, rosolare in
aromi Asia e Mediterraneo, senza perdere la via della piacevolezza. Gran piatto. La leggerezza complessiva non si perde nemmeno lungo la china dolce del menu, che comincia col freschissimo sorbetto di gin&tonic, rucola, menta variegata, zafferano ed argilla ventilata. Anche lo strudel rimane fresco: è una crema alla vaniglia con ristretto di limone,
uva passa intinta nella grappa, polvere di cannella, grano arso e filamenti di mela San Giovanni. Indovinati gli abbinamenti al bicchiere. La cantina, d’altronde, ha la giusta ampiezza per concedere divertimento. È una sosta davvero piacevole, che non scende di tono se si decide di pernottare in una delle cinque camere a disposizione.
padella e cuocere in forno per otto minuti a 160°C. Far riposare 20 minuti a 60°C. Laccare con un caramello aromatizzato con zenzero e melissa e avvolgere in pane aromatizzato al sedano di montagna. Tagliare in due costine.
AQUA CRUA
Via 4 Novembre, 25 Barbarano
Vicentino (VI)
Tel. 0444.776096 www.aquacrua.it
Per la crema di melanzane g. 1200 di melanzane crude g. 12 di tahina (crema di sesamo) g. 20 olio extravergine d’oliva sciroppo d’uva a piacere g. 4 di olio aromatizzato all’aglio raspatura di limone sale affumicato Privare le melanzane della buccia, tagliarle a metà e cuocerle al microonde coperte in un contenitore di plastica per cinque minuti alla massima potenza. Scolarle e frullarle al Bimby con gli altri ingredienti. Aggiustare di sapore con sale affumicato ed eventualmente con poco sciroppo d’uva.
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GOURMETFOOD
IL NUOVO VOLTO DI
CASA COPPELLE A FIRMA DELL’ARCHITETTO FRANCESE JACQUES GARCIA di
Gianni Di Lorenzo
In occasione dell’inaugurazione avvenuta alcuni mesi fa, i coniugi Omar e Rachelle Capparuccini hanno organizzato una serata in onore dell’architetto francese Jacques Garcia, che per loro ha curato il progetto di design per il restyling di Casa Coppelle, uno scrigno pieno di charme nella suggestiva piazza Coppelle, nel centro di Roma. Jacques Garcia, dopo aver raggiunto la celebrità grazie a innumerevoli lavori di prestigio internazionale - autore del rinnovo
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dell’Hotel La Mamounia a Marrakech e dell’Hôtel Majestic Barrière di Cannes, ideatore de L’Hôtel e dell’Hôtel Costes di Parigi, ma anche di The NoMad Hotel di New York e recentemente del rinnovo di 35 sale del Louvre di Parigi - approda per la prima volta a Roma, travolto dalla passione e dall’entusiasmo dei proprietari di Casa Coppelle. L’architetto ha sapientemente ricreato i tratti tipici di un club privato inglese inizio ‘900, dove elementi architettonici e decorativi giocano creando
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insolite prospettive. Dal salone centrale si sviluppano stanze con caratteristiche differenti, accomunate da un’unica accogliente atmosfera che ne costituisce il fil-rouge. Il locale, caldo e raffinato, è oggi una perfetta sintesi di opulenza e intimità, con elementi squisitamente anacronistici e un gusto quasi teatrale dell’accoglienza. Tutti i colori, le luci e i materiali utilizzati - segno tangibile del timbro di Garcia che cura ogni dettaglio - contribuiscono a spalancare i sensi e a far vivere agli ospiti un’esperienza gastronomica raffinata e rassicurante. Il tesoro nascosto di Casa Coppelle è il cocktail bar, che si trova alla fine della lunga sala di ingresso: le tende di seta verde che lo separano dai tavoli del ristorante, ricordando delle quinte teatrali, ne fanno uno spazio raffinato e confidenziale genere speakeasy.
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GOURMETFOOD
Risotto cacio & pepe con gamberi INGREDIENTI g. 320 di riso Carnaroli, 12 gamberi, g. 175 di pecorino romano, l. 2 di brodo di pesce, g. 80 di burro, pepe nero q.b., ml. 175 di vino bianco, 4 ciuffi di cerfoglio, g. 100 di sedano, g. 100 di cipolle, g. 100 di carote. PREPARAZIONE Pulire i gamberi e separare la coda dalla testa, togliendo anche il guscio della coda. Mettere le teste in una pentola insieme alle verdure tagliate piccole e aggiungere: l. 3 d’acqua e ml. 100 di vino. Portare tutto a ebollizione e cuocere per 30minuti e filtrare. Mettere in una casseruola una parte del burro e un cucchiaio di olio extravergine. Scaldare la casseruola e aggiungere il riso, tostarlo e bagnatelo con il restante vino bianco e far evaporare. Cuocere con il brodo di pesce. A cottura del riso, mantecare con pecorino grattato, burro e pepe nero. Decorare con le code, in precedenza scottate in padella, e con il cerfoglio.
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Qui si possono assaggiare signature cocktails elaborati solo per Casa Coppelle come ‘Faby Kiss’, ‘Maria Antonietta’, ‘Portami ai Caraibi’ e il ‘Mojito’ all’eucalipto o alla fragola. La maison Krug ha assegnato a Casa Coppelle il titolo di Krug Ambassade e ha inserito il ristorante, eccezionalmente, all’interno della propria selezione di ristoranti stellati. Punto di partenza del progetto di rinnovamento di Casa Coppelle è Emiliano Pascucci, sous chef de La Pergola del Rome Cavalieri, tre stelle Michelin, da quasi vent’anni al fianco di Heinz Beck. È stato lui a guidare il cambiamento, a dettare le nuove voci del menù e a individuare i professionisti migliori da integrare nella squadra. Arriva così a Casa Coppelle, alla fine del 2013, il quarantunenne Fabio Rossi, oggi saldamente alla guida della cucina con il ruolo di executive chef e legato ad Emiliano Pascucci da una profonda amicizia che dura da anni,
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e da una grande stima reciproca. Il connubio dei due chef si è rivelato vincente e ha dato una direzione nuova e consistente alla linea culinaria, in continuità con la storia e la tradizione di Casa Coppelle, un luogo molto amato dai romani e intenditori della buona cucina ma non solo. In carta, tra gi antipasti, la tartare di gamberi rossi su crema di mais e cialda al cacao amaro; sandwich di foie gras, mele e mandorle, tra i primi, mezzelune di patate e pecorino su salsa di centopelli; paccheri freschi all’Amatriciana, tra i secondi, filetto di manzo affumicato su salsa di whisky torbato; filetto di dentice in carta fata ai profumi del Mediterraneo.
RISTORANTE CASA COPPELLE
Piazza delle Coppelle, 49 - 00186 Roma Tel. 06 68891707
www.casacoppelle.com
ristorante@casacoppelle.it
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PRODOTTI ECCELLENTI
RISTORANTE ANDREINA
Via Buffolareccia, 14 - 60025 Loreto (AN) Tel. 071 970124 - Fax 071 7501051 www.ristoranteandreina.it info@ristoranteandreina.it
ERRICO
RECANATI INTERPRETA
Oltre cinquant’anni e non sentirli. A distanza di più di mezzo secolo Errico Recanati indossa con elegante disinvoltura l’eredità professionale che nonna Andreina, la regina dello spiedo, gli ha lasciato e che lui ha saputo amplificare ottenendo la stella Michelin a poco meno di trent’anni, nel 2012. Nessuno strappo o forzatura nel passaggio tra un passato classico e tradizionale ad un presente più fre-
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foto di
Niko Boi
sco ed intrigante: il giovane chef ha semplicemente proseguito nel segno della continuità il cammino già iniziato da bambino nel ristorante di famiglia, enfatizzando proprio il punto di forza che aveva reso famoso il locale: spiedo, brace e cacciagione sono ancora il marchio identitario della sua cucina, oggi più vicina al mare marchigiano e arricchita da una variegata gamma cromatica e aromatica.
Scrigni ai funghi porcini
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quaglia arrostita e aria di prezzemolo INGREDIENTI per 4 persone
PROCEDIMENTO
Cuocerli a bassa temperatura a 63°C per 20
12 Scrigni ai Funghi Porcini
Per l’aria di prezzemolo
minuti. Condire le cosce della quaglia con
DIVINE CREAZIONI SURGITAL
Frullare il prezzemolo con l’aiuto dell’acqua
olio, sale e rosmarino.
2 quaglie
fino ad ottenere un composto verde.
Cuocere gli Scrigni in acqua bollente salata
4 fette di goletta
Filtrare aggiungendo la lecitina di soia ed
e passarli velocemente nel fondo di quaglia.
g. 300 di prezzemolo
ottenere l’aria.
Nel frattempo arrostire in pentola il petto e le coscette delle quaglie.
g. 150 di acqua gassata g. 7 di lecitina di soia
Disossare le 2 quaglie. Battere i petti, farcirli
Impiattare alternando gli Scrigni ai Funghi
sale e pepe q.b.
con la goletta tagliata a listarelle
Porcini con il petto di quaglia e con le cosce e
olio extravergine d’oliva q.b.
e chiuderli a cilindro.
rifinire, sopra, con l’aria di prezzemolo.
g. 100 di fondo di quaglia
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PRODOTTI ECCELLENTI
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Panciotti
con cappesante e gamberi dei Mari del Nord con ragĂš di pollo in potacchio e fiori eduli INGREDIENTI per 4 persone
PROCEDIMENTO
Una volta cotto, disossare il pollo e tagliare a
16 Panciotti con Cappesante
Preparare un fondo di olio nel quale viene to-
cubetti la polpa.
e Gamberi dei Mari del Nord
stato il pollo. A tostatura effettuata, sfumare
In abbondante acqua salata cuocere i Pan-
DIVINE CREAZIONI SURGITAL
con il vino bianco, aggiungere il rosmarino e
ciotti con Cappesante e Gamberi dei Mari
1/2 pollo allevato a terra
l’aglio; aggiustare di sale e pepe ed aggiunge-
del Nord. Scolarli e dividere parte del fondo
g. 150 di pomodoro datterino
re il pomodoro.
ottenuto per saltarci i Panciotti. Saltarli dun-
1/2 bicchiere di vino bianco
Lasciar cuocere il tutto per alcuni minuti ed
que nel fondo di cottura e aggiungere i pezzi
l. 1 di brodo vegetale
unire, man mano, il brodo vegetale fino a
tagliati a dado. Impiattare con l’aggiunta dei
olio q.b.
completa cottura del pollo.
fiori eduli.
sale e pepe q.b. aglio e rosmarino q.b.
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PRODOTTI ECCELLENTI
Bauletti con ricotta di pecora e pistacchi di Sicilia
con coulis di lamponi e salsa di burrata INGREDIENTI per 4 persone 16 Bauletti con Ricotta di Pecora e Pistacchi di Sicilia DIVINE CREAZIONI SURGITAL g. 200 di lamponi g. 200 di salsa di burrata g. 100 di pasta di pistacchio 8 lamponi freschi g. 100 di farina di pistacchi g. 100 di sciroppo di zucchero g. 6 di Xantana PROCEDIMENTO Per la coulis di lampone Frullare insieme i lamponi freschi e lo sciroppo di zucchero. Passare il composto ottenuto e legarlo con 3 grammi di Xantana. Per la salsa di burrata Frullare la burrata, setacciarla e legarla con 3 grammi di Xantana. Cuocere i Bauletti con Ricotta di Pecora e Pistacchi di Sicilia in acqua bollente salata. Nel frattempo pennellare il fondo del piatto con la pasta di pistacchio. Scolare i Bauletti, appoggiarli sopra il fondo di pistacchio e coprirli con la coulis di lampone e la salsa di burrata. Con due lamponi freschi tagliati insieme alla farina di pistacchio completare la decorazione dei Bauletti.
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Quadrelli
con chianina e cardoncelli
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leggera salsa di pecorino di fossa e alga nori INGREDIENTI per 4 persone 12 Quadrelli con Chianina e Cardoncelli DIVINE CREAZIONI SURGITAL g. 250 di culaccia di Chianina (parte del posteriore) g. 200 di pecorino di fossa g. 300 di brodo vegetale 1 limone non trattato sale e pepe q.b. aceto di mela q.b. 2 fogli di alga nori g . 3 di Xantana PROCEDIMENTO Per la salsa di pecorino di fossa Portare il brodo a 40°C. Inserirlo, col pecorino di fossa ed una grattata di scorza di limone, nel frullatore: frullare il tutto. Passare il composto al colino e legarlo con la Xantana; riporlo in frigo. Battere al coltello la Chianina, condirla con olio, sale, pepe ed alcune gocce di aceto di mela. Cuocere i Quadrelli con Chianina e Cardoncelli e, caldi, adagiarli sopra l’alga nori. Sopra i Quadrelli disporre la Chianina battuta. Nappare il piatto con la salsa di pecorino di fossa ed alcune scaglie di pecorino di fossa.
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PRODOTTI ECCELLENTI
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Balanzoni
con ricotta e prezzemolo con burro di gamberi, gambero crudo e sfere di erbe di campo INGREDIENTI per 4 persone
Per il gambero crudo
32 Balanzoni con Ricotta e Prezzemolo
Privare i gamberi dei loro carapaci. Battere i
DIVINE CREAZIONI SURGITAL
gamberi al coltello grossolanamente e con-
16 gamberi
dirli con olio, sale e pepe. Metterli in frigo.
g. 500 di erbe di campo cotte g. 4 di agar-agar
Per le perle di erbe di campo
sale e pepe q.b.
