Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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ANNO XXXIII Marzo 2018 - N. 325 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI
Speciale
and more
STORIA, CURIOSITÀ, ANEDDOTI, RICETTE, PROTAGONISTI...
LA MADIA EDITORE
SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 325
GOURMETFOOD
di
Giuseppe Lorusso
VINARIA
di
Gianluca Ricci
Speciale
pag. 86 and more
BOLLICINE SUDTIROLESI
STORIA, CURIOSITÀ, ANEDDOTI, RICETTE, PROTAGONISTI...
Le bollicine prodotte con uva e frutta.
VINARIA
pag. 68
pag. 90
pag. 39 SPECIALE PASTA AND MORE Storia, curiosità, aneddoti, ricette, protagonisti...
TERRE DEL PRIMITIVO Da Turi a Gioia del Colle.
di
Antonietta Mazzeo
La cultura del benessere
Ristorante Mansio a Roma
I nemici della salute: lo zucchero
di Cristina Vannuzzi.......................................................... pag. 30
di Primo Vercilli................................................................ pag. 10
Da Cecco
La scelta vegana
di Domenico Acconci....................................................... pag. 32
Pasta vegana con le banane verdi
Fiocco di Neve Relais & Spa............................................ pag. 33
di Silvia Bianco................................................................. pag. 12
Ristorante Il Posto
Assaggi di Galateo
di Domenico Acconci....................................................... pag. 34
Un alimento sacro da toccare solo con le mani
Ristorante Petroniano
di Fabio Ferrantino........................................................... pag. 14
di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 34
Il menu engineering
GourmetFood
9 trucchi del mestiere per il menu perfetto
Igles Corelli e la caccia
di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 16
di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 78
Golavagando
Buone Nuove..................................................................... pag. 81
Valentyne Restaurant....................................................... pag. 20
Vinaria
GolavagandOraviaggiando
Il focus di Alessandro Magnum
L’Arcimboldo a Bologna
Che ne sappiamo noi dei vini americani?
di Alessia Pellegrini.......................................................... pag. 22
di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 84
Golavagando
EnovitĂ
Giancarlo Perbellini apre due nuovi locali......................... pag. 26
di Gianluca Ricci............................................................... pag. 96
Raffaele Petrucci di Cristina Vannuzzi.......................................................... pag. 28
EDITORIALE di
Elsa Mazzolini
L’ORGOGLIO E IL RISPETTO Si accetta: “Abbigliamento pulito e senza strappi, elegante o casual elegante. Vietati jeans, denim, gonne aderenti o corte, top, magliette ombelicali, canottiere, leggins, pantaloncini, tute, pantaloni a vita bassa, cappelli da baseball, scarpe da ginnastica o di gomma, ciabatte”. Se non si rispettano queste regole, non si sale nella classe superiore della Qatar Airways. Vorrei scrivere “mi piace” sotto questo elenco perché apprezzo che vi sia, come un tempo, un dress code per ogni situazione. Ormai è passato il messaggio che ognuno può vestirsi come vuole, specie se paga. E così si vedono donne in stivaloni e minigonne alle udienze scolastiche (o a insegnare), uomini in bermuda nei ristoranti dove si richiedono giacca e cravatta, spalle nude e ampi decolletes in chiesa, tute e jeans, jeans, jeans sbrindellati ovunque, come se buferasse. Rimango convinta, come mi è stato insegnato, che l’abito sia un codice (code, appunto) attraverso il quale comunicare: l’abito decoroso adatto alle varie situazioni significa rispetto per gli altri e a poco valgono i proclami che inneggiano alla libertà individuale sempre e comunque, perché vale sempre la regola che ogni libertà confina con quella degli altri. La divisa esprime lo stesso concetto relazionale: indica soprattutto il proprio ruolo e, di solito, la si indossa con orgoglio e responsabilità perché è indice di decoro professionale. Lo dico, ancora una volta, per chi nei ristoranti pensa di poter servire ai tavoli vestito come gli pare, lo dico anche a quella bella ragazza del ristorante sotto casa che serve cosce al vento con pantaloncino mutanda e reggiseno d’estate, poco più in inverno. L’idea che sei venuta dal mare o dal mercato con la stessa mise mi sa di scarse regole igieniche, anche se sei giovane e bella e a tutti piacciono le curve che mostri, quelle sì, con orgoglio. La divisa, di fatto, anche fosse una semplice polo pulita e un pantalone, comunicherebbe invece subito che non sei una cliente, che svolgi un ruolo preciso, che rispetti la sensibilità di ciascuno dei tuoi ospiti.
ME
L’abito non solo fa il monaco, ma fa anche la persona educata. E di educazione, oggi, ci sarebbe un gran bisogno...
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SCOMPARSO ANCHE
PAUL BOCUSE
“PAPA” DELLA NUOVA CUCINA FRANCESE di
Giulia Gavagnin
Si sono spenti a pochi giorni di distanza decretando la fine di un’epoca, quella della Nuova Cucina. Se Gualtiero Marchesi (1930-2017) ne è stato “Il Maestro” in terra italica adattando l’insegnamento transalpino ai costumi dello Stivale, Paul Bocuse (19262018) è stato il Papa indiscusso della nouvelle cuisine nel mondo. Ecumenico fin dal portamento, indossava la toque come una mitra pontificale e vestiva il tricolore francese intorno al collo come fosse un paramento sacro. Era però, al tempo stesso, un laico gollista che esibiva con orgoglio un coq francaise impresso sulla spalla destra: non un vezzo, ma un ricordo della seconda guerra mondiale, quando tornò a nuova vita dopo una ferita al cuore quasi mortale. Da quel momento è iniziata la sua escalation al trono dell’alta cucina mondiale, quello che un paese culturalmente coeso non ha mai osato mettere in discussione, nemmeno quando alcuni sapienti della nuova ora hanno iniziato a ritenere obsolete alcune sue creazioni senza capire cosa sia realmente un “classico”. Paul Bocuse nasce e si spegne nello stesso letto, a Collonges-au-Mont-d’Or, sulla sponda destra della Saona. Figlio di ristoratori di lungo corso, si forma presso la celeberri-
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ma “mère” lionese Eugenie Brazier, per poi approdare dal “père” della cucina moderna francese, Fernand Point, primo chef di sempre a ottenere le tre stelle Michelin alla Pyramide di Vienne nel 1933. Impiega quasi dieci anni prima di tornare nell’Auberge dei suoi genitori a Collonges e altri dieci per cambiare il nome del ristorante nell’autocelebrativo “Paul Bocuse”, illuminato da appariscenti luci al neon. Se lo può permettere perché ha già ottenuto i tre macaron che dal 1965 a oggi non hanno mai smesso di brillare, al pari della sua insegna. E’ stato universalmente considerato uno del padri della Nouvelle Cuisine. Invero, l’adesione di Bocuse al movimento transalpino di rinnovazione culinaria è controversa. Non è un caso che, pur contemporaneo e amico dei vari Troisgros, Vergè, Senderens, ne abbia disconosciuta la paternità in un’intervista del 2011 al Wall Street Journal dove disse: “Non è mai esistito un vero movimento chiamato nouvelle cuisine. Questo termine ha a che fare più con quel che c’è nel conto che con quel che c’è nel piatto”. E’ stata certamente una dichiarazione provocatoria, ma fino a un certo punto.
