La Madia Travelfood n. 323 - Dicembre 2017

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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BOLLICINE QUALI BERE E PERCHÉ

LA MADIA EDITORE

ANNO XXXIII - Dicembre 2017 - N. 323 - €E 4,00 - Direttore ELSA MAZZOLINI




SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 323

GOURMETFOOD

di

Lisa Foletti

pag. 32

GOURMETFOOD

RISTORANTE GLAM

Le scelte coraggiose di Alessandro Dal Degan ed Enrico Maglio.

La firma di Bartolini e il retaggio di Crippa nelle proposte di Donato Ascani.

di

Carla Latini

Giulia Gavagnin

pag. 38

LA TANA GOURMET

GOURMETFOOD

di

VINARIA

pag. 44

pag. 76 GIANLUCA GORINI

BOLLICINE

“Ricomincio da me”, il nuovo percorso dello chef.

Quali bere e perché.

di

Gianluca Ricci


La cultura del benessere

GourmetFood

Festività natalizie: e adesso?... ingrasseremo!

Gradonna Mountain Resort Châlets & Hotel

di Primo Vercilli................................................................ pag. 8

di Maria Chiara Zucchi..................................................... pag. 64

La scelta vegana

Chef di Spirito

Il vegano è etico? È ecologico?

Marasciuolo selvatico di campo

di Silvia Bianco................................................................. pag. 10

di Sonia Leo..................................................................... pag. 72

Assaggi di Galateo

Vinaria

Fra i regali delle feste: un cambio di mentalità

Ripercorriamo la differenza tra Metodo Classico

di Fabio Ferrantino........................................................... pag. 14

e Metodo Charmat

Progettare l’impresa

di Alessandro Rossi......................................................... pag. 76

Due leggende metropolitane sul menu engineering

Oltrepò Pavese................................................................ pag. 78

che è ora di sfatare

Lantieri De Paratico

di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 16

di Marco Tonelli............................................................... pag. 80

Buone Nuove..................................................................... pag. 19

La Montina

Golavagando

di Gianni Di Lorenzo......................................................... pag. 82

S’Incontru a Cagliari......................................................... pag. 22

Il Rosé di Monsupello

GolavagandOraviaggiando

di Antonietta Mazzeo...................................................... pag. 86

Artecibo nei pressi del borgo di Locorotondo

Cantina Della Volta

di Sandro Romano........................................................... pag. 24

di Marco Tonelli............................................................... pag. 88

Golavagando

Biochampagne

Osta! Dispensa & Cucina nel forlivese

di Antonietta Mazzeo...................................................... pag. 92

di Alessandra D’Imperio................................................... pag. 28

Velenosi

Giovani Talenti

di Antonietta Mazzeo...................................................... pag. 92

Antonio Danise a Villa Necchi

Crémant del Lussemburgo

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 50

di GianlucaRicci................................................................ pag. 94

Prodotti Eccellenti J-Momo, pasta e piatti pronti surgelati............................ pag. 62



EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

DE GUSTIBUS Ha destato un certo scalpore il fatto che recentemente lo chef Christian Puglisi – cuoco e proprietario di una serie di ottimi ristoranti a Copenaghen, posizionato al 69° posto secondo la discussa guida 300 Best Chef – abbia dichiarato che “non gli frega un beneamato cavolo” del punteggio, “perché non si possono classificare le persone” e “perché non mi sono candidato ad alcuna elezione”. Oddio! Un marziano è sceso tra noi? No, finalmente è un cuoco a sostenere che non ha senso “ridurre l’arte della gastronomia e della convivialità ad un sistema costante di competizione”, pur ammettendo che guide e punteggi positivi aiutano a vivere. La sua ironica dichiarazione che si può leggere integralmente su munchies.vice.com (“dobbiamo aspettarci la lista dei 50 chef meglio vestiti – e vincerebbe sempre Dacosta – o quella dei meglio tatuati”?) ci invita a riflettere sul fatto che il gusto rientra comunque nella sfera della soggettività e che sarebbe il caso di imparare a formare una propria coscienza critica, smettendo di vivere attraverso quella altrui. Insomma, ciò che per me è un concetto totalmente ovvio, risulta totalmente astruso in un sistema di classifiche ormai supinamente accettato dalla categoria stessa di cuochi e ristoratori. Io sono convinta invece che quell’apparato critico per forza di cose non omogeneo, mostri da sempre la corda della propria arbitrarietà. Un conto per uno chef è iscriversi al proprio torneo di calcio dove regole, arbitri, avversari, sono ben noti (come nel caso dei concorsi professionali a cui uno chef può decidere di iscriversi), un conto è subire - in fondo come sul vituperato Tripadvisor - le logiche e i giudizi imperscrutabili delle varie guide che spesso giocano coi punteggi per far notizia.

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LACULTURADELBENESSERE

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

FESTIVITÀ NATALIZIE

E ADESSO?... INGRASSEREMO! Ci avviciniamo al Natale e chiaramente tutti siamo preoccupati di quello che succederà sulle nostre tavole; o meglio, ufficialmente siamo preoccupati, ma sotto sotto non vediamo l’ora di rilassarci perdendo ogni freno inibitore dopo un anno di dieta che, alla fine, non ha neanche portato grandi risultati. Siamo qui che ormai diciamo: “Adesso basta, visto che per un anno faccio la dieta e non sono dimagrito, a Natale mangio quello che mi pare!”. Ed eccoci qui, quindi, a misurarci di fronte a fette di panettone farcito, frutta secca (“ne mangio un po’ di più tanto fa bene”), torroni, primi piatti della tradizione (possibilmente con “bis” abbondante”) e qualche aperitivo in più. Giustissimo: il mio motto è “non si dimagrisce da Natale a Capodanno, ma da Capodanno a Natale”. Ma siamo veramente sicuri che, durante l’anno, abbiamo seguito la dieta? Siamo veramente sicuri che, durante le feste, ci concederemo qualche piccolo strappo e poi torneremo ad un regime di normalità, oppure i piccoli strappi li abbiamo sempre avuti durante l’anno e quello che faremo durante le Feste è ben più di qualche piccolo strappo? Pensate che sia solo un gioco di parole, ma la differenza è tutta nell’attenzione che si pone nei piccoli particolari alimentari. Durante l’anno non siamo dimagriti solo perché, in tanti piccoli gesti, non siamo stati attenti: normalmente enfatizziamo i gesti di privazione che commettiamo, ma sottovalutiamo tutte quelle piccole disattenzioni che invece, nell’economia dell’anno incidono enormemente. Basta prendere ogni giorno un caffè in più per un anno, dolcificato con un cucchiaino di zucchero e la nostra bilancia sale di un chilo all’anno. Potrete pensare che questa è la crudeltà della Natura: siamo condannati a non concederci i giusti piaceri della vita. Perché, se per un cucchiaino al giorno di zucchero in più cresco di un chilo, cosa succede se poi aggiungo, solo una volta a settimana, un bicchie-

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LACULTURADELBENESSERE

re di vino o una bibita analcolica? Succede che, se lo faccio per un anno, guadagno un altro chilo. E se poi, dopo cena, aggiungo 3 biscotti (solo una volta a settimana) ecco servito un altro chilo. Quindi, alla fine, quello che ci rimarrà è che siamo stati bravissimi e che abbiamo mangiato come l’anno precedente, ma in effetti abbiamo aggiunto dei piccoli particolari, che noi abbiamo sottovalutato, ma che il nostro metabolismo ha gradito moltissimo, tanto da trasformarli in grasso! Nessuno ovviamente dice che dobbiamo stare sempre a dieta, ma il primo passo è veramente quello di essere consapevoli che il nostro corpo è costretto a “bruciare” qualsiasi cosa noi introduciamo: cominciamo a pensare che a “zero calorie” c’è solo l’acqua! Smettiamo di pensare che “siamo stati bravi perché mangiamo integrale”: questo non fa dimagrire. Smettiamo di pensare che “abbiamo messo un po’ di frutta secca dopo cena perché fa bene”: questo non fa dimagrire. Smettiamo di pensare che “abbiamo preso al mattino acqua calda e limone: questo non fa dimagrire”. È come se arrivassimo, ogni anno, alle Feste Natalizie con in testa l’elenco di tutte le cose in cui pensiamo (sottolineo “pensiamo”) di essere stati bravi, in modo da crearci un bell’alibi di sostegno nel momento in cui ci concederemo il bis di tortellini e panettone, “tanto è Natale e siamo stati bravi tutto l’anno”.

È vero: è Natale, ma l’unico a cui non vogliamo fare regali veri, regali che servano, è il nostro metabolismo. Sapete che, per bruciare una minuscola fetta di torta (da 30 grammi…. Quindi veramente minuscola) occorrono 15 minuti ininterrotti di “salita e discesa delle scale”? Avete mai provato a salire e scendere le scale ininterrottamente per 15 minuti? E sapete quanto pesa una “normale” fetta di torta? Dagli 80 grammi (piccola) ai 150 grammi. Volete far voi la proporzione per capire quanto volte dovete salire le scale per bruciare una simile bontà? Un bignè alla crema vi richiederà 25 minuti di piscina… ma non 25 minuti stando a mollo! Parlo proprio di nuoto per 25 minuti di seguito. Potrei continuare all’infinito, ma non voglio deprimervi: è Natale ed è proprio vero che bisogna goderselo. Basta essere seri con quello che facciamo, consapevoli che, se introduciamo energia, il nostro organismo ha solo 2 strade: o la immagazzina come grasso, o gli permettiamo di bruciarla con un po’ di attività fisica in più o con un giorno energeticamente più ristretto dopo la trasgressione fatta. In fin dei conti il nostro organismo non ci chiede mai di non divertirci: vuole solo che impariamo a fare meglio i conti. In questo modo sarà sicuramente un Felice Natale, sia per la nostra mente che per il nostro fisico.

L’autentico riso carnaroli Riserva San Massimo per la ricetta a 4 mani di GIANFRANCO VISSANI con Daniele Patti e Matteo Ambrosini del Ristorante Lo Scudiero di Pesaro

Risotto “Anni ’80” INGREDIENTI Per il burro acido: kg. 1 di burro, l. 1 di vino, g. 600 di aceto, 10 cipolle bianche. Per il burro ai crostacei: g. 500 di burro salato, g. 500 di salsa granchio, 1 sedano, 1 carota, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, g. 500 di polpa di pomodoro, 15 granchietti. Per la cialda di riso: g. 100 di riso, g. 300 di acqua, g. 100 di carapaci di gamberi rosa. PREPARAZIONE Per la cialda di riso: cuocere in acqua il riso assieme ai carapaci di gamberi rosa. Portare oltre cottura e frullare il tutto con un frullatore ad immersione. Stendere sottilmente tra due strati di carta forno il composto, essiccarlo in forno per 2 ore e 30 minuti a 65°C. Infine friggere a 190°C in abbondante olio d’arachide.

Per il burro acido: stufare le cipolle in una pentola con aceto e vino. Lasciar raffreddare il composto ed aggiungere il burro (precedentemente stemperato a temperatura ambiente). Lasciare in infusione per 30 minuti e frullare. Per il burro ai crostacei: tritare sedano, carote e cipolla, metterli a stufare in una casseruola con olio e granchietti, aggiungere la passata di pomodoro e un cucchiaino di concentrato di pomodoro, quindi lasciar restringere il tutto. Infine, passare il composto al passaverdura per ottenere la salsa. Per il risotto: cuocere il riso come il classico risotto, quindi procedere con la doppia mantecatura. Impiattare ponendo sopra il riso la cialda di riso fritta decorata con gamberi rosa, laccati e scottati con salsa worchestershire, salsa rosa e ciuffi di insalata riccia. Per finire aggiungere qualche goccia di salsa worchestershire ristretta per completare il piatto.


LA SCELTA VEGANA

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

IL VEGANO È ETICO? È ECOLOGICO? NO NESSUNO DEI DUE. TOH, NON È NEANCHE SUPERIORE ALL’ONNIVORO!

Mi ero ripromessa di non partecipare alle discussioni nate dopo l’articolo di M. Leonardon pubblicato su The Vision in data 18 settembre 2017 intitolato “Perché non c’è nulla di etico nella vita di un vegano” (http://thevision.com/scienza/vita-di-un-veganonon-etica/). La mia indole mi porta sempre molto lontano dalle discussioni ed evito sempre di entrare in polemiche sterili. Non è un defilarsi, ma semplicemente non trovo interessanti i dibattiti che nascono senza la reale volontà di un confronto sano per approfondire delle tematiche in un clima sereno e di rispetto. In tanti però mi hanno chiesto di esprimermi al riguardo ed ho pensato che il pubblico interessato ed attento de La Madia Travelfood avesse il diritto di leggere il mio pensiero al riguardo. Letto il titolo dell’articolo in questione, si pensa subito ad uno dei numerosi attacchi ai vegani a cui ultimamente ci stanno facendo il callo un po’ tutti (vegani compresi); in realtà ho trovato l’articolo esilarante e comico. Già, perché solo così si può interpretare un articolo strappa like che ha la presunzione di insegnare il significato della parola “etica”, di bacchettare i “vegani” e denigrarli con della demagogia spiccia, aggiustando dei dati reali a suo piacimento per accaparrarsi condivisioni sui social. Tra l’altro l’articolo cita Aristotele e Socrate che, ça va sans dire, fortemente influenzati dalla scuola pitagorica, seguivano un’alimentazione vegetariana. (“Amici miei, evitate di corrompere il vostro corpo con cibi impuri; ci sono campi di frumento, mele così abbondanti da piegare gli alberi dei rami, uva che riempie le vigne, erbe gustose e verdure da cuocere. La terra offre una grande quantità di ricchezze, di alimenti puri, che non provocano spargimento di sangue né morte.” Cit. Pitagora)

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LE PROBLEMATICHE ETICHE ED AMBIENTALI SONO A CARICO DI TUTTI Secondo l’autore pare che il “vegano” discuta di “etica” ogni santo momento della sua vita, che ce la infili in ogni discussione, non importa che si stia parlando di cibo o delle piastrelle nuove da mettere in bagno. Il vegano sbandiera l’etica a destra e a sinistra, affermando di essere l’unico a detenere lo scettro di “il più etico del mondo” ed atteggiandosi baldanzoso con aria compiaciuta. Sempre secondo l’autore dell’articolo, il vegano si siede a tavola soddisfatto per la sua presunta supremazia nel consumo globale ed esclusivo di quinoa, avocado, mandorle, anacardi e soia. Peccato però – aggiunge M.L. – che la produzione di questi alimenti vegetali nasconda crudeltà e sfruttamento umano e delle risorse ambientali. Peccato però, aggiungo io, che le terrificanti condizioni dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo e non solo, il consumo di ingenti quantità di acqua e più in generale tutti i problemi ecologici e di sfruttamento non valgono unicamente per questi alimenti che l’autore vuole far credere siano a solo uso e consumo dei vegani. Non vi è alcun dubbio che tutte le coltivazioni intensive conducano a serissimi problemi etici ed ambientali: anche il caffè, il tè, le banane, il cacao presentano le stesse problematiche di quinoa, avocado, etc., ma è altrettanto vero che il depauperamento dei terreni non si possa attribuire alla dieta vegana. Senza andare troppo lontano, ci siamo dimenticati della schiavitù nei Paesi industrializzati come il nostro,


LASCELTAVEGANA

LASCELTAVEGANA

quando si parla ad esempio dei raccoglitori di pomodori e delle angurie nel Sud d’Italia? Nessuno di questi due cibi è esclusiva vegana, la pasta e la pizza ca’ pummarola n’copp e l’anguria come merenda d’estate le mangiamo tutti!

QUINOA ED ANACARDI: L’ITALIA LI PRODUCE Quest’articolo è un po’ come la scoperta dell’acqua calda, anzi un’accozzaglia di mezze verità, messe lì in fila una dopo l’altra come se stesse rivelando gli ultimi clamorosi gossip del panorama mediatico. Elenca una serie di verità, peraltro non al 100% corrette, ricontestualizzandole insidiosamente per scoperchiare le malefatte dei “vegani”, assolvendo i “carnivori”. Inoltre cita prodotti vegetali esistenti da migliaia di anni, prima ancora che si iniziasse a parlare di veganismo (la Vegan Society nacque nel 1944 come distaccamento della Vegetarian Society nata nel 1847). Nello specifico affronta il discorso della quinoa, affermando che è utilizzata di frequente nell’alimentazione vegana per l’alta concentrazione di proteine e questo ha determinato una maggiore domanda e quindi maggiore sfruttamento. I cambiamenti portati dalla crescente domanda di quinoa sono invece dovuti dall’aumento delle richieste del mercato interno ed esterno alla Bolivia. Il boom della quinoa è antecedente alla crescita vegana di questi ultimi anni (la cui popolazione è peraltro esigua rispetto al resto della popolazione mondiale) ed è stata portata alla ribalta dai radical chic della gastronomia. Inoltre il costo della quinoa è il quadruplo rispetto, ad esempio, al riso integrale ed ai giorni nostri non tutti sono disposti a spendere 15/20€ al Kg per un cereale. Inoltre in Italia esiste la quinoa italiana, un esempio quella coltivata proprio nelle Marche da www.quinoaitalia.com. Il discorso poi passa alla questione degli anacardi, prodotti ben noti a tutti i consumatori più attenti per via dei pericoli affrontati dai lavoratori nella catena produttiva (i fumi derivati dalla tostatura del frutto possono causare dermatiti simili ad ustioni) e per lo sfruttamento, ad esempio, degli ex tossicodipendenti che vengono impiegati per la lavorazione in Vietnam. C’è da dire che non tutti gli anacardi vengono dal Vietnam e non tutti vengono rilavorati utilizzando gli ex tossicodipendenti. Di certo la stragrande maggioranza dei consumatori consapevoli, vegani in primis, prediligono l’utilizzo di anacardi del commercio equo e solidale o in mancanza di una certificazione vera, si “accontentano”, ad esempio, delle noci italiane, delle gustose nocciole delle Langhe e delle preziose mandorle e pistacchi italiani. A proposito delle mandorle, l’articolo parla delle risorse idriche depauperate per la produzione di questo eccellente elemento, causato dalla smania dei vegani per creare le basi per cheesecake crudiste, mozzarelle vegetali, formaggi, creme e salse a base di mandorle.

Chef Maurizio Urso Ristorante “La terrazza sul mare” - Ortigia - Siracusa

LE LUCILLE ALLE CAROTE INGREDIENTI per 4 persone

g. 200 di farina, g. 180 di zucchero di canna, ml. 100 di latte di mandorla, g. 200 di carote, g. 10 di lievito

per dolci, ml. 60 di succo di arancia, ml. 50 di olio di semi, 1 limone scorza grattugiata, 1 bacca di vaniglia. PROCEDIMENTO

Mettere le carote tagliate a cubetti in un cutter o frullatore, unire il latte di mandorla, il succo di arancia, lo zucchero, la vaniglia, la scorza di limone e frullare sino

ad ottenere una purea liscia; aggiungere il resto degli ingredienti e continuare a frullare.

Versare il tutto riempiendo degli stampi a tre quarti e infornare a 180°C per 15/18 minuti.

Per la pralina: montare della panna vegetale con della

vaniglia, mettere in delle mezze sfere e abbattere in abbattitore oppure porre in congelatore; quando saranno pronte, unire le due mezze sfere e passarle nella granella di pistacchio.

Assiette del piatto: porre il tortino su un piatto con la

pralina, una carotina e gocce di salsa di frutti rossi o altro a piacere; spolverare con zucchero a velo e servire.

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LA SCELTA VEGANA

Ma davvero crediamo che i vegani siano sempre in cucina a perdere ore ed ore per fare delle preparazioni crudiste? Ha idea questo signore di cosa voglia dire in termini di impegno e tempo fare cucina crudista in una famiglia con figli, marito, una casa ed un lavoro? Siamo proprio sicuri che tutti acquistino le mandorle inquinate della California, se già con le pregiate risorse italiane che troviamo solo tra Puglia e Sicilia abbiamo delle scelte di prim’ordine? Queste affermazioni sono un modo indiretto per asserire che il consumatore moderno è poco attento, ma le ultime statistiche hanno dimostrano come negli ultimi anni l’utente sia diventato sempre più attento e consapevole delle proprie scelte.