Frullare le erbe di campo cotte e passarle in
olio extravergine d’oliva q.b.
una etamina per ottenere l’acqua verde. Ag-
1 limone
giustare di sale e pepe. Ogni 100 grammi di
g. 400 di punte di erbe di campo
acqua di erbe di campo aggiungere 1,5 gram-
g. 200 di burro
mi di agar-agar. Con l’aiuto di una siringa rica-
aceto di lampone q.b.
vare le perle di erbe di campo sull’acqua fredda. Scolare le perle dall’acqua e riporle in frigo.
PROCEDIMENTO Per il burro di gamberi Pulire i gamberi. Prendere le teste e spadel-
Cuocere i Balanzoni con Ricotta e Prezzemolo in acqua bollente salata, scolarli e napparli
larle velocemente con sale e pepe bianco. Col
col burro di gamberi.
frullatore amalgamarle al burro. Setacciando
Aggiungere i gamberi crudi, le perle di erbe
il composto ottenuto si ottiene il burro da
di campo e le puntine di erbe di campo con-
tenere in frigo.
dite con olio, sale e aceto di lamponi.
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GOURMETFOOD
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SCHLOSS ELMAU UN FIDELIO TUTTO ITALIANO DIRETTO DA UMBERTO GORIZIA di
Claudio Mollo
Schloss Elmau, Luxury Spa, Retreat & Cultural Hideaway, si trova a 100 chilometri a sud di Monaco di Baviera, ai piedi dei monti del Wetterstein, fra Garmisch e Mittenwald, e a 1.000 metri sopra il livello del mare. Con un’architettura esteticamente esigente, ambienti inondati di luce calda naturale e uno stile sottilmente influenzato da note asiatiche, è incastonato in una delle più belle valli delle Alpi.
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Costruito nel 1916 dal filosofo Johannes Müller come luogo di incontro culturale, nel 2005 fu raso al suolo da un incendio e poi ricostruito dal nipote Dietmar Müller-Elmau, attuale proprietario. Nel 2007 riaprì come Luxury Spa & Cultural Hideaway con l’affiliazione a Leading Hotels of the World e, da allora, Schloss Elmau è considerato uno dei migliori alberghi al mondo.
SCHLOSSELMAU
Questo prezioso indirizzo è molto amato da chi cerca un ambiente rilassante e ricco di charme. Un programma offerto agli ospiti include oltre 200 concerti l’anno, letture, rappresentazioni cinematografiche ed eventi con importanti nomi della scena culturale contemporanea. All’interno di Schloss Elmau, ci sono anche tre biblioteche e una grande libreria con letteratura mondiale per adulti e bambini. Una meta turistica ambita soprattutto dagli amanti della montagna e degli sport invernali, vista la sua vicinanza ai 200 chilometri di piste e sentieri fra Garmisch e Seefeld, sui quali praticare varie discipline, oltre allo sci alpino, su vette che raggiungono i 3000 metri di altitudine. E in questa enorme macchina dedicata all’accoglienza di pregio, in questo santuario del “bien vivre”, è molto interessante vedere quanto il cibo sia anch’esso un grande protagonista. Diverse e intriganti le esperienze gastronomiche, a
iniziare dalla colazione a buffet del mattino, fatta nel “La Salle” (foto sopra), il ristorante più grande dell’intera struttura che poi si riattiva soltanto dopo le 18.00 con menu a base di pesce, carne, asian wok, ricette vegane e vegetariane. Molti i piatti preparati live in una cucina a vista. La colazione di mezzogiorno, invece, si può fare presso il Wintergarden, elegante bistrot internazionale: pochi coperti con vista panoramica sul Wetterstein. Per chi invece è alla ricerca di una serata gourmet, il ristorante “Luce d’Oro”, con la sua stella Michelin, propone un’idea squisita di haute cuisine franco-tedesca, a cura dello chef Mario Paecke. Ambiente con colori caldi sgargianti, sfumature di giallo e un camino scoppiettante: una cornice d’indubbio fascino, elegante, con menu ben cesellati e armoniosi. Di recente l’offerta culinaria si è arricchita ulteriormente con i ristoranti di Schloss Elmau Retreat: il cosmopolita “Tutto Mondo” con specialità dell’intero ba-
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GOURMETFOOD
cino del Mediterraneo e il Summit/High Thai, dove si propone l’autentica cucina tailandese con eccellenze ogni giorno diverse. Tra una tipologia di cucina e l’altra, non poteva certo mancare quella italiana, vera, autentica, dove niente viene interpretato o riadattato. Un’ottima cucina d’autore, che si può degustare tutte le sere nel ristorante “Fidelio”, altra fascinosa location del castello, intitolata ad una famosa opera di Beethoven. Anche in questo caso, l’ambiente, impreziosito dal legno, è accompagnato dalle tonalità calde dei lunghi drappi di tessuto colorato che, scendendo dal soffitto, decorano e arricchiscono l’ambiente, rendendolo ancora più suggestivo e accogliente. Colori, forme e giochi di luce che rispecchiano in pieno la cucina dello chef, Umberto Gorizia (foto sotto), originario di Castellana Grotte, una piccola cittadina della Valle d’Itria, in Puglia. Dopo l’Istituto Alberghiero, le prime esperienze presso alcune strutture della zona, un meritato premio ricevuto da una guida come “miglior chef di Puglia” seguono gli otto anni presso il Colombaio di Casole d’Elsa dove ha potuto affinare
e sviluppare la sua filosofia di cucina, fino al prestigioso riconoscimento della Stella Michelin, che ha mantenuto per alcuni anni, prima di salutare la campagna senese e approdare allo storico Grand Hotel delle Terme di Castrocaro. Ma la voglia di nuove e impegnative esperienze tra gli chef è sempre in agguato, e così, dopo un costruttiva esperienza presso il Grand Hotel, la decisione di attraversare la frontiera, approdando a Schloss Elmau. Legato a doppio filo con le sue radici, con la sua terra, con i profumi della cucina mediterranea e i prodotti di eccellenza, Umberto, propone una cucina rappresentativa un po’ di tutta l’Italia. La tecnica si abbina felicemente alla fantasia e una mano precisa
e virtuosa realizza piatti ricchi di sapore ed equilibrio, indifferentemente a base di pesce, carne e verdure. Oltre alla sua terra di origine, lo chef conosce molto bene anche le terre di Toscana e questo nei piatti si percepisce molto chiaramente. Un valore aggiunto non indifferente quello di lavorare e trasformare i prodotti, rigorosamente stagionali, di due capisaldi agroalimentari come Puglia e Toscana. Non manca il tocco “internazionale” che è presentato con eleganza, senza azzardi, senza timore di snaturare le ricette. Stessa sorte per una carta dei vini, ben nutrita ed organizzata, rappresentativa del nostro paese da nord a sud, dove oltre ai “soliti nomi noti” sono presenti nuove e interessanti etichette, aziende debuttanti,
SCHLOSSELMAU
Spaghetti
al nero di seppia, gamberoni e burrata INGREDIENTI g. 400 di farina “0” g. 100 di semola rimacinata di grano duro 10 tuorli g. 10 di nero di seppia kg. 1 di gamberoni interi cipolla vino bianco g. 200 di salsa di pomodoro prezzemolo g. 200 di pomodorini datterino olio d’oliva 2 spicchi d’aglio 2 burrate
PROCEDIMENTO Impastare le farine con i tuorli e il nero di seppia; lavorare la pasta per 10 minuti circa. Coprire e lasciar riposare in frigorifero per 20 minuti circa. Stendere la pasta con un mattarello o una macchina per la pasta fino allo spessore di 2 millimetri, quindi lasciare riposare per una decina di minuti affinché si asciughi un po’ e poi tagliare la pasta con l´ausilio del rullo per spaghetti. Riporre in frigorifero i nidi già porzionati. Soffriggere con olio in una pentola capiente le teste dei gamberi. Aggiungere la cipolla, l’aglio, il prezzemolo, dopo qualche minuto il pomodoro e il vino; far evaporare leggermente e coprire con dell´acqua fredda che verrà ridotta di 2/3 a fuoco molto basso. Alla fine passare il tutto. In una padella soffriggere i pomodorini tagliati in quattro, versare sul fondo di gamberi, aggiustare di sale, quindi cuocere gli spaghetti e, a metà cottura, scolarli e finirli di cuocere nel sughetto di gamberi. Disporre sugli spaghetti la polpa dei gamberoni tagliata a pezzi e saltare con il pepe, il prezzemolo tritato e olio d’oliva a crudo. Disporre il nido sul piatto e adagiarvi sopra il ripieno della burrata.
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GOURMETFOOD
Risotto “Artemide” uovo e zenzero INGREDIENTI
scalogno in 50 grammi di burro,
g. 370 di riso “Artemide“, cl. 50 di
quindi tostare leggermente
vino rosso, 1 scalogno, l. 2 di bro-
il riso e bagnarlo con
do vegetale, g. 200 di burro, g. 100
il vino. Ad evapo-
di parmigiano reggiano 30 mesi
razione avve-
grattugiato, 4 tuorli d’uovo, pan-
nuta, con-
grattato q.b., g. 50 di zucchero,
tinuare
1 limone, g. 100 di zenzero, g. 20
per 35
di miele.
minuti a cuo-
PROCEDIMENTO
cere
Pulire lo zenzero e tagliarlo a ju-
il riso
lienne. Unire lo zucchero, il mie-
aggiun-
le, scorza e succo di un limone;
gendo,
mescolare, unire lo zenzero e
pian
lasciar marinare per una notte.
nino, il brodo
All´indomani far cuocere il tutto
vegetale; salarlo e
per 20 minuti ca. a fuoco basso,
peparlo. A cottura ultimata,
quindi far raffreddare. Coprire i
mantecarlo con il resto del bur-
tuorli d´uovo con del pane grat-
ro e il parmigiano e far riposare
tugiato e far riposare per qual-
5 minuti. Infine mettere il riso
che ora in frigorifero, dopodiché
in un piatto, adagiarvi l’uovo,
friggere in olio caldo qualche
quindi mettere un po’ di scirop-
minuto prima di servire il riso,
po di zenzero ed anche qualche
prestando attenzione a lasciare
pezzo. Decorare con qualche er-
il cuore liquido. Imbiondire lo
betta.
pia-
tutte di ottimo valore, che danno vita ad una vasta gamma di abbinamenti con i quali c’è da sbizzarrirsi. Antonio Tomassino, direttore di sala nonché abilissimo sommelier, dirige con cordialità e competenza uno staff giovane e affiatato in grado di offrire piacevoli momenti di relax gastronomico. Lui è la vera anima della sala, lui firma l’accoglienza del Fidelio; ad Antonio si deve l’altra metà del grande successo di questo ristorante che, col bellissimo lavoro fatto in cucina da Umberto, completa un’offerta gastronomica davvero invidiabile. Cucina italiana e accoglienza d’auto-
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re, per un pubblico quasi esclusivamente straniero, esigente, in cerca di emozioni da vivere a tavola. Attenzioni e pregi che hanno portato il Fidelio ad un solo punto in meno dallo stellato Luce d’Oro, (15), sulla notissima guida Gault&Millau. Un enorme gruppo di professionisti per attivare, una macchina che non si può permettere sbagli o defezioni, coordinata da due figure di spicco dell’intero complesso: Mario Corti e Christian Scheler (foto a sinistra), il primo direttore generale della ristorazione e l’altro al coordinamento delle attività ristorative dell’intero complesso ricettivo.
SCHLOSSELMAU
Vitello tonnato Schloss Elmau INGREDIENTI g. 400 di tonno rosso fresco, 1 arancia, g. 30 di zucchero di canna, g. 20 di sale grosso, g. 20 di miele, menta fresca, 1 filetto di vitello intero, rosmarino, timo e salvia, 1 tuorlo d’uovo, g. 100 di olio di semi, g. 100 di olio d´oliva, 1 limone, g. 100 di tonno sott’olio, 10 capperi sotto sale, 2 acciughe sotto sale, pepe. PROCEDIMENTO Spremere il succo dell´arancia, unire lo zucchero, il sale ed il miele quindi qualche foglia di menta su cui adagiare il tonno. Lasciarlo marinare per 6 ore ricordandosi di girarlo nella marinatura ogni tanto (quando è possibile, possiamo marinarlo avvalendoci di un sottovuoto). A marinatura ultimata, lavarlo dalla marinatura, tagliarlo a cubetti e condirlo con olio aromatizzato alla menta. Soffriggere il filetto intero, aggiungere il rosmarino, il timo e la salvia e far cuocere in forno a 160 gradi con una sonda fino a farlo arrivare alla temperatura di 55°C al cuore. Lasciarlo raffreddare, poi tagliarlo a fettine sottili e marinarlo con un po’ di olio d´oliva, sale, pepe ed erbette fresche. Preparare una maionese con il tuorlo, i due olii, quindi spruzzare qualche goccia di limone e mixarla con il tonno sott´olio, i capperi, le acciughe, fino a farla diventare una salsa cremosa. Disporre la salsa sul piatto, i cubi di tonno, il vitello e decorare il tutto con capperi, foglie di bietola ed erbette.