Il movimento così denominato non è stato fondato con un manifesto di cuochi illuminati ma è nato dalla penna dei più brillanti giornalisti dell’epoca, Henri Gault e Christian Millau che nel 1973 pubblicano l’articolo “Vive la nouvelle cuisine francaise!”: una lode sperticata agli chef che privilegiano leggerezza, freschezza delle materie prime, eliminazione delle salse in spregio all’odioso detto “c’est la sauce qui fait manger le poisson”. I due giornalisti raccontano l’esperienza vissuta a Collonges da Bocuse, autore di piatti di mirabile leggerezza: haricots au tomate dall’ineguagliabile aroma dell’orto e triglie arrosto di sublime delicatezza. “Forse avevamo già sperimentato questa cucina, ma non ce n’eravamo mai accorti”, scrivono. Dunque, la nouvelle cuisine esisteva già, forse esisteva anche tre anni prima, quando i due giornalisti nella Guide Gourmand de la France definirono Bocuse come un cuoco di stampo puramente “classico”, quasi agreste: “Non è la frittura della Saone che si mangia al Pont del Collonges ma quella della cucina classica che Paul Bocuse – profilo d’imperatore romano e un inizio di pancetta alla lionese –prepara quasi per gioco. La sua insalata di fagiolini verdi, i suoi prugnoli saltati al burro, le sue pesche al Bourgogne sono semplici, quasi elementari. E sono favolosi. E’ anche un creativo, pieno di fantasia: la sua zuppa di cozze e zafferano fresco, il suo prosciutto al fieno, la sua pernice ai cavoli senza pernice e senza burro”. La sua era dunque un’impostazione da classico-creativo che non cambia cinque anni dopo, quando il manifesto di Gault e Millau è già stato pubblicato e il conferimento della Legion d’Honneur da parte del presidente Valery Giscard d’Estaing è imminente. In quell’occasione nasce il piatto più iconico dello chef lionese, la celeberrima soupe aux truffes noires dedicata al presidente (da quel momento in poi, infatti, diventa nota semplicemente come “soup VGE”), un piatto di alta cucina di corte che entra a Palazzo con gli ingredienti più nobili sul mercato: tartufi neri, foie gras, carne di pollo di prima scelta e una coreografica copertura di pasta sfoglia. Preparazione che non rinnega nulla della tradizione francese, anzi, l’amplifica, valorizzandone gli ingredienti uno per uno. Probabilmente, al di là delle etichette (il manifesto di Gault e Millau è stata anche una furba operazione di marketing ante-litteram), Bocuse resterà immortale per aver saputo recepire il meglio della nouvelle vague culinaria senza intaccare la naturale grandeur della tradizione francese: nelle sue creazioni ci sono elementi della cuisine minceur di Alfred Guérot, dei sapori dell’orto dei Troisgros, e gli indimenticati insegnamenti di Point e di Escoffier. L’essenza più autentica del pensiero culinario di Bocuse è forse contenuta nel libro
del 1976 “La cuisine du Marchè”, dedicato al padre cuoco (in segno di simbolico distacco dalle mére lionesi) e a Fernand Point, nel quale - di fatto - propone centinaia di ricette tradizionali riviste secondo l’ottica dell’approvvigionamento quotidiano della migliore materia prima: “Tutte le mattine vado al mercato e mi aggiro a lungo tra i banchi. Facendo la spesa di persona, so che un contadino ha dei cardi eccellenti, che un altro è specialista degli spinaci e che un terzo ha portato stamattina deliziosi formaggi di capra. A volte non ho idea di quali piatti cucinerò per il pasto di mezzogiorno: decide il mercato. Ed è questo, penso che fa la buona cucina”. È da questa intensa frequentazione unita all’attenzione per le tradizioni regionali vicine che nascono i suoi piatti più celebri: il poulet de Bresse in fricassea con spugnole ovvero cotto nella vescica di maiale, il pasticcio di anatra e foie gras à la roannese, il piccione alla brace. Anche la coreografia, che nella cucina borghese tradizionale aveva un ruolo centrale, viene asservita alle esigenze della materia prima. Di uno dei suoi piatti più celebri, la spigola in crosta alla mousse d’aragosta disse: “Il pesce è chiuso nella sua crosta ma la crosta si può non mangiare: ha la funzione di conservare il fumetto della spigola. E non si è obbligati a mangiare neanche la farcia: la sua funzione è quella di mantenere una certa umidità perché la spigola tende ad asciugare troppo”. Parole rivoluzionarie in un’epoca in cui in cucina veniva tutto mitonné e mijoté. Paul Bocuse da solo ha fatto più di quanto avrebbe potuto fare un esercito di chef: è stato proprietario di alberghi e ristoranti, autore di libri, protagonista di programmi tv, personaggio da copertina nei giornali di tutto il mondo, fondatore delle prime Olimpiadi della cucina, il Bocuse d’Or. Lione, per giusta riconoscenza, gli ha dedicato il mercato coperto, un’autentica miniera delle più ricercate risorse gastronomiche di Francia. E’ stato il primo chef imprenditore, per nulla snob nei confronti dei nuovi mezzi di comunicazione, televisione su tutti. Nel 1976 disse al settimanale People: “bisogna sempre battere il ferro finché è caldo. Dio è già famoso ma non dissuade il sacerdote dal suonare la campana tutte le mattine”. Come tutti i visionari, sapeva sempre guardare avanti. Forse, ha guardato troppo avanti solo quando ha detto: “L’egemonia della cucina francese durerà sino a quando gli chef italiani capiranno l’enorme patrimonio che hanno a disposizione, sia per quanto riguarda le materie prime che per il ricco patrimonio di tradizioni”. Purtroppo, questa profezia non si è mai avverata. Ci vorrebbe un Bocuse italiano, che non si è ancora profilato all’orizzonte.
