Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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BARTOLINI
IL PESCE, IL SUCCESSO DEI SUOI RISTORANTI
LA MADIA EDITORE
ANNO XXXII - Novembre 2016 - N. 312 - €E 4,00 - Direttore ELSA MAZZOLINI
A Milano il LUME di Luigi Taglienti
La cucina quotidiana della cilena Carolina Bazán
A scuola con Ilario Vinciguerra
SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 312
GOURMETFOOD
GOURMETFOOD
pag. 40
di
Alessandra Meldolesi
pag. 50
I RISTORANTI DI BARTOLINI
LUIGI TAGLIENTI
Una storia imprenditoriale di successo.
Con Lume rischiara la scena della ristorazione milanese.
GOURMETFOOD
di
Flavia Tomaello
GOURMETFOOD
di
Maria Chiara Zucchi
pag. 56
pag. 62 CAROLINA BAZĂ N
ILARIO VINCIGUERRA
La sua cucina quotidiana.
A scuola di cucina con questo grande chef stellato.
La cultura del benessere
Locanda Gavarini
Sfatiamo i miti
di Claudio Mollo............................................................... pag. 34
di Primo Vercilli................................................................ pag. 8
Ristorante Da Palmiro
La scelta vegana
di Giovanni Angelucci...................................................... pag. 36
Il tempeh
GourmetFood
di Silvia Bianco................................................................. pag. 10
Lila Calcus e Nicolas Campus
Assaggi di Galateo
di Lucy Gordan................................................................ pag. 68
Prologo al servizio del vino
Chef di Spirito
di Fabio Ferrantino........................................................... pag. 14
L’incanto della natura
Progettare l’impresa
di Sonia Leo..................................................................... pag. 72
Abitudini di scelta al ristorante
Eventi
di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 16
Fotocronaca dal 16° Festival della Cucina Italiana............ pag. 78
Golavagando
Vinaria
The Butcher’s Theater..................................................... pag. 20
Il focus di Alessandro Magnum
Trattoria Masuelli
Lo scandalo del metanolo
di Maria Chiara Zucchi...................................................... pag. 22
di Alessandro Rossi..................................................... pag. 92
Cocktail... and more
Anteprima Montepulciano 2016
Cocktail Martini - Ostriche e castagne
di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 94
a cura di Daniele Briani.................................................... pag. 28
Tenuta Agricola Arrighi
Golavagando “Mon Trésor”
di Stefano Bramanti......................................................... pag. 96
Osteria Il Datterino
Enovità
di Daniele Briani............................................................... pag. 32
di Gianluca Ricci............................................................... pag. 97
EDITORIALE di
Elsa Mazzolini
RESTAURANT IMPOSSIBLE 15 anni fa scrivevo che in Italia chi aveva qualche soldo da investire, apriva indifferentemente una boutique o un ristorante. Indifferentemente, secondo una propria hobbistica inclinazione. Bene, oggi il quadro è cambiato: chiudono boutique e al loro posto nascono ristoranti. Di prodotto, di tradizioni regionali, di tendenze vegane, vegetariane, crudiste, monografici di carne, pesce, formaggi, uova… C’è una gran voglia in tanta gente di trasformare la propria passione per il cibo e per la cucina in un’esperienza imprenditoriale in grado di trasmetterla agli altri, questa passione, trasformando un hobby in un lavoro. Ma la passione non può sostituire competenza e professionalità, così succede che, statisticamente, nell’arco di tre anni tanti ristoranti costruiti sull’entusiasmo siano costretti a chiudere i battenti. Fateci caso: sopravvivono di più certi locali un po’ banali ma di lungo corso, che talune realtà salutate alla loro comparsa come innovative per l’appassionata ricerca e la proposta di prodotti realmente eccellenti. Insomma, saper fare il proprio mestiere paga più che inseguire un sogno. La morìa è più evidente in provincia che nelle grandi città perché crisi ed eccesso di concorrenza riducono molto sensibilmente il numero, comunque più esiguo rispetto ai grossi centri abitati, della possibile clientela. Ad aggravare la scena di ristoranti abbastanza pieni solo nel fine settimana - tanto che il personale dipendente diventa in breve più un peso da mantenere che una risorsa - è un fisco predatore e una burocrazia che di fatto boicottano qualsiasi velleità imprenditoriale. Dunque chi resiste non è necessariamente il più bravo a cucinare o il più generoso a dispensare prodotti di qualità, ma il più bravo ad anticipare le criticità gestionali, ad applicare le leggi del marketing, a studiare l’offerta in base alla domanda, a sapersi imporre sul web, a essere manager più che poeta del cibo, insomma, il più bravo a fare i conti. È poco romantico, lo so, ma realista. Il fatto è che se vai male, la discesa è rapidissima e non è che puoi sperare che arrivi Cannavacciuolo a salvarti l’impresa. In sostanza, parafrasando prosaicamente la frase di Oscar Wilde “meglio avere un
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buon cuoco, che una buona reputazione”, potremo concludere che è meglio avere o essere un buon contabile, che un buon cuoco.
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LACULTURADELBENESSERE
a cura di
Primo Vercilli Medico Dietologo
SFATIAMO I MITI
MEGLIO I SURGELATI CHE VERDURE “STANCHE” E MEGLIO INFORMARSI SU LATTE, GLUTINE, ZUCCHERO E UOVA! In un’epoca in cui si costruiscono miti in pochi giorni e altrettanti se ne demoliscono, appare molto difficile sfatare miti presenti in campo alimentare ormai da anni; miti che, tra l’altro, vengono sempre più sfruttati anche da industrie alimentari per puri fini commerciali. Visto che la scorsa volta ci siamo chiesti se effettivamente sappiamo cosa mangiamo, mi pare giusto, a questo punto, approfondire meglio, con dei semplici spot, alcune incongruenze nel campo alimentare al fine di permettervi una riflessione più adeguata.
PREGIUDIZI SUI SURGELATI Intanto, a proposito delle verdure, mi raccomando: smettetela di pensare che il cibo surgelato contenga minori proprietà rispetto a quello fresco! Ci sono alcuni studi che riportano come i cibi surgelati siano in grado di conservare meglio i nutrienti, anche perché vengono normalmente congelati subito dopo la raccolta; spesso invece le verdure fresche rimangono in attesa di essere consumate anche per 10-15 giorni e, chiaramente, questo porta ad una perdita notevole di vitamine e sali. Ma la cosa un pò più sconcertante è che molti di noi evitano magari di consumare la verdura surgelata (perché non va bene) e poi si riempiono di integratori alimentari con finalità antiossidanti! Anche qui, attenti: ci sono moltissimi studi che dimostrano come la natura sia sempre più efficace dell’industria. È stato dimostrato che, per esempio, il pomodoro preso per intero ha delle proprietà antiossidanti decisamente più efficaci rispetto al suo componente principale, che è il licopene (di cui, ovviamente, esistono le compresse!).
UN CALCIO AL LATTE E che dire del latte e del calcio? Ancora oggi molti sono convinti che, per assicurare un buon apporto di calcio all’organismo, la
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cosa fondamentale sia guardare al contenuto di calcio dei cibi. E quindi, cosa c’è di più salutare del latte? Le cose invece non stanno così: quello che conta, nel metabolismo del calcio, è il sottile rapporto tra il minerale che entra nell’organismo e quello che viene eliminato. In una dieta particolarmente ricca in proteine animali – e il latte è un alimento certamente animale – quello che accade è che si acidificano le urine: questa acidificazione delle urine crea un mancato riassorbimento del calcio (quindi il calcio non viene trattenuto dall’organismo), ragion per cui il latte, che è un alimento che apporta calcio, poi facilita la sua eliminazione. Altro problema è anche la combinazione con cui il latte viene assunto: ad esempio caffè e orzo contengono sostanze che si legano al calcio e non ne permettono l’assorbimento a livello intestinale; stessa cosa per i cereali soprattutto integrali, che contengono acido fitico. Ancora una volta quello che ci salva è un maggior apporto di frutta e verdura (eh sì, perché molti non lo sanno, ma ci sono verdure ricchissime di calcio!), che, se consumate nella raccomandata quantità di 5 porzioni al giorno permettono un apporto di tutti i sali minerali e le vitamine necessarie.
I DANNI CEREBRALI DELLO ZUCCHERO AGGIUNTO Potremmo poi continuare andare nel campo dello zucchero: quanti di noi sono convinti che basti usare zucchero di canna invece che zucchero raffinato e i nostri problemi sono risolti? Niente di più falso. Non ci sono differenze di tipo nutrizionale tra zucchero raffinato e zucchero di canna, se non alcune impurità e una differenza di sapore, ma sia che utilizziamo uno o che utilizziamo l’altro è bene che cominciamo a fare meglio i conti su quanti “zuccheri aggiunti” sono presenti nella nostra giornata.
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Infatti il problema sta proprio in questo: non tanto negli zuccheri presenti in un cibo (anche la frutta contiene “zucchero”), ma piuttosto in tutti quelli che sono aggiunti o che noi stessi aggiungiamo per dolcificare. Il risultato non è appena una maggior predisposizione all’obesità o al diabete, ma anche la difficoltà di apprendimento e depressione. Infatti, a livello cerebrale, anche se i neuroni per funzionare hanno bisogno di zuccheri, l’uso di quelli di tipo “aggiunto” riduce la produzione di una proteina detta “fattore neurotrofico cerebrale”, senza la quale apprendimento e memoria vengono messi in difficoltà.
LA COLPA NON È SOLO DEL GLUTINE Passiamo poi alla moda del gluten-free. Il glutine è una proteina contenuta nel grano, nell’orzo e nella segale ed è diventata un additivo onnipresente non solo nel cibo, perché aumenta masticabilità e consistenza di cibo, ma anche in medicinali, vitamine e colle. Molte persone sono sensibili al glutine, ma visto che tante sono le sostanze che creano problemi digestivi (grassi, oli e latticini per esempio), è difficile a volte scoprire di essere intolleranti proprio al glutine, o celiaci. Fermo restando che celiachia e intolleranza sono da affrontare con la massima serietà possibile, purtroppo è vero anche il fatto che per ora non si sa quanti siano gli individui intolleranti al glutine al mondo, visto che i sintomi (reflusso, bruciori, anemia, malattie autoimmuni, depressione, emicrania, sindrome dell’intestino irritabile, affaticamento cronico, decalcificazione ossea, gas intestinali, vertigini, ronzii, eruzioni cutanee, infertilità) sono vari e riconducibili a molte altre patologie. Purtroppo il diffondersi di test senza alcuna validità scientifica ha portato le persone prima a supporre e poi a convincersi di essere intolleranti al glutine; automaticamente poi, visto il grande numero di persone colpite da questi problemi (o da queste convinzioni) si è scatenata la corsa all’oro delle industrie: il panico alimentare viene aumentato dalle aziende che producono cibo gluten-free, spesso molto costoso. Ma, anche se è innegabile che una percentuale consistente della popolazione possa soffrire a causa dell’intolleranza al glutine, non è dimostrato che chi invece non appartiene a questa categoria possa avere dei vantaggi evitando tutto ciò che lo con-
tiene. Non vale sempre la regola che “sono stato meglio perché ho eliminato il glutine”; se avete risolto dei sintomi evitando il glutine bisogna prima capire se, contemporaneamente, avete anche modificato altri aspetti della vostra alimentazione. Voglio dire che, spesso, il miglioramento di alcuni sintomi è più dovuto ad un generale riassestamento dell’alimentazione piuttosto che ad una eliminazione di un certo cibo. A proposito: molti pazienti vengono da me dicendo che sono intolleranti al glutine e poi mangiano tranquillamente farro e kamut: ebbene quella è proprio la prova evidente che l’intolleranza al glutine, in quel caso, non c’è…
LE FINTE UOVA Termino solo con un piccolissimo inciso sulle uova. Ma non su quelle belle uova da gallina ruspante, ma su quelle uova che molti di noi prendono in alcuni fast food, tipo Mc Donald’s, Burger King, Chik-fil-A, Subway, Dunkin’ Donuts, Hardee’s. Ho trovato un’indagine di un giornalista che parla degli ingredienti fantastici trovati in queste pietanze! Quella che segue è la composizione più manipolata, quella di Subway (che ha come slogan “Eat Fresh!”). Ma, attenzione, nella classifica di questa indagine Mc Donald’s è al secondo posto. Il piatto si chiama Egg Omelet Patty (Regular)! Gli ingredienti sono: uova intere, albume d’uovo, acqua, latte scremato in polvere, miscela d’uova di alta qualità, i cui ingredienti sono: isolato di proteina del pisello, sale, acido citrico, destrosio, gomma di Guar, gomma di xantano, estratti di spezie, antiaddensanti: glicole propilenico (è un solvente per coloranti e aromi alimentari utilizzato anche nell’antigelo, per lubrificare i compressori per condizionatori e nei deodoranti stick) max. 2% silicato di calcio (è un antiagglomerante e un antiacido, viene utilizzato come sigillante per strade, tetti e calcestruzzo) e glicerina (solvente che si può trovare nei saponi, nelle creme idratanti e nelle creme da barba), olio di semi di soia, burro surrogato salato (olio di soia liquido e idrogenato, lecitina di soia, aromi naturali e artificiali, colorante: betacarotene; esaltatori di aromi: TBHQ (previene l’ossidazione degli oli vegetali e si trova anche in vernici, smalti e profumi) e acido citrico; additivo antischiuma: dimetilpolisilossano (vi si ricorre per impedire che dopo un utilizzo ripetuto gli oli di cottura producano schiuma, si trova in molti lubrificanti), sale. Che dire: buon appetito!
LA SCELTA VEGANA
a cura di
Silvia Bianco testimonial di cucina vegana
IL TEMPEH
ANTICHISSIMO E PREZIOSO ALLEATO PER L’UOMO ED IL PIANETA Oggi ho deciso di parlarvi del tempeh, un alimento che porta con sé una storia secolare fatta di gesti ed ingredienti semplici che lo rendono unico al mondo. Il suo pregio sta anche nei suoi eccellenti valori nutrizionali, di cui possiamo trarre beneficio senza rinunciare al gusto e assaporando un’aromaticità che si adatta a tutte le cucine del mondo.
COS’È IL TEMPEH Il tempeh (pronuncia TEM-pay), di provenienza indonesiana, è un popolare cibo fermentato, che consiste nella fermentazione di fagioli di soia cotti ( occasionalmente vengono utilizzati anche altri legumi, semi, cereali e persino il cocco) tenuti insieme da un denso e “cotonoso” micelio generato dal fungo Rhizopus oligosporus che li compatta in panetti dallo spessore di 2cm circa. Il tempeh può essere venduto fresco, refrigerato o congelato, in Italia lo si trova sottovuoto nel banco frigo. Di solito viene affettato sottilmente o fatto a cubetti, fritto o saltato in padella fino a doratura e a superficie esterna croccante. Sapore e struttura del tempeh variano in base alle modalità di cottura; la consistenza e l’aroma talvolta ricordano il “pollo fritto”, le “cotolette di vitello” o “filetti di pesce” presentano sentori lievemente dolci che, a seconda del palato, assumono note simili alle noci, al formaggio, ai funghi ed al lievito del pane appena sfornato. Il processo di fermentazione a cui viene sottoposto lascia la possibilità di affidarsi alla libera interpretazione del proprio gusto, conferendo
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una struttura tale da poter essere affettato, anche molto sottilmente, con consistenza simile alla carne. Il tempeh di soia è il più conosciuto ed utilizzato, ma non l’unico. Tra i miei favoriti c’è il tempeh di arachidi, oppure esiste anche quello di miglio, di riso e soia, oppure il tempeh di okara che altro non è che la polpa ottenuta dagli scarti della preparazione del tofu e/o del latte di soia. In effetti esiste la possibilità di fare innumerevoli tipologie di tempeh che possono essere racchiuse in 5 categorie base: 1) tempeh di legumi, incluse le varianti più tradizionali dell’Indonesia: dalla soia ad altre varietà di fagioli meno conosciute in occidente, ma molto diffuse in Africa, Asia tropicale, America centrale , Sud America ed in India tra cui la Mucuna (Mucuna Pruriens,), il fagiolo alato (Psophocarpus tetragonolobus), la Leucaena leucocephala ed il fagiolo mung (i fagioli azuki verdi per intenderci). Negli ultimi decenni la pratica del tempeh si è estesa anche ai lupini, fagioli dell’occhio, fave e ceci. 2) tempeh di grano o riso lavorati insieme ai fagioli di soia; 3) il tempeh di soli cereali: riso, orzo, miglio, grano, avena, segale; 4) tempeh degli “scarti: vengono riutilizzati i materiali di scarto come l’okara e i residui dall’estrazione degli olii di arachidi, cocco e fagioli mung per creare dei deliziosi panetti; 5) tempeh di semi e legumi: con semi di sesamo e soia. Nella tradizione indonesiana si era soliti aggiungere dei “filler” per diminuire i costi e azzerare gli scarti aggiungendo alla pre-
LASCELTAVEGANA
parazione tradizionale l’okara, la cassava, le bucce dei fagioli, le patate dolci e gli scarti dalle estrazioni dell’olio di cocco. Nel mercato indonesiano il tempeh viene preparato e venduto in quattro stadi di fermentazione diversi. Si trova così una versione più “acerba” il cui periodo di fermentazione varia dalle 4 alle 6 ore massimo ed il panetto assume una consistenza leggermente compatta; una versione al giusto stadio di maturazione (circa 48 ore) ed è il classico che troviamo nei nostri negozi; poi uno stadio un po’ più maturo del classico, lasciato a fermentare dai 2 ai 3 giorni in più ed infine la versione ben oltre le tempistiche di fermentazione standard, prolungata per ulteriori 3/5 giorni. Più si allungano i tempi di fermentazione più si ottiene un aroma molto simile al formaggio Camembert la cui caratteristica è proprio quella di essere ricoperto da una crosta costituita da una “muffa” bianca.
AUTOPRODURRE IL TEMPEH OGGI E NELLA TRADIZIONE INDONESIANA Fare il tempeh a casa è molto semplice, non richiede tempi biblici ed è anche molto economico. Basta procurarsi dei fagioli di soia gialla biologici, lavarli, portarli ad ebollizione, spegnere la fiamma e lasciarli in ammollo per almeno 12 ore. Dopodiché sfregare energicamente i fagioli tra i palmi delle mani per privarli delle bucce che andremo a gettare. Sostituire l’acqua aggiungendone di fresca per un volume pari al doppio della soia ammollata, portarla ad ebollizione e far cuocere per 45 minuti circa aggiungendo 2 cucchiai di aceto di mele; scolare la soia e farla asciugare nella pentola a fuoco bassissimo. Farla raffreddare sino ad una temperatura di circa 35°C ed a questo punto aggiungere 4 grammi di starter composto principalmente dal fungo “Rhizopus oligosporus”; mescolare e riempire due sacchetti grandi per alimenti (tipo Cuki), posizionarlo su un piano orizzontale, eliminare l’aria all’interno appiattendolo fino a circa 3 centimetri, sigillare il lato aperto con una pinza o con la zip in dotazione. Praticare sul sacchettino dei piccoli fori ad 1 centimetro di distanza e conservare tra i 28° e 31°C per circa 48 ore. A casa si può mantenere la temperatura dei 31°C posizionando il nostro sacchettino nel forno insieme ad una pentola piena d’acqua bollente e sigillata, mantenendo lo sportello del forno chiuso per 48 ore. Io mi trovo meglio posizionando il panetto direttamente nell’essiccatore che mi permette di avere un maggior controllo impostando direttamente il timer e la temperatura necessari. Dopo 48 ore otterrete un panetto ben compatto e solido, rivestito da una patina bianca, dal leggero odore di ammoniaca.
