La Madia Travelfood n. 318 - Giugno 2017

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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Italia che vai, ospitalità che trovi... NAPOLI - Il Comandante ISERNIA - Locanda Belvedere ROMA - Pipero e Splendide Royal FIRENZE - Konnubio RIMINI - Chiosco di Bacco VENEZIA - Relais Alberti

IN VIAGGIO

a Buenos Aires e Rio De Janeiro

LA MADIA EDITORE

ANNO XXXII - Giugno 2017 - N. 318 - €E 4,00 - Direttore ELSA MAZZOLINI




SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 318

GOURMETFOOD

di

Maria Chiara Zucchi

pag. 40

GOURMETFOOD

di

Flavia Tomaello

pag. 52

RISTORANTE KONNUBIO

RISTORANTE LASAI A RIO DE JANEIRO

Un destino nel nome.

La sua filosofia basata su prodotti freschi e naturali.

VINARIA

di

Marco Tonelli

VINARIA

di

Gianluca Ricci

pag. 90

pag. 92 CHABLIS

ORANGE WINE

Si scrive Chablis, si legge Chardonnay.

Ecco le caratteristiche dei cosiddetti “vini arancioni”.


Foto di copertina - StudioGraf

La cultura del benessere

Golavagando “Mon Trésor”

Siamo destinati ad abbandonare le diete

Ristorante Al Colombo

di Primo Vercilli................................................................ pag. 8

di Daniele Briani............................................................... pag. 32

La scelta vegana

Corte Santo Stefano

Veganismo: oltre all’alimentazione c’è di più,

di Giovanni Angelucci....................................................... pag. 34

ma non vogliono farvelo sapere

Ristorante Nonna Maria

di Silvia Bianco................................................................. pag. 10

di Giovanni Angelucci....................................................... pag. 36

Assaggi di Galateo

GourmetFood

Meglio non dire... Tecniche di comunicazione

Alessandro Pipero

dalla prenotazione all’accoglienza

di Claudia Deb.................................................................. pag. 46

di Fabio Ferrantino........................................................... pag. 12

Ristorante Il Comandante

Enovità

di Teresa Cremona........................................................... pag. 48

Cantina Scuropasso Roccapietra...................................... pag. 13

Buenos Aires, una città piena di sapore

Progettare l’impresa

di Flavia Tomaello............................................................ pag. 58

Le dieci spine nel fianco di ogni pizzaiolo

Intervista a...

di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 14

Roberto Naldi

Area Gluten Free

di Lucy Gordan................................................................. pag. 64

Sformatino di cavolfiore con gamberone e melanzane

Giovani Talenti

a cura di Marco Scaglione................................................ pag. 17

Stefano Rufo

Golavagando

di Maria Chiara Zucchi...................................................... pag. 72

Thun Caffè....................................................................... pag. 18

Chef di Spirito

Agriturismo Il Contadino

Fiori di zucca

di Teresa Cremona.......................................................... pag. 20

di Sonia Leo..................................................................... pag. 80

Ristorante Il Gabbiano

Buone Nuove..................................................................... pag. 84

di Maria Chiara Zucchi..................................................... pag. 21

Prodotti Eccellenti

Moscara Terra d’Otranto a Milano................................... pag. 22

La Spalla Cruda di Palasone Sissa

GolavagandOraviaggiando

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 86

Il Chiosco di Bacco

Vinaria

di Giovanni Mastropasqua............................................... pag. 24

Il focus di Alessandro Magnum

Golavagando

Ci dobbiamo affidare a opinion leader o guide

Relais Alberti.................................................................... pag. 28

per l’acquisto del vino?

Pizzeria Berberè............................................................... pag. 30

di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 88 Assaggio di libri................................................................ pag. 96



EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

I PADRONI DEL CIBO Chi dominerà il cibo, dominerà il mondo. Se infatti c’è ancora molto spazio nel pianeta per i 7 miliardi di popolazione in crescita, a medio termine non saranno invece disponibili cibo e acqua per tutti. Ne è una prova la contingentazione che l’Europa sta imponendo su certe razze di pesce, ne è sintomo la stessa recente convention sul cibo da parte di Obama, ne è preoccupante segnale il “land grabber”, che io tradurrei come “sgraffignamento di terre coltivabili” da parte di multinazionali, emirati, agenzie governative, speculatori in genere, ai danni dei Paesi più indigenti. Col risultato che tanta povera gente si trovi sfrattata all’improvviso dalle aree che ha sempre abitato, che interi paesaggi vengano cancellati da coltivazioni intensive e che la deforestazione proceda senza sosta con un impatto allarmante sul clima. Gli appetiti dei potenti non si concentrano solo sull’Africa dove la Cina, per esempio, ha comprato o affittato territori sterminati in almeno metà del continente, ma ovunque vi siano situazioni di difficoltà: all’ombra della guerra e dei costi bassissimi che si possono strappare, già più della metà del territorio ucraino è controllato da imprese straniere, la Monsanto tra queste. Laos, Cambogia, Asia Centrale hanno impoverito ulteriormente la loro già povera economia a causa delle coltivazioni intensive di soia transgenica, o per la produzione di olio di palma. Tra i più grandi neo colonialisti figurano i Paesi arabi del Golfo, il Brasile, l’Egitto, l’Europa e, ovviamente, gli USA, con buona pace di Obama. Le potenze mondiali hanno appetiti sempre maggiori e, come sempre, il banchetto sarà allestito a spese di tutti noi: non pensiamo, infatti, che i problemi riguarderanno soltanto “gli altri”. Chi potrà costruire riserve alimentari a lungo termine, incremen-

ME

tando fame e povertà nel mondo, non sarà disposto a dividerlo tra tanti o, se lo farà, sarà a caro, carissimo prezzo.

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LACULTURADELBENESSERE

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

SIAMO DESTINATI AD ABBANDONARE LE DIETE Perché le persone abbandonano la dieta? Vorrei partire da questa domanda che più volte affligge noi nutrizionisti, in modo poi da poter fare alcune considerazioni. Parto da un articolo apparso qualche settimana fa sul Corriere della Sera, dal titolo: Stop all’uso del sale negli asili. L’allarme dei genitori: «I bambini non mangiano più». Senza entrare nei dettagli, l’articolo spiegava l’allarme dei genitori in virtù dell’iniziativa, presa da alcune mense scolastiche, di eliminare l’uso del sale (persino nell’acqua di cottura della pasta), iniziativa che ha portato i bambini a non mangiare nulla di quanto proposto ai pasti. Mi permetto di dire che l’episodio è semplicemente lo specchio di quanto normalmente accade in quello che è il rapporto tra nutrizionista e paziente. Troppe volte il nutrizionista opera cambiamenti drastici nella vita della persona, tanto da predisporre già in anticipo la persona stessa all’abbandono della dieta. Il più delle volte questo cambio drastico di abitudini alimentari, che viene proposta dal nutrizionista, è giustificato dal desiderio di proporre regimi estremante perfetti da un punto di vista tecnico, ma che poi si allontanano molto dal gusto e dalle abitudini di una persona. Quante volte sentiamo dire “ma se devo mangiare solo 50 grammi di pasta preferisco non mangiarla più” oppure “non mi chieda di mangiare senza sale” oppure “cosa vuole che ci faccia con un cucchiaino di olio per condire 3 etti di insalata!”… E’ proprio così: la dieta può anche essere tecnicamente perfetta ma, nella nostra quotidianità, non sappiamo cosa farcene di qualcosa di tecnicamente perfetto, noi vogliamo soprattutto qualcosa che ci faccia star bene senza fare troppa fatica. Partiamo dal presupposto che, nella definizione di un piano alimentare personalizzato, ci siano almeno 6 livelli di personalizzazione, che vi vado ad elencare, dal livello più basso a quello più alto: a) preferenze personali e gusti (livello elementare)

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b) punto a) + stile di vita, ritmi quotidiani e attività fisica (livello basso) c) punto b) + necessità nutrizionali, situazione clinica e principali esami del sangue (livello medio) d) punto c) + assetto genetico e applicazione di regole nutrigenetiche, nutrigenomiche e epigenetiche (livello alto) e) punto d) + assetto della flora intestinale batterica (livello top). Questi sono, al momento attuale del progresso scientifico, i livelli universalmente riconosciuti come validi per una sempre maggiore personalizzazione della dieta. Possiamo comunque affermare senza ombra di dubbio che, sebbene tutti noi aspiriamo ad una nutrizione personalizzata, questa aspirazione contrasta poi con la difficoltà di seguire regole che, diventando sempre più raffinate, diventano anche sempre più esclusive e difficili da seguire. Mi permetto di esporvi un grafico, che ci può aiutare a capire meglio il fenomeno: la frequenza con cui riusciamo a rispettare regole alimentari fortemente personalizzate è inversamente proporzionale al livello della personalizzazione stessa. Le barre marroni rappresentano la frequenza con cui la persona riesce a seguire delle regole alimentari. L’area arancione rappresenta il livello di personalizzazione della dieta e quindi anche la raffinatezza tecnica, che va di pari passo alla rigidità delle regole prescritte. La linea rossa segna il sottile confine con la trasgressione, in quanto più la barra marrone (adesione alla dieta) è piccola rispetto al limite della raffinatezza della dieta, più la persona tende a trasgredire (spazio della trasgressione). È quindi estremamente evidente che, se vogliamo ottenere un successo nella dieta, dobbiamo dare continuità alle regole alimentari, ma, per dare continuità, dobbiamo partire da un livello medio di personalizzazione di tipo tecnico e molto alto di personalizzazione comportamentale.


LACULTURADELBENESSERE

L’equivoco più grande per i nutrizionisti è stato sempre quello di partire il più possibile da una dieta tecnicamente perfetta e proporla alla persona. Parlo di equivoco perché è in questo momento che si pone la difficoltà da parte del soggetto di essere aderente alla prescrizione: infatti, più la dieta è tecnica, più la dieta è rigida, più sarà oggetto di discontinuità e trasgressioni. D’altronde questo non deve essere una sorpresa: non possiamo insegnare la Divina Commedia ad un bambino che ha appena cominciato a leggere e a scrivere. La persona che ha a che fare con il cibo è come un bambino che ha un livello culturalmente medio-basso per quanto riguarda la conoscenza alimentare e (sebbene magari lo desideri) non è disposto a fare immediatamente molta fatica per imparare a mangiare. Le persone vogliono normalmente star bene senza fare molta fatica ed è a questo livello che si deve inserire una novità alimentare. Il percorso che si deve fare è partire dal quotidiano della persona, perché sappiamo che quello che è già quotidiano può essere rispettato nel tempo. A quel livello di quotidianità dobbiamo poi apportare graduali modifiche che ci permettano di aumentare il livello di raffinatezza tecnica della dieta. Ecco perché in un sistema che

parte dalla quotidianità non si può pensare normalmente di pesare il cibo. I nostri ritmi sono ormai talmente cambiati rispetto a 30 anni fa che, soprattutto nella pausa pranzo, siamo costretti a ritagliarci pochi, intensi, rapidi momenti per mangiare qualcosa, normalmente fuori casa. Un primo livello (elementare) di approccio nutrizionale deve quindi poter permettere alla persona di continuare quantitativamente a mangiare ciascun alimento secondo le proprie abitudini, garantendo anche di continuare a consumare i cibi che piacciono, senza andare a stravolgere i gusti e i ritmi della giornata. Solo partendo da questo approccio è, col tempo, possibile permettere alla persona di effettuare un vero training di educazione alimentare in cui cresce la consapevolezza e la capacità di gestire gli alimenti modulando i gusti e non stravolgendoli. E torno all’articolo con cui ho cominciato: ci voleva tanto per capire che un progetto di educazione alimentare non può partire da regole ferree ed estremiste e va invece modulato con scelte oculate e condivise con tutti gli attori in gioco (sia bambini che genitori)? Se continuiamo così abbandoneremo sempre tutte le diete...E intanto i problemi legati all’alimentazione continuano a crescere.

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LA SCELTA VEGANA

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

VEGANISMO

OLTRE ALL’ALIMENTAZIONE C’E’ DI PIÙ, MA NON VOGLIONO FARVELO SAPERE L’origine del veganismo risale a ben oltre 2000 anni fa: questa scelta non è dunque una moda passeggera, ma ha profonde radici storico-culturali. Troviamo preziose testimonianze già nell’Antica Grecia con Pitagora, filosofo e matematico, che fu tra i primi a parlare dei principi di alimentazione senza derivati animali, influenzando i suoi discepoli come i filosofi Socrate e Platone. Il termine “Vegetariano” fu coniato nel 1842 dalla Vegetarian Society in Inghilterra e solo nel novembre del 1944 venne creato il termine “vegan” come contrazione di vegetarian. A farlo fu Donald Watson insieme a Elsie Shrigley i quali, avendo ricevuto il divieto dalla Vegetarian Society a formare un gruppo interno alla stessa congregazione costituito solo da coloro che avevano deciso di eliminare anche i derivati come latte e formaggi, fondarono la Vegan Society. In quel novembre del 1944 fu presentato lo statuto della neonata associazione, tuttora esistente, che definisce il veganismo come una filosofia e stile di vita non violento, che promuove l’eliminazione dello sfruttamento, crudeltà e quindi l’uccisione degli animali per ricavarne cibo, vestiario ed ogni altro prodotto. Il veganismo inteso nel suo senso più puro è una scelta etica, non ha nulla a che vedere con un’orientamento salutistico, tantomeno è una delle tante mode in campo alimentare che periodicamente i media ci propongono. Il Vegano esclude, nel limite del possibile e praticabile, tutte le forme di violenza e sfruttamento verso gli animali promuovendo quindi l’utilizzo di alternative vegetali per il bene degli animali, ma anche dell’uomo e dell’ambiente. Grazie all’impegno divulgativo di tanti Vegani, oggi come oggi, la maggior parte della popolazione sa che il vegano rinuncia di buon grado, aggiungo - a tutto ciò che è di origine animale. Molti ne comprendono la scelta etica, molti pensano sia solo un nuovo modo per dimagrire, altri addirittura pensano sia una

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scelta estrema, inconcepibile perchè contro le origini e le tradizioni gastronomiche. Estremismo ed integralismo vengono spesso erroneamente associati al veganismo, ma crediamo davvero che sia corretto legare queste definizioni a chi fa una scelta etica? Una scelta etica è dettata dalla consapevolezza che gli animali soffrono tanto quanto noi esseri umani e che spesso lo sfruttamento animale ha ripercussioni non solo su di loro, ma ha un impatto ambientale devastante, considerando che l’80% dei gas serra emessi dal sistema alimentare di oggi è associato all’allevamento di bestiame attraverso l’utilizzo smodato di pesticidi, fertilizzanti, carburanti, grandi appezzamenti di terreno e milioni di tonnellate d’acqua. Questi sono dati di fatto e ne abbiamo testimonianze ogni giorno. Il veganismo non è quindi integralismo, bensì integrità etica. Non vogliatemene, non sono affatto intenzionata a fare la morale a nessuno, mai l’ho fatto e mai lo farò, tantomeno voglio insegnare nulla di quanto non sia già ovvio e sotto gli occhi di tutti. Ho imparato che bisogna sempre ascoltare. Ed io ascolto, leggo e mi informo. Parlo molto più spesso con persone che vegane non sono, da cui spesso ottengo delle conferme oggettive. Tempo fa conobbi una persona molto importante nel mondo degli allevamenti (di cui per ovvie ragioni non citerò il nome e la tipologia della sua azienda) ebbene, questa persona durante una cena vegana organizzata da me, ammise con estrema sincerità e senza tanti giri di parole che tra vent’anni ed anche meno, la Terra non sarà più in grado di reggere i ritmi degli allevamenti intensivi causandone il collasso. A questo punto gli proposi di iniziare a pensare ad una sorta di conversione della sua azienda in un’altra tipologia che fosse cruelty free, senza sfruttamento animale e che mirasse alla salvaguardia del futuro, compreso quello dei suoi figli.


LASCELTAVEGANA

La sua risposta fu che sarebbe stato disponibile a farlo, solo dal momento in cui la domanda di mercato fosse diventata discretamente alta e gli avesse permesso i guadagni attuali. La sua è stata un’ammissione obiettiva della realtà che difficilmente sentirò pronunciare ancora da chi lavora nel suo stesso settore. Con ciò voglio solo dire che le informazioni ci sono, ma spesso vengono deviate e sono incomplete. Le tradizioni e la nostra cultura gastronomica non sono certo basate su allevamenti intensivi e consumo smodato di carne. I nostri nonni consumavano carne forse una volta a settimana in porzioni ridotte rispetto a quelle attuali; quel poco veniva messo a disposizione e condiviso tra tutti i commensali; la tradizione culinaria italiana è basata su alimenti semplici e vegetali e non è determinata esclusivamente da motivazioni di carattere economico. In fondo basterebbe un po’ più di onestà intellettuale e di trasparenza ed ammettere l’evidenza dei fatti che probabilmente è solo molto scomoda e che nei dibattiti televisivi non fa audience tanto quanto le scenette montate ad arte per ridicolizzare la scelta vegana facendola apparire come una filosofia di vita da “hippie” senza capo, né coda. L’integralismo e l’estremismo non stanno al veganismo, piuttosto stanno in codeste manifestazioni mediatiche che, anziché operare per il bene comune affrontando l’argomento in maniera costruttiva, promuovono la loro ideologia denigrando il resto, inducendo buona parte del pubblico ad avere una visione della realtà distorta attraverso operazioni di disinformazione. Essere costruttivi vuol dire scoprire tutte le carte sul tavolo, pesare i pro ed i contro di ogni posizione e valutarne conseguenze e soluzioni a beneficio di tutti. Divulgare il veganismo non ha come scopo fare proselitismi ed opere di convincimento: la scelta etica vegana è una scelta consapevole determinata dalla sensibilità e dalla compassione di ognuno di noi. Se c’è disinformazione, c’è diseducazione. Se circolano informazioni inesatte e fuorvianti, pochi mostreranno empatia e sensibilità all’argomento. La mia speranza è che presto si affrontino questi temi responsabilmente attraverso tutti i canali di informazione che abbiamo a disposizione. Nel frattempo continuerò il mio lavoro di divulgazione per una corretta e libera informazione e che sia a disposizione di ognuno, sfruttando tutte le opportunità che mi si presenteranno. Un sincero grazie lo devo a La Màdia Travelfood che mi ospita e concede generosamente questo spazio, credendo in me e nella mia attività senza preconcetti e chiusure. Salutiamo il mese di maggio con questo cous cous con salsa al mandarino, aria di mandorle e mandorle tostate, un’esplosione di colori e profumi tipici della Sicilia. Ricetta donata da Maurizio Urso chef del ristorante “La terrazza sul mare” situato in Viale Mazzini, 12 sull’isolotto di Ortigia direttamente collegato con la città di Siracusa.

COUS COUS

con salsa al mandarino, aria di mandorle e mandorle tostate INGREDIENTI per 10 persone

g. 200 di rape rosse, g. 200 di carote, g. 200 di carote rosse, g. 200 di cime

di cavolfiore, g. 200 di cimone romano, g. 200 di patate siracusane, g. 200

di zucchine, g. 200 di sedano, g. 200 di peperone, g. 200 di mandorle di

Avola, g. 400 di succo di mandarino, g. 200 di olio extravergine di oliva tonda iblea, g. 15 di polvere di mandarino, sale e pepe q.b. PROCEDIMENTO

Per il cous cous: lavare bene gli ortaggi, affettarli sottilmente, meglio se con una mandolina, e ridurre in finissima mirepoix. Escludere il cavolfiore ed il cimone di cui, con uno spelucchino curvo, andremo a tagliare i fiori con molta cura (la parte finale del cavolfiore); tritare col coltello.

Scottare tutti gli ortaggi per un minuto in acqua bollente con un pizzico di sale (si possono poi mettere insieme o lasciarli ognuno per conto proprio

e giocare nell’assiette con i colori), quindi unire il dressing di mandarino e la polvere di mandarino (che si ottiene essiccando la scorza del mandarino da frullare e da passare a chinoise), sale, pepe, olio extravergine di oliva. Lasciare riposare per 30 minuti.