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LACULTURADELBENESSERE
a cura di
Primo Vercilli Medico Dietologo
I NEMICI DELLA SALUTE:
LO ZUCCHERO Diciamolo pure senza paure! I nemici della salute sono fondamentalmente quattro: lo zucchero, i grassi saturi, gli additivi alimentari e i cibi poveri di fibre. Oggi mi voglio occupare dello zucchero, rimandando gli altri argomenti ai prossimi articoli. Lo zucchero da molti è considerato il nemico numero uno della salute. Che sia il numero uno o due o tre, poco importa: certamente un apporto eccessivo può contribuire allo sviluppo di sovrappeso e diabete di tipo 2, oltre che provocare seri danni ai denti. Troviamo lo zucchero sia contenuto naturalmente nei cibi, sia perché lo utilizziamo noi per aumentare il gusto di una pietanza o un alimento (zuccheri aggiunti). Una particolare attenzione va posta proprio nei confronti di questi ultimi. Tenendo conto che è bene che gli zuccheri semplici totali (cioè la somma di quelli presenti naturalmente e quelli aggiunti) non deve superare il 15% dell’introito calorico totale giornaliero, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che sarebbe opportuno non superare i 25 grammi al giorno di zuccheri aggiunti, in un contesto in cui, mediamente, gli zuccheri semplici complessivi non superano i 75 grammi. Il problema è che lo zucchero si trova in un gran numero di alimenti insospettabili, come il pane, le salse di pomodoro e i piatti pronti, e per di più con moltissimi nomi diversi. Sono tantissimi anche gli edulcoranti, naturali e artificiali, usati per ridurre l’apporto calorico di alimenti e bevande, ma che, alla fin fine, portano discreti danni all’organismo, in quanto alterano la flora intestinale batterica e, in ogni caso, ci rendono sempre più dipendenti dal gusto dolce. In totale, sono più di 40 le sostan-
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ze che le aziende usano per addolcire o migliorare il gusto degli alimenti. Lo zucchero più comune è il saccarosio, che spesso viene proposto in altre forme, come zucchero di canna o zucchero invertito. A volte per addolcire si usano altri zuccheri, come il fruttosio (zucchero della frutta), il glucosio, chiamato anche destrosio, e il lattosio (zucchero del latte). Poi ci sono i derivati dell’amido: maltosio, maltodestrine, destrine, sciroppo di glucosio, sciroppo di fruttosio concentrato, sciroppo di glucosio-fruttosio, sciroppo di amido con fruttosio, sciroppo di malto, succo zuccherato disidratato e succo zuccherato evaporato. Una sezione sempre più importante è quella delle alternative “naturali” che comprendono: miele, succo di frutta concentrato, melassa, zucchero d’uva, succo di mele concentrato, succo di pera concentrato, sciroppo d’acero, sciroppo di riso, sciroppo di sorgo, sciroppo d’agave e zucchero di betulla. Attenzione: non sempre le alternative naturali (solo perché naturali) sono migliori per la salute, anche se spesso i consumatori non se ne rendono conto. Certo, miele, melassa e altre sostanze alternative contengono anche minerali, ma le quantità sono così piccole che apportano un beneficio limitato sulla salute. In particolare, lo sciroppo d’agave, il miele e il succo di pera concentrato devono essere consumati con moderazione per l’elevato contenuto di fruttosio, che secondo alcuni studi potrebbe alterare il metabolismo e ridurre la sensibilità del fegato all’insulina, aumentando quindi il rischio di diabete. Il fruttosio, preso in quantità eccessive predispone anche ad un aumento dei trigliceri-
LACULTURADELBENESSERE
di e dell’acido urico (pertanto non pensate solo che chi mangia la carne può avere la gotta!). C’è solo un’alternativa “naturale” con un profilo migliore rispetto allo zucchero: si tratta dello zucchero di betulla (o xilitolo), che contiene meno calorie rispetto a quello da tavola e influenza solo marginalmente la glicemia. Per quanto riguarda i dolcificanti. La stevia (presente in etichetta anche come glicosidi stevolioci o stevioside) è un edulcorante naturale molto in voga negli ultimi anni. Si tratta di un estratto ottenuto dalle foglie dell’arbusto sudamericano Stevia rebaudiana, con un ottimo potere dolcificante e un apporto calorico pari a zero. Ci sono poi gli zuccheri derivati dal glucosio, come il già citato xilitolo, con un potere calorico inferiore: si tratta di sorbitolo, mannitolo, isomalto, maltitolo. In fondo alla lista troviamo i dolcificanti artificiali usati per bevande e alcuni alimenti. Nell’elenco troviamo la saccarina, l’aspartame, l’acesulfame K, e i meno conosciuti ciclammati e sucralosio. Una particolare attenzione va posta nei confronti dell’utilizzo del fruttosio. Infatti il suo utilizzo è in aumento: le merendine con questa sostanza sono passate dal 63% al 73%, mentre nelle bibite il valore è cresciuto dal 20 al 26%. Il fruttosio è impiegato per ragioni economiche e tecnologiche, anche se numerosi studi, come già dicevo, hanno evidenziato l’influenza negativa sul metabolismo dei lipidi, su quello dell’acido urico, oltre ad associarlo alla sindrome metabolica e alle patologie favorite da questa condizione, come diabete e steatosi epatica. Tenete conto che la soglia oltre il quale aumenta il rischio di sindrome metabolica è pari a 50 grammi al giorno. Se una persona man-
gia le sue 2-3 porzioni di frutta al giorno difficilmente supera questa soglia, ma bevendo bibite contenenti fruttosio il gioco è presto fatto. Anche secondo i LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti), questo zucchero è una presenza da limitare, soprattutto nella dieta dei bambini. Un altro trend da tenere sotto controllo è l’aumento dei dolcificanti. Queste sostanze nel 2014 erano presenti nel 30% delle bibite, mentre nel 2012 si fermavano al 23%. La cosa più preoccupante è che più della metà delle bibite (circa il 17% del totale) non evidenzia, sulle etichette, frasi specifiche che denotano la presenza di dolcificanti. È vero che gli zuccheri semplici hanno effetti negativi per la salute, ma nemmeno i dolcificanti fanno bene! Si è visto che possono alterare il microbiota intestinale, inoltre passando dallo zucchero agli edulcoranti si mantiene l’abitudine al gusto dolce, mentre per modificare uno stile alimentare bisognerebbe agire proprio su questo aspetto. Quindi? Come possiamo muoverci? Quando possiamo dolcifichiamo con Stevia o xilitolo (succo di betulla). Se siamo affezionati ad un gusto dolce più tradizionale usiamo lo zucchero, ma con moderazione (ricordate che gli zuccheri aggiunti non devono superare i 25 grammi al giorno!). Evitiamo poi tutto quello che è con contenuto di altri dolcificanti (incluso il fruttosio), stando lontani da bevande ipocaloriche, succhi di frutta. Ricordiamoci sempre che il problema più grosso è staccarsi dalla dipendenza del gusto dolce, non tanto il conteggio calorico fine a se stesso. Solo se facciamo molta attenzione a questi zuccheri aggiunti potremmo con molta serenità concederci due porzioni di dolce a settimana!
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LA SCELTA VEGANA
a cura di
Silvia Bianco testimonial di cucina vegana
PASTA VEGANA CON LE BANANE VERDI… Produrre pasta senza glutine partendo dalle banane verdi è il progetto di Green Banana, una startup fondata nel 2016 e registrata nei Paesi Bassi e in Uganda che reinventa il modo di fare una deliziosa pasta, persino più salutare e nutriente (oltre che senza glutine) utilizzando banane verdi, legumi e verdure, il tutto con un positivissimo e forte impatto sociale sui piccoli agricoltori in Uganda. Il progetto nasce dall’intuizione dell’ugandese Sean Patrick che nell’estate del 2016 si è aggiudicato, insieme ad altre 8 start up, la partecipazione al programma di accelerazione di Startupbootcamp FoodTech di Roma, ovvero un incubatore di foodinnovation al termine del quale, Green Banana lancerà 3 varietà di pasta sul mercato italiano ed olandese con l’obiettivo di raggiungere gli scaffali di 2 o 3 supermercati principali nei Paesi Bassi ed in Italia.