SCHLOSS ELMAU In Elmau, 2 - 82493 Krün Germania Tel. +49 8823 180 www.schloss-elmau.de
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GOURMETFOOD
A FIRENZE IN PIAZZA SANTA MARIA NOVELLA
VINCANTO QUANDO COSE, EMOZIONI, ESPERIENZE, SAPORI COMPONGONO IL RACCONTO DI UNA VITA di
Cristina Vannuzzi - foto di Tseregkouni Iliana
Firenze è una città che ti sorprende sempre, piena com’è di posti dalla bellezza strepitosa. Dalla Stazione di Santa Maria Novella, punto nevralgico della città, dal pulsare di vita frenetica con 160 mila frequentatori giornalieri e 59 milioni l’anno, si passa alla vicina Piazza omonima, punto di riferimento per fiorentini e stranieri, diventata, con la recente pedonalizzazione, un’oasi di silenzio con, nel mezzo di un prato verde, una delle più belle chiese d’Italia, fatta di tanti marmi, bianchi e verdi, considerata fra le opere più importanti del Rinascimento fiorentino, ‘la mia sposa’ come la chiamava Michelangelo,
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con i suoi i mille tesori di Masaccio, Vasari, Filippo Lippi, Giotto, Brunelleschi, il Ghirlandaio… Ubicata proprio sulla piazza, vi è anche la trattoria “Vincanto”, facciavista, travi sbianchettate, portefinestre con scorcio della chiesa. Il proprietario Giovanni Caso, proveniente da Vimercate, università a Siena, esperto sommelier, un curriculum di tutto rispetto per avere prestato attività professionale in Italia e all’estero, realizzando locali come il Twiga di Marina di Pietrasanta, il Billionaire di Porto Cervo e locali a Miami, da cui ha appreso il senso dell’ospitalità e dell’accoglienza.
VINCANTO
A lui chiediamo a quale filosofia si ispira per la gestione del suo locale. “Raccomando al mio chef piatti della tradizione, piatti che, ricordo, cucinava la mia nonna, e che sono sempre attuali; ho messo a disposizione tutto quello che ho appreso in tutti questi anni, ricordi di personaggi e manager che ho avvicinato e per i quali ho lavorato, come Flavio Briatore. Sono stato a lavorare anche a Miami e mi sono fatto una convinzione: tutto il mondo vuole l’Italia, i suoi prodotti, e vuole apprendere la nostra storia e la nostra cultura attraverso la nostra cucina e i nostri magnifici vini”. Quali ricordi ha dei suoi clienti vip? Ho lavorato tanti anni nei locali di Flavio Briatore, grande manager e ottimo padrone di casa. Le sue feste al Billionaire erano da sogno: lusso sfrenato, impensabile. Gli ospiti erano manager e imprenditori da tutto il mondo: Bernie Eccleston, Fernando Alonso, Roman Abramovic, Silvio Berlusconi, sceicchi arabi, cantanti, attori, calciatori… Poi i compleanni, in particolare tutti gli anni quello di Grousi, il marito di Caroline Scheufele, proprietaria di Chopard: ogni anno un colore diverso a tema, un locale intero, compreso il personale, che ogni anno diventava d’oro, e poi verde, e poi l’anno dopo tutto bianco. Penso anche di avere visto le donne più belle del mondo e gioielli esagerati; non ho mai visto tanti Magnum di Cristal aperti tutti insieme in una sera! Quando ci ripenso, durante la mia giornata, diciamo, normale, di manager che corre dalla mattina alla sera, mi dico che, forse, tutto questo mondo l’ho sognato! Quale tipo di cucina offre ai suoi ospiti? Prima di tutto grandi vini: ho una cantina di 130 etichette, italiane e francesi, poi la tavola, l’accurata mise en place, la sala con mille candele per creare un’atmosfera suggestiva, particolare;
il personale rigorosamente bilingue (e ora, a Firenze, dobbiamo avere il personale che parla anche cinese e russo), e poi il food, piatti toscani e internazionali, la nostra chianina, le aragoste che mi arrivano appena pescate dal Tirreno, i formaggi francesi, i dolci rigorosamente fatti in casa, ricordo di antiche ricette della nonna. Diciamo che la mia cucina è ancorata al passato ma proiettata al futuro.
Tagliatella allo zafferano con straccetti di vitello e ricotta affumicata
Preparare la pasta fresca aggiungendo semplicemente all’ impasto dello zafferano in polvere; stenderla poi e ricavarne delle tagliatelle. Procu-
Tradizione oppure innovazione? Quello che mi sono posto per Vincanto era di usare tutto il know how appreso in giro per il mondo, dare un imprinting al locale tutto mio personale, scoprire prodotti di giornata, ritrovare i sapori di una volta, la pasta fatta in casa, le ricette della tradizione che sono la storia della nostra terra. Ho la fortuna di avere due chef strepitosi, bravi, competenti, professionalmente completi, che mi assecondano in tutte le decisioni e innovazioni che propongo. Io credo molto nei nostri prodotti, nella magia e nell’emozione che si provano davanti ad un piatto o ad un bicchiere di vino.
RISTORANTE VINCANTO
Piazza Santa Maria Novella 29/R Firenze
Tel. 055 2741555
www.ristorantevincanto.com
rarsi dello stinco di vitella, massaggiarlo con sale e pepe e un filo di olio e cuocerlo in forno a 215 gradi per 1 ora. A metà cottura toglierlo dal forno, spruzzarlo con del vino bianco girandolo sottosopra per continuare la cottura. Farlo raffreddare leggermente per poterlo tagliare con più facilità a cubetti. Nel frattempo tagliare la cipolla e brasarla in pentola con del burro, un goccio di olio e alloro. Quando la cipolla sarà pronta, aggiungervi la vitella, aggiustare di sale e pepe e finire la cottura allungando di tanto in tanto con del brodo. Cuocere la pasta in acqua salata. Mettere in padella una porzione di straccetti e scaldarli; scolarvi la pasta, aggiustare di sale, un pizzico di prezzemolo e impiattare. Finire aggiungendo una grattata di ricottina affumicata e servire.
GOURMETFOOD
DOPO EXPO, ALLA RICERCA DELLE
TRADIZIONI
MILANESI E LOMBARDE di
Enza Bettelli
Chi vorrà intraprendere un viaggio del gusto in terra lombarda, a torto considerata soprattutto come importante area industriale, resterà piacevolmente sorpreso nel constatare quali e quanti tesori gastronomici si possano scoprire. Infatti, la Lombardia, secondo un elenco aggiornato a gennaio 2015, può vantare ben 31 prodotti certificati di cui 19 a Denominazione di Origine Protetta (DOP) e 11 a Indicazione Geografica Protetta (IGP),
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oltre al 60 per cento del vino classificato come Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) e al primato nazionale nella produzione nei settori lattiero caseario e zootecnico. E tutto questo inserito in un territorio che vanta quasi il 24% di aree verdi protette suddivise in 24 Parchi Regionali, 90 Parchi di interesse sovracomunale, 3 Riserve naturali statali, 66 Riserve naturali regionali e 32 Monumenti naturali. Un immenso
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patrimonio ambientale, caratterizzato da città d’arte e innumerevoli monumenti artistici e architettonici, il tutto collegato non solo da strade e autostrade, ma anche dalle numerose Strade del Vino e Strade dei Sapori di Lombardia. Punto di partenza di questo goloso viaggio non può che essere Milano, che non a caso è la sede di un evento di portata mondiale come EXPO 2015, il cui tema è “Nutrire il pianeta”. E chi, nel frattempo, avrà modo di fermarsi nel capoluogo lombardo o in una qualsiasi delle città o della miriade di cittadine, paesi e perfino nei piccoli centri meno conosciuti che punteggiano la Lombardia, potrà assaggiare piatti e prodotti di gusto e qualità eccezionali. Tuttavia, per capire meglio la tradizione gastronomica lombarda bisogna riallacciarsi alla conformazione del suo territorio, che ha inevitabilmente condizionato il modo di nutrirsi della popolazione. Quindi, tipicità legate alle risorse locali, con qualche contaminazione dovuta all’immigrazione da altre regioni italiane e a seguito delle occupazioni straniere nel corso dei secoli: ogni popolo ha lasciato una sua impronta che si può ritrovare anche tra le sculture, le vetrate e le decorazioni del Duomo, che mescolano alle raffigurazioni sacre, episodi della vita quotidiana della gente, del suo cibo e delle sue tradizioni.
SAPORI AMBROSIANI La gastronomia meneghina nasce, infatti, come fusione di abitudini alimentari dei popoli che coabitavano pacificamente nell’antica Lombardia ed era legata al territorio, un tempo ricco di acque (marcite e risorgive, oltre agli acquitrini) che hanno favorito una tradizione di coltivazioni e di allevamento del bestiame con conseguente produzione lattiero-casearia. Tra Medioevo e Rinascimento la gastronomia meneghina è stata influenzata da quella francese, spagnola e dei Paesi della Mittel Europa, mantenendo però una linea pratica e senza eccessi, con ricette di famiglia, con prevalenza di preparazioni a cottura lenta e con il riso, anch’esso coltivato grazie alla ricchezza di acque nella regione. Tra i prodotti lattiero caseari, burro e panna erano ampiamente utilizzati in cucina, tanto che Ugo Foscolo coniò per Milano l’ironico nomignolo di “paneropoli”. Tuttavia, il menu della famiglia, fosse borghese o contadina, era piuttosto monotono perché la minestra ne era piatto abituale, fatta eccezione per i giorni di festa, le ricorrenze e i periodi particolari dell’anno. Per rompere la noia della gastronomia di casa, chi se lo poteva permettere andava a mangiare in osteria scegliendo il posto a secondo della specialità di ciascuna, come per esempio lo stufato o le polpette. Un impensato ma frequentatissimo ritrovo era anche il Teatro alla Scala, dove si poteva mangiare, bere e fare baldoria con gli amici nei palchi protetti da discrete tendine, che venivano aperte solo quando si voleva gettare un’occhiata agli artisti che si stavano esibendo sul palcoscenico. La prima importante innovazione nel modo di mangiare a Milano fu il buffet, introdotto dalla Francia nel XVIII secolo, mentre nella seconda metà dell’Otto-
cento la comparsa nei caffè dello scottum (un liquore a base di aloe, artemisia e alcol) fu il primo passo verso i moderni bar perché per la prima volta si beveva in piedi al banco anziché seduti al tavolino. Attualmente la ristorazione milanese può vantare una gamma di ristoranti molto variegata che va dai pluristellati che propongono cucina contemporanea a quelli specializzati in piatti della tradizione italiana fino ai numerosissimi locali etnici con cucine da tutto il mondo. Né mancano i locali dove si può gustare la vera cucina lombarda e milanese, magari adattata alle esigenze moderne ma non per questo snaturata. Molti di questi locali sono riconoscibili dal marchio DeCa Denominazione di Cucina Ambrosiana, creato dalla Camera di Commercio di Milano e attribuito solo a quei ristoranti di Milano e provincia che rispettano un preciso disciplinare di produzione e garantiscono un elevato standard qualitativo. In questi locali è inoltre molto probabile poter assaggiare anche le specialità De.Co. Denominazione Comunale milanesi, e il cui logo, che è diverso per ogni provincia lombarda, è esposto nelle vetrine e sui menu dei locali che li propongono. Si tratta di piatti e prodotti di lunga e comprovata tradizione e quelli milanesi sono risotto, osso buco, cassoeula (a sinistra), michetta, panettone, minestrone, costoletta, mondeghili, rostin negaa e barbajada.