Per l’aria di mandorle: frullare 100 grammi di mandorle in 200 grammi di acqua, lasciare riposare e poi passare il tutto alla stamina strizzandola. Ripetere l’operazione più volte, quindi portare il liquido a 50/60C° unendo 10 grammi di lecitina di soia e frustare velocemente facendo in modo di far

emergere una schiuma (aria di mandorla). Con un cucchiaio raccoglierla e porla sul cous cous.

Per il dressing al mandarino: con un minipimer emulsionare il succo di

mandarino con l’olio extravergine di oliva ed eventualmente aggiungere una lamella di aglio, sale e pepe.

Assiette del piatto: porre un coppapasta sulla base di un piatto e riempirlo con cime di cavolfiore o altro ortaggio; mettere insieme il resto degli

ortaggi e, con un cucchiaio, porli sul piatto. Aggiungervi il cous cous, la mandorla tostata e tritata e qualche mandorla intera. Finire nappando ancora con del dressing di mandarino, un po’ di polvere di mandarino e, a piacere, fiori, erbette e un ciliegino confit.

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Gala teo ASSAGGI DI

a cura di

Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico

MEGLIO NON DIRE…

TECNICHE DI COMUNICAZIONE DALLA PRENOTAZIONE ALL’ACCOGLIENZA Ciò che rende di buon livello un servizio ristorativo, oltre all’offerta gastronomica e all’ambiente, è senza dubbio il fattore umano, troppe volte sottovalutato. La qualità del rapporto che lo staff riesce a stabilire con gli ospiti è fondamentale. Proprio per questo, in alcuni alberghi e ristoranti di categoria si stabiliscono i core standard, ossia delle linee guida per garantire un certo livello di servizio che il cliente deve ricevere dagli operatori. Alle tecniche di comunicazione va riservata un’attenzione particolare, in quanto anche una semplice parola, detta in modo differente, può avvicinare o allontanare il cliente dalla condizione di sentirsi a proprio agio nella nostra struttura. Si comunica sempre qualcosa, anche senza la parola, con un gesto o un semplice silenzio.In generale, nella comunicazione verbale è fondamentale mantenere un tono di voce pacato e rassicurante che non disturbi i clienti. Il messaggio che vogliamo comunicare deve essere chiaro, corretto, conciso, ma allo stesso tempo completo. Quando si affronta un problema è fondamentale non trasmettere un senso di incertezza con frasi come: “Non so cosa dirle” oppure iniziare con “Forse…”. È bene non utilizzare termini negativi rispondendo a delle richieste come: “Non è possibile farvi accomodare qui”. Suona invece in modo più rassicurante rispondere: “Questo tavolo è prenotato, ma vi cerco subito un altro tavolo che possa essere di vostro gradimento”. A livello di tempi verbali escludiamo l’uso del condizionale: “Potrei vedere se c’è disponibilità”. Utilizziamo invece il presente

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o il futuro: “Le prenoto subito un tavolo”. È corretto inoltre parlare al plurale quando si sta rappresentando l’azienda: un servizio di ristorazione coinvolge più reparti e più professionalità, è dunque importante coinvolgere tutti allo stesso modo. Uno dei momenti più importanti atti a trasmettere una prima sensazione della professionalità aziendale, prima ancora di varcare le porte del ristorante, è la prenotazione fatta, nella maggior parte dei casi, per via telefonica. In linea generale è buona norma rispondere entro tre squilli del telefono: se facciamo aspettare ulteriormente il cliente, è importante porgere subito le nostre scuse per l’attesa. È necessario rispondere educatamente salutando formalmente la persona dall’altra parte del telefono in base al momento della giornata e comunicare, di seguito, il nome del reparto/azienda ed il proprio nome. Per personalizzare fin da subito il rapporto con l’ospite è necessaria la memorizzazione del nome di chi sta prenotando, quindi nel confermare la disponibilità del tavolo è bene ripetere il nome. Questo metterà il cliente a proprio agio e lo predisporrà positivamente. Se il ristorante è dotato di più sale o zone, sarà necessario chiedere in quale parte della struttura la persona preferisce mangiare. Nel congedarsi è importante ricapitolare velocemente la prenotazione e porgere i propri saluti. Le procedure di accoglienza variano in base alla tipologia e alla classificazione dell’azienda. In generale, è sempre buona regola accogliere gli ospiti con un sorriso, utilizzare un linguaggio formale ma non distaccato, dando del Lei e usando formule di cortesia. È importante non fare attendere la clientela nella


ASSAGGIDIGALATEO

zona d’ingresso, ma stabilire subito un contatto visivo, ma mai invadente. Quando la persona che ha prenotato si presenta nel ristorante, è importante identificare chi sia e qual è il tavolo ad essa riservato. Nel caso in cui i clienti siano arrivati in anticipo ed il tavolo non sia pronto, è bene scusarsi e non usare mai frasi come: “Deve aspettare cinque minuti”, ma usare sempre toni cortesi come: “La prego di attendere qualche minuto…” ed in questo caso chiedere se gli ospiti gradiscono un aperitivo al bar. Una volta fatti accomodare gli ospiti, porgere il menu da destra con la mano destra e la carta dei vini. Prendere subito l’ordine dell’acqua minerale enunciandone le varie marche o porgendo il menu delle acque, se presente. Nel caso si tratti di un cliente abituale, un ottimo strumento di marketing è chiamarlo per nome in maniera naturale, per farlo sentire ben accolto, a proprio agio e gratificato. Qualora il cliente abituale abbia prenotato, è necessario controllare ancora una volta che il tavolo assegnato sia il solito, a meno che l’ospite non abbia espresso diversa preferenza. «Buonasera, signori Bianchi, è un piacere rivedervi. Vi abbiamo riservato il vostro tavolo preferito nella nostra terrazza. Prego, i signori mi seguano». Se il cliente è di passaggio, è fondamentale riuscire a interagire subito con lui, illustrando il meglio dell’offerta ristorativa. Nel caso l’ospite richieda un tavolo che non è subito disponibile, occorre informarlo sui tempi d’attesa. Nella ristorazione d’albergo è bene accogliere il cliente per nome, per farlo sentire atteso in sala, in un ambiente amichevole, sereno e piacevole. In questo caso ci si può informare anche di come sia andata la giornata o una particolare attività che i clienti hanno compiuto: «Buonasera,

signori Rossi. Spero che la vostra escursione in barca sia stata piacevole. Se volete, potete accomodarvi al vostro solito tavolo; vi accompagno». È importante che vi sia sempre coerenza tra comunicazione verbale e non verbale. Dalla mimica del corpo, alla gestualità e alla postura, le espressioni corporali sono in grado di riflettere lo stato d’animo di un individuo e ci aiutano a capirne le intuizioni, le aspettative e i gusti. Nel viso, la bocca e gli occhi rivelano il pensiero e le emozioni dell’interlocutore, ad esempio il cliente potrebbe accennare ad un sorriso, mentre gli occhi non corrispondono la stessa sensazione di serenità. La gestualità rafforza un concetto, manifesta un’emozione e attira l’attenzione dell’interlocutore. In questi casi è importante evitare i gesti di autocontatto come coprirsi la bocca, toccarsi i capelli, il mento ecc., quando siamo in difficoltà con un cliente, perché comunicano ansia e nervosismo. Anche movimenti del corpo che comunicano chiusura verso il cliente, per esempio incrociare le braccia o le gambe, sono da evitare. Nella comunicazione efficace è fondamentale l’empatia, ossia la capacità di immedesimarsi nello stato d’animo del cliente. Bisogna altresì comprendere il proprio stato d’animo per riconoscere le proprie emozioni, saperle accettare e assumere di conseguenza il comportamento più corretto in base alla situazione che si presenta. La comunicazione con la clientela è spesso complessa in quanto rappresenta di fatto un primo incontro con delle persone estranee, per questo è fondamentale manifestare una predisposizione all’ascolto, ossia essere disponibili e interessati ai contenuti espressi dal nostro ospite per fargli percepire l’attenzione e l’importanza che il ristorante ripone nei suoi confronti.

IL PASSO SICURO DELLA CANTINA SCUROPASSO ROCCAPIETRA

ENO

Fabio Marazzi è uno di quei produttori che è difficile non stimare. Serietà ed umiltà sono il suo biglietto da visita, mentre i suoi vini sono sì seri, ma tutt’altro che umili… Il suo Roccapietra Zero, da uve Pinot Nero 100%, è un metodo classico non dosato che resta sui lieviti oltre 5 anni. Paglierino tendente al dorato con pérlage fine e persistente; note di lieviti fresche e speziate; bocca pulita di bell’equilibrio tra acidità, frutto e spezie. Ecco un produttore d’Oltrepò dalle idee davvero chiare: esprimere il grande carattere del Pinot Nero di queste terre attraverso avvincenti spumanti metodo classico. Chapeau monsieur Marazzi.

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PROGETTARE L’IMPRESA

a cura di

Lorenzo Ferrari Amministratore di Menuengine Autore di Brucia il tuo Menù

LE DIECI SPINE NEL FIANCO DI OGNI PIZZAIOLO PRIMA RAGIONE Se chi legge ha queste dieci pizze sul proprio menu, farebbe bene a pensarci due volte prima di lasciarle là dove sono. 1) Margherita 2) Marinara 3) Diavola 4) Funghi 5) Verdure 6) Wurstel 7) Salsiccia 8) Prosciutto cotto 9) Prosciutto e funghi 10) Calzone Sono dieci pizze. Anzi, LE dieci pizze. Le più inflazionate, le più scontate, le più banali. Ma, quando le vede chi scrive (e le vede sempre), tocca ferro. E chi scrive crede che così dovrebbero fare tutti coloro che le hanno sul proprio menù. Perché queste non sono dieci pizze. Sono dieci dolorosissime spine nel fianco di ogni pizzaiolo d’Italia. Ci sono tre buon ragioni per classificarle come tali.

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Le hanno tutti. Ogni pizzeria di ogni angolo di ogni città italiana ha sul menu queste dieci pizze. Per convincersene è sufficiente entrare in una qualunque pizzeria e visionare il menu della stessa. Direi che sia indicativo della diffusione del fenomeno. E questo rappresenta una doppia problematica. Perché se si vende ciò che vendono gli altri concorrenti, non ci si differenzia. E, in particolar modo, si facilitano i paragoni: sul gusto, sulla dimensione, sulla farcitura, sulla cottura, sul prezzo, sul prezzo, sul prezzo e ancora sul prezzo. E trovarsi a dover competere sul prezzo e non sulla qualità della propria proposta è un danno per chiunque: sia per chi la pizza la acquista e sia per chi la propone.

SECONDA RAGIONE Sono pizze economiche. Sono tutte e dieci pizze base, quindi poco farcite, quindi non danno la possibilità di costruirvi attorno valore, quindi non è possibile alzarne i prezzi e quindi si traducono sempre in un problema di marginalità per chi le propone. Perché possiamo inventarci le più sopraffine strategie di marketing, di storytelling e di comunicazione, ma una pizza con il solo prosciutto cotto proposta a 10 euro non è, semplicemente, credibile.


PROGETTAREL’IMPRESA

O comunque diventerebbe facilmente contestabile. E chi lavora nella ristorazione può trovare modi più profittevoli per investire il proprio tempo rispetto al rispondere alle obiezioni della clientela.

TERZA RAGIONE Creano un ancoraggio di prezzo verso il basso. Come anticipato nella prima ragione, queste pizze sono onnipresenti. Oltre al dono dell’ubiquità, hanno un altro grande problema: sono spesso le prime a comparire sul menu. E questo rappresenta un problema. Infatti, appena il cliente apre il menu, è volenteroso di leggerlo. È attento e impaziente di farsi stupire dalle proposte del pizzaiolo. Non vede l’ora di scoprire cos’ha in serbo per lui! Questo è il momento più propizio per stupirlo, per mostrargli il MEGLIO del proprio locale! Non per mostrargli ciò che potrebbe vedere in qualsiasi altra pizzeria d’Italia! Eppure succede sempre così. Come se non bastasse, il vedere per prime queste dieci pizze, fa sì che il cliente entri in contatto con i prezzi più bassi che il proprio menù ha da offrire. Risultato: TUTTO il resto del menù risulterà COSTOSO! Il prezzo basso genererà un ancoraggio mentale al cliente, che userà per fare paragoni con i prezzi delle pizze che vedrà successivamente. La soluzione? Si inizia togliendo dal menu, o nascondendo nelle ultime posizioni, le “dieci spine”. Questo, nonostante preoccupi la totalità dei titolari che si appresta a fare la suddetta modifica, non comporterà alcun problema rilevante. Certo, alcuni clienti continueranno a chiederle. Questo è garantito. E si continuerà a soddisfare le loro richieste! Chi vuole quelle pizze, sa che la propria richiesta sarà esaudita, e semplicemente... le richiederà. Ma non ha bisogno di leggerle dal menu. E il prezzo - perché in tanti vorranno conoscerlo - lo potranno leggere da un listino prezzi creato ad hoc, ed esposto in bella vista all’interno del locale. In questo modo, si darà maggiore risalto alle proposte del pizzaiolo, alle pizze più elaborate e più creative e, in generale, a tutto ciò che può emozionare e stupire positivamente il proprio cliente. E se queste proposte coincidessero con quelle più profittevoli, più richieste e di più semplice gestione… si sarebbe fatto il bene di tutti: della clientela, e della proprietà. Che è lo scopo ultimo del Menu Engineering, del Metodo MENUENGINE e… di questa rubrica!



AREA

di

Marco Scaglione

www.marcoscaglione.it

Sformatino di cavolfiore con gamberone e melanzane

INGREDIENTI per 4 persone

so. Prendere 4 gamberoni e ripulirli dalla testa e dalle carapace,

lattosio, g. 40 di latte di riso consentito, 8 gamberoni, 1/2 melan-

noporzione con dell’olio, versare il composto di cavolfiore negli

g. 300 g di cavolfiore, 1/2 porro, 1 uovo, g. 60 di formaggio senza

zana nera, farina di riso finissima consentita, sale fino, pepe nero macinato, olio extravergine d’oliva, 4 ciuffi belli di basilico fresco. PREPARAZIONE

Sciacquare bene il cavolo, mettere sul fuoco una pentola con dell’acqua e portare ad ebollizione, far cuocere il cavolo per circa 30 minuti aggiustando di sale.

Trascorso il tempo di cottura, scolare il cavolo e lasciarsi da parte

un paio di mestoli d’acqua di cottura; riporlo un attimo da parte in una terrina. Affettare a rondelle molto sottili il porro lavato in precedenza, versare in padella con due cucchiai abbondanti d’olio e far rosolare a fiamma dolce.

Aggiungere il cavolo al fondo del porro e farlo cuocere bene insieme al porro, se necessario aggiungere un mesto d’acqua di cottura, portare ad asciugare il liquido e togliere dal fuoco; versa-

re il tutto in una terrina frullare bene con il mixer ad immersione,

unire il latte di riso, il parmigiano, una presa di sale, il pepe e continuare a frullare fino a quando il tutto risulterà liscio e cremo-

eliminare il budello e sciacquare bene, ungere degli stampi mo-

stampi e mettere al centro un gamberone, preriscaldare il forno a 180°C e mettere a cuocere il tutto per circa 40 minuti.

Nel frattempo affettare le melanzane allo spessore di 2 millimetri

creando dei dischi, ritagliare nuovamente creando delle listarelle molto sottili, infarinare bene nella farina di riso, setacciare le li-

starelle di melanzana e mettere a riscaldare l’olio in una padella. Quando l’olio risulterà ben caldo mettere a cuocere le listarelle

di melanzane per circa 1-2 minuti avendo cura di mescolare di

tanto in tanto, scolare in un panno di carta assorbente, condire con del sale. Pulire i gamberoni rimasti, togliere la testa e metterla

da parte, eliminare una buona parte delle carapace lasciando la coda, incidere il gamberone aprendolo a libro, eliminare il budel-

lo; in una padella a parte scaldare un cucchiaio d’olio e scottare a fiamma vivace i gamberoni, per circa 2 minuti, aggiustare di sale. A questo punto gli sforma tini sono pronti, togliere dal forno e la-

sciarli riposare per qualche minuto, estrarre dal pirottino e mettere al centro del piatto, aggiungere lateralmente i gamberoni con tutta la testa, un ciuffo di melanzana fritta e il basilico.

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GOLAVAGANDO

APRE IL

THUN CAFFÈ A MILANO IN CORSO GARIBALDI Scegliere un regalo, bevendo un buon caffè! Apre a Milano in Corso Garibaldi 86 il nuovo THUN Caffè, un angolo di Alto Adige dove vivere in relax e spensieratezza i momenti più lieti della giornata, immersi nel mondo fiabesco di THUN. Un format completamente nuovo che unisce l’esperienza dello shopping a quella del concedersi una pausa in un ambiente totalmente unico. Una contaminazione importante, quella con il food, che crea nuovi equilibri con la marca e inedite occasioni di consumo, ma soprattutto definisce uno nuovo spazio, dove il cliente diventa protagonista e al totale centro dell’attenzione. Aperto tutti i giorni dalle 7,30 alle 21,30, il nuovo THUN Caffè spazia dalla caffetteria, alla ristorazione veloce e di classe, alla vendita, tramite un reparto di 22 mq, dove l’esposizione propone oltre 200 articoli THUN per altrettante idee regalo. Per concedersi una dolce pausa caffè, una gustosa merenda o un apericena fuori dal comune, ecco un ambiente rilassato che permette a chi vi entra di vivere una nuova esperienza-emozione a stretto contatto con l’universo THUN.

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GOLAVAGANDO

THUN CAFFÈ

Corso Garibaldi, 86 - Milano Studio design e progettazione:

Costa Group - Arch. Flaviana Raimondi

Design accurato, caratterizzato dai connotati propri del marchio, e quindi altamente e volutamente riconoscibile, in un continuo rimando al mondo THUN e ai suoi valori. Così il Caffè si presenta al pubblico con un aspetto sì tradizionale - con parquet, legno, pietra, molto naturale e semplice, lineare e tipicamente di sapore altoatesino - ma nel contempo fortemente innovativo, con un concept nuovo, appositamente studiato per il comparto food e le sue specificità, che permette di ospitare le collezioni regalo in maniera molto accogliente. Un angolo di Alto Adige e di tradizione trasportato nella metropoli milanese, come un’oasi dove rilassarsi e sentirsi a proprio agio. Coccolare i clienti dal mattino alla sera, quindi, dalla colazione, con il pranzo, continuando poi con la merenda, per finire con l’apericena, creando “piccole THUN experience” nell’arco di tutta la giornata. Il food proposto è, naturalmente e per scelta, tipicamente altoatesino, proprio della tradizione, in linea con il brand e con sempre in mente l’idea di viziare il più possibile la clientela al mondo THUN, ma non solo… di appassionare i milanesi, attraverso la proposta di innumerevoli idee regalo, prendendoli … con dolcezza letteralmente “per la gola”! Nel corso del 2017 è in programma l’apertura di altri tre THUN Caffè, dislocati in tre aree completamente diverse, al fine di testare il nuovo format, la sua ricezione da parte del pubblico, l’interazione e il coinvolgimento della clientela. Il piano di sviluppo comprenderà sicuramente anche altre zone dell’Italia e continuerà poi all’estero.

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A CAIANELLO

IL CONTADINO OFFRE UNA TAVOLA DI SAPORI VERI CHE ACCENDONO I RICORDI di

Via Starze, 159 - Caianello (CE) Tel. 0823 922043

Cell. 339 5928649

http://berardinolombardo.it

Teresa Cremona

Il consiglio ai viaggiatori che percorrono l’autostrada A1 a Sud di Roma, è di programmare una sosta all’altezza del casello di Caianello. L’Agriturismo il Contadino, che si raggiunge con facilità in pochi minuti e che è anche ben segnalato, merita tempo e ricompesenrà con un’ottima tavola ed il calore di un’accoglienza di casa. Il casale, in aperta campagna, fra campi coltivati e alberi di nocciole, è d’epoca ma privo di particolarità architettoniche significative; è costruito in tufo e si allunga all’esterno con tavoli e panche sotto a un pergolato, fiorito di glicine in primavera. Accoglienti le sale interne con archi in mattoni, muri di sasso e finiture in legno di castagno, per quando il tempo si fa più freddo o fuori fa troppo caldo per stare all’aperto. C’è anche una piccola ‘dispensa’ dove comprare pomodori in conserva, marmellate, vini della casa e del territorio. C’è poi una veranda-corte - diaframma fra le sale interne e il pergolato - ed è il luogo dove cucina Bernardino Lombardo. Su una lunga tavola sono imbandite, in modo scenografico, le verdure dell’orto; i fornelli sono imponenti e sulla parete di fondo uno spiedo e una griglia contribuiscono al design dello spazio. Un altro tocco di inimitabile design è lui, Berardino Chef-Contadino, che sembra disegnato per essere il protagonista buono di un cartoon. In cucina ci sono le cuoche, signore del luogo per i piatti del menu, ma qui Berardino prepara il piatto del giorno, con quello che l’orto e la stagione gli propongono: zuppa con fave, piselli e salsiccia, o pasta con i cauliciuri, o zuppa con i legumi.