MISSION & VISION Il progetto è quello di trasformare i prodotti sottoutilizzati come le banane verdi, in prodotti alimentari naturali ed innovativi con un alto valore, ricchi di nutrienti ed energia. In uno scenario innovativo, rivolto ai settori dell’agro-industria e delle tecnologie green, Green Banana stringe accordi con i piccoli agricoltori dell’Uganda fornendo soluzioni innovative che consentano il progresso economico, lo sviluppo del capitale umano e sociale e la sostenibilità delle risorse naturali. Mai come oggi, noi consumatori ci troviamo di fronte alla lotta di mercato di nuove e vecchie imprese che a colpi di marketing di superfood offrono il prodotto più buono e naturale con prezzi eccessivi e talvolta difficili da reperire, creando un’immagine distorta del mangiare sano e naturale, ovvero uno stile di vita di nicchia, fatto per pochi eletti. Secondo il fondatore Sean Patrick il cibo sano e gustoso non deve essere un lusso, ma deve essere raggiungibile ed accessibile da tutte le famiglie, per questo – asserisce – il prodotto finale sarà alla portata di tutte le tasche.
NON È LA SOLITA BANANA La materia prima di base sono le banane verdi degli altopiani dell’Africa orientale, chiamate anche “Matooke” in Uganda o “guineos verdes” in America Latina. Le banane verdi vengono consumate come da tradizione in una varietà di piatti dolci soprattutto per la colazione o in piatti salati per pranzo o cena. La pasta senza glutine sviluppata da Green Banana è data da una miscela di banane verdi, leguminose e legumi che vengono essiccate e ridotte in farina, a cui vengono poi aggiunte verdure come carote e barbabietole per fornire
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LASCELTAVEGANA
un ulteriore e vario apporto di fibre, vitamine e minerali. Green Banana sta attualmente lavorando su tre formati di pasta: fusilli, rigatoni e conchiglie, ma anche su prodotti di pasticceria come i biscotti.
A TUTTA SALUTE! Le banane verdi sono una fonte di amidi resistenti, fibre, vitamine e minerali. Gli “amidi resistenti” sono un tipo di amido che non può essere suddiviso dagli enzimi del nostro sistema digestivo e, quindi, all’interno del nostro corpo agiscono più come una fibra anziché come un amido. Le banane verdi, contenendo un’alta quantità di amido resistente, possono tornare utili alla dieta per ridurre il rischio di diabete, aiutando a controllare i livelli di glicemia e per diminuire il rischio da malattie cardiache, contribuendo ad abbassare i livelli di colesterolo nel sangue. Inoltre le banane verdi sono anche una grande fonte di fibre che rallentando la digestione, aiutano a sentirsi sazi più velocemente e più a lungo e, di riflesso, a controllare il peso. Inoltre la banana verde è ricca di potassio e vitamina B6, (entrambi ottimi per la salute del cuore) ed importantissimi rispettivamente per il controllo della pressione sanguigna e per produrre l’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno nel corpo e per il controllo della glicemia.
I PICCOLI AGRICOLTORI IN UGANDA E LA SOSTENIBILITÀ DI GREEN BANANA Il numero di piccoli coltivatori di banane verdi in Uganda sta diminuendo, in quanto il prezzo che ottengono per i loro prodotti non è sufficiente per un sostentamento e stile di vita dignitoso. E’ chiaro che non esiste un mercato forte: quello locale è sempre fluttuante, la banana verde cresce ma rimane sottoutilizzata perché viene consumata principalmente nella sua forma originale dai consumatori locali, mentre l’esportazione verso il mercato internazionale è ancora molto ridotta anche perché è molto difficile che le banane giungano a destinazione prima che si guastino. Attualmente gli agricoltori vendono ad intermediari che determinano sia il prezzo di acquisto all’agricoltore stesso sia il prezzo di vendita al mercato. La stagione del raccolto avviene per ben 3 volte l’anno, ma i mercati locali non sono in grado di assorbire tutta la produzione e la sovrabbondanza del raccolto si traduce in perdite del raccolto, abbassamento dei prezzi e svendita dei prodotti rimasti da parte degli agricoltori che hanno serie difficoltà ad avere un reddito costante e sufficiente per il loro sostentamento.
Ne consegue l’abbandono dell’agricoltura e la migrazione verso altri settori. Secondo Patrick, però, l’agricoltura in Uganda ha un forte potenziale perché i territori sono facili da coltivare grazie a terreni fertili ed alle colture con alto valore nutrizionale come la banana verde e l’amaranto. Sean Patrick, cresciuto in una famiglia di coltivatori di banane verdi, si è trasferito in Olanda per un master in agricoltura e studi ambientali. Poi ha lavorato in una organizzazione non governativa ad Amsterdam. « La mia esperienza con i progetti di sviluppo convenzionali è che la maggior parte dei progetti di aiuto, semplicemente, non funzionano. Non durano oltre il periodo di finanziamento – ha detto Patrick – ed è per questo che non è un modo sostenibile di sviluppo». Da qui nasce la decisione di Patrick di impegnarsi in un progetto proprio. L’iniziativa di Patrick è innovativa proprio perché mira a mantenere la tradizione dei territori, ad aumentare la durata di conservazione dei prodotti e a preservare il cibo in un’ottica di mercato sostenibile. Il passo successivo è quello di sviluppare prodotti alimentari che generano un valore aggiunto rispetto alla materia prima di partenza. Le banane verdi di Green Banana provengono da agricoltori locali di piccole dimensioni in Uganda, l’agricoltura tradizionale delle banane è da sempre biologica rispettando l’ambiente ed il suolo. Green Banana seleziona direttamente i suoi agricoltori, investendo parte dei profitti in programmi di sviluppo delle competenze, fornendo tutti gli strumenti per incrementare la produzione rimanendo sostenibili. Green Banana si propone quindi come una pasta buona per la salute del pianeta e dell’uomo. Non ci resta che aspettare il termine del percorso in Startupbootcamp FoodTech di Roma e l’introduzione di Green Banana pasta sul mercato per poter dire se anche il sapore e la consistenza sono buoni come quelli delle migliori paste di grano a cui noi italiani, e non solo, siamo tanto legati. “L’uomo è l’unico animale che mette in pericolo la propria esistenza. Ecco perché voglio aumentare la consapevolezza sull’etica legata al cibo. Dobbiamo capire da dove proviene il nostro cibo, cosa contiene, come è stato prodotto e come influisce sul mondo che ci circonda”. Sean Patrick, fondatore di Green Banana.