Se vi è una leggerissima presenza di macchiette grigio/nere, trattasi della muffa sviluppata proprio dal fungo Rizhopus; queste non pregiudicano la qualità ed il sapore del prodotto, l’importante è che siano solo delle macchie sporadiche. Una volta pronto va conservato in frigorifero per 3/5 giorni, oppure anche un paio di settimane se avete la possibilità di metterlo sottovuoto. Con queste quantità si ottengono circa 900 grammi di tempeh ad un costo irrisorio: 500 grammi di soia gialla biologica massimo € 2,00, 4 grammi di starter Rizhopus circa € 1,40, quindi con meno di € 4 ottenete 900 grammi di tempeh, mentre il costo al supermercato varia da € 4,50 a € 5,50 (o anche di più) per circa 250 grammi. Un notevole risparmio per un prodotto dalle caratteristiche nutrizionali eccezionali e che si presta a diverse preparazioni in cucina. Nella tradizione indonesiana il procedimento di produzione del tempeh è molto simile a quanto descritto qui sopra, ma stupisce per la semplicità ed originalità di due passaggi: i fagioli di soia vengono privati della loro pellicina pestandoli con i piedi in ceste di bamboo piene d’acqua permettendo una sorta di prefermentazione; vengono poi inseriti tra foglie di ibisco a mò di sandwich, dove il micelio matura e viene trattenuto dalla sottile peluria delle foglie stesse permettendo la sporulazione. Per tutto il periodo della fermentazione vengono confezionati in pacchetti di foglie di banano.
CARATTERISTICHE NUTRIZIONALI DELLA SOIA La soia è un’eccellente fonte di nutrienti chiave: contiene gli 8 amminoacidi essenziali necessari all’uomo (o 10 se si includono tirosina e cistina), con abbondante lisina che invece scarseggia nella maggior parte dei cereali, i quali a loro volta compensano con un’alta disponibilità di metionina e cisteina presenti in quantità inferiori nella soia. A differenza del tofu, il tempeh è un cibo integro ricco di fibre che permettono di controllare i livelli di colesterolo nel sangue. E’ un prodotto dietetico poiché contiene circa 160Kcal ogni 100gr, pochissimi grassi saturi, abbondanti grassi polinsaturi come l’acido linoleico e non contiene colesterolo. Il tempeh è molto digeribile, grazie ai processi di ammollo, cottura ma soprattutto quello di fermentazione, che riducono enormemente gli “zuccheri” che causano gas intestinali. Il processo di fermentazione rende la soia più morbida e tenera grazie agli enzimi prodotti dal fungo che predigeriscono le proteine (e parte degli olii) trasformandoli in amminoacidi, rendendoli più facilmente assimilabili dal corpo umano. E’ uno dei pochissimi prodotti fermentati vegetali che viene preparato senza aggiunta di sale. Infine, oltre alle vitamine del gruppo B, il tempeh è un’ottima fonte di altre
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LA SCELTA VEGANA
vitamine e minerali resistenti al calore (vitamina A, niacina, calcio, fosforo, ferro, etc). Tutte queste caratteristiche rendono il tempeh il cibo ideale per coloro che tengono alla propria salute.
LA STORIA DEL TEMPEH Il tempeh ha origine nell’isola di Java, la cui popolazione aveva una lingua propria sin dai tempi antichi, costituita da un insieme di dialetti derivanti dalla lingua malese ed austronesiano antico; soltanto intorno al 1928 il malese divenne la base della lingua ufficiale odierna dell’Indonesia che oggi si somiglia molto, ma che ha subito le influenze dalla colonizzazione olandese. Non è stato trovato molto di scritto sull’origine del tempeh, etimologicamente si sa solo che era sillabato “témpé” con la ”é” da pronunciare come “ay”; per convenzione gli accenti sono stati successivamente rimossi ed aggiunto una “h” finale per indicare la pronuncia “TEM-pay” e non “temp”. Da alcuni studi effettuati sembrerebbe che il tempeh abbia avuto origine più di 2000 anni fa, forse introdotto dai primi commercianti che esportarono dalla Cina un prodotto fermentato con una muffa “Aspergillus Oryzae” che venne poi sostituita dai javanesi con il Rhizopus che più si adattava al clima indonesiano. Verso fine 1600, l’Indonesia divenne colonia olandese e, ad inizio 1900, si ebbero i primi scritti sul tempeh proprio da studiosi olandesi che, oltre a pubblicarne le metodologie di produzione, ne analizzarono l’aspetto nutrizionale, chimico e microbiologico. Ben presto anche studiosi americani furono colpiti da questo prodotto e iniziarono ad approfondire le sue qualità per introdurre questa fonte di proteine nell’alimentazione infantile. Un enorme merito circa la diffusione del tempeh in America, l’ebbe l’azienda agricola “The Farm” nel Tennessee: una comunità di circa 1.400 persone unite da uno spirito sociale ed agricolo di auto-sostentamento.
Grazie alle loro ricerche, iniziarono ad autoprodurre il tempeh per uso interno alla comunità stessa e, successivamente, per essere distribuito all’esterno a mezzo posta, oppure attraverso i negozi delle aziende agricole a loro collegate situati in altri stati come la California e la Louisiana. L’interesse iniziò ben presto a crescere in altri stati d’America e nel resto del mondo anche grazie alla distribuzione del libro “Farm Vegetarian Cookbook” edito proprio da questa comunità, dove si dedicò un’ampia sezione al tempeh e relative ricette.
VANTAGGI DEL CONSUMO DEL TEMPEH I vantaggi del consumo del tempeh sono numerosissimi e toccano diversi aspetti: sociale, ambientale, umano ed economico. Innanzitutto la sua produzione favorisce l’economia delle popolazioni più povere: un costo bassissimo dato da ingredienti semplici e modesti, la cui lavorazione non richiede tecnologie e macchinari speciali ed onerosi. Inoltre le caratteristiche climatiche delle aree tropicali, tipiche di molte società in via di sviluppo, facilitano il procedimento di fermentazione in qualsiasi momento dell’anno a temperatura ambiente, senza ricorrere all’utilizzo di impianti di riscaldamento. Le tempistiche di fermentazione sono di gran lunga più brevi rispetto a quelle a cui vengono sottoposti molti altri cibi fermentati garantendo una produzione e disponibilità continue e sfruttando al massimo tutti i materiali di scarto (okara, bucce e residui delle estrazioni di oli di arachidi, cocco, etc) per evitare qualsiasi spreco. Il tempeh è la proteina a salvaguardia del pianeta e dell’uomo: data un’area di piantagioni di soia (che ad oggi è la proteina meno costosa in assoluto che abbiamo a disposizione), si può
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I vegani consumano troppa soia che oltre ad essere OGM è un prodotto allergenico (Gioia - Firenze) In realtà la soia OGM in Italia esiste solo come coltivazione sperimentale e quella OGM che arriva dall’estero deve essere indicata in etichetta obbligatoriamente per legge. Inoltre nessuno vuole acquistare prodotti OGM per il consumo umano e l’unico utilizzo che si fa della soia OGM proveniente dall’estero è per il mangime degli animali da macello (anche vari frumenti come il mais sono OGM e vengono prodotti per foraggiare gli allevamenti), ma non è assolutamente destinata al consumo umano. La soia viene considerata un prodotto allergenico, perché contiene certe sostanze come l’istidina, che altro non è che un amminoacido, che può trasformarsi in istamina e produrre infiammazioni. Questo succede quando il nostro intestino è privo di alcuni particolari batteri con la funzione di legare l’istidina alla betalanina. Se il nostro intestino è colonizzato da una buona flora batterica, abbiamo tutti questi batteri “buoni” che uniscono istidina alla betalanina, formando la carnosina deputata tra le sostanze antiossidanti ed anti-invecchiamento. Di conseguenza la soia contribuisce all’inversione dell’invecchiamento (grazie alla carnosina) anziché sviluppare allergia all’istidina. Il problema non è quindi la soia e prima di passare alla sua eliminazione o peggio ad assumere farmaci antiacidi ed antibiotici bisognerebbe valutare la situazione batterica intestinale riequilibrandola con dei probiotici.
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LASCELTAVEGANA
produrre sino all’85% di proteine UTILIZZABILI rispetto a quelle che si otterrebbero utilizzando lo stesso appezzamento di terra per allevare animali da macello, sfruttando tecnologie elementari senza che la materia prima subisca processi di rilavorazione infiniti che depauperano le sue qualità nutrizionali. La soia inoltre può essere coltivata in diverse tipologie di terreni e condizioni climatiche adattandosi dal clima equatoriale brasiliano a quelli più temperati come l’area giapponese di Hokkaido; è resistente a molte malattie e si sviluppa in natura senza l’uso di troppi fertilizzanti. La versatilità in cucina del tempeh è straordinaria e richiede pochi minuti di cottura. Lo si può utilizzare ad esempio per fare dei burger, dei sandwich, oppure per degli spiedini o cotolette.
Si possono creare anche dei cremosi condimenti e spalmabili, delle croccanti fettine o cubetti da utilizzare come “crostini” in insalate, zuppe, o aggiunto sulla pizza, con del riso saltato, negli stufati o nel sugo. Gli amanti del tempeh apprezzano la cottura più semplice e popolare, ovvero fritto in poco o abbondante olio. Una interpretazione di questo formidabile alimento ce la fornisce la chef Alice Chiara del ristorante vegan “Timo cucina naturale” in Via Castello 102 a Desenzano del Garda (BS), che pone particolare attenzione nella scelta delle materie prime a Km 0 e biologiche dedicandosi alla produzione dei lievitati a lunga lievitazione come le pizze ed il pane ed anche ai dolci con farine poco raffinate.
TEMPEH
alla piastra con cipolla caramellata e chips al forno INGREDIENTI
g. 200 di tempeh alla piastra, 2 cipolle rosse di Tropea pic-
cole o 1 grande, 2 zucchine, 2 carote, zucchero integrale di canna, salsa di soia, olio evo.
Per le chips: 2 patate grandi, olio evo, sale. PREPARAZIONE
La prima regola: scegliere ottime materie prime. Il tempeh
deve essere in partenza già di buona qualità per ottenere un adeguato risultato finale.
Tagliare la cipolla a fettine il più possibile sottili, porle in una padella, coprire con 3/4 cucchiai abbondanti di zucchero
di canna integrale e caramellare a fuoco lento mescolando delicatamente di tanto in tanto (il fuoco dev’essere dolce per evitare che il caramello si bruci).
Pulire e pelare le carote, tagliare le zucchine a fettine sottili dividendole prima a metà.
Cuocere separatamente insaporendo con un goccio di salsa di soia. Tagliare il tempeh sottilmente, farlo insaporire per qualche minuto insieme alla cipolla quindi, a fuoco spento, unire le verdure. Lavare le patate e tagliarle a fettine sottili senza levare la buccia, disporle su una placca rivestita di carta forno, condirle con olio extravergine e sale, quindi cuocerle in forno a 220ºC fino a doratura.
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Gala teo ASSAGGI DI
a cura di
Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico
PROLOGO AL SERVIZIO DEL VINO COME CONSIGLIARE IL CLIENTE SULLA SCELTA GIUSTA
“Invitare qualcuno a pranzo significa occuparsi della sua felicità finché sarà sotto il nostro tetto”. È questo quello che pensava Anthelme Brillat-Savarin ed anche ciò che dovrebbe pensare ogni buon albergatore o ristoratore circa l’arte del ricevere. Il commensale ha un ruolo centrale nella scena di ogni realtà ristorativa e non sempre i riflettori sono puntati su di esso in modo consono. Negli ultimi anni la cucina ha subito un’evoluzione di esposizione mediatica molto importante e questo ha attirato la curiosità crescente di molti ammiratori. Ormai la conoscenza di importanti guide gastronomiche è alla portata di tante persone e i format televisivi inducono a cimentarsi nel mondo della cucina con ricette sempre più elaborate e originali o a ricercare ambienti di ristorazione sempre più particolari, creando a volte movimenti di pellegrinaggio verso i ristoranti più famosi dove le liste d’attesa possono diventare lunghe svariati mesi. La cucina è difficile, c’è un mix di amore, tecnica, creatività e arte visiva molto complesso, ma la sala è un ambiente non meno difficoltoso. Il vino costituisce sicuramente uno degli ambiti più difficili riguardanti il servizio. La scelta di questa bevanda è un’occasione molto importante che peserà su tutto l’andamento del pranzo o della cena, per questo non si dovrà mai porre fretta al cliente, altrimenti andremmo a sminuire un prologo fondamentale all’esperienza gastronomica. Un momento che a sua volta potrebbe anche diventare imbarazzante quando la cantina del ristorante offre una carta notevole,
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dove però spesso le poche informazioni di base non aiutano l’ospite nell’ordinazione. Ogni buon manuale di bon ton suggerisce al commensale di mostrarsi disponibile a essere consigliato, ma allo stesso tempo di non essere totalmente impreparato sulla scelta. Se sarà una cena di degustazione programmata dal ristorante è probabile che ci sia un abbinamento di alcuni calici già prestabilito in base al menù; se la scelta avverrà direttamente dalla carta spetta al cliente selezionare il vino. Una volta fatto accomodare a tavola, portato il menù e la carta delle bevande, il responsabile del servizio prenderà la comanda e la passerà al sommelier o all’incaricato che si occupa della cantina per comprendere quale proposta è più consona ai piatti ordinati. Data la regola della centralità del nostro ospite, ci rivolgeremo sempre in tono gentile e mai in modo altezzoso o saccente, anche quando ci sarà rivolta la domanda più banale o un’affermazione non veritiera. Il mondo del vino è molto articolato e vasto, vi sono innumerevoli informazioni da conoscere su ogni bottiglia come la provenienza, l’uvaggio, la temperatura ottimale, la denominazione, la zona di produzione e le storie di costume e tradizione ad esso collegate, per non parlare di annate e altre informazioni tecniche di produzione. Questo argomento così ampio però non dovrà mai tediare i commensali togliendo tempo prezioso nel momento di condivisione del pranzo o della cena. La bravura del sommelier in primo luogo non sta nella conoscen-
ASSAGGIDIGALATEO
za del mondo del vino, bensì della tipologia di clientela, quindi bisogna saper ascoltare e decifrare in breve tempo chi si ha davanti. In una stessa carta ci saranno più vini adatti allo stesso abbinamento, ma con fasce di prezzo differenti o di provenienza diversa. Una coppietta in cerca della propria cena romantica è molto differente da un gruppo di manager seduti a tavola per una colazione di lavoro o di un appassionato di gastronomia alla ricerca di emozioni mai provate prima. Se il cliente ha già bene in mente quale bottiglia ordinare, procederemo a trascriverla nella comanda chiedendo se si vuole aprire il pasto con un aperitivo collegato ad un entrèe. Se notiamo che il cliente cerca il vino da noi consigliato sulla carta per una questione di prezzo e percepiamo un certo imbarazzo, possiamo indicare in modo disinvolto un’altra bottiglia come scelta meno pretenziosa rispetto alla precedente. Un addetto alla vendita come un sommelier o un responsabile di sala deve saper consigliare al cliente con maggiore disponibilità di spesa una bottiglia che si abbini in modo adeguato, ma che costituisca anche una fonte di ottimo margine di ricavo per il proprio ristorante, o un vino più economico, ma che saprà egregiamente accompagnare il pasto, per un cliente meno agiato. Su questi aspetti bisognerà far sentire il nostro ospite sempre a suo agio nell’aver compiuto la scelta giusta, anche con una bottiglia dal tenore più basso. Per la clientela estera - spesso con una conoscenza enologica minore, fatta eccezione per i francesi - è bene puntare sul racconto del territorio che dà vita a quel determinato vino, sulla sua storia unita a qualche mito o curiosità: verrà molto apprezzato.
Scontrarsi con la base culturale degli ospiti non è cosa semplice da gestire; può capitare, una volta spiegati i pregi e le particolarità di una determinata bottiglia, che questa poi torni indietro in quanto non gradita, ma ciò non deve mai creare imbarazzo o tensione: si cambia consigliando qualcosa di più flessibile al palato. Un paio di anni fa in un noto ristorante di Milano, di fronte a un menù degustazione di cui gli invitati non conoscevano le portate, venne proposta una bollicina prima dell’arrivo degli antipasti. Un albergatore di pluriennale esperienza, alla domanda del sommelier se fosse di suo gradimento, rispose: “Bevibile”. In quel momento il sommelier gli chiese se gradisse qualcosa di più strutturato, ma lui gli rispose: “Non so cosa mangiamo, quindi me lo deve dire lei”. È molto importanti in questi casi essere coerenti e sicuri dell’abbinamento proposto, altrimenti ne viene meno la professionalità. Bastava chiarire come quello spumante così delicato si abbinasse bene con l’antipasto leggero, ma dai sapori decisi, che sarebbe stato servito subito dopo. Se invece la trattazione sulle proposte enologiche si dovesse dilungare sfiorando i limiti, o quando gli ospiti sono in disaccordo fra loro, sarà abilità di chi consiglia proporre una degustazione al calice, accontentando i diversi palati e dando la possibilità di degustare più vini per i diversi piatti scelti. Il sommelier prima di essere l’esperto del vino, deve diventare esperto della psicologia del cliente e, come ogni bravo cameriere, dovrà capire le situazioni e regolarsi di conseguenza, cercando di rendere ogni pasto un momento di grande importanza.
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PROGETTARE L’IMPRESA
a cura di
Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop
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ABITUDINI DI SCELTA AL RISTORANTE
SIAMO NEL BEL MEZZO DEL PIÙ GRANDE STRAVOLGIMENTO DAGLI ANNI 70 AD OGGI Stiamo assistendo al più grande cambiamento d’abitudini d’acquisto al ristorante dagli anni ‘70 a questa parte, ma accorgersene non è affatto scontato. E ancora meno scontato sarà sfruttare questo cambiamento per migliorare il giro d’affari del proprio ristorante. Cosa possibile con il menu engineering. Tradizionalmente parlando - diciamo a partire dagli anni ‘70, quelli del vero e grande boom economico italiano, nel quale il mangiare fuori casa era divenuto sinonimo di benessere e quindi pretesto di ostentazione - l’italiano è abituato ad un pasto di quattro portate, così composto: - Antipasto - Primo piatto - Secondo piatto con contorni - Dessert ed eventuali digestivi
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Questa, se vogliamo, nel panorama internazionale, è un’anomalia. Infatti nel resto del mondo occidentale il pasto è composto da tre sole portate. Le stesse tre portate verso le quali stanno velocemente virando le abitudini dell’italiano: - Entrèe - Piatto principale e contorni - Dessert e digestivo Questo aspetto rappresenta una e propria rivoluzione nelle abitudini di consumo al ristorante. Ma quali sono le ragioni di tutto ciò? Chi scrive ne ha individuate due, quelle che reputa principali: 1. La prima delle due ragioni è certamente addebitabile alla profonda crisi economica che stiamo attraversando.