AVOCADO E SOIA NON SONO CIBI SOLO VEGANI

L’annosa questione dell’avocado è un altro degli elementi affrontato nello scritto. Vorrei solo capire come si possa far credere che l’avocado sia prerogativa di chi non mangia carne e formaggi, quando la crescente domanda di questo frutto è correlata più al fatto che sia un frutto salutare (e qualcuno crede pure afrodisiaco). Il guacamole, originario del Messico, è apprezzato dalla cucina americana ed è diventato parte di essa stessa da decenni, ben prima che ci ponessero di fronte alle diatribe mediatiche “vegano sì, vegano no”. Io stessa, nel numero di ottobre 2017, avevo affrontato il discorso sull’eticità della provenienza di questo frutto e sul fatto che sia un prodotto attualmente consumato da tutti senza distinzione di diete e/o ideologie e che tutti siamo chiamati a scegliere consapevolmente. Anche per l’avocado ricordo che ci sono coltivazioni italiane in Sicilia, eseguite da aziende serie e certificate biologiche che coltivano rispettando le stagionalità ed escludendo le colture intensive. Non suona irrispettoso nei confronti delle popolazioni Messicane parlare delle guerre che li vedono coinvolti loro malgrado insinuando al contempo attacchi ai vegani?

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Non poteva non mancare il discorso sulla soia, uno dei legumi più coltivati al mondo in maniera intensiva e che – secondo M.L. - sta causando disastri proprio a causa dei vegani. Il Sudamerica è il primo produttore di cereali e legumi da foraggio al mondo; si ha idea di quanta area agricola in Brasile è destinata alla sola produzione di mangimi? La scomparsa della Foresta Pluviale Amazzonica non è certo dovuta alla produzione di tofu, essendo per lo più trasformata in campi coltivati per la produzione di cereali e legumi destinati agli allevamenti. Dati alla mano, è risaputo che produrre un chilo di carne di manzo, in media, richiede 15.000 litri di acqua e dai 10 ai 15 chili di cereali/legumi e che l’80% della soia prodotta al mondo è trasformata in mangimi per animali da allevamento. Tutti gli allevamenti intensivi sono la prima causa al mondo di inquinamento ambientale attraverso la produzione di gas serra, l’inquinamento che ne scaturisce è persino maggiore a quello prodotto da tutte le macchine, le navi e gli aerei del mondo messi assieme. I maggiori consumatori di tofu per eccellenza sono gli onnivori del continente Asiatico e non i vegani occidentali. Già perché il tofu è da sempre un alimento consumato in Asia, basta fare un viaggetto ad Hong Kong senza dire di perdersi nelle campagne cinesi, per scoprire che il tofu lo trovate infilato nei loro piatti principali come le zuppe, insieme al pesce ed alla carne. Mandorle, soia, avocado, quinoa, anacardi e moltissimi altri alimenti non sono quindi ad uso esclusivo vegano. Sarebbe stato interessante se nella miriade di dati infilati qua e là nell’articolo, ci fossero anche delle statistiche relative al consumo di questi prodotti da parte di vegani e dagli onnivori, considerando che attualmente in America meno del 4% della popolazione totale è vegetariana di cui l’1,6% è vegano. Si può avere un’alimentazione vegetale utilizzando tutto ciò che troviamo semplicemente nei confini italiani, volendo anche nell’orto di casa. Il vegano consapevole che conosce la stragrande maggioranza delle nefandezze del capitalismo e dello sfruttamento sa bene che può scegliere altro al di fuori dei prodotti incriminati scegliendo frutta e verdura direttamente dal produttore: viviamo in Italia una piccola grande terra che offre una varianza di prodotti vegetali incredibile.

LE SPECULAZIONI NON SONO QUELLE DEI VEGANI Di cosa stiamo parlando allora? Perché associare al vegano le colpe del comportamento del capitalismo e di speculazione dell’uomo? Le basi della legge della domanda e dell’offerta le sappiamo tutti: la crescita esponenziale della popolazione mondiale, richiede maggiore disponibilità di prodotti in un sistema economico e politico che vuole tutto al prezzo più


LASCELTAVEGANA

basso possibile, senza porsi scrupoli sul come ottenerlo. E’ il sistema economico ad essere malato e non la scelta di mangiare vegan. Oggi come oggi sta al consumatore informarsi sui retroscena della produzione di qualsiasi prodotto e deciderne eventualmente di non acquistarlo più. Chi è vegan per spirito di compassione, oltre a non mangiare carne, è il primo fra tutti a boicottare nel limite delle proprie conoscenze e possibilità, i cibi e tutti gli altri prodotti che fanno del male alle persone, agli animali e al pianeta stesso. ( “ […] a philosophy and way of living which seeks to exclude as far as is possible and practicable - all forms of exploitation of, and cruelty to, animals for food, clothing or any other purpose; and by extension, promotes the development and use of animal-free alternatives for the benefit of humans, animals and the environment. In dietary terms it denotes the practice of dispensing with all products derived wholly or partly from animals..” (estratto dallo Statuto della Vegan Society registrato nel 1979).

IL VEGANO È ALTRUISTA.

GLI ATTACCHI SONO PRETESTUOSI Si critica il vegano sul cibo come se fosse l’unico argomento che desti il suo interesse in materia di eticità dei prodotti. Anche nel campo dell’abbigliamento, dell’industria della moda, della cosmesi, della nostra salute, dell’industria della telefonia e di tutti gli apparecchi elettronici e tanto altro ancora, si passa per la sperimentazione animale, la crudeltà e lo

sfruttamento dei lavoratori, degli animali e dei territori. Anche questi prodotti sono prerogativa vegana? Nessuno di noi può pensare di comprare eticamente al 100%. tuttavia ognuno si può impegnare di più, facendo del proprio meglio, giorno dopo giorno, provando a nuocere il meno possibile in relazione alle proprie possibilità materiali e non. Appurato che al 100% non potremo mai essere “etici” (vegani compresi), cosa vuol dire essere vegano? Il vegano, quello vero a favore degli animali, non ha il fine di riempirsi di belle parole come l’“etica”. Non è il salutista, non è l’hipster, non è il modaiolo, il foodie, l’ambientalista , non è il reducetarian, non fa il digiuno e non è breathariano. Veganismo è altruismo, è la preoccupazione per il benessere degli animali, il rispetto per la vita, la compassione e la gentilezza per gli animali, le persone e la terra, basando la propria esistenza nel tentativo di eliminare ogni crudeltà e sopraffazione. Tutto ciò è forse un po’ utopistico, poiché abbiamo un passato in cui l’essere umano è specista per sua natura, sempre alla ricerca del profitto e della supremazia su tutto e tutti. Saranno necessari centinaia di anni per far capire alle persone quanto sia sbagliato il concetto di mangiare carne ed affini e sarebbe controproducente e contro la logica vegana obbligare nella scelta in questo senso, ma invitare coloro che mancano ancora di questa sensibilità ad avere un approccio più salutistico ed ambientalista per se stessi, i propri figli e tutto ciò che ci circonda, è l’unico modo al momento possibile ed attuabile per discuterne ed arrivarci. Sono fiduciosa che avremo una risposta positiva e che non sarà mai troppo tardi, perché ciò vorrà dire che tutti avremo compreso il significato della Vita.


Gala teo ASSAGGI DI

a cura di

Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico

FRA I REGALI DELLE FESTE: UN CAMBIO DI MENTALITÀ

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una graduale diminuzione del tempo dedicato ai pasti. Questo ha causato da una parte l’impoverimento culturale del momento conviviale, mentre d’altra parte ha valorizzato lo sviluppo di certe tipologie di ristorazione, come l’evoluzione e la valorizzazione dello street food o di nuove forme di fast-food gourmet. I canoni di bellezza sono nettamente cambiati, come anche l’attenzione alla sostenibilità, il recupero delle biodiversità, la diminuzione degli sprechi e una sempre più attenta visione salutistica verso il cibo. Dal pranzo della domenica, che viene spesso sostituito dal brunch, al banchetto nuziale; le tendenze verso un menù più snello e sano vanno via via sempre più affermandosi, andando a modificare quelle salde tradizioni tutte italiane. Uno degli ultimi baluardi che inizia a risentire di tali cambiamenti sono i pasti legati alle feste, che hanno resistito maggiormente a questa evoluzione. Nell’ultimo decennio si sono delineati come momenti conviviali che, per motivi economici legati alla crisi, sono rimasti per buona parte relegati all’interno delle mura domestiche e familiari. Con una graduale ripresa economica, vi è il segnale di un ritorno alla volontà di festeggiare il Natale o il cenone di Capodanno presso una struttura ristorativa. Proprio in tale momento particolare dell’anno ci si deve soffermare su una debita valutazione del proprio operato. Gli ultimi dieci anni non hanno portato solo alla modifica parziale di alcune tradizioni, ma anche ad un modo di lavorare nettamente differente da parte dei ristoratori, con un graduale adattamento dell’offerta. Chi si è adeguato a tali modifiche del mercato è sopravvissuto, cercando un’alternativa al proprio modus operandi, pur restando nel medesimo settore.

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È per tale ragione che il miglior dono che ogni ristoratore può fare a se stesso, ma in primis alla propria azienda e al proprio staff, è un cambio di mentalità, grazie alla capacità di mettersi in discussione. Chi persegue l’idea che c’è troppo lavoro da sostenere nel proprio locale per pensare a cosa modificare o migliorare, non ha attenuanti: è un segnale netto che ha perso, forse da tempo, la passione per il proprio lavoro. Per iniziare, bisogna comprendere che il direttore o proprietario di un ristorante deve essere coinvolto nell’operatività in modo limitato. Capita che queste figure ricoprano compiti come quello di chef o di direttore di sala e dunque spesso completamente immerse in modo operativo nella propria attività. Tali compiti fanno perdere la visione distaccata, a volte estranea ed esterna, del proprio ristorante. Questo aspetto è vitale. Solo così si potrà costruire un carattere critico verso il proprio business, oltre a dedicarsi appieno all’analisi della concorrenza, delle tendenze, della gestione economica e tecnica di tutta l’azienda. I punti da rivedere per la maggior parte delle attività di ristorazione italiane sono pochi, ma essenziali. In primis l’atteggiamento verso la clientela. Non vi è più una realtà come quella degli anni ’80-’90, dove la concorrenza era in gran parte simile: a livello di tipologia ristorativa c’era il ristorante-pizzeria e il fattore decisivo che determinava la scelta era quasi esclusivamente legato alla qualità, ma ancor di più alla quantità dei prodotti offerti. Fino a dieci anni fa circa, era il cliente che andava al ristorante; ora è il ristorante che deve arrivare al cliente e non solo se fa attività di take-away. Siamo sommersi da strumenti che ci permettono, con un sem-


ASSAGGIDIGALATEO

plice gesto delle mani, di consultare decine di ristoranti in meno di un minuto: la concorrenza è alta e bisogna essere preparati. L’investimento è alla base. Un imprenditore che non comprende l’investimento in qualità, ha già fallito in partenza. In quanti ristoranti vediamo uno staff di sala incapace di comprendere la psicologia dei clienti, le loro necessità e la conseguente carenza nell’arte dell’accoglienza? L’investimento è da ricollocarsi in un primo step sul prodotto che offriamo (materie prime indissolubilmente legate al valore dello staff di cucina) poi sul servizio, credendo e valorizzando il personale della nostra attività. Già questi primi elementi, in un settore che, soprattutto a livello locale, funziona ancora con la comunicazione pubblicitaria del feedback dei clienti, possono far raggiungere ottimi risultati. In quanti ristoranti si trova un menù che non viene cambiato da più di tre anni? Se dovessimo fare una statistica, sarebbe una percentuale elevata. Vi sono interi libri sul menù engineering (o la rubrica su La Madia, curata da Lorenzo Ferrari), le liste delle pietanze si sono nettamente snellite e sono molto più dirette ed efficaci. Questo offre anche la possibilità di modificare periodicamente e in modo semplice la propria offerta. Un aspetto che non va solo a incidere sul lato gastronomico, ma anche sulla performance di una brigata che perde lo stimolo e la capacità di reinventarsi. Oggi è molto più semplice comprendere le tendenze ed inventarne di nuove. Il mondo è a portata di mano e se non si ha la possibilità di viaggiare, c’è il Web. In seconda battuta, ma non meno importante, è necessario porre l’attenzione sull’immagine aziendale.

Quando si parla d’immagine, potreste pensare subito all’ambiente fisico del ristorante e al suo arredamento. Un locale non deve essere per forza rinnovato perché classico: se la tipologia di ristorazione che perseguite è una ristorazione che, anche a livello culinario, rispecchia una certa immagine, va bene avere un certo tipo di arredamento e una certa mise en place. La coerenza rimane sempre ai primi posti tra i concetti da rispettare. È impensabile che un ristoratore moderno conosca l’uso di un proprio sito internet, della gestione delle richieste online, delle pagine sui social network e della gestione delle recensioni sui diversi siti specializzati. Quando alla base si sa di avere le potenzialità di un’offerta formata da materie prime buone, attenzione alle necessità dei clienti, uno staff preparato ed un locale valorizzato; lo step successivo è quello di realizzare una rete costituita da possibili clienti ai quali rivolgersi. Se non si hanno gli strumenti e le conoscenze adeguate per creare un piano di marketing che dia i propri frutti, è importante affidarsi ad agenzie di comunicazione capaci di svolgere tale lavoro al vostro posto. Una volta creata tale trama, sarete capaci di coinvolgere la vostra clientela nella vostra attività, rendendola partecipe e consapevole dell’impegno che infondete nel vostro lavoro, oltre agli eventi che create, i menù personalizzati per delle date speciali e così via. Il ristoratore che oggi addossa le colpe dell’andamento economico esclusivamente ad aspetti esterni, deve comprendere che sta mentendo a se stesso. Bisogna dunque cambiare mentalità, lasciare spazio alle autocritiche, invece di creare dei vani alibi atti a giustificare le proprie negligenze.


PROGETTARE L’IMPRESA

a cura di

Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

DUE LEGGENDE METROPOLITANE SUL MENU ENGINEERING CHE È ORA DI SFATARE

Sembrerebbe – e chi scrive se ne prende parte dei meriti, vista l’opera di divulgazione effettuata negli ultimi anni – che oggi sia diventato di moda il Menu Engineering. Fino a qualche anno fa nessuno (fatta eccezione per qualche ristoratore “illuminato” e qualche operatore del settore) sapeva nemmeno scriverlo correttamente, oggi in tanti ne parlano. E questo rappresenta un bene. Poiché il Menu Engineering è una materia che può fare molto per tanti ristoratori italiani c’è estremo bisogno che se ne parli. Ma nei termini corretti. Attenzione: chi scrive non vuole passare come quello geloso delle tematiche riguardanti l’ingegneria del menù. Non è assolutamente così. Anzi, chi ne parla fa del bene per tutta la categoria, perché ci aiuta nell’opera di divulgazione che ha l’obiettivo di spargere il verbo capillarmente nei ristoranti di tutta Italia. Ma parlarne in maniera approssimativa o superficiale è una presa in giro che attira alla disciplina il target contrario a quello a cui si dovrebbe rivolgere. Parlarne in maniera raffazzonata è un affronto a chi il menu engineering lo studia e lo applica per professione, ma soprattutto tutti coloro che ne dovrebbero usufruire e che dovrebbero goderne i risultati. Di Menu Engineering - così come di qualsiasi altra materia tecnica e specialistica - ne dovrebbero scrivere e parlare solo due categorie di persone: 1. Chi la materia la applica, con successo, da tempo; 2. Chi ha approfondito a sufficienza la tematica da potersi permettere di scriverne; E non chi non si sforza nemmeno di fare un minimo fact-checking. Questo articolo ha quindi lo scopo di screditare e smontare, una volta per tutte, almeno due leggende metropolitane riguardo al Menu Engineering che continuano a rimbalzare tra una testata

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giornalistica e l’altra, facendo disinformazione ai danni degli operatori del settore Ristorazione e del mercato tutto. Di queste leggende ce ne sono a decine, e non escludo che prossimamente ne parlerò, ma queste meritano di essere approfondite per prime. Non tanto per la gravità della disinformazione che creano (c’è sicuramente di peggio!) quanto per la semplicità con cui si poteva evitare di parlarne. Perché sono semplicemente illogiche. E quindi semplicissime da confutare! Per dimostrare la loro inefficacia sarebbe bastata una ricerca di quindici secondi su Google. PRIMA LEGGENDA METROPOLITANA: GLI SWEET SPOTS (O TRIANGOLO MAGICO) Una passata teoria vorrebbe l’esistenza degli Sweet Spots (o del Triangolo Magico, è la stessa cosa dal punto di vista concettuale) ossia dei particolari punti situati sulla superficie del foglio in grado di attrarre naturalmente l’attenzione di chi legge. Secondo queste teorie l’attenzione del lettore intento a scegliere da un menù seguirebbe uno schema di questo tipo:


PROGETTAREL’IMPRESA

Muovendosi, appunto, dallo Sweet Spot in direzione delle frecce. Questi punti dovrebbero combaciare con le alternative più profittevoli del menù, perché statisticamente le persone le sceglierebbero di più e quindi il risultato sarebbe un maggior guadagno. Ora, questo non corrisponde a realtà. Perché queste affermazioni vanno contro ai più basilari principi di design esistenti. Per convincersene, invito chi legge a confrontare tra loro questi due menù.

Sono entrambi dei formati mono-pannello, in bianco e nero. Chi scrive ha cercato di trovarli quanto più possibili simili, per creare un esempio accurato. Chi scrive domanda al lettore: attirano la tua attenzione negli stessi punti? Leggendoli, la tua attenzione cade sugli sweet spots, seguendo il movimento illustrato nella pagina a fianco? Con ogni probabilità no. Avendo un design e un contenuto differente, l’attenzione del lettore si sposterà in maniera altrettanto differente su un foglio rispetto all’altro! Ed è così SEMPRE. Chi scrive ha coniato una regola al riguardo: gli Sweet Spots non sono mai uguali su menù diversi. L’unica casistica nella quale può essere giusto sostenere l’esistenza degli sweet spots è in un menù con un design inesistente, come potrebbe essere la pagina di un romanzo, cioè realizzato da un grafico di scarso o infimo livello. In quel caso, poiché all’interno del menù non ci sono elementi in grado di catturare e mantenere l’attenzione di chi lo legge, può darsi che l’occhio del lettore si muova per coprire la maggior parte della superficie del menù, nel tentativo di decifrarne il contenuto e di fare chiarezza.

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PROGETTARE L’IMPRESA

Ma se questi studi riguardano menù NON ingegnerizzati allora pare ovvio che NON si possono applicare a menù ingegnerizzati, rendendo di fatto nulli tutti i tentativi di dare un senso alla teoria degli Sweet Spots. SECONDA LEGGENDA METROPOLITANA: I COLORI Un recente articolo comparso su un’importante testata recita, in un suo passaggio, codeste parole: “Secondo la cromoterapia, ogni colore stimola un’emozione diversa e di conseguenza spinge verso determinate scelte. Il rosso è un eccitante, in natura è il colore usato per attirare, in campo gastronomico invece rinforza la scelta fatta. Il verde in cucina è sinonimo di cibo fresco e genuino, quindi viene abbondantemente utilizzato per sottolineare le materie prime. L’arancio stimola l’appetito, il giallo viene utilizzato per dare un tocco di leggerezza ragionata. E il blu? Immancabile e preferito dei ristoranti di pesce perché richiama le onde del mare e i suoi prodotti.” Spinge verso determinate scelte? Un tocco di leggerezza ragionata? Immancabile nei ristoranti di pesce? È veramente complicato anche solo pensare che queste affermazioni abbiano un fondamento scientifico. Per convincersene, chi scrive invita chi legge a porsi queste domande: il fatto che il tuo menù o determinate sue parti siano rosse, potrà mai ipnotizzare chi lo legge e spingerlo ad agire contro la sua volontà? E ancora: il fatto che ci siano degli inserti gialli potrà mai fare esclamare al cliente “Cavoli! Come sono leggeri, ma si vede che è una scelta ragionata!”? Appare difficile prendere questi passaggi sul serio. Una precisazione: chi scrive non mette in dubbio che la cromoterapia, in alcuni circostanziati ambiti, possa risultare efficace.