© Salvatore Di Vilio

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AGRITURISMO IL CONTADINO

Le carni sono quelle dell’azienda, i prodotti sono quelli della sua terra, gli ortaggi di stagione sempre freschi e di giornata, e sempre la sua tavola è una sorpresa: la frittata con gli asparagi selvatici, un morbido, succulento maialino come mai l’avete mangiato, la stringata di maiale nero casertano, la pasta con passata di pomodoro che profuma di sole, un pancotto con i fagioli cannellini, indimenticabile, la parmigiana, l’uovo a susciello, le melanzane poverelle, la pasta con cuturiello. I piatti sono tanti, i sapori… i sapori accendono i ricordi, sono veri e mai dimenticati e tutto è incredibilmente leggero, saporoso, digeribile. Da sempre, da quando ha iniziato a occuparsi di cucina (erano gli anni ’90, prima alla Caveja di Pietravajrano, poi


GOLAVAGANDO

Apertura: lunedì-sabato (pranzo e cena), domenica (pranzo)

Prezzo medio menu degustazione:

Euro 30,00 (vino della casa compreso)

a Terre di Conca, e da qualche anno al Contadino), Berardino Lombardo ha con competenza ed in tempi in cui non faceva moda, recuperato varietà locali di frutta e di ortaggi che stavano scomparendo, ha valorizzato e riproposto ricette di una cucina povera, ha privilegiato l’impiego di animali da cortile allevati in modo sano. Oggi i suoi capelli sono bianchi, il fisico imponente, il sorriso candido, e lui, sempre di poche parole e di grandi affettuosi sorrisi, sta davanti ai fornelli, rilassato e tranquillo: un protagonista della gastronomia della Campania. Il Contadino è un vero Agriturismo, qui il cibo è piacere ma è anche cultura, tradizione, sapienza. Questo è un indirizzo che merita una sosta, e che merita più visite.

PIZZA GOURMET AL

GABBIANO DI PARMA di

Maria Chiara Zucchi

Pizza anche a mezzogiorno, tra le migliori che si possano degustare. E non è poco trattandosi perdippiù di un locale “comodo”, appena fuori dal casello Parma Sud dell’Autostrada. Enzo De Santis, storico patron del ristorante “Il Gabbiano”, non esita a proporre la pizza quando i clienti non hanno voglia di ordinare i piatti del giorno, equamente divisi tra quelli di carne e di pesce. E il suggerimento vale la prova perché la pizza, tirata a mano con tanto di volteggio, è sottile e fragrante, da farcire come si preferisce ma soprattutto con il prosciutto che Enzo fa stagionare in propri locali e che magari serve su un piatto a parte, così che il commensale possa assaggiarlo da solo, oppure adagiarlo sull’ampio disco che l’ottima lievitazione rende leggero e digeribile.

RISTORANTE IL GABBIANO

Via Morigi Nicola, 108 - Parma - Tel. 0521 7981138

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A MILANO

MOSCARA TERRA D’OTRANTO PORTA I SAPORI DEL MARE DI PUGLIA

Il ristorante Moscara Terra D’Otranto rappresenta il ponte gastronomico ideale tra Milano e la Puglia. Il proprietario Antonio Moscara vuole celebrare la tradizione enogastronomica della sua amata Puglia esaltando i colori, i sapori e i profumi di una cucina mediterranea naturale, sana e genuina, che si distingue per gli accostamenti originali di sapori decisi, apparentemente in contrasto tra di loro, grazie ai quali nascono le migliori specialità. “Pasta fatta in casa, pesce dei nostri mari, verdure dolci, amare e piccanti….” Antiche tradizioni e memorie culinarie tramandate di generazione in generazione e arrivate fino a noi in tutta la loro semplicità e genuinità. All’ingresso del ristorante l’occhio cade sul coloratissimo banco-pescheria che offre una grande varietà di pesce fresco, proveniente direttamente dal mare di Gallipoli, che insieme alle verdure tipiche salentine e ai legumi danno vita ai gustosi piatti della tradizione del sud.

Un menù variegato darà la sensazione di trovarsi in un angolo di Puglia: già a partire dagli antipasti si possono assaporare alcune specialità come le “pittule”, crocchette tradizionali del Salento da gustare con vin cotto, il polpo e i ceci in pignatta serviti con la frisella, le puntarelle croccanti con capperi e stracciatella d’Andria, il pesce crudo del mare salentino, dai gamberi agli scampi ai ricci di mare, sapientemente conditi con sale al sedano e pepe rosa. Inoltre la pasta fresca la “scurtighiatta” fatta con purè di fave, cicoria e pancotto, le orecchiette con cime di rape, cicoria e pecorino, la zuppa di fave e cicoria selvatica salentina o la “ciricì e tria” ovvero la pasta e ceci salentina. Molto ampia anche la scelta di verdure, tra cui quelle selvatiche, tipiche dei campi del sud, che regalano un gusto rustico e delicato allo stesso tempo: i mugnoli, le foglie di senape, le foglie di papavero e ancora cicorielle, cime di rapa e broccoli. Le svariate proposte gastronomiche includono una varietà di pizze sane e genuine, realizzate anche con farina integrale e con l’aggiunta di verdure selvatiche: come la “Terra d’Otranto” (pomodoro giallo, mozzarella, cozze, mugnoli di campo e peperoncino), la Puccia Farcita (pomodoro giallo, ricotta di bufala, papavero selvatico, mugnoli di campo, olive leccine e peperoncino) o la Spirito Contadino (pomodoro giallo, senape selvatica, mugnoli, papavero, olive e peperoncino).

MOSCARA TERRA D’OTRANTO

Via Spartaco, 37 (angolo Via Cadore) - 20135 Milano Tel. 02 5501 0609

www.moscaraterradotranto.com - info@moscaraterradotranto.com

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GOLAVAGANDO

IN ROMAGNA

CHIOSCO DI BACCO È UN PICCOLO SOGNO DI BENESSERE ACCESSIBILE. E IL TEMPIO DELLA GRANDE CARNE. di

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Giovanni Mastropasqua – foto di Marco Temperino

Il giardino è il primo dei tanti “abbracci simbolici” che Chiosco di Bacco regala a tutti coloro che giungono a Poggio Torriana. Roberto e Daniela, il loro rigoglioso perimetro di verde intorno al ristorante, lo curano con maniacale attenzione quasi fosse luogo spirituale oltre la materia: il tappeto d’erba, le siepi tonde e gonfie, i cocci che esplodono in fiore... tutto è così intimo e fortemente evocativo da assomigliare ad un sogno. E’ questa la Romagna che regala emozioni: silenziosa, nascosta, bella ma sconosciuta ai più, che restituisce suggestioni e ispirazioni e che conserva intatta la cultura dell’accoglienza. Per arrivare a Chiosco di Bacco bisogna lasciare i facili indirizzi “butta dentro” della città di Rimini per perdersi nelle strade provinciali come la Santarcangiolese. Una provincia remota, dai ritmi più lenti, che spesso partorisce piccole grandi imprese a torto ritenute “impossibili” se distanti dai centri urbani. Tutto ciò che circonda il


Chiosco di Bacco, però, non è privo di contenuto: il Castello di Montebello, il Santuario della Madonna di Saiano così come tutta la Valmarecchia, sono luoghi imperdibili per chi ma l’arte e la natura, e che rendono completo il viaggio verso questo ristorante.

SE È VERO CHE SI MANGIA CON GLI OCCHI... Il gusto si è rivelato essere un senso complesso: impossibile mangiare senza farsi condizionare dall’ambiente circostante. Un ottimo pasto diventa un pasto eccellente se intorno a te c’è armonia e buon gusto. Quella di Chiosco di Bacco è un’eleganza orgogliosamente ostentata ma mai opulenta: le credenze e i tavoli d’antiquariato abilmente recuperati, le tende leggere a svelare l’esterno per non restare mai chiusi dentro, i libri, il parquet e i ciottoli bianchi, questi ultimi a fare da perimetro lungo tutta la sala; tutto, pezzo dopo pezzo, serve a

comporre il puzzle della vita dei nostri due anfitrioni. All’estetica dell’ambiente si deve aggiungere l’estetica del cibo. Chiosco di Bacco è uno dei templi della carne e nulla più della carne è in grado di stimolare il nostro innato “voyeurismo da cibo”. Piatti da gustare prima con gli occhi, poi con il palato, piatti per carnivori D.O.C. consapevoli che ciò che fa male è il bisteccone siringato proveniente dagli allevamenti intensivi e non le carni di altissima qualità acquistate da Roberto, certificate dall’Università di Bologna e cotte a regola d’arte.

IL MANZO E L’ACCIUGA incontrano lo spaghetto “Mancini” INGREDIENTI per 4 persone

g. 280 di spaghetti Mancini, 8 acciughe del Cantabrico, g. 200 di carne scelta di Marchigiana, colatura di acciuga q.b. PROCEDIMENTO

Cuocere gli spaghetti in acqua salata. Nel frattempo sciogliere le acciughe in padella aggiungendo una noce di burro. Battere a coltello la carne e condirla con olio, sale pepe e poco limone.

Quando gli spaghetti saranno pronti, posarli in padella e saltarli con il condimento d’acciuga.

Sistemare nel piatto lo spaghetto, aggiungere la battuta e servire ben caldo. È consigliabile a tavola mescolare il tutto.

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FILETTO DI MAIALE a bassa temperatura, crema di patata dolce e riduzione al Chianti INGREDIENTI per 4 persone

g. 600 di filetto di maiale, 1 patata dolce, latte q.b., sale Maldon, pepe q.b., 1 bicchiere di vino, buccia d’arancia, stecca di cannella, zucchero. PROCEDIMENTO

Dividere i filetti in porzioni di 150 grammi, legarli con lo spago, condirli con

olio, sale Maldon ed erbe aromatiche; mettere in sacchetti sottovuoto da cottura. Cuocere a 65°C per 90 minuti nel Roner. Nel frattempo preriscaldare il forno a 180°C, lavare le patate e tagliarle a metà, metterle in una placca da forno con un pizzico di sale e olio e infornare; cuocere finché non si ammorbi-

discono all’interno. Una volta cotte, togliere la buccia e schiacciare le patate in un contenitore e, con una frusta, aggiungere il latte fino ad ottenere una crema. In un pentolino fare ridurre il vino con lo zucchero, la buccia d’arancia e la

cannella. Prima di servire, passare il filetto in padella con un filo d’olio e un po’ di burro finché non si crea la crosticina attorno.

Stendere nel piatto la crema di patata, adagiarvi sopra il filetto e completare con la riduzione sopra al filetto. Servire su piatto ben caldo.

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COSA MANGIARE Ristoranti come Chiosco di Bacco sono da considerarsi veri e propri miracoli, se pensi alla fatica che occorre per farli crescere, maturare e farli poi splendere di luce propria con giustificato orgoglio. E quando si arriva all’apice del successo, come in questo caso, la responsabilità di fare sempre di meglio e la paura di non deludere mai il proprio ospite, non ti abbandona mai. La nostra degustazione ha confermato questa preziosa tensione emotiva: vellutata di zucchine e patate con mousse alla menta, coulis di pomodoro e coulis di piselli per iniziare. Un assaggio di pecorino alla griglia con miele d’acacia, noci e confettura di pomodoro verde e un assaggio di salumi di Mora Romagnola, per non dimenticare la cultura contadina; sformatino di ricotta e spinaci con lombetto di Mora Romagnola e purea di mela gialla e una tartare di Marchigiana con senape dolce, caviale di tabasco e cialda al parmigiano chiudono l’antipasto. Due i primi degustati: “Il manzo e l’acciuga incontrano lo spaghetto Mancini” e i cappellacci ripieni di Patanegra su fonduta di parmigiano reggiano Vacche Rosse e gocce di aceto balsamico tradizionale extra vecchio. Il filetto di marchigiana, scaloppa di foie gras e passata ai frutti rossi, il filetto di maiale a bassa temperatura, crema di patata dolce e riduzione al chianti e il controfiletto alla griglia di manzo Wagyu Australia “tipo Kobe” hanno chiuso i secondi. Al termine della degustazione ecco arrivare al tavolo l’armonia di idee confuse: tutti i dolci in carta in piccoli bocconi. Chef: Daniela Balducci - Sous chef: Cristian Semprini (foto sotto).

IL CHIOSCO DI BACCO

Via Santarcangiolese, 62 - 47825 Torriana (RN) Tel. 0541 678342 - cell. 333 3060279 www.chioscodibacco.it info@chioscodibacco.it


GOLAVAGANDO

INAUGURA A MALAMOCCO

RELAIS ALBERTI

IL PRIMO RELAIS DE CHARME NEL CUORE DELLA LAGUNA DI VENEZIA

Il lusso discreto di un Palazzo della fine del XIV secolo unito ad accoglienza, eleganza, cura dei dettagli ed esaltazione dei sapori antichi: inaugura a Malamocco, nella laguna di Venezia, Relais Alberti, maison emozionale e residenza della famiglia Alberti, per secoli fidati amministratori e Tesorieri della Repubblica Veneta. La dimora sorge proprio nel cuore di Malamocco, borgo storico del Lido di Venezia: un’incantevole oasi di pace caratterizzata dalle basse case dalle facciate allegramente variopinte. Lontano dal caos del centro storico, il borgo conserva ancora l’atmosfera di altri tempi. Il silenzio della laguna, il panorama del sole che tramonta, il piccolo e antico borgo di pescatori, carpentieri e ortolani, la possibilità di girare in bicicletta oppure utilizzare l’auto, godendo della brezza marina. Un luogo per riscoprire una zona importante di Venezia, spesso dimenticata, ritrovando così il piacere per le piccole cose. Il Relais è composto di due splendide ville a pochi passi l’una dall’altra. Ca’ Alberti e Ca’ del Borgo, formano un grande complesso alberghiero con circa venti camere: dalle grandi e spaziose suite alleaccoglienti e confortevoli garden suite. Tutte le camere sono affacciate sui cortili interni o sul canale che abbraccia l’intero bor-

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RELAIS ALBERTI

Piazza delle Erbe, 8

30126 Malamocco (Lido Venezia) Tel. +39 329 0904700

www.relaisalberti.com info@relaisalberti.com

go. I locali comuni e le camere sono arredati rigorosamente in stile, come si addice ad un’abitazione dell’antica nobiltà veneziana. Con l’arrivo dell’inverno, i caminetti scoppiettanti, caldi e accoglienti, completano l’arredo creando un’atmosfera intima e romantica. Il Relais conserva, come uno scrigno prezioso, ancora le antiche glorie della Serenissima: i tessuti preziosi adornano mobili antichi dal design caldo, familiare, elegante e avvolgente, tipico delle case d’epoca veneziane. L’ospitalità è creata ad hoc dalle locandiere, la tipica figura femminile del mondo veneziano che aveva il compito di accogliere e coccolare ogni cliente: dalla scelta della tipologia di cuscino per un riposo perfetto, alla scelta della fragranza per profumare le stanze, alla marmellata home made servita alla prima colazione, consumata in camera oppure nell’apposita sala. L’orto, poco distante dalla struttura ricettiva, è a disposizione degli ospiti per raccogliere i prodotti della terra che saranno poi lavorati dalle abili mani de Le Locandiere, nella grande cucina con il caminetto dell’‘800. L’accoglienza è personalizzata per ciascun ospite. Il maggiordomo è il vero padrone di Casa Alberti: sarà a conoscenza di tutte le esigenze dell’ospite e pronto a soddisfare ogni desiderio. Coadiuvano dall’aiuto dello staff rimarrà a disposizione durante tutto il suo soggiorno. Un


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LA STORIA La storia del Palazzo è affascinante e si lega a quella della ricca e potente famiglia Alberti. La famiglia cadde in miseria a seguito della guerra dei trent’anni, tantoché Pietro Cesare Alberti, figlio del segretario del Tesoro Ducale, partì a bordo della nave olandese King David per cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Pietro mise piede come primo italiano nei territori del Nord America il 2 giugno del 1635. Da allora in questa data si festeggia “l’Alberti Day”. Infatti, Alberti è stato solo il primo di milioni di Italoamericani che sarebbero poi venuti a formare una parte vitale della cultura americana. Con la partecipazione e il supporto della National Italian American Foundation, il 2 giugno si commemora il “Pietro Alberti Day” a New York: un giorno speciale per tutta la comunità italiana d’America nel quale gli Italiani ricordano le loro origini in un momento di gioia e convivialità. Foto, storie e filmati curati dall’Italian American Museum di New York, rievocano suggestivamente il coraggio della popolazione italiana trasferitasi in una terra sconosciuta, in cui ricominciare una nuova vita. Una lastra di pietra a Battery Park, nel cosiddetto Bowling Green, segna il punto di arrivo di Pietro: un luogo di ritrovo e di commemorazione che tocca il cuore della Madre Patria.

servizio taxi navetta personalizzato da Santa Maria Elisabetta attenderà gli ospiti al loro arrivo all’Isola del Lido di Venezia per poi accompagnarli direttamente all’entrata del Relais Ca’ Alberti. A dirigere il Relais ci sono due donne imprenditrici: Micaela Salmasi e Michela Cafarchia, lidensi DOC da generazioni e profondamente legate al territorio, al rispetto, alla valorizzazione della cultura e della storia del Lido di Venezia. «L’idea di rendere il servizio esclusivo adattandolo alle esigenze del cliente rappresenta la nuova frontiera del lusso - spiega Michela - Certo l’ospitalità cucita su misura non è una novità per il mercato luxury dell’hotellerie, però la differenza nasce proprio dal nostro bisogno di capire più a fondo gusti e desideri della clientela. Inoltre volevamo essere certe di offrire il miglior servizio possibile. Il passo successivo era quello di mettere assieme una squadra dedicata, che studi le esigenze dei clienti per progettare parallelamente l’accoglienza e, perché no, la tipologia del soggiorno». Relais Alberti è molto più che un soggiorno turistico: è prima di tutto un turismo esperienziale. Le locandiere guidano gli ospiti alla scoperta di Venezia, la sua Laguna e le isole sconosciute. Gite, visite in barca e al museo, guide oppure tour personalizzati, personal shopper o personal trainer per scoprire le botteghe artigianali esclusive del centro storico, oppure l’entroterra della laguna veneziana attraverso esperienze uniche e irripetibili.

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BERBERÈ

Via Mantova, 5 - Roma www.berberepizza.it

A ROMA

BERBERÈ

APRE LA SUA NUOVA PIZZERIA “ARTIGIANALE” Berberè, l’insegna di pizzerie dei giovani fratelli Matteo e Salvatore Aloe dedicato alla pizza artigianale, continua a crescere e, dopo le recenti aperture di Milano e Londra, arriva anche a Roma. Il nuovo locale apre ad

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inizio giugno in via Mantova 5, nel quartiere Nomentano, a pochi minuti dal MACRO - Museo d’Arte Contemporanea. Così Salvatore Aloe, amministratore delegato della società, racconta questa nuova avventura: “La pizza è una delle più grandi tradizioni del nostro Paese e Roma ne ha una propria, portata avanti, anche oggi, con passione da grandi maestri pizzaioli, a cui ci accomuna l’amore per gli ingredienti di qualità e per i processi di panificazione. Noi portiamo la nostra giovane storia ma con un obiettivo comune a molti colleghi romani: valorizzare l’artigianalità della pizza, mantenendone l’anima pop senza sofisticazioni, ma attraverso un lavoro di selezione degli ingredienti, di tecnica degli impasti e di cura nella formazione dei ragazzi e ragazze che, siamo sicuri, troverà terreno molto fertile in questa città.” Lo chef Matte Aloe aggiunge: “Il locale proporrà un menù stagionale composto da una quindicina di pizze realizzate con l’impiego di prodotti provenienti da contadini e allevatori scelti secondo parametri di lavoro, di impiego della terra, di lavorazione delle materie prime che fanno parte della nostra visione del mondo. Molti di loro sono certificati biologici, impegno che continuiamo a portare avanti, perché crediamo che il biologico sia l’unica agricoltura possibile in grado di preservare la terra per le future generazioni”. Anche per questo locale, come per gli altri, la gestione sarà diretta, per salvaguardare l’artigianalità del prodotto mantenendo un rapporto quotidiano con dipendenti e fornitori, nel rispetto del lavoro e della clientela. Berberè, infatti, rifiuta la logica della catena e prosegue nella crescita di un team affiatato interno all’azienda.