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GOURMETFOOD
LE RICETTE TRADIZIONALI PIÙ FAMOSE Tra i tanti piatti attualmente presenti nei menu dei ristoranti del capoluogo, molti sono ancora legati a festività e ricorrenze. Il più famoso è senz’altro il risotto con lo zafferano (foto in basso), che va servito con i chicchi al dente e ben staccati, ma cremoso (“all’onda”) e che una volta si mangiava con il cucchiaio. In tempi antichi era solo bianco, poi l’aggiunta dello zafferano nella seconda metà del 1500 gli ha dato l’attuale caratteristico colore dorato, mentre la spruzzata di vino (che era indifferentemente rosso o bianco) risale al periodo della dominazione napoleonica. La ricetta tradizionale prevedeva l’uso del midollo come insaporitore, sostituito nell’Ottocento da sanguinaccio, pancetta o lardo, mentre per la versione moderna oggi si utilizzano solo burro e vino bianco secco. Il risotto fa spesso da base a carni un umido, costolette, osso buco, salsiccia e pesci, divenendo un eccezionale piatto unico. Il risotto al salto (foto in alto) è un delizioso tortino croccante che si prepara a casa con il risotto avanzato e al ristorante con una
tecnica particolare di cottura. Una volta si usava mangiare il riso al salto in trattoria dopo avere assistito a uno spettacolo al Teatro alla Scala. Tra i secondi di carne, la costoletta impanata è famosa quanto il risotto. A lungo milanesi e viennesi se ne sono contesi la paternità, attribuita infine a Milano. La ricetta è stata infatti “esportata” a Vienna dal Maresciallo Radetsky che la spiegò personalmente al cuoco dell’imperatore Francesco Giuseppe e la costoletta divenne Wiener Schitzel. La costoletta si ricava dalla lombata di vitello, alla quale viene lasciato l’osso (ma-
GLI ANTIPASTI nico), e di solito viene sottoposta a una doppia impanatura, a volte profumata con un pizzico di noce moscata, e infine rosolata nel burro perché risulti croccante all’esterno e morbida all’interno. Il panettone è il dolce simbolo di Milano che, con il tempo, è divenuto anche simbolo italiano nel mondo. Probabilmente la sua nascita risale al 1200 e inizialmente era un semplice pane dolce arricchito con miele, uvetta e zucca. Con il passare dei secoli il dolce è divenuto molto più delicato e soffice (nel Settecento era il “pan grande”), fino alla versione attuale. In particolare, il panet-
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tone artigianale è preparato dai Maestri Pasticcieri e Panettieri milanesi secondo l’antica ricetta della tradizione, che lo vuole basso. E’ inoltre tutelato dalla Camera di Commercio di Milano con un marchio di qualità. Volendo rispettare la tradizione ambrosiana fino in fondo, bisogna tenere da parte un pezzetto del panettone servito durante il pranzo di Natale per mangiarlo il 3 febbraio, giorno di San Biagio, e proteggersi così dal mal di gola. La veneziana (foto al centro), parente stretta del panettone e decorata sulla sommità con zucchero granella, è stata ideata durante gli anni Trenta e a Milano chiude il menu di Capodanno. Infine la michetta, il pane più famoso di Milano, deriva dalla Kaisersemmel (o rosetta dell’imperatore), introdotta a Milano durante l’occupazione austroungarica e che i milanesi chiamarono michetta, il diminutivo di mica o micca (cioè briciola). Rispetto l’originale, pieno e con mollica spessa, la rosetta preparata dai fornai milanesi divenne cava e leggera, addirittura “soffiata” perché restasse fragrante fino a sera senza risentire troppo dell’umidità ambientale.
Una volta l’abitudine di aprire pranzo e cena con gli antipasti non era diffusa, ma si iniziava direttamente con la minestra o con un piatto sostanzioso che fungeva da unica portata. Tuttavia, nella cucina milanese, ci sono due preparazioni, un po’ rustiche e gustosissime, che si possono collocare in questa categoria. I nervetti: sono ricavati dalle parti nervose o cartilagini degli zampetti di vitello lessati, tagliati a striscioline e condite con olio, aceto e cipolla cruda. Una volta questa insalata era servita come stuzzichino nelle osterie, insieme a un bicchiere di vino bianco, mentre oggi è un vero e proprio antipasto spesso arricchito con sottaceti e fagioli lessati.
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I mondeghili: sono morbide polpettine impanate e rosolate nel burro che tradizionalmente si preparavano con gli avanzi del bollito di manzo, tritati e mescolati con uova e formaggio grattugiato.
I PRIMI PIATTI Il riso è ricorrente nella cucina milanese ed è presente anche nel minestrone, tipico mangiare contadino, senza carne ma ugualmente sostanzioso per la presenza dei fagioli e di cubetti di pancetta (una volta di cotenna). Viene preparato con verdure diverse a seconda della stagione e d’estate è servito a temperatura ambiente. Le minestre sono una costante nel menu tradizionale meneghino, come la trippa (buseca) realizzata di solito con un misto di interiora di bovino, cotte insieme a un buon assortimento di ortaggi e a fagioli di Spagna, servita con una spolverata di grana grattugiato. La tradizione vuole che la minestra di trippa si gustasse la vigilia di Natale, dopo la messa di mezzanotte. La trippa preparata invece con il solo foiolo è di solito considerata un secondo piatto. I ceci con la tempia è una minestra passata dalla tradizione natalizia alla celebrazione del 2 novembre e si prepara con tempia di maiale disossata cotta a lungo insieme a ceci e erbe aromatiche. La polenta fa spesso da contorno alle pietanze, ma viene utilizzata anche per primi piatti asciutti, per esempio pasticciata con ragù di carne e funghi, besciamella e formaggio grattugiato.
I SECONDI DI CARNE Le cotture abituali nella tradizione milanese sono quelle a bassa temperatura e prolungate che rendono le carni morbidissime e succulente, come lo stufato di manzoniana memoria (foto sopra), piatto domenicale milanese per eccellenza. In autunno e in inverno si cuoceva sulla brace del camino o della stufa, di solito al sabato pomeriggio per riscaldarlo la domenica rendendolo ancora più buono. Lenta cottura anche per l’arrosto di vitello al latte, o il brasato cotto per ore con verdure, patate e pancetta e servito con il suo sugo denso e saporito passato al setaccio. Esattamente come il fricandò di ispirazione napoleonica, che è però preparato con il vitello portato a cottura con il brodo. Delizioso e deciso il gusto del manzo all’aceto e della tasca farcita con aglio, prezzemolo e acciughe. Il vitell tonè (a destra), ovvero il vitello tonnato, è un piatto famoso e molto richiesto, oggi servito spesso come antipasto ma che era tradizionale per il
pranzo di Ferragosto, ricoperto da una gustosa salsina preparata con il rosso di uova sode e senza maionese. Altrettanto famoso l’osso buco aromatizzato da un profumato trito di aglio, rosmarino, salvia e il tocco, una volta esotico, della scorza grattugiata del limone del Lago di Garda. Ugualmente saporita la versione con il pomodoro e in entrambi i casi l’osso buco si serve con la polenta o con
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il risotto. Per prelevare il midollo rimasto all’interno del buco dell’osso si utilizzava una speciale posata a paletta ironicamente chiamata “esattore delle tasse”. I rostin negaa sono nodini di vitello dorati nel burro e cotti con vino bianco, mentre i messicani non hanno proprio nulla di esotico perché sono gustosi involtini di vitello farciti con salsiccia. Un polpettone di grande effetto si prepara avvolgendo in una fetta di vitello pasta di cotechino e uova sode intere. Delicato e raffinato è invece il filetto alla panna, lasciato per l’appunto marinare nella panna con spezie e aromi e quindi rosolato solo quanto basta perché prenda colore. Tra le numerose ricette con la carne di maiale, la cassoeula (o cazzoeula) è una delle più conosciute e prevede carni miste di maiale con salamini dedicati (i verzini) e tanta verza, preferibilmente raccolta dopo le gelate notturne che la rendono più morbida e dolce e meno acquosa. Si tratta di un umido gustosissimo ma decisamente rustico che agli inizi del Settecento si cercò di “nobilitare” modificandone il nome in “bottaggio”, seguendo la moda di allora che si sforzava di imitare usanze e linguaggio francesi. La lonza affettata è la base per la rostisciada, cucinata insieme alla salsiccia, e per le polpette e piselli, che sono in realtà involtini farciti con mortadella di fegato e cotti in umido con pomodoro e i teneri piselli di primavera. In questa carrellata di secondi piatti non potevano mancare le ricette con gli animali da cortile, come il coniglio alle olive, cioè con un trito di olive verdi, capperi, aglio e prezzemolo e abbondante vino e il pollo cotto lentamente con la panna. Tra le preparazioni più elaborate rientrano quella del tacchino ripieno (pollin cont el pien) farcito con salsiccia, castagne, prugne e altri ricchi ingredienti, e il cappone farcito con le noci, entrambi destinati alla tavola natalizia.
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IL PESCE E I SECONDI DI MAGRO Il pesce è ovviamente quello di acqua dolce che, insieme al baccalà e allo stoccafisso, faceva parte del menu dei giorni di magro, cioè i venerdì e il lungo periodo della Quaresima. Il pesce era consumato soprattutto lessato o fritto, ma esiste una particolare ricetta di stoccafisso in agrodolce cotto adagio con latte, acciughe, cipolla, prezzemolo e spezie che gli conferiscono un sapore davvero speciale. Tra le ricette di magro sono arrivate fino a noi quelle con le lumache, che si raccoglievano dopo le piogge di primavera negli orti e in campagna. Le lumache alla milanese sono stufate con un trito di aromi, semi di finocchio e acciughe e quindi servite nei loro gusci lavati e
asciugati. Quella delle rane in guazzetto è una ricetta milanese molto antica e altrettanto gustosa che prevede la cottura delle cosce delle rane con burro, vino bianco, prezzemolo tritato e succo di limone.
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GLI ORTAGGI Un tempo Milano era completamente circondata dalla campagna, dalla quale provenivano ortaggi, frutta e carni. Il mercato che accoglieva tutti i prodotti della campagna era situato proprio dietro piazza del Duomo, nell’attuale via Verziere, oggi sostituito dall’Ortomercato di via Lombroso, uno dei più importanti mercati all’ingrosso in Europa. A quei tempi la campagna era così estesa che la borghesia fuggiva dall’afa della città trascorrendo l’estate nelle ville situate a Lainate, Rho e gli altri paesi della cintura extraurbana e che, pur essendo a pochi chilometri da piazza del Duomo, godevano della frescura dei boschi e dei terreni coltivati che si estendevano tutto intorno. La verza è uno degli ortaggi più diffusi negli orti di allora e le sue foglie, oltre a entrare in molti piatti tradizionali, come per esempio il minestrone e la cassoeula, sono utilizzate come involucro per deliziosi ripieni, in sostituzione delle costose fettine di fesa. Per le polpette di verza (è tipica abitudine milanese chiamare polpette quelli che in realtà sono involtini) le foglie di verza sono sbollentate e quindi farcite con un misto di carne cotta tritata e pane ammollato nel latte, oltre a formaggio grattugiato e aromi. Gli involtini vengono rosolati e cotti poi a fuoco lento bagnandoli con il brodo e si servono anche come antipasto se preparati di piccole dimensioni.
Gli asparagi alla milanese sono tipici della primavera e ancora oggi protagonisti di molte sagre. Per questa ricetta gli asparagi vengono lessati, poi ricoperti con abbondante burro fuso e grana grattugiato, proprio come sembra li abbia gustati a suo tempo Giulio Cesare a casa di un aristocratico milanese che glieli offrì in una versione inusuale per i Romani, abituati a usare in cucina solo l’olio. Considerati una leccornia, gli asparagi si servivano spesso su un piatto doppio, con una intercapedine che racchiudeva acqua bollente perché si mantenessero caldi e con il burro liquido. Questa eccellente preparazione diventa facilmente un piatto unico facendo scivolare sugli asparagi un paio di uova cotte nel burro a occhio di bue (uova al cereghin). Le uova alla panna sono invece un modo raffinato di presentare le uova sode che vengono affettate e lasciate insaporire in una crema ottenuta con burro, farina, prezzemolo, noce moscata e panna fresca e densa. Il fritto misto alla milanese (foto in basso) può fare anche da piatto unico poiché è costituito da un insieme di ortaggi e di frattaglie misti, tagliati a striscioline, impanati e fatti dorare nel burro. Per la scarpazza si utilizzano gli spinaci o altre verdure di stagione che, dopo essere state lessate, strizzate e insaporite nel burro, si mescolano a pane inzuppato nel latte, formaggio grattugiato e uova per cuocere poi in forno. Quello che rende speciale la ricetta di questo antico
tortino è l’aggiunta di uvetta, cannella, biscotti sbriciolati e pinoli, che segue il gusto per l’agrodolce di una volta. E l’agrodolce viene riproposto da una insolita zucca fritta, che affettata e scottata nel latte, viene quindi impanata, fritta nel burro e servita come contorno cosparsa di zucchero.
I DOLCI La colomba di Pasqua ha lo stesso impasto lievitato del panettone, però più morbido, ed è stato ideato in epoca relativamente recente da un’azienda pasticciera per coprire con profitto anche il mercato pasquale. Durante il periodo di Carnevale chiacchiere (foto sotto) e tortelli riempiono le vetrine di pasticcerie e panetterie, ma i tortelli milanesi, profu-
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mati dal vino bianco nell’impasto, sono una golosità soprattutto del giorno di San Giuseppe, il 19 marzo. La gamma di più stretta tradizione meneghina comprende dolci davvero particolari, a cominciare dallo zabaione (qui sotto), che si ottiene montando a bagnomaria tuorli, zucchero, vino dolce e marsala fino a ottenere una massa gonfia e dal profumo irresistibile. I tuorli montati sono alla base anche della tartara, l’antica versione della crème caramel, montati con spezie, scorza di limone e mandorle amare e diluiti con la panna. La panna compare spesso nei ricettari milanesi, come ingrediente o decorazione. Per esempio, fredda e ispessita accompagna il pan de mei, panini dolci di farina di mais e aromatizzati con fiori di sambuco. Sono piccoli dolci rustici, anche se molto più raffinati dei semplici panini di miglio (mei) del tempo dei Visconti dai quali derivano. Infatti, se-
I PRODOTTI DEL TERRITORIO Nella provincia di Milano vengono prodotti alcuni dei più noti formaggi DOP italiani, come Grana Padano, Provolone Valpadana, Quartirolo Lombardo, Salva Cremasco, Taleggio. Ugualmente DOP sono il Salame Brianza e i Salamini Italiani alla Cacciatora. Altri importanti prodotti certificati, la cui produzione è presente su tutto il territorio lombardo e anche in regioni limitrofe, sono gli IGP Cotechino di Modena, Mortadella di Bologna, Salame Cremona e Zampone di Modena. condo la leggenda, per ringraziare i soldati che avevano ucciso un pericoloso brigante che li tiranneggiava i contadini offrirono loro dei rozzi panini di miglio accompagnati però da panna fresca. E tutto questo avvenne il 24 aprile, ricorrenza di San Giorgio, patrono dei lattai, e data in cui ancora oggi il pan de mei viene preparato a Milano. I frutteti con mele e pere erano un tempo molto diffusi intorno a Milano e proprio con questi frutti si prepara la carlotta (o ciarlotta o charlotte) che nella versione milanese è differente da quella internazionale. Lo stampo viene infatti foderato con fette di pane bianco raffermo (ma esistono varianti con biscottini o pan di Spagna) e riempito con mele o pere o un misto di entrambe cotte con vino bianco e zucchero e aggiunta di canditi e uvetta. Il dolce si sforma e si serve caldo, dopo essere stato irrorato con rum. Durante la prima metà dell’Ottocento i dolci erano spesso serviti insieme alla barbajada, una deliziosa bevanda a base di cioccolato, latte, caffè e zucchero montati con la frusta fino a prendere una consistenza spumosa. La barbajada si serviva fresca d’estate, nel bicchiere, e calda d’inverno, in tazza e con una generosa decorazione dell’immancabile panna.