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Chi scrive sostiene invece fermamente che l’apporto della cromoterapia sul processo decisionale del cliente che legge un menù è prossimo allo zero. Ci sono decine e decine di fattori che concorrono maggiormente (ed è facile dimostrarlo) al far propendere la scelta del cliente indeciso tra un piatto o un altro. Ma tra questi, la cromoterapia è tra gli ultimi in classifica. I colori sul menù devono seguire una sola e semplicissima regola: devono essere COERENTI e COORDINATI con l’identità complessiva del ristorante. Fatto questo, gli unici limiti sono dettati dal buon senso e dal buon gusto. Ad esempio, per ristorante informale ed accessibile, in cui prevalgono i colori caldi, anche il menù potrà e dovrà prevederli. Oppure per un ristorante raffinato ed esclusivo si potranno scegliere toni scuri e formali. E ancora, per un fast-food si potranno scegliere colori sgargianti e saturi per sottolineare la natura divertente e leggera del locale stesso. In tutte e tre le casistiche c’è un solo principio da seguire: la coerenza e la coordinazione tra i colori dell’immagine del ristorante e quelli del suo menù. Con buona pace dell’arancione che stimola l’appetito, il giallo per il tocco di leggerezza ragionata e il blu che va bene per i ristoranti di pesce, tutte affermazioni molto difficili da sostenere scientificamente. Chi scrive vuole concludere questa trattazione con una semplice considerazione. Questa considerazione riguarda chi legge: si ricordi che non è tutto oro ciò che luccica. Specialmente se l’oro viene mostrato da chi non saprebbe distinguerlo da un pezzo di bronzo lucidato. Per cui: occhi aperti Si metta in discussione ciò che si legge, in particolar modo se riguarda la propria attività. E buon Menu Engineering.


Buone Nuove

le novità del mese

LE IDEE GOURMET DI CALLIPO

BN

Ecco le nuove confezioni regalo Callipo (in latta, in legno e in cartone) con il pregiato tonno, lavorato interamente in Italia da oltre 100 anni, e tanti altri prodotti d’eccellenza dell’azienda calabrese: i filetti di merluzzo nordico, la bottarga, i filetti di tonno con cipolla, ‘nduja calabrese, pomodori secchi. Ogni confezione racconta una storia di mare, di passione e di tradizione grazie ai disegni realizzati per Callipo dal Maestro Ceramista Antonio Montesanti, artista di Pizzo dove è nata anche l’azienda. La magia legata all’antica pesca del tonno, le storiche tonnare, le fasi ancora oggi artigianali della produzione diventano protagoniste delle originali cassette regalo attraverso le esclusive illustrazioni artistiche.

www.callipo.com

CONFEZIONI COME TESSUTI SU CUI RICAMARE IL NATALE LOISON

BN

Il tema Natale 2017 Sonia Loison, della storica casa veneta di pasticcieri, lo dedica ai Tessuti d’Arredamento, naturale prosecuzione del mood 2016 l’Arte della Tavola, espresso in 6 nuove collezioni. Ogni anno un tema nuovo, grazie all’ispirazione di Sonia che nasce dai piccoli gesti quotidiani e dai suoi ricordi di bambina. Due le collezioni Master, Genesi e Frutta e Fiori, che raccolgono un’offerta di gusti nati dal 1997, grazie alla continua ricerca e all’incessante spirito d’innovazione, lungimiranza e ingegnosità di Dario Loison.

www.loison.com

PANETTONE ALL’ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA D.O.P.

BN www.villasandonnino.it

Nasce dalla collaborazione di due tra le eccellenze del panorama enogastronomico del Modenese, l’Acetaia San Donnino di Davide Lonardi - maestro dell’arte antica del produrre l’aceto balsamico tradizionale di Modena e Valter Tagliazucchi titolare della pasticceria-laboratorio “Il Giamberlano” di Pavullo (MO) - il primo panettone all’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. che arricchisce il prodotto con il suo sapore dolce, vellutato e pieno, con spiccate note di liquirizia, sentori di vaniglia, di note tostate e di burro fuso, armoniose note aromatiche non invasive. (A.M.)

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GOLAVAGANDO

A CAGLIARI

S’INCONTRU È CONVIVIALITÀ AD OGNI ORA DEL GIORNO E PUNTO D’INCONTRO PER LA CITTÀ S’Incontru nasce nel giugno del 2003 a Pula, in Piazza del Popolo, dall’intuizione di due soci, Andrea Malloci e Antonello Montisci. Il locale prende il nome di S’Incontru perché ogni anno a Pasqua, nella piazza in cui si trova, si celebra il tipico rito di S’Incontru, una rappresentazione in cui la statua di Gesù incontra quella di Maria dopo la resurrezione. Recentemente S’Incontru ha aperto a Cagliari ed anche questa volta i due soci si sono affidati all’esperienza di Costa Group per la progettazione e la realizzazione dell’arredo. Si trova in Viale Trieste, centralissima arteria verde della città, zona di servizi e uffici molto trafficata durante le ore diurne, ma anche la sera grazie ai numerosi locali notturni, ristorantini e bar che la popolano. Il locale ha una dimensione totale di 600mq. circa di cui 300 di open space con un soffitto a capriate di legno bianco alto 7m., all’interno del quale è stata creata la sala “Sulle Nuvole” situata su un soppalco in acciaio a vista, dal quale si può ammirare tutta l’ampiezza della struttura. La scala centrale in ferro è diventata un elemento di arredo unico e caratterizzante e si va a fondere magicamente con le capriate del soffitto grazie alla costruzione di una struttura a forma di casetta.

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GOLAVAGANDO

La parte bassa del locale è dominata da uno splendido banco quadrato ad isola in marmo bianco e ferro che cambia la sua funzione nell’arco della giornata partendo dalle colazioni, passando per i cocktail fino ad arrivare al sushi bar. Sotto il soppalco si trovano invece le cucine a vista, separate dalla sala e dalla galleria dalle tipiche e ampie vetrate verdi. Proseguendo, in fondo al locale si trovano 200mq. di cortile interno semicoperto dove è stata creata la “Piazza Porta Nuova”, uno spazio informale con panche e tavoli molto grandi, che possono essere condivisi da più gruppi di persone creando un clima di convivialità. In questa sala è stato installato il vecchio originale portone del locale. S’incontru, nei suoi 14 anni di attività, ha cambiato pelle, si è evoluto, pur mantenendo sempre la sua impronta originale di locale dal clima fresco e amichevole. Nato come pizzeria, oggi può vantare nei suoi tavoli incroci perfettamente sincronizzati di portate che vanno dalla cucina mediterranea, alla griglia, alla pizza, al sushi, al piatto vegetariano o addirittura vegano. “Il nostro concetto e obiettivo è quello di poter dire sempre “Sì” al cliente. Ci deve essere sempre un motivo per andare da S’Incontru, anche solo per un caffè e per “scroccare “ il free wi fi, leggere un quotidiano o per un colloquio di lavoro. “S’Incontru vuole essere e deve essere un punto di riferimento per la città”, spiega Andrea Mallocci e prosegue: “Il format S’Incontru è il risultato di uno studio costante del mercato e delle esigenze del nostro territorio, di fiere e viaggi e molto altro ancora. Abbiamo fatto scelte che molti riterrebbero “azzardate” perché in

controtendenza, ma seguendo anche il consiglio di Franco Costa “dovete giocare un’altra partita” abbiamo ottenuto risultati molto positivi. Ad oggi abbiamo una squadra di 90 dipendenti in 2 ristoranti e contiamo nei prossimi anni di aprire un nuovo S’Incontru in una importante città della penisola. Provare a misurarci con una realtà al di fuori della nostra bellissima isola sarà per noi la prossima sfida e ad ora più grande stimolo!”.

S’INCONTRU

Viale Trieste, 74 - Cagliari

Design e Arredo

Costa Group, Arch. Sara Paveto

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GOLAVAGANDO

L’IDENTITÀ TERRITORIALE AD

ARTECIBO

NEI PRESSI DEL BORGO DI LOCOROTONDO foto di

di Sandro Romano Ezio D’Onghia e Giovanni Mastropasqua

A soli 2 km dal centro del suggestivo borgo di Locorotondo, nel cuore della Valle d’Itria, si trova il ristorante ArteCibo, un’interessante struttura immersa in un’oasi di pace dove dimenticare lo stress quotidiano e godere di una delle zone più caratteristiche e suggestive della Puglia. Il Leonardo Trulli Resort ospita il ristorante con cucina curata ma non complessa in ambiente rilassante, raffinato ed elegante. Leonardo, il signore da cui questo luogo ha preso il nome, era il cugino di Giovanni, papà di Rosalba Cardone, padrona di casa del resort. Prima che la struttura diventasse ciò che è oggi, Leonardo ci viveva e coltivava la terra nel rispetto totale della natura e dei suoi cicli biologici, allevando bestiame e producendo in proprio vino e olio.

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Ancor prima, durante il servizio militare, avvenne qualcosa che cambiò decisamente la sua vita: si innamorò di una giovane aristocratica friulana. Un amore, purtroppo, non ricambiato. Il dolore lo segnò a tal punto da spingerlo a chiudersi in se stesso e a trovare rifugio nella sua terra, dove fu accolto dall’amicizia e dalle cure amorevoli della famiglia Cardone. Fu così che si creò un legame così forte che, alla sua morte, Leonardo donò quel meraviglioso pezzo di terra al cugino. A testimonianza di quella storia d’amore non ricambiata, ancora oggi al Leonardo Trulli Resort si conserva la struggente corrispondenza tra Leonardo e il fratello. Il resort si compone complessivamente di 10 stanze suddivise in 6 trulli con giardino privato e 4 in un villino liberty in pietra. Ogni stanza del villino è affrescata, con le tipiche volte a botte e pavimenti in graniglia ed è dotata di giardino privato o ampio terrazzo. Difficile scegliere quale sia la più bella, perché l’attento recupero conservativo operato dall’architetto Sonia Continiello, ne ha lasciato intatto il fascino antico, mescolandolo, in un connubio perfettamente riuscito, la comodità con la modernità. Insomma, nel Leonardo Trulli Resort di Locorotondo c’è proprio tutto per lasciarsi coccolare dal fascino e dalla tranquillità della Valle, spingendo l’ospite a godere delle comodità offerte al suo interno, compresa la curatissima piscina al sale, immersa nel verde della bellissima campagna circostante tra gli ulivi, che in Puglia rappresentano il suo simbolo più vero. L’ArteCibo Trulli Resort completa l’offerta: curatissimo ed elegante, qui al mattino si serve anche la golosa colazione a base di prodotti biologici, dolci fatti in casa e marmellate artigianali preparate con la frutta del-

la campagna circostante. Non mancano i prodotti caseari, i salumi locali ed altre specialità del luogo. ArteCibo la sera è aperto anche ad ospiti esterni, ma solo su prenotazione e organizzato con una formula che richiama ancora il concetto di famiglia e di convivialità. Ci si siede a tavola tutti insieme alle ore 20.30 e il menù è stabilito dalla cuoca Grazia Poliseno (foto in basso), barese, che lo sceglie in base a ciò che la natura offre e ai migliori acquisti di carne o di pesce che giornalmente vengono effettuati. La cena è offerta al prezzo fisso di € 45 vini esclusi, con la possibilità di scegliere tra circa 20 etichette di vini pugliesi. Quaranta i posti in tutto.

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GOLAVAGANDO

L’IDENTITÀ IN CUCINA Bello sottolineare come Rosalba e Grazia – per tutti Lilly – abbiano completa autonomia decisionale nei loro comparti: Rosalba si occupa dell’accoglienza, portata com’è a comprenderne le esigenze e le necessità, grazie al bagaglio di esperienze accumulato nella sua lunga attività di viaggiatrice; Lilly si occupa della cucina in ogni suo aspetto, forte dell’esperienza acquisita precedentemente in altre strutture. La mattina, però, quando si tratta di andare ad approvvigionarsi, le due anime del Leonardo diventano un sol corpo e, in perfetta sinergia, se ne occupano insieme, scegliendo la migliore materia prima da trasformare nei piatti che coccoleranno la clientela di ArteCibo. La passione per la cucina che anima la cuoca è una delle carte vincenti del ristorante, perché, pur partendo da idee collaudate, le ricette si adattano agli ingredienti del giorno, rigorosamente prodotti dal papà di Rosalba

RISTORANTE ARTECIBO LEONARDO TRULLI RESORT

Contrada Semeraro,107 - 70010 Locorotondo (BA) www.leonardotrulliresort.com

per quanto riguarda gli ortaggi, le erbe e le insalate, e acquistati esclusivamente da piccole aziende locali per quanto riguarda, invece, la carne e il pesce. Ma la passione Lilly l’ha scoperta alcuni anni fa, cominciando a lavorare da cuoca quasi per divertimento; lei, barese purosangue e diplomata all’Istituto d’arte, aveva un negozio di cornici e si occupava di restauro e di lavorazione di foglia d’oro, ma tutto ciò non la rendeva completamente appagata. Così cominciò a lavorare nei fine settimana in alcune importanti strutture agrituristiche e capì che la sua felicità era tra i fornelli. Qualche tempo fa l’incontro con Rosalba la porta a prendere le redini di ArteCibo e lo fa con autorevolezza, nel rispetto di quelle che sono le prerogative del luogo: prodotti biologici, cucina semplice ma curata; in un’atmosfera rilassante e raffinata, gli ospiti assaporano le sue ricette creative. Un ristorante dove sentirsi coccolati come se si fosse a casa propria, in una sala accogliente, con un bel camino e, alle pareti, colorati quadri che ripropongono immagini prese da calendari dell’antica storia di Locorotondo.

COSA MANGIARE La cucina di Lilly Poliseno tende alla valorizzazione delle materie prime presenti in casa e coltivate da Giovanni nel pieno rispetto della natura, delle stagioni e senza l’utilizzo della chimica. Dalle sue mani nascono piatti semplici ma curatissimi e gustosi: tortino di fave, tartare di olive, cicorielle selvatiche e cipolla caramellata; caldo/morbido di spinaci; acquasale con feta, barattiere e fragole; strascinate con funghi cardoncelli, pomodori secchi e primosale; strascinate di grano sara-

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ceno con crema di ceci neri e puntarelle; risotto con salicornia oppure con gamberi, zucchine, fiori di zucca e stracciatella; cubo di filetto di manzo con riduzione di susumaniello alla crosta di pepe nero; agnello in fricassea con uovo, limone e salvia; entrecote alla piastra marinata con gli odori dell’orto. Ma la vera passione di Lilly si estrinseca sui dessert, che chiudono la cena ad ArteCibo completando e valorizzando il percorso di degustazione. Vere leccornie come la bavarese ai fichi con panna mandorlata o le dita degli apostoli con ricotta, cannella, arancia, limone e cioccolato con salsa vaniglia, diventano giĂ da sole un pretesto per tornare quanto prima ad ArteCibo. Il ristorante è a disposizione anche per l’organizzazione di piccoli ricevimenti e feste private.

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GOLAVAGANDO

L’IDENTITÀ TERRITORIALE AD

OSTA! DISPENSA & CUCINA IL NUOVO “FOOD CONCEPT” DEL CASEIFICIO MAMBELLI NEL FORLIVESE di

Alessandra D’Imperio

Questo novembre si dà il via ad una nuova avventura... ha aperto “Osta! dispensa & cucina”, il nuovo “food concept” del Caseificio Mambelli. Osta, dal dialetto romagnolo, è espressione di meraviglia e sorpresa. E’ esclamazione di autentica spontaneità, che nasce dalla nostra “pancia” dove risiedono le emozioni e le sensazioni più sincere. Spontaneità, sincerità, emozionalità sono proprio le caratteristiche della cucina dello chef Pierangelo Medri. Il menù proposto, sempre di stagione, è un originale mix tra tradizione ed innovazione, con materie prime selezionate, in parte prodotte direttamente dal caseificio, e con “incursioni” di cucina vegetariana e bio. Nella dispensa di Osta! è disponibile tutta la gamma dei prodotti Mambelli ed una selezione di eccellenze del territorio (vini, birre, farine, confetture, olio, uova e tanto altro). Ad Osta! si sta bene in ogni momento della giornata: si può scegliere di fare la spesa, consumare un veloce pranzo di lavoro oppure una comoda cena in tutto relax. Per chi ha poco tempo il servizio d’asporto è la soluzione ideale.

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GOLAVAGANDO

Da segnalare anche l’appuntamento con “I venerdì di Osta!”, serate a tema per viaggiare nel nostro territorio alla scoperta di produzioni locali ed eccellenze enogastronomiche, accompagnati direttamente dai produttori. Osta! dispensa & cucina è aperto, a pranzo, dal lunedì al sabato e, a cena, il giovedì, venerdì e sabato. OSTA! DISPENSA & CUCINA

Via Ceredi, 1402 - S. Maria Nuova di Bertinoro (FC) - Tel 0543 440936 - www.mambelli.com

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GOURMETFOOD

LA FORTE PERSONALITÀ DE

LA TANA GOURMET E LE SCELTE CORAGGIOSE DI ALESSANSDRO DAL DEGAN ED ENRICO MAGLIO di

Lisa Foletti

Un pasto a La Tana Gourmet restituisce l’affresco minuzioso di un territorio, quello dell’Altopiano di Asiago, mostrando al contempo il ritratto sincero di due uomini, Alessandro Dal Degan ed Enrico Maglio, titolari del ristorante, rispettivamente chef e direttore di sala. Ogni dettaglio, ogni gesto, ogni portata è una piccola istantanea della loro storia personale, variamente intrecciata con quella dei luoghi che li ospitano, cartoline incantevoli ma anche vestigia di un passato ingombrante, ancora vivissimo nella memoria e sotto la pelle di chi vi abita.

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LATANAGOURMET

© the mf

C’è dedizione, qui. Una determinazione quasi palpabile, nella scelta del posto come nella volontà di portare avanti il progetto ardimentoso di un ristorante gastronomico e di un’osteria fuori dal centro abitato, vicino alle piste da sci. La stessa fermezza che c’è nella ricerca di una marca personale, identitaria e identificativa, fiera espressione di luoghi reali e mentali. La sala è luminosa e distensiva, con grandi vetrate che annullano le distanze fra l’interno e l’esterno: inondati dal sole, sferzati da un verdeggiare energico e salvifico, si riceve l’abbraccio delle montagne e la carezza dei prati tutt’attorno. In cucina c’è una mano sicura e felicemente tecnica, e si percepiscono fermento e curiosità: sono i frutti di un percorso unico che, dall’amore di una madre cuoca, ha condotto Dal Degan alla Scuola Alberghiera di Firenze e poi nelle cucine di alcuni ristoranti in Toscana, fino alla decisione di aprire il suo locale nella cittadina di origine. Niente esperienze altisonanti né blasonate, dunque, ma un prezioso cocktail di talento, risolutezza e tanto sale in zucca.

© the mf

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GOURMETFOOD

Il focus sul territorio - concetto tanto abusato quanto prezioso, se ben interpretato - è lampante: latticello, finferli, abete bianco, pino mugo, lumache, licheni, anguilla di montagna, capriolo, yogurt, liquirizia selvatica, sono solo alcuni dei colori che compongono la tavolozza dello chef, più a olio che ad acquerello. E colpisce soprattutto la personalità: indole, sostanza, essenza, midollo, anima, tempra, smalto, istinto. Forti di materie prime poco diffuse e marcatamente territoriali, e di un rigore sostanziale oltre che formale, i piatti rifuggono il compiacimento e lasciano emergere la forza degli ingredienti, concentrandone l’essenza per delineare sapori non codificati. Il risultato è sempre netto, profilato, intenso e originale, fatto di contrasti e chiaroscuri mai caricaturali. L’incipit del menu degustazione è di quelli che mettono subito le cose in chiaro: latticello, finferli, abete e carciofo, un piatto prodigo di dettagli e sensazioni, più affilato che rotondo, intensamente aromatico, deliziosamente acido e dal lungo finale amarognolo. Si passa poi alle iridescenti e carnose lumache stufate nel fieno, salsa di erbe e pino mugo fermentato, abete bianco e peperoncino, per arrivare al sontuoso orzo mantecato con formaggio Asiago e carbone vegetale, scampi, licheni essiccati, polvere di fagioli neri e katsuobushi, scenografico per le scaglie semoventi di tonno, sostanzioso senza peccare di grazia, e innervato di sapidità. Gustosamente essenziali gli spaghetti al pomodoro, dove il pomodoro essiccato è nell’impasto degli spaghettoni, belli tenaci, e il condimento è una semplice salsa di burro ed erbe aromatiche. La morbida lingua di bue con mirto e carciofo traghetta perentoriamente il palato verso i secondi piatti, tra i quali svetta la trippa in fricassea con brodo di lichene islandico e cozze, una marcata stratificazione di aromi animali e iodati, solcati della vena amaricante del lichene.