I locali

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Trésor Scopriamo insieme quali sono i locali che racchiudono piccoli grandi tesori... Ogni ristorante, locanda o trattoria, famosa o meno, può vantare il proprio “Mon Trésor”, un personalissimo tesoro fatto di attenzione per i dettagli, cura dei propri ospiti, professionalità in cucina e in sala. Noi abbiamo individuato alcuni di questi “Mon Trésor” e li segnaliamo nelle prossime pagine...

golavagando montresor di

Daniele Briani

ARIA D’ALTRI TEMPI

AL COLOMBO NELLA VENEZIA PIÙ OSPITALE

Tutto ebbe inizio con Eriprando Stanziani, quando ancora gli chef erano solo cuochi e cucinare era un’arte povera, ancora molto lontana dagli eccessi multimediali di oggi, non solo perché la televisione era di la da venire, ma anche perché cucinare corrispondeva soprattutto alla necessità primordiale dell’umanità di socializzare, sfamandosi raccolta attorno al fuoco delle tradizioni locali. Alessandro Stanziani imparò molto di quest’arte dai suoi avi abruzzesi e, come amava sempre ricordare al figlio Domenico: “Con to nono go imparà a cusinar e a Venexia go conosù el mondo”. Lasciato l’Abruzzo quando ancora era diciottenne, si trasferì a Venezia con l’entusiasmo tipico della prima maturità che, all’epoca, era avvezza ai sacrifici e carica della volontà di emergere. Dopo un lungo tirocinio in uno dei più affermati ristoranti della città dei Dogi, su consiglio dei suoi datori di lavoro rilevò la gestione del ristorante Al Colombo, per riportarlo agli antichi fasti che, dopo duecento anni di gloriosa storia, si erano persi nell’ultimo decennio. Ed è da questo momento (siamo nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso) che prende forma la creatura di Alessandro, dedicata a una cucina italiana e veneziana in particolare, all’ombra del famoso teatro Goldoni, nella cui adiacente calle si svolgono ancora manifestazioni teatrali all’aperto.


on

Trésor Una cucina riproposta ancora oggi che il suo fondatore è scomparso, nelle stesse forme e sapori, perché secondo Domenico dare continuità a questa tradizione è ciò che preserverà Al Colombo negli anni a venire, salvaguardando questa sua unicità che l’ha eletto tra i Locali Storici d’Italia. Un antipasto di crudità è quanto di meglio si possa sperare come inizio per un ristorante della laguna più famosa al mondo, non dimentichiamo però le sarde in saor o un piatto di schie con polenta, per restare nella tradizione veneziana. Proseguendo nei primi piatti e pur privilegiando la pasta fatta in casa dei ravioli, lasagne o bigoli presenti con vari condimenti, un ottimo risotto di Go con la sua morbida mantecatura che esalta il sodo chicco di riso, ci avvicina molto alla cucina veneziana che utilizza da sempre questo tipico pesce di laguna. Per i secondi, confidando sul pescato del giorno, si possono assaggiare branzini al sale, oppure orate accompagnate ai vari condimenti di stagione, o una grigliata mista e, sempre per ricadere nella tradizione, un bel piatto di seppie nere con polenta. Dato che però la cucina veneziana non prevede solo pesce, Al Colombo è possibile assaggiare anche piatti di terra come un prelibato fegato alla Veneziana. I dolci sono fatti in casa, perché la scuola di Alessandro prevedeva che un cuoco fosse anche pasticcere. Se un dolce alla ricotta o una Sacher sublimano il palato, assaggiare dei dolcissimi

buranelli serviti assieme al caffè può essere la degna conclusione di uno stare a tavola d’altri tempi, che qui non è scandito dai ritmi frenetici della vita quotidiana ma dalle lente movenze di una Venezia dei tempi andati.

RISTORANTE AL COLOMBO

S. Marco, Corte del Teatro 4619 30124 Venezia

Tel. 041 522 2627

www.alcolombo.com info@alcolombo.com

Il Mon Tresor è... L’OSPITALITÀ COME FORMA D’ARTE Domenico è un anfitrione degno della vera tradizione dei “maestri di casa” di una volta. Il senso dell’ospitalità e dell’accoglienza ce l’ha cucito addosso o meglio è parte integrante del suo Dna e lo ha elevato ad una forma d’arte. La stessa arte, questa volta in forma pittorica, di cui sia suo padre che lui amano circondarsi e condividere con gli ospiti del ristorante, tanto da trasformarlo in una vera e propria pinacoteca, legandolo anche ad un premio per la Biennale di Venezia dedicato al miglior giovane emergente dell’Accademia delle Belle Arti. Dato che la cucina è considerata da sempre una forma d’arte, questo amore per l’arte nelle sue varie sfaccettature, è la miglior garanzia per chi voglia immergersi nelle atmosfere di questo pezzo della Venezia che fu.

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golavagando montresor di

Giovanni Angelucci

NELLA VALLE DEL SEVESO

CORTE SANTO STEFANO OFFRE UNA CUCINA GENEROSA E ACCOGLIENTE

Situata nella Valle del Seveso, Cesano Maderno è oggi una città di oltre trentacinquemila abitanti ubicata nella porzione occidentale della provincia di Monza e Brianza, e quindi ben collegata alla Milano degli appassionati che volentieri si spostano dalla città in cerca di “nuovi profumi”. Nella cittadina brianzola chi cerca trova e nella piazza principale, all’interno di una corte antica nel pieno centro storico, sorge il ristorante Corte Santo Stefano, piccolo covo dell’enogastronomia italiana che Domenico Mastrogiacomo creò cinque anni fa. Lo fece insieme all’amico socio che però, poco dopo, si rese conto di non “essere tagliato” per questo mestiere e da quel giorno il ristorante rimase nelle mani dell’attuale proprietario che lo portò avanti senza mai perdersi d’animo, riuscendo a riscuotere un buon successo con la clientela ormai fide-

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lizzata. Mastrogiacomo viene dal mondo del food and beverage, ma non aveva mai lavorato in un ristorante e tanto meno si era occupato della gestione di un locale importante come questo. Il suo campo era (ed è) quello commerciale, forse motivo in più per cui è riuscito a gestire con successo il suo percorso da ristoratore. Un percorso facilmente paragonabile ad una vera e propria nuova vita, soprattutto quando racconta: “Sono sempre stato forte nelle vendite e nella promozione di ciò di cui mi occupavo, quindi anche con il ristorante ho continuato a fare il mio lavoro. In questo senso non ho avuto grandi difficoltà, a parte essere stato piantato in asso a solo un anno dall’apertura. È stata molto dura, ma ci ho creduto ed oggi siamo qui che continuiamo a lavorare sodo per i nostri clienti felici di visitare un luogo di grande bellezza”.


CORTE SANTO STEFANO Piazza Mons. Arrigoni, 6

20811 Cesano Maderno (MB)

Tel. 0362 570041

www.cortesantostefano.it

Parla di quella che era l’antica dimora del curato, risalente al 1753: la corte di Santo Stefano concede un’accoglienza davvero speciale grazie al porticato, al cortile interno e alla comparsa maestosa del campanile. Una vista che riporta ai tempi andati e conforta con la tranquillità che si avverte, anche quando d’estate si pranza all’aperto. Entrando, il consiglio è di scendere immediatamente al piano inferiore così da essere inebriati dall’intenso profumo di norcineria. In quella che era la cantina di una volta, con una temperatura naturale fresca e gradevole, caratterizzata da quattro colonne originali dell’epoca, Domenico dà il benvenuto ai suo ospiti. Se il naso è inebriato da prosciutti, culatelli e salami che affinano appesi come pipistrelli, alla vista e al gusto pensa il padrone di casa con il grande aperitivo di benvenuto. I migliori prodotti della tradizione norcina italiana serviti nello stesso punto della sala in cui avviene la stagionatura, e perché no, con una bollicina di spumante ad accompagnare. La sala è davvero accogliente, luci calde, tavoli spaziosi, pietre e legno che ricordano periodi lontani, resi contemporanei e ancora più gradevoli dai meritevoli addetti alla sala.

Si può iniziare dunque da una degustazione di salumi e formaggi per poi scegliere se assaporare i piatti preparati dal cuoco Domenico Ferrante o la pizza e i lievitati del panificatore polacco Jaromir Jaskiewicz che, da diciannove anni, lavora con la farina creando pizze di qualità (al piano superiore dove si trova anche il forno) utilizzando lievito madre e lunghi tempi di maturazione. Dalla cucina invece vengono proposti numerosi piatti, c’è l’imbarazzo della scelta e si spazia attraverso diverse culture e territori. Se l’inverno concede proposte a base di polenta, selvaggina, tagliatelle di grano saraceno con coste e fontina, filetto e stracotto di manzo, con la stagione calda si passa a ricette più fresche come l’insalatina di carciofo con petali di Castelmagno, il gamberone argentino avvolto in pasta kataifi su delicato di peperone rosso arrostito, gli agnolotti agli asparagi, mazzancolle e pomodoro o le pappardelle su vellutata ai carciofi, grana 24 mesi, bacon croccante, seguite da piatti semplici a base di pesce come il filetto di branzino, rombo e salmone. Una cucina semplice e generosa che può certamente affinare il proprio stile, ma che comunque fino ad ora ha convinto la propria clientela.

Il Mon Tresor è... LA SUGGESTIONE DEL LUOGO Il luogo così suggestivo con una facciata che alla sera pare una cartolina romantica, e che con la cantina del settecento ricrea un’atmosfera passata, rappresenta il valore aggiunto della Corte Santo Stefano.

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golavagando montresor di

Giovanni Angelucci

L’ANTICA TRADIZIONE DI

NONNA MARIA RISPLENDE DI NUOVA LUCE A LEGNANO

Quanta poesia c’è dietro un lavoro che continua nel corso negli anni, dei secoli, che muta e sta al passo con i tempi ma mantiene un’unica linfa vitale? In questo caso il trascorrere del tempo è rappresentato dalla generazioni che si sono succedute e che oggi trovano, nel giovane Luca, la vita e la linfa trasmesse dalla famiglia Grimoldi che ha creato un cammino tempo addietro e continua oggi a percorrerlo unita. Iniziò la bisnonna (Maria) nel locale adiacente all’attuale con un’osteria, in quel corso Sempione 42 di Legnano rimasto immutato nel tempo, poi la nonna (Virginia) con una bottiglieria,

in seguito la mamma Ornella con la gastronomia e da quattro anni l’intraprendente Luca con il ristorante “C’era una volta nonna Maria”. “La mia passione per l’enogastronomia viene da una lunga storia di famiglia: la nonna, che negli anni 40 portava sulle tavole della sua osteria prelibatezze create con ingredienti semplici e genuini, è tornata a rivivere negli spazi di via De Amicis 53. Queste ricette, da noi custodite nel tempo come un tesoro di famiglia, sono riproposte utilizzando le migliori materie prime lavorate con cura, pazienza, esperienza e nel rispetto delle stagioni”, racconta orgoglioso Luca Grimoldi. Oggi il ristorante risplende di luce fresca e giovane; accanto vive in concomitanza un negozio di prodotti di qualità dove quotidianamente viene “tirata” la pasta all’uovo. Si può infatti scegliere il ristorante anche soltanto per assaggiare le tagliatelle che mantengono tutto il gusto e la tenacia di una pasta stesa e fatta a mano, grezza, dall’ottima masticabilità e ruvida in bocca. Dal menù, in base al periodo, si possono ordinare i tagliolini alla C’era una Volta con spuma di burro di malga al grana trentino extra stagionatura e crumble di pane aromatico o con crostacei e pomodorini. Ma dalla cucina in mano a papà Giulio Grimoldi escono anche le orecchiette con friarielli di campo e alici di Cetara

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on

Trésor o i quadrelli al cacao ripieni di ricotta e scorza d’arancia con ragù d’anatra. La tagliatella è la regina di casa anche se il giusto inizio sarebbe da affidare all’ampia proposta di salumi e formaggi dop provenienti dalle diverse zone d’Italia. Scottona, filetto di maiale, pescato del giorno alla griglia o al forno e ancora i crudi come la battuta al coltello di tonno rosso di Sicilia. La tagliatella però non è l’unico piatto storico rimasto immutato nel tempo e riproposto, perché ciò accade anche per altre ricette come per la cassoeula così preparata praticamente da sempre, dove gli ingredienti continuano ad

essere l’abilità ereditata e la ricetta segreta. Tanta tradizione e poca ma essenziale tradizione perché “si può lavorare su ricerca e innovazione ma non si può essere contemporanei se non si parte dalla propria storia”, afferma Luca. Tanto è che parallelamente al ristorante lui e la sua squadra lavorano fittamente con il servizio di catering che pare essere di gran livello, visti i numeri e i clienti da cui vengono contatti. È proprio vero: oggi la differenza si può fare ma senza calpestare le orme di chi ci ha preceduti.

Il Mon Tresor è... LA STORICA TAGLIATELLA È l’unico caso in cui le virtù da sottolineare sono due diverse tra loro: la centenaria e immortale tagliatella che rimane il piacevole evergreen del ristorante e la proposta di catering che viaggia ad alti livelli tra Milano e provincia.

RISTORANTE NONNA MARIA

Via Edmondo de Amicis, 53 - Legnano (MI) Tel. +39 347 6706771

www.ceraunavoltanonnamaria.com info@ceraunavoltanonnamaria.com

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GOURMETFOOD

RISTORANTE

KONNUBIO UN DESTINO NEL NOME di

Maria Chiara Zucchi

Non si può non creare un parallelo tra la fiorentina Beatrice Portinari a cui Dante dedica la “Vita Nova” e la Beatrice Segoni che alterne vicende portarono anni fa dalle Marche proprio a Firenze, dove intraprese un nuovo percorso di vita e di lavoro. Tanto gentile e tanto onesta pare la Beatrice nella trasfigurazione dantesca, così quanto la Nostra, con la differenza che quest’ultima unisce alla delicatezza dell’aspetto quella forza e quel carattere indomito che l’hanno fatta rinascere, appunto, a “vita nuova”. E Firenze ha premiato proprio il suo coraggio e la sua determinazione di donna volitiva che, trasferitasi dalla sua regione d’origine, si è fatta scudo della propria professionalità per rimettersi in gioco ripartendo da zero. Brava in cucina era e brava in cucina è rimasta, migliorando anzi le proprie capacità grazie alla maturità acquisita e a un orizzonte di vita più sereno che ha saputo creare pezzo a pezzo.

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KONNUBIO

“Quando cucino, vivo” dice, perché è proprio la cucina il mezzo con cui ha saputo riaffermare se stessa e conquistare il rispetto e l’affetto dei fiorentini in primis e poi quello dei tanti turisti o gourmet che sono entrati nel suo locale. “Suo” in quanto il Konnubio, a pochi passi dalla stazione centrale, le è praticamente stato affidato dai proprietari, noti imprenditori edili, accordandole una fiducia del tutto ben riposta. Lei, come si legge nella sua forte dichiarazione, con la cucina esprime quel mondo interiore fatto di sensibilità (“trovo ispirazione nell’aria, in tutto ciò che respiro, nelle meraviglie che Firenze offre, nel sole della mia città e in quello dei Paesi che ho visitato”) e vena artistica, dato un suo passato da stilista. Lo si evince dai suoi piatti, sintesi tra semplicità (“la mia cucina è semplice. Il semplice possono capirlo tutti, il

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GOURMETFOOD

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KONNUBIO

complicato è difficile anche per me”) e guizzo creativo, tra Marche e Toscana, tra tradizione e necessità di rinnovamento: sgombro, ribollita e pomodoro nero al timo; vitonno con consommè freddo di prosciutto e granita di pomodoro fiorentino; tortello di polpo al nero, crema di romanella e lime; pasta, patate, cozze e “finto caviale”; guazzetto di scorfano, orata e moscardini; agnello marinato nel

TORTELLO di maialino in porchetta con crema di pecorino e fave INGREDIENTI

Per le fave

Per la salsa: sciogliere a bagnomaria il

kg. 1 di farina 00, 38 rossi d’uovo.

finocchietto, sale e pepe q.b.

Per le fave: far rosolare il guanciale, ag-

Per la sfoglia Per il ripieno

g. 100 di fave fresche, g. 20 di guanciale,

maialino da latte di kg. 1, sale e pepe q.b.,

PROCEDIMENTO

Per la crema di pecorino

ri, sale e pepe. Cuocerlo arrosto per 3 ore.

finocchietto selvatico, aglio.

g. 300 di pecorino semistagionato, g. 100 di panna.

Disossare il maialino e condire con gli odoMacinare il tutto. Tirare la sfoglia molto sottile. Con il ripieno preparare dei tortelli.

pecorino con la panna.

giungere le fave, sfumare con vino bianco e aggiungere gli odori. Disporre la salsa

nel fondo del piatto, posizionarvi sopra

i tortelli cotti, scolati e saltati con burro. Guarnire con le fave fresche, mollica di pane tostato e punte di finocchietto.

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PANNA COTTA al lemongrass salsa di papaia e lingue al timo INGREDIENTI

Per le lingue al timo: g. 100 di albume,

latte, g. 200 di zucchero, g. 24 di colla di

di burro, timo.

Per la panna cotta: l. 1 di panna, g. 250 di

pesce, g. 250 di lemongrass, g. 25 di latte in polvere.

PROCEDIMENTO

Bollire il latte, la panna, lo zucchero. To-

gliere dal fuoco, aggiungere il lemongrass

g. 100 di zucchero, g. 100 di farina, g. 100 PROCEDIMENTO

Mescolare gli ingredienti compreso il ti-

mo; far riposare 1 ora. Stendere su silpat, cuocere e arricciare le cialde da calde.

tagliato a pezzetti e lasciarlo in infusione

Per la salsa: papaia, zucchero, limone.

colla di pesce e il latte in polvere. Versare

Frullare e filtrare tutti gli ingredienti. Com-

per almeno 3 ore. Filtrare, aggiungere la negli stampini e cuocere a vapore.

PROCEDIMENTO

porre il piatto e guarnire con melone fresco.