PROGETTAREL’IMPRESA
Non vogliamo cadere nel banale, o nell’ovvio, ma è evidente e lapalissiano che questi aspetti macroeconomici abbiano influito su tutto ciò che riguarda le nostre vite, anche sull’esperienza che siamo soliti vivere al ristorante. “Crisi” che, nella quotidianità, equivale ad una riduzione importante del potere d’acquisto, la quale si traduce in una diminuzione del numero di portate ordinate al ristorante. Il viraggio verso le tre portate dei menù “internazionali” è spesso un obbligo, più che una scelta. 2. La seconda ragione è attribuibile alla globalizzazione. “Globalizzazione” non significa altro che “appiattimento” nelle abitudini di tutto il mondo occidentale. Per quanto non sia facile ammetterlo, stiamo importando abitudini da altri Paesi. Occidentali e non. Millenials e baby boomers, così si chiamano le due generazioni che coprono la fascia di età compresa tra i 18 e i 60 anni. Queste sono i due attori principali nella scena ristorativa italiana. Si stima infatti che più dell’80% degli introiti del comparto ristorativo derivi dalla spesa addebitabile a queste due anagrafiche. Millenials e Baby boomers viaggiano spesso, sono connessi 24/7 ai loro smartphone e tablet, sono appassionati, informati e educati (o maleducati) al mondo della ristorazione contemporanea e, come se non bastasse, hanno tutto ciò che cercano a distanza “un click”, e questo influisce sulle loro abitudini d’acquisto al ristorante. Ma per convincersi di questo cambiamento non è necessario fare il giro del mondo, nemmeno virtuale; è sufficiente puntare il dito verso noi stessi: quand’è stata l’ultima volta che al ristorante abbiamo consumato un pasto completo composto da quattro portate in un momento che non fosse un avvenimento importante? O, nel caso chi legga sia il titolare di un ristorante, quand’è stata l’ultima volta che un cliente ha ordinato un pasto completo composto da quattro portate? Si sta prendendo consapevolezza, anche inconsciamente, a più livelli: si pensi all’aumento medio delle porzioni in tutti i primi piatti, o all’aggiunta di contorni di default ai secondi piatti. Sono tutti indizi del profondo stravolgimento che stiamo vivendo. Non da ultimo, si pensi ai format più in voga al momento: hamburgerie, pizzerie di nuova concezione, ristoranti etnici di ogni tipoligia, street food ecc. ecc. Sono TUTTI format nei quali la formula è: - Entrèe (spesso condiviso da più persone) - Piatto principale e contorni - Dessert e digestivo
Questo, piaccia o non piaccia, sta profondamente cambiando le abitudini dell’italiano a tavola. E anche se sono tutti trend temporanei, anche se sono destinati ad un declino prossimo ed inevitabile, lasceranno tracce indelebili nei consumatori di oggi e nel loro modo di consumare cibo fuori e dentro casa. Eppure questo cambiamento non viene recepito con la velocità necessaria che occorrerebbe per rimanere competitivi e aggiornati. E ciò si traduce in una diminuzione drastica degli incassi e delle marginalità. Infatti possiamo anche continuare a proporre un menù di quattro portate, ma i clienti del 2016 continueranno ad ordinarne tre. E se nei nostri menù non troveranno niente che soddisfi le loro “nuove abitudini” ne ordineranno due. O peggio, non faranno ritorno. E perderemo opportunità. La soluzione si chiama menu engineering. Il menu engineering è l’arte e la scienza di utilizzare il menù per aumentare gli incassi del proprio ristorante. Il menu engineering, tuttavia, non riguarda solo il menù. Riguarda anche tutto quelle scelte strategiche che andranno a definire il menù. Secondo il parere di chi scrive, quindi, il menu engineering può aiutare a cavalcare questo cambiamento in due modi possibili: 1) In primo luogo è necessario rendersi conto che questo cambiamento è reale. Alla base di tutto c’è la consapevolezza. 2) In secondo luogo occorre PREVEDERE queste “nuove abitudini”, e occorre rispondere con una formula adatta a soddisfare queste nuove esigenze, e trasformare questa formula in un menù che vada incontro ai gusti e alle abitudini dei clienti. Per esempio, si potrebbe inserire sul menù l’equivalente di un entrèe che gli ospiti possano CONDIVIDERE ad un prezzo fisso preventivato. In America lo chiamerebbero plate-to-share. Potrebbero essere una serie di assaggi di antipasti della casa, oppure una selezione di alcuni piatti da condividere in attesa del piatto principale, che potrebbe rimanere un primo o un secondo piatto scelto dalla carta, per poi concludere con un dessert e un digestivo. Oppure si potrebbero prevedete dei menù fissi, a prezzo fisso, a formula degustazione, che vadano nella direzione di un pasto completo, ma con marginalità fissate, che soddisfano cassetto e clienti. La base di partenza, in ogni caso, è sempre lei: comprendere che le abitudini stanno cambiando, e che il volto del consumatore di oggi non è più quello a cui eravamo abituati sino a pochissimi anni fa.
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GOLAVAGANDO
A LONDRA
THE BUTCHER’S THEATER È LA SPETTACOLARE SCENA PER CIBO DI ELEVATA QUALITÀ “Servono le sconfitte più delle vittorie. Le cadute mi hanno sempre ricordato che faccio meglio a tenere i piedi ben piantati a terra!”. A parlare è Roberto Costa, genovese di nascita e ora star della ristorazione londinese. Partito dal basso con tanta voglia di fare, apre nel 2003 il Maxelà, macellaio in dialetto genovese, macelleria con cucina nel cuore di Genova. Un format di grande successo e fonte d’ispirazione per 14 ristoranti sparsi in tutta Italia. Da lì, grazie a un mix di coraggio, capacità e determinazione, il passo verso Londra è stato breve. Correva l’anno 2012 quando aprì a South Kensighton, davanti alla casa d’aste di Christie’s, Il Macellaio, il suo primo ristornate macelleria in grado di guadagnarsi la piena approvazione del celebre “The Guardian” e il 120esimo posto su 18.600 ristoranti londinesi su TripAdvisor. Solo carne rigorosamente piemontese d’altissima qualità, controllata e certificata è la vera protagonista del successo di Roberto Costa e dei suoi locali che nel frattempo, a Londra, sono diventati tre. Dopo la seconda apertura de “Il Macellaio” nell’East London, ora, per Roberto, è la volta di far le cose ancor più in grande,
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GOLAVAGANDO
forte della sua passione e dell’estro e dell’esperienza di Costa Group che ha curato il progetto e il design de The Butcher’s Theater, Il Teatro del Macellaio in Union Street. Un vero e proprio palcoscenico, tendoni e un altare di marmo rosso di Verona e bianco di Carrara sono il cuore di questo luogo culto per gli amanti della carne.
Spettacoli scenografici accompagnano infatti il cliente durante la cena che si può gustare anche comodamente seduti a lato di una particolare passerella ideata appositamente per poter essere non solo un tavolo ma anche un luogo di passaggio e di azione per Roberto e il suo staff. Unico nel suo genere è il rivestimento del banco bar, svasato, in marmo bianco di Carrara e Bardiglio come spettacolari sono la grafica e la comunicazione volte a esaltare il mondo della macelleria nella sua sacralità. Altra novità rispetto alle aperture precedenti è lo spazio dedicato alla Bakery. Al secondo piano del “The Butcher’s Theater” si sforna infatti ottima focaccia e si produce pasta fresca come nella migliore tradizione di un ligure doc!
THE BUTCHER’S THEATER Union street 229, Londra
Design e Arredo
Costa Group, Arch. Sara Paveto
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GOLAVAGANDO
MASUELLI SI NASCE DA 95 ANNI LA TRADIZIONE CULINARIA PIEMONTESE SPOSA QUELLA MENEGHINA di
Maria Chiara Zucchi
È il 1921. È l’anno in cui l’avvocato milanese Paolo Venini, con una lontana tradizione familiare nella lavorazione del vetro, e l’antiquario veneziano Giacomo Cappellin fondano la vetreria Venini, l’azienda che é destinata a cambiare la storia del vetro d’arte di Murano. Anticipare ed orientare il gusto é la mission di Paolo Venini e per poter perseguire il proprio obiettivo si avvale di architetti, di artisti e di designer tra i quali, negli anni trenta, spicca il nome di Gio Ponti. È sempre il 1921. I coniugi Virginia e Francesco Masuelli lasciano il Piemonte non per raggiungere l’America, data la crisi epo-
cale, ma per coronare il sogno di aprire un locale di ristoro. Rilevano così la “Trattoria con alloggio San Marco”, in viale Umbria, una delle vie strategiche della zona commerciale della Milano dell’epoca. La trattoria Masuelli nasce come bottiglieria con uso di cucina, nella quale vengono accolti con calore anche i tanti lavoratori che non si possono permettere il ristorante e che con l’acquisto di un bicchier di vino possono consumare la propria schiscétta (il portavivande, secondo il dialetto meneghino) scaldata nella cucina della signora Virginia. Due storie imprenditoriali molto diverse, ma appartenenti allo stesso periodo: la grande grande crisi degli inizi del 900. Entrambe le storie si raccontano e si intrecciano all’interno della Trattoria Masuelli mediante la magnificenza degli splendidi lampadari Venini, disegnati da Gio Ponti, che scendono
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GOLAVAGANDO
dal soffitto blu, diventando protagonisti indiscussi del locale insieme all’imponente vecchio bancone dell’ex bottiglieria, nell’ingresso. Le vetrate liberty, le sedie Thonet, i mobili di artigiana manifattura raccontano la storia degli anni successivi e rafforzano la certezza di trovarsi in un esercizio storico gestito, nel tempo, con il rispetto per la tradizione e la storia. Se non bastasse, c’é sempre Giuseppe Masuelli, patron dal 1955, pronto a raccontare 95 anni di pranzi e cene, tramandate oralmente
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GOLAVAGANDO
AGNOLOTTI ALLA PIEMONTESE ragù di Fassona
dai nonni e poi vissute in prima persona da lui e dalla moglie Tina e oggi dal figlio Massimiliano. Tanto per citarne una importante: il movimento Slow Food é nato con Carlo Petrini alla tavola di questa trattoria. Con le nuovi correnti di pensiero arrivate nelle cucine degli anni ‘80, Giuseppe ha poi deciso di viaggiare e far viaggiare la moglie per apprendere meglio le nuove tendenze e riuscire a coniugarle con le solide certezze della tradizione, che hanno sempre caratterizzato la cucina della trattoria. La trippa milanese con fagioli, la pasta e fagioli con il cucchiaio in piedi, il risotto alla milanese con pistilli di zafferano, l’ossobuco di vitello spiccano nel menú tanto quanto i piatti di langarola e Monferrato come gli agnolotti fatti in casa con il ragù o la battuta di fassona piemontese con uovo di quaglia. Un menú fedele alla tradizione che segue rigorosamente la stagionalitá delle materie prime, selezionate con attenzione. Il tocco del figlio Max si riconosce nell’incontro tra terra e mare di alcuni piatti, come, per esempio, la delicata vellutata di ceci con concassé di pomodoro ed olio evo con code di gambero appena scottate. La sintesi di un progetto che affonda le radici nel passato si è dunque compiuta con armonia, nel rispetto della storia. E l’apparente semplicità di un’offerta fedele a se stessa, per dirla con Giuseppe Masuelli ”non é superficialità o banalità, ma il riassunto di un lungo percorso complesso, ma appagante”.
TRATTORIA MASUELLI SAN MARCO Viale Umbria 80 - Milano Tel. 02 55184138
Aperto a pranzo e a cena da martedì a sabato
Chiuso domenica e lunedì a pranzo www.masuellitrattoria.com
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INGREDIENTI per 4 persone
Per la pasta: g. di 300 farina 00, 3 uova,1 pizzico di sale.
Per il ripieno: g. 200 di noce di vitello, g. 100 di coppa di maiale fresca, g. 100 di erbette, 1 cipolla, 1 costa di sedano, 1 carota, 1 foglia di alloro, l. 1 di brodo di verdura, sale, pepe, parmigiano reggiano, 1 uovo
Per il ragù: g. 200 di trito scelto di Fassona, g. 50 di salsiccia di Bra, 1 cipolla, 1 costa
di sedano, 1 carota, 1 spicchio d’aglio, g. 50 di coppa di Zibello, g. 200 di pomodori pelati, g. 50 di salame nostrano (Piemontese), sale, olio extravergine d’oliva, pepe, rosmarino, salvia, alloro. PROCEDIMENTO
Preparare la pasta: versare nell’impastatrice 300 grammi di farina, tre uova, un pizzico di sale; impastare per circa 10 minuti a velocità minima.
Una volta ottenuto un impasto omogeneo, metterlo in un recipiente in acciaio e lasciarlo riposare in frigorifero per circa un’ora, coperto con pellicola da cucina.
Cominciare a preparare il ripieno: tritare finemente la cipolla, il sedano, la carota e fare rosolare in una casseruola con un filo di extravergine di oliva. Tagliare grossolanamente la noce di vitello e la coppa di maiale fresca. Aggiungere la carne al fondo di
verdure che avremo preparato in precedenza; bagnare con il vino bianco, aggiustare
di sale pepe e fare cuocere a fuoco basso aggiungendo, a poco a poco, il brodo di verdure. Una volta brasato adeguatamente, aggiungere le erbette sbollentate prece-
dentemente e passate in padella con del burro, tritate finemente, aggiustare di sale e pepe, aggiungete il Parmigiano Reggiano a vostro gusto e un uovo. Lasciare riposare il composto in frigorifero fino a raffreddamento.
Per preparare il ragù rosolare con un filo di olio e un cubetto di burro il sedano, la
carota e la cipolla che avremo precedentemente tritato. Con l’aiuto di un robot da cucina tritare finemente la coppa di Zibello, il salame, il rosmarino, la salvia e lo spicchio di aglio, ottenendo così un composto che andrà ad insaporire la preparazione. Ag-
giungerlo al soffritto fatto in precedenza. Rosolare per qualche minuto, aggiungere la carne trita scelta di Fassona piemontese e la salsiccia di Bra. Bagnare con un bic-
chiere di vino bianco e fare evaporare completamente. Aggiungere i pomodori pelati
precedentemente frullati e fare cuocere a fuoco molto lento per circa due ore. Tirare finemente la pasta e, con l’aiuto di un sac a poche, formare delle palline di ripieno. Coprire con un’altra sfoglia di pasta e formare gli agnolotti tradizionali facendo atten-
zione ad espellere completamente l’aria. Cuocerli in acqua salata bollente per circa due minuti; condirli con il ragù fatto in precedenza.
C CKTAIL... a cura di
Daniele Briani foto di
StudioGraf IL BARTENDER
OSTRICHE E CASTAGNE INGREDIENTI
Charles Flamminio
Si dividono a seconda del tipo di alleva-
mento in Fines, Speciali e Pousse.
Inizialmente le concave sono tutte delle
Bartender mixologist
Fines; successivamente vengono sele-
Belludi 42 Riccione
mesi, alla concentrazione di massimo
zionate e le più belle diventano delle Speciali - affinate per non meno di 2 10 ostriche/mq - o delle Pousse, con affinamento per un periodo tra i 4 e gli 8
LO CHEF
Fabio Drudi “Curiosità, passione e tenacia sono gli ingredienti dei miei piatti”
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mesi, ad una concentrazione
massima di 5 ostriche/mq. Le
Fines possono diventare “de
Claire” se vengono affinate per
uno o due mesi nelle claire con
una concentrazione massima di
20 ostriche/mq, oppure “Ver-
di” solo tra ottobre ed aprile,
se affinate in bacini con l’alga unicellulare Navicule Bleue che
“
Dal pre dinner all’after dinner, nasce un nuovo modo di giocare tra solido e liquido. L’alchimia del bere miscelato sposa la cucina con sapori che rimbalzano dall’una all’altra preparazione, in una esperienza sensoriale pienamente coinvolgente.
COCKTAIL MARTINI
”
Gin
Vermouth Dry
3 gocce di Orange Bitter buccia di pompelmo
ne determina la caratteristica colorazione verde.
La zona di allevamento dona sapidità
e gusti differenti; la presenza di foci di
fiume le rende più dolci, mentre più gli
allevamenti sono a nord, più le ostriche sono
salate. Le denominazioni sono nomi commer-
ciali di fantasia, o derivano dalle località di provenienza, dai nomi degli allevamenti.
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I locali
on
Trésor
Scopriamo insieme quali sono i locali che racchiudono piccoli grandi tesori...
Ogni ristorante, locanda o trattoria, famosa o meno, può vantare il proprio “Mon Trésor”, un personalissimo tesoro fatto di attenzione per i dettagli, cura dei propri ospiti, professionalità in cucina e in sala. Noi abbiamo individuato alcuni di questi “Mon Trésor” e li segnaliamo nelle prossime pagine...
golavagando montresor di
Daniele Briani
A BOVOLONE
IL DATTERINO OFFRE UNA GENEROSA CUCINA DI PRODOTTO
Chi non si è mai trovato di fronte ad un bivio nella vita? Penso tutti. Chi per casualità, chi per scelta. Effettivamente esiste sempre un velato tormento nelle persone che non si accontentano, un animo che li fa progredire e aspirare verso quello a cui anelano, anche se in loro non è effettivamente chiaro ciò a cui anelano. Alan Melandri nasce come chef nella taverna della casa paterna, nel territorio veronese. Gli piaceva cucinare quando la “banda” di quindicenni si riuniva a casa sua e già allora non si accontentava certo di affettare del salume o cucinare due uova sode, ma si inerpicava verso pietanze da “adulti” che allora erano dominio esclusivo di nonne e madri. Fu così che, saltando di pari passo la scuola alberghiera, decise di forgiare direttamente sul campo la sua inclinazione gastronomica, lavorando inizialmente come secondo o terzo chef nei ristoranti vicino a casa per poi, una volta sentitosi pronto, varcare la soglia dell’imprenditoria con il suo primo locale. Le cose andavano fin troppo bene, ma si sa, quando va troppo bene magari subentra la routine condita
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Trésor con un po’ di noia e allora perché non dare una sferzata alla vita con un cambio di prospettiva? Detto fatto! Da tre anni il Datterino è una realtà. Qualcosa di diverso da prima: un locale più piccolo con meno posti a sedere - quarantacinque – e più tempo da dedicare alle sperimentazioni, per ricercare sempre qualcosa di nuovo legato alla stagionalità dei prodotti. In questo suo nuovo regno Alan ha liberato la propria personalità e ha potuto inserire molti più prodotti d’alta qualità tra cui numerosi presidi Slow Food che lui ama utilizzare nelle sue pietanze. La pasta è tutta rigorosamente fatta in casa e, a questo proposito, citiamo gli gnocchi di zucca con finferli e tartufo dove la dolcezza della zucca rimane solo un accenno in mezzo al sapore del fungo e del tartufo che però non la dominano, nel contesto carnoso e sodo dello gnocco. Tra i secondi segnaliamo le bruschette con tonno fresco, baccalà cremoso con caviale e gamberi arrosto oppure il polpo alla Datterino che essendo dedicato al nome del locale, è un piatto che rimane sempre in carta. La vasta offerta di dolci
Il Mon Tresor è... LA VERSATILITÀ DELLA PROPOSTA In gergo sportivo si definisce eclettico l’atleta che sa misurarsi ad alti livelli in più varianti del medesimo sport. Una cosa non facile perché richiede apertura mentale, spirito d’adattamento e flessibilità. Diciamo che queste sono le caratteristiche del Datterino. Un solo chef che, per scelta, ha impostato il locale su un limitato numero di posti a sedere, ma per contro un’ampia scelta di cucina dove la costante è la qualità.
ci impone di scegliere lo sfizioso semifreddo al mandarino e fava di tonca, anche se la millefoglie espressa alla vaniglia potrebbe darci dei pentimenti nella scelta. Dai piatti citati potrebbe sembrare che il locale sia orientato più verso una cucina di pesce, in realtà la migliore Black Angus della zona si mangia qui, senza considerare che, di rimando dal locale precedente che era anche una valente pizzeria, Alan ha portato in dote sette pizze in pala alla romana, per le quali utilizza solo pasta lievitata almeno quarantotto ore e gli stessi ingredienti della cucina compresi i presidi Slow Food. La carta vini ricca di almeno cento etichette, con dieci vini al calice e una scelta di nove Champagne, da un’enorme possibilità di abbinamento con un menù così vario. Il Datterino è la prova di maturità di Alan; un riuscito salto in avanti verso una cucina dedicata alla ricerca della qualità, sia nella semplicità di un salume o un formaggio, o nell’elaborazione degli stessi in un piatto o una pizza.