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LATANAGOURMET

LUMACHE

stufate nel fieno, crema di erbe e pane al muschio INGREDIENTI

PREPARAZIONE

1 porro

burro ed acqua, sfumare con il brodo di fieno poi

6 lumache scottate per porzione g. 400 di brodo di fieno

g. 500 di fondo di vitello sale q.b.

g. 30 di burro

g. 200 di lattuga

g. 200 di bietole g. 700 di latte g. 30 di farina

g. 70 di cipolla bianca g. 50 di olio evo sale

pane al muschio q.b.

pigna fermentata q.b.

peperone del piquillo q.b. polvere di erbe q.b.

Per le lumache: soffriggere il porro tritato con

aggiungere le lumache ed il fondo di vitello. Cuocere a fuoco basso per 1 ora, salare e mantecare con poco burro.

Per la crema di erbe: tagliare la cipolla a julienne e appassire in tegame con olio e poca acqua. Unire le erbe pulite e tagliate grossolanamente.

Cospargere con la farina setacciata e mescolare. Unire il latte bollente.

Cuocere per 10 minuti dal bollore e salare. Frullare e raffreddare con pellicola a contatto. Finitura del piatto

Macchiare i piatti con la crema. Disporre le lumache. Spolverare con il pane al muschio e la pol-

vere di erbe. Cospargere con qualche goccia di pigna fermentata. Ultimare con qualche pezzetto di peperone del piquillo.

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GOURMETFOOD

A seguire il piatto forse più energico del menu, di esclamativa bontà: anguilla di fiume con salsa di capriolo, ibisco e rapa rossa, dove la grassezza debordante dell’anguilla d’acqua dolce, dal gusto delicato e per nulla limoso, entra in risonanza con l’intensità della salsa e con le note acido terrose dell’ibisco e della rapa rossa. Poi, un vero coup de théâtre servito come prédessert: cuore di vitello, lamponi, yogurt alle erbe e anice selvatico, dove la consistenza morbida e voluttuosa del carpaccio di cuore gioca con le filigrane acidule e profumate dei lamponi e delle erbe, evocando una dolcezza solo accennata. E fuori dalla zona di comfort è anche il dessert: sorbetto al mugolio, orzo tostato, tuorlo d’uovo e polvere di liquirizia selvatica, un trompe-l’oeil carico di spigolature, che non cede alla golosità tout court. Per la dolcezza vera e propria occorre attendere la piccola pasticceria, deliziosa senza essere civettuola. In sala Enrico Maglio è un cicerone affabile e pacato, incline al dialogo e prodigo di dettagli, senza invadenza né prosopopea. Anche il suo sguardo e le sue parole, come quelli dello chef, tradiscono il trasporto e l’orgoglio per questo bel progetto, manifesto eloquente di un territorio e di due forti personalità.

L’ORZO

terra ed acqua INGREDIENTI

g. 400 di orzo bollito, g. 320 di amido di riso, g. 200 di brodo di scampi, g. 40 di parmigiano grattugiato, g. 60 di burro, g. 80 di creme fraiche, g. 10 di nero di seppia, sale, lattuga di mare essiccata, katsuobushi, limone candito nel sale, mix di erbe secche, maionese di scampi, polvere di fagioli neri, alga wakame secca polverizzata. PREPARAZIONE

In un pentolino riunire l’orzo, l’amido di riso, il nero di seppia, il brodo di scampi e portare a bollore. Cuocere 3-4 minuti, quindi mantecare con parmigiano, burro e creme fraiche. Lasciar riposare 5 minuti quindi riportare a bollore. Versare nei

LA TANA GOURMET

Via Kaberlaba 19, 36012 Asiago (VI)

Tel. 0424 462521 oppure 0424 462017 www.latanagourmet.it info@latanagourmet.it

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piatti. Cospargere la superficie con uno strato omogeneo di polvere di fagioli neri. Creare una mezzaluna in una metà del piatto con una striscia di polvere di alga wa-

kame in polvere. Affiancare con un’altra striscia di polvere di erbe. Coprire queste strisce con la lattuga di mare essiccata ridotta in foglioline. Disporre 5-6 pinte di

maionese di scampi. Disporre 4-5 cubettini di limone candito nel sale. Ultimare con il katsuobushi spezzettato sottile.



GOURMETFOOD

IL RISTORANTE GOURMET DI PALAZZO VENART A VENEZIA:

GLAM

LA FIRMA DI BARTOLINI E IL RETAGGIO DI CRIPPA NELLE PROPOSTE DI DONATO ASCANI di

Giulia Gavagnin

I remi increspano l’acqua in uno sciabordare continuo e sonnolento. La nebbia è sottile e lontana, squarciata dai raggi di un sole ancora tiepido che trapassano come spade le bifore degli edifici patrizi. Il gonfalone di San Marco sventola da lontano e rende ancora più maestoso l’approccio alla soglia d’ingresso di Palazzo Venart, tra le più recenti aperture a cinque stelle di Venezia. Dal Canal Grande, la gondola sbarca direttamente su un giardino prosperoso: un lusso nel lusso, non ce ne sono altri nella città serenissima. Nel palazzo, degno di Casanova, diciotto magnifiche stanze d’epoca. Sete, broccati, velluti, di tonalità ora accese, ora tenui, a seconda dell’angolazione della luce, mai così cangiante come in questo lembo di laguna. L’edificio è avvolto da un silenzio quasi mistico, rotto talvolta solo dalle soffuse musiche “glamorous” ideate e assemblate dal dj Valentino Borgia.

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RISTORANTEGLAM

La sala del ristorante è elegante e raccolta. Venti coperti all’interno, venti nel giardino esterno, specchi dorati che riflettono le sagome di alberi secolari, e un nome: Enrico Bartolini. C’è la firma dell’enfant prodige toscano dietro al progetto Glam, ultima di una serie di fortunate aperture, che non mancherà di replicare il successo dei predecessori. In cucina una giovane promessa, Donato Ascani, laziale purosangue figlio di ristoratori con l’imprinting indelebile della scuola Piazza Duomo di Alba. Quattro anni da Enrico Crippa e un periodo più breve con Paolo Lopriore ai Tre Cristi hanno orientato le costruzioni gustative di Ascani verso un’accentuata tendenza ai contrasti e all’utilizzo di erbe officinali per comporre e sostenere la tessitura del piatto. “Scelgo solo materia prima di qualità eccelsa, che cerco di trattare il meno possibile per valorizzare il prodotto”, dice Ascani. “Vado al mercato di Rialto tutte le mattine, scelgo personalmente la frutta, la verdura e il pesce,

quindi non posso tenere sempre tutto in carta. Molti dei miei piatti sono stagionali, presto grande attenzione alla disponibilità delle materie prime”. Fiori edibili ed erbe provengono dall’Orto della Giudecca di Michele Savorgnano, uno dei maestri dell’agricoltura sinergica, che non contempla né aratura del terreno, né (ovviamente) utilizzo di concimi chimici e diserbanti. Amaranti, achillee, calendule, fiordalisi, garofani, ibischi, malve, papaveri, salvie, trifogli bianchi, cardi, carciofi, finoc-

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GOURMETFOOD

chi, sedani, biete, acetose, misticanze, artemisie, assenzi, dragoncelli, elicrisi, santoline, basilico greco e nero, agli, cipolle rosse sono utilizzati da Ascani come combinazioni sinfoniche alla maniera del suo maestro Crippa. Domanda d’obbligo: la sua è una cucina da gourmand tout court o contempla anche l’inserimento di elementi autoctoni? “La cucina veneziana tradizionale è semplice, ma di grande carattere. I richiami alla tradizione locale mi tentano, ma cerco di inserirli gradualmente, perché la nostra clientela è perlopiù internazionale e, quindi, non abituata ad alcuni sapori forti. Quando i miei esperimenti hanno successo, però, sono molto soddisfatto: ad esempio, un piatto assai radicato nel territorio che è entrato stabilmente in carta è il Saor in zucca con baccalà mantecato alle erbe. Oggi è il più richiesto”. C’è molta Venezia anche nella quantità e nella qualità degli “appetizer” inziali, così simili ai “cicchetti da bacaro” nella goduriosa piacevolezza, ma così diversi nella finezza del concept e nella maestria esecutiva. L’uovo in crema con bottarga e peperoncino, la millefoglie di baccalà, le interpretazioni dei panini morbidi (con uovo strapazzato e cicoria e carne cruda e tartufo nero), il crostino di nero di seppia e uova di salmone nella loro apparente complessità soddisfano

le aspettative del cliente più esigente. La baguette di nervetti di vitello marinati e con i semi di sesamo tostati, poi, sembra la versione 2.0 del “cicchetto” più autentico. Ascani, tuttavia, minimizza: “Da sempre lavoro con le frattaglie. I nervetti fanno parte del mio background, perché appartengono anche della tradizione romana. Ai Tre Cristi con Lopriore mi sono occupato di una carta di sole frattaglie e c’erano clienti che venivano da noi solo per quella. Qui a Venezia, forse, ci vuole ancora un po’ di tempo prima che la nostra clientela si abitui a una carta di sole frattaglie, e anche ad abbinamenti più arditi. Tuttavia, ho cominciato a proporre

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RISTORANTEGLAM

UOVO NELL’UOVO INGREDIENTI per 2 persone

PREPARAZIONE

g. 300 di panna liquida

Una volta pronto, aiutandosi con un dosasalsa, versare il tutto all’interno dei gusci

3 tuorli d’oro sale q.b.

bottarga di tonno

peperoncino fresco

scorza di bergamotto

Mescolare gli ingredienti in una boule fino ad ottenere un composto omogeneo. d’uovo. Quest’ultimi si aprrono con un rompiguscio da cucina. Mettere le uova in forno a vapore per 18/20 minuti a 85°C.

Una volta pronte e lasciate raffredderare, completare con la bottarga di tonno, un tocco di peperoncino e una punta di scorza di bergamotto.

con successo accostamenti inconsueti, come quelli tra le ostriche e la carne”. In realtà, la gran parte dei piatti di Ascani gioca già su terreni poco convenzionali. La tradizione è sempre rivisitata, con particolare attenzione ai contrasti. E’ il caso della piemontesissima crema dolce e nocciola, un incontro di grassezza, dolcezza e sapidità tutto-in-uno o dei porcini con crema e rognoncino di coniglio, con il quinto quarto ad accentuare il sentore terroso tipico del fungo. Non mancano nemmeno connubi con la cucina d’Oltralpe: filetto di razza piemontese con foie gras e melanzane grigliate. Ascani è senz’altro ambizioso: “Nella mia cucina

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GOURMETFOOD

CREMA DOLCE INGREDIENTI per 2 persone 2 patate rosse

g. 50 di panna

g. 100 di nocciole tostate g. 20 di acciuga sott’olio sale q.b.

PREPARAZIONE

Mettere una pentola sul fuoco con acqua calda e sale: bollire le patate. Nel frattem-

po tostare le nocciole a 150°C in forno per 20 minuti. Pronte le patate, trasferirle in una boule, aggiungere la panna e frullare. Si otterrà così una purea.

Tirare fuori dal forno le nocciole, tritarle in un mixer finchè non diventano una crema.

Per la panna all’acciuga: mettere in infusione in un pentolino le acciughe con la panna, far bollire e con una frusta sciogliere bene l’acciuga all’interno.

Filtrare la panna aromatizzata. Completare il piatto in una piccola fondina distri-

buendo un po’ di crema di nocciole, la purea di patate, la panna all’acciuga e della nocciola sbriciolata.

cerco di ripercorrere tutte le tonalità dei sapori e di ricreare le emozioni gustative del salato, del dolce, dell’acido e dell’amaro”. In questo percorso non manca, ovviamente, la riproposizione dei classici di Bartolini (menu a 90 euro), a partire dalla patata soffice, capperi, granchio e finger lime, per approdare all’ormai celebre risotto alle rape rosse e salsa al gorgonzola, stabilmente in carta al Mudec di Milano. Vale la pena, tuttavia, di affidarsi interamente al talento del giovane chef laziale e lasciarsi guidare dal menu degustazione di otto assaggi “istintivi (110 euro). L’ottimo servizio di sala di Danilo Bernardi, forte anch’egli di una lunga permanenza a Piazza Duomo, suggellerà un’esperienza tra le più interessanti della città lagunare. GLAM BY BARTOLINI Palazzo Venart Luxury Calle Tron, 1961 - Santa Croce - Venezia Tel. +39 041 523 56 76

www.ristoranteglam.com - info@ristoranteglam.com

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GOURMETFOOD

IL NUOVO PERCORSO DI

GIANLUCA GORINI “RICOMINCIO DA ME” di

Carla Latini

Il giorno dell’inaugurazione gli brillano gli occhi. Con il cuore di mamma che mi accompagna sempre, quando incontro giovani di talento, percepisco un’emozione bambina, sincera. Tenera e commovente. Anche perché quel pomeriggio non c’erano solo cuochi famosi, giornalisti e opinion leader di pregio della Romagna, ma tanti amici, parenti stretti. Una bella festa in famiglia nel luogo più adatto, questo accogliente ristorante che somiglia ad una locanda di lusso. Un’osteria dove passare una lunga serata seduti al bancone del bar. L’arredo è caldo, avvolgente. Tovaglie bianche, legno vivo, ceramiche bianche tono su tono, comode poltrone, divani che invitano

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GIANLUCAGORINI

a un piacevole bivacco di classe. C’è la sala dedicata ai bimbi, ad altezza e misura di bimbi, con tanti fogli per colorare, matite e colori a cera fra pareti con disegni a tema. Bello. Qui i bambini inizieranno a mangiare crescendo pian piano fino a sedersi di là, fra i grandi. Ne ha fatta tanta di strada Gianluca. Dalla cucina di nonna, mamma e zia a stendere sfoglie e fare ripieni. Aveva 18 anni e tanta voglia di imparare. Ha tanta voglia di imparare anche ora a 34 anni. Al telefono mi dice che si sente carico e pronto per questa nuova strada da percorrere. “Mi pentirò un giorno?” Ma non crede nemmeno lui a quello che sta dicendo. Oggi Gorini non è più il cuoco di qualcuno: è il cuoco di se stesso. Il nuovo locale si chiama DaGori-

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GOURMETFOOD

TORTELLI

ripieni di melanzane affumicata, erba cipollina e caprino INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

setaccio fine e ritirare in frigorifero. Al mo-

g. 100 di erba cipollina

fino a quando il composto non risulterà

zetti e in un pentolino piccolo montarlo a

4 melanzane lunghe g. 150 di burro

g. 20 di parmigiano

g. 100 di caprino fresco Azienda Agricola Rossi Rita olio evo sale

Per la pasta

g. 250 di farina “00”

g. 50 di semola grossa 3 uova sale

olio evo

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Per la pasta: impastare tutti gli ingredienti omogeneo. Riposare al fresco.

Per la farcia: con l’aiuto di una fiamma

bruciare esternamente le melanzane, avvolgere ognuna di loro con della carta

alluminio e cuocere in forno a 180°C per

1 ora circa. Spolpare le melanzane avendo

cura di non prendere la parte della buccia bruciata e frullare al frullatore. Aggiustare di sale e montare a filo con olio evo.

Per la salsa di erba cipollina: in un cutter frullare assieme 100 grammi di burro e

100 grammi di erba cipollina, passare al

mento del servizio, tagliare il burro a pezfiamma bassa.

Per i tortelli: tirare una sfoglia non troppo sottile e tagliare dei quadrati di pasta di 4 centimetri per lato.

Farcire con la farcia di melanzane e chiudere a modo di tortello.

FINITURA: cuocere i tortelli in abbondan-

te acqua salata, scolarli e mantecarli in pa-

della con burro e parmigiano. In un piatto

di portata sistemare alla base la salsa di erba cipollina, aggiungere poi i tortelli e finire con il caprino setacciato.


GIANLUCAGORINI

ni, tutto attaccato, e la dice lunga. Come nelle insegne di una volta che ricordavano subito al cliente chi c’era in cucina. Il cliente è al centro del suo lavoro. E’ il cliente che giudica. Che si innamora. E a proposito d’amore il Gorini ritrovato deve molto alla sua compagna Sara Silvani (foto a lato). Un braccio armato pieno di passione. Un amico di cui mi fido, perché conosco le sue capacità (Stefano Rossi, fiosoterapista gourmet in quel di Bologna) lo ha definito ‘un piccolo genio’; il futuro Romito. Gianluca è cresciuto con Paolo Lo Priore e lo si percepisce anche se, ormai, la sua identità prende il sopravvento con eleganza. Ha solide basi tradizionali e culturali in una terra generosa di prodotti dalla spiccata personalità. Nel nuovo ristorante lavora solo fresco, locale e stagionale per dare al cliente una cucina sempre in movimento. Mai statica. Così a pranzo ci si ferma per una breve sosta. Mangiando anche un piatto nei tempi giusti e che non mette mai in soggezione, sia questo un risotto tradizionale o dei tortelli ripieni. Tutto molto ben fatto. È alla sera, a cena, che appare il Gianluca Gorini che conosciamo e che ci stupisce sempre con quel tocco di classe in più, con quell’idea brillante che ci fa pensare ‘ah, però!’ mentre sapori decisi si confondono in un sapore unico. Quello che abbiamo sempre sognato. Gorini unisce e divide la materia prima trasformandola per farla ritornare da dove è partita. Questo suo fuggire un poco dalla tradizione per poi tornare da lei, sorridendo, è quasi magia. All’inaugurazione ho avuto modo di assaggiare grissini e pani fatti in casa, degli eccellenti spaghetti cacio e pepe e sfizi d’autore come sottili fette di rapa rossa chiuse e mo’ di fazzolettino le cui falde si uniscono perché all’interno c’è del caprino delicato. Poi sono andata a cena da lui in un giorno feriale. Confesso che ho avuto difficoltà a scegliere un giorno perché, evviva!, è sempre pieno. E il sabato e la domenica anche di più. Volevo riprovare la sensazione netta che

RISOTTO

mantecato al pecorino di fossa, macis e aceto balsamico tradizionale di Modena

INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

Riserva San Massimo

bassa, salare e sfumare con vino bianco;

g. 250 di riso carnaroli

g. 60 di pecorino di fossa

“La fossa dell’abbondanza” grattato g. 40 di burro acido

g. 10 di macis in polvere g. 30 di aceto balsamico tradizionale di Modena vino bianco sale

In una casseruola tostare il riso a fiamma proseguire la cottura con acqua.

Quando il risotto sarà arrivato a cottura mantecare con il burro acido e il pecorino di fossa; aggiustare di sale se necessario. Lasciare riposare coperto per un minuto.

In un piatto di portata posizionare il risotto, spolverare con il macis e finire con l’aceto balsamico.