Chianti e miele, fagiolo “cocco nano” e spuma di caprino; cubo di cioccolato fondente con cuore di olio EVO e sorbetto alle more; baci di meringa alla liquirizia, crema di peperone e lampone, purè di rabarbaro e sorbetto di mela verde. “Quando creo questi piatti, li sento dentro di me: ne percepisco il profumo e persino il sapore, ne individuo il colore e il loro aspetto finale. Sincronizzati con me, i ragazzi della mia brigata diventano poi gli esecutori dei miei pensieri, all’insegna del perfetto connubio!” conclude Beatrice. Dunque Konnubio: nel nome stesso del ristorante si esprime la vocazione al sincretismo: l’interazione e la fusione tra elementi eterogenei è infatti palese nella suggestiva storica struttura con soffitti a volta, un tempo deposito di carrozze, in armonico contrasto con l’attualità di uno stile di arredi a metà tra la leggerezza dello Shabby Chic e la concretezza minimalista dell’Industrial vintage. Ne deriva un ambiente caldo e accogliente, sufficientemente “easy” per la pausa pranzo e abbondantemente adatto a serate romantiche o “semplicemente” gourmet. RISTORANTE KONNUBIO

Via dei Conti, 8r - 50123 Firenze Tel. 055 238 1189

www.konnubio.it - info@konnubio.it

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GOURMETFOOD

LE MIRE ESPANSIONISTICHE DI

PIPERO

PARTENDO DAL NUOVO ELEGANTE LOCALE di

Claudia Deb Andrea Moretti

foto di

Non ho un buon ricordo del mio primo incontro con Alessandro Pipero perché, a dire il vero, non fu un incontro ma uno scontro. Mi affrettavo per arrivare in tempo alla presentazione del libro di un autore a me caro, lui mi sorpassò dandomi involontariamente una “spallata” e non solo non mi chiese scusa, ma si voltò guardandomi con aria di sufficienza. Ammetto che, da quel giorno, per anni, non mi è stato simpatico, poi sono stata a cena da lui, nel vecchio ristorante, Pipero al Rex… Con mia grande sorpresa, quello che pensavo essere un uomo brusco si è rivelato un amorevole ed impeccabile padrone di casa. Sono stata accolta e coccolata come una vera principessa. Cenare da Pipero è un’esperienza da fiaba, lo era prima in quel di via Torino (Roma), lo è oggi nel nuovo ristorante che, ovviamente, porta il suo nome: Pipero. Un passo importante fatto in società con un visionario della ristorazione, Edoardo Narduzzi, con il quale entro un anno aprirà un nuovo Pipero in una capitale europea. L’attuale location è superba: 400 mq su due livelli, 50 coperti circa, ambiente luminosissimo, arredamento elegante, mise en place raffinata, quadri di arte contemporanea alle pareti, un meraviglioso privèè in cantina e poi la sua grande squadra vincente: il geniale chef Luciano Monosilio, il sous chef Davide Puleio, preciso e innovativo, l’elegante maître Achille

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ALESSANDROPIPERO

Sardella e le new entry che i Pipero Addicted impareranno a conoscere. Nel nuovo ristorante Pipero è possibile scegliere tra il menù alla carta (12 piatti in tutto) e due menù degustazione: Radici composto dai 6 grandi piatti che lo hanno reso famoso e Rami, composto da 10 pietanze che rappresentano il cambiamento, nuovi percorsi con nuove tecniche e la ricerca maniacale della perfezione di sempre. Indubbiamente Pipero punta alla seconda stella Michelin e la sua sete di prestigio lo spinge a migliorarsi sempre. Alla domanda: “Pipero voglio raccontare qualcosa che nessuno ancora ha raccontato, dammi uno scoop”, ha risposto così: “Il vero scoop è che sono a dieta ed ho già perso 10 chili. Nel ristorante ci sono delle scale, ogni volta che andavo su arrivavo con il fiatone e mi sembrava irrispettoso nei confronti dei miei ospiti”. Ciò sintetizza l’essenza di Pipero, il ristoratore 2.0 che ama i suoi clienti più di ogni altra cosa. Chiudo con una frase presa dal suo sito:“Odio il finto buon senso, le regole obbligate, a volte professionalità fa rima con freddezza. Non amo i menù senza prezzo per le donne o per gli ospiti, sono stanco di servire a destra, sinistra, prima uno e poi un altro… Io faccio a modo mio, ho solo un obiettivo: far ridere il cliente… Buone calorie”. Alex Pipero

Al centro, Alessandro Pipero

PIPERO

www.piperoroma.it

Corso Vittorio Emanuele II, 250 00186 Roma

tel. (+39) 339 7565114 tel. (+39) 06 68139022

Aperto dal lunedì al sabato dalle 12:30 alle 14:30

e dalle 19:00 alle 22:30

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GOURMETFOOD

A NAPOLI

IL COMANDANTE

SI IMPONE CON UNA CUCINA FINE E ORIGINALE, CON ELEGANTI CITAZIONI DELLA MEMORIA di

Teresa Cremona

Il Comandante è al momento il ristorante di riferimento della città di Napoli. All’ultimo piano dell’hotel Romeo, è un locale elegante, che vuole essere percepito e vissuto come luogo di eleganza esclusiva. Molto panoramico, ha grandi vetrate che affacciano sul porto, sulla bella architettura razionalista della Stazione Marittima, sulle grandi navi da crociera che affiancano i moli, e la Napoli che qui si presenta è città alla moda, cosmopolita, internazionale.

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Il lusso della sala è esaltato dalla monocromatica scelta del colore, dalla moquette alle tovaglie, alle divise del personale di sala: si è immersi nel nero, suggestione accentuata da un’illuminazione da locale notturno, luci concentrate che mettono in risalto cristalli, porcellane, arredi di servizio e le composizione estetiche dei piatti. Solo al momento del dessert, tovaglioli di lucido rosso accendono la tavola, quasi un coup de théatre.


ILCOMANDANTE

Il servizio di sala, curato da Alfredo Manzoni e Mario Vitiello, è impostato in modo altamente professionale, ma i giovani che lo svolgono sono così tesi e impegnati a fare bene che perdono in spontaneità, e la descrizione dei piatti è declinata con precisione troppo formale. Il menu di Salvatore Bianco (foto a lato) ha un grande impatto estetico, i suoi piatti sono belli e armoniosi, in primis un piacere per gli occhi. Sono espressione di tecnica, studio, e si intuisce la lunga preparazione necessaria per ottenere questi risultati, che è dimostrazione di un lavoro complesso e coordinato, realizzato da un’équipe numerosa e affiatata. Lo aiutano in cucina Roberto Boemio e Francesco Citterio. Sono piatti complessi in cui è sempre presente un numero elevato di ingredienti. C’è il richiamo al territorio, alcuni piatti si rifanno

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GOURMETFOOD

PICCIONE marinato all’anice con salsa di ibisco e pera INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

Prendere la pera, eliminare la buccia e

1 pera di circa g. 200

meggiati in precedenza, separando co-

un po’ di succo di limone; mentre per

2 piccioni interi g. 5 di ibisco

4 pezzi di anice stellato 8 fave di cacao

g. 300 di acqua marina g. 30 di senape

g. 20 di semi di girasole

Smontare i piccioni già spiumati e fiamscia e petto e avendo cura di recuperare il collo e le interiora. Prendere le fave di cacao e passarle al mortaio con l’anice

stellato; recuperare il composto e spalmarlo all’ interno di una busta sottovuoto. Introdurvi i petti di piccione e lasciare marinare in frigo per circa 12 ore.

Le coscette, invece, andranno private

dell’ossicino centrale e dei relativi nervetti. Poi confezionarle sottovuoto come per il petto e lasciar marinare per 12 ore. Successivamente cuocerle in un in acqua a 68°C per 20 minuti.

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i semi e confezionarla sottovuoto con l’ibisco, farlo leggermente idratare in

acqua, cuocerlo a 90°C per circa 25

minuti; successivamente frullare il tutto e setacciare. Intanto prendere le foglie di

spinaci e sbollentarle per qualche secondo in acqua di mare; poi spennellarle con senape.

Infine, cuocere il petto per circa 8 minuti a 68°C, successivamente passarlo in padella con olio insieme alla coscia dal

lato della pelle, farlo riposare per circa

90 secondi e servirlo con semi di girasole tostati salsa e spinaci.


ILCOMANDANTE

RISTORANTE IL COMANDANTE ROMEO HOTEL

Via Cristoforo Colombo, 45 - 80133 Napoli

Tel. +39 081 6041 580 - Fax +39 081 6041 599 www.romeohotel.it

reservations@romeohotel.it

ad abitudini antiche dello street food campano qui raccontate in un’interpretazione fine e originale. Straordinaria la sequenza degli antipasti, per estetica, per eleganza, per le citazioni della memoria, per maestria. Alcuni appetizers, come il baccalà , sono un indimenticabile concentrato di gusto, in un millesimo di boccone. A chiusura di un percorso gastronomico importante, i dolci sono eccellenti, riescono a stupire anche quando sono la riproposizione di ricette note, che qui hanno una spinta di fantasia fresca, suadente, lieve ad opera dalla giovane Tonya Centoducati.

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GOURMETFOOD

RAFA COSTA E SILVA E LA FILOSOFIA DEL

LASAI

BASATA SU PRODOTTI FRESCHI E NATURALI, MEGLIO SE AUTOPRODOTTI di

Flavia Tomaello

Menù che vengono aggiornati giorno per giorno, degustazioni a sorpresa, ingredienti che provengono direttamente dall’orto di casa… Ecco alcuni degli elementi che hanno reso questo ristorante di Rio de Janeiro un posto unico al mondo. 52


LASAI

Quando si diplomò nel 2003 presso il Culinary Institute of America di New York, Rafa Costa e Silva aveva solo 24 anni, ma i suoi ideali erano già assolutamente chiari: la sua passione per la cucina si fondeva perfettamente con l’interesse per gli ingredienti naturali e per l’amore per la squadra di calcio del Flamengo. Alcuni anni dopo il diploma, nel 2007, si reca nella regione spagnola dei Paesi Baschi per lavorare nella cucina di uno dei ristoranti più belli d’Europa, il Mugaritz, con i suoi mobili in rovere centerario e la sua aria di trattoria d’altri tempi. Qui, sotto la guida del famoso chef Andoni Luis Aduriz, affina la tecnica gastronomica fino a diventare chef executive. “Lavorare in quel luogo era il mio sogno: c’era solo una cosa che avrei potuto desiderare di più al mondo, ossia aprire il mio ristorante”, racconta Costa e Silva. Con l’esperienza immagazzinata, Rafa decide di tornare nel suo Paese e perseguire il suo principale obiettivo. Così, nel 2014, nasce Lasai, perennemente in classifica nei ranking dei migliori ristoranti del mondo e con all’attivo una stella Michelin. Con l’aiuto di Malena Cardiel, sua moglie, Rafa

ha saputo costruire un ambiente unico: solo a qualche metro di distanza dall’Accademia Internazionale del Cinema del Brasile, immersa nella zona più ospitale del quartiere di Botafogo e con una vista spettacolare dalla terrazza direttamente sul Cristo Redentore, uno dei simboli della città, Rafa ha trasformato una splendida casa del 1902 in un luogo in cui il visitatore pregherà affinchè le ore non passino, per assaporare qualche minuto in più. Il risultato ha dunque premiato il suo grande sforzo: sia Rafa che Malena narrano che la loro ricerca di un posto perfetto per far nascere il ristorante è durata mesi. Avevano solo una certezza; il ristorante doveva rimanere a Rio: “Volevo rimanere vicino alla mia famiglia e ai miei amici... Erano ormai dieci anni che vivevo lontanto”, ha spiegato Rafa in varie occasioni. Lasai dispone di uno strumento segreto: i suoi due orti, che si trovano a Itanhanga e a Vale das Videiras. Con i loro 10.000 metri quadrati, sono la fonte di rifornimento e di ispirazione per i continui cambi del menù messi in atto dal ristorante. In questi vivai si produce la maggior parte delle uova, delle verdure, dei

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GOURMETFOOD

BEIJUPIRÁ miso, pancetta e rapa INGREDIENTI per 4 persone

Per il beijupirá: beijupirá, salsa miso. Si consiglia un pesce di circa 5 chilo-

Per la rapa

g. 500 di rape, ml. 300 di latte, 1 limone, olio, sale.

grammi. Pulire il pesce e tagliarlo a pezzi

Far bollire la rapa in acqua in modo da

strato leggero di miso nella parte supe-

Scolarla e lavarla con il latte e il succo del

di circa 90 grammi ciascuno. Fare uno riore dell carne.

ammorbidirla per farne una purea.

limone. Aggiungere lentamente l’olio e

Per la pancetta: g. 200 di pancetta, sale

sale q.b. La consistenza giusta è quella di

Porre un pezzo di pancetta nel sale grosso

Per la presentazione: germogli di rapa.

Lasciare macerare in frigorifero per cinque

PROCEDIMENTO

grosso e lavare bene con acqua corrente

senza scuocerlo. Nel fondo del piatto col-

grosso.

fino a coprire completamente il pesce.

giorni. Successivamente, togliere il sale fino a togliere tutto il sale dalla superficie del pesce.

Collocare in frigorifero e lasciar asciugare

per una settimana ancora. Congelare e tagliare a fette sottili.

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una purea non molto spessa.

Cuocere il pesce fino a caramellare il miso, locare la crema di rape.

Adagiare il pesce sopra la crema e, sopra la metà del pesce, una fetta di pancetta.

Abbellire il piatto con fiore di sale, olio e un germoglio di rapa.


LASAI

tuberi, della frutta e dei fiori che poi si troveranno, trasformati, nelle proposte gastronomiche. Il resto dei prodotti, in minima percentuale, viene da produttori biologici e dai pescatori che vivono nelle prossimità della città di Rio de Janeiro. Questa abitudine di approvvigionamento, Costa e Silva l’ha fatta propria dalla cultura spagnola. “Qui tutti si preoccupano per la qualità del cibo: nei ristoranti il menù viene cambiato in base alla stagione e non si tratta di una questione marginale”, spiega.

TUTTO DA SÉ: L’ORTO A CICLO CONTINUO Riguardo alla necessità di creare un’orto proprio, lo chef carioca spiega che non appena rientrò in Brasile, si rese conto degli ostacoli che esistevano nel mercato locale per poter realizzare il ristorante dei suoi sogni: molte delle verdure che voleva inserire direttamente nei suoi piatti non si trovavano disponibili, o facilmente reperibili, nonostante alcune di esse fossero tipicamente brasiliane. Il modello di vivaio gli ha reso possibile aggirare questo ostacolo: ha potuto in questo modo procurarsi

con facilità ciò che avrebbe ottenuto con sforzo. Questi sono i piccoli segreti che hanno reso unico Lasai: Costa e Silva di fatto investe molto tempo per far sì che i suoi soci produttori mettano da parte le materie prime necessarie alle sue esigenze, così che i piatti siano veramente speciali; inoltre il menù viene elaborato giorno per giorno, in base al fatto che ogni ingrediente si trovi al suo culmine vitale, per assicurare la maggiore qualità possibile in ogni ricetta; infine, la ricerca: risaltare l’uso che le popolazioni indigene del luogo hanno fatto degli ingredienti secondo la tradizione. Riguardo allo stile, Costa e Silva è sempre stato coerente, ovvero non si è mai

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GOURMETFOOD

limitato ad adottarne uno in particolare: nonostante abbia riscattato molti degli elementi della cucina del suo Paese, grazie al faticoso lavoro di ricerca che personalmente realizza con gli ingredienti, i suoi piatti non possono essere considerati “brasiliani”. “Credo che il mio stile sia quello di fare una buona cucina, di cucinare ciò che mi piace cucinare, evitando al massimo il burro e i fritti, dimodoché ogni sapore risulti fresco e naturale”, spiega. Dopo solo tre anni dall’apertura, Lasai sembra non avere più spazi vuoti dove poter esporre i suoi premi. Non c’è rivista o giornale che non abbia lodato il lavoro di Rafa: dal settimanale Veja fino al quotidiano O Globo, dal Gula Magazine fino a Época. Le onorificenze vengono riconosciute anche fuori dai confini nazionali: oltre alla stella Michelin, Vogue lo mette al settimo posto nella lista dei migliori ristoranti del mondo e la classifica The World’s 50 Best Restaurantes ha chiuso il 2016 collocandolo sempre al settimo posto (nel 2015 era appena al numero 16). Lasai appare anche nella classifica del 2015 dei “Quindici ristoranti da provare in vita”, elaborata dalla CNN e nella selezione realizzzata dal Diners Club. Il visitatore ha di fatto due opzioni di menù da degustare: “Festival”, una specie di menù a sopresa in cui il commensale si deve lasciare accompagnare fideisticamente dalla mano dello chef (in questo caso è possibile indicare possibili allergie o intolleranze a particolari alimenti) e “Não me conte histórias” (che potremmo tradurre in italiano, “non disturbare”), per quelli che vogliono semplicemente entrare nel ristorante, scegliere un antipasto, un piatto principale, un dolce e alla fine alzarsi e andarsene via.

UOVO FRITTO con albume falso INGREDIENTI per 4 persone Per il tuorlo: 4 uova

Cucinare le uova a 63ºC per 45 minuti in un termociclatore. Separare il tuorlo dall’albume e scartare quest’ultimo.

Per l’albume falso: ml. 200 di latte di cocco, g. 100 di Yam, sale, sifone a Co2 con due o tre ricariche.

LASAI

Rua Conde De Irajá, 191

Botafogo - Rio De Janeiro - Brasile Tel. (21) 3449-1834

www.lasai.com.br - lasai@lasai.com.br

Cuocere lo yam nel latte di cocco per 30 minuti. Aggiungere sale q.b. Mescolare e setacciare finché non rimane

uniforme e piatto. Mettere il tutto dentro un sifonde a Co2. Mantenere in caldo.

Per la pancetta: carne Scegliere un pezzo unico e lungo di carne.

Togliere il sale dalla carne da un giorno all’altro, cambiando continuamente l’acqua. Congelare per 24 ore prima

di lavorarla. Tagliare la carne ancora congelata con un’affettatrice. Disidratare la carne fino a farla rimanere ben croccante e secca.

PRESENTAZIONE

Al centro del piatto, collocare il falso albume che è nel sifone. Appoggiarvi sopra il tuorlo con un po’ di sale marino.

Su un lato del piatto, senza che venga a contatto né con l’albume né con il tuorlo, collocare la “pancetta”.

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GOURMETFOOD

BUENOS AIRES UNA CITTÀ PIENA DI SAPORE di

Flavia Tomaello

Buenos Aires è stata eletta Capitale Iberoamericana della Cultura Gastronomica per il 2017. Un percorso attraverso i suoi ristoranti ci spiega perchè questo titolo è più che giustificato. Mangiare a Buenos Aires è una delle esperienze più semplici e, al tempo stesso, una delle più difficili. La ragione sta nel fatto che l’offerta risulta praticamente infinita e nella maggior parte dei ristoranti - da quelli a cinque stelle fino alle piccole trattorie di quartiere - il cibo è in tutti i casi di buona qualità. D’altra parte però, scegliere un ristorante implica, per sua natura, scartarne molti altri. Come Capitale Latinoamericana della Cultura Gastronomica per il 2017, la principale città argentina ha davvero molto da offrire. Proveremo in questo nostro breve e, ovviamente, incompleto percorso, a descrivere la maggior parte del suo ampio spettro culinario.

UNA CUCINA CARNIVORA La prima domanda che ogni potenziale cliente deve porsi prima di scegliere un ristorante a Buenos Aires riguarda il tipo di cibo che intende portare alla bocca. E’ probabile che la risposta, almeno nella maggior parte dei casi, sia “carne”. Le specialità bovine in Argentina sono di prima qualità e si possono degustare sia nei locali di alto livello, come La Brigada (foto in basso) (Estados Unidos 465), a San Telmo, sia in piccoli locali che a malapena dispongono di una griglia (“asador”) e di pochi tavoli, come ad esempio Parrilla 1880, che si trova vicino al precedente locale (Defensa 1665, San Telmo), ma senza dimenticare locali a gestione familiare come quelli proposti da La Cabrera (foto in basso nella pagina accanto) (Cabrera 5099 o Cabrera 5127, a Palermo) oppure La Dorita (Arce 901, Belgrano; Bulnes 2593, Barrio Norte; Pierina Dalessi 1202, Puerto Ma-

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La Dorita

BUENOSAIRES

Parrilla 1880 Parrilla 1880

La Dorita

La Dorita

dero; Humboldt 1892, Palermo). Cosa conviene ordinare? Innanzitutto, delle frattaglie: le animelle sono di solito insuperabili, indipendentemente da dove la si ordinino e le trippe, se si preferiscono ben croccanti, non sono da meno. Tra i tagli tradizionali, vale la pena provare almeno una vola uno di questi: l’asado de tira (una lunga fetta di manzo non molto alta ricavata dalla parte bassa della costata, ndt), il vacío (un pezzo grande di seconda scelta del sottopancia, ndt), l’ojo de bife (o rib eye, un taglio del muscolo dorsale con un occhio centrale di grasso, ndt) e il bife de chorizo, (controfiletto, ndt). La città è piena di “parrillas” o ristoranti che servono carne alla griglia. Può essere che alcune generino sospetti perchè sono locali con poca illuminazione, con tavoli dalle tovaglie di colori tutti diversi o con le posate spaiate. Tuttavia la maggior parte di questi locali sa bene come offrire al meglio i suoi prodotti. Un’esperienza gastronomica sempre collegata alla carne a prezzo modico, porta a di dirigersi nela zona della Costanera Sur, per entrare in uno qualsiasi dei numerosi chioschi che si trovano vicino alla sponda e ordinare un choripán (sandwich di chorizo) o un bondiopán (sandwich con un pezzo di bondola di maiale).