OSTERIA IL DATTERINO
Via Garibaldi, 48 - 37051 Bovolone (VR)
Tel. 045 7102608 - fb osteria il datterino
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golavagando montresor di
Claudio Mollo
IN LUNIGIANA
LOCANDA GAVARINI RAPPRESENTA LA FELICE SINTESI TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Alta Lunigiana, sulla line di confine che separa tre regioni: Liguria, Emilia Romagna e Toscana. Nel 1906, inizia la storia delle famiglie Gavarini e Folloni che, al tempo, aprono un bar-trattoria, di quelli nei quali si trovava di tutto e in più, naturalmente, si facevano bellissime merende ricche di sapori genuini. Ed è proprio l’aspetto “cibo” che, nel tempo, prende il sopravvento e diventa il punto di forza delle successive trasformazioni dell’attività. Dopo varie vicissitudini è Nadia Folloni, nipote della fondatrice della longeva attività, a prendere in mano le redini e a portare fino ai giorni d’oggi un nome storico della ristorazione della Lunigiana. Dalle merende, ai primi piatti di cucina lunigianese: richiestissimi funghi e cacciagione; una felice evoluzione dell’attività porta il locale ad essere sempre più conosciuto e frequentato da una clientela numerosa, proveniente princi-
palmente dalle città di Massa, Carrara e La Spezia. Nel 1999, Fabio, primo figlio di Nadia, entra a pieno titolo nell’attività familiare e, con lui, arriva anche una significativa svolta imprenditoriale e d’immagine, con importanti innovazioni strutturali, che vedono la realizzazione di 5 stanze, l’acquisizione di un fabbricato adiacente nel quale viene realizzata una bellissima enoteca e, negli ampi giardini, anche una piscina. Con l’ingresso di Fabio, il locale acquisisce nuova linfa vitale, grazie agli studi alberghieri e alle sue esperienze lavorative fatte in importanti e storici locali della Versilia. Dopo Fabio anche Pierpaolo, il fratello, entra in gioco, in un ruolo delicato, quello della gestione della cucina, iniziando a firmare i nuovi piatti. La tradizione rimane, con cucinati storici come la barbotta, gli sgabei, la torta d’erbi, i testaroli, e altri; ma viene reinterpretata e l’innovazione inizia a fare capolino nei nuovi menu, gradualmente, per non intimorire troppo la clientela che da anni segue il locale in tutti i suoi cambiamenti. Naturalmente anche babbo Angelo partecipa
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on
Trésor Il Mon Tresor è... LA CONTINUITÀ NELLA GESTIONE Il Montresor di questa “grande” famiglia è proprio l’amore e la grande passione che hanno sempre avuto tutti coloro che si sono succeduti nel tempo al timone di questo progetto in continuo movimento, chiamato Locanda Gavarini, tutti grati all’allora Maria, che tanto tempo fa ha iniziato a muovere i primi passi, conosciuta tra i compaesani con l’appellativo di “cuciniera”, nota per gestire a realizzare a domicilio pranzi e cene su richiesta, in occasione di cerimonie o eventi speciali.
attivamente all’attività, supportando logisticamente moglie e figli. Oggi la Locanda Gavarini propone un’ottima cucina fatta di sapori e cotture attente a non sciupare i prodotti che vengono selezionati con tanta cura da Fabio e Pierpaolo. Nel piccolo borgo di Mocrone, una zona collinare e panoramica nel comune di Villafranca in Lunigiana, il locale è un vero fiore all’occhiello della ristorazione del territorio e dalla piccola via di paese nella quale si trova, si svela agli occhi del cliente con spazi interni inaspettati: ampi giardini e ambienti diversi articolati in modo piacevole e accattivante. Una location molto curata, particolarmente adatta a cerimonie ed eventi. La ristorazione si sviluppa principalmente in due diversi ambienti: uno più dinamico nel quale si consumano pranzi di lavoro e soste gastronomiche brevi e la parte più “gourmet”, l’enoteca, dove le potenzialità della cucina si esprimono al massimo. Un’offerta varia e ricca, quella della Locanda, che continua a crescere, visti gli ampliamenti e modifiche, già nel cassetto e di prossima attuazione.
LOCANDA GAVARINI
Via Benedicenti, 50 - Località Mocrone - 54028 Villafranca di Lunigiana (MS) Tel. +39 0187 495504 - www.locandagavarini.it
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golavagando montresor di
Giovanni Angelucci
NELL’HINTERLAND MILANESE
RISTORANTE DA PALMIRO È GARANZIA DI PESCE FRESCHISSIMO. E OTTIMO CRUDO.
Parabiago, Pogliano, Nerviano sono le famose cittadine della calzatura raggruppate nell’hinterland milanese dove tradizione e qualità convivono da mezzo secolo rappresentati dai marchi calzaturieri di prestigio internazionale. Da 50 anni però nella zona, a Parabiago per esser precisi, di eccellenza indiscussa ce n’è anche un’altra, e non si tratta si super scarpe, ma di cucina: il ristorante Da Palmiro. Una vera chicca per gli amanti del gusto marino e dell’autenticità italiana. Palmiro Sperandio dà vita al suo sogno nel lontano 1971, quando ormai già da anni aveva lasciato la padovana Santa Margherita d’Adige, e da quel giorno non si è più mosso da lì.
Un ristorante per gli amanti del pesce dove mangiare il pescato freschissimo quotidianamente, caratteristica che lo ha reso indimenticabile nelle preferenze di molti. Il signor Palmiro fu tra i primi a proporre il pesce crudo in Lombardia (fatale fu l’incontro con uno chef di Tokyo), una passione innata diventata oggi anche ragione di vita in grado di far vivere un ampio ristorante in cui l’intera famiglia coesiste e lavora. Varcando la porta d’ingresso non c’è margine d’errore: Palmiro vi accoglierà con il suo farfallino e il sorriso sincero di un signore che, come il primo giorno, dopo mezzo secolo, è ancora felice di ospitare chi ha scelto il suo ristorante. Dicevamo, tutto in famiglia: il patròn di casa è aiutato dalla moglie Marcella, dai due figli Massimo e Maurizio che si dividono rispettivamente tra cucina e sala, e dall’impareggiabile fratello Luigino, affabile e cortese come è nei geni. Tutti insieme tra fornelli, comande e servizio in un locale che sa di tempi andati, ancor più piacevole proprio per questo. La cura del dettaglio, la maniera “casalinga” con cui si lavora (sincera e informale ma attenta e precisa), il pesce fresco esposto sul banco all’ingresso, il consiglio sincero dei padroni di casa sul menù quotidia-
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Trésor no. Partire per l’avventura con i crudi di pesce è dunque scontato, il gran plateau verrà servito a coronare il tondo tavolo e tra colori e profumi ci si divertirà fra gamberi, granchi, polpo, tartare di cernia e salmone e mille altre crudità secondo la disponibilità del pescato. Oppure insalata di gamberi con arance e finocchi; cappasanta al gratin; calamari alla piastra; polpo con le patate e composé di pesci al cartoccio. Uno dei piatti di maggiore successo è tra i primi e profuma di champagne, il risotto con burro di scampi, caviale di aringa e il vino francese. E ancora gli squisiti ravioli di branzino con gamberi, pomodoro Pachino e zenzero fresco o il saporito spaghetto con bottarga di muggine, gamberi e cipolla di Breme stufata. Danno soddisfazione i piatti forti presenti tra i secondi come il delicato filetto di branzino alla piastra con carciofi, la scaloppa di cernia al forno, le code di gamberi alla catalana o la padellata di pesce ai carciofi con gustose capesante, calamari e gamberi sodi, pescato secondo stagione. Inoltre, per una pausa pranzo degna, Palmiro ha pensato ad una proposta con cui tra un primo (penne con granchio o risotto alla parmigiana) ed un secondo con contorno (filetto di persico burro e salvia, carpaccio di manzo o tartare di pesce) si spendono sedici euro. I carnivori non si affliggano perchè c’è qualcosa anche per loro: animelle trifolate; costoletta alla milanese e filetto di manzo. Nella stagione giusta si trovano anche fois gras d’anatra, tartufi d’Alba e funghi porcini cucinati.
La carta dei vini riporta alcune tra le più importanti etichette italiane e una buona selezione di quelle del mondo con un onestissimo rincaro (come sempre dovrebbe essere). Ricordate di non chiedere un “digestivo” a fine pasto: sarebbe un oltraggio visto che è disponibile un’ampia selezione di distillati di qualità.
Il Mon Tresor è... LA CUCINA DI MARE Il MonTrésor è la freschezza del pesce che la famiglia Sperandio mette a disposizione ogni giorno per la propria clientela, è questo che ha reso un semplice ristorante di periferia la mecca della buona cucina di mare.
RISTORANTE DA PALMIRO
Via del Riale, 16 - Parabiago (MI) www.ristorantedapalmiro.it info@ristorantedapalmiro.it
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na storia imprenditoriale di successo nella ristorazione Un concetto di alta ristorazione sviluppato nei quattro ristoranti di proprietà, una visione imprenditoriale che trae vantaggi dal legame con il territorio d’origine e che ha una prospettiva di crescita continua: l’obiettivo di distinguersi dalla concorrenza puntando su aspetti che rendono unici. Stefano Bartolini - una laurea in economia e un ritorno alle origini con l’apertura del suo primo locale nel 1985 - è convinto che la qualità del cibo, la creatività dello chef, una carta dei vini in grado di soddisfare precise richieste, non sono le sole condizioni necessarie per garantirsi uno sviluppo imprenditoriale significativo nel mondo della ristorazione. “Occorre proporre un’offerta diversificata che tenga conto delle esigenze dei clienti, che oggi sono molto più informati, viaggiano in tutto il mondo e hanno riscoperto il turismo enogastronomico.
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La Buca di Cesenatico, Le Osterie del Gran Fritto di Cesenatico e Milano Marittima, Terrazza Bartolini a Milano Marittima, e ora l’Osteria Bartolini - Il Mare a Bologna
IRISTORANTIDIBARTOLINI
I RISTORANTI DI
BARTOLINI
UNA STORIA IMPRENDITORIALE DI SUCCESSO
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Occorre presentare veri e propri trend nella ristorazione, dal ristorante stellato, innovativo in termini di location e di piatti suggeriti, alle Osterie del Gran Fritto: una proposta più informale dove il servizio d’asporto o la modalità dello street food confermano l’attenzione per le nuove tendenze del settore, con l’obiettivo di assicurare sempre la scoperta di nuovi sapori ed esperienze culinarie di qualità. Caratterizzarsi attraverso la realizzazione di una particolare specialità (il pesce, nel caso dei nostri ristoranti), maturando una consapevolezza di quello che è il potenziale turistico del territorio, sono elementi tanto strategici quanto la creazione di un nuovo piatto o del menù stagionale”,
sostiene Stefano Bartolini. Cuore pulsante di tutta l’azienda è La Buca, nella cucina dello chef Gregorio Grippo, luogo in cui si fa ricerca e sperimentazione per tutti i locali della famiglia Bartolini. Non solo La Buca infatti, ma anche gli altri locali, le due Osterie del Gran Fritto e Terrazza Bartolini, fanno capo alla stessa visione imprenditoriale che ha guidato il patron Stefano Bartolini nel susseguirsi di “aperture” che hanno caratterizzato i suoi 30 anni di attività nel settore. Una concezione di business, declinata nel contesto della ristorazione, che si rifà a un’esperienza e a una conoscenza minuziosa della materia prima, il pesce, che si tramanda da tre generazioni. Marcello
Bartolini, padre di Stefano, oste e pescatore, ha trasmesso in modo “congenito” al figlio una cultura enogastronomica del territorio di origine, la Romagna, che si è trasformata in una professione fatta di consapevolezze e traguardi. Un ottimo esempio di convivenza generazionale è determinato dall’ingresso di Andrea Bartolini nell’impresa di famiglia; laureato in architettura, ha progettato La Buca, Terrazza Bartolini e i locali gourmet di Cesenatico e Milano Marittima, rispondendo alla differenziazione dell’offerta gastronomica con altrettante distinzioni nella scelta delle location più o meno adatte a “ospitare” il disegno imprenditoriale sviluppato insieme al padre Stefano.
RISTORANTE LA BUCA DI CESENATICO Aperto a Cesenatico nel 1985 sul Porto Canale di Leonardo da Vinci, uno dei luoghi più suggestivi della Romagna, La Buca ha ottenuto la prima stella Michelin nel 2013
LA FILOSOFIA IN CUCINA Il pesce nella sua essenzialità, la conoscenza e l’arte di lavorarlo e l’abilità nel valorizzarlo: ciascun piatto in questo modo si spoglia di elementi superflui, nell’intento di far prendere vita all’ingrediente principale. Una vera e propria “scarnificazione” dei dettagli, per esaltare il patrimonio di prodotti antichi e della tradizione: il pesce azzur-
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ro dell’Adriatico proposto nel rispetto della sua natura e delle sue proprietà eccezionali. Una cucina materica che utilizza il linguaggio tipico dell’artigianato e la ricerca dell’essenza del prodotto; nella cucina de La Buca si parte dal prodotto per tornare al prodotto, si selezionano conseguentemente le tecniche da utilizzare per identificarne i dettagli da esaltare. A La Buca il mare si esprime in tutta la sua forza e sapidità, dalle preparazioni a crudo sino ai grandi classici della cucina romagnola: la sezione “Crudità” del menù presenta, tra gli altri, uno sfizioso carpaccio di ricciola, erbe aromatiche, salsa tonnata alla mandorla e riso croccante e una proposta di Crudo “entro le 3 miglia” dove seppiolino, triglia, borsotto, canestrelli, scorfano, sardoncino e gallinella fanno parte di quel
pescato che arriva a tutte le ore, e che rende La Buca un luogo sacro per chi si concede al pesce solo se freschissimo. Una cucina innovativa, dove negli anni Stefano Bartolini ha sperimentato correnti, mode e stili: lo Spaghettino freddo all’aneto, crudità di scampi e zenzero che spicca tra i primi piatti della Carta delle pietanze è una proposta multisensoriale, un climax di profumi, colori e sapori del mare. Una cucina con una concezione più moderna e innovativa che, attraverso declinazioni diverse, rispetta in tutte le preparazioni il sapore originale e le caratteristiche naturali del pesce senza mai accostare troppi ingredienti nello stesso piatto per mantenere l’essenza della materia prima. La cucina de La Buca è diretta in modo esemplare dallo chef Gregorio Grippo e dal suo staff.
LA BUCA
Corso Garibaldi, 45
47042 Cesenatico (FC)
(Porto Canale di Leonardo da Vinci) Tel. +39 0547 1860764
www.labucaristorante.com info@labucaristorante.it
Aperto a pranzo e cena:
12.30/14.30 - 19.30/22.30 Giorno di chiusura: lunedì
Coperti: 35 posti nella sala interna
e 25 posti nel dehors estivo sul Porto Canale
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LE OSTERIE DEL GRAN FRITTO Presenti a Cesenatico e Milano Marittima, le Osterie del Gran Fritto sono un format di successo che combina qualità, convivialità e tradizione: un ritratto della ristorazione romagnola realizzato grazie a un disegno imprenditoriale considerevole e a un’intuizione che arriva dalla grande e inaspettata richiesta di piatti di pesce fritto nel ristorante La Buca.
Nel 1999 è inaugurata la prima Osteria del Gran Fritto a Cesenatico, nella vecchia sede del ristorante La Buca. Un ambiente in cui la quinta scenica è costituita dai colori utilizzati dall’artista Tinin Mantegazza; alle pareti, infatti, le sue tele permettono di ricreare un’atmosfera marina. Una proposta di servizio sicuramente più informale rispetto al ristorante, dove il fritto ha solo un segreto per essere straordinario: olio di qualità e alla giusta temperatura e pesce selezionato. Asciutto e chiaro, il fritto di pesce delle Osterie arriva in tavola sulla carta gialla, come si faceva una volta.
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È il successo de L’Osteria del Gran Fritto di Cesenatico a spingere l’audacia imprenditoriale di Stefano Bartolini ad aprirne una seconda a Milano Marittima, uguale nel messaggio ma diversa nella concezione: grande, voluminosa e proprio in riva al mare. Un luogo dove la sabbia e il legno della veranda si confondono, una conferma di professionalità in termini di ristorazione quantitativa eccellente. Tutti i piatti delle Osterie sono stati tramandati a Stefano Bartolini dal padre Marcello che, tornato dalla pesca con la sua barca, cucinava nella cucina della pensione Stella Marina. Tra i piatti “da peschereccio” a cui Stefano è particolarmente legato il risotto alla moda di una volta, un classico in cui il pesce c’è ma non si vede. Nella sezione I nostri fritti del menù, un’altra primizia dell’Adriatico: i calamaretti borsotti, varietà di calamari
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particolarmente dolci e morbidi, in tre cotture, dove lo stesso calamaretto viene spadellato, arrostito e fritto. L’offerta gastronomica delle Osterie può essere gustata anche da asporto: il Cartoccio di Fritto, riposto in un comodo cono di carta bianca e tutti gli altri piatti del menù, possono essere portati anche a casa, preparati dallo staff della cucina con la stessa cura dei piatti destinati ai tavoli delle Osterie.