IL VINO DI MILANO Su tutto il territorio lombardo si producono vini eccellenti, ma anche Milano può vantare un suo vino tipico. Il San Colombano DOC è, infatti, il fiore all’occhiello della provincia di Milano, unico vino milanese in una regione ricchissima di prodotti certificati. La zona di produzione comprende i comuni di San Colombano al Lambro nella provincia di Milano, quelli di Miradolo Terme, Inverno e Monteleone e Chignolo Po nella provincia di Pavia e di Graffignana e Sant’Angelo Lodigiano nella provincia di Lodi. Il San Colombano rosso viene prodotto con uva Croatina, Barbera e Uva Rara, con possibilità di piccole aggiunte di altre uve del territorio. Ciascuna di queste uve conferisce ai vini caratteristiche peculiari: intensità di colore, struttura e note olfattive con la Croatina; colore vivace, eleganza, freschezza e stabilità nell’invecchiamento con la Barbera; note floreali con l’Uva Rara. Le tipologie possono essere Tranquillo e Frizzante, con in più l’indicazione in etichetta “Riserva” o “Vigna”. Il San Colombano Bianco, Frizzante e Vigna, è ottenuto da uve Chardonnay e Pinot Nero.
PRODOTTI ECCELLENTI
6ª GIORNATA DEL
JAMÓN IBÉRICO A MILANO L’INCONTRO CON LA RISTORAZIONE E LA DISTRIBUZIONE ITALIANA di
Maria Chiara Zucchi Enza Bettelli
foto di
In un momento in cui l’attenzione di tutti i media si concentra sullo scandalo delle carni rosse dopo le dichiarazioni rilasciate dall’OMS, il grande lavoro e il rispetto per l’ecosistema della Dehesa nella produzione di Jamón Ibérico acquisiscono un valore ancora più significativo. Ne sono conferma le parole del pluripremiato maestro
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cortador (maestro tagliatore) Nico Jiménez - che vanta 26 anni di esperienza nel taglio del Jamón - durante la 6ª Giornata del Jamón Ibérico in Italia, organizzata da ICEX-España Exportación e Inversiones con l’Ufficio Economico e Commerciale in Milano dell’Ambasciata di Spagna in Italia, in collaborazione con La Madia Tra-
velfood e l’Accademia Nazionale Italcuochi. Durante il seminario informativo al quale hanno partecipato oltre un centinaio di operatori economici italiani della ristorazione e della distribuzione, è stato rimarcato il fatto che il grasso di suino iberico bellota (alimentato solo con ghiande) contiene il 55% di acido oleico monoinsaturo, lo stesso presente nell’olio d’oliva, attivatore di “colesterolo buono” (HDL) e inibitore di quello “cattivo”.
In occasione dell’estensione di una tesi di dottorato, in un convento di clausura è stata imposta una dieta equilibrata con 50 grammi di Jamón Ibérico bellota ad ogni pasto: il risultato è stata la riduzione del colesterolo per chi lo aveva alto e l’azzeramento per chi lo aveva basso. Il prosciutto ibérico contiene infatti vitamine e minerali utili al contenimento dei processi di invecchiamento. Per gli sportivi può essere particolarmente interessante sapere che 100 grammi di Jamón Ibérico di bellota
JAMÓNIBÉRICO
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PRODOTTI ECCELLENTI
PARTI DEL JAMÓN Maza: si può definire come la parte principale del prosciutto. E’ la zona con la maggiore quantità di carne, la più buona e grassa, oltre ad essere la più tenera e saporita. E’ la zona con la più alta concentrazione di grasso infiltrato nella carne ed è quella che dà il miglior risultato quando si taglia. Contra (maza): la zona opposta alla maza. E’ la zona più sottile del prosciutto con la minore quantità di grasso e quella che dà una più elevata sensazione di consistenza e stagionatura. Babilla: questa parte presenta minore quantità di carne rispetto alla maza poiché è delimitata dal femore e dall’anca. E’ una zona più sottile e con più bassa quantità di grasso infiltrato nella massa muscolare per cui si raccomanda, quando il prosciutto viene consumato in un periodo di tempo lungo, di iniziare da questa parte. Punta: la parte opposta allo zoccolo. Come nella maza, in questa zona c’è una grande quantità di grasso infiltrato, per cui è una delle zone più saporite del prosciutto.
Jarrete e Caña: garretto e stinco. La parte del prosciutto con minore quantità di carne, usata di solito in tocchetti per le zuppe poiché la carne è più dura e fibrosa.
IL REAL DECRETO 4/2014 Il Real Decreto 4/2014 del 10 gennaio sancisce le nuove norme di qualità del prosciutto ibérico, approvate dal Ministerio de Agricultura, Alimentacìon y Medio Ambiente (MAGRAMA): - contribuisce alla conservazione del patrimonio suino ibérico; - mantiene l’equilibrio fra le dimensioni degli allevamenti e le risorse delle dehesas garantendone uno sfruttamento sostenibile; - intensifica i controlli finalizzati all’ottenimento delle certificazioni e, per impedire la commercializzazione di prodotti sottodimensionati che non raggiungono gli standard minimi di qualità attesa dal consumatore, obbliga al rispetto di criteri di età e peso minimi in fase di macellazione; - arricchisce le informazioni a disposizione dei consumatori, aumentando la trasparenza delle caratteristiche del prodotto ed evitando così di creare confusione nelle denominazioni di vendita; - chiarisce le norme di etichettatura dei prodotti.
I COLORI CHE DIFFERENZIANO I TIPI DI IBÉRICO JAMÓN DE BELLOTA 100% IBÉRICO JAMÓN DE BELLOTA IBÉRICO JAMÓN DE CEBO DE CAMPO IBÉRICO JAMÓN DE CEBO IBÉRICO
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forniscono 43 grammi di proteine e meno di 250 kilocalorie. Il prosciutto iberico di Bellota 100%, etichetta nera, è il più pregiato: ottenuto da un animale di razza pura, dove padre e madre sono di razza pura Bellota, nutrito esclusivamente a ghiande (bellota, appunto) e cibi selvatici, ha la zampa più lunga, lo stinco sottile e l’unghia nera ed arrotondata, plasmata dalla vita libera nella dehesa. Per queste ragioni è l’unico che, secondo la nuova normativa, può essere chiamato Pata Negra (unghia nera). Al taglio la sua carne è rosso porpora, il grasso ha un aroma intenso e penetrante, è lucido, tonico e si fonde alla sola temperatura delle dita. Il Bellota etichetta rossa invece è un animale nato da madre Bellota 100% e padre Bellota
CALA DE HUESO È un grosso ago realizzato con un osso di vitello. Usandola si riesce a fare l’analisi della stagionatura nel massimo rispetto degli aromi, passando dall’acidità delle carni alla dolcezza, a seconda del punto di incisione (infilzare il Jamón come nelle foto). Si possono fare diverse incisioni, ma occorre poi chiudere il buco per non far entrare mosche o batteri. Piccole palline bianche nella carne: si tratta della Tirosina, un amminoacido rilasciato dall’ azione degli enzimi, indice di poco sale nella carne e di una stagionatura lunga e lenta, quindi di una carne di qualità.
LA DEHESA La dehesa è un ecosistema derivato dal bosco mediterraneo, costituito da specie arboree del genere Quercus (leccio, sughera) o altre specie come il faggio o il pino e uno strato erboso per il pascolo del bestiame. Ha una estensione totale di 5 milioni di ettari, ovvero da 1 a 3 ettari ad animale. Questi pascoli si trovano maggiormente in Estremadura, nella parte sudoccidentale della Spagna), Salamanca, nelle province andaluse di Huelva, Cordova, nella regione portoghese dell’Alentejo e di Algarve.
I COLTELLI Coltelli: coltello da 24 centimetri per pulire la parte rancida. Punta 10 centimetri per fare incisione vicino all’ anca. Coltello flessibile che si adatta alla forma della carne, di 25 centimetri circa, per profilare la carne e per arrivare in ogni angolo. Coltello da prosciutto alveolato, il coltello per eccellenza, di 30 centimetri, costituito da lama di un solo pezzo, acciaio 56 - punta arrotondata importante per non tagliarsi fa entrare l’aria che ossigena le carni e permette di fare fette più sottili. Acciarino per affinare il taglio dei coltelli, senza scaldarli troppo strofinando, perché andrebbero ad alterare lo stato del grasso. Nico ha realizzato un coltello per ciechi o persone con la sindrome di down (al centro della foto), per permettere anche a loro di affettare il Jamón senza il pericolo di tagliarsi.
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al 75% o 50% che ha vissuto libero nella Dehesa. Il Cebo de campo, eticheta verde, è un maiale nutrito con mangimi selezionati e foraggio al pascolo, mentre il Cebo, etichetta bianca, ha vissuto in una porcilaia a stabulazione fissa, nutrito con mangimi selezionati. Il suo grasso è più duro al tatto, meno saporito e la carne è di colore più pallido. Il taglio del Jamón è importantissimo: basta un errore per offrire al cliente un’esperienza negativa, vanificando il lavoro di tante persone. Per esempio, se si tagliasse la carne con lo stesso coltello utilizzato per eliminare la cotenna, nella quale si annidano muffe ed essudati naturali del processo di stagionatura, si offrirebbe al cliente una fetta dal sapore rancido. Per non far seccare le carni è necessario rimuovere meno cotenna possibile e, se il prodotto da servire è poco, è meglio posizionare il Jamón al contrario, ovvero con l’unghia verso il basso, partendo dal cosciotto (babilla o contramaza). Il Jamón, se tagliato per servire molte porzioni, va fermato nella morsa
con l’unghia verso l’alto, posizione che mette bene in mostra la carne e permette un taglio orizzontale, con la possibilità di offrire diversi gusti del Jamón al cliente. Per mantenere le carni morbide fino al taglio successivo è consigliabile ricoprire le parti tagliate utilizzando i pezzi di lardo e la cotenna precedentemente rimossi e con l’apposita guaina protettiva traspirante in tessuto (funda, in spagnolo). In mancanza di questi si può ricoprire la carne con olio d’oliva e pellicola trasparente. E’ sconsigliato ricoprire le carni con fogli di alluminio, perché accelerano il processo di ossidazione e favoriscono la formazione di funghi e muffe. Il prosciutto non va lasciato vicino a fonti di calore o in posti particolarmente umidi. La temperatura ideale di consumo è tra i 22° e i 24°. Lo hanno assaggiato alla giusta temperatura gli operatori italiani, entusiasti della qualità e dell’inconfondibile sapore del Jamón Ibérico fatto degustare dai sette importanti produttori spagnoli di cui indichiamo nella colonna qui a fianco i recapiti aziendali.
I PRODUTTORI AGRICULTURAS DIVERSAS, S.L.U. Llerena - Badajoz Tel. 0034 963910622 - Fax 0034 963911826 www.estremiberico.com paula.bejarano@extremiberico.com IBERDEHESA HUELVA S.L. Huelva Tel. 0034 924038171 - Fax 0034 959270023 www.jabugodeley.es francisco.bg@jabugodeley.es JUAN PEDRO DOMECQ SOLIS, S.L. Uff. commerciale Madrid Tel. 0034 912961584 - Fax 0034 912961577 www.jamonesjuanpedrodomecq.com export@jamonesjpd.com REDONDO IGLESIAS, S.A.U. Uff. commerciale Quart de Poblet - Valencia Tel. 0034 961532880 - Fax 0034 961531876 www.redondoiglesias.com jcorts@redondoiglesias.com REVISAN IBÉRICOS Guijuelo - Salamanca Tel. 0034 923580878 - Fax 0034 923580894 www.revisan.com comercioexterior@revisan.com S.C.A GANADERA VALLE DE LOS PEDROCHES (COVAP) Córdoba Tel. 0034 957773888 - Fax 0034 607609641 www.covap.es covap@covap.es SIMÓN MARTÍN Guijuelo - Salamanca Tel. 0034 923580129 - Fax 0034 923580157 www.simonmartin.es info@simonmartin.es
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Faccio cose... ...vedo gente a cura del direttore Elsa Mazzolini
A RIMINIFIERA IL PRIMO FLORA TRADE DECORATION CUP RIMINIFIERA - Rimini
Flora Trade Show, il primo salone riminese dedicato al florovivaismo e al paesaggio che, grazie alla concomitanza di Macfrut, ha permesso di riunire in un unico market place l’intera filiera del settore, ha preso vita anche grazie a un innovativo concorso a squadre: il Primo Flora Trade Decoration Cup. A RiminiFiera, i fioristi divisi in 5 squadre da 3 componenti ciascuna, si sono dovuti cimentare nella realizzazione di composizioni floreali e mise en place da abbinare a menù tematici; ad ogni squadra è stata infatti assegnata la realizzazione di un tema tra aperitivo bianco, antipasto giallo, primo rosso, secondo verde e dessert nero. Il fil rouge della gara è stato quello del “Barocco per cinque sensi. Confronto-incontro tra professionisti alla ricerca del nuovo, del bello e del buono”.