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GOURMETFOOD

LO SPIRITO ITALIANO Anche gli amanti della pasta e della pizza hanno a disposizione un ventaglio di possibilità per soddisfare i loro appetiti. Di fatto il primo e più grande aflusso di immigrati che la Buenos Aires del XX° secolo ha ricevuto, è stato quello italiano e molti dei nuovi arrivati sono giunti a queste terre portando con sé i sapori dei loro Paesi d’origine. Per quanti vogliano allontanarsi circa 80km da Buenos Aires, sarà possibile arrivare a degustare le migliori fettuccine alla carbonara mai viste; si servono presso Italpast, Dellepiane 1050, nella località di Campana. Sono da evidenziare inoltre le proposte dello chef Donato De Santis (foto in alto) nella sua Cucina Paradiso (Arévalo 1538, Palermo) e Salgado Alimentos (Juan Ramírez de Velazco 401): un locale minimalista nelle vicinanze di Villa Crespo, un quartiere che non appare solitamente nei circuiti turistici, ma dove si prepara-

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no ravioli ripieni di “batata” (patata dolce), semplicemente perfetti. A La Boca - il quartiere del porto famoso per essere stato il primo approdo degli immigranti - sopravvive ancor oggi uno dei più grandi ristoranti di pasta della città: Il Matterello (Martín Rodríguez 547), che da alcuni mesi ha aperto anche un secondo locale nella zona più turistica di Palermo (Thames 1490). Nelle pizzerie è possibile richiedere come accompagnamento un vino dolce e leggero, denominato moscato e un tipo di focaccia originaria della città di Genova che si prepara con la farina di ceci e che tutti a queste latitudini dell’emisfero chiamano “fainá”. In questa categoria di locali segnaliamo El Cuartito (Talcahuano 937), Las Cuartetas (foto in basso) (Corrientes 838), Güerrín (Corrientes 1368), tutti ubicati nel centro, e inoltre Angelín (Córdoba 5270, Villa Crespo) o qualsiasi locale della catena Kentucky.


BUENOSAIRES

IL TOCCO D’AUTORE Negli ultimi anni, l’Argentina è diventata un Paese di grandi chef. E’ il caso ad esempio di Mauro Colagreco (foto in basso): nato nel 1975 a Buenos Aires e formatosi nelle migliori scuole alberghiere e di gastronomia di Francia, ha fatto incetta di ogni tipo di premio fin dal suo primo ristorante Mirazur, aperto a Mentone, in Francia nel 2006. Questo ristorante occupa la quarta posizione della classifica stilata per il 2017 in The World’s 50 Best Restaurantes. Nelle vicinanze di Buenos Aires Colagreco ha aperto due locali di “Carne”, proprio con l’idea di prepare degli hamburger con i migliori

ingredienti possibili. Il risultato è qualcosa assimilabile al cibo da fast food ma con uno stile gourmet. Per arrivare alla Carne bisogna spostarsi almeno 50 km a sud di Buenos Aires (Calle 50 número 452, La Plata) oppure circa due km verso nord (Libertador 2417, Olivos). Se muoversi non risulta un ostacolo, vale la pena fare circa 30km in direzione nord verso la località di Tigre e visitare la proposta gastronomica di Juliana López May (foto sotto), altra famosa chef del luogo: Boulevard Saenz Peña (Boulevard Saenz Peña 1400, Tigre), dove si mescolano gli oggetti decorativi che sono in vendita nel locale (chiunque può comprare la sedia dove si è seduto o il piatto dove ha mangiato) con i piatti fatti in casa da mani artigianali.

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GOURMETFOOD

Chila (Alicia Moreau de Justo 1160), della pluridecorata chef Soledad Nardelli (a lato), si trova a Puerto Madero, uno dei punti gastronomici più vigorosi di Buenos Aires. Tutti i sensi vengono qui soddisfatti (il volume della musica perfetto, l’illuminazione al punto giusto, le vetrate che danno sul fiume e che offrono bellissimi scenari, sia di giorno che di notte), l’ambiente è ideale e viene completato da un’iniziativa non molto usuale in Argentina: la cucina è a vista. Ogni piatto sempra essere preparato specialmente per quell’istante e con le richieste specifiche che il cliente richiede in quello specifico momento. Dal canto suo, Germán Maritegui (sotto), considerato il miglior chef argentino dalla prestigiosa rivista Restaurante, propone nel suo locale Tegui (Costa Rica 5852, Palermo) ricette a base di prodotti naturali, freschi, di stagione e semplicemente perfetti. Il locale manca di appeal esterno, una caratteristica che ha finito col diventare molto comune nella capitale Argentina, e che fino all’arrivo di Germán nessuno aveva adottato. Ossia, la facciata esterna del ristorante

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passa inavvertita come l’esterno di una qualsiasi casa del vicinato. All’interno tuttavia regna il minimalismo. Questo aspetto ha un obiettivo ben preciso: inizialmente si voleva infatti che il locale venisse visitato solamente dagli amici, ma ora è necessario prenotare con molto anticipo se ci si vuole assicurare un tavolo.


BUENOSAIRES

IL PIÙ ECONOMICO, IL PIÙ CARO Un’altra caratteristica della gastronomia di Buenos Aires è la sua qualità democratica: si mangia altrettanto bene sia nei locali di alto livello, che nei cosiddetti “bodegones”. Tra i primi, imperdibile l’Oviedo (Beruti 2602, Barrio Norte), da dove non si può uscire senza aver ordinato una tortilla española; Duhau Restaurante & Vinoteca (Av. Alvear 1661, Recoleta), uno spazio gastronomico dell’hotel Hyatt della città; Elena (Posadas 1086, Recoleta), la fantastica proposta culinaria dell’hotel Four Seasons; o La Bourgogne (Ayacucho 2023, Recoleta), l’emblematico ristorante simbolo del lusso, presso l’hotel Alvear. Da tutt’altro lato del portafoglio si trovano i “bodegones”: locali ampi e rumorosi, con menù lunghissimi per la cui lettura servono svariati minuti prima di decidere il piatto da ordinare (e ciò implica, come dicevamo all’inizio, che si lasciano fuori tutti gli altri) e con camerieri di lungo corso che riescono a memorizzare, senza sbagliare né un dettaglio né un’annotazione, gli ordini di una tavolata di venti persone. Dalla paella del Gijón (Chile 1402, Montserrat) fino alla tira de asado lunga un metro (né più né meno) de El Puentecito (Vieytes 1895, Barracas); dagli antipasti da antologia de Lo de Jesús (Gurruchaga 1406, Palermo) fino a qualsiasi piatto che esca dalla griglia de El Obrero (Agustín Caffarena 64, La Boca); dalle salsicce con i crauti (chucrut) del Bar Alemán (Av. San Martín 5992, Villa Devoto) fino alle interminabili portate di carne Ristorante Gijón alla griglia de El Ferroviario (Reservistas Argentinos 219, Liniers). Per concludere, quando si tratta di organizzare un percorso gastronomico per Buenos Aires, il visitatore si troverà di fronte a due condizioni inevitabili, una negativa e l’altra positiva: quella negativa sarà che avrà avuto la sensazione di essersene andato dalla città senza aver vistato alcuni ristoranti imperdibili. Quella positiva, che avrà sicuramente la pancia piena e un sorriso ben stampato sulla faccia.

Duhau Restaurante & Vinoteca

Ristorante Orviedo

Ristorante Orviedo Ristorante Bourgogne

Ristorante Elena

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INTERVISTA A...

ROBERTO NALDI UN ALBERGATORE NATO di

Lucy Gordan

Roberto Naldi è un hotelier nell’anima e nel cuore. Suo nonno Roberto Fernandes era un costruttore napoletano proprietario di 14 alberghi da lui costruiti tra Napoli, Sorrento, Capri e Roma. Suo padre Giovanni Naldi, anche lui costruttore/ingegnere, ha poi acquistato altri due alberghi a Lugano: nel 1977 lo Splendide Royale, nel 1984 il Grand Hotel Eden. Oggi ambedue sono proprietà di Roberto, che possiede anche il Parco dei Principi Grand Hotel e Spa, Splendide Royal e Mancini 12 a Roma, e Splendide Royal appena aperto a Parigi. L’anno scorso LHW (The Leading Hotels of the World) - associazione che raggruppa

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ROBERTONALDI

L’INTERVISTA i migliori 400 alberghi del mondo - ha conferito l’Happy Guest Award 2016 (uno dei riconoscimenti più ambiti tra gli alberghi di tutto il mondo) a Roberto Naldi, primo imprenditore italiano a vincere questo premio per il suo Splendide Royal a Lugano. Il premio è stato assegnato a Buenos Aires e in seguito, per ufficializzare la cosa, Nardi ha invitato alcuni giornalisti del turismo, compresa la nostra inviata speciale Lucy Gordan e la nostra collaboratrice Teresa Cremona, ad una serata esclusiva organizzata al “Mirabelle”, il ristorante rooftop con una stella Michelin del suo albergo Splendide Royal a Via Pinciana a Roma, dove Stefano Marzetti è l’Executive Chef.

Con una famiglia di costruttori e proprietari di grandi strutture ricettive, era quasi scontato che sarebbe diventato albergatore... No, devo dire la verità; non ci pensavo nemmeno. Da giovane avevo la passione per l’equitazione. Poi, nel 1977, quando avevo appena finito l’università (la mia laurea è in economia e commercio), mio padre mi ha chiamato per dirmi che aveva appena comprato un albergo, lo Splendide Royal a Lugano. Mi sono trasferito lì per studiare hotel management e lì sono rimasto due anni. Dove sono dislocati i vostri alberghi? Il nonno era proprietario di 14 alberghi. Noi siamo quattro fratelli e abbiamo diviso la proprietà del nonno: tre alberghi a testa tra Napoli, Sorrento, Capri e Roma. Poi papà ha comprato a Lugano e io lo Splendide Royal a Roma dove siamo ora e poi a Parigi, che sta aprendo adesso. È vero che è nato e cresciuto con gli alberghi nel DNA, ma avrà avuto un mentore. Chi era e che cosa ha imparato da lui o da lei? Mio nonno era il mio mentore perché mi portava con lui nei cantieri specializzati nella costruzione di alberghi. Non era un albergatore: dava in gestione le sue strutture. Da lui ho imparato l’organizzazione.

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INTERVISTA A...

Come mai è proprietario di tre alberghi a Roma? Ho una passione per Roma. Da adulto, esclusi i due anni trascorsi a Lugano, ho sempre vissuto qui al Parco dei Principi, in seguito ereditato. E qui sono nati i miei figli Giovanni e Adele (foto in basso). Roma è bellissima, ma speriamo che la aggiustino un po’. Un albergo non suo di cui le piacerebbe essere il proprietario? Il Connaught a Londra. Quali oggetti o abitudini che ha visto durante soggiorni in alberghi non suoi ha poi inserito nelle sue strutture? Faccio particolarmente attenzione ai bagni, che devono essere grandi e offrire tutti i comfort. Infatti, nel mio nuovo albergo a Parigi, i bagni sono 15 metri quadri e hanno il pavimento riscaldato. Anche qui allo Splendide Royal a Roma sto mettendo il pavimento riscaldato nei bagni. Quali caratteristiche hanno in comune i suoi sei alberghi? Il perfetto connubio tra tradizione e innovazione. La storicità degli edifici,

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la location strategica, la raffinata eleganza degli arredi, ed una ristorazione di altissimo livello. Tutti offrono una calda ospitalità e un’accoglienza personalizzata, tutti hanno un carattere fortemente italiano e uno spirito internazionale. Un motivo per soggiornare allo Splendide Royal di Lugano? Per la sua accoglienza vecchio stile: è il simbolo dell’architettura Belle Epoque con hôtelerie tipicamente svizzera unita a eleganza tipicamente italiana. Merita di sicuro il suo riconoscimento mondiale come vincitore dell’ “Happy Guest Award” 2016. E al Grand Hotel Eden di Lugano? Per la sua modernità e funzionalità, per la sua posizione sulla riva del Lago Ceresio.

Al Mancini 12 a Roma? Per la sua posizione che permette di uscire dall’albergo e stare in un attimo su Via del Corso.

Al Parco dei Principi Grand Hotel & Spa a Roma? La spa: è stata giudicata la migliore d’Europa. Ma anche per la piscina esterna e per la vicinanza a Villa Borghese. Le sale conferenze possono ospitare fino a mille persone.

Allo Splendide Royal di Roma? Per la sua posizione tra Via Veneto e il centro, per la veduta su Villa Borghese. Quando l’ho comprato, l’ho completamente ristrutturato e ho creato il ristorante sul tetto con la veduta a 360° su Roma.


ROBERTONALDI

Allo Splendide Royal a Parigi? Per la sua vicinanza all’Eliseo e alla Rue Sainte-Honoré. Quali sono le qualità per essere un albergo top? Un cinque stelle deve avere le camere con una grandezza adeguata agli standard delle camere di lusso, avere un ristoratore famoso e saloni elegantissimi. Però la caratteristica più importante che distingue un albergo da un altro è il servizio. E quali sono le qualità essenziali per essere un albergatore eccellente? La passione, la passione di creare un albergo che rispecchi i propri gusti

personali e allo stesso tempo l’identità del luogo, della città in cui si trova. Deve poter creare un albergo che non è uguale ad altri, con un top chef e una vista panoramica, con personale il più professionale possibile. Se il mio personale sta bene, ha poi la capacità di far stare bene gli ospiti. Che cosa ama di più del suo lavoro? Poter assicurare benessere ai miei clienti. Se i miei clienti stanno bene, tornano. Di meno? La burocrazia. I politici italiani devono capire che in questo momento di difficoltà economica per l’Italia, il turismo

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INTERVISTA A...

INTERVISTA A

resta un fattore chiave prioritario per lo sviluppo e il rilancio del Paese. Quale importanza hanno le guide? Sono importanti per chi va in un posto che non conosce. Ha in programma di aggiungere altri alberghi ai suoi sei nel prossimo futuro? Dove? A Londra spero. Dopo Roma c’è Parigi e dopo Parigi c’è Londra. Si dice che lei sia un gourmet. Quali sono i suoi piatti preferiti? Gli spaghetti pomodoro e basilico. Più sono semplici i piatti, più sono difficili da preparare. Poi amo la pezzogna, un pesce che si trova soltanto nelle acque vicine a Capri. Sta in profondità. La mia ricetta preferita è riso al salto con ossobuco, pezzogna, capperi, olive e pomodori freschi Montblanc. I miei vini preferiti sono ‘Habemus’ San Giovenale (un rosso del Lazio) e Isole Olena Chardonnay Collezione Privata (un bianco della Toscana). Lei è un’amante delle arti: quali? Delle sculture di Mitoraj. Alcune le ho messe a Parco dei Principi Grand Hotel & Spa sia all’esterno, sia all’interno, e poi anche qui e a Parigi. Da ragazzo suonavo il violino. Ha una collezione? Sì, di sculture di Mitoraj. Ha un sogno nel cassetto? In realtà non ne ho. Sono contento di fare un passo per volta. Un albergo a Londra e poi mi metto tranquillo.

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STEFANO MARZETTI

CHEF EXECUTIVE ALLO SPLENDIDE ROYAL DI ROMA A cosa collega la sua passione per il cibo? Mia madre, che era di origine umbra, di Otricoli, era cuoca professionista in una trattoria romana. Quando era libera la domenica, io e lei facevamo gli gnocchi romani. Lei, che putroppo non c’è più, mi ha trasmesso l’amore per la cucina e per cucinare. Cucinava con il cuore e io dico sempre ai miei ragazzi in cucina che la passione è l’ingrediente segreto per fare il piatto perfetto. Lei è romano e ha quasi sempre lavorato a Roma; che cosa ama della “città eterna”? Non esattamente, ho girato parecchio in Italia. Da giovane ho lavorato per diverse stagioni presso il famoso “Forte Village” in provincia di Cagliari. Ho fatto la gavetta da Heinz Beck a “La Pergola” e poi a “Il Convivio” qui a Roma. Poi ho lavorato come sous chef presso il Relais “Villa Arceno” e al Relais Châteaux “Borgo San Felice” in Toscana, prima di un lungo percorso all’ “Antico Arco” qui a Roma dove sono diventato execu-

tive chef. Per quanto riguarda Roma, amo le vedute sopra i tetti come da qui al “Mirabelle”: San Pietro, le viuzze di Trastevere, il Giancolo, i quartieri La Garbatella o Testaccio e Lungotevere. Ogni angolo di Roma è una sorpresa, ogni zona ha il suo profumo, la sua storia. Amo la storia di Roma, i Fori Imperiali. Noi romani non valorizziamo abbastanza queste bellezze.


STEFANOMARZETTI

Oltre alla mamma, chi è stato il suo mentore? Che cosa ha imparato da lui o lei? Moreno Picchetti mi ha insegnato a volorizzare il gruppo e quant’è importante il lavoro di squadra. Da Giuseppe Sestito ho imparato il rispetto per la materia prima, e da Heinz Beck l’organizzazione, la passione senza guardare l’orologio mai, la devozione al lavoro, la concentrazione e la determinazione (le qualità classiche del tedesco). Tutte le mie varie esperienze di lavoro mi hanno fatto capire che per diventare un top chef bisogna mettere tanto impegno, fare tanti sacrifici, fare la gavetta, iniziare da giovane. Ma quando c’è passione, il tempo sembra quasi fermo e il sacrificio non pesa. Da divertimento, cucinare per me è diventato il mio stile di vita. Da quando il Mirabelle ha la sua stella Michelin? Dal 2011. Giuseppe Sestito era l’executive chef ed io souschef dal 2009. Le qualità essenziali per essere top chef? La passione prima di tutto, poi la costante ricerca della materia prima, di nuovi prodotti di altissimo livello di cui l’Italia è piena, la costruzione della brigata e la continua autocritica. Un top chef non deve sentirsi mai arrivato. Il suo talento deve essere confermato giorno dopo giorno. Un top chef deve essere quasi uno psicologo per gestire bene la propria squadra. Per esempio, qui in cucina siamo in 15: la squadra è come la famiglia, siamo insieme tante ore al giorno. Ogni

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GOURMETFOOD

membro della squadra deve fare la sua mansione. I nostri piatti devono lasciare all’ospite un’emozione, un bel ricordo. L’aspetto del suo lavoro che ama di più? La creatività. Di meno? Le tante ore al giorno di lavoro perché significa che non ho abbastanza tempo da dedicare alla mia famiglia. Poi anche il fatto che non posso passare le festività insieme a loro. Più cresce il livello professionale, più manchi a casa.

CAPPELLOTTI

di pasta fresca con farcia di coda alla vaccinara in brodo di sedano INGREDIENTI per 4 persone

g. 500 di farina 00, 6 uova intere, olio evo, sale q.b., kg. 1,5 di coda di vitella (no vi-

tellone), kg. 1 di sedano, g. 200 di carote, 2 cipolle bianche, g. 25 di cacao amaro in polvere, 2 arance grattugiate (solo la buccia), ml. 100 di vino bianco, 3 foglie di alloro,

4 chiodi di garofano, 2 spicchi d’aglio, g. 15 di uvetta, g. 20 di pinoli, ml. 100 di vino rosso, l. 3 di acqua. PREPARAZIONE

Preparare la pasta fresca miscelando tutte le uova e tutta la farina dentro una planetaria

aggiungendo un goccio d’acqua, olio evo e un pizzico di sale; ottenere la giusta consistenza. Far riposare la pasta fresca in frigorifero e chiuderla con la pellicola.

Tagliare la coda a pezzi e farla rosolare con un fondo di carote, sedano e cipolla; ag-

giungere anche le foglie d’alloro e i chiodi di garofano. Bagnare la carne con vino rosso e aggiungere pinoli, uvetta e buccia d’arancia; coprire la pentola con un coperchio

e cuocere a fuoco molto basso per circa 2 ore aggiungendo ogni tanto un bicchiere d’acqua per ottimizzare la cottura. Una volta cotta la carne, pulirla ricavando tutta la polpa possibile.