OSTERIA DEL GRAN FRITTO CESENATICO Corso Garibaldi, 41 - 47042 Cesenatico (FC) (Porto Canale di Leonardo da Vinci) Tel. +39 0547 82474
www.osteriadelgranfritto.com
cesenatico@osteriadelgranfritto.com
Aperto a pranzo e cena: 12.00/14.30 - 19.00/22.30 Giorno di chiusura: nessuno
Coperti: 90 posti nella sala interna e 60 posti nel dehor estivo sul
IL CONCEPT RIVOLUZIONARIO DE
LA TERRAZZA BARTOLINI
A pochi passi dalla vita mondana di Milano Marittima, al piano superiore dello stesso edificio che ospita l’Osteria del Gran Fritto, nel 2009 la famiglia Bartolini decide di offrire un nuovo concept nella ristorazione di pesce basato sull’interazione tra chi cucina e chi siede al tavolo. Questo obiettivo è reso possibile grazie al posizionamento al centro del locale di un sontuoso banco di pescheria: una vasca di marmo ghiacciata dove il meglio del pescato del giorno con i suoi pagelli, ombrine e orate, trova una vetrina ineguagliabile. Le cotture sono fatte sulla plancia ad alta temperatura per pochi istanti, per far sì che il pesce scelto personalmente da Stefano Bartolini possa esprimersi al meglio. Un’esperienza suggestiva dove il pesce nudo e crudo risponde alla mission di Stefano Bartolini in questo locale:
Porto Canale
OSTERIA DEL GRAN FRITTO MILANO MARITTIMA Via A. Boito, 28 - 48015 Milano Marittima (RA) (tra il molo e la spiaggia)
Telefono: +39 0544 97434
www.osteriadelgranfritto.com
mima@osteriadelgranfritto.com
Aperto a pranzo e cena: 12.30/14.30 - 19.30/22.30 Giorno di chiusura: lunedì
Coperti: 120 posti nelle sale interne, 40 posti nella terrazza sul porto, 100 posti nella terrazza sulla spiaggia
https://www.facebook.com/OsteriadelGranFrittodiMilanoMarittima https://www.instagram.com/osteriadelgranfritto/
presentare i frutti del “suo” mare senza ricorrere a cotture ed elaborazioni eccessive che potrebbero snaturarne i sapori autentici. Tra le crudità proposte figurano ostriche della Bretagna e plateau di crostacei crudi al naturale che si accompagnano in un incontro di sapori inediti alla selezione attenta dei vini: Andrea si occupa di champagne, sempre più spesso di piccole maison sconosciute ma di grande blasone, mentre Stefano è appassionato di vini italiani e seleziona i francesi soprattutto dalle regioni della Borgogna e dell’Alsazia. TERRAZZA BARTOLINI
Via A. Boito, 30 - 48015 Milano Marittima (RA)
(tra il molo e la spiaggia) - Telefono: +39 0544 1820539
www.terrazzabartolini.com - info@terrazzabartolini.com
Aperto solo a cena da maggio a settembre: 19.30/23.00 Coperti: 45 posti in terrazza al primo piano sul mare
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foto di
Marco Curatolo
L’OSTERIA BARTOLINI IL MARE A BOLOGNA
“Abbiamo voluto realizzare un’Osteria contemporanea partendo dal concetto di ‘Trattoria Italiana’ andando alla ricerca dei tratti e materiali distintivi di un modo di concepire lo stare a tavola informale ma allo stesso tempo di qualità. Ogni dettaglio è stato curato ma la ricerca che è stata fatta è proprio verso il concetto di “non disegnato”, “non progettato”. Abbiamo concepito uno spazio di fruizione immediata e soprattutto accogliente.
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Vogliamo che la nostra Osteria sia piacevole da vivere ma allo stesso tempo abbia la consueta ricerca del dettaglio che distingue i nostri progetti. I materiali sono opachi e spesso ossidati. Abbiamo voluto che ogni oggetto avesse già vissuto una propria storia da portare all’interno dei nostri ambienti. È così che i legni di frassino e di quercia hanno perso colore andando a trovare i toni del grigio propri della salsedine. Il ferro è stato brunito mantenendo saldature e rodature a vista. Il marmo è stato grattato per renderlo ‘polveroso’. Le grandi volte delle antiche stalle hanno riportato alla luce gli intonaci nascosti dal tempo. Le porte sono state realizzate con travi di quercia in patina, tutte provenienti da vecchi fienili dell’appenino bolognese. È uno spazio che ci piace: comodo, luminoso e confortevole”. Ha scelto di descrivere così il nuovo progetto bolognese la famiglia Bartolini, nella figura di Andrea Bartolini, che ha seguito in prima persona i lavori insieme al socio e amico Mycol Baraldi. “Il nostro obiettivo era portare il mare della Romagna a Bologna. È un progetto che voleva unire i vari percorsi intrapresi fino a oggi a Cesenatico e Milano Marittima dalla nostra famiglia. È un’osteria evoluta, moderna: da Osteria del Gran Fritto a Osteria
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OSTERIA BARTOLINI IL MARE A BOLOGNA
Piazza Malpighi, 16 - 40123 Bologna Tel. 051 262192
www.osteriabartolinibologna.com bologna@osteriabartolini.com Apertura: pranzo e cena
Bartolini. Ci fa da cornice in questa nuova avventura uno spazio molto suggestivo, nella parte posteriore del palazzo Dondini Ghiselli già Marescotti, in piazza Malpighi, che dà anche la possibilità di sfruttare nella bella stagione un bellissimo spazio esterno, all’ombra del platano secolare”. A Bologna si ritroveranno in primo luogo il gran Fritto di Paranza e il risotto alla moda di una volta, proposte cult che hanno decretato il successo dei locali di Cesenatico e Milano Marittima. E poi tutti i prodotti dei pescherecci dell’Adriatico, compresi quelli meno noti e che i Bartolini hanno fatto conoscere, come la saraghina sulla griglia, un pesce azzurro dolce e burroso, accompagnato dalla piadina romagnola. Un tipo di cucina che riattualizza la conoscenze tradizionali, la cultura del luogo, le abitudini dei pescatori e quelle di una famiglia che lavora da tempo con il proprio mare, attraverso un concept differente, quello di osteria moderna. Un locale sempre “accessibile” dove trascorrere del tempo piacevolmente gustando piatti di qualità, accompagnati da ottime etichette.
Giorno di chiusura: lunedì Coperti: 120 coperti
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CON LUME
LUIGI TAGLIENTI RISCHIARA LA SCENA DELLA RISTORAZIONE MILANESE di
Alessandra Meldolesi
Milano, Porta Genova e oltre. Non si arriva per caso in via Watt 37, dove una volta iniziava la periferia cittadina, oggi fagocitata dall’espansione urbanistica e portata a nuova luce dagli scalpelli dell’archeologia industriale. Uno l’ha impugnato l’architetto Monica Melotti, che per conto di MB America ha riconvertito l’ex stabilimento Richard Ginori in un complesso di funzioni. Compresa la ristorazione di alta gamma affidata al talento di Luigi Taglienti, che si è dedicato per un anno alla definizione di ogni minimo dettaglio. Fuori e dentro il piatto, la stessa sensibilità ed eleganza. Gli spazi sono ancora quelli squadrati di una fabbrica, con gli uffici al piano superiore adibiti a loft. Gli interni pura luce, grazie al total white e al giardino d’inverno che si apre in mezzo alla struttura. Sono bianchi pareti e tende, tovaglie e sedie, le divise e i merletti della cucina “a intravista”, che anziché scoperchiare la sua
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quarta parete lascia intuire le danze dei cuochi dietro un paralume di trafori. “Un ristorante nato con me, ed è una fortuna per un cuoco poter scegliere ogni elemento del suo ambiente di lavoro, gli ingredienti, le posate, le casseruole Mauviel, i protocolli di un servizio professionale ma sobrio, al passo con i tempi. Soprattutto la cucina, che ho progettato personalmente”, illustra lo chef. “Si tratta di un blocco unico, con innovative piastre a induzione, che scaldano fino a 350 °C e fino a 2 cm, senza dispersione di calore, e in mezzo una plancha elettrica che si può utilizzare con o senza casseruole, come il vecchio fourneau. Qualcosa di iperessenziale, simile al mio stile, che coniuga l’avanguardia alla gestualità primordiale del cuoco. Ma è solo lo spazio per le finiture: è nel laboratorio per il pane e la pasticceria che vengono messe a punto le nuove ricette, ci sono le celle e i ripiani per la prime lavorazioni”.
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TAGLIENTI ESPERIENZE Lume però non è solo ristorazione gastronomica, ma anche catering. Le sale per gli eventi sono due e importanti, una delle quali unificabile al ristorante, per un totale di 1000 metri quadrati e una capienza di altrettante persone. Le chiavi tintinnano nelle tasche di un fuoriclasse della nuova leva. Trentasei anni, Luigi Taglienti è ligure, anzi ponentino, e non solo perché è nato a Savona. Arriva tutto da casa il pesce nelle sue celle, così come l’extravergine (con l’alternativa di un pugliese, sempre da cultivar taggiasca) e gran parte delle verdure di stagione. Liguri sono i profumi delle erbe aromatiche, soprattutto la maggiorana, praticamente un’ossessione, e liguri, con qualche integrazione campana, sono i limoni che fanno impennare l’acidità, gusto prediletto dello chef. Ligure infine è l’imprinting gustativo: quello della cucina femminile e di casa di nonna Ernestina e della bisnonna, usa a cucinare per casate nobiliari in Toscana. “E se sei cresciuto mangiando il minestrone con le verdure dell’orto appena tagliate, è naturale che dentro possa scattarti qualcosa. Poi c’era mia mamma, che per 15 anni ha tenuto uno stabilimento balneare dove io gestivo il bar, magari fino a tardi, facendo un po’ di fatturato. Cosicché un giorno mio zio mi ha preso di peso e mi ha portato a iscrivermi all’alberghiero di Finale Ligure. La prima stagione l’ho fatta in sala, poi non mi sono più staccato
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dai fornelli. Alla Meridiana di Garlenda ho capito che la cucina poteva essere qualcosa di diverso. E da lì le prime esperienze importanti: con Ezio Santin all’Antica Osteria del Ponte, per cominciare, che mi ha fatto innamorare sempre più con piatti ancora contemporanei, perché la sfida è creare armonie fuori dal tempo. Poi, per troppo poco tempo, con Pierangelini. Ero giovanissimo e ambizioso, voglioso di carpire il più possibile, ma sono tornato con la consapevolezza che la cucina è anche gestualità, che è il pensiero a focalizzare con naturalezza la tecnica, tu magari la sai già ma è la mente a guidarla”. La Francia però è vicina, per un ligure di Ponente. “Alla Palme d’Or, dove mi ha mandato Carlo Cracco, ho imparato il rigore di una grande maison e il funzionamento di una grande brigata con Christian Willer e Christian Sinicropi. Poi al mio ritorno, da Cracco-Peck nel 2004, mi sono confrontato con uno chef elegantissimo, che aveva compiuto un percorso molto simile al mio”. Nella cucina, che inizia a esprimere da chef di nuovo alla Meridiana di Garlenda e poi alle Antiche Contrade di Cuneo, dove conquista la stella, significa ripescaggio delle basi classiche, ad esem-
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pio della lièvre à la royale, destinata a trionfare sulle tavole di Trussardi alla Scala e di Palazzo Parigi, e in generale rinnovamento dell’istituzione salsa, perfezionata anche per via tecnologica. Ad esempio ricorrendo alla crioestrazione secondo la scuola di Yannick Alléno. Soprattutto vuol dire accumulare munizioni sul fronte dell’acidità, mai così esacerbata, per fronteggiare tendenze dolci e un inedito protagonismo del grasso, sexy e avvolgente. Mentre arretrano la sapidità e l’amaro, secondo un paradigma gustativo spiazzante. “È sempre stato il mio studio, anche prima che diventasse moda: capire come modulando l’acidità si possa ridimensionare l’esaltazione di sapidità, fino a eliminare praticamente il sale”. Cosicché il menu finisce per articolarsi in una serie di svolte inconsulte e di eccessi esacerbati, che si giustificano e si bilanciano vicendevolmente. Ed è questa originalità organolettica a fare la differenza in un pasto, che porta i connotati della cucina italiana d’avanguardia. Concettuale, essenzialistica, piacevolmente ossificata e centrata sulla verità della materia, spesso servita cruda, seppur con un’impronta più classica ed elegante rispetto ai coetanei.
DEGUSTAZIONI SENZA TITOLO “Stare fermo per un po’, mentre mi occupavo di progettare Lume, mi ha aiutato a focalizzare tanti aspetti e a ripartire da me stesso; ho riacquistato la voglia di cucinare e approfondito la gestualità”. Lo si apprezza appieno nei due menu senza titolo: uno più legato a Milano (ossobuco; musetto cotto nello spumante; raviolo di magro; risotto giallo al midollo; controfiletto alla milanese; macaron al Gorgonzola 100 giorni; tartufo nero e tiramisù) a 120 euro; l’altro a mano libera, più ardito e personale, con una dozzina di corse a 150. Mentre a mezzogiorno
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c’è la degustazione del pranzo, con 3 portate a 40 euro oppure 4 a 45. La carta dei vini, curata dallo chef con il sommelier Andrea Petraroli, già in forze al Cambio di Torino, elenca 400 referenze, con dosi di grandeur ma anche piccole cantine originali e un ricambio accelerato ispirato alla stagionalità. Se ne distaccano due percorsi flessibili di abbinamento al calice; ma può essere anche il piatto a derivare dal vino, come nel caso del pollo di Bresse ispirato al Petit Beaufort. Si comincia con un reset del palato: acqua, olio, limone e liquirizia è una composizione di ingredienti primari a diverse temperature fredde. Un’aspersione rituale che finisce per rinnovare la degustazione di materia grassa a inizio pasto, volta a tappezzare lo stomaco. Da notare la tecnica di solidificazione dell’olio, ridotto in trucioli dopo essere stato abbattuto a -40 °C e lasciato riposare in acqua ghiacciata, senza alterazioni di struttura, in modo che con il calore della bocca possa sprigionare tutta la sua fragranza. Fra gli antipasti l’elegante panna cotta ai ricci di mare, ricordo del Piemonte, ingannevolmente cremosa grazie alle temperature di preparazione, su fondo di concentrazione di diversi agrumi con disco di pasta di seppia frullata, naturale e al nero, olio al peperoncino e uno spaghetto soffiato, spia dell’ispirazione in un familiarissimo primo; i gamberi bianchi di Santa Margherita, appena intiepiditi sotto la salamandra, serviti con anguria, chinotto, capperi e un’emulsione di mandorla che da spumosa via via si liquefa; la sorprendente ostrica al Castelmagno, una Gillardeau frullata praticamente al naturale e spolverizzata di formaggio, monogusto di sfumature sapide ricongiunte per via di ossimoro dai sentori erbacei, in arrivo dall’alta quota o dai fondali; l’a-
RAVIOLO DI MAGRO con ragù all’italiana
INGREDIENTI per 4 persone
Per la pasta all’uovo: g. 150 di farina “00”, 6 tuorli d’uovo, g. 2 di olio extravergine monocultivar di oliva taggiasca, 1 uovo intero.
Per il ripieno: g. 400 di foglie di borrragine cotte in tegame, g. 400 di foglie di spinacio cotte in tegame, g. 50 di bianco di porro stufato in bianco.
Frullare metà delle foglie di spinacio con le foglie di borragine sino ad ottenere una purea liscia; unire al resto degli ingredienti.
Per il latte emulsionato: g. 400 di latte ridotto con infusione di salvia e scorza di limone, g. 2,4 di agar, g. 1,2 di gomma Xantana. Portare a bollore gli ingredienti e raffreddare.
Emulsionare e sistemare in un sifone da mezzo litro con due cariche di N2O e mantenere alla temperatura di 68°C.
Per il ragù di carne: g. 50 di sedano, g. 50 di carota, g. 50 di cipolla, g. 300 di polpa magra di Fassone Piemontese.
In un casseruola a bordi bassi fare soffriggere le verdure, aggiungere la polpa di carne leggermente arrostita e lasciare cuocere per qualche minuto.
Sfumare con un goccio di buon vino rosso e lasciare evaporare; aggiungere un
poco d’acqua di pomodoro verde, poca salsa di vitello e portare alla giusta consistenza sistemando di sapore, se necessario. FINITURA E PRESENTAZIONE
Scaldare e adagiare alla base del piatto il ripieno vegetale, aggiungere il latte emulsionato, la sfoglia di pasta fresca e il ragù ben caldo.
Terminare con i fegatini, cuori di pollo appena arrostiti e qualche foglia di borragine cruda.
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OSSOBUCO alla Taglienti
INGREDIENTI per 4 persone
Per la carne cruda: g. 200 di polpa di controfiletto di vitello rifilata e porzionata in tranci da 50 grammi il pezzo, ml. 30 di succo di vitello (ricetta classica).
Adagiare ogni trancio di carne all’interno di un disco coppa pasta del diametro di 10
centimetri; con l’ausilio di un batticarne ricavare delle piccate regolari dello spessore di mezzo centimetro e abbattere. Ritagliare il centro di ogni piccata formando una fessura circolare regolare del diametro di 3 centimetri.
Per la parte croccante: g. 100 di burro fresco in pomata, g. 100 di zucchero semolato, g. 100 di albume, g. 100 di farina setacciata.
All’interno di una terrina capiente, unire gli elementi in sequenza sino ad ottenere
un composto liscio e omogeneo e lasciar riposare in frigorifero per almeno 4 ore a +4°C. Stendere l’impasto a forma rettangolare e cuocere in forno per 4 minuti a 160°C, dopodiché avvolgere la tegola intorno ad un coppapasta rotondo di 3 centimetri di diametro e lasciar raffreddare.
La tegola dovrà acquisire la forma di un osso a midollo.
Per la crema di riso allo zafferano: g. 50 di riso Carnaroli del pavese, g. 50 di latte fresco, g. 2 di pistilli zafferano, sale, pepe bianco di Penja.
In una casseruola media unire gli elementi e cuocere dolcemente per almeno 20 minuti; frullare il tutto e setacciare per due volte a maglia fine sino ad ottenere una crema liscia.
Per la lacrima di midollo: g. 100 di midollo di stinco di vitello privato da tutte le parti sanguinolente contenenute all’interno della fibra.
Dividere il midollo dall’osso e frullarlo sino ad ottenere una crema montata di un bel colore avorio.
FINITURA E PRESENTAZIONE
Dopo aver ben glassato la piccata di vitello, adagiare il succo del vitello alla base del piatto, sistemarvi al centro la tegola a forma di osso e farcire il cuore con crema di
riso allo zafferano e lacrima di midollo. Terminare con tre filettini sottili di alice fresca del Mar Ligure, foglie di timo e una brunoise di limone e arancia canditi.
ragosta con dolcissime lumachine bianche glassate nel loro potage di tradizione ligure, quello a base di animelle, pinoli, nocciole fresche e noci di nonna Ernestina, per una similitudine fra testure sbalzata dall’acidità del tamarindo; la parodia dell’anguilla alla brace senza brace, cotta al vapore per non sciupare il grasso e issata su una scala vertiginosa di acidità: il condimento di limone verde al pepe con suprême su crema di limone. Difficile padroneggiare con simile naturalezza l’eccesso. Spingere in una direzione, però, è quel che consente a Taglienti di esagerare a stretto giro in quella opposta. È il caso della salsa di noci, come un’idea di pasta in absentia, quindi il latte emulsionato fino ad acquisire la consistenza e l’adesività di un burro montato, le noci e la maggiorana a ripulire con balsamicità e ruvidezza; a seguire il pelato San Marzano, “quello autentico, troppo buono per essere toccato, come la conserva di una volta”,con mezzanello del Pastificio dei Campi scondito e foglioli-
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LUIGITAGLIENTI
ne di basilico su gel di limone, leitmotiv del pasto. Grassezza e spigolosità, pastosità e pasta. Notevole anche il piccione, con il filettino crudo, il petto cotto sottovuoto, à la coque, e una salsa di rosmarino che è la vera protagonista del piatto, sottoposta a micro fermentazione, per sviluppare l’effetto salamoia, e lasciata evaporare a temperatura molto bassa, fino a evidenziare note sorprendenti e un tannino sveglio sulla succulenza. Il lato perturbante di quanto è familiare. Non da meno la pasticceria. Mai visto il sanguinaccio di pesce, preparato con il sangue rilasciato dalle carcasse di pesce azzurro, immediatamente abbattuto per evitare fermentazioni indesiderate, il cui ittico ferroso, lungo e intenso riemerge dal mascheramento dei classici ingredienti del dolce di maiale: le spezie, il cacao, gli alcolici, fra cui un goccio di Marc de Champagne per il richiamo al sangue nella lièvre à la royale. Poi l’intermezzo acido oltre ogni immaginazione della cipolla in osmosi di succo di maracuja, sbucciata e rivestita d’oro in omaggio al principio per antonomasia della cucina italiana, traslato a fine pasto, e il ribaltamento del suo PH nella banana alla brace, con effetto caramello, dentro il fagottino di melanzana cruda al caviale. “Un piatto nato d’istinto, senza nemmeno provarlo. Come un flash”.