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Un tema tipicamente italiano, capace anche di dare una forte scossa al settore, vista la tendenza minimalista che ha segnato lo stile di questi ultimi anni. Il I° titolo se lo sono aggiudicati i ragazzi della scuola nazionale per fioristi Assofioristi: Marta Romito, Maria Letizia Zanbelli e Silvia Marchi sono i tre fioristi che meglio han saputo valorizzare il tema proposto, riuscendo a trasformare il “nero” del dessert di Lucia Tabarrini della Pasticceria Patrizia di Rimini, in una squisitissima opera d’arte. na, Associazione Nazionale Piante e Fiori d’Italia, Florconsorzi, Florasì. Direttore Business Unit: Patrizia Cecchi, Project manager: Orietta Foschi. Il Premio per il miglior piatto è andato a Riccardo Agostini del ristorante Il Piastrino di Pennabilli con una ricetta a base di selvaggina.
COFFEE SHOW LATTE ART CENTRO COMMERCIALE I PAPIRI Siracusa Si è conclusa a Siracusa presso il Centro Commerciale “I Papiri” la quinta edizione del Coffee Show Latte Art, la più importante manifestazione nel territorio aretuseo dedicata al mondo del caffè e dell’enogastronomia, organizzata dall’associazione Mangiare bene. Uno degli appuntamenti più attesi del programma è stato l’incontro “A tavola con i grandi chef”, con la straordinaria partecipazione degli chef pluristellati Raffaele Liuzzi, Silvio Salmoiraghi, Tiziano Rossetti, Gianpaolo Raschi i quali con grande eleganza hanno elaborato piatti coniugando il protagonista principe della kermesse, il caffè con i prodotti del territorio siciliano. Il binomio caffè cucina ha caratterizzato il “Primo Trofeo Aretusa” concorso enogastronomico per Cuochi Maitre e Sommelier organizzato da Accademia Nazionale Italcuochi “Sezione Sicilia” in collaborazione con Associazione Cuochi Aretusei, che ha visto la partecipazione di numerosi chef provenienti da tutta. Il vincitore per il Flair Aretusa Talent contest è Marco Assenza. Il vincitore per Maitre Alfeo competition è Sergio Manenti. La vincitrice per la Dress Coffee Cake competition è Flavia Stroscio. Il vincitore per il 1° Concorso torte moderne è Paolo Piccione.
Buone Nuove di rose canine: è in questo ambiente ecosostenibile che nascono i grandi vini di Ca’ di Frara. Coltivazioni naturali, accurate selezioni clonali delle uve, la raccolta effettuata esclusivamente a mano, il trasporto in cassette, la pigiatura soffice e la fermentazione in purezza a temperatura controllata, certificano da sempre il rispetto totale del prodotto, per risultati unici come nel caso di Oltre e de Il Frater.
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Splendide colline, riparate dai venti di levante e di ponente da promontori più elevati, un’isola nell’Oltrepò Pavese tra i comuni di Mornico Losana Oliva Gessi, con un microclima caratterizzato da una temperatura mite in inverno ed uniformemente calda e ventilata in estate. Questa è l’ideale ambientazione dei magnifici vigneti impiantati in zone vocate, ma nel rispetto di boschi di acacie, siepi di more e cespugli
Ca’ di Frara Loc. Casa Ferrari, 1 27040 Mornico Losana (PV) Tel. +39 0383.892299 Fax +39 0383.892752 cadifrara@cadifrara.com www.cadifrara.com
Oltre il Classico Nature Oltrepò Pavese Pinot Nero Metodo Classico Brut D.O.C.G. 100% Pinot Nero
Il Frater Oltrepò Pavese Rosso Riserva D.O.P. 95% Croatina - 5% Pinot Nero
UNA “DUCHESSE” TUTTA ITALIANA
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Natale con il sapore del sole e dei limoni di Sorrento. Lo si ritrova, intenso, nelle praline colorate di Confetti & Agrumetti, delizioso negozio/laboratorio nella via più suggestiva del cuore di Sorrento.
C’è gente che viene appositamente sia dall’Italia che dall’estero per acquistare nell’ambiente elegante della storica e centralissima pasticceria Sacchero di Canale, il suo dolce più intrigante ed esclusivo. Si chiama “La Duchesse” ed è frutto della fantasia e dei viaggi in Francia che tal Giuseppe Gallarato realizzò per la ricca Canale liberty di inizio Novecento. Ma è Carlo Quadro che, a cifre un tempo astronomiche, nel 1920 acquistò la pasticceria e la formula segreta di quel pasticcino squisito, per poi tramandarle al figlio minore Adelio. Dal gennaio 1998 il testimone dolciario canalese passa al giovane pasticciere Sacchero: secondo tradizione, impara oralmente la ricetta con l’assistenza diretta dei precedenti depositari del segreto e la propone con l’antica immagine e la veste che per lei aveva creato il pittore canalese Pinòt dla Bela.
Confetti & Agrumetti Via Cesareo, 51 - Sorrento - www.confettieagrumetti.it
Sacchero Pasticceria Via Roman, 39 - Canale - Tel. 0173 95617 - info@pasticceriasacchero.it
SPIRAN TANTO SENTIMENTO
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a cura di
Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”
SUPERTUSCANS
LA SAGA DEI GRANDI VINI NOBILI TOSCANI Siamo negli anni ’80 e il mondo si alza in piedi per applaudire un capolavoro assoluto, un vino italiano di cui da diversi anni si sente parlare ma quasi mai, soprattutto nelle versioni sperimentali, è uscito dai cancelli della tenuta in cui viene prodotto, ovvero la Tenuta San Guido di Bolgheri in provincia di Livorno. Siamo più precisamente nel 1985 e il Sassicaia del Marchese Mario Incisa della Rocchetta, che recita in etichetta come denominazione “vino da tavola di Sassicaia” da uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, viene eletto miglior vino del mondo. Nascono un mito e una nuova epoca per i vini toscani e Italiani. Quella dei “SuperTuscans” è una storia strana fatta di contraddizioni, innovazioni e consapevolezza che le memorie di questa regione dovevano e potevano essere ridisegnate attraverso vini che sarebbero stati amati e odiati al tempo stesso. Vini che hanno avuto il coraggio di sfidare il mondo enologico in un momento storico in cui tutto era possibile, perché la storia che stiamo per raccontarvi ha permesso all’Italia non solo di confrontarsi con il grande panorama enologico mondiale, ma di far conoscere la nostra terra, in particolar modo la Toscana, anche sotto il profilo turistico, aprendo agli amanti del vino di tutto il mondo un percorso enogastronomico che ha reso questa regione tra le più affascinanti e visitate al mondo. La nostra storia coincide inizialmente con quella di Ricasoli. Siamo nel 1872 e il barone Bettino Ricasoli, grande appassionato di vini, intuisce che il sangiovese è per la Toscana l’uva a bacca rossa con più potenzialità, inoltre appartiene al patrimonio ampelografico della regione e sostanzialmente è anche l’uva più coltivata. Secondo il Barone, però, solo attraverso l’aggiunta di Trebbiano e/o Malvasia Toscana
per donare maggiore acidità, oltre al Canaiolo per conferire colore e dolcezza, il Sangiovese raggiunge la perfezione assoluta. Nasce così la prima ricetta del Chianti, denominazione che farà la storia di questa regione insieme al Brunello di Montalcino. La ricetta è considerata perfetta e nessuno osa apporre modifiche alle idee del Barone e tutta la denominazione rimane schiacciata nella morsa della stretta regolamentazione sulle uve utilizzabili anche se, dopo quasi un secolo, qualcuno inizia a non sentirsi più a proprio agio all’interno della denominazione, ma, si sa, il Chianti è il Chianti, nonostante tutto è un vino che inizia a far parlare di sé. È proprio qui, dentro il cuore del Chianti Classico e in aree considerate per i tempi geograficamente estranee alla grande qualità del vino di Toscana, che una serie di produttori, con molto rispetto, iniziano ad avere idee differenti sul taglio del disciplinare e a intuire che il Sangiovese, in fin dei conti, migliorerebbe se al posto della Malvasia e del Canaiolo si potessero utilizzare altre varietà, magari estromettendo completamente le uve a bacca bianca e puntando su quei vitigni molto famosi in Francia, nel Bordolese, quei famosi Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc. Nascono quindi due processi paralleli: i “Nuovi Illuminati” – che apportano sotto la denominazione “vino da tavola”, successivamente trasformata in IGT (indicazione geografica tipica), una serie di esperimenti dove il Sangiovese viene “inquinato” da vitigni francofoni o addirittura dove il Sangiovese scompare totalmente, come appunto nel Sassicaia – e i “Tradizionalisti”, per i quali la ricetta Ricasoli rimane un punto fermo per l’enologia chiantigiana che rappresenta l’estrema qualità della regione. Esiste però anche un altro fattore non indifferente che distingue gli Illuminati dai Tradizionalisti e che ne determinerà negli
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anni a venire soprattutto il successo commerciale: l’uso dei fusti piccoli, anche questi provenienti da Bordeaux, le barrique. Ma torniamo allo scontro tra Illuminati e Tradizionalisti. Anche sul disciplinare del Chianti la battaglia è accesa, infatti i Tradizionalisti iniziano ad accorgersi che l’aggiunta di quel vino bianco non è poi così in linea con i tempi che corrono (siamo alla metà degli anni ’80) e che forse conviene lavorare un Sangiovese in purezza, mentre gli Illuminati vorrebbero un restyling totale e più moderno, ovvero l’introduzione anche nelle denominazioni Chianti e Chianti Classico di uva a bacca rossa alloctona come per esempio il Cabernet Sauvignon. La battaglia dura tanto ed è estenuante, ma nel 1994 si riesce di comune accordo a mandare in pensione il vecchio disciplinare e si rende possibile la produzione del Chianti Classico anche con 100% di Sangiovese, eliminando il vincolo di utilizzo di uve a bacca bianca. È una vittoria per i Tradizionalisti, o almeno così sembra, ma nel 1996 la denominazione viene invece ritoccata definitivamente e nella ricetta di oggi viene consentito l’utilizzo di un 20% di vitigni a bacca rossa tra quelli autoctoni, come il Canaiolo e il Colorino, e quelli “internazionali” come il Cabernet Sauvignon e il Merlot, raccomandati e/o autorizzati nella zona di produzione. Bene, sin qui è tutto chiaro, ma torniamo al nostro protagonista, il SuperTuscan: chi è? e perché si è formato questo filone di “Nuovi Illuminati”? Poniamo ordine agli eventi. Il termine con tutta probabilità, ma le fonti non sono così certe, viene coniato verso metà degli anni ‘80 (anche se i primi esperimenti su queste tipologie di vino sono riconducibili all’inizio degli anni ’70) dal guru Robert Parker, critico enologico americano che apprezzò particolarmente questo stile di vino e gli permise di avere un incredibile successo commerciale soprattutto negli Stati Uniti grazie ai suoi punteggi altissimi. Questi vini non passano assolutamente inosservati neanche in Francia, patria elettiva dello stile che la Toscana si appresta a sviluppare, evento particolarmente bizzarro considerando la poca simpatia che i nostri cugini d’oltralpe nutrono per noi.