Con le ossa realizzare il brodo ristretto partendo con acqua fredda (3 litri) e sedano abbondante (circa g. 600); il brodo deve bollire per circa 1 ora poi viene filtrato e viene ri-

messo in pentola dove va ristretto per altri 20 minuti a fuoco vivace. Il brodo servirà per cuocere i cappellotti (circa 5 minuti) da quando bolle. Nel frattempo battere al coltello

la polpa di coda di vitella ottenendo una farcia compatta che sarà il nostro ripieno; util-

lizando una sac à poche incominciare a preparare i cappellotti di pasta fresca. Stendere la pasta più sottile possibile e, con degli stampi, ottenere dei cerchi dove andrà la farcia; chiudere i cappellotti e passare alla cottura nel loro brodo.

Servire in un piatto fondo con abbondante brodo e completare con una guarnizione di cubetti di sedano e carota e alcuni pezzi di vitella sfilacciata.

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Come definerebbe la sua cucina in poche parole? Passionale, creativa, anche viscerale, che valorizza il mio sforzo della ricerca per l’ottima materia prima, ma che allo stesso tempo è concreta, ed è in costante crescita. Le sue specialtà? La carne cotta a bassa temperatura,


STEFANOMARZETTI

che valorizza la materia prima ed evita lo spreco. Sono un amante del pane e della pasta, fatti in casa naturalmente. Quando parlo di cucina come adesso con lei, mi brillano gli occhi. Crede nei giudizi delle guide? Sì, ma in poche perché, secondo me, adesso ce ne sono troppe, troppe persone che cantano, troppe voci nel coro. Un buon consiglio da un professionista vero è fonte di miglioramento. I suoi vini preferiti? I rossi toscani, della Cantina Bulgari in particolare. Anche dei bianchi, d’estate. Altri chef che ammira e perché? Heinz Beck perché è uno chef, un’imprenditore, e una persona che ha fatto tanto anche per Roma. Ammiro anche Francesco Apreda: ci scambiano delle idee, dei consigli. È una persona genuina, vera, e alla mano. La cucina è convivalità, non è soltanto mangiare, è stare insieme.

LINGUINE

di farro e orzo con gamberi rossi, cime di rapa e fagiolina d’Arsoli INGREDIENTI per 4 persone

g. 400 di linguine, 8 gamberi rossi, g. 500 di cime di rapa, g. 250 di fagiolina d’Arsoli, 2 spicchi d’aglio, 2 foglie di alloro, 1 carota, 2 coste di sedano, 4 pomodori

rossi, rosmarino, olio extravergine d’oliva, pepe nero, peperoncino, 1 bicchiere di vino bianco.

PREPARAZIONE

Per prima cosa lavare in acqua corrente e mettere a bagno la fagiolina d’Arsoli sempre con acqua tiepida e leggermente salata per circa 12 ore. Passare alla cottura della

fagiolina d’Arsoli in acqua fredda con carote, sedano, rosmarino, aglio e foglie di alloro; cuocere per 1 ora circa e lasciarla raffreddare nel suo liquido. Consigli per la

cottura: cuocere la fagiolina con il minor quantitativo possibile di acqua (ed eventualmente aggiungerne di bollente durante la cottura, se neccesario) e in pentola stretta ed alta (meglio se di coccio).

La cottura deve essere fatta a fuoco molto lento, tale da non provocare una violenta

ebollizione, ma un calmo “borbottio”. Nel frattempo pulire le cime di rapa per poi lessarle in acqua salata per qualche minuto; bloccare la cottura in acqua fredda. Pulire tutti i gamberi rossi e metterli in frigorifero; con la testa fare un fondo con aglio e

pomodori rossi, sfumare con il vino bianco e cuocere per 20 minuti. Successivamente passare tutto al passino (così facendo otterremo una salsa di pomodoro ai gamberi che servirà succesivamente per mantecare le linguine).

Fase finale della ricetta: preparare in una padella molto larga la salsa aglio, olio e

peperoncino; unire le cime di rapa, i gamberi tagliati a cubetti e la salsina al pomodoro. A questo punto cuocere la pasta e, a metà cottura, scolarla e continuare la cottura in padella nella salsa aggiungendo gradualmente la fagiolina d’Arsoli con tutti i liquidi della sua cottura.

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Giovani talenti

TRA I BOSCHI DEL MOLISE

STEFANO RUFO REALIZZA UNA CUCINA TERRITORIALE DI PREGIO di

Maria Chiara Zucchi Andrea Amadori

foto di

UN

locale sperduto tra i monti, una regione, il Molise, non certo ai primi posti nelle attività di comunicazione (e nelle strade di comunicazione purtroppo): gli handicap per non riuscire ad emergere professionalmente ci sono tutti. Fortunatamente il talento oggi ha altri strumenti per mettersi in evidenza e Stefano Rufo li ha utilizzati con caparbietà perché la cucina era nel suo DNA familiare, ma l’evoluzione che lui ha saputo compiere, da quelle parti e con quei limiti oggettivi, è stata qualcosa di simile ad un volo acrobatico senza rete.

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STEFANORUFO

Eppure lui, dopo la Scuola Alberghiera a Roccaraso e con l’ingresso nell’azienda di famiglia a soli 14 anni (nella macelleria e norcineria che si tramanda da 4 generazioni) è riuscito a trasformare una locanda a fortissima vocazione tradizionale – di ottimi prodotti, certo, ma dalle caratteristiche un po’ troppo popolari – in una piccola oasi di eccellenze, trasformate con capacità e buongusto. La famiglia lo ha assecondato e quindi le carni di allevamento e la selvaggina locale abbinate agli ortaggi di matrice antica come il cavolo minestra o certe erbe del sottobosco concorrono a ricreare con stile contemporaneo piatti della memoria dai sapori straordinari, ormai inconsueti nei ristoranti che utilizzano prodotti standardizzati. Ma qui siamo nei boschi delle Mainarde, alla sorgente del Volturno e qui cinghiali, caprioli, daini, tassi e aquile vivono in un ecosistema naturale ancora inalterato. E’ sicuramente dagli antenati Sanniti Pentri – tra i primi produttori di burro, che Stefano Rufo utilizza proprio in omaggio alla tradizione – che lo chef ha ereditato il coraggio orgoglioso e identitario e quel senso di libertà che si ritrova in piatti energici e leali. Complice in quest’opera di recupero e rinnovamento il sous chef Gianfranco Notarbartolo, forte della preparazione ad Alma e di un personale gusto estetico e creativo.

FILETTO DI MAIALE misticanze e frutta

INGREDIENTI per 4 persone

2 filetti di maiale (circa g. 700), 2 cucchiai senape, 4 cucchiai senape

gialla in polvere, g. 200 di sale, g. 5 di pepe bianco, g. 200 di zucche-

ro, olio evo, balsamico tradizionale, misticanza (lattuga, radicchio, rucola), frutta (mela rossa, kiwi).

Per cialda al finocchietto: g. 100 di acqua, g. 20 di farina, g. 50 di olio di semi di arachidi, g. 5 di semi di finocchietto. PREPARAZIONE

Marinare i filettini in un contenitore chiuso per almeno 12 ore con

sale, pepe, zucchero e senape. Passato il tempo, prendere il filettino marinato, cospargerlo di polvere di senape e metterlo a rosolare

sfumandolo con l’aceto balsamico tradizionale. Inforniamolo a 160°C

con la sonda, facendogli raggiungere una temperatura al cuore di 67°C e poi passarlo in abbattitore.

Per la cialda: porre tutti gli ingredienti in una ciotola e impastare;

ottenuto un impasto omogeneo, in una padella antiaderente a fuoco LOCANDA BELVEDERE

medio creare le cialde. Mondare le insalatine e spezzettarle grossola-

Fraz. Castelnuovo al Volturno

Disporre in un piatto la misticanza ed adagiarvi sopra il filettino

Località Pratola - 86070 - Rocchetta a Volturno (CB) Tel. +39 338 17 30 892

www.locandabelvedere.eu - stefanorufo@alice.it

namente con le mani, condendo con sale e olio evo.

precedentemente tagliato. Condire con aceto tradizionale e infine disporre la cialda e la frutta tagliata a macedonia.

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Giovani talenti

FILETTO DI VITELLONE MOLISANO INGREDIENTI per 4 persone

4 medaglioni di filetti di vitellone bianco

dell’appenino centrale (g. 250 l’uno), olio evo, g. 100 di farina, 1 tartufo scorzone,

g. 200 di Porto, g. 200 di tintilia, g. 60 di zucchero semolato, g. 300 di cicoria, 1 aglio rosso di Sulmona, 1 peperoncino, sale e pepe q.b. PREPARAZIONE

Legare il filetto, passarlo nella farina e sof-

friggeremo in olio evo aggiungendo sale e pepe q.b. Una volta ben rosolato da tutti

i lati, porlo su una griglia e finire la cottura in forno a 180°C fino a raggiungere una temperatura al cuore di 55°C; la padella in cui è stato cucinato il filetto verrà poi deglassata

con il vino Porto. Pulire un tartufo, tagliarlo a fette e metterlo a marinare nella salsa prece-

dentemente raffreddata. A parte mondare la cicoria, lessarla e poi saltarla in padella con

aglio, peperoncino e olio evo. Ridurre la tintilia insieme allo zucchero fino ad ottenere uno sciroppo leggero. Adagiare in un piatto un letto di cicoria, poi il filetto, la fetta di tartufo, la salsa al Porto e qualche goccia di tintilia.

TORTINO BELVEDERE INGREDIENTI per 4 persone (4 tortini)

limone per non farla ossidare; tagliare anche il cioccolato sminuzzandolo con un coltello e

di olio evo, g. 25 di latte intero, g. 50 di

Unire tutto al composto precedentemente preparato e ultimare con il lievito e la vaniglia.

1 uovo, g. 50 di zucchero semolato, g. 50 farina 00, g. 25 di farina integrale, g. 20 di

miele di castagno, 1 mela, 1 limone, g. 50 di cioccolato fondente, g. 40 di nocciole, g. 2 di lievito, una puntina di vaniglia, sale. PREPARAZIONE

In una planetaria mettere a sbattere l’uovo con lo zucchero fino a quando non risulterà montato, quindi aggiungere l’olio, il latte, il miele, il sale e dopo la farina.

Nel frattempo sbucciare

la mela e tagliarla a quadrettini; spruzzarvi sopra un po’ di succo di

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mettere a tostare le nocciole.

Imburrare gli stampi per i tortini e, aiutandosi con una sac a poche, riempirli. Infornare a 170°C per 25 minuti.


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STEFANO RUFO INTERPRETA

PANCIOTTI CON FINFERLI E FONTINA DOP lardo, pomodorini e balsamico INGREDIENTI per 4 persone

12 Panciotti con finferli e fontina DOP

Divine Creazioni Surgital, 12 pomodori datterini gialli, 12 pomodori ciliegino, 12

fette di lardo, aceto balsamico tradizionale aglio rosso di Sulmona, scalogno, olio evo, basilico, sale q.b. PREPARAZIONE

Sbollentare i datterini e cuocerli in forno a vapore in un vaso ermetico a 90°C per

un’ora; una volta cotti, saltarli in olio evo con uno spicchio d’aglio in camicia.

Tagliare 6 pomodori ciliegino a metà e i

rimanenti ad un quarto; tritare lo scalogno

finemente e soffrigerlo in padella con olio evo e sale.

Mondare il basilico, lavarlo e sbollentarlo per pochi secondi; raffreddarlo in acqua e ghiaccio, metterlo in un bicchiere ed emulsionarlo con l’aggiunta di olio evo con il minipimer. Cuo-

cere in abbondante acqua salata i

Panciotti con finferli e fontina DOP,

scolarli e disporli nel piatto appoggian-

doci subito sopra le fettine di lardo e co-

spargendoli coi pomodorini, la salsa di basilico e l’aceto balsamico tradizionale.

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Giovani talenti

SCRIGNI CACIO E PEPE con ragĂš di agnello e pistilli di zafferano

INGREDIENTI per 4 persone

20 Scrigni cacio e pepe Divine Creazioni Surgital

g. 280 di agnello 1 cipolla

g. 40 di burro

g. 150 di panna fresca g. 50 di parmigiano 4 uova di quaglia

g. 1 di pistilli di zafferano

g. 15 di cioccolato fondente 70% aglio rosso di Sulmona trebbiano

prezzemolo rosmarino sale q.b.

PREPARAZIONE

Rosolare in olio evo la carne di agnello

tagliata a piccoli quadrati, precedentemente marinata in vino, aglio, prezzemolo e rosmarino.

A parte far inbiondire nel burro la cipolla

dove aggiungeremo la panna, il parmigiano grattuggiato e lo zafferano. Tenere

il composto ottenuto a bagnomaria per non farlo solidificare e utilizzarlo succes-

sivamente per l’assemblaggio finale della ricetta. Disegnare sul piatto dei cerchi con la crema allo zafferano alternandola

con gli Scrigni, il ragĂš di agnello, i pistilli

di zafferano e le uova precedentemente fritte in olio evo ed insaporite con cristalli di sale, finendo con una grattugiata di cioccolato.

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Giovani talenti

I MAMMOLI DI PATATA VIOLA su fonduta di caciocavallo roveglia e spinaci INGREDIENTI per 4 persone

g. 800 di Mammoli di patata viola Divi-

ne Creazioni Surgital, g. 120 di roveglia,

g. 80 di spinaci, 1 carota, 1 costa di sedano, 1 cipolla (per il brodo), 1 spicchio

d’aglio rosso di Sulmona, 1 limone, olio evo, sale q.b.

Per la fonduta di caciocavallo

g. 280 di panna fresca, g. 200 di cacioca-

vallo podolico semistagionato, g. 30 di burro, g. 5 di farina, pepe bianco q.b. PREPARAZIONE

Per la fonduta: preparare un roux con burro e farina in un tegamino, poi aggiungiamo la panna, il pepe e il caciocavallo,

girando continuamente con una frusta fino allo scioglimento. Tenere il composto ottenuto a bagnomaria per non farlo soli-

dificare e utilizzarlo successivamente per l’assemblaggio finale della ricetta.

Mondare gli spinaci tenendo da parte le

foglioline tenere centrali e scottare quelle

esterne, che poi salteremo in olio evo con uno spicchio d’aglio in camicia e sale.

Cucinare la roveglia in acqua con sedano, carota e cipolla per un’ora e mezza.

In acqua bollente salata, lessare i Mam-

moli di patata viola che andremo ad adagiare sul letto di fonduta e chiudere con la

roveglia, le foglie di spinaci e la buccia del limone grattugiata.

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Giovani talenti per

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Buone Nuove

le novità del mese

“FREDDO ASSICURATO” PARTE LA NUOVA POLIZZA DI ELECTROLUX PROFESSIONAL E GENERALI ITALIA

BN

Electrolux Professional e Generali Italia propongono ai professionisti della ristorazione una nuova polizza assicurativa che copre, in caso di mancato freddo, il valore delle derrate alimentari stoccate all’interno di frigo e freezer powered by Electrolux. Da oggi Electrolux Professional e Generali Italia insieme per difendere la freschezza, la qualità dei cibi e per proteggere la profittabilità delle imprese di ristorazione. Da questa prestigiosa partnership nasce la polizza “Freddo assicurato”. Dal 18 aprile al 1 ottobre 2017, acquistando un frigorifero o un tavolo refrigerato della gamma ecostore di Electrolux Professional, i

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professionisti della ristorazione e dell’ospitalità possono usufruire dell’esclusiva copertura “Freddo assicurato”, l’assicurazione che si prende cura degli alimenti conservati all’interno di frigo/freezer in caso di “mancato freddo” . Una novità assoluta nel mondo della ristorazione perché permette al cliente di non doversi più preoccupare del deterioramento delle derrate alimentari e loro perdita, vero valore per qualsiasi attività di ristorazione. La gamma ecostore, attualmente riconosciuta come best-in-class per prestazioni ed efficienza energetica posizionandosi in classe A nella nuova Etichetta Energetica Europa, con que-

sta nuova polizza si arricchisce di un ulteriore plus diventando un’ alleata indispensabile in cucina. “Electrolux Professional, promotrice di una refrigerazione responsabile attenta a qualità, ambiente e costi di gestione, offre con questa partnership un incentivo in più per l’acquisto di prodotti della gamma ecostore. L’iniziativa rientra nel percorso aziendale a sostegno e supporto di un’idea di ristorazione intelligente, attenta al food cost e agli sprechi.” Afferma Massimo Presot, Direttore Marketing Electrolux Professional Italia.

www.electrolux.it



PRODOTTI ECCELLENTI

LA SPALLA CRUDA DI PALASONE SISSA di

Antonietta Mazzeo

“Se il Culatello di Zibello è unanimemente riconosciuto quale Re dei salumi, la Spalla cruda di Palasone Sissa ne è senza dubbio la Regina” La Spalla Cruda, detta di Palasone - minuscola frazione di Sissa, nell’antichità importante centro politico e religioso, ricco di acque e di terre fertili, crocevia di eserciti e merci tra le due sponde del Po - vanta il primato di essere il più antico salume della Bassa Parmense, se ne parla già nell’inventario dei beni dei monaci dell’abbazia di Palasone nel 1.170. Identificabile dal marchio adottato dalla Consorteria della Spalla Cruda di Palasone, il prodotto può provenire solo dagli stessi otto comuni della Dop del Culatello di Zibello; Polesine Parmense, Busseto, Zibello, Soragna, Roccabianca, San Secondo, Sissa e Colorno. I produttori aderenti e riconosciuti dal consorzio sono: Az. Agr. Bré Del Gallo Podere Cadassa – Al Vedél La Boutique delle Carni e dei Salumi di Parenti Giulio La spalla, che in altre regioni viene disfatta e macinata nell’impasto di salami e cotechini, qui trova dignità di grande salume. Viene realizzata “disossata” o “con osso”; quest’ultima, più antica e più pregiata, oggi viene prodotta solo in pochissimi pezzi, per la maggior parte destinati all’autoconsumo. I principali ingredienti per la produzione della Spalla Cruda di Palasone Sissa sono: • le fitte nebbie che gravano sul territorio per parecchi mesi all’anno e che garantiscono quell’umidità e quel microclima che crea salumi inconfondibili per gusto ed aroma; • le vecchie e buie cantine delle case coloniche; • la maestria dei norcini; • i maiali ben ingrassati, secondo tecniche di allevamento collaudate da secoli di esperienza. La lavorazione mette in luce tutta la maestria del masalen o norcino, che si deve confrontare con un taglio difficile da realizzare e da stagionare correttamente. Per entrambe le versioni, la produzione si concentra nei mesi invernali, nei quali le rigide temperature aiutano la conservazione: si parte dalla spalla anteriore del

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suino pesante. (dai 220 fino ai 250 kg), dall’unione del muscolo sovraspinato e sottospinato dell’arto anteriore. La carne è salata leggermente, per non più di cinque giorni, insaccata all’interno della vescica naturale e legata manualmente. Ha la stessa forma di un Fiocco di Culatello, ma si può distinguere grazie al pezzo di corda che cade a penzoloni nella parte inferiore. Salume raro, prezioso e Presidio Slow Food, è prodotta con criteri ancora artigianali, partendo da un’accurata selezione delle carni e una lunga stagionatura di almeno 12/15 mesi nelle secolari e buie cantine coloniche della bassa parmense; la luce potrebbe danneggiare il grasso di superficie che la avvolge e che serve a mantenere tutta la pastosità della Spalla Cruda di Palasone. Al momento di immetterla al consumo una spalla pesa tra i 2,5 e i 3 kg. Al taglio, la fetta si presenta rosso vivo intenso, quasi rubino, con una presenza visibile delle nervature e delle parti grasse che devono essere di un bianco lucido e brillante, eventualmente solo un po’ rosato. Al naso è fragrante, intensa, con leggere sfumature ammoniacali (tipiche dei salumi insaccati nella vescica) che svaniscono con il tempo. In bocca è dolce, fragrante, con sentori che ricordano la castagna, la carne è di buona qualità e con un cenno lieve, appena percettibile, di pepe.