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GOURMETFOOD

parte dalla rassicurante tradizione e sfocia, come in un lampo a ciel sereno, nell’idea brillante di cui sopra. L’idea geniale. Ho assaggiato il risotto con pecorino di fossa, macis e aceto balsamico tradizionale di Modena (foto e ricetta a pag. 47). Un risotto gaudente che riempie l’occhio e il palato con la forza del fossa, la delicatezza del macis e la dolcezza del balsamico. L’idea brillante? Aver saputo dosare il macis talmente bene che sembra essere il protagonista del piatto. Ma non lo è. Analoga emozione per i tortelli ripieni di melanzane affumicate, erba cipollina e caprino (pag. 46). Il caprino lo troverete fuori. Generosamente adagiato sui tortelli. La cipollina sotto a specchio. Mentre assaggio, Gianluca mi guarda con un punto di domanda scritto sulla fronte. Sono felice. Provo anche la rana pescatrice arrosto con finocchio, lime e camomilla (qui a lato). Contrasti delicati e forti. Mi piacciono molto. Il piccolo genio va oltre le mie aspettative. E dalla felicità passo alla risata liberatoria quando arriva la faraona, sempre arrosto come letteratura comanda, con albicocche al vermouth, nocciola e rosmarino. Di albicocche al vermouth ne mangerei anche a colazione. La carne della faraona è tenera e sa di basso Appennino. Nocciola e rosmarino sanno di montagne ancora più in su. Siamo nel bosco e lo stiamo mangiando. Si capisce che sono entusiasta? Forse troppo. Fucsia travolge le mie papille già ben allenate e soddisfatte finora: rabarbaro al gin, lampone e mandorla amara. DaGorini bisogna fermarsi per due giorni. Vicino ci sono le terme così saprete cosa fare quando non sarete seduti al suo tavolo a farvi sorprendere ogni volta. E se credete di aver già assaggiato tutto e versioni di tutto in ogni parte d’Italia qui, prima del Verghereto, incontrerete un giovane cuoco geniale che ha, nel cuore, la missione di farvi sentire a vostro agio aprendovi, di volta in volta, la porta della mente con una ‘scossa’ di sapori e profumi che solo lui sa come far scattare.

DaGorini

Bagno di Romagna (FC) Via Giuseppe Verdi, 5 Tel. 0543 1908056

Chiuso martedì e mercoledì a pranzo www.dagorini.it

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RANA PESCATRICE ARROSTITA finocchiella, lime e camomilla INGREDIENTI per 4 persone

una centrifuga e lasciare decantare il

di g. 100 circa cadauno

parte densa non si sarà depositata sul

4 filetti di rana pescatrice 4 pezzi di finocchiella

g. 20 di fiori di camomilla secchi g. 10 di capperi 1 lime

qualche cimetta di finocchietto selvatico olio evo sale

PROCEDIMENTO

Per i finocchi: tornire i finocchio in mo-

do da ottenere solo il cuore tenero, condirlo con sale e olio e sigillare in una busta sottovuoto. Sbollentare in acqua

bollente per un due minuti e tenere da parte. Passare poi tutte le parature ad

liquido ottenuto fino quando tutta la fondo. Eliminare l’acqua di vegetazione e recuperare il liquido.

Ammollare i fiori di camomilla per 6 ore in acqua fredda, scolarli e tritarli finemente. Cuocere i filetti di pesce in una

padella di ferro avendo cura di tenere poco cotto l’interno.

FINITURA: in un piatto di portata sistemare alla base l’estratto di finocchio e il finocchio tornito, condire con scorza

di lime e camomilla. Adagiarvi sopra il

filetto di pesce e spolverare con i fiori di camomilla tritati.

Condire con olio evo, sale in fiocchi e rifinire con cime di finocchietto selvatico.



Giovani talenti di

Antonietta Mazzeo Dallosta Tun The Maung

foto di

ANTONIO DANISE A

VILLA NECCHI

IN UN’AMBIENTAZIONE DI CLASSE, IL PIACERE DELLA COMPAGNIA E DEL TEMPO, UN TUFFO NEL CUORE ANTICO DEL RINASCIMENTO

LA

villa è immersa nel silenzio della natura, nel contesto bucolico ed affascinante di dieci ettari di parco. Qui le querce secolari e i giardini aromatici all’interno dell’incantevole parco del Ticino - riserva fluviale segnalata dall’UNESCO come uno dei più affascinanti siti naturali al mondo - compongono un quadro idilliaco.

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VILLANECCHI

La Tenuta alla Portalupa, che sorge a pochi chilometri da Pavia nel comune di Gambolò, in frazione Molino d’Isella, venne rilevata negli anni ’30 da Vittorio Necchi, ed era composta dalla Villa, la cui struttura originale risale alla fine dell’800, e da una grande zona agricola con cascine, boschi e radure. Attento alla storia del passato e lungimirante nella visione del futuro, Vittorio Necchi aggiunse alla tenuta una chiesa, una scuola per i bambini e alcune villette dedicate per il soggiorno del personale di servizio, valori di comunità a cui l’imprenditore diede sempre grande spazio. Esempio di un luogo ideale, ispirato a valori nobili, il villaggio venne accolto dall’Unesco nella lista del patrimonio mondiale protetto e definito “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato d’Europa”. L’opera di restauro per il recupero delle strutture e delle architetture originarie, durata oltre quattro anni, ha permesso la rinascita di un luogo unico, a tratti meraviglioso. Ritornata all’antica bellezza, oggi la Tenuta vanta una raccolta strutturale omogenea in un stile romantico, composta dalla Villa, dal Borgo, dalla Club House e dalla SPA, costruita in quella che era all’epoca una serra da orchidee. La roggia Castellana attraversa la Tenuta Portalupa segnando un confine naturale tra l’incantevole parco della Villa, popolato da pony e cervi, e il Borgo, un tempo area interamente dedicata alla floricoltura, oggi impreziosito da affascinanti fontane e a dal laghetto, abitato da cigni reali.

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Giovani talenti

RISO E PASSIONE INGREDIENTI pr 4 persone

Per la mousse di riso e yogurt: g. 280 di carnaroli Riserva San Massimo, g. 120 di yogurt magro di latteria, g. 500 di latte di riso, g. 200 di zucchero semolato, g. 25 di colla di pesce, g. 250 di panna fresca al 34% di grassi, 1 bacca di vaniglia Bourbon, g. 1 di sale fino.

Cuocere a fiamma bassisima il carnaroli all’interno del latte di riso con

la bacca di vaniglia precedentemente spolpata e lo zucchero semolato. Quando il riso risulterà cotto, frullarlo con l’ausilio del thermomix al fine di ottenere una crema liscia e priva di grumi; coprire con la pellicola e

lascire raffreddare. Aggiungere al composto la colla di pesce ammollata

e strizzata ed infine la panna semi-montata e lo yogurt magro; miscelare

delicatamente utilizzando una frusta da pasticceria evitando che la massa perda di consistenza. Versare il composto all’interno degli stampi in silicone e congelare.

Per la sfera al frutto della passione: g. 300 di polpa di frutto della passione, g. 200 di acqua, g. 10 di agar-agar, g. 100 di zucchero semolato.

Versare la polpa di frutto della passione all’interno degli stampi semisferici; congelare. A parte preparare la gelatina realizzando uno

sciroppo di acqua e zucchero portato a bollore con l’agar-agar. Portare la gelatina a 45°C ed immergervi all’interno le sfere di frutto della pas-

sione, ripetendo l’operazione per due volte affinché si crei una spessa pellicola protettiva.

FASE DI IMPIATTAMENTO

Disporre la mousse di riso e yogurt al centro del piatto; adagiarvi sopra la sfera di frutto della passione.

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La Villa ospita un raffinato ristorante che si compone di tre eleganti sale: la Sala Camino, impreziosita da un camino in marmo di Carrara del 1600, la Sala Azzurra (foto qui sopra), riservata e dal sapore antico, rialzata rispetto alle altre, con grandi vetrate con vista sul Parco e la Sala Bamboo, l’ambiente più grande, luminosa ed accogliente, caratterizzata dall’eleganza dei lampadari in vetro di Murano. La zona bar del corpo centrale della Villa, a ridosso della veranda, è arricchita da un’opera unica, recuperata dalla Villa: un magnifico pannello a muro in olio su tela disegnato da Giuseppe Palanti. Il dipinto, che misura 2,94 metri in altezza e 4 metri in lunghezza, raffigura la signora Lina Ferrari Necchi con il suoi cani nel contesto del laghetto nella zona agricola della Portalupa; Vittorio Necchi, in tenuta da caccia, la saluta dall’isoletta al di là del laghetto, mostrandole orgoglioso la lepre appena cacciata. Antonio Danise, classe 1984, è l’executive chef di Villa Necchi. Napoletano d’origine dopo aver frequentato l’istituto alberghiero “Luigi De Medici” di Ottaviano, ha iniziato lavorando in quella che è stata la sua prima, vera e propria scuola di cucina: il due stelle Michelin “Quattro passi” a Massa Lubrense (NA). Dopo un periodo trascorso nella Svizzera francese, per approfondire una delle sue passioni, la pasticceria, ha poi continuato la sua esperienza in alcuni tra i ristoranti d’eccellenza campani. Nel 2004 si è trasferito a Vigevano in provincia di Pavia, dove ha iniziato a svolgere l’attività di insegnante di cucina, occupazione che svolge tuttora presso il politecnico del commercio e del turismo di Milano come docente, per il corso di tecniche di cucina avanzate. Dal febbraio 2015 “guida” la brigata di cucina di Villa Necchi. Arte, gusto ed innovazione, la cucina di Antonio Danise è ricca di creatività e di passione. Le preparazioni riflettono e trasmettono, in chiave contempo-


VILLANECCHI

ranea, cultura, tradizione e i sapori del territorio, partendo dalle origini gastronomiche della Lomellina, una cucina fortemente influenzata dalla civiltà contadina della risaia, dell’orto, dei fiumi, dei torrenti e dei cavi irrigui, degli animali allevati nelle cascine o cacciati nei boschi. Piatti che a volte nascondono prodotti e lavorazioni che sembrano scontate e superate, ma che rispecchiano i valori e sapori veri della cucina Italiana. Qui nulla è scontato, ogni giorno Antonio sperimentando nuovi abbinamenti e contrasti, trasmette il suo modo di essere chef giocando con colori e profumi. Il punto di partenza è una accurata selezione delle materie prime a basso impatto ambientale, dai prodotti tipici della Lomellina - come il riso e l’oca in tutte le loro declinazioni - alle eccellenze nazionali della tradizione mediterranea, come l’aceto balsamico tradizionale di Modena, la pasta di grano duro italiano, i limoni della costiera Amalfitana, gli agrumi di Sicilia, i capperi di Pantelleria, i pomodorini vesuviani e i pistacchi di Bronte. Se è vero che per gustare al meglio un piatto bisogna abbinarlo con un grande vino … ma anche a un grande olio extravergine di oliva, a Villa Necchi si soddisfano entrambe le condizioni, con un’accurata selezione di oli extravergini di oliva ed una carta dei vini composta da una attenta selezione di vini tipici del territorio e della tradizione, completata da proposte che abbracciano il panorama vitivinicolo italiano e arricchita da un tocco di Francia, con diverse proposte di Champagne. La qualità e la differenza sono nei dettagli: Antonio Danise e Villa Necchi alla Portalupa, sono un connubio ed un contesto ineguagliabile e romantico, non solo un salto nella storia, ma un passato ancora recente e vivace di grandi suggestioni.

BORLOTTI DI LOMELLINA raspadura giovane del Lodigiano e nervetti INGREDIENTI pr 4 persone

g. 160 di raspadura giovane del Lodigiano, g. 130 di fagioli borlotti di

Gambolò, g. 200 di vitello (piedini), g. 5 di prezzemolo fresco, g. 3 di succo di limone, g. 12 di sale, g. 50 di carote, g. 50 di sedano, 2 foglie di alloro, g. 50 di aceto di vino bianco, g. 120 di olio extravergine d’oliva, g. 1 di pepe nero in grani. PROCEDIMENTO

Lavare accuratamente i piedini di vitello sotto acqua corrente, dopodiché, con un coltello mannaia, dividere in pezzi i piedini. RISTORANTE VILLA NECCHI

Via Cavalier Vittorio Necchi, 2-4 Fraz. Molino d’Isella

27025 Gambolò (PV) Tel. 0381 0921601 www.villanecchi.it info@villanecchi.it

Successivamente tagliare anche sedano e carota, dopo averli mondati.

In una pentola capiente versare la carne e gli ortaggi, unire poi l’alloro

e coprire con molta acqua. Infine aggiungere il sale, il pepe nero in grani e l’aceto di vino bianco e portare ad ebollizione coprendo con un coperchio.

Cuocere a fiamma bassa per circa due ore e mezza, tenendo sempre il

coperchio sulla pentola e, a cottura ultimata, scolare le parti, lasciandole raffreddare in un recipiente. Spolpare le ossa con le mani.

Tagliare a listarelle sottili i nervetti, raccogliendoli all’interno di una bastardella in acciaio e farli raffreddare.

Aggiustare di olio, sale e pepe nero, mescolarado con cura. Tritate il prezzemolo precedentemente lavato e asciugato.

A parte, all’interno di una casseruola, portare a bollore l’acqua e cuoce-

re i borlotti per 25 minuti; scolarli, raffreddarli e aggiungerli ai nervetti. Condire con succo di limone, sale, olio e pepe. Disporre l’insalatina ottenuta al centro del piatto cappello del prete ed infine completare con dei riccioli di raspadura lavorata al momento con l’apposita lama.

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Giovani talenti

ANTONIO DANISE INTERPRETA

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www.surgital.it

Giovani talenti per

SCRIGNI AI FUNGHI PORCINI

crema di zucca bertagnina di Dorno e caviale di lumache INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

Divine Creazioni Surgital

zi; all’interno di un apposito pentolino in

24 Scrigni ai funghi porcini g. 15 di caviale di lumaca g. 30 di burro

Per la crema di zucca bertagnina di Dorno

g. 200 di zucca bertagnina di Dorno g. 20 di rosmarino fresco g. 30 di olio evo

g. 200 di brodo vegetale g. 15 di sale

g. 20 di scalogno

g. 1 di pepe nero

Mondare la zucca e tagliarla in piccoli pezalluminio rosolare a fiamma bassissima lo

scalogno tagliato precedentemente a julienne. Aggiungervi la zucca e il rosmarino

tritato, salare e versare il brodo vegetale facendo cuocere per circa 30 minuti.

Frullare il composto ottenuto e successivamente setacciarlo allo scopo di ottenere una salsa liscia e priva di grumi che

sarĂ tenuta in caldo fino al momento del servizio. Saltare gli Scrigni precedente-

mente cotti in acqua bollente salata e scolati, in un tegame con il burro emulsionato ad acqua di cottura. Adagiare gli Scrigni all’interno del piatto, accompagnare rea-

lizzando gocce di salsa di crema di zucca. Guarnire il piatto posizionando sugli Scrigni il caviale di lumache.

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Giovani talenti

BALANZONI AL PARMIGIANO REGGIANO salsa al latte di Kefir e cipolla di Breme, aria all’aceto di miele Parco del Ticino e tartare di palamita

INGREDIENTI per 4 persone

Frullare il composto ottenuto

Divine creazioni Surgital

scopo di ottenere una salsa

20 Balanzoni al Parmigiano Reggiano

Per la salsa al latte di Kefir

all’interno del termomix allo fluida e priva di grumi.

e cipolla di Breme

Per la tartare di palamita: sfi-

g. 100 di latte di Kefir

la tartare che sarà condita po-

g. 200 di latte intero

g. 50 di cipolla di Breme g. 20 di olio evo

Per la tartare di palamita

lettare la palamita e realizzare chi secondi prima dell’impiat-

tamento con il sale alle alghe e l’olio extravergine d’oliva.

g. 200 di palamita

Per l’aria all’aceto di miele Par-

g. 15 di olio evo

citina di soia con l’aceto di miele

g. 20 di sale alle alghe

Per l’aria all’aceto di miele Parco del Ticino

g. 50 di aceto di miele Parco del Ticino g. 25 di lecitina di soia PROCEDIMENTO

Per la salsa al latte di Kefir e cipolla di Breme: tagliare la cipolla di Breme in

julienne sottilissima, lasciarla in ammollo nel latte intero e latte di Kefir per circa 6 ore. All’interno di un apposito pentolino

in acciaio rosolare l’olio evo ed aggiun-

gere il latte e la cipolla di Breme, lasciare

cuocere a fiamma bassissima per circa 40 minuti continuando a mescolare con un cucchiaio.

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co del Ticino: emulsionare la le-

all’interno di un apposito boccale

con l’ausilio del frullatore ad immersione per ottenere una schiuma voluminosa.

Cuocere i Balanzoni in abbondante acqua salata, scolarli, saltarli all’interno di un tegame con 30 grammi di burro emulsionati con acqua di cottura. Impiattare adagiando all’interno del piatto la salsa di latte di Kefir e cipolla di Breme, successivamente i Balanzoni, disponendone 5 per piatto.

Ultimare la preparazione con l’aria all’aceto di miele e la tartare di palamita.


www.surgital.it

Giovani talenti per

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Giovani talenti

QUADRELLI CON AGNELLO E TIMO

ristretto di vitello aromatizzato alla cannella, pomodori semi secchi San Marzano e briciole di tarallo napoletano INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

Legare il jus di vitello ottenuto (circa 500

Divine Creazioni Surgital

carota e il sedano; fare rosolare il tutto

mente ottenuto con il burro e la farina.

24 Quadrelli con agnello e timo g. 60 di pomodori semi secchi San Marzano

g. 100 di tarallo napoletano

Per il ristretto di vitello e cannella g. 100 di cipolla g. 100 di carote

g. 100 di sedano 2 foglie di alloro

g. 2 di pepe in grani

g. 10 di concentrato di pomodoro g. 100 di vino rosso

g. 30 di olio extravergine d’oliva

g. 10 di stecche di cannella intere g. 20 di sale

g. 200 di ossa di vitello g. 25 di burro

g. 25 di farina bianca di tipo “00”

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Realizzare una mirepoix con la cipolla, la con l’olio extravergine d’oliva all’interno di

un tegame. Aggiungere le ossa di vitello

precedentemente colorate in forno alla temperatura di 200°C per circa 30 minuti; girare con cura e sfumare con il vino rosso.

Coprire le ossa aggiungendo acqua, con-

centrato di pomodoro, il pepe in grani, la cannella, le foglie di alloro e il sale.

Cuocere per circa 3 ore continuando a schiumare all’occorrenza.

Filtare recuperando il liquido e continuare a restringere in pentola a fiamma viva.

grammi) con un roux scuro precedenteCuocere i Quadrelli in abbondante acqua salata, scolarli e saltarli in una padella con il fondo ristretto di vitello aromatizzato alla cannella.

Adagiare i Quadrelli nel piatto ben distanziati l’uno dall’altro in maniera tale

che ogni Quadrello possa esprimere al

meglio il suo sapore in un sol boccone; accompagnare con i pomodori semi sec-

chi San Marzano, le briciole di tarallo na-

poletano e la restante parte di salsa a sporcare il piatto.