Sono dunque ritenuti SuperTuscans, e fanno parte di questa categoria, i vini prodotti in questa regione che utilizzano principalmente uve quali Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Syrah. Esiste anche una ristretta cerchia di vini considerati SuperTuscans prodotti con 100% sangiovese, ma che rispecchiano lo stile di vinificazione ed evoluzione che rende questi vini riconoscibili e unici, ovvero vini con una certa polpa, struttura e propensione all’invecchiamento, ma soprattutto vini che escono completamente dalla logica delle denominazioni per creare un filone e uno stile al di fuori dei controlli, come una ribellione alla certificazione. I primi esempi di SuperTuscans sono, oltre al già citato Sassicaia, anche e soprattutto il Tignanello dei Marchesi Antinori, che aggiunse sin dalle prime versioni al Sangiovese il Cabernet Sauvignon. Da citare inoltre tra i capostipite il Vigorello di San Felice, che nel 1968 azzardava già un taglio composto da Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Merlot. Adesso tutto è cambiato, l’enfasi e il mito dei SuperTuscan non è più quello di un tempo e il ritorno alle denominazioni, da un punto di vista commerciale più adatto al momento storico che stiamo attraversando, ovvero l’esaltazione del vitigno e della zona di produzione, oltre a un più moderato utilizzo dei legni per l’evoluzione e in parte anche dei prezzi, ha reso questi vini meno attuali e meno ricercati. Nonostante tutto non bisogna essere ingenerosi e dobbiamo essere onesti, anche se il palato a volte ha altre richieste: questa categoria di vini ha fatto la storia di una tra le migliori regioni al mondo nella produzione enologica; sono vini stupendi e apprezzati soprattutto dal mercato estero che, oltretutto, ahimè, spesso e volentieri li ha scoperti e portati al successo mediatico e commerciale (è noto quanto poco bravi siamo in Italia a riconoscere le aziende potenzialmente di successo). Quel mondo enologico oggi è forse un po’ troppo omologato e affollato, ma tutto cambia e l’intelligenza sta proprio qui, sapere quando è il momento di cambiare. Ottenere informazioni, trasformarle in materia è fondamentale, bisogna essere visionari come lo furono i famosi “Illuminati di Toscana” quasi 40 anni fa.
Di seguito una lista dei più importanti SuperTuscan con la prima annata di produzione e i vitigni utilizzati per il taglio: 1. Sassicaia Tenuta San Guido (1968 – cabernet sauvignon, cabernet franc) 2. Vigorello San Felice (1968 – sangiovese, cabernet sauvignon, merlot) 3. Tignanello Antinori (1971 – sangiovese, cabernet sauvignon) 4. Le Pergole Torte Montevertine (1977 – sangiovese) 5. La Corte Castello di Querceto (1978 – sangiovese) 6. Solaia Antinori (1978 – cabernet sauvignon, cabernet franc, sangiovese) 7. Ghiaie della Furba Capezzana (1979 – cabernet sauvignon, merlot, syrah) 8. I Sodi di San Niccolò Castellare di Castellina (1979 – sangiovese, malvasia nera) 9. Cepparello Isole e Olena (1980 – sangiovese) 10. Sammarco Castello dei Rampolla (1980 – cabernet sauvignon) 11. Sangioveto Badia a Coltibuono (1980 – sangiovese) 12. Camartina Querciabella (1981 – sangiovese, cabernet sauvignon) 13. Flaccianello Fontodi (1981 – sangiovese) 14. Tenuta del Cabreo Cabreo il Borgo (1982 – sangiovese, cabernet sauvignon) 15. Grattamacco Grattamacco (1982 – cabernet sauvignon, merlot, sangiovese) 16. La Gioia - Riecine (1982 – sangiovese) 17. Nemo Monsanto (1982 – cabernet sauvignon) 18. Boscarelli Boscarelli (1983 – sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, petit verdot)
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19. Bruno di Rocca Vecchie Terre di Montefili (1983 – cabernet sauvignon, sangiovese) 20. Fontalloro - Fèlsina (1983 – sangiovese) 21. Le Stanze Poliziano (1983 – cabernet sauvignon, merlot) 22. Percarlo San Giusto a Rentennano (1983 – sangiovese) 23. Ripa delle More Vicchiomaggio (1983 – sangiovese, cabernet sauvignon, merlot) 24. Ornellaia Tenuta dell’Ornellaia (1984 – cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc) 25. Balifico Castello di Volpaia (1985 – sangiovese, cabernet sauvignon) 26. Geremia Rocca di Montegrossi (1985 – merlot, cabernet sauvignon) 27. Il Pareto Tenuta di Nozzole (1985 – cabernet sauvignon) 28. Masseto Tenuta dell’Ornellaia (1985 – merlot) 29. San Martino Villa Cafaggio (1985 – sangiovese) 30. Stielle Rocca di Castagnoli (1985 – sangiovese, cabernet sauvignon) 31. Summus Banfi (1985 – cabernet sauvignon, sangiovese, syrah) 32. Veneroso Tenuta di Ghizzano (1985 – sangiovese, cabernet sauvignon) 33. Vigna l’Apparita Castello di Ama (1985 – merlot) 34. Anfiteatro Vecchie Terre di Montefili (1987 – sangiovese) 35. Il Corzano Corzano e Paterno (1987 – sangiovese, cabernet sauvignon, merlot) 36. Maestro Raro Fèlsina (1987 – cabernet sauvignon) 37. Saffredi Le Pupille (1987 - cabernet sauvignon, merlot, alicante) 38. Acciaiolo Castello d’Albola (1988 – sangiovese, cabernet sauvignon)
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39. Avvoltore Moris Farms (1988 – sangiovese, cabernet sauvignon, syrah) 40. Brancaia Il Blu Brancaia (1988 – sangiovese, merlot, cabernet sauvignon) 41. Desiderio Avignonesi (1988 – merlot, cabernet sauvignon) 42. 50&50 Capannelle & Avignonesi (1988 – sangiovese, merlot) 43. Olmaia Col d’Orcia (1989 – cabernet sauvignon) 44. Paleo Le Macchiole (1989 – cabernet franc) 45. Cavaliere Michele Satta (1990 – sangiovese) 46. Guado al Tasso Antinori (1990 – cabernet sauvignon, merlot, syrah) 47. Romitorio Ruffino (1990 – colorino, merlot) 48. Lamaione Frescobaldi (1991 – merlot) 49. N’Antia Badia di Morrona (1991 – sangiovese, cabernet sauvignon, merlot) 50. Giusto di Notri Tua Rita (1992 – cabernet sauvignon, merlot) 51. Il Bosco Tenimenti d’Alessandro (1992 – syrah) 52. Il Carbonaione Poggio Scalette (1992 – sangiovese) 53. Siepi – Castello di Fonterutoli (1992 – merlot, sangiovese) 54. Casalferro Barone Ricasoli (1993 – sangiovese, merlot) 55. La Ricolma San Giusto a Rentennano (1993 – merlot) 56. Luce Frescobaldi (1993 – sangiovese, merlot) 57. Lupicaia Castello del Terriccio (1993 – cabernet sauvignon, merlot) 58. Soloio Casa Emma (1993 – merlot) 59. Messorio Le Macchiole (1994 – merlot)
60. Scrio Le Macchiole (1994 – syrah) 61. Redigaffi Tua Rita (1994 – merlot) 62. Galatrona Petrolo (1994 – merlot) 63. Tzingana Monte Bernardi (1994 – merlot, cabernet sauvignon, cabernet franc, petit verdot) 64. Il Futuro Il Colombaio di Cencio (1995 – sangiovese, cabernet sauvignon, merlot) 65. Solengo Argiano (1995 – merlot, cabernet sauvignon, syrah) 66. Piastraia Michele Satta (1995 – cabernet sauvignon, merlot, sangiovese, syrah) 67. Rosso di Sera Poggiopiano (1995 – sangiovese, colorino) 68. Cantico Podere La Cappella (1996 – merlot) 69. D’Alceo Castello di Rampolla (1996 – cabernet sauvignon, petit verdot) 70. Dulcamara I Giusti & Zanza (1996 – cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot) 71. Nambrot Tenuta di Ghizzano (1996 – merlot) 72. Petra – Petra (1997 – cabernet sauvignon, merlot) 73. Primamateria – Poggerino (1997 - sangiovese, merlot) 74. Tenuta di Trinoro Tenuta di Trinoro (1997 – cabernet franc, merlot, cabernet sauvignon) 75. Montervo - Cima (1998 – merlot) 76. Oreno Tenuta Sette Ponti (1999 – sangiovese, merlot, cabernet sauvignon) 77. Magari Ca’ Marcanda (2000 – merlot, cabernet sauvignon, cabernet franc) 78. Testamatta Bibi Graetz (2000 – sangiovese, colorino, canaiolo, moscato nero, malvasia nera)
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VINARIA
TRENTODOC
LO SPUMANTE DI MONTAGNA di
Gianluca Ricci
Bollicine superiori per quantità e qualità rispetto ad ogni altra. Lo dice una carta d’identità basata su ricerche innovative. Che gli spumanti Trentodoc fossero speciali lo si sapeva già da tempo. Il fior fiore degli enologi di tutto il mondo lo aveva già confermato degustazione dopo degustazione, assaggio dopo assaggio. E lo stesso avevano fatto i consumatori, magari convinti dalla bontà dei giudizi assegnati dagli esperti o, più banalmente, soddisfatti dalla qualità del prodotto. Ma che siano speciali oggi lo conferma anche un’indagine scientifica
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commissionata dall’istituto di tutela trentino alla Fondazione Mach di San Michele all’Adige e all’Università di Modena e Reggio Emilia: secondo i ricercatori che hanno indagato suoli, tralci, mosti e vino, lo spumante prodotto sulle montagne dolomitiche possiede elementi fisici tali da determinare le caratteristiche organolettiche del prodotto in quantità e qualità superiori rispetto a tutte le altre bollicine del territorio nazionale. È infatti noto che il profilo dei minerali del terreno e le loro interazioni rimangono inalterati nel passaggio alla pianta e poi all’uva, che, per così dire, finisce per memorizzare le informazioni geografiche e fisiche del territorio di origine: grazie a questa specifica caratteristica e a una serie di esami dalla elevata complessità tecnica, oltreché semantica (si tratta infatti di non ben comprensibili operazioni di gascromatografia bidimensionale accoppiata a spettrometria di massa), è stato possibile indagare la complessità aromatica degli spumanti Trentodoc e visualizzare concretamente, dati alla mano, la sua intera ricchezza. Le bollicine dolomitiche sono in grado di vantare la presenza nel loro DNA di ben 196 composti differenti dalla concentrazione caratteristica; 1700 i composti volatili rilevati, quasi dieci volte di più rispetto ai metodi tradizionali di rilevazione adottati prima di questa innovativa ricerca, un po’ come indagare con il microscopio ciò che prima invece si analizzava con la semplice lente di ingrandimento: quantità, dunque, ma soprattutto qualità, visto che tali elementi sono quelli che rendono unico Trentodoc rispetto a tutti gli altri metodi classici italiani. Parole in realtà già
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sentite nel recente passato, solo che questa volta a sostenerlo non sono gli uffici stampa dell’istituto di tutela o gli efficaci slogan di qualche agenzia pubblicitaria, ma scienziati di vaglia, con il conforto dei dati delle provette. A determinare queste specifiche peculiarità, secondo i ricercatori, sarebbero le forti escursioni termiche caratteristiche del clima trentino, in grado di formare terpeni - ovvero sostanze varietali aromatiche legate all’uva - assolutamente particolari e originali. Sostanze che finiscono per conferire al prodotto finito sapori e sfumature che il lavoro in cantina non è in grado di riprodurre: si tratta del lavoro della natura che l’uomo oggi può permettersi solo di gestire al meglio e controllare, ma non di clonare a sua immagine e somiglianza. Un’ulteriore garanzia, insomma, che renderebbe il Trentodoc, secondo le conclusioni a cui sono giunti gli esperti, assolutamente inimitabile. Tanto più che, come hanno aggiunto i ricercatori che si sono occupati della questione, il DNA del vitigno risulta estraibile e analizzabile non solo dalle viti e
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dall’uva, ma anche dagli intermedi di lavorazione enologica, visto che sono stati messi a punto dei particolari sistemi di identificazione varietale basati sull’analisi dell’intero genoma. Ciò significa che nessuno potrà mai più spacciare per Trentodoc uno spumante che Trentodoc non è, visto che ad un’analisi accurata sarebbe possibile smascherare qualsiasi tentativo di contraffazione. In sintesi: se un metodo classico esprime valori significativi riferiti ai composti che costituiscono la mappatura base del Trentodoc, ebbene quel metodo classico non può essere null’altro se non un Trentodoc. E, ovviamente, viceversa. «Possiamo allora dire - ha commentato al riguardo il presidente dell’Istituto Trentodoc, Enrico
Zanoni - che il metodo classico trentino, riunito sotto un unico marchio territoriale collettivo, è entrato in possesso di una carta di identità che ne certifica il legame unico ed esclusivo con la montagna. Questa certificazione permette a Trentodoc di rafforzare in modo indiscutibile la sua origine e la sua identità: la ricerca mette infatti in evidenza elementi finora inesplorati che rendono oggettivo e misurabile il legame fra il territorio e le bollicine trentine, che, oggi più di ieri, si possono davvero definire l’unico metodo classico “di montagna”». Profumi e sapori diventano così, oltre che inconfondibili, addirittura certificabili e potrebbero offrire alle 41 aziende riunite sotto l’ombrello protettore della denominazione un ulteriore argomento per rafforzare la loro leadership sul mercato delle bollicine internazionale, tant’è che alcune di esse, fiutato l’affare, hanno già iniziato a organizzare eventi puntando con forza su questa nuova, unica specificità. Eleganza, freschezza e persistenza diventano oggi categorie non più affidate alla prosopopea degli incantatori commerciali, ma principi di riferimento scientificamente comprovabili, e dunque elemento oggettivamente accattivante per fare presa su un consumatore oggi travolto da una mole di messaggi eccessiva e per certi versi contraddittoria. Da oggi la parola territorialità perde quell’alone di mistero che l’aveva accompagnata per anni e si traduce in elemento concreto, certificabile: un’arma davvero straordinaria se saputa usare correttamente. Ma i vignaioli del Trentino hanno già dimostrato di saper sfruttare al meglio tutte le occasioni per valorizzare i loro prodotti: figurarsi se si lasceranno scappare l’occasione per trasformare il loro spumante in un prodotto unico, anzi, certificabilmente unico.