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Gala teo ASSAGGI DI
a cura di
Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico
UN ALIMENTO SACRO DA TOCCARE SOLO CON LE MANI Ci sono ingredienti che spesso consideriamo “semplici”, perché stanno alla base della nostra alimentazione e sono costantemente presenti sulle nostre tavole a quasi tutti i pasti. L’acqua è senza dubbio uno di questi elementi in quanto arriva a noi senza alcuna trasformazione. Vi è un’altra preparazione che può essere pensata come semplice, ma che è simbolo della nostra cultura: l’alimento in questione è il pane, così importante da rappresentare il corpo di Cristo e da essere presente nella preghiera al Padre Nostro: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano…”, da intendere come possibilità di produrre, un inno a lavorare la terra per arrivare dal grano al prodotto finito. Se non ci soffermassimo a pensare quanto lavoro è racchiuso al suo interno, questo alimento, superficialmente, appare semplicissimo. In realtà segue un percorso lungo e scandito da svariate fasi. Un periodo di lavorazioni che dura circa 9 mesi, paragonabile temporalmente alla creazione della vita umana. Prima la lavorazione della terra, poi la semina, la crescita del grano fino alla sua completa maturazione, la mietitura, la trebbiatura, la conservazione, la produzione della farina e poi, infine, il
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pane, fatto attraverso altre molteplici fasi. Tutti questi passaggi devono essere eseguiti alla perfezione, altrimenti non si otterrà una farina adeguata e all’altezza della sua lavorazione. Si pensi solo a quanto siano difficili le fasi di lievitazione e cottura, dietro le quali vi sono studi capaci di riempire tomi di centinaia di pagine. Da questa introduzione possiamo percepire l’idea del perché, dalle popolazioni egizie, mesopotamiche, fino ai greci e ai romani, il pane incarni il valore di simbolo della civiltà. Un simbolo che si può toccare con mano e che concretizza il lavoro e la fatica, prima intellettuale e poi tecnica dell’uomo. Potremmo dire lo stesso del vino, ma il pane costituisce la base essenziale del sostentamento, mentre il vino è quel surplus capace di rendere il quotidiano una festa. Per chi lavora in una cucina, ma anche per una casalinga, il pane dovrebbe essere considerato l’elemento più importante del pasto. Sarebbe corretto posizionarlo al centro della tavola e non nella sua periferia, da contorno a tutto il resto. Per tale motivo, in diversi ristoranti, dalla trattoria al tre stelle Michelin, il pane sta rappresentando una portata a sé.
ASSAGGIDIGALATEO
È doveroso meditare sulla scelta della produzione o dell’approvvigionamento. Spesso i ristoranti cercano di produrre questo alimento al loro interno, ma con un risultato qualitativo inferiore a quello dei panifici locali. Essendo una preparazione che richiede una forte conoscenza delle materie prime, della microbiologia dei lieviti e delle tecniche di impasto e cottura, esige un importante investimento economico all’interno della struttura, sia in tempo che in personale specializzato, oltre alle attrezzature specifiche. Dunque, far bene il pane non è così economico come si può pensare. Il consiglio, se non ci si può permettere tale investimento, è di affidarsi ad un panificio che sia in grado di produrre il miglior pane per il nostro ristorante, magari facendone una linea dedicata, dove sarete voi a scegliere la farina, la pezzatura e la tipologia. Che sia il nostro prodotto o quello del panettiere locale, dobbiamo averne un grande rispetto e abbiamo l’obbligo di comprendere qual è il modo migliore per servirlo a tavola. Non dimentichiamo che tale cibo è fortemente legato alla religione cristiana e prima ancora a quella ebraica con il pane azzimo. Nell’ultima cena viene spezzato e dato ai discepoli; lo spezza il figlio di Dio in rappresentanza dell’umanità intera e lo fa con le
mani. Per questo, a tavola, secondo il galateo, il pane va spezzato solo ed esclusivamente con le mani e non tagliato con il coltello. L’essenzialità di questo alimento è sottolineata da un piattino a lui dedicato, presente durante tutto il momento conviviale, che va posto a sinistra del piatto principale, in alto, sopra la posateria. Questo permetterà di non far cadere le briciole sulla tovaglia e di tenere la porzione nel proprio piattino, rispettando così anche da norme igieniche. È importante non servire il pane in cestini dove viene ammassato, anche con differenti varietà disposte insieme senza una sequenza logica. I panini, se sono piccoli, si portano in tavola sempre interi, mentre il pane di pezzatura più grande (come quello toscano, pugliese, ecc.) si taglia a fette sottili che, se risultano troppo grandi, vanno ancora divise trasversalmente. Così si presentano anche le focacce e altri tipi di farinacei simili. Cerchiamo di mettere in risalto questo alimento, riservandogli un posto d’onore su un piatto da portata più significativo, determinando il momento e la tipologia più adeguata in base al menù prescelto dal cliente.
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IL MENU ENGINEERING
a cura di
Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop
9 TRUCCHI DEL MESTIERE PER IL MENU PERFETTO Chi segue questa rubrica da tempo è ben consapevole che il Menu Engineering sia una vera e propria scienza che si occupa di ottimizzare le vendite di un ristorante agendo sul menù del ristorante stesso. Tuttavia, alle volte, può diventare complesso applicare questi principi, annebbiati dalle troppe informazioni che si hanno a disposizione. Per questo chi scrive ha deciso di stilare una lista – che non ha la pretesa di essere esaustiva o completa – di “trucchi” facilmente applicabili per migliorare le prestazioni del proprio menù, quindi del proprio ristorante e la soddisfazione dei propri ospiti. Ecco l’elenco:
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Sette piatti per categoria, non di più, per evitare la Paralisi da Opzioni. Ogni categoria (antipasti, primi piatti,
secondi piatti ecc.) non dovrebbe contenere più di 7 piatti, anche se in alcuni casi è consigliabile averne addirittura meno. Se non si segue questa regola si rischia di generare Paralisi da Opzioni, una condizione per la quale le troppe opzioni messe a disposizione dal menù non semplificano la scelta, ma la rendono difficilissima, se non impossibile, finendo perfino per paralizzare chi tiene tra le mani il menù.
2)
La regola dei 180 secondi. Continuamente distratti dall’ambiente esterno, dai commensali e dai nostri smartphone, è stato dimostrato che il tempo massimo dedicato alla lettura del menù è di 180 secondi. Statistica che, se letta in un altro modo, significa che nessuno sarà mai in grado di leggere un menù troppo lungo e complesso. E quindi…
PROGETTAREL’IMPRESA
3)
…Semplicità e brevità DEVONO essere le parole d’ordine. “Less is more” per davvero. Parole auliche, complesse o troppo articolate, oltre a rendere fraintendibile ciò che scriviamo, rendono difficoltosa la lettura del menù e quindi la scelta dei propri ospiti. Vanno evitate. Inoltre, NO ai menù multi-pagina o eccessivamente lunghi, che annoiano e generano Paralisi da Opzioni. Occorre essere concisi, mai noiosi o prolissi.
gli stessi. Si è dimostrato che questo incentiva la vendita dei piatti dai prezzi più bassi. Se invece i prezzi sono scritti aderenti alle descrizioni dei piatti il paragone tra prezzi è reso più difficile, e questo fa sì che la clientela ordini il piatto che desidera assaggiare, e non il meno costoso.