RELIGIOSA AL TIRAMISÙ
ciliegie cotte e aceto balsamico
INGREDIENTI per 4 persone
Per lo choux: ml. 500 di acqua naturale,
g. 250 di burro, g. 300 di farina 0, g. 550 di uova intere.
Procedere seguendo i parametri della pasticceria classica.
Per la pate à bombe: g. 100 di tuorlo d’uovo, g. 125 di zucchero semolato a grana fine, g. 50 di acqua naturale.
Procedere seguendo i parametri della pasticceria classica.
Per la base tiramisù: g. 100 di pate à
bombe, g. 500 di mascarpone, g. 40 di caffè solubile, g. 300 di panna semimontata.
Procedere seguendo i parametri della pasticceria classica per ottenere un semifreddo al tiramisù.
Per le ciliegie cotte: ml. 80 di aceto d’anfora, g. 30 di zucchero semolato.
Far sobbollire l’aceto con lo zucchero, cuocere per immersione fuori dal fuoco
le ciliegie, precedentemente private dal nocciolo.
FINITURA E PRESENTAZIONE LUME
Via G. Watt, 37 - 20143 Milano Tel. +39 02 80888624
www.lumemilano.com
restaurant@lumemilano.com
Farcire gli choux con il semifreddo al tiramisù, sovrapporre con l’aiuto di un cre-
moso al caffè e mascarpone. Terminare aggiungendo una ciliegia tiepida e alcune gocce di aceto balsamico.
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GOURMETFOOD
A SANTIAGO DEL CILE
CAROLINA BAZÁN E LA SUA CUCINA QUOTIDIANA di
Flavia Tomaello
La chef cilena Carolina Bazán, nel suo ristorante Ambrosía, passa in rassegna quotidiana gli ingredienti più freschi per creare ogni giorno un menù sempre diverso.
Un menù che cambia ogni giorno secondo la disponibilità degli ingredienti che si trovano in commercio. Questo è il concetto di base sostenuto dall’Ambrosía, il bistrò a gestione familiare di proprietà della chef Carolina Bazán che si trova nell’affascinante quartiere di Vitacura, al nord di Santiago del Cile. Ambrosía è stato scelto come il miglior ristorante a livello nazionale dalla rivista Wikén del prestigioso quotidiano nazionale El Mercurio e si è posizionato nel 2016 al posto numero 20 della classifica The Latin America’s 50 Best Restaurant (precedentemente, nel 2015, si trovava al 32° posto). Ambrosía era nato da un progetto comune di tutta la famiglia Bazán: nel 2003 hanno inaugurato un ristorante in via Merced, in pieno centro della capitale cilena, a qualche metro dalla Plaza de Armas e proprio dietro al Museo Casa Colorada. In quegli anni la giovane Carolina, che aveva appena compiuto 23 anni, si è fatta carico della cucina. Aveva del resto le capacità per farlo: si era appena diplomata presso l’Istituto “Culinary”, dove aveva frequentato i corsi di gastronomia. “E’ stato il mio primo lavoro” ricorda Carolina. Chissà SE è stato proprio questo fatto ad aprirle la mente: quella che oggi si è trasformata in una chef multi premiata, sentiva allora che la sua crescita veniva in qualche modo limitata dallo stressante lavoro giornaliero del ristorante di famiglia.
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CAROLINABAZÁN
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GOURMETFOOD
“Avevo bisogno di vedere anche altre cose, imparare da qualcun’altro”, dice. Decide quindi di andare in giro per il mondo - attività alla quale era stata abituata fin da piccola a causa del lavoro diplomatico del padre - per andare alla ricerca di nuovo conoscenze e di nuovi sapori. Sbarca in Perù, Brasile, Italia e Thailandia. Getta radici però in Francia, dove inizia formalmente gli studi di gastronomia presso l’Accademia Ferrandi. Sempre a Parigi trova lavoro alle dipendenze del famoso chef Gregory Marchand, di Frechie. Tutto questo percorso internazionale è rimasto come un marchio nel suo stile, impossibile da incasellare o da definire: riesce a far uso di elementi o di ingredienti delle gastronomie più disparate senza porsi dei limiti. “Se io dovessi lavorare con un solo stile, mi annoierei abbastanza velocemente”,
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ammette Bazán. La sua creatività e il suo dinamismo sono tali che ogni volta che interpreta una ricetta, non riesce ad eseguirla senza qualche variante, senza darle un tocco personale imprimendo quei cambi sostanziali che tendono a migliorare la versione originale. “E’ un cambiamento, una reinterpretazione, una firma d’autore” descrive.
IL RITORNO Quando ritorna in Cile, Carolina comincia dapprima con alcuni progetti di hidden kitchen (un’idea poco esplorata nel suo Paese fino a quel momento) e, nel 2013, prende parte alla riapertura dell’Ambrosía. Il progetto sembra non potersi staccare dall’impegno familiare: sua madre aveva infatti individuato una casa
abbandonata davanti a casa sua, in un quartiere assolutamente distante dalla zona dei ristoranti della città. “Il posto è comodo per la famiglia ed è lontano dai luoghi più in voga del momento, esattamente come io voglio che sia”, racconta Carolina. “L’ubicazione esprime una forte sensazione di semplicità: non c’è nemmeno un’eccessiva insegna grande sulla porta. Appena appena un cartello con il nome del locale. Chi vuole venire, sa come arrivare”. Il cambio non è stato solamente nel differente quartiere. L’unica cosa che si ripete tra il primo Ambrosía e il successivo locale, è appunto il nome: “E’ stata una reinvenzione totale, nata dall’enorme quantità di elementi che sono andata via via raccogliendo in Francia e durante gli altri miei viaggi”, riferisce Bazán. “Il primo ristorante era molto più gestibile dal
CAROLINABAZÁN
punto di vista degli orari: si apriva solamente da lunedì a venerdì e solo a mezzogiorno”. In questo senso la nuova versione del locale è più orientata all’apertura serale e pertanto l’ubicazione originaria non aveva più senso. Tuttavia c’è un altro elemento che si ripete: “L’essenza, la famiglia” precisa Carolina. In qualche modo hanno dovuto tutti metterci davvero un forte impegno nel cambio di mentalità e con un obiettivo ben preciso: offrire un’esperienza di alta gastronomia in un ambiente familiare e accogliente. “All’inizio i clienti non riuscivano a capire perché un giorno non c’era il pesce semplicemente perché quella mattina non si era trovata della buona materia prima al mercato e noi non accettavamo di lavorare con il pesce surgelato… E’ stato un arduo compito di insegnamento”, sottolinea.
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GOURMETFOOD
I PROSSIMI PASSI Alla fine di questo primo anno di attività era già stata eletta “chef dell’anno”, dal Circolo di Giornalisti di Gastronomia del suo Paese, e “chef rivelazione dell’anno” dalla rivista Wikén. D’altro canto, era stato necessario attivare un’impegnativa operazione di passaparola di modo che la gente conoscesse il locale e si abituasse, nuovamente, alle regole della casa: i contorni, ad esempio non si possono cambiare. “Mi succedeva molto spesso all’inizio, ma per fortuna, adesso, sempre meno”, si vanta Bazán. I premi, dice, le hanno portato una consistente affluenza di clientela straniera: “Clienti che prenotano da qui a due mesi, ossia per quando hanno i biglietti per venire in Cile e, quando sono qui, la vivono come un’esperienza di viaggio: arrivano appena apriamo e se ne vanno per l’ora di chiusura”, descrive Bazán. Il menù serve come semplice riferimento: i piatti possono avere ingredienti che non esistono nel menù (o addirittura non esserci i piatti che vi sono elencati), alcune proposte possono non essere disponibili mentre se ne possono trovare altre che vengono create semplicemente perché quella mattina si è trovata buona merce al mercato o perché lo chef ha avuto un attacco di creatività, e sono pronte per essere degustate. Bazán ha solo 34 anni, ma una lunga esperienza alle spalle. Lontana dall’adagiarsi sugli allori o dall’assentarsi per godersi i suoi bambini ancora piccoli (anche se ammette che con il neonato tende a organizzare se stessa con orari più normali), la chef si trova sempre più coinvolta nel suo progetto: adesso sta programmando di aprire una nuova versione dell’Ambrosía, un po’ più piccolo e più tranquillo (“spettinato” lo definisce lei) e rivolto ad un target più giovane. Allo stesso modo con cui va al mercato e sceglie prodotto per prodotto e ingrediente per ingrediente, Bazán ha intenzione di riporre ogni sua energia in questo nuovo progetto in modo da elaborare le migliori proposte per i suoi ospiti. RESTAURANT AMBROSÍA
Pamplona 78 Santiago, Vitacura - Cile - Tel.+56 22 217 3075 www.ambrosia.cl contacto@ambrosia.cl
MERLUZZO AUSTRALE con purè di cavolfiore al colore di calamaro, salsa bernese, pickle e verdura di stagione INGREDIENTI per 6 persone
Per il purè di cavolfiore al colore di calamaro
2 tazze di cavolfiore tagliato, 4 cuc-
chiai di burro nero, 2 cucchiaiate di succo di limone, 1 foglia di alloro, latte, 1 cucchiaio di nero di calamaro.
Preparazione: tagliare il cavolfiore e
cuocerlo nel latte. Coprirlo con una o due foglie di alloro. Nel frattempo
colorire il burro. Quando il cavolfiore è cotto, toglierlo e metterlo nel frulla-
tore solamente con il latte quel tanto necessario per farlo diventare omo-
geneo e senza grumi. Aggiungere il nero del calamaro per dare al purè
un colore nero. Salare e aggiungere il burro scuro che gli dà una consistenza leggera e omogenea. Concludere ag-
giungendo un po’ di succo di limone per bilanciarne l’acidità. Per la salsa bernese
4 tuorli d’uovo di gallina allevata a terra, 2 cucchiaiate di brodo di pollo, mezza tazza di aceto bianco, 3 scalogni tagliati alla bernese, 3/4 di
tazza di burro sciolto, gocce di succo di limone, sale marino di Cahuil (per la classica salsa francese ci vuole del
dragoncello, ma in Cile è difficile trovarlo fresco, pertanto preferisco ag-
giungere un’altra spezia o proprio non aggiungerne nessuna).
Preparazione: in una padella col fondo spesso, soffriggere l’aceto con lo
scalogno fino a quando la padella non
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CAROLINABAZÁN
diventa quasi asciutta. Togliere dal fuo-
mezzo kilo di fave novelle pelate, mezza
Quando il composto risulta freddo, ag-
ro, gocce del succo di mezzo limone.
co e lasciare raffreddate completamento.
giungere i tuorli e il brodo di pollo. Me-
tazza di brodo di pollo, 2 cucchiai di bur-
scolare per bene con una frusta manuale
MISE EN PLACE
di mescolare, arrivando su tutti gli angoli
go. Togliere i semi e affettarli in modo che
e mantenere a fuoco lento senza smettere della padella e aumentando poco a poco
il fuoco. Quando i tuorli cominciano a cuocersi e si comincia a vedere la base della
padella, togliere velocemente dal fuoco e cominciare ad aggiungere il burro sciolto
versandolo a filo, come quando si prepara la maionese. Concludere con alcune gocce di limone e sale marino. Per il merluzzo
6 pezzi di merluzzo da 150 grammi circa ciascuno (per questo c’è bisogno di un merluzzo di almeno 2 kili e mezzo).
Contorni: 1 cipolla sott’aceto, 30 funghi shiitake sott’aceto, mezzo cetriolo, 3 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai di sale, olio
d’oliva, aceto balsamico bianco, mezzo
cavolfiore diviso in alberelli (da friggere), cavolfiore da grattugiare a scaglie grosse (come per cioccolato), 1 litro di olio per friggere, scorze di limone, melagrane,
Cetrioli: tagliare i cetrioli in quarti per lun-
siano fini circa 3 millimetri. Metterli in un colino, spolverarli con lo zucchero e il sale. Lasciarli riposare per 15 minuti e poi lavarli. Prima di servirli, aggiungervi l’aceto e l’olio d’oliva.
Cavolfiore fritto: con un coltello, separare le infiorescenze tagliandole circa un centimetro e mezzo. Scaldare l’olio e frig-
gerle fino a dorarle. Toglierle dall’olio e metterle su della carta assorbente e salare con sale marino.
Cavolfiore grattugiato: grattugiare il cavolfiore con la grattugia a scaglie grosse.
Mettere da parte e, prima di servire, aggiungere appena qualche goccia di olio di oliva e sale.
Melagrane: separare i semi e metterli da parte.
Fave: sbiancarle in acqua bollente e sale
per circa un minuto. Toglierle rapidamen-
te dal fuoco e lasciarle in acqua molto
fredda con del ghiaccio. Quando sono completamente fredde, pelarle. PREPARAZIONE
Preparare il forno ad una temperatura di
180ºC. Scaldare il purè. In una padella, scaldare le fave con il brodo di pollo e alcune gocce di limone.
Quando il tutto è ben caldo, aggiungere il
burro, versandolo senza smettere di me-
scolare. Concludere con delle scorze di limone. In una padella antiaderente molto calda, ma che non stia fumando, mettere
i pezzi di merluzzo passati nell’olio d’oliva.
Il pesce si attacca e, quando si stacca da
solo, bisogna girarlo e aggiungere il sale. Aggiungere due cucchiai di burro e mette-
re in forno per circa 3 minuti. Togliere dal forno e sul fuoco inzuppare il pesce con il burro. Mettere un cucchiaio di purè di ca-
volfiore nel piatto e, con una piccola spa-
tola, mettervi sopra un pezzo di merluzzo (concludere con olio d’oliva, sale marino e scorze di limone).
Da una parte collocare una cucchiaiata di cavolfiore grattugiato. Ai lati del merluzzo, aggiungere i contorni e delle foglioline di decorazione.
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GOURMETFOOD
A SCUOLA DI CUCINA CON
ILARIO
VINCIGUERRA di
Maria Chiara Zucchi Gianni Triggiani
foto di
Ilario Vinciguerra, campano d’origine e lombardo d’adozione, ha saputo conquistare fama e una stella Michelin grazie alla propria caparbietà e ad una sempre crescente creatività. Premio Miglior Piatto all’olio d’oliva a San Sebastian, testimonial della buona cucina su Rai 2, dimostra come stia nell’ingegno di ogni cuoco appassionato la riuscita di splendidi piatti.
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ILARIOVINCIGUERRA
UOVO cotto a bassa temperatura, conserva di San Marzano e aria di grana padano INGREDIENTI
PREPARAZIONE
g. 400 di grana padano 27 mesi
24 ore. Cuocere le uova a 58°C a bagnomaria per un’ora. Preparare la conserva di San
4 uova
g. 300 di acqua
g. 500 di conserva di San Marzano
g. 200 di crostini di pane “Casatiello” g. 50 di arachidi basilico
sale e pepe
Far bollire l’acqua e versare dentro il grana padano grattugiato; lasciarlo in infusione per Marzano come un classico sugo di pomodoro, ma un po’ più ristretto. Tagliare a cubetti il pane e tostarlo in forno per pochi minuti. Adagiare la salsa di pomodoro sul fondo del
piatto, al centro l’uovo sgusciato e mettervi sopra qualche arachide e un poco di briciole di pane casatiello.
Infine montare la spuma di grana padano con l’aiuto di un mini pimer e adagiare l’aria sopra l’uovo.
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GOURMETFOOD
INDIVIA BELGA brasata, spuma di bufala e bottarga di tonno INGREDIENTI
PREPARAZIONE
ml. 500 di latte concentrato di bufala
poco olio, sale e pepe. Cuocere a 97°C per 20 minuti. In una padella calda con poco olio,
4 indivia belga
g. 100 di bottarga di tonno g. 7 di lecitina di soia
sakura mix per decorare olio extravergine d’oliva sale e pepe q.b.
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Porre in un sacchetto del sottovuoto l’indivia già tagliata a metà in verticale, aggiungere brasare l’indivia cotta su tutti i lati.
In un pentolino versare il latte di bufala con poco olio e aggiustare di sale e pepe; lasciare ridurre di un terzo. Una volta pronto, aggiungere un cucchiaino di lecitina di soia e frullare con il mixer ad immersione ottenendo un’emulsione di bufala.
In un piatto fondo disporre l’emulsione di bufala, l’indivia, sakura mix e terminare con una grattata di bottarga di tonno.
ILARIO VINCIGUERRA RESTAURANT Via Roma, 1 Gallarate (VA)
(ingresso auto Via Tenconi, 3) Tel. +39 0331 791597
www.ilariovinciguerra.it info@ilariovinciguerra.it
RISOLIO con mela annurca, polvere di capperi di Pantelleria INGREDIENTI per 4 persone
PREPARAZIONE
g. 20 di cipolla tritata
capperi ad essiccare in un essiccatore o in forno a temperatura dolce, quindi frullarli fino
g. 320 di riso carnaroli 1 mela annurca
g. 50 di capperi di Pantelleria sottosale olio extravergine d’oliva
1 bicchiere di vino bianco g. 150 di grana padano brodo vegetale sale e pepe
Sciacquare i capperi con abbondante acqua corrente e disporli su una teglia. Mettere i
ad ottenere una polvere sottile. Far rosolare la cipolla e, una volta imbiondita, aggiungere il riso. Tostarlo e sfumarlo con il vino bianco. Continuare la cottura del riso aggiungendo poco brodo vegetale per volta. Nel frattempo pelare e tagliare in pezzetti la mela, sbol-
lentarla in poca acqua, scolarla e frullarla; aggiustare di sale e pepe. A cottura del risotto
ultimata, mantecare lontano dal fuoco aggiungendo due cucchiai della purea di mela ot-
tenuta, il grana padano e l’olio extra vergine d’oliva. Terminare il piatto con una spolverata di capperi di Pantelleria precedentemente essiccati.
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GOURMETFOOD
L’ORO DI NAPOLI INGREDIENTI
PREPARAZIONE
g. 400 di ricotta
fine la farina con la fecola precedentemente mischiate. Lasciare riposare in frigorifero per
ml. 500 di crema pasticciera g. 700 di grano cotto
g. 150 di scorza d’arancia candita cannella in polvere
ml. 20 di liquore Strega
4 gocce di essenza di fiori d’arancio scorza di 1/2 limone e 1/2 arancia
g. 250 di zucchero
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Preparare la pasta frolla classica mantecando lo zucchero con il burro, unire i tuorli ed in-
almeno 30 minuti. Stendere la pasta sottile e realizzare dei dischi del diametro di circa 4 centimetri. Cuocere in forno a 180°C per circa 5 minuti. Preparare la farcia della pastiera
tradizionale unendo in sequenza: ricotta e zucchero, la crema pasticcera, il grano, i canditi ed in fine gli altri aromi. Sistemare negli stampini di silpat e porre in abbattitore.
Nel frattempo preparare la gelatina: unire tutti gli ingredienti e portarli ad ebollizione. Una volta raffreddate le gocce di pastiera, immergerle nella gelatina creando una copertura
completa. Lasciare in frigorifero. Su un cucchiaio servire il biscotto di pasta frolla e mettervi sopra la pastiglia d’oro ottenuta.