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CON UNO SPUMANTE METODO CLASSICO E UNO METODO MARTINOTTI
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AFFRONTA IL MERCATO DELLE BOLLICINE ABRUZZO DOP La sfida delle bollicine abruzzesi è partita. E i risultati di certo saranno conformi alle attese. “L’idea di spumantizzare i vitigni autoctoni della nostra terra, spiega Lino Olivastri, enologo di CODICE CITRA - la principale realtà vitivinicola abruzzese e una delle più grandi di tutto il centro-sud d’Italia - non è nuova, ma finalmente si sono create le condizioni giuste per realizzarla: ho sempre pensato infatti che le uve abruzzesi fossero vocate per produrre bollicine importanti, in grado di essere apprezzate dal pubblico italiano ma capaci di conquistare un posto di rilievo anche sui mercati internazionali; vini che, grazie proprio alla spumantizzazione, permetteranno ai nostri vitigni di esprimere compiutamente le loro caratteristiche, tenendo alta la bandiera del nostro territorio”. Cinque le cultivar abruzzesi prescelte per l’avventura degli Spumanti Abruzzo DOP CODICE CITRA: ai più noti Montepulciano, Passerina e Pecorino si affiancano Cococciola e Montonico, uve per fini conoscitori, ma assai rappresentati-
ve della storia e del panorama enoico abruzzese. Tre invece i partner del progetto: oltre a CODICE CITRA, forniscono il loro prezioso supporto l’Università di Teramo, che cura tutti gli aspetti scientifici, dalla raccolta dati alla sperimentazione pura (tali informazioni diventeranno oggetto di tesi scientifiche di laureandi che, insieme ai loro professori, sono parte attiva del progetto) e il Centro di Ricerca Viticola ed Enologica d’Abruzzo (C.Ri.V.E.A.), al quale compete tutta la parte inerente la tecnologia enologica. Dal canto suo, CODICE CITRA porta la competenza della propria rete di agronomi ed enologi e si occupa concretamente della produzione dei vini. “Innovazione e ricerca - spiega Olivastri - sono le linee guida di tutto il progetto, voluto per promuovere e testimoniare la qualità intrinseca della filiera produttiva appartenente alla DOP Abruzzo, che ha tutte le carte in regola per diventare un brand importante in Italia e all’estero al pari di altre Denominazioni territoriali”. In pochi anni, le bollicine Abruzzo DOP puntano a raggiunge-
CITRA VINI
Contrada cucullo
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re i livelli qualitativi dei già affermati spumanti Franciacorta e Trento Doc, se non addirittura dei blasonati Champagne: “Sul mercato c’è spazio per tutti - commenta Olivastri - e la ricerca di una sempre maggiore qualità è salutare per tutto il settore; d’altronde, è innegabile che vi sia una generale predisposizione verso l’aumento del consumo di vini spumanti rispetto ai vini tranquilli, soprattutto nelle fasce più giovani, che sono i consumatori di oggi ma anche e soprattutto quelli di domani)”. Ma come si sviluppa il progetto Spumanti Abruzzo DOP? Il percorso parte dalla vigna (terreno, forma d’allevamento, rese, potatura verde, coltivazione, vendemmia, impatto ambientale), passa per cantina e laboratori (vinificazione, presa di spuma, analisi chimiche) e termina in bottiglia (esami organolettici delle basi e dei vini) fino ad arrivare alle tavole dei consumatori (feed-back sui vini con i consumer test). Per quanto riguarda il territorio, i vigneti sono stati selezionati sotto il profilo pedologico e morfologico e vanno da quelli che si trovano in prossimità del litorale adriatico, fino a quelli situati ai piedi delle grandi montagne che fanno corona a questa parte d’Abruzzo, ossia quelle del massiccio della Majella: tutti appezzamenti rappresentativi della vasta estensione dei vigneti CODICE CITRA. Importante e significativa anche la scelta di adottare, per i neonati Spumanti Abruzzo DOP, ambedue le tecniche di spumantizzazione: rifermentazione in autoclave (metodo Martinotti o Charmat) e rifermentazione in bottiglia (metodo Classico). Si otterranno così due linee di prodotto complementari e sinergiche tra loro: la prima sarà formata da vini più “easy to drink”, ma sempre con quei requisiti di qualità che sono imprescindibili per competere sui mercati
internazionali; la seconda, formata da bottiglie di alto livello, anche millesimate, destinate a occupare la fascia superiore del mercato. Nel corso del 2015, il pubblico degli addetti ai lavori, i media e gli appassionati, hanno potuto seguire passo passo l’evoluzione del progetto (e dei vini): in febbraio le basi dei futuri spumanti sono state presentate a Pescara, nel corso di un evento che ha costituito la prima uscita pubblica dei nuovi prodotti. Nel corso del mese successivo, le stesse basi sono state presentate alla stampa estera al Prowein di Düsseldorf e al Vinitaly di Verona, mentre in aprile, a Roma, sono entrati in scena per la prima volta i neonati Spumanti. Un Convegno FONDO EUROPEO AGRICOLO PER LO SVILUPPO RURALE: L’EUROPA INVESTE NELLE ZONE RURALI FINANZIAMENTO CON IL CONCORSO FINANZIARIO DELL’UNIONE EUROPEA, DELLO STATO ITALIANO E DELLA REGIONE ABRUZZO AI SENSI DEL P.S.R. ABRUZZO 2007/2013 FONDO FEASR - ASSE 1 - MISURA 124
Sotto, da sinistra, Lino Olivastri, enologo Codice Citra; Valen-
tino Di Campli, Presidente Codice Citra; Alessandro Bocchetti, giornalista enogastronomico.
accademico organizzato a Ortona (la cittadina in provincia di Chieti ove CODICE CITRA ha la propria sede) e una affollata conferenza stampa organizzata a Milano in luglio, hanno fornito altrettante occasioni per degustare questi vini in piena evoluzione, confermando le premesse e alimentando le più rosee aspettative.
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LIBRI a cura di Giorgia Zucchi
GERUSALEMME: L’ULTIMA CENA Una storia dove il cibo è inconsapevolmente protagonista. In maniera più corretta, si dovrebbe affermare che Gerusalemme: l’Ultima Cena è una storia che utilizza il cibo per indagare su uno degli avvenimenti chiave per la cultura occidentale e per tutta l’umanità: l’Ultima Cena, evento presumibilmente accaduto all’inizio del I secolo d.C. e inserito in un contesto ben preciso e articolato. Il cibo, però, come elemento di indagine, non è stato l’unico ad essere sottoposto alla lente di ingrandimento: la Palestina, Gerusalemme, l’impero romano, il popolo eletto, le Sacre Scritture e non solo, sono gli altri ingredienti, dal fascino fortissimo e dal sapore esotico, che vengono imbanditi sul tavolo di questa ricerca.
di Marta Berogno e Generoso Urciuoli Ananke Edizioni - 204 pagine - Euro 16,50
AL DENTE Al Dente esplora come la cucina italiana è diventata quello che oggi è. Per secoli, Paesi del Mediterraneo meridionale come l’Italia hanno combattuto contro la scarsità del cibo, guerre, invasioni in un ambiente agricolo sfavorevole. L’Italia ha così sviluppato un sistema alimentare che dipendeva da cereali, legumi e verdure, fino a quando, in presenza della crescita economica degli anni Cinquanta, la maggioranza degli italiani ha iniziato a permettersi una dieta più varia. L’ultimo mezzo secolo ha visto una nuova evoluzione, con tecniche di conservazione, di produzione industriale di massa e di sistemi di trasporto e distribuzione più sofisticati, determinando profondi cambiamenti nel modo con cui la popolazione del paese pensa al cibo. Al Dente si trasforma così in un’affascinante storia di quello che è forse la cucina più amata del mondo.
di Fabio Parasecoli Leg Edizioni - 280 pagine - Euro 24,00
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OLIO NOSTRUM Gli autori raccontano l’emozionante viaggio nel mondo dell’olio e dell’alimentare in generale intrapreso 120 anni fa da due delle più lungimiranti famiglie del Meridione d’Italia: i Barbera e i Florio. L’origine e il futuro, la tradizione e l’innovazione, le produzioni locali e il mercato globale, l’etica del lavoro e il rispetto dei consumatori in una narrazione densa che, come scrive nella prefazione Oscar Farinetti, ci fa sentire “i profumi e i sapori delle cultivar siciliane, di quei suoli così fortunati, del sole della Magna Grecia, dei venti mediterraneri, dei contadini che Manfredi Barbera ha scoperto, che ama, che protegge”.
di Manfredi Barbera e Carlo Ottaviano Agra Editrice - 160 pagine - Euro 18,00
UNFORKETABLE.IT Cento ricette scelte nel perimetro della tradizione italiana, illustrate passo passo perché anche i neofiti possano cimentarsi con soddisfazione. Una scuola essenziale, immediata e visuale basata su preparazioni semplici, per ogni giorno, nella quale Niko Romito riversa tutta la sua esperienza e i suoi principi ispiratori: rendere gli ingredienti protagonisti esaltandone il sapore; limitare i grassi ed equilibrare i condimenti per ottenere piatti saporiti e di grande leggerezza; conoscere le materie prime e maneggiarle con la giusta tecnica, senza sovrastrutture complicate. Come afferma lo stesso Romito nell’introduzione “La cucina di Unforketable è la cucina di casa vista da un cuoco che lavora in un ristorante dove sperimenta e studia”.
di Niko Romito- a cura di Elisa Menduni Giunti Editore - 256 pagine - Euro 20,00 - ebook Euro 12,99
GUSTO SÌ GLUTEN FREE
A TAVOLA CON D’ANNUNZIO
E’ sempre più cospicuo il numero di coloro che manifestano una perniciosa intolleranza al glutine, ma anche di coloro che, pur non avendo una celiachia conclamata, debbano eliminarlo per evitare molteplici disturbi. Per costoro l’industria ha creato prodotti gluten free, ma anche alcuni chef, come Walter Zanoni, hanno studiato miscele di farine create appositamente per realizzare piatti gustosi, dalle paste fresche ai dolci, ma anche panature e preparazioni in crosta per aumentare il gusto di chi è soggetto a intolleranze o allergie alimentari.
Attraverso dichiarazioni di testimoni oculari, note personali inedite del Poeta, lettere e brani di romanzi, il libro svela un sorprendente D’Annunzio gourmet che, in ogni fase della sua esistenza, esalta il cibo da lui considerato, anzitutto, veicolo di memorie legate al suo Abruzzo. Proprio la cucina abruzzese, magnificata dalla prosa del grande Poeta, ritrova particolare risalto su tutte le pagine del libro. L’elegante veste tipografica e la ricchissima dotazione iconografica impreziosiscono il testo.
di Walter Zanoni Bibliotheca Culinaria - 66 pagine - Euro 13,90
PHILIPPE LÉVEILLÉ LA MIA VITA AL BURRO L’infanzia in Bretagna, la decisione di diventare chef, la prestigiosa scuola alberghiera di Saumur e poi le irresistibili peregrinazioni culinarie in giro per il mondo: Philippe Léveillé ci porta in 3 continenti, a cucinare con lui in grandi alberghi e ristoranti, su yacht e barche a vela, in Somalia, Etiopia e Yemen per la Croce Rossa... Poi a Concesio, Brescia, dove ottiene la consacrazione delle 2 stelle Michelin come chef del “Miramonti l’altro” e infine a Hong Kong con il ristorante “L’altro”, premiato da una stella. Lungo tutta la narrazione Léveillé si commuove come allora, si arrabbia come allora, si diverte come allora e il lettore incontra personaggi e luoghi incredibili. Comune denominatore fra passato e presente l’ingrediente centrale della sua vita e della sua cucina, quello in cui lui s’identifica completamente: il burro. Una scelta di cuore e palato sostenuta sul piano scientifico dal medico e nutrizionista Mauro Defendente Febbrari, amico ed estimatore di Léveillé, in un breve saggio a chiusura del libro.
di Philippe Léveillé - Giunti Editore - Collana Romanzi Culinari 192 pagine - Euro 16,00
di Paola Sorge - Carabba Editrice - 198 pagine - Euro 32,00
GLI SBAFATORI Impietosa storia romanzata sulla vita non solo dei foodblogger, ma anche dei tanti giornalisti enogastronomici oggi palesemente privi di capacità critica, adulatori (e sbafatori) in cambio di un’ospitalità. Baresani, dimostrando una perfetta conoscenza dei discutibili meccanismi che ormai regolano, o meglio, sregolano, questo settore, ha creato un quadro purtroppo più vero che verosimile: un mondo popolato da personaggetti privi di una reale credibilità.
di Camilla Baresani - Mondadori Editore - 140 pagine - Euro 16,90
ERBE IN TAVOLA Un ricettario pratico e agile per riconoscere e imparare a utilizzare in cucina le piante spontanee più comuni e conservarne intatto il loro straordinario potenziale energetico-curativo.
di Silvia Strozzi - Macro Edizioni - 94 pagine - Euro 9,80
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