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PRODOTTI ECCELLENTI

NEL CILENTO E VALLO DI DIANO A CAGGIANO DOVE NASCONO LA PASTA ED I PIATTI PRONTI SURGELATI DI

J-MOMO

La Campania è da sempre una regione con una rinomata tradizione culinaria: tanti piatti e ricette di ogni genere che contribuiscono a dar lustro a questo territorio noto per essere anche la culla della pasta: qui, andando a ritroso nel tempo, è possibile recuperare origini e tradizioni di questa prelibatezza famosa in tutto il mondo. La pasta è da sempre uno dei prodotti tipici del made in Italy: una ricetta declinata in ogni sua sfaccettatura e che da qualche tempo l’azienda J-Momo ha arricchito di ulteriore scelta dando vita ad una serie particolare di pasta fresca surgelata realizzata con metodo di produzione artigianale e mantenendo inalterata la qualità finale. Ma parlavamo dei luoghi della pasta: località della Campania che legano a doppio filo il proprio nome con quello dell’alimento italiano per eccellenza. Diamo una rapida occhiata ai posti nei quali avviene la lavorazione della pasta fresca artigianale da parte di J-Momo e dai quali parte poi, per tutto il mondo, questo prodotto del made in Italy. Caggiano: un paesino di circa 1700 abitanti situato su un rilievo dell’Appennino lucano al confine con il Parco Nazionale del Cilento e con il Vallo di Diano. Il centro storico è un libro aperto su una storia millenaria le cui mura sono la testimonianza più fulgida. Nel centro della città è possibile trovare resti del passaggio dei Lucani, Romani, Longobardi, Nor-

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manni, Angioini, monaci Bizantini e Cavalieri Templari. Un crocevia della storia per un luogo da scoprire e visitare le cui origini sono da far risalire tra il VIII-VII secolo a.C; un borgo che si inerpica su un costone roccioso tra colline, uliveti, valli e cime rocciose che spostano l’immaginazione del visitatore verso epoche remote. Le case del centro storico sono custodite da grosse porte in pietra talvolta impreziosite da fregi, stemmi antichi e battenti al posto dei moderni campanelli. La maggior parte di queste abitazioni risale infatti al periodo medievale, fattore che contribuisce a generare un fascino irresistibile. Cucina e tradizione di Caggiano: come tradizione campana impone, anche a Caggiano c’è un ricco patrimonio culinario che si esplica nella preparazione di prodotti e piatti tipici. Una attitudine che si tramanda da secoli e che l’azienda J-Momo continua a portare avanti proponendo i medesimi sistemi artigianali per la produzione. A Caggiano ha sede il laboratorio presso il quale si produce pasta fresca artigianale, pasta fresca surgelata e piatti pronti surgelati. Ed è sempre qui che risiedono i fornitori di materie prime per la preparazione: dall’acqua incontaminata alla ricotta dei nostri ripieni che ci viene consegnata calda tutte la mattine. La scelta di J-Momo è stata proprio quella di mantenere i contatti con i produttori locali così da continuare a


J-MOMO

garantire un prodotto originale e fedele alla tradizione. Sapori che hanno reso famosa questa terra in tutto il mondo. Pasta fresca artigianale: quello che il laboratorio di pasta fresca artigianale J-Momo si propone di fare è unire questa tradizione con un metodo innovativo. Per questo viene profusa la massima attenzione nella realizzazione di pasta fatta a mano, lavorata con la stessa passione dei primi mastri pastai mettendo a frutto i loro trucchi del mestiere tramandati di generazione in generazione. Il risultato è una pasta artigianale, fresca, pasta secca e ripiena di qualità superiore. Nel processo di lavorazione vengono utilizzate solo le migliori farine e semole prese direttamente da produttori campani e pugliesi selezionati. Il risultato è una pasta gustosa ma al tempo stesso digeribile. Il laboratorio di J-Momo è situato a Caggiano, nel cuore verde e roccioso della Campania. Tecniche di produzione innovative al

servizio di una tradizione della pasta fatta a mano da portare avanti per non mandare disperso questo patrimonio secolare. Materie prime selezionate con la massima cura, impianti produttivi altamente innovativi e tecniche di produzione legate alle antiche tradizioni sono la ricetta vincente della pasta artigianale di J-Momo. Perché il segreto della pasta fresca artigianale è dato dal tocco del maestro pastaio, che non può essere sostituito da nessuna macchina; e dal lavoro di chi tutte le mattine prepara con cura i vari ingredienti, li impasta con dovizia e ne segue il ciclo produttivo per intero, così da assicurare la creazione di un prodotto finale unico nel sapore e nella qualità. J-MOMO ITALIA SRLS

Piazza Salvatore di Giacomo, 130 80123 - Napoli (NA)

Tel. +39 (0)81 5750869

www.lapastadij-momo.it info@lapastadij-momo.it

RAVIOLO AL GAMBERO ROSSO DI MAZARA DEL VALLO Una nuova e grande creazione in casa J-MOMO, un raviolo che rappresenta al meglio la cucina mediterranea, tanto apprezzata in tutto il Mondo: il raviolo al gambero rosso di Mazara del Vallo. Da una ricerca accurata degli chef J-MOMO, nasce una linea di prima qualità e priva di uova. Il risultato è una pasta delicata, porosa al punto giusto e perfetta per trattenere i condimenti.


TRAVELFOOD

LA STRAORDINARIETÀ DEL

GRADONNA

MOUNTAIN RESORT CHÂLETS & HOTEL NELL’AUSTRIA ORIENTALE di

Maria Chiara Zucchi

Il freddo ha dipinto di colori tipicamente invernali il Parco Nazionale degli Alti Tauri, nell’Austria Orientale. Il Grossglockner si erge da sfondo nell’imponenza dei suoi 3798 metri e mostra la sua cima completamente innevata, sulla quale il sole punta come fosse un riflettore volutamente direzionato. Tutto intorno è silenzio. La Natura è l’unica grande voce in quello che sembra un quadro, magistralmente dipinto. La suggestione di questa ambientazione sembra studiata per rendere ancora più d’effetto il momento in cui ci si accorge della monumentalità del Gradonna Mountain Resort. Integrata nel panorama, la facciata del resort è rivestita di ciottoli di legno a incorniciare le grandi vetrate che permettono al paesaggio di penetrarvi, creando un continuum tra l’esterno e gli interni. Stesso concetto adottato per la torre nera che ospita le 12 suite di charme: il colore scuro la mimetizza con le ombre

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HOTELGRADONNA

del bosco e le ampie vetrate riflettono le nuvole che si muovono veloci, dando vita ai generosi spazi interni. La vista da ogni punto della torre è mozzafiato, molto suggestiva e romantica quando nevica. L’ampio atrio del resort è inondato di luce naturale: fin dal mattino il sole accarezza i legni di abete rosso e cembro, risalta i marmi della valle di Kals, scalda le aree relax, illumina i bei quadri alle pareti e le maestose sculture in legno poste all’ingresso: la più imponente è costituita da due figure maschili accovacciate l’una sulle spalle dell’altra che fungono da basamento ad una figura femminile che si erge fiera verso l’alto. Sembra l’essenza del Gradonna: una ciclopica struttura che si innalza proprio grazie alle persone che vi lavorano. Una volta conosciuta Marta Schultz (proprietaria, insieme al fratello Heinz), appare evidente che la figura femminile possa essere un omaggio a questa donna incredibile, che ha trasferito il proprio cuore in questa struttura affiancata dal suo insostituibile staff a partire dai direttori dell’hotel Brigitte Berger - che ha sposato con grande convinzione il progetto fin dal suo inizio - e Florian Partel, l’uomo sempre pronto e disponibile ad esaudire qualsiasi richiesta, via via fino ad ognuno dei 112 dipendenti. Nel 2006 la famiglia Schultz acquisisce la gestione finanziaria della stazione sciistica di Kals: i pochi impianti non coprono i costi del personale e dovrebbero quindi essere smantellati. Ma Marta e il fratello Heinz intuiscono le potenzialità del posto e capiscono che la fusione della stazione sciistica di Grossglockner con quella di Matrei della valle adiacente ad ovest, può determinare lo sviluppo di un importante movimento turistico invernale (oggi il Grossglockner resort Kals-Matrei è considerato uno dei comprensori sciistici più belli delle Alpi). Nessuno dei progetti della famiglia Schultz ha mai “infettato” Marta con tanta virulenza come il Gradonna. Andando contro il

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TRAVELFOOD

parere della famiglia e degli abitanti, Marta ed Heinz si impegnano in un investimento stratosferico per realizzare una struttura dall’architettura moderna che si fonda con il paesaggio e che, pur utilizzando in maniera predominante il legno, non risulti in alcun modo banale. Disegnata come un villaggio privato di ottimo livello - con una struttura principale e 42 chalet - libera da auto e sostenibile, è stata progettata dagli architetti di Insbruck, Reitter e Strolz, che collaborano anche con l’università di Insbruck per studiare l’applicazione, i benifici e la sostenibilità del legno in architettura. Il concetto di energia sostenibile include una propria sorgente di acqua (che, secondo le analisi, è una delle acque migliori delle Alpi) e un impianto di riscaldamento a legna che fornisce calore a tutto il resort. In ogni stanza gli ospiti possono trovare una bella brocca per l’acqua che ha come coperchio una sfera di cirmolo, legno che trasferisce le proprie qualità energizzanti all’acqua in esso contenuta. Linee pulite ed essenziali, legno di abete e di cembro, lino, loden e feltro determinano il tono delle camere dalle linee pulite e dalle generose metrature. La carta è

biodegradabile, i saponi sono di origine naturale, creati con erbe e miele, così come i prodotti utilizzati nella Spa.

I ROMANTICI CHALET Gli chalet (classic, superior e deluxe) sono in grado di accogliere fino ad 8 persone e sono raggiungibili direttamente dalle piste. Ognuno è dotato di ingresso per liberarsi degli sci e per asciugare gli scarponi, di un’ampia area lounge con camino, di una grande cucina super accessoriata, di un’area wellness privata con sauna. Gli ospiti possono inoltre scegliere di

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HOTELGRADONNA

cenare nel resort o di avvalersi della formula “rent a chef”, per avere una cena nel proprio chalet preparata da uno degli chef del Gradonna. Anche la spesa e la legna per il camino vengono recapitati direttamente al proprio cottage dal market del Gradonna. Lo store (foto in basso a destra), al piano interrato della struttura principale, offre un’ampia scelta di prodotti locali, come farina, carni e salumi, erbe, sughi già pronti, pane, pasta, dolci e frutta di stagione e cestini misti pronti da portare direttamente allo chalet. Per il mattino il cestino è pieno di prelibatezze dolci e salate e viene lasciato davanti ad ogni chalet.

L’OFFERTA GASTRONOMICA Ma sarebbe un vero peccato non cenare nel ristorante del resort. Lo chef Michael Karl, coadiuvato da 15/20 chef e assistenti, propone una cucina che alterna piatti della tradizione tipica tirolese rivisitata, decisamente più leggera rispetto a quella del luogo, a piatti della cucina mediterranea. Seguendo la volontà di Marta le materie prime, biologiche, provengono prevalentemente da storiche realtà locali. Il maitre di sala saprà consigliare gli ospiti circa la migliore bottiglia da abbinare, cercando di indirizzarli verso l’ampia scelta di vini austriaci che occupano gran parte della bellissima cantina dell’hotel, attraverso la quale Marta vuole trasmettere e raccontare tutto il proprio territorio anche a livello enologico. Dalla colazione al pranzo sino alla cena, il buffet è molto curato ed in grado di appagare i desideri dei gourmet più esigenti, così come quelli dei vegani e celiaci. Per la famiglia Schultz la colazione è il momento più importante della giornata e di conseguenza è indimenticabile: facile smarrirsi tra le tante proposte che spaziano dal profumato angolo bakery - ricco di pani dalle forme e i sapori differenti, dolci appena sfornati e ricche brioches, anche per vegani - all’arnia dalla quale ricavare il miele fresco, fino alla parte salata con salmone, carni e omelette appena fatte, speck e salumi locali, formaggi di ogni genere, provenienza e sapore, per arrivare


TRAVELFOOD

all’area più salutare con una vasta scelta di cereali e yogurt, succhi di frutta, frutta tagliata e una macchina per realizzare un centrifugato secondo i propri gusti. In tutto il grande buffet non sono presenti prodotti confezionati. La zona ristorante è suddivisa in più aree, così da garantire la quiete tipica del resort e permettere di godere appieno di ogni particolare, come gli splendidi tavoli in legno con apparecchiatura in ardesia che brilla alla luce del sole a pranzo e crea una magica atmosfera sotto le luci calde della sera, perfette per la cena gourmet.

L’ATTENZIONE PER I BAMBINI Il silenzio e la quiete sembrano inverosimili se si pensa che il Gradonna è un Family resort. I più piccoli possono infatti scegliere se cenare in un’area a loro dedicata, con un buffet semplice creato appositamente per loro. Marta spiega che avere dei figli, come loro, permette di acquisire un punto di vista differente che porta a prodigare attenzioni e cure per dettagli a cui gli adulti normalmente non avrebbero pensato. Il figlio di Marta adesso ha 30 anni, è un farmacista che si è dedicato alla creazione di pro-

dotti per le camere e la Spa, abbinando alle erbe gli estratti di pino e l’acqua della fonte del resort, ottenendo l’essenza emblema del Gradonna, “Magdalenas”. Marta ed Heinz desiderano che gli ospiti riscoprano la vita a ritmo lento, dimenticando l’uso delle auto, immersi nella natura e nella totale quiete. Per essere certi che tutto rimanga come è adesso e che il paesaggio circostante non possa essere modificato da costruzioni o insediamenti, i 10 ettari circostanti la struttura sono diventati di proprietà dalla famiglia Schultz. Al Gradonna ogni momento diventa esperienza, la cura per i particolari è il comune denominatore di ogni sala o stanza. L’amore che Marta ha infuso in questo luogo dovrebbe indurre a cambiare il nome in suo onore: non più Gradonna, ma GRANdonna.

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GRADONNAMOUNTAINRESORT

LA SPA Distribuita su 3.000 mq, la Spa è un’oasi di piacere, premiata con il Leading Spa Award 2015 e con 15 punti dalla autorevole Relax Guide per i trattamenti a base di materie prime locali come arnica, pino mugo, il miele, cristalli di sale, cera d’api, foglie di betulla e ginepro, i cui principi attivi sono da sempre un vero toccasana per il corpo e lo spirito. Anche la scelta delle linee cosmetiche utilizzate non è casuale, ma estremamente selezionata con un occhio sempre attento alle materie prime naturali. Via dunque ai prodotti Alpienne, Babol e Vinoble che vengono utilizzati per trattamenti e massaggi a tutto benessere, per una vera e propria remise en forme e rivitalizzazione di viso e corpo. Completano l’offerta wellness 4 piscine interne, di cui una specifica per bambini, saune, bagni di vapore e pure un attrezzatissimo centro fitness e palestre di bouldering e arrampicata. All’esterno si gode di una superba vista sui monti circostanti dalla piscina e dal laghetto di 700 mq. riscaldato ad energia solare.

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TRAVELFOOD

DAL PUNTO DI VISTA DEI PICCOLI IL RACCONTO DI ANNA, 10 ANNI

Questa volta la mamma mi ha portata con sé in uno dei suoi viaggi alla scoperta di nuove realtà da raccontare su La Madia, perché mi ha spiegato che il Gradonna è un hotel per le famiglie. Non immaginavo di essere trattata con le stesse attenzioni che si riservano agli adulti, ma è stato proprio così. Quando la mamma lavora a volte mi annoio, ma al Gradonna mi sono quasi dimenticata di essere stata accompagnata da lei! Durante la giornata i tutor ci hanno portati a fare una bella passeggiata tra i pini cembri seguendo le indicazioni del gufetto Bubu. I colori e i profumi del bosco sono incredibili e c’è così tanto silenzio che si può sentire qualsiasi fruscio o rumore. Al rientro siamo andati nella piscina riscaldata e poi la mamma mi ha portata a visitare la sauna a misura di bambino. Nella Spa ho ricevuto il primo trattamento della mia vita: mi hanno portata in una stanza tutta in legno, con dei bellissimi cuori di cembro appoggiati sul lettino e una musica rilassante in sottofondo. E’ stato bellissimo! Non credevo che anche i bambini potessero fare i massaggi nella SPA.

Prima di cena siamo andati con gli adulti nella bellissima area bar, tutta in vetro e il barman ha preparato per tutti l’Hugo, un cocktail a base di prosecco, con sciroppo di fiori di sambuco, seltz e fiori di menta. Mi è proprio piaciuto ricevere un Hugo per noi analcolico e fare l’aperitivo con i grandi. Il buffet della colazione, del pranzo e della cena è così grande che serve una mappa per non perdersi. Non ho mai visto tante prelibatezze tutte in una volta sola. Noi bambini possiamo scegliere se stare a tavola con i grandi o disegnare e giocare mentre mangiamo in una stanza tutta per i bambini, con tavoli della nostra misura. Un gentile chef ci spiega cosa c’è nel buffet e dice che possiamo anche partire dal gelato con le granelle colorate, se vogliamo! Dopo cena mentre i grandi vanno al bar, noi possiamo scendere nell’area gioco, dove si gira senza scarpe su un pavimento in legno caldo. Prima di andare a dormire la direttrice, che si chiama Brigitte ed è molto dolce, ha chiesto se volevo dormire nel letto o nel bow window. Quando siamo arrivati nella nostra camera, grande e in legno profumato, mi sono innamorata della terrazza chiusa con i divani dove sedersi a leggere i libri. Ma grazie a Brigitte ho poi scoperto che quella terrazza chiusa con pareti di vetro che appunto si chiama bow window, si può trasformare in un letto sotto le stelle. E’ stato incredibile dormire al caldo, ma dentro la natura. Non riuscivo ad ad-

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HOTELGRADONNA

dormentarmi incantata dal panorama e come per magia ha iniziato a nevicare. Un vero sogno. La mattina mi sono svegliata e sembrava che di notte qualcuno mi avesse spostata in un nuovo posto: tutto il paesaggio era cambiato, ricoperto di bianco e brillava sotto i raggi del sole. A colazione la luce era abbagliante e cambiava i colori all’interno del Gradonna. Con un po’ più di neve avrei potuto imparare a sciare, nella pista per principianti, sulla quale si scende direttamente dall’hotel. Ma ho trascorso la mattinata nell’area teenies, dove mi hanno insegnato a preparare prodotti cosmetici, maschere per viso e peeling con materie prime sane e naturali, che poi ho sperimentato sulla mamma, alla sera!

Nel pomeriggio mi sono divertita tantissimo con le parrucchiere che mi hanno insegnato alcuni trucchi per acconciare i capelli. Tutte le persone sono molto gentili e solari, sempre sorridenti come Marta, la proprietaria: l’ho ascoltata raccontarci come è nato l’hotel, quanto cuore ci ha messo e penso che sia una donna che potrebbe occupare una delle pagine del libro che ho letto: “Storie della buona notte per bambine ribelli”, che racconta le storie di grandi donne, come lei.

GRADONNA MOUNTAIN RESORT CHÂLETS & HOTEL Burg 24

9981 Kals am Großglockner Tel. +43 4876 82 000

Fax +43 4876 82 000-777

www.gradonna.at - info@gradonna.at

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VINARIA

RIPERCORRIAMO LA DIFFERENZA TRA

METODO CLASSICO E METODO CHARMAT di

Alessandro Rossi

In vista delle festività natalizie è bene rinfrescare la memoria sulla differenza tra Metodo Classico e Metodo Charmat. Nel Metodo Classico o tradizionale, diffuso fin dal Seicento nella regione francese della Champagne (metodo champenoise), la presa di spuma avviene in bottiglia con l’aggiunta di zuccheri e di lieviti selezionati. Successivamente le bottiglie riposano in posizione orizzontale per consentire l’affinamento dei lieviti durante un periodo prolungato di solito compreso fra 18 e 30 mesi. Trascorso questo tempo si dà inizio al remuage, ovvero la rotazione quotidiana della bottiglia di 1/8 di giro, con un’ inclinazione verso il basso tale da permettere la lenta caduta delle fecce verso il collo della bottiglia nell’arco di 1-2 mesi. Una volta raggiunta la posizione quasi verticale delle bottiglie, l’eliminazione delle fecce raccolte sotto il tappo avviene per mezzo della sboccatura, o dégorgement. Un tempo si usava stappare la bottiglia, quindi il residuo da eliminare fuoriusciva per effetto della pressione. Oggi, per mezzo di appositi macchinari, il collo della bottiglia viene congelato in modo da concentrare le fecce in un piccolo cilindro di ghiaccio che viene espulso - sempre per effetto della pressione - senza eccessive dispersioni di prodotto.

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BOLLICINE

Dopo la sboccatura occorre, infine, ricolmare la bottiglia con lo sciroppo di dosaggio - detto liqueur d’expédition - costituito da vino e zucchero o, più raramente, distillato. Le uve che si sono dimostrate universalmente più adatte alla produzione di spumanti metodo classico e champagne sono il pinot nero e lo chardonnay; in misura più contenuta il pinot meunier per lo champagne e il pinot bianco in alcune regioni italiane. Tuttavia è possibile produrre spumanti metodo classico con molte altre uve, dall’erbaluce, per quanto riguarda il Caluso Spumante, al macabeo o alla parellada per lo spagnolo Cava, fino al riesling utilizzato in Germania per il Sekt.

Il Metodo Charmat, o Metodo Martinotti, segue in linea di massima le stesse fasi produttive, ma la presa di spuma avviene in particolari vasche d’acciaio, dette autoclavi, per un periodo che può variare da poche settimane a qualche mese. I vini italiani più importanti prodotti con questo metodo sono le Docg Conegliano Valdobbiadene Prosecco, l’Asti (anche nella versione Moscato d’Asti) e le Doc Prosecco e, nella maggior parte dei casi, Lambrusco.