GOURMETFOOD
LILA
CALCUS NICOLAS CAMPUS
L’INCONTRO PERFETTO TRA CUCINA E VINO, IN BELGIO 68
LESGRIBAUMONTS
di
LILA
Lucy Gordan
Intervista ai proprietari di “Les Gribaumonts”, il miglior ristorante di Mons, capitale della provincia di Hainaut, ai confini con la Francia. Lisa Calcus, la chef, e Nicolas Campus, il sommelier, sono soci belgi dell’associazione “Jeunes Restaurateurs d’Europe”. Lisa Calcus è stata considerata “La Migliore Chef Belga” nel 2012.
Che significa “Les Gribaumonts”? Gribaumonts è il nome del luogo dove per 18 anni abbiamo avuto un altro ristorante, chiamato appunto “Les Gribaumonts”, il luogo dove sono cresciuta, che dista 20 chilometri da Mons. Quando ci siamo trasferiti abbiamo tenuto lo stesso nome perché era più facile ritrovarci per i nostri ospiti abituali. Quale è stato il suo percorso professionale? Sono diplomata alla scuola alberghiera di Namur e, subito dopo, ho aperto “Les Gribaumonts” nella nostra casa a Gribaumonts. Avevo 19 anni. I miei genitori ci abitano ancora. Quando avevo tanti ospiti durante i week-end, mia madre mi aiutava in cucina, ma abitualmente lavoravo da sola. Il motivo del trasferimento a Mons è dovuto al fatto che nei giorni feriali la mia cittadina d’origine non offriva un numero accettabile di clienti. I suoi genitori condividevano la sua decisione di diventare chef? Sì. Mio padre era un uomo d’affari di successo. È stato lui a suggerirmi di trasformare una parte della nostra casa in un ristorante.
Il suo soprannome è “la grande dame de demain” ovvero “la grande dama di domani”, ma lei è già grande. Esiste sempre la possibilità di migliorarsi. Posso perfezionare una ricetta o inventarne una nuova, ma preferirei essere conosciuta come “la grande dama di oggi”. Lei e suo marito Nicolas Campus sembrate il frutto dell’incontro perfetto; da quando lavorate insieme? Nicolas ha un anno meno di me, perciò non ci siamo diplomati nello stesso anno, ma appena lui ha ottenuto il diploma, è venuto a lavorare con me e da allora siamo rimasti sempre insieme. Il nostro incontro è stato certamente un colpo di fulmine. Lui sorride sempre: è sempre sereno, di buon umore e positivo. Ma non è difficile comunque lavorare con lui tutti i santi giorni? Noi ci sosteniamo, ci bilanciamo. In verità abbiamo due ruoli diversi, complementari. Una caratteristica di Nicolas che la irrita? Qualche volta parla troppo.
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GOURMETFOOD
In poche parole come definirebbe la sua cucina? Ispirazione immediata, invenzioni all’ultimo minuto, di stagione, chilometro 0 eccetto il pesce che compriamo dalla Francia; una cucina leggera, digeribile, a base di prodotti locali. Amo sperimentare con spezie, erbette e tè. Non utilizzo quasi mai burro o panna. Le sue specialità? Per esempio l’aragosta, le animelle, il piccione, ma cambio molto spesso il menù, in pratica quasi ogni giorno. Amo molto fare le crostate di frutta, come mia nonna. Le qualità essenziali per essere top chef? Autodisciplina, tenacia, fantasia e passione. Quando ha scoperto la sua vocazione? Avevo tra gli 8 e 10 anni. Stavo dai miei nonni: passavo le vacanze estive con loro a Wanze, vicino Huy. Mio nonno aveva un orto magnifico e tanti alberi di frutta. Durante il giorno c’era tanto lavoro da compiere fuori, all’aperto, ma la sera stavo in cucina con mia nonna facendo marmellate, conserve e crostate. Anche mia madre è un’ottima cuoca, quindi cucinare per me è risultato facile: forse fa parte del mio DNA.
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L’aspetto del suo lavoro che ama di più? Mi è sempre piaciuto cucinare qualsiasi cosa all’infuori della cacciagione.
Altri chef che ammira? Non ho mai lavorato con altri chef. Adesso sono sempre qui, davanti ai fornelli, quindi non saprei darle una risposta.
Di meno? L’amministrazione, i lavori dell’ufficio.
È d’accordo che è più difficile per una donna diventare un top chef che
LESGRIBAUMONTS
per un uomo? Non per me, ma solitamente sì. Che cosa pensa delle guide gastronomiche? Sono sempre d’aiuto soprattutto per i turisti che si trovano in un posto sconosciuto e non sanno dove andare a mangiare. Quando Nicolas sceglie un vino da accompagnare ad un suo piatto, è sempre contenta della sua scelta? Sì, quasi sempre. È campo suo. È lui l’esperto e non si ferma mai. È instancabile, sempre in cerca di nuove cantine e di nuovi terroir. Il suo dolce preferito? Le crostate di frutta fatte in casa.
Gli chef sono conosciuti per avere delle collezioni di macchine veloci, motocicli, o orologi, lei? Porcellini di tutti i tipi e materiali. Il suo segno zodiacale? Leone. Nicolas è un pesci. Se non fosse diventata chef, quale professione avrebbe scelto? La fioraia. Il suo fiore preferito? Peonia. Ha un sogno nel cassetto? Il prossimo ristorante - molto più piccolo di questo - con un menù fisso, dove inviterò soltanto i nostri amici. È il mio sogno per la vecchiaia.
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GOURMETFOOD
NICOLAS
CAMPUS
© Adeline Delforge
I suoi primi ricordi del vino? Risalgono a quando avevo 17 o 18 anni. Il mio primo amore furono i vini del Rodano del Nord, tra Vienne e Tain L’Hermitage, a sud di Lione: Les Côtes de Rhone. Fu il papà di Lisa ad iniziarmi al vino e a farmi riconoscere quello di qualità. Ma da lì a fare il sommelier ce n’è di strada. Dopo l’iniziazione da parte del mio futuro suocero, diventavo sempre più interessato a conoscere la materia enologica, perciò ho seguito tutti i corsi possibili. Però la professione di sommelier non finisce con il diploma: la conoscenza cresce ogni giorno e richiede un impegno personale. Ciò significa che devi scambiare informazioni con altri sommelier, con i produttori e che devi frequentare le degustazioni. Vado spesso in Francia, ma molti produttori, soprattutto francesi, vengono in Belgio a Bruxelles, Anversa, Gand, e anche qui a Mons per delle degustazioni professionali, per la promozione dei loro vini. C’è n’è una quasi ogni settimana. Prima di incontrare mio futuro suocero il vino non mi attirava per niente, era una bevanda come qualsiasi altra. Addirittura, a quell’età, ossia a 16 anni, preferivo la birra. È evidente, siamo in Belgio: produciamo la birra, che costa molto meno del vino.
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La cantina qui a “Les Gribaumonts” contiene esclusivamente vini francesi, non è vero? Fino a tre anni fa tenevo tutte le porte aperte per scoprire vini provenienti da tutto il mondo. Da allora ho limitato il mio interesse ai vini autoctoni, cioè indigeni, che esprimono e riflettono il territorio dove nasce l’uva. Esistono due metodi di produrre il vino: o il produttore “costruisce” il suo vino come tutti i vini di Bordeaux che sono “assemblaggi”, o è la natura che produce il vino. Io preferisco i vini del secondo metodo di produzione. Qui a Mons possiedo due cantine: una è per il ristorante, l’altra è per i vini da invecchiare. Insieme contengono 100.000 bottiglie. Sono soltanto 3 anni che compro vini da invecchiare. Il 70% delle mie cantine è composto da vini francesi, quasi tutto il resto da vini europei: italiani, tedeschi, austriaci, ungheresi, bulgari, spagnoli, e portoghesi. Non possiedo americani, australiani, neozelandesi perché, come quelli di Bordeaux, sono tutti “costruiti” e non hanno storia. E mentre i loro terreni sono ininfluenti, il segreto della maggioranza dei vini europei è il loro terroir. Oltre tuo suocero avevi un altro mentore? Sì, mio mentore spirituale è il sommelier Carlo Zecchin del ristorante “Les Gourmands” a Blaregnies, non lontano da qui. È italiano: viene dal Piemonte. Vanta una conoscenza eccezionale dell’enologia e possiede anche un palato raffinatissimo. È una leggenda! Mi ha certamente aiutato ad arrivare dove mi trovo oggi, tanto che adesso condividiamo persino gli stessi ospiti. Le caratteristiche che ammiro in un sommelier sono l’umiltà e l’onestà. Il sommelier deve spiegare soltanto il minimo indispensabile. Un vino deve essere buono, ti deve piacere, ma non perché qualcuno ti obbliga. Questo è il punto cruciale!
LESGRIBAUMONTS
Quali sono le qualità essenziali per essere un top sommelier? Devi ascoltare il tuo ospite; devi captare la sua personalità e i suoi gusti. Poi devi sorprendere lui o lei anche non proponendo il vino che lui o lei aveva chiesto: qualche volta, devi proporre vini che i vostri ospiti non conoscevano prima. Possono essere anche vini che non vanno più di moda perché non pubblicizzati come i vini di cantine più famose.
casione, ora del giorno. Con le ostriche, per esempio, sceglierei un ottimo Muscadet; con un ottimo formaggio un ottimo Vin Jaune.
L’aspetto del suo lavoro che ama di più? La scoperta del vino che meglio accompagna i piatti preparati da Lisa per il menù del giorno ed anche i ringraziamenti dei nostri ospiti.
Lisa mi ha confessato che qualche volta si irrita con lei perché parla troppo. È vero? Sì, ma non con lei.
Qual è la sua opinione sulle guide gastronomiche? Ha fatto questa domanda anche a mia moglie? Le guide gastronomiche fanno parte della triste realtà, specialmente oggi quando tutti pensano di poter esprimere un giudizio competente. Sì, ti aiutano nel lavoro perché fanno pubblicità al tuo ristorante. Lo fanno conoscere a chi non l’avrebbe conosciuto altrimenti. Comunque per me il migliore giudizio su “Les Gribuamonts” è la percentuale altissima dei nostri ospiti che ritornano e poi ritornano più volte. Noi lavoriamo tramite passaparola, grazie alle raccomandazioni dei nostri ospiti più affezionati. Il suo piatto preferito che prepara Lisa? I suoi risotti, anche se non prepara mai lo stesso una seconda volta. I suoi non plus ultra sono i risotti stagionali, con funghi selvatici, o piselli, o con parmigiano ed olio d’oliva, o pomodori… per menzionarne alcuni. I suoi vini preferiti? Dipende quale momento, stagione, oc-
Quando sceglie un vino per accompagnare un piatto di Lisa, lei è sempre d’accordo della tua scelta? Quasi sempre, ma qualche volta aggiunge o toglie un ingrediente dal piatto perché altrimenti la fusione tra cibo e vino sarebbe infelice.
Cosa ama di più di Lisa? La sua energia straordinaria. Io amo quello che lei è: una forza con un carattere fortissimo. Lei lotta per ottenere quello in cui crede. Non si ferma, non si arrende mai. Invece che cosa di Lisa la irrita? Due cose: la prima, che spesso e volentieri mi tiene sulle spine perché non ha deciso il menù del giorno prima di mezzogiorno, perciò è difficile per me decantare i vini rossi appropriati per i suoi piatti. La seconda: che non si ferma mai, il che può essere sia un pregio che un difetto.
IL MENÙ DEGUSTATO Pressato di foie grascon sugo di vitello e tartare di verdure croccanti; asparagi con olio di cipollotto, panna cotta di burrata e pane di farina di ceci; San Pietro con curcuma, quinoa belga, crema di chorizo e carciofi; agnello con spezie dolci, bulgur, e torta di melanzane; fragole fresche con una salsa di basilico, crema di limone, crumble, e sorbetto di limone e basilico. I vini: Weingut Ökonomierat Rebholz, Pflaz, Riesling Trocken, 2011; Mas Baux “Le Baux Blond”, Muscat Petits Grains 2015 IGP Côtes Catalenes; Château de Fosse-Sèche, Cuvée “Arcane” 2014,Saumur; As Sortes 2003, Valdeorras, Rafael Palacios; Faugères, Dom. Ollier Taillefer, Grande Réserve 2011; Les Sablonnettes “Le Quart d’Heure Angevin” (Cabernet Sauvignon) 2013.
LES GRIBAUMONTS
Rue d’Havré 95, 7000 Mons, Belgio Tel. +32 65 75 04 55
www.lesgribaumonts.be
Se non fosse diventato sommelier, quale professione avrebbe scelto? Credo medico, come mio padre. Mi piace prendermi cura delle persone. Ha un sogno nel cassetto? Poter vedere il mondo in pace, senza le guerre. Migliorare sempre di più e soddisfare i miei ospiti. Che tutti i vini rispetteranno i loro terroir, che saranno soltanto prodotti naturali e non creazioni del loro produttore.
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EVENTI
foto di
Gianni Angelini e Roberta Filippi
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Cesenatico - Fotocronaca dal
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EVENTI
ALBERTO FACCANI Ristorante Magnolia Cesenatico (FC) 1 Stella Michelin
Pasta, polpo e patate
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ENRICO CROATTI
MASSIMILIANO MASCIA
Polpetta di seppia all’orientale
Millefoglie di petti di pollo e mortadella con purea di pere IGP Emilia-Romagna e Saba di Sangiovese
Ristorante Dolomieu Madonna di Campiglio (TN) 1 Stella Michelin
Ristorante San Domenico - Imola (BO) 2 Stelle Michelin
Gli 8 chef stellati e le loro creazioni GREGORIO GRIPPO Ristorante La Buca Cesenatico (FC) 1 Stella Michelin
Carpaccio di ricciola, artemisia, salsa tonnata alla mandorla e riso croccante
RICCARDO AGOSTINI
SIMONE CICCOTTI
Passatello in zuppetta di cozze alla marinara
BaccalĂ in due consistenze, bagnacauda di piselli, aglio nero fermentato, melanzana affumicata al nero di seppia, mou di prugne selvatiche con caprino, uvetta e pinoli
Ristorante Il Piastrino Pennabilli (RN) 1 Stella Michelin
Antica Trattoria San Lorenzo - Perugia (PG) 1 Stella Michelin
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EVENTI
GIUSEPPE AVERSA
MAURIZIO URSO
GUEST STAR ENRICO COSENTINO
Mescafrancesca con erbe da taglio e frutti di mare
Cremoso al caffè e anice stellato su crumble di mandorla e pistacchio, salsa inglese alla liquirizia
Scialatielli dell’autore con pomodorini e vasilicolo e pioggia di cacio e pepe
Ristorante Il Buco di Sorrento Sorrento (NA) 1 Stella Michelin
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Ristorante La Terrazza sul Mare Siracusa (SR)
Presidente Italcuochi Campania
1 CHAMPAGNE X 8 CHEF
Grazie alla verve tutta francese di Stéphane Revol, titolare della Maison di Champagne Comte de Montaigne, la degustazione tenutasi al Festival è risultata appassionante e dibattuta con addirittura una disfida naso contro naso, come si vede dalle foto. Brut o Rosé, alla fine il vincitore assoluto è stato come sempre lo champagne: la bollicina di prestigio più degustata al mondo. Gli 8 chef e le loro 8 padelle hanno trovato il corretto abbinamento, sia con il naso fruttato e la persi-
stenza minerale dell’assemblaggio di Pinot Nero e Chardonnay del brut 48 mesi, sia con l’olfatto pieno e ricco di lamponi e ribes nero del rosé de saignée, ottenuto dopo una lisi di almeno quattro anni da una raccolta di Pinot Nero al 100% . Dedicato al saggista e umanista francese Michel de Montaigne, lo Champagne Comte de Montaigne si caratterizza per la produzione di nicchia di elevatissima qualità e per la sua trasversalità che lo rende adatto a un pubblico esperto tanto quanto ai neofiti.
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EVENTI
Due spazi entusiasmanti: la Salumoterapia di Ivan Albertelli e l’AperiFestival a base di Prugna d’Agen Igp realizzato dal bartender Charles Flamminio.
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Le degustazioni guidate di grandi vini a cura di Alessandro Rossi, Luca Gardini, Roberto Gardini e Marco Tonelli. Servizio a cura dell’Istituto di Istruzione Superiore Artusi di Forlimpopoli. Calici Spiegelau by Caraiba.
Affollatissime le lezioni tenute dalle bravissime Mariette Artusiane coadiuvate dalle farine del Molino Naldoni di Faenza (RA).
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EVENTI
DENTRO AL MUSEO...
In questa pagina, dall’alto, Strada della Romagna; Azienda Agricola Colmello di Grotta; TerraeTartufo, Molino di Ortano; Consorzio Vini Colli Bolognesi; Italia nel Bicchiere; le sommelier delle aziende Monsupello, Luretta, Balma, Ca’ di Frara; Braschi; salmone Upstream. Gli altri vini presenti in degustazione: Umani Ronchi; Dorigati; Marcalberto; Felsina; Drappier, Comte de Montaigne (champagne); Massana Noya (Cava); Tenuta La Pernice; Citra; Azienda Agricola Lusenti; Azienda Agricola Storchi. Nella pagina accanto, dall’alto, Agriturismo Rio Cella Casa del Tartufo; Nicola Ursini (Zafferano di Navelli); Scuola Tappeti Caruso e Ceramiche artistiche Squillacesi (Calabria); Forno Bertozzi e Azienda Agricola Gori; Sila & Sila prosciutto e salumi di Arturo Falcone.
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A seguire, l’Azienda Rio del Sol; sopra, Giorgio Giorgini Salumi; a fianco, Liquori Gorfer. Qui sopra, lo staff dell’Istituto di Istruzione Superiore Artusi di Forlimpopoli che ha brillantemente svolto il servizio di sala per i piatti degli 8 chef stellati.
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EVENTI
FUORI DAL MUSEO...
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Nella pagina accanto, dall’alto, il gruppo di chef della Ristoassociazione Tour-Tlen in abbinamento al Consorzio Vini dei Colli Bolognesi e, a lato, Moreno Cedroni assaggia i loro tortellini; a seguire, l’Apecar di Pentole Agnelli con la polenta Taragna, quindi l’Ocaburger di Littamè e il Pata Truck; in basso a sinistra, l’Apecar di Lady Cafè e poi il Birrificio Oltrepò Pavese. In questa pagina, Il Mare in un Panino del ristorante La Buca di Cesenatico; lo stand della Birra Amarcord; lo stand abruzzese dell’Azienda Agricola Biagi; il truck di Retrogusto; a fianco Noatri e quindi lo gnocco fritto di Mr. Max (Massimo Cuoghi).