7)
Ogni piatto deve avere un’identità unica, con un nome e una descrizione che siano coerenti con esso. Chi scrive consiglia di pensare ad ogni piatto come assimilabile ad un’opera d’arte. E come tale, necessita di un nome e di una descrizione che lo caratterizzino e lo identifichino come unico, come speciale. E a proposito…
Se è possibile, non inserire il simbolo dell’euro (€) o riferimenti allo stesso (EUR, euro) a fianco dei piatti. Il simbolo della valuta è associato ad una fenomenologia detta “Pain of Paying”, una sorta di «dolore» connesso al separarsi dal proprio denaro. E’ infatti dimostrato che il solo visualizzare questi simboli stimola le stesse aree del cervello che vengono stimolate quando proviamo dolore. Togliendo ogni riferimento alla valuta sul menù è stato dimostrato che i propri ospiti consumeranno di più.
5)
8)
4)
…Cambiare le descrizioni dei propri piatti può aumentare le vendite di quei piatti fino al 27% in più. Una ricerca della Illinois University ha dimostrato come le descrizioni dei piatti, che sono necessarie SEMPRE, quando contenenti alcuni riferimenti in grado di suscitare emozioni positive e di dare “colore” e “profondità” al piatto, possono influenzare la scelta degli ospiti, aumentando le vendite fino al 27% in più. Vale la pena utilizzarle.
6)
I prezzi non vanno incolonnati. Incolonnare i prezzi uno sotto l’altro equivale a semplificare il confronto tra
Le dimensioni, e la forma, contano. Alcune ricerche dimostrano come la dimensione, la forma, i materiali con cui è realizzato e il peso del menù stesso influenzino molto più di quanto possiamo immaginare gli ordini al ristorante.
9)
Infine: Cambiare il contenitore per cambiare il contenuto. Anche la dimensione, la forma e il colore di piatti, bicchieri e stoviglie in genere influenza la scelta, il consumo e la vendita dei vari piatti. Vale la pena pensarli coerentemente alla propria identità. Buon Menu Engineering!
GOLAVAGANDO
VALENTYNE RESTAURANT ROMA RITORNO AL GLAMOUR
«Un progetto alternativo alla classica ristorazione gourmet, attualmente in voga negli hotel di lusso». Con queste parole Daniele Lassandra descrive lo spirito di Valentyne Restaurant, il nuovo spazio ristorazione dell’Hotel Valadier, che ha aperto i battenti lo scorso 20 dicembre in Via della Fontanella, a Roma. Il luxury hotel, collocato tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, amplia così la propria offerta, puntando su atmosfere teatrali e un’offerta gastronomica esclusiva. Il recupero di uno spazio già esistente, attualizzato per stile, contenuto e colori, e una sinergia di intenti tra la proprietà e CostaGroup, incaricata del progetto, ha permesso il successo di questa operazione, garantendo coerenza di progettazione e arredi ed enfatizzando l’atmosfera in voga nei locali e nei club del Proibizionismo americano. Il risultato?
Un luogo senza tempo che segna il ritorno del glamour e delle atmosfere anni ‘30, il fascino e le suggestioni di quell’epoca. Marmi pregiati, specchi, ottone, piume, il velluto sgargiante di sedute e tendaggi, le ceramiche bianche venate e stuccate a mano in foglia oro. Ma anche il ripristino di boiserie originali, parquet d’epoca e delle applique in vetro di Murano. Un’area bar con bancone in legno lavorato in tridimensionale e un retro banco verniciato ottone scenograficamente illuminato si accompagnano a un’eccellente carta coktails e l’ausilio di esperti Mixologyst, ad animare lo spazio. Un salotto dall’atmosfera raccolta e sofisticata che punta su una ristorazione di respiro internazionale, «club sandwich, burgers classici o nelle varianti luxury, ostriche, caviale, tempura e una selezionata lista di main courses ispirati alla cucina Newyorkese e Francese – spiega Lassalandra – Grande spazio riservato a panificazione e pasticceria, curata in maniera maniacale, che vede l’ utilizzo di farine e ingredienti Bio nelle lavorazioni, per realizzare diversi tipi di pane in abbinamento a ostriche, fois gras e formaggi. L’impronta mediterranea è confermata invece da una lista di crudi di pesce in versio-
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VALENTYNERESTAURANT
VALENTYNE RESTAURANT
Via della Fontanella 15, Roma Studio design e progettazione Costa Group
Arch. Gianfranco Berghich
ne classica o in variante più sperimentale». E per finire, un tocco underground, grazie alla musica selezionata da Dj rigorosamente deep house e luci soffuse, per un luogo di inconsueta eleganza, nel cuore di Roma.
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GOLAVAGANDO
A BOLOGNA
L’ARCIMBOLDO DONA NUOVA VITA ALLA CUCINA TRADIZIONALE Alessia Pellegrini Giovanni Mastropasqua
di foto di
La cucina, l’arte, l’arte della cucina e la cucina dell’arte. Più di un ristorante tipico, un ristorArte. Un progetto che non potrebbe trovare madre migliore di Bologna, considerata da tutti città del cibo per la forte tradizione che la cucina ha nelle abitudini locali. Il ristorante L’Arcimboldo di Bologna è un laboratorio artistico che presta i suoi spazi a mostre d’arte ed eventi ed è un laboratorio gastronomico nel quale la cucina tipica bolognese viene data a vita nuova. La materia prima d’eccellenza è protagonista di tutte le preparazioni, gli ingredienti vengono scelti con massima cura e la selezione è rigorosa. Paste fresche tirate a mano dalla sfoglina, carni di primissima qualità, formaggi e salumi del territorio, pane e dolci fatti in casa, una cantina dalla geografia locale. Una cucina A- tipica perché qui i piatti della migliore tradizione culinaria bolognese incontrano la mano giovane della contemporaneità che sazia la pancia ed incanta lo sguardo.
LA STORIA Due famiglie, un’antica amicizia che si rinnova nel legame dei figli, due passioni ed un progetto unico a Bologna, L’Arcimboldo. Federica Fava e Daniele Meli, proprietari e gestori del locale, hanno deciso di fare tavola comune dei loro sogni e della possibilità di realizzarli. La storia è questa: Federica e Daniele sono figli di una coppia, amici dai tempi della scuola; si frequentano insieme alle
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loro famiglie, stringono un’amicizia solida, ciascuno dei due se ne va dove la vita li porta, ma nel 2014 si convincono dell’idea di poter mettere al servizio l’uno dell’altro le loro reciproche formazioni intellettuali e competenze professionali. Federica ha conseguito la Laurea in Storia dell’Arte e Daniele è un giovane chef che ha già maturato esperienze di lavoro in contesti prestigiosi, Le Calandre e L’Albereta. Federica e Daniele sono uniti da una “visione”: la bellezza come esperienza estetica può essere applicata come valore aggiunto all’esperienza gastronomica. Nasce così nell’aprile del 2015 il progetto del L’Arcimboldo, pittore famoso per i suoi ritratti di frutta e verdura, grande maestro della potenza degli elementi della natura. La cucina di questo locale ricalca perfettamente la volontà di celebrare l’arte culinaria bolognese recuperando le antiche ricette, consegnandole alla contemporaneità delle più recenti tecniche di preparazione per un risultato che, al primo assaggio, risulti familiare e al tempo stesso nuovo, tutto da scoprire, come fosse un’opera d’arte di quelle presenti nello spazio espositivo del locale, che offre diversi livelli di interpretazione. Il progetto gastronomico s’incentra sulla condizione necessaria di una materia prima eccellente e di produzione artigianale, controllata e garantita.