Il Metodo Classico può essere descritto per sommi capi e in maniera molto semplice attraverso quattro elementi fondamentali: • utilizzo di uve ricche di acidità per la preparazione del vino base (in alcuni casi affinato in legno piccolo più o meno nuovo) • sapiente assemblaggio tra partite (cuvée) diverse per annata e spesso anche per vitigno • lenta rifermentazione in bottiglia, attivata grazie all’aggiunta di lieviti e zucchero • presenza variabile - che determina lo stile - della liqueur d’expédition, una miscela di zucchero e superalcolici in grado di aggiungere personalità e morbidezza al prodotto finito pronto per la commercializzazione. Quando si parla di blanc de blancs si fa riferimento a vini prodotti da sole uve bianche - principalmente chardonnay - mentre nel blanc de noirs interviene unicamente il pinot nero. In base al residuo zuccherino dello Spumante si ottengono queste tipologie:

BRUT NATURE O PAS DOSÉ O DOSAGE ZÉRO: da 0 a 3 grammi/litro EXTRA BRUT: da 0 a 6 grammi/litro BRUT: da 0 a 12 grammi/litro EXTRA DRY: da 12 a 17 grammi/litro DRY O SECCO: da 17 a 32 grammi/litro DEMI-SEC O ABBOCCATO: da 32 a 50 grammi/litro DOLCE O DOUX: oltre i 50 grammi/litro

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VINARIA

OLTREPÒ PAVESE ANIMA AGRICOLA DELLA LOMBARDIA La viticoltura nell’Oltrepò Pavese è antichissima e i primi documenti scritti risalgono a Plinio e a Strabone che nel 40 a.C., passando con una legione romana, scrisse «vino buono, popolo ospitale e botti in legno molto grandi». I 13.500 ettari vitati dell’Oltrepò Pavese corrispondono alla superficie occupata da 18.900 campi da calcio della dimensione dello Stadio Olimpico. Mettendo in fila i 54 milioni di piante di vite d’Oltrepò (a distanza di 1 metro come sono solitamente disposte nel filare) si potrebbe fare 1,3 volte il giro del mondo. La missione del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese è tutelare e promuovere una delle prime cinque storiche Denominazioni d’Italia per numero di ettari vitati: 13mila 500. Sulle colline oltrepadane i vitigni più rappresentativi sono: Croatina, Barbera, Pinot nero, Riesling e Moscato. Il vino bandiera è il «Cruasé», marchio collettivo riservato ai soci che identifica le bollicine Oltrepò Pavese Metodo Classico DOCG rosé da uve Pinot nero; il vino della tradizione è il Bonarda, la cui produzione tocca i 20 milioni di bottiglie. Il bianco più caratteristico è il Riesling; il rosso più internazionale è il Pinot nero; il rosso dolce dal nome identitario è il Sangue di Giuda che sta conoscendo un notevole successo all’estero. Cos’è l’Oltrepò Pavese? È la punta della regione Lombardia che, in provincia di Pavia, si protrae al di sotto del Po. La sua forma è grossomodo triangolare, una sorta di compatto grappolo d’uva attaccato al tralcio rappresentato dal Grande Fiume. Tutta la fascia centrale rimanente è regno indiscusso della collina, che, a tratti dolce ma assai spesso aspra nelle pendenze, identifica l’Oltrepò vitivinicolo; una terra dove l’uomo si cimenta con l’uva e col vino fin dalla notte dei tempi. I circa 13.500 ettari vitati rendono l’Oltrepò Pavese la terza denominazione italiana per estensione. In questo mare sconfinato di vigne trovano spazio diversi vitigni, ma il principe incontrastato è il Pinot nero: coltivato su circa 3 mila ettari, marchia indelebilmente il territorio come il più grande bacino nazionale dedicato a questa varietà.

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OLTREPÒPAVESE

PINOT NERO, VITIGNO POLIEDRICO E​ MBLEMA DI VOCAZIONALITÀ Taluni ampelografi ipotizzano la presenza di genotipi ancestrali del Pinot nero sulle colline dell’Oltrepò già dall’epoca dei Romani. Citazioni più certe risalgono poi al 1500 ma è nella seconda metà del 1800 che, a Rocca de’ Giorgi, s’impianta, con successo, diversi ettari di cloni francesi. È l’inizio di un’avventura che coinvolgerà tutto il territorio, caratterizzandolo soprattutto per una fortissima vocazione spumantistica; nel 1912 il cartello pubblicitario ‘Gran spumante Svic” (Società Vinicola Italiana di Casteggio) svetta accanto alla statua della Libertà di New York a commozione degli emigranti in arrivo. Seguono anni febbrili e numerosissimi riconoscimenti ottenuti da svariati marchi aziendali. Nel 1970 arriva la Doc ‘Oltrepò Pavese’ mentre nel 2007 nascono la Docg ‘Oltrepò Pavese Metodo Classico’ e nel 2010 il nuovo disciplinare Doc ‘Pinot nero dell’Oltrepò Pavese’, dedicato al vino rosso fermo.

CRUASÉ,

IL ‘BRAND’ PORTABANDIERA DEL TERRITORIO La nascita della Docg Oltrepò Pavese Metodo Classico porta ad una discussione che si concretizza con l’individuazione nella tipologia rosè del vero cavallo di battaglia. Un vino che è contemporaneamente emblema di un territorio, di un vitigno e di un metodo di spumantizzazione, il più nobile. La scelta ‘in rosa’ ha legato infatti una fortissima personalizzazione delle bollicine al valore della naturalità (la leggera spremitura del Pinot nero spontaneamente genera un mosto rosato), pertanto il Consorzio ha ritenuto di rafforzarla dotandola di un marchio immediatamente riconoscibile agli occhi del consumatore, ‘Cruasé’. Cruasè, che deriva da ‘cru’ (selezione) e ‘rosè’, identifica il Metodo Classico rosato ottenuto in Oltrepò Pavese da uve Pinot nero ed è oggi il prodotto che distingue questo territorio nei confronti di tutte le altre aree spumantistiche italiane ed estere. Prodotto nelle tipologie ‘Brut’, ‘Extrabrut’ e ‘Brut Nature’ ha un affinamento minimo sui lieviti di 18 mesi; ideale a tutto pasto, accompagna egregiamente stuzzichini e ‘finger food’ o rappresenta, da solo, un originalissimo e seducente aperitivo.

IL METODO CLASSICO IN BIANCO, OLTRE UN SECOLO DI TRADIZIONE

In Oltrepò il Pinot nero, già a partire dai primi anni del ‘900, viene spumantizzato massicciamente nella versione ‘bianca’, la più diffusa tipologia dei Metodo Classico a livello mondiale. Ne esce un prodotto che, sul panorama delle bollicine, si distingue per il nerbo e l’austerità varietali, apprezzati dagli estimatori, più o meno intensamente ammorbiditi dagli apporti del lievito nei lunghi anni di permanenza sulle fecce (millesimati).

PINOT NERO IN ROSSO,

LA NOBILTÀ DI UNA SCELTA DIFFICILE La valorizzazione della vinificazione in rosso del Pinot nero, intrapresa da alcune aziende a partire dagli anni Cinquanta, determina, nel 2010, la nascita della Doc ‘Pinot nero dell’Oltrepò pavese’, interamente dedicata a questo vino prodotto unicamente nella versione ferma, d’annata e riserva. È un percorso, quello del Pinot nero vinificato in rosso, che come gli enologi di tutto il mondo ben sanno, è irto di tensioni e, spesso, delusioni, ma foriero dei più mirabolanti successi quando tutti gli elementi della vocazionalità si esprimono. Una sfida difficile che permette all’Oltrepò, attraversato dal 45° Parallelo che nel mondo è sinonimo di terre di grandi produzioni vitivinicole, di gareggiare con aree mondiali dove le bottiglie incarnano il mito stesso del vino.

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VINARIA

IN FRANCIACORTA

LANTIERI DE PARATICO È RICCO DI STORIA E DI FUTURO di

Marco Tonelli

Lant(ieri), oggi e domani. Se la scansione temporale ricorda una pellicola premiata con l’oscar, non meno prestigiosa, e premiata, è la realtà vitivinicola di una famiglia che abita e lavora in Franciacorta: i Lantieri de Paratico. Con il loro ieri si va parecchio indietro: addirittura prima dell’anno mille. In tanto passato c’è tempo per un castello, a Paratico, e, sempre nella stessa località, un ospite vip che di cognome faceva Alighieri. Oggi il domicilio è a Capriolo. Dopo la storia degli uomini, i Lantieri de Paratico fanno anche quella del proprio territorio. In una Franciacorta che si dedicava ai vini fermi, in particolar modo rossi, decisero, insieme a pochi altri pionieri della bolla, di produrre spumanti mediante metodo classico. Quello che per alcuni potrebbe sembrare un tuffo nel vuoto, per i Lantieri si trasformò addirittura in una carpiatura, come racconta Fabio Lantieri (foto nella

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pagina accanto), da anni alla guida dell’azienda di famiglia. “Mio padre amava i prodotti asciutti e molto secchi, per questo volle creare - eravamo nel 1974 - il primo Franciacorta pas dosé”. Oggi lo sugar free con le sue acidità da brivido va alla stragrande. Un tempo, quando il tappo di Franciacorta non saltava mai prima del ‘tanti auguri’, una tipologia del genere era perciò dedicata ad una nicchia. I Lantieri decisero di interromperne la produzione, per passare a un più comprensibile - almeno per l’epoca - extra brut. Alzare l’asticella dello zucchero fu una scelta motivata anche da differenti condizioni rispetto ad oggi. La diversità riguardava il clima, le scelte colturali (vedi ad esempio le rese per ettaro), senza contare lo sviluppo tecnologico in cantina. L’oggi per Lantieri è perciò più che mai differente. “Abbiamo iniziato alcuni anni fa un processo di conversione al bio, che culminerà, il prossimo anno, con il primo Franciacorta certificato biologico. Oltre a questo utilizziamo un impianto fotovoltaico che soddisfa il 40% del nostro fabbisogno energetico”. A questo si aggiunge la volontà di avere il controllo sulle proprie uve. Perciò Lantieri utilizza solo quelle provenienti da vigneti di proprietà, in totale 20 ettari, dislocati in prossimità della cantina, ma in zone geologicamente differenti; le uve provenienti da queste aree permettono di allargare il ventaglio di possibilità in fase di assemblaggio. La plasticità di opzioni produttive, associate ad una capacità di adattamento agli ormai inevitabili cambiamenti climatici, per Lantieri non è coincisa


LANTIERIDEPARATICO

con una rimozione del proprio passato produttivo, tanto che, proprio quest’anno, hanno rimesso in gamma non uno, ma addirittura ben due pas dosé. “Da quest’anno abbiamo ricominciato a produrre un pas dosé non millesimato, mentre da 4 anni produciamo una riserva, sempre non dosata, chiamata Origines”. La ricetta al di là di ingredienti quali una base composta da Chardonnay e un periodo speso sui lieviti di non meno di 5 anni, per l’Origines si basa su un concetto, poco commerciale, del ‘solo in alcune annate’. In un presente in cui, secondo un concetto molto francese anche le annate pessime sono considerate classiche, Fabio ha deciso di produrre la sua etichetta di punta solo nei millesimi 20072008-2009 e la 2010 (annata attualmente sul mercato). Per chi ha fatto la storia di un territorio, non dismettendo mai i panni del capofila, anche il futuro non può che essere davvero d’avanguardia. Quando gli chiedo dove andrà la sua azienda, la risposta non può perciò che guardare

oltre. “Credo che la Franciacorta, qualora si voglia ulteriormente qualificare, debba porre attenzione all’autoctono”. Ok che Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Bianco (quest’ultimo per chi lo utilizza) di fatto siano da queste parti da molti anni, ma la parola autoctono in riferimento a queste varietà pare eccessiva. Ovviamente Fabio fa riferimento all’Erbamat. “Si tratta di un antico vitigno del bresciano, che ha maturazione tardiva, oltre a un’elevata acidità. Questo fa sì che il vitigno sia adatto a formare da solo, o in uvaggio, una base spumante molto buona, specie in un contesto climatico più caldo come quello degli ultimi anni”. Fabio metterà a dimora alcune parcelle di questa varietà il prossimo anno. Intanto può brindare ad una gamma di etichette solida e articolata. Un consiglio oltre al già citato Origines? Il millesimato, siamo oggi al 2013, chiamato Arcadia. Il nome richiama una terra da sogno, il vino riporta piuttosto a una realtà altrettanto piacevole, perché basata su di una bolla

dai profumi tipici di agrumi, frutta bianca e lievito, che in bocca acquisisce sprint sapido, oltre a quella facilità di beva che alla fine è il plus che ogni spumante dovrebbe avere. LANTIERI DE PARATICO

Via Videtti (ingresso da via 2 Agosto) 25031 Capriolo (BS)

Tel. +39 030 736151

www.lantierideparatico.it

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VINARIA

I PRIMATI DE

LA MONTINA IN FRANCIACORTA di

Gianni Di Lorenzo

Il vicino lago d’Iseo non si vede, ma lo si percepisce nel clima temperato che rende rigogliosa la vegetazione in questo scorcio di Franciacorta. Monticelli Brusati è il più interno dei comuni di un territorio il cui stesso nome è sinonimo di qualità enologica ed è qui che affondano le radici le vigne delle Tenute La Montina, una tra le aziende storiche della denominazione. Per essere più precisi in questo comune sorge la secentesca Villa Baiana un tempo proprietà di Benedetto Montini, avo di Papa Paolo VI, il Centro Congressi, il Museo d’Arte Contemporanea Remo Bianco e la Cantina fondata nel 1987 dai fratelli Alberto, Gian Carlo e Vittorio Bozza (foto sotto); i 72 ettari di terreni vitati sono invece dislocati in 7 dei 19 comuni che costituiscono la Franciacorta. Nei 7.500 metri quadrati della cantina scavata dentro alla collina, con una temperatura costante di 13/16°C, abitano le sette tipologie di Franciacorta prodotte dall’azienda, identificabili attraverso altrettanti colori.

I tre fratelli Bozza: Alberto, Vittorio, Gian Carlo

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LAMONTINA

Marrone per il Riserva Baiana Pas Dosè per ribadire l’importanza e il valore della terra e del territorio; verde per l’Extra Brut per richiamare la freschezza e tutte le sfumature dell’erba; lilla tendente al rosa per il Rosé Demi Sec ad evocare la seduzione delle rose, la loro complicità in amore e la loro fragranza. Per il Satèn è stata scelta un’etichetta di un verde delicato per comunicare freschezza e donare le eleganti emozioni di un chiaro di luna, mentre per il Millesimato Brut il rimando è alla storia millenaria e al fascino del legno, soprattutto quello dei tronchi della vite. Per il Brut la scelta dell’etichetta è stata semplice ed è caduta in modo naturale sul colore arancione a richiamare il caldo abbraccio del sole. Infine per il Millesimato Extra Brut il vetro trasparente della bottiglia ha quasi obbligato il rimando alla pura trasparenza dell’acqua.

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VINARIA

BOLLE MADE IN MONTINA Gente autentica, con sani principi e un forte legame con la terra, i fratelli Bozza, che anche alle nuove generazioni hanno trasmesso valori tangibili e un forte senso di appartenenza. C’è infatti passione e senso di responsabilità nelle parole del nipote Michele, figlio di Gian Carlo, direttore marketing e commerciale dell’azienda: “È motivo di grande orgoglio proseguire sulla strada intrapresa dalla nostra famiglia e noi intendiamo farlo con bollicine di qualità assoluta e con un loro specifica personalità e riconoscibilità. Per il 2018 ci prefiggiamo di attuare un salto dimensionale proprio per affermare nel mondo il Franciacorta “Made in Montina”: 500.000 bottiglie a fronte delle 380.000 attuali, con una quota di export del 30%”. La qualità massima, nell’azienda, oltre che ad un processo produttivo biologico e al rigoroso rispetto del Disciplinare, si deve anche grazie al torchio verticale Marmonier - utilizzato da parecchie Maison in Champagne - realizzato nel 1999 allo scopo di effettuare una pigiatura soffice in grado di estrarre zuccheri concentrati dal cuore dell’acino, senza frantumazione delle bucce e senza intaccare la parte legnosa del graspo.

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LAMONTINA

LA MONTINA

L’IMPRONTA DEL TEMPO Un parterre di operatori, tecnici, giornalisti, uniti dalla comune passione per i metodo classico, si sono cimentati in quella che può essere considerata una delle più originali ed istruttive degustazioni mai effettuate. La particolarità consiste nel fatto che si è trattato di degustazioni “monoverticali”, effettuate cioè sullo stesso vino (della medesima vendemmia), ma con differenti sboccature. Abbiamo assaggiato spumanti delle annate 2004, 2005, 2006, degorgiati dopo circa 2 o 3 anni, e, gli stessi, degorgiati nel 2017 quindi dopo 10 o più anni di sosta sui lieviti. Pur non volendo entrare nel merito di ogni singola degustazione (perché ogni bottiglia ci è sembrata veramente di gran livello), l’impressione che ne abbiamo ricavato è che i prodotti degorgiati dopo pochi anni abbiano acquisito, in seguito al lungo affinamento in vetro, maggiori complessità, rotondità ed eleganza.

“Cantina aperta”, La Montina è stata pemiata per il più elevato e qualificato livello d’accoglienza fra le pur eccellenti cantine del territorio: ogni anno ospita con autentica generosità centinaia di appassionati per dimostrare con visite e degustazioni guidate, cosa c’è dietro al perlage finissimo e l’incantevole sapore degli spumanti La Montina. LA MONTINA Via Baiana, 17

25040 Monticelli Brusati (BS) Tel. +39 030 653278 www.lamontina.com

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VINARIA

IL ROSÉ DI

MONSUPELLO

AI VERTICI DELLA PRODUZIONE NAZIONALE DI SPLENDIDE BOLLICINE di

Antonietta Mazzeo

“ … guardo ogni volta commosso le colline pavesi, che sono il mio dolce orizzonte di pampini. La terra padana si ondula come un immenso mare sfrangiato in profili per me familiari fin dall’infanzia. Le onde sono di intenso verde e via via si fanno violette azzurre celesti fino a confondersi appunto, con il cielo. Le colline invece dilatano il respiro, sono imminenti e lontane, familiari e pur favolose. E il vino è la loro sintesi arcana … “ (Gianni Brera)

Le origini dell’Azienda Agricola Monsupello risalgono al 1893, quando la famiglia Boatti, in località Cà del Tava, nel comune di Oliva Gessi, già si dedicava alla cura di propri vigneti. Nel 1914 i Boatti acquistano, a pochi chilometri di distanza, un altro fondo detto “Podere La Borla” nel comune di Torricella Verzate. Qui costruirono la cantina, la stessa che oggi è stata potenziata e ammodernata per la vinificazione delle uve dei poderi originari e di quelli acquistati nel tempo. Nel 1959, Carlo Boatti imprime all’Azienda un ulteriore sviluppo acquisendo nuovi terreni nei comuni di Casteggio, Redavalle, Pietra de’ Giorgi, e ridisegnando la struttura varietale con l’introduzione di nuovi vitigni e realizzando nuove strutture di cantina, un moderno impianto di vinificazione, imbottigliamento e stoccaggio dei vini.

LA FORZA DEL PATRIARCA E DELLA SUA FAMIGLIA “Pur avendo settantacinque anni, sono molto più giovane di quanto appaia! Certo non sono più scattante come una volta e non ballo ormai da tanti anni e nessuno mi chiama più con quel simpatico soprannome che mi avevano attribuito gli amici dopo che avevo scritto “Tango” sulla mia Lambretta con la quale scorrazzavo, da ragazzo, un po’ in tutto l’Oltrepò”.