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PREMIO NAZIONALE GALVANINA 2016
Grandi firme della cultura, della cucina, del giornalismo e dell’imprenditoria hanno reso omaggio al Festival della Cucina Italiana con la consegna del Premio Nazionale Galvanina nel Teatro Comunale di Cesenatico. Un riconoscimento al made in Italy che funziona, quest’anno con “un’attenzione particolare al tema del mare”, ha affermato Elsa Mazzolini, ideatrice del Festival. “Qualità, tradizione, storia e cultura caratterizzano il Festival della cucina italiana – ha affermato il sindaco di Cesenatico Matteo Gozzoli - Gli stessi principi che da sempre animano la nostra città”. Il sindaco ha premiato uno dei massimi esperti nazionali della scienza marina,
Corrado Piccinetti (foto 1), a cui è stato assegnato il Premio alla Cultura. “Nonostante i problemi odierni nel settore della pesca, non dobbiamo dimenticare che è frontiera di conoscenza e sviluppo – ha affermato lo studioso - Ricordo inoltre che l’Adriatico è il mare più controllato d’Italia, un vero e proprio punto di riferimento a livello nazionale per qualità e studi”. A Carlo Cambi il Premio Giornalismo (foto 2), consegnato da Andrea Manganelli, consigliere d’amministrazione del gruppo Cose Belle d’Italia. “Oggi spopola la comunicazione a livello enogastronomico – ha detto il giornalista - ma ricordiamoci che il giornalismo gastronomico è fatto di passione e di
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3 storie, mai di giudizi. E lasciamo perdere i blog che fanno solo pornografia del cibo”. A Filippo Callipo il riconoscimento all’Imprenditoria (foto 3), conferito da Rino Mini, patron di Galvanina e ideatore del Premio. “La qualità più importante nel nostro settore è la voglia di innovare - ha spiegato Callipo - la stessa che nel 1913 spinse il mio bisnonno a produrre il primo tonno conservato sott’olio. Non bisogna mai dimenticare il rispetto dell’ambiente, l’unico in grado di fornirci i prodotti con cui lavoriamo”. Premio alla Cucina al due stelle Michelin Moreno Cedroni (foto 4). “E’ fondamentale fare esperienze. Se non avessi viaggiato, non avrei mai proposto
piatti nuovi come integrazione culturale alla nostra tradizione”. A premiarlo Enrico Cosentino, presidente di Italcuochi Campania. Infine il Premio del Cuore a Mirko Damasco (foto 5), in prima linea nel progetto SicurezzAtavola. Damasco ha ricordato come “la prima causa di soffocamento infantile è derivata dall’alimentazione. Da qui l’importanza di iniziative dedicate alla prevenzione”. A premiarlo Dario Picchiotti chef dell’Antica Trattoria Sacerno a Bologna, insieme a Maria Chiara Zucchi, caporedattore de La Madia Travelfood. A tutti i premiati è stata consegnata una coppa artistica in vetro di Murano realizzata da Vetrofuso, forgiata nel laboratorio di Daniela Poletti a Cesena.
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ILFOCUSDIALESSANDROMAGNUM
a cura di
Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”
PER NON DIMENTICARE
LO SCANDALO DEL METANOLO E LA RINASCITA DOPO AVER TOCCATO IL FONDO Ci sono storie che non dovrebbero mai accadere, non perché sono tristi e dolorose, non dovrebbero accadere perché si potrebbero tranquillamente evitare e basterebbe un poco di coscienza in più, ma invece no. A volte capita di attraversare momenti così difficili, così bui, non solo a livello personale: parliamo in questo caso di eventi, di brutte storie che hanno caratterizzato e cambiato profondamente un certo tipo di cultura, che hanno fatto toccare un fondo buio e melmoso, un fondo dal quale si può solo riemergere più forti di prima. Così, spesso, ci troviamo qui a raccontare tragedie come queste perché questa è la triste storia dello scandalo del metanolo. E’ il 18 marzo 1986 ed il telegiornale apre con una notizia scandalo: il 2 marzo 1986 Armando Bisogni di 48 anni viene trovato morto nella sua abitazione: unico indizio un bottiglione di vino da due litri nella dispensa. Oltre alla morte del Sig. Bisogni vengono segnalati altri casi di decesso e avvelenamento registrati sempre a Milano: Renzo Cappelletti di 58 anni e Benito Casetto. Viene dato l’incarico al sostituto procuratore della Repubblica Italiana, Alberto Nobili, di fare luce su quello che sarebbe stato un clamoroso scandalo del settore alimentare : il vino al metanolo. Ma un momento, facciamo subito chiarezza e spieghiamo cos’è il metanolo: Il metanolo o alcool metilico è un alcool naturale altamente tossico che si ottiene per distillazione a secco del legno o, industrialmente, per sintesi o ancora con la pressatura delle uve.
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Questo alcool non provoca disturbi al fisico se utilizzato nella misura compresa tra 0,6 - 0,15 millilitri su 100 millilitri di alcool etilico; dosi eccessive possono considerarsi letali portando addirittura alla morte. I limiti massimi fissati entro i quali deve essere contenuta la quantità di alcool metilico nel vino è di 0,30 millilitri ogni cento nel vino rosso e 0,20 millilitri nei vini bianchi, nelle dosi tra 25 e 100 millilitri è da considerarsi mortale. Ma perché è stato utilizzato il metanolo nel vino? Semplicemente perché era necessario alzare la gradazione del vino ed il metanolo è considerato tra gli elementi più a buon mercato se paragonato allo zucchero, ben più costoso all’epoca. Produttori spregiudicati approfittarono della carenza di controlli adeguati cercando di conseguire il massimo profitto con il minimo costo della materia prima ed il minor rischio di essere sorpresi in flagranza, considerando che la sofisticazione con il metanolo alternativa allo zucchero, avviene in uno spazio temporale molto breve, che riduce ai minimi il pericolo di controlli a sorpresa. Esiste anche il sospetto, ovviamente da accertare, che la cantina Ciravegna della provincia di Cuneo sia coinvolta nello scandalo e abbia messo sul mercato vino con metanolo in eccesso, si parla addirittura di 9.000 ettolitri di vino adulterato. La situazione effettivamente precipita a livello mediatico: il 24 marzo 1986 una nave cisterna italiana viene sequestrata a Sète in Francia e tutto il carico di vino viene messo sotto sequestro
ILFOCUSDIALESSANDROMAGNUM
perché sospettato di contenere metanolo. La ditta è Antonio Fusco di Manduria - Taranto. Dopo pochi giorni i titolari della ditta Ciravegna vengono arrestati e condannati successivamente a 14 anni di carcere con l’accusa di reato di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Già nel 1984 l’ispettorato centrale repressione frodi contestò alla ditta Ciravegna un uso improprio ed eccessivo di metanolo. A seguito del controllo e delle analisi condotte fu eseguito un sequestro preventivo e partì contestualmente una denuncia penale della quale non si ebbe più traccia, tanto che i titolari continuarono a produrre vino indisturbati fino all’evento drammatico. In Germania il ministro della sanità fa sequestrare cira 500 bottiglie di Barbera d’Asti che presentavano un contenuto di circa 6,7 grammi di metanolo per litro. L’azienda produttrice è l’azienda vinicola Giovanni Binaco di Castagnole Lanze in Piemonte. Ora è il caos assoluto: il ministro dell’Agricoltura, all’epoca Filippo Pandolfi, decide di iniziare una campagna anti panico partecipando a trasmissioni televisive e cercando di tranquillizzare la gente mentre i giornali pubblicano liste intere di prodotti proibiti. Contestualmente i decessi continuano a moltiplicarsi sino a raggiungere un numero di 15 morti e decine di persone con lesioni gravissime, soprattutto perdita di vista a causa delle intossicazioni provocate dal metanolo. Pandolfi ammette che inizialmente le indagini sono andate a rilento e che questo ha aggravato ulteriormente la situazione. Intanto il bilancio delle vittime continua ad aumentare vertiginosamente ma anche il bilancio economico non è da meno: vengono bloccate le esportazioni in tutto il mondo, il nome
dell’Italia fu accostato all’adulterazione e al pericolo di morte. Decine e decine di aziende fallirono. Alla fine il bilancio fu disastroso : 19 decessi 23 persone rimaste cieche e altrettanti casi di intossicazione Oltre 60 aziende, soprattutto del centro-nord completamente fallite Nessun risarcimento alle vittime A seguito dello scandalo del metanolo furono stanziati 10 miliardi di lire per una campagna straordinaria di educazione alimentare e 5 miliardi per una campagna più specifica sul vino. Intanto le vendite crollavano: il 1986 si chiude con una contrazione del 37% degli ettolitri e la perdita di una quarto del valore incassato l’anno prima. L’export del vino italiano crolla da 18 milioni di ettolitri a 11 ed il fatturato da 1.668 miliardi di lire a 1.260. Oltre 21 milioni di ettolitri rimangono invenduti. Ci furono allora misure di sostegno ai prezzi e provvedimenti straordinari per la distillazione e lo stoccaggio. Infine, alla fine del 1986, fu creata un’agenzia per prevenire le frodi di questo tipo. Il paradosso è che a rendere convenienti questi scandali era stato un decreto legge, varato in attuazione di alcune sentenze della corte di giustizia europea. In sostanza, si detassava il metanolo che diveniva così dieci volte meno caro dell’alcool etilico. Però, da lì e da quei morti è rinato un settore dell’economia che tanto lustro garantisce a questa nazione a livello mondiale. L’Italia è considerata oggi uno dei Paesi con la più elevata qualità non solo nel mondo del vino ma in tutto il segmento agroalimentare, ma soprattutto lo scandalo del metanolo ha ridato un’identità ad un settore che oggi più che mai è il fiore all’occhiello di un’economia fiorente.
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GOURMETFOOD
ANTEPRIMA
MONTEPULCIANO D’ABRUZZO 2016
ALLA SCOPERTA DELLA CITTÀ DI CHIETI TRA VINI, QUARTIERI STORICI, ANTICHI MERCATI E PALAZZI NOBILIARI di
Antonietta Mazzeo
La quarta edizione Anteprima Montepulciano d’Abruzzo 2016 - la più importante rassegna enologica in terra d’Abruzzo promossa dalla Camera di Commercio di Chieti, dal Centro Interno delle CCIAA d’Abruzzo, dall’Agenzia di Sviluppo della CCIAA di Chieti EEN e dall’Associazione Italiana Sommelier Abruzzo - si è presentata ad operatori ed al pubblico degli appassionati in una veste completamente rinnovata. Ad ospitare l’evento lo splendido centro storico di Chieti, dalla Civitella a Porta Pescara, con le strade, le piazze e la sua offerta culturale di prestigio. Itinerari Wine, Food & Culture tra musei, palazzi e cortili per una narrazione esperienziale a più dimensioni della città. Rinnovato anche il logo della manifestazione, che ben rappresenta la dimensione cittadina, con il guerriero di Capestrano, che apre alla dimensione regionale. “ … con Anteprima Montepulciano d’Abruzzo abbiamo fornito una chiave di lettura importante alla città per leggere il presente e guardare al futuro … ” (Roberto Di Vincenzo, presidente della Camera di Commercio e del Centro Regionale per il Commercio Interno delle Camere di Commercio d’Abruzzo) Il Museo archeologico La Civitella ha ospitato i protagonisti dell’evento, il Montepulciano d’Abruzzo Doc Riserva 2013, e le ultime annate del Montepulciano d’Abruzzo DOC/DOP e DOCG Colline Teramane; a tutti i partecipanti è stata inoltre offerta la possibilità, in spazi espositivi dislocati nel centro storico di Chieti, di conoscere e degustare le tipicità gastronomiche e alcune tra le altre perle enologiche abruzzesi, come il Trebbiano d’Abruzzo, il Cerasuolo d’Abruzzo, il Tullum, il Villamagna, il Controguerra, l’Ortona, l’Abruzzo, ed alcuni vini bianchi abruzzesi autoctoni tra cui il Pecorino, la Passerina e la Cococciola, fermi o in versione spumante. Con gli Abruzzo Wine Tour i giornalisti e gli operatori hanno potuto visitare e conoscere le diverse aree e realtà produttive regionali, dal mare della Costa dei trabocchi
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alla montagna della Majella, nei luoghi più belli e significativi del vino abruzzese. Sorprendono i grandi cambiamenti che hanno segnato la vitivinicoltura abruzzese negli ultimi dieci anni. Una sorta di rivoluzione se si guarda alla geografia produttiva che si è andata delineando, sia dal punto di vista ampelografico, sia per quanto riguarda il sistema delle denominazioni. L’Abruzzo oggi conta poco meno di 33 mila ettari di superficie concentrati per la gran parte sulla collina litoranea rispetto a quella pedemontana. La produzione annuale si aggira intorno a 2,5 milioni di ettolitri di vino provenienti dai quasi 33 mila ettari, il 45% imbottigliato in regione. Posizione dominante per il Montepulciano d’Abruzzo Doc che con 19 mila ettari coltivati (56%) e 850-900 mila ettolitri Doc, rappresenta quasi un terzo del vino regionale. Questa prima edizione della “rinnovata” Anteprima Montepulciano d’Abruzzo ha evidenziato alcuni aspetti migliorabili che rappresentano utili indicazioni per la prossima edizione, ma si conferma come la più importante rassegna enologica dell’Abruzzo, un appuntamento nazionale ed internazione, divenuto di riferimento per la conoscenza delle eccellenze e delle tipicità di uno dei territori enologicamente più vocati.
GOURMETFOOD
ALL’ELBA, NELLA TENUTA AGRICOLA
ARRIGHI
LA RISCOPERTA DEL VINO ROMANO IN ANFORA di foto di
Stefano Bramanti Alessandro Beneforti
L’archeologo Franco Cambi, tre anni fa, col suo staff dell’università di Siena, ha scoperto all’Elba una fattoria romana di 2000 anni fa. Scavi sulla costa della rada di Portoferraio, nella proprietà Gasparri a San Giovanni, hanno rivelato resti secolari, compresi i contenitori di vino dolia de fossa in terracotta. Sull’isola esiste un “erede” di quei viticoltori romani, Antonio Arrighi, che intorno al 2010 aveva già fatto entrare simili recipienti nell’azienda agricola che porta il suo nome. E’ la tenuta di Pian del Monte, ereditata dal nonno Antonio e dal bisnonno Carlo, tutti elbani doc, posta nei pressi del Monte della Croce; e dalle terrazze colme di vigne si apprezza la baia luminosa del paese di Porto Azzurro, affacciato sul mare. Nelle anfore Arrighi produce il Tresse, vino rosso Igt, ottenuto da uve Syrah, Sagrantino e Sangiovese, grazie alle terrecotte toscane realizzate all’Impruneta, presso la fornace Parisi: un vino costruito come avveniva secoli e secoli addietro.
AZIENDA AGRICOLA ARRIGHI Località Pian del Monte - 57036 Porto Azzurro (LI) - Isola d‘Elba Cellulare: 335 6641793 - Fax: 0565.921077 www.arrighivigneolivi.it - info@arrighivigneolivi.it
L’azienda possiede 12 ettari, di cui 6 a vigneto e produce 30 mila bottiglie l’anno, tra Doc e Igt bianchi, rossi e rosati, nonché il famoso Aleatico. l’unico vino passito regionale ad aver conquistato la Docg, ma non mancano olivi nella sua terra da cui si ricava l’olio evo. “Con l’enologa Laura Zuddas - commenta l’esperto- cercavamo un contenitore che non cedesse i classici sentori e aromi della tostatura del legno, ma che mantenesse la minima ossigenazione del vino, come la barrique. Ecco che abbiamo deciso di sfruttare la straordinaria capacità di isolamento termico della terracotta di Impruneta che, grazie alle sue speciali caratteristiche chimico-fisiche, permette una buona evoluzione. E’ stato creato anche uno speciale sistema di chiusura dell’anfora, che isola completamente il vino e la porosità che caratterizza la terracotta, senza alcun rivestimento interno, permette una microssigenazione e un’evoluzione ottimale dei vini utilizzati.
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ARRIGHI
Del resto, fin dai tempi della Magna Grecia, l’uomo ha utilizzato la terracotta per la conservazione e il trasporto del vino e quindi perché non rilanciare le giare di quel materiale naturale per la vinificazione, la maturazione e la conservazione del vino?”. La scelta di Arrighi è stata studiata in un recente convegno dal tema “Vino in anfora fra ricerca archeologica e produzione”, organizzato da “Vetrina toscana” in collaborazione con l’Accademia dei Georgofili a Firenze, col supporto del Consorzio Elba Taste, a chiusura di una serie di eventi enogastronomia chiamati “Tra terra e mare: l’Elba in vetrina”. Per due mesi i sapori dell’Elba sono giunti alla terraferma, con un gemellaggio tra cuochi elbani e ristoratori fiorentini, che ospitavano i colleghi isolani. “Nel convegno è stata studiata questa innovazione - racconta il viticoltore elbano, che è anche presidente della sezione elbana dell’Associazione italiana sommelier, past president della sezione locale del Lions e si mantiene in
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A CURA DI GIANLUCA RICCI
NESSUN NUOVO IMPIANTO IN VALPOLICELLA Valpolicella blindata. Il Consorzio di Tutela ha convinto la Regione Veneto a prorogare fino al 2019 il blocco degli impianti, nonostante le richieste fossero superiori di dieci volte rispetto a quanto consentirebbe la nuova normativa europea. Il recente aumento del 15% della superficie vitata sul territorio ha infatti convinto i produttori a rimandare ad un prossimo futuro un’ulteriore implementazione dei vitigni per la produzione del Valpolicella e, soprattutto, dell’Amarone. L’obiettivo dichiarato dal neopresidente del Consorzio Christian Marchesini è quello di calmierare l’offerta e contemporaneamente mantenere inalterata la redditività produttiva.
MISURA PER I ROSATI La nuova tendenza enologica del nostro Paese, ovvero l’affermazione dei vini rosé, è diventata ormai realtà. Una realtà talmente solida che si rendono necessari quelli che il Consorzio Valtenesi ha definito “stati generali dei vini rosati italiani”. L’obiettivo è quello di stabilire dati precisi a proposito di una categoria enologica che oggi è ancora statisticamente legata a quella dei vini rossi. Nonostante, secondo i numeri attualmente in possesso degli addetti ai lavori, l’Italia sia il quarto produttore in rosa al mondo, non esiste ancora una precisa definizione dei contorni entro cui il mercato si colloca. Urge dunque un efficace rimedio.
forma con gare di triathlon duro -. I docenti Cambi e Laura Pagliantini, condirettori dello scavo archeologico di san Giovanni, hanno riferito del ciclo del vino nel mondo antico, sulla scorta delle affascinanti scoperte effettuate sull’isola. La mia azienda sostiene tale ricerca che prosegue. Gli scavi, hanno portato alla luce grandi vasi interrati che contenevano ciascuno più di mille litri. Sono state ritrovate anche anfore vinarie per commercializzare il vino”. Ed anche Valter Giuliani, dirigente del consorzio Elba Taste, ha fatto presente che “questo rinnovato interesse per la produzione di vino in anfora è stato riscoperto da non pochi produttori in tutto il mondo, ad iniziare dall’Armenia e dalla Georgia, passando per l’Australia, gli Stati Uniti e la Francia, nonché in Italia. Il Tresse già presentato in passato alla Villa Romana delle Grotte a Portoferraio, si sta affermando come il vino anticomoderno grazie agli insegnamenti dei romani”.
TAPPO A VITE COME IL SUGHERO E sempre a proposito di tappi, va registrata la notizia che i vini invecchiati in bottiglie chiuse col tappo a vite svilupperebbero le medesime tracce aromatiche di quelli invecchiati in bottiglie chiuse col classico tappo di sughero. In realtà si tratta della convinzione di un vecchio assaggiatore americano e non della certificazione di qualche azienda di controllo qualità. Tuttavia, se il prestigioso Wine Spectator la considera un’informazione degna di attenzione, qualche germe di verità ci sarà pure. In attesa, ovviamente, che i nuovi tappi di sughero “puliti” mettano fine definitiva ad una delle questioni più dibattute della storia recente dell’enologia.
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