Le carni arrivano dall’Azienda Zivieri e dal negozio di fiducia in Vicolo Ranocchi a Bologna; verdure, ortaggi e frutta vengono acquistate fresche da aziende locali, i salumi sono quelli dell’Azienda Franceschini e Pasquini, i formaggi arrivano da Monteveglio e Valsamoggia. Il pane viene fatto in casa, così come la specialità della crescente con il guanciale, la pasta fresca viene tirata a mano dalla sfoglina che lavora i formati tradizionali, tagliatelle, gnocchi, tortellini, tortelloni, ravioli. I dolci sono di produzione propria, zuppa inglese, torta di riso e la torta tradizionale modenese Barozzi rivisitata da Daniele. La popolarità delle ricette incontra l’eleganza dell’impiattamento per un’esperienza sensoriale completa. La carta dei vini offre le migliori produzioni vitivinicole del territorio dei Colli bolognesi ed una selezione di amari, distillati e distillati di pregio.
L’AMBIENTE Il locale si configura come luogo di incontro e fusione di esperienze artistiche e gastronomiche, nessuna frattura tra gli elementi di richiamo alla tradizione e quelli più contemporanei. Il risultato è quello di uno spazio valorizzato sotto ogni pun-
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GOLAVAGANDO
to di vista. L’eleganza non sfacciata dei complementi d’arredo e lo stile dell’allestimento creano una piacevole atmosfera d’intimità e di raccoglimento. La tavola si presenta moderna nell’apparecchiatura priva di inutili barocchismi, bella l’alternanza di forme tonde e quadrate e delle sedute in pelle nera abbinate a quelle di design in trasparenza. Ovunque si guardi c’è da fermarsi, scoprire e chiacchierarne mentre si mangia.
COSA MANGIARE La nostra degustazione si apre con spuma di mortadella, ricotta e parmigiano ed uovo fritto su letto di spinaci e spuma di parmigiano. Bis di primi,
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i tortellini San Petronio cotti nel brodo di cappone e tirati in padella con crema di parmigiano reggiano 24 mesi e pepe di Sichuan, a seguire, i tortelloni 2.0 con rapa rossa, puntarelle, acciughe, pinoli e Salame Rosa. Tra i secondi segnaliamo lo stinchetto di maialino da latte con finferli, mandorle, prugne secche e patate americane e i carciofi ripieni di pecorino, olive, pomodorini, capperi, quinoa, mais e sesamo. Infine, zuppa inglese per dessert.
COSA NON È STATO DETTO All’interno del locale troverete un angolo gastronomico presso il quale è possibile scegliere ed acquistare alcuni dei prodotti utilizzati nelle preparazioni dei piatti del menu, pasta fresca fatta in casa, formaggi, salumi, prodotti da presidi Slow Food, birre di produzione artigianale. Il locale, inoltre, ospita mostre d’arte e organizza eventi gastronomici ed artistici.
RISTORANTE L’ARCIMBOLDO
Via Galliera, 34 - 40121 Bologna (BO) - Tel. 051 248073 www.ristorantelarcimboldo.it
© ph Giorgio Marchiori
GOLAVAGANDO
GIANCARLO PERBELLINI APRE DUE NUOVI LOCALI
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GIANCARLOPERBELLINI
Giancarlo Perbellini conferma ancora una volta la sua vocazione all’imprenditorialità che lo vede protagonista del lancio, nel 2018, di due nuovi locali che si vanno ad aggiungere agli otto che già gravitano nella sua galassia: “Casa Perbellini” (www.casaperbellini.com/it/), “Locanda 4Cuochi”, “Tapasotto”, “Capitan della Cittadella”, “Du de Cope” e “La Dolce Locanda” a Verona, “Il Dopolavoro” a Venezia e “La Locanda” a Hong Kong. “Seguirò la partenza di ciascun ristorante per passare la mano, mantenendone la supervisione, ad una squadra di giovani professionisti” spiega lo Chef, che poi aggiunge: “Puntiamo ad un pubblico trasversale: nel mio ristorante stellato Casa Perbellini, a Verona, arrivano gourmet, appassionati e uomini d’affari. A Milano e in Bahrain ci rivolgiamo ad un pubblico naturalmente diverso, con una offerta enogastronomica commisurata alle due realtà in termini di piatti proposti e di costi”.
LOCANDA PERBELLINI BRERA - MILANO
A Milano, in via Moscova zona Brera, si inaugurara alla fine di questo mese la Locanda Perbellini - Bistrot Milano, a capo della quale Perbellini ha indicato il giovane chef Michael Pozzi, che per i primi mesi verrà affiancato dal rodato Federico Zonta (foto a lato), attualmente in forza al “Tapasotto” di Verona. Il prezzo del menù andrà dai 35 ai 50 euro con una selezione di vini al bicchiere e una cantina con un vasto assortimento. Il locale sarà caratterizzato da un servizio agile e da una cucina impreziosita dall’essere a vista, ricalcando in parte la formula di “Casa Perbellini” a Verona e consentendo agli ospiti di assistere in diretta alla preparazione degli antipasti e dei dessert.
LA PERGOLA
MANAMA - BAHRAIN Il resort 5 stelle The Gulf Hotel ha scelto appunto di affidare il rilancio del suo storico ristorante italiano “La Pergola”, il più antico del Bahrain, allo chef Perbellini che spiega: “È tra i locali più conosciuti e apprezzati del Bahrain, per questo, per il suo rilancio, si è scelto di mantenere il nome originale, che deriva dal fatto che dove oggi sorge il ristorante un tempo c’era un’antica pergola, aggiungendovi il mio”. La Pergola - Giancarlo Perbellini aprirà i battenti a fine luglio, al termine del Ramadan, dopo un restyling che, unito al tocco dello chef, concorrerà, almeno questo è l’obiettivo, a farne il numero uno dei ristoranti italiani dell’intero Medio Oriente. Il menù andrà dai 50 ai 70 euro.
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GOLAVAGANDO
COSA SIGNIFICA CUCINARE PER LO CHEF
RAFFAELE PETRUCCI DEL RISTORANTE CORSINI A FIRENZE Cristina Vannuzzi foto di Martino Dini di
CREME BRÛLÉ al caffè aromatizzata al cardamomo
INGREDIENTI per 4 persone
ml. 400 di panna per dolci, ml. 200 di latte intero, g. 170 di zucchero bianco,
g. 80 di caffè in chicchi, 3 semi di cardamomo, g. 150 di tuorlo d’uovo.