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MONSUPELLO

Carlo Boatti, una vita spesa non solo per l’azienda Monsupello, ma per tutto il territorio dell’Oltrepo Pavese, uno di quei vignaioli illuminati che, in Italia, hanno dato valore e identità alla loro terra e alle loro viti. Una persona affascinante che la moglie Carla e i figli Pierangelo e Laura affiancano con un preparato staff tecnico coordinato dall’enologo Marco Bertelegni. L’azienda dispone, attualmente, di circa cinquanta ettari vitati, dove le numerose varietà di uve - in gran parte autoctone o tradizionali per la zona: pinot nero e grigio, barbera, croatina, merlot, moscato, ma anche chardonnay, riesling renano e müller thurgau - vengono allevate utilizzando l’inerbimento dei vigneti per salvaguardare l’equilibrio ecologico. Qui i parassitari utilizzati sono a basso impatto ambientale, e le rese sono volutamente tenute basse, così da arrivare a raccogliere grappoli strutturati e armonici, in grado di regalare vini altrettanto complessi ed equilibrati. Il microclima favorevole e l’elevata esposizione dei vigneti al sole porta ad un risultato davvero importante. In cantina si impiegano le più moderne strumentazioni tecnologiche, ma i metodi di vinificazione applicati sono quelli tradizionali.

L’ECCELLENZA DEL METODO CLASSICO BRUT ROSÉ La produzione supera le 280 mila bottiglie annue, di cui circa 80 mila sono di Spumante Metodo Classico, questo fa di Monsupello una delle più importanti esponenti della spumantistica Italiana. L’idea di metodo classico è semplice e riassumibile con termini eleganza, finezza e lunga persistenza, sempre perfettamente affiancate da

MONSUPELLO

Via San Lazzaro, 5

27050 Torricella Verzate (PV)

Tel. 0383 896043 - Fax 0383 896391 www. monsupello.it

monsupello@monsupello.it

una freschezza netta e affilata ma, nel contempo, equilibrata da una struttura importante. Tutti i prodotti denotano con una precisa identità, racchiudendo alcune delle migliori caratteristiche gusto-olfattive del Pinot nero. Lo spumante Monsupello Rosè (Pinot Nero Metodo Classico Brut Rosè VSQ) (foto a destra) premiato i “Tre Bicchieri” della Guida Vini d’Italia 2018 del Gambero Rosso, è stato anche tra i protagonisti del 17° Festival della Cucina Italiana, abbinato al “Risotto anni ‘80” realizzato in un quattro mani dallo chef Gianfranco Vissani con Daniele Patti e Matteo Ambrosini al ristorante Lo Scudiero di Pesaro. L’Azienda è in continua evoluzione secondo le attuali esigenze di mercato e ben determinata a proseguire il cammino iniziato da Carletto, basato su obiettivi qualitativi che l’hanno portata nel tempo ai vertici dell’enologia italiana, con numerosi e prestigiosi riconoscimenti.

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VINARIA

BOLLICINE D’AUTORE

SORBARA, CON METODO di

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Marco Tonelli


CANTINADELLAVOLTA

I

ricchi e poveri sono un gruppo canoro pop di diversi anni fa. Un poker di voci, equamente divise, almeno nella formazione originaria, tra uomini e donne. Dopo l’imparzialità numerica e di genere, il nome ne evidenzia una relativa al reddito. Nel vino quest’ultimo equilibrio sarebbe impensabile: lo dimostra la bollicina. Qui lo status, o se preferite la casta, è rigida, rigorosa, immobile, con i ricchi, pochi e aristocratici in cima e, sotto, tutti gli altri. I poveri, intesi anche come privi di blasone, sono tanti. I perlage nazionali invece hanno spesso la dignità propria dell’autoctono, associata a un menefreghismo scanzonato e pop. Un nome su tutti? Il Lambrusco. Uva rossa padana che si ramifica in sottovarietà più o meno acide, anche se unanimemente spumantizzate. Il Sorbara ad esempio ‘frizza’ nel senso carbonico del termine, attraverso differenti modalità. Dalla rifermentazione in bottiglia che racchiude ora le stecche, ora gli acuti qualitativi di un’imprecisione tipicamente artigianale e, perché no, ancestrale, senza dimenticare l’attualità diffusa e, alle volte, un po’ omologata, del metodo Charmat. Una sorta di bottiglia gigante in cui il vino rifermenta, finendo per esaltare il proprio lato fruttato -si va dall’asprezza dei frutti di bosco sino a una zuccherosità da caramellina- anche se poi spesso si rinuncia alla capacità d’invecchiamento. Forse anche per questo le aspettative sul Sorbara sono spesso striminzite. Che sia questione di metodo? La famiglia Bellei ne è, da sempre, convinta. Christian Bellei oggi, insieme ad altri partner, ha messo questa sua convinzione negli spumanti di Cantina della Volta. L’idea di partenza è quella di sfruttare l’acidità del vitigno, aggiungendoci anche tanto altro, grazie alla spumantizzazione mediante metodo classico.

TUTTA QUALITÀ SENZA COMPROMESSI “L’importante per me è riprodurre il metodo con precisione e costanza” racconta Christian, che prosegue sottolineando come il Sorbara “sia un mezzo per raccontare la terra, ma anche per valorizzare quelle possibilità gustative che il Sorbara riesce ad esprimere grazie al metodo classico”. Chi volesse fare paragoni o parallelismi con altre maestà effervescenti farebbe il male di una realtà come questa, oltre a quello della propria reputazione legata al sapere di vino. Qui abbiamo vitigni differenti, latitudini differenti e terreni differenti. Proprio sotto questo aspetto la zona di coltivazione classica del Sorbara mostra, nonostante gli sforzi di molti produttori ‘tutta qualità senza compromessi’ come Cantina della Volta, una lacuna, non avendo mai deciso per la specializzazione a vantaggio di una promiscuità agronomica che mescola frutteti e viti. La difficoltà perciò è stata quella di identificare i migliori terreni che potessero esprimere un Sorbara adatto alla spumantizzione mediante metodo classico. Un po’ come in cucina in cui, ad esempio, ogni taglio di carne è più indicato per una cottura lunga piuttosto che per una più breve. “Sorbara degli argini del fiume Panaro, essendo ricavati da suoli più argillosi, risultano essere più massicci e più scuri. Per quanto mi riguarda quindi preferisco le uve che arrivino dalle terre lasciate libere dal fiume Secchia”. Il fiume è stato raddrizzato da opere umane e sui terreni, in prevalenza sabbiosi, lasciati liberi dalle acque, si

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VINARIA

CANTINA DELLA VOLTA Via per Modena, 82 41030 Bomporto (MO) Tel. 059 7473312 www.cantinadellavolta.com

sono piantate viti che, secondo Christian danno vini: “dai profumi più netti e con un’acidità più evidente”. I fiumi o più in generale le acque hanno sempre avuto un ruolo essenziale da queste parti. Lo dimostra anche il nome scelto per la Cantina. Proprio sui terreni che oggi la ospitano, un tempo esisteva una (s)volta che, mediante il traino di animali, permetteva alle imbarcazioni che navigavano i canali che collegavano l’entroterra con l’Adriatico, di ritornare verso Modena. Spariti i canali per il commercio e gli spostamenti, sono arrivate le strade. Quella che porta alla valorizzazione del Sorbara è ancora in salita, a meno che non si ricorra, come suggeriscono anche le parole di Christian: “alla definizione della zona di produzione, così da monitorare la qualità delle uve, e quindi del vino, senza dimenticare le rese per ettaro”. In cantina il credo di Christian nel metodo classico è totale.

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UN SORBARA PER IL FUTURO Non si tratta di snobismo rispetto alla tradizione, ma piuttosto della volontà di creare per il Sorbara, un futuro che non si limiti a pochi anni dopo la data della vendemmia. “Utilizzare il metodo classico è come avere un’auto dalle marce lunghe, in grado quindi di garantire più possibilità. Si guadagna in finezza, i profumi sono più complessi - aggiungiamo noi persino sulle sensazioni fruttate - l’acidità è più pulita (senza sensazioni verdi o simil-erbacee) e si può giocare anche su altre variabili”. Un esempio? Christian qui è un fiume in piena, dimostrando non solo il suo attaccamento al metodo classico, ma alla voglia di migliorarsi nell’utilizzo dello stesso. Malolattica, fermentazione in parte realizzata in legno per dare spessore, così che il Sorbara possa meglio reggere i lunghi affinamenti sui lieviti. Ad oggi in produzione Cantina della Volta ha, oltre ad una gamma di spumanti ottenuti con cloni della Champagne piantati sui vigneti di Riccò ad oltre 600 metri slm, un Sorbara, tra gli altri, che rimane sui lieviti per 36 mesi, anche se al momento in cui scrivo sarà presentato un 7 anni. Ad oggi un esperimento, ma non è detto che le cose non cambino, magari con un’annata giusta. La sosta sui lieviti più prolungata non solo non inibisce la piacevolezza e la tipicità, ma riesce anche ad ampliare le possibilità di abbinamento del Sorbara. “Un vino più complesso permette di essere abbinato, oltre alle preparazioni classiche della cucina emiliana, anche a pesci importanti e crostacei”. La gamma di Cantina della Volta in definitiva guarda ai piani della categoria senza reverenza, riuscendo a cantare, senza stonature, erodendo, in parte, la divisione tra i ricchi e i poveri della bollicina.


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VINARIA

BIOCHAMPAGNE

VELENOSI VINI

LO CHAMPAGNE AIUTA LA MERAVIGLIA

LE BOLLICINE MARCHIGIANE

di

Antonietta Mazzeo

Biochampagne.com è un portale web che offre la possibilità di acquistare online i migliori vini e Champagne biologici, biodinamici e naturali. Come nella migliore tradizione italiana, l’idea di Biochampagne.com è nata a “tavola”, dal connubio tra il buon cibo e la grande passione per il vino e lo Champagne, amore che ha spinto gli ideatori del progetto a mettersi in gioco, con l’obiettivo di proporre un nuovo punto di vista sulla produzione biologica, biodinamica e naturale, impiegando tutta la loro passione ed esperienza riferita al vino , allo Champagne e al Crémant, unite alla voglia di fare tipica dei giovani, al servizio di uno scopo ben preciso: creare e proporre un’alternativa, un altro modo di vedere e di vivere lo Champagne e il vino. Un viaggio avanti e indietro nel tempo, per riscoprire i segreti di una viticultura naturale e incontaminata e proiettarli in un futuro che non fosse fatto di vini “artificiali”. La forza del progetto risiede nella precisa e accurata scelta di etichette di ottima qualità, frutto di una produzione biologica, biodinamica o naturale, proposte ad un prezzo equo e competitivo. Rispetta l’ambiente, rispetti te stesso Inquinamento, contaminazione, desolazione, sono parole che non sarebbero mai state create se l’uomo fosse vissuto secondo natura. (John Muir) La “missione” è condividere ed ampliare una già ricca cultura enologica, promuovendo la scelta biologica, biodinamica e naturale, come baluardo di una produzione enologica figlia della terra, della natura, del sole e del sudore. I dettami dell’agricoltura biologica si fondano sulla coltivazione e la concimazione, eseguite rispettando e proteggendo la ricchezza e le qualità del terreno e delle specie vegetali. Il rifiuto di ricorrere a prodotti chimici aggressivi e velenosi, l’attenzione ai cicli naturali dei campi, la cura del terreno e delle sue proprietà: questi sono gli aspetti che fanno della scelta biodinamica una scelta intelligente e salutare, sia per il rispetto dell’ambiente, che per te stesso. L’obiettivo è rendere accessibile a tutti, una cosa che molti credevano essere un lusso per pochi, o qualcosa che potesse essere gustato solo in poche occasioni speciali... Lo Champagne! Biochampagne.com è un e-commerce che regala un’esperienza fruibile, fresca e nuova a chiunque, sia che un neofita o un utente sia esperto del settore. Una ricerca lunga e accurata, ha consentito l’istaurazione di collaborazioni importanti che permettono a BioCampagne.com la distribuzione Champagne, Crémant e vini naturali, adatti a tutte le occasioni e a tutte le disponibilità economiche.

di

Antonietta Mazzeo

“II vino è per noi un’arte capace di far sognare. Il vino è la nostra unica passione. La passione, rende unico il nostro vino”. Angela Velenosi Situati sulle colline che degradano verso il mare, i vigneti della Velenosi Vini riflettono i sapori più autentici del territorio, nei colori, nei sentori e negli aromi dei vini. Il terreno, argilloso e fertile, e le viti, espressione di profumi e di storia, raccontano la tradizione picena attraverso vitigni autoctoni e internazionali. L’azienda vitivinicola Velenosi - una delle principali aziende nello scenario dell’enologia marchigiana - nasce nel 1984 per volontà di due giovanissimi imprenditori, Angela ed Ercole Velenosi, a cui nel 2005 si aggiunge la competenza del Dottor Paolo Garbini, il cui impulso ha portato alla costituzione della Velenosi Srl. Oltre 30 anni di esperienza nel settore, la passione e la voglia di sperimentare, hanno permesso di creare questa realtà dove, attraverso l’utilizzo di attrezzature all’avanguardia, si producono vini sinceri, dai grandi profumi e dal carattere unico, perfetta espressione del meraviglioso territorio marchigiano. La produzione ad oggi è di circa 2.500.000 bottiglie, la vasta scelta di vini bianchi, rossi e passiti è completata da quattro spumanti, Gran Cuvée Metodo Classico (Chardonnay e Pinot Nero), Gran Cuvee Gold Metodo Classico (Chardonnay e Pinot Nero), The Rose Metodo Classico (Pinot Nero in purezza) e la Passerina Brut Metodo Charmat (Passerina in purezza). VELENOSI VINI

Via dei Biancospini, 11 63100 Ascoli Piceno

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VINARIA

UN HABITAT IDEALE PER I

CRÉMANT DEL LUSSEMBURGO

SEMPRE PIÙ APPREZZATI DAGLI AMANTI DELLE BOLLICINE di

Gianluca Ricci

La Mosella è con Our e Sûre parte integrante del sistema fluviale che separa fisicamente il Lussemburgo dalla Germania. Ma è solo lungo i 42 chilometri con cui l’affluente del Reno tiene a distanza l’ingombrante vicino che nel Granducato si produce quel crémant capace di competere in qualità e fascino con i migliori spumanti francesi. Magie del microclima: latitudine, portata, orografia, esposizione e chissà quale altra fatata peculiarità contribuiscono insieme a creare un habitat più che adatto alla coltivazione della vite, in particolare di quella che nel processo di spumantizzazione dà il meglio di sé. Riesling, ma anche Pinot nero e bianco, Chardonnay, soprattutto Rivaner: i modesti declivi collinari che si affacciano sul placido corso della Mosella sono trapuntati di filari ordinatissimi, un omaggio ulteriore ad un paesaggio che già di per sé potrebbe vantare specificità uniche. Ettari ed ettari di vigne perfettamente perpendicolari tra loro, pronte a produrre ogni anno 17mila ettolitri di bollicine, oltre a diverse altre tipologie di vini fermi altrettanto interessanti dal punto di vista qua-

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CRÉMANT

litativo e organolettico. Pare che a piantare le prime viti siano stati i Romani, quando si spinsero fin lassù nel tentativo di dominare il mondo fino ad allora conosciuto, ma fu Carlo Magno, nel IX secolo, a contribuire attivamente alla diffusione della loro coltivazione: i suoi esperti compresero che la Mosella offriva peculiarità climatiche straordinarie e, aspetto di non secondaria importanza, una efficace opportunità per il trasporto del prodotto finito. Rivaner, che null’altro sarebbe se non quello che noi conosciamo come Müller Thurgau, ed Elbling furono i vitigni che meglio si adattarono a quelle terre e che vennero coltivati e vinificati per secoli. La rivoluzione per il vino lussemburghese avvenne nel 1990, quando i complicati ghirigori della burocrazia concedettero ai vignaioli del Granducato l’opportunità di fregiarsi nelle loro etichette del termine crémant, altrimenti riservato ai soli vini francesi prodotti secondo le procedure della spumantizzazione classica, quel metodo champenoise che però venne nominalmente garantito, sempre a colpi di carte da bollo, ai soli spumanti nati

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VINARIA

nella regione della Champagne. Ma i lussemburghesi seppero valorizzare la concessione fatta alle loro bollicine, che da allora iniziarono a scalare i vertici delle classifiche mondiali di categoria, raggranellando premi e riconoscimenti in ogni manifestazione senza che i più si capacitassero dei motivi di tanta improvvisa effervescenza. Ha provato a spiegarlo Constant Infant, produttore dell’omonimo spumante: “Lo champagne lussemburghese - come ci piace definirlo anche se le autorità lo impediscono ufficialmente - è qualitativamente cresciuto negli ultimi anni per una serie di concause, prima fra tutte l’aumento delle varietà utilizzate per la spumantizzazione: a Elbling e Rivaner, un tempo egemoni nei vigneti, oggi si sono aggiunti con successo Pinot Nero e Bianco e Riesling; in secondo luogo la scomparsa del fenomeno dell’importazione delle uve

dall’estero: oggi si lavorano solo ed esclusivamente uve coltivate e raccolte lungo le rive della nostra Mosella; infine il cambiamento delle abitudini dei consumatori, che una volta bevevano spumante solo nelle grandi occasioni mentre da qualche tempo in qua lo consumano con maggiore frequenza, apprezzando le diversità offerte dal mercato”.

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LE MIGLIORI CANTINE Oggi quando si parla di crémant del Granducato, lo si fa comunque a voce bassa, con circospezione, il più delle volte perché si ignora l’oggetto della discussione e non perché impressionati da cotanto lignaggio. Va detto che in effetti la maggior parte del prodotto finisce per essere consumato all’interno dei confini del Paese e nelle immediate vicinanze, soprattutto Belgio e Germania. Motivo in più per una scorribanda a quelle latitudini alla scoperta delle numerose cantine che costellano il corso della Mosella, prima fra tutte la Bernard-Massard di Grevenmacher,


CRÉMANT

di gran lunga la più conosciuta maison locale e anche la più potente, forte dei tre milioni e mezzo di bottiglie vendute ogni stagione; non solo quantità, ma anche e soprattutto qualità, visto che il suo Cuvée de L’Ecusson Brut è stato premiato come uno dei migliori spumanti al mondo nell’ambito dell’ultimo World Wine Awards di Decanter: un riconoscimento ancora più straordinario, se si pensa che la prima bottiglia di sparkling venne prodotta nel 1971 solo per celebrare i 50 anni di vita della cantina, un esperimento estemporaneo che però ottenne immediata popolarità, al punto da convincere gli enologi dell’epoca a ripetere l’esperienza anche gli anni successivi. La cantina apre volentieri le porte ai visitatori e con garbo e massima cura riesce a intrattenere una corrispondenza di enologici sensi con chi si dimostra disponibile ad incontrare profumi e sapori nuovi. Non si può poi tralasciare di menzionare la Cooperativa Vinsmoselle, che riunisce sotto un’unica denominazione le cantine di Grevenmacher, Remerschen, Wellenstein e Wormeldange e che da sola produce i due terzi del vino del Granducato: oltre trecento vignaioli stanno facendo la sua fortuna anche grazie all’estrema varietà dei suoli di origine, le cui peculiarità si trasferiscono poi in bottiglie fra loro tutte diverse e tutte ugualmente apprezzabili. E poi ci sono moltissime altre piccole e medie cantine: percorrendo la statale che costeggia per gran parte il corso del fiume da Schengen a sud fino a Wasserbillig a nord, a due passi dalla bellissima Treviri, si rischia di fermarsi ad ogni piè sospinto, convinti dalla bontà delle degustazioni precedenti e timorosi di perdersi qualche sorpresa di cui questo piccolo grande mondo è capace. Non a caso qualcuno ebbe a definire il Lussemburgo “il Paese inaspettato”.

Fermarsi alla cantina di St. Martin a Remich per credere: lunghe gallerie scavate al termine del primo conflitto mondiale nella roccia dei monti che degradano dolcemente verso la Mosella accolgono e conservano intatti in tutti i loro profumi e i loro sapori gli eccellenti spumanti realizzati nella vicina cantina. E di fronte, passato il fiume, i vigneti della Germania, che da quelle parti costituisce una concorrente commerciale temibile, ma non più temuta. Se è vero che quando si parla di vini della Mosella il pensiero vola agli straordinari prodotti enologici che la Germania produce, ma qualche chilometro più a sud, altrettanto vero è che i più raffinati esegeti del genere possono oggi permettersi di sciorinare conoscenze geograficamente ed enologicamente più approfondite: da qualche tempo il Lussemburgo è infatti entrato a far parte dell’immaginario collettivo di quanti apprezzano lo spumante di qualità. E non sono pochi.

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