ILFOCUSDIALESSANDROMAGNUM

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”

CI DOBBIAMO AFFIDARE A

OPINION LEADER O GUIDE PER L’ACQUISTO DEL VINO?

Ok, va bene, questo articolo potrebbe piacere non proprio a tutti ma sembra giunto il momento di fare un po’ di chiarezza sul ruolo degli opinion leader e delle guide nell’acquisto del vino. La figura del degustatore di vino non è un’invenzione dell’epoca moderna. Già ai tempi dei romani esistevano gli “austores”, i governatori delle cantine, di fatto dei veri e propri assaggiatori. Ciò nonostante bisogna aspettare fino al 1312 per la nascita della prima associazione di categoria o organizzazione che dir si voglia, merito del re francese “Filippo il bello” che costituì l’organizzazione dei “Sensali - Buongustai - Degustatori di vini”. Nel 1557 la comparsa della prima guida: “Della natura dei vini e dei Viaggi di Paolo III”, opera di Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, che analizza e racconta gusto e retrogusto, profumi e aspetto di circa 50 vini selezionati durante i viaggi del Papa e suggerisce anche per ogni vino stagione, stato d’animo e circostanza ideale per gustarlo. Nel 1793 viene riconosciuta dai lessicografi la figura dell’assaggiatore ovvero colui il cui mestiere è di degustare i vini. Nel 1813 il verbo “degustare” apparve nei testi ufficiali. Bene, questo è il passato. Parliamo del presente e del futuro che mi aspetto. La degustazione del vino è la codifica di una quantità di sensa-

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zioni e stimoli sensoriali percepiti contemporaneamente oppure in successione. Il nostro bulbo olfattivo è collegato sia all’amigdala (centro delle emozioni) sia all’ippocampo, area del cervello coinvolta nella memoria. Dunque emozioni, memoria, sapori ed odori sono strettamente legati tra loro. Esiste un flusso continuo di sentimenti che scorre parallelo al flusso dei nostri pensieri, come se fossimo dotati di due menti: una che pensa, l’altra che sente. La ragione non domina la percezione delle emozioni sensoriali. Intelletto ed affetto si intrecciano inconsciamente. Se un profumo o un sapore ci evocano dei ricordi, delle sensazioni piacevoli o sgradevoli, il nostro parere su quel profumo o quel sapore non sarà condizionato? Mi chiedo, il più grande assaggiatore professionista riesce ad interpretare gli stimoli sensoriali e ad analizzare i caratteri organolettici di un vino, tenendo a bada la sua amigdala (centro da cui partono le nostre emozioni - n.d.r.)? Detto ciò, che senso ha scegliere un vino semplicemente perché ha avuto 3 bicchieri, 5 grappoli, 100/100 o quel che sia? Le guide si basano su un grande paradosso: l’applicazione di un metodo oggettivo che si basa su strumenti soggettivi (i sensi). Vero è che in Italia abbiamo palati più che autorevoli alla guida


ILFOCUSDIALESSANDROMAGNUM

delle testate di riferimento del mondo del vino, come per esempio Gambero Rosso, Espresso, Veronelli, le varie associazioni Sommelier, etc.. E’ anche vero che negli ultimi anni sono stati elevati a opinion leader in Italia (cosa che all’estero è di moda da sempre – Robert Parker, Antonio Galloni, Jancis Robinson, James Suckling ed i vari Masters of Wine per citarne alcuni) che non fanno parte di un team ma che giudicano direttamente senza nessun gruppo di lavoro, riportando un giudizio che è la somma del proprio singolo pensiero, e qui potrei citare i vari Luca Gardini, (unico italiano entrato a far parte di Wine-Searcher il più grande motore di ricerca di vino al mondo) oppure Daniele Cernilli tanto, per fare qualche esempio. Ok, ammesso che ci piaccia un singolo palato o la somma di più palati (curatori e team di selezionatori), la mia domanda (alla quale non sono io a poter dare una risposta anche perché estremamente soggettiva) è la seguente: ma è meglio un singolo palato o la somma di più palati come metro di giudizio per un vino ? Ma farei un passo indietro e tornerei all’assaggiatore. Credo che il grande assaggiatore in fin dei conti soffra di una forma di autismo, ma proprio qui, a questo punto della nostra storia, mi pongo una domanda successiva, ovvero: quanto l’autismo degustativo (battezziamolo così) può essere tradotto in qualcosa di concreto. Mi spiego meglio: un grande degustatore deve avere anche il carattere per poter spingere le proprie idee o i propri giudizi a livello mediatico contro tutto e contro tutti. Attenzione io parlo di carattere non di capacità.

Credo che a volte siano emersi soggetti forse meno bravi sul bicchiere proprio perché in possesso di un carattere più forte di altri considerati più dotati (per esempio, chi ha conosciuto Veronelli personalmente, me l’ha descritto come il più grande combattente ma forse non il più grande palato, anche se parliamo di altri tempi). Mi pongo anche un’altra domanda da tempo, ma il grande opinion leader deve valutare un vino oggi oppure il ruolo che avrà in futuro? Ricordiamo che le guide dei vini sono strumenti di divulgazione con fini commerciali e che gli interessi economici sono la rovina dell’umanità. Secondo molti l’ideale sarebbe avere un naso, un occhio e un palato elettronico, un database popolato con dati significativi e un algoritmo che riesca a dare il punteggio veritiero a ciascun vino; secondo me no: si perderebbe ogni significato ed il fascino dell’errore e della visione futura, un po’ come l’elemento elettronico nel mondo del calcio che toglierebbe significato al ruolo dell’arbitro, ovvero il giudizio umano. E non finisce qui, ma attenzione: non pensate che io ce l’abbia con le guide o gli opinion leader del settore, semplicemente non mi va che vengano considerate come Bibbia della verità, perché in fatto di vino si può parlare sì di qualità - e su questo non ci piove - ma il gusto è assolutamente soggettivo! Se così non fosse basterebbe un solo ed unico inventario, anzi un album delle figurine dei vini d’Italia! Lascio a voi la conclusione o aumento il vostro dubbio, ma questo è e sarà sempre uno tra i più grandi elementi di discussione del mondo del vino.


VINARIA

SI SCRIVE

CHABLIS

SI LEGGE CHARDONNAY di

Marco Tonelli

C’era a metà dell’800, ubriacando una Parigi prima rivoluzionaria poi napoleonica, ma c’era anche nel nostro Paese, quando dalle cuffie del walkman arrivavano, in pieni anni ’80, le note di una delle tante hit dei Duran Duran. Chablis ha sempre spopolato. Parlo di fama e diffusione, ma anche nel senso etimologico del termine. Un dato? Se sino all’800 a Chablis si contano 40000 ettari vitati, con la fine dello stesso secolo arriva prima la filossera a sterminare le viti e poi due guerre mondiali a decimare le vite di chi le coltivava. Gli ettari vitati crollano, a beneficio di quelli dedicati ai seminativi. La chimica, oggi tanto demonizzata, associata a quella macchinazione che ha un forte alleato nelle colline, mai troppo ripide, della zona, paradossalmente rilanciano la viticoltura di Chablis. Finendo di dare i numeri, oggi siamo a quota 5000, sempre e rigorosamente dedicati solo allo Chardonnay; vitigno che qui acquisisce molti elementi di tipicità,

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se non addirittura di unicità. Il terreno di Chablis non assomiglia a quello della Borgogna. Sulle rive destra e sinistra della Serein - fiume che taglia in due zone il territorio - c’è abbondanza di calcare marnoso. Per i patiti di geologia si chiama Kimmeridgiano, in ossequio all’era geologica in cui si formò. Fondale marino, come testimoniano le piccole conchiglie che non di rado si incontrano lungo i vigneti, questo ‘pavimento’ caratterizza in maniera evidente i vini che da qui derivano, connotandoli con una grande sapidità. Se di unicità avevamo parlato, il concetto si estende dalla vigna alla cantina, con un contenitore dedicato: la feuillette. Botte piccola vino buono dice il proverbio, e questo contenitore da 132 litri, oggi purtroppo poco usato, non solo aiutava i vini della zona ad essere trasportati agevolmente fino a Parigi, ma contribuiva in piccola parte a smussarne il rigore o in alcuni casi la rigidità tutta acidità e sapidità. Oggi


CHABLIS

Chablis mostra un profilo produttivo ancora poco leggibile, forse perché ancorato a logiche di rese elevate e di conseguenti ricavi. Lo stile delle diverse realtà produttive appare perciò ancora piuttosto disomogeneo, con grandi stelle, brillanti per qualità ma anche per prezzi astronomici, e molti produttori che, pur dando vita a vini ineccepibili, trasmettono poco o nulla dei rispettivi terroir (7 Grand Cru e ben 40 Premier Cru). Se nelle parcelle classificate Grand Cru il fattore K, al secolo Kimmeridgiano, incide parecchio, nei Premier Cru (collocati su entrambe le rive del fiume ma con forte preponderanza numerica sulla riva sinistra) la complessità geologica dà vini forse più pronti, ma comunque facilmente ascrivibili al territorio. L’esposizione è generalmente rivolta a sud, perché la vite da queste parti cerca caldo e sole, facendo perennemente gli scongiuri verso quelle gelate primaverili che qui avevano, specie in passato, una cadenza con precisione d’alta oreficeria. Sempre parlando di tempo, possiamo ipotizzare che gli ormai inesorabili cambiamenti climatici non potranno che giovare ai vini di queste parti, al pari di quel tempo speso in bottiglia, solitamente tanto, che favorisce la piena espressività dei vini prodotti in quest’area. A lato, alcuni produttori tra i più solidi che la zona possa vantare. Per allargare il campo di visuale si possono citare anche i nomi di Drouhin-Vaduon (negociant borgognone ma che continua a fare grandi vini), Thomas Pico (giovane ma di belle speranze), la Chablisienne (perché essere grandi ed essere cooperativa non sempre è un male), Louis Michel (valido indirizzo ma spesso troppo affezionato al legno in vinificazione), Billaud-Simon (forse uno dei top ma i problemi interni all’azienda fanno preferire i loro vini pre 2010) e Moreau-Naudet (stile cristallino).

I PRODUTTORI DOMAINE VINCENT DAUVISSAT (importato in Italia da Moonimport, www.moonimport.it) Uno dei due/tre top player della zona. Usa ancora qualche feuillette. Stile rigoroso, che sa declinare in maniera molto puntuale sia i Grand Cru che i Premier Cru. Vini più rappresentativi del Domaine: Chablis Grand Cru Le Clos, Chablis Premier Cru Forêt, Chablis Premier Cru Vaillons.

JEAN-PAUL E BENOIT DROIN (importato in Italia da Balan, www.balan.it) Da 14 generazioni. Da quando c’è Benoit, attualmente alla guida dell’azienda, il nuovo corso è cominciato, facendo sì che l’azienda si scrollasse di dosso uno stile con molto legno, a tutto beneficio di una maggiore aderenza ai diversi territori. Vini più rappresentativi del Domaine: Chablis Grand Cru Valmur, Chablis Grand Cru Vaudesir, Chablis Premier Cru Montmains.

WILLIAM FEVRE (importato in Italia da Gaja distribuzione, www.gajadistribuzione.it) Oggi di proprietà della maison di champagne Henriot. Fanno vini puri, precisi e con un utilizzo di legno di diversi passaggi, così da non intaccare il messaggio aromatico e gustativo di ogni singolo terroir. Vini più rappresentativi del Domaine: Chablis Grand Cru Clos, Chablis Grand Cru Bougros Cote Bouguerots, Chablis Premier Cru Montmains.

DOMAINE RAVENEAU (importato in Italia da Sun Import, www.sunimport.it) Prezzi alle stelle, ma anche vini stellari. Finiscono sempre: tanto il vino è richiesto in tutto il mondo. Usano legno, ma con garbo. Il loro Premier Cru Montée de Tonnere per potenziale espressivo può essere spesso paragonato ad un Grand Cru. Vini più rappresentativi del Domaine: Chablis Grand Cru Valmur, Chablis Premier Cru Montée de Tonnere, Chablis Premier Cru Forêt.

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VINARIA

ORANGE

IL QUARTO COLORE

ECCO LE CARATTERISTICHE DEI COSIDDETTI “VINI ARANCIONI” di

Gianluca Ricci

Vini bianchi travestiti da rossi: si potrebbe banalizzare così il fenomeno ben più complesso degli Orange Wine, i cosiddetti vini arancioni che in questi ultimi anni si sono imposti all’attenzione di appassionati ed esperti per le loro qualità organolettiche più che, fortunatamente, per quell’indubitabile tendenza modaiola a cui il mondo del vino sta ultimamente indulgendo pur di rinnovare un’immagine che alcuni sentono il bisogno di aggiornare. Pare si tratti dell’ultima tendenza, ma non è affatto così, anzi: per Orange, giusto per fare un po’ di chiarezza, si intendono comunemente quei vini prodotti da uve bianche attraverso una macerazione prolungata sulle bucce, procedura che alcuni vignaioli hanno recentemente riscoperto, ma che in realtà affonda le sue radici nella notte dei tempi, quando all’epoca degli antichi Romani il vino veniva lasciato maturare nelle anfore di terracotta o quando i contadini,

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ORANGEWINE

digiuni spesso delle più elementari informazioni enologiche, si arrangiavano come potevano, conferendo un affascinante colore aranciato e profumi rosseggianti a normalissimi bianchi. Oggi che la ricerca ha potuto svelare i segreti di questa antica tecnica; non è blasfemo affermare che le classiche categorie in cui il mondo del vino si è sempre distribuito - bianchi, rossi e rosè - si sono arricchite di una quarta specificità le cui prerogative sono ancora tutte da esplorare, nonostante ci sia chi, come Walter De Battè o Josko Gravner o Stanko Radikon, ai vini Orange ha dedicato un’intera vita. Perché a proposito della loro attività, più che la tecnica, si può scomodare la filosofia: coltivazione delle uve secondo i dettami del biologico più sostenibile, macerazione rispettosa di tempi e tipologie, fermentazione naturale priva di supporti chimici e fisici (ovvero niente lieviti né refrigerazione), imbottigliamento senza filtraggio, conservazione verticale per garantire una chiarifica più che naturale, tutte operazioni legate ad un’etica produttiva che rende questi vini assolutamente particolari, non solo per il loro sapore o i loro spiccati profumi.

VINI DI NICCHIA? Può darsi, se per nicchia si intende la volontà di perseguire con puntigliosa caparbietà obiettivi che si spingono più in là della standardizzazione produttiva. Tuttavia gli appassionati si stanno accorgendo delle peculiarità di questi prodotti, che devono il loro successo a quei contadini georgiani che, lasciando macerare le uve con le bucce all’interno delle anfore di terracotta, certificarono anni e anni or sono la nascita di un genere oggi replicato con risultati persino più lusinghieri rispetto agli originali in un’area particolarmente ristretta ma, anche per questo, assolutamente caratterizzata, ovvero quella dell’alto Adriatico: Friuli, Slovenia, Croazia, Stiria e Carinzia sono i territori più vocati a questa produzione, ma anche quelli più sensibili all’adozione di quella filosofia produttiva che ha portato gli Orange a superare i ristretti confini delle zone di produzione e a richiamare l’attenzione degli amanti del buon vino. A sentire i produttori del Collio, tuttavia, pare che la primogenitura vada ascritta proprio a loro, interpreti originali della tradi-

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VINARIA

zione caucasica: i vini macerati sono stati riscoperti proprio sulle colline e nei vigneti friulani, dove alcuni pionieri si sono votati alla causa fornendo quell’indispensabile know-how che ha consentito al fenomeno di diffondersi nelle immediate vicinanze.

VINI INTROVERSI Ciononostante l’Orange non è un vino facile e può essere apprezzato soprattutto da chi è riuscito a costruirsi un bagaglio esperienziale di significativa efficacia. Alcuni sommelier lo definiscono un vino “introverso”, complicato da abbinare, difficile da gestire in cantina o in frigorifero, ma ricchissimo di suggestioni organolettiche, che vanno tenute a bada con grande professionalità e un pizzico di entusiasmo. «Sono vini difficili se pensiamo di inquadrarli in schemi prefissati - ha però precisato Stanko Radikon, uno dei primi a credere in questo progetto - altrimenti si rivelano esattamente il contrario, purché ci si preoccupi di spiegarne le caratteristiche al consu-

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matore. Difficili lo sono, caso mai, per i produttori: non sono vini da business, tanto per essere chiari, visto che richiedono molto tempo e si caratterizzano per una produzione limitata». Si fanno per passione, insomma, ma sono sempre più numerosi coloro che riescono a percepirlo e a premiare chi profonde risorse ed energie per mantenere viva una tradizione secolare. Anche perché, come sostiene Elena Pantaleoni della cantina piacentina La Stoppa, «lasciare le uve a contatto prolungato con le bucce è un modo altrettanto efficace di esprimere il territorio, visto che le lunghe macerazioni evidenziano i caratteri aromatici più tipici». Difficile, dunque, ma al tempo stesso complesso e, soprattutto, mai banale. Caratteristiche, queste, che se da un lato ostacolano un approccio casuale o distratto, dall’altro invece affascinano quanti sono alla ricerca di nuove, inebrianti suggestioni enoiche. Un ritorno al passato sì, ma al tempo stesso un deciso salto verso il futuro della vinificazione. Dev’essere per questo allora che il festival mondiale dedicato a questa par-

ticolare tipologia enologica, svoltosi alla fine dello scorso anno a Vienna, ha riscontrato un successo ampio e rotondo, anticipato dalla straordinaria affluenza di pubblico registrata a tutte le manifestazioni precedentemente organizzate. Non c’è nulla da fare, insomma: l’arancione è diventato ufficialmente il quarto colore del vino.


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ASSAGGIO DI

LIBRI a cura di Giorgia Zucchi

BRUCIA IL TUO MENÙ Guadagnare fino al 25% in più semplicemente modificando il menù: si può fare seguendo le chiare indicazioni dell’esperto Lorenzo Ferrari, collaboratore de La Madia Travelfood e ideatore del Metodo Menuengine che spiega come si possa raggiungere il risultato solo apportando alcuni fondamentali cambiamenti al proprio abituale modo di proporsi al pubblico.

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CHAMPAGNE SENZA VELI Un vero e proprio manuale scritto con passione e competenza da uno dei massimi esperti del settore. Storia, aneddoti, mitologia, zonazione, vitigni, glossario, schede analitiche dei produttori e ogni genere di informazione più specifica sullo champagne, compongono un volume che si legge come un romanzo.

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VEG PER SCELTA La grande tradizione della cucina italiana reintepretata in chiave vegetariana da Pietro Leeman - primo chef “VEG per scelta” a conquistare la stella Michelin con il suo ristorante Joia - da lui stesso raccontata. Ricette, quindi, ma anche un’introduzione al vegetarianismo sotto il profilo della salute, dell’etica, del rispetto dell’ambiente e degli animali, dalla dimensione spirituale attraverso i testi di Gabriele Eschenazi. Con una panoramica dei personaggi che nel corso della storia hanno abbracciato la scelta vegetariana - da Pitagora a Leonardo da Vinci, da Einstein a Gandhi... - e interviste a studiosi come Carlo Modenesi, docente di Ecologia umana, ambiente e salute; Michela De Petris, già medico chirurgo all’Istituto Nazionale dei Tumori; Monica Oldani, psicobiologa dell’Istituto di Medicina legale e Legislazione veterinaria all’Università di Milano.

di Gabriele Eschenazi e Pietro Leemann - Demetra Collana Dieta e benessere - 256 pagine - Euro 20,00

RICETTE PER SUCCHI E SMOOTHIE Il libro propone 115 schede con istruzioni e consigli utili per soddisfare tutti i palati. Oggi infatti, più che mai, i succhi e gli smoothie sono diventati un gustoso trattamento energizzante prima e dopo l’esercizio fisico, un’alternativa rapida e nutriente ai pasti, uno spuntino rigenerante come merenda, o ancora un prezioso aiuto per donare lucentezza alla cute, alle unghie e ai capelli conferendo così un aspetto radioso e giovane.

di Christine Bailey - Metalfitness Publishing Family 160 pagine - Euro 17,50


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