Il Ristorante Corsini è nuovo, aperto da pochi mesi; fuori un palazzone tutto bianco, all’interno una sinfonia armoniosa di nuances dove prevalgono le tonalità del bianco, tortora e beige con eleganti arredi di tavola e dipinti alle pareti. Così come la corte merita una menzione speciale, incastonato come un gioiello è il Secret Garden del Corsini, un giardino segreto fatto di verde lussureggiante in verticale e di piante profumate utilizzate anche per cucinare. Lo chef è Raffaele Petrucci (foto a lato), campano, giramondo con esperienze in Spagna, a Madrid, e poi Forte dei Marmi, al Grand Hotel di Gardone, a
PREPARAZIONE
Unire il latte e la panna insieme al caffè in chicchi e ai semi di cardamomo precedentemente aperti. Portare ad una
temperatura di 70°C, coprire con la pellicola e lasciar riposare per 10 minu-
ti. A questo punto sbattere i tuorli e lo
zucchero fino ad ottenere un composto
ben fluido e cremoso, quindi filtrare la panna e il latte aromatizzati e unire a
uova e zucchero. In una teglia da forno
con bordi alti versare circa 3 mestoli d’acqua e unire il composto in ciotoline
di ceramica (un mestolo e mezzo circa
per ciascun recipiente). Coprire la teglia con pellicola da cucina e cuocere a bagnomaria per 115 minuti a 110°C con forno impostato su opzione mista.
Terminata la cottura, lasciare raffredda-
re, cospargere con zucchero di canna e bruciare la superficie con l’apposito cannello da cucina. Guarnire con foglie
di menta, polvere e chicchi di caffè e semi di cardamomo.
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GOLAVAGANDO
Palazzo Petrucci, nelle cucine più glamour del mondo: “Io tengo sempre presente un grande detto di Gualtiero Marchesi – ci confida - “Bisogna esaltare la materia, non se stessi”. Per me cucinare è come scrivere una musica, nota dietro nota; questo lavoro è vita, passione, fatica, creatività, inventiva, studio della storia della cucina e della ricetta per ridonarle la centralità che merita. La mia cucina sa di terra e di natura: un mondo di colori e di profumi, dalla terra al piatto. Io ho viaggiato e ho trasposto molto di quello che ho visto e imparato, ma basta lasciarsi andare al gusto per ritrovarsi altrove perché, come ci dice Proust: “Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
RISTORANTE CORSINI
Lungarno Corsini, 36 - 50123 Firenze Tel. 055 2398350
www.ilcorsini.com - info@ilcorsini.com
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GOLAVAGANDO di
Cristina Vannuzzi Stefano Mileto
foto di
IL CIBO COME RACCONTO DEL TERRITORIO:
RISTORANTE MANSIO A ROMA
Andrea Becattini (foto sopra) del Ristorante Mansio del Gruppo Tornatora, a Roma, è giovane e talentuoso, romano de Roma, nato sul lungomare di Ostia. La sua cucina, tutta da vivere e da gustare, si esprime attraverso il linguaggio gentile della natura. “La mia passione si trasmette attraverso la mia cucina - ci dice il giovane chef -. Sono nato sul mare e mi ritengo privilegiato, ma ho anche vissuto sempre il centro di Roma, città piena
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di vita, suoni, rumore, gente. Ho capito che per avvicinare le persone e farle ritornare ad assaporare un cibo autentico e sano bisogna incontrare il mare, ma anche contadini, vignaioli, casari, gente autentica. Conoscere le loro storie, il loro lavoro, per poi raccontarlo con il cibo, uno strumento d’inclusione straordinaria”. Andrea Becattini rappresenta tutto questo con la zuppa di cavolo viola, spuma di mandorle, quinoa soffiata e melograno; con la guancia brasata con topinanbur e birra, e con un assoluto di anatra, castagne e ribes; ritrova il suo mare di Ostia nel tonno scottato con salsa di piselli, purea di carote e pompelmo; nel dentice con melanzana, arancia e pinoli, e nel baccalà con salsa di asparagi e cedro candito della Sicilia. Gli arredi del Ristorante Mansio, restaurati, sono quelli dell’antica stazione di posta, dove stazionavano dignitari e ufficiali dell’Urbe. Oggi, nel nuovo concept della Famiglia Tornatora brilla, oltre allo chef Becattini, anche Jimmy Andrea Montanari (detto Jimmy il druido) (qui a lato), barman estroso, quasi un funambolo, che gioca con i contrasti, coccolando il cliente e creando un processo di fidelizzazione al locale attraverso la creazione di “piccole Mansio Experience by Jimmy”.
RISTORANTE MANSIO
BACCALÀ
Via Rinaldo D’Ami, 1/3 - Roma
in olio-cottura con asparagi e cedro semi-candito
Tel. 06 5283 1598
(foto in alto a sinistra)
INGREDIENTI per 4 persone
e cuocere in forno preriscaldato a 70°C con
a bollore, inserire il cedro e far raffreddare
semi, ml. 200 di olio evo, 2 spicchi d’aglio,
Per la salsa di asparagi: pulire e tagliare
Per la maionese: recuperare dal fondo
kg. 1 di baccalà dissalato, l. 2 di olio di
g. 3 di rosmarino, maionese (vedi in preparazione).
Per la salsa di asparagi: g. 300 di aspa-
ragi, g. 50 di scalogno, g. 3 di pepe di Sechuan, sale.
Per il cedro candito: g. 500 di cedro, g. 200 di zucchero semolato. PREPARAZIONE
Porzionare il baccalà e disporlo in una te-
glia abbastanza alta; coprire con l’olio di
semi e d’oliva, inserire l’aglio e il rosmarino
20 % di umidità per 15 minuti. Abbattere.
a losanga gli asparagi e sbollentarli in
a temperatura ambiente.
della teglia di cottura le proteine gelatifi-
acqua salata; saltarli in padella con un filo
cate del baccalà ed emulsionarle con l’olio
cuocerli aiutandosi con un po’ della loro
fino a raggiungere una testura simile alla
d’olio, lo scalogno, il pepe di Sechuan e acqua di cottura. Frullare, filtrare e aggiustare la salsa con sale. Emulsionarla con
di cottura del baccalà, inserendolo a filo maionese classica.
un filo d’olio evo e, facoltativo, 1 grammo
PRESENTAZIONE
ta di asparago per la presentazione.
del piatto, impiattare il baccalà, le punte
di Xantana. Mettere da parte qualche punPer il cedro: ricavare dal cedro la buccia e
il succo, tagliare la buccia a cubi di 1 centimetro, unire il succo allo zucchero, portare
Disporre una quenelle di salsa al centro di asparagi e il cedro; condire con qualche fiocco di maionese e decorare con una cialda di riso venere soffiata.
GUANCIA brasata con purea di patate e carote baby INGREDIENTI per 4 persone
dare le verdure, dopodiché rosolare le
patate e montarle in planetaria inserendo
g. 100 di sedano, g. 50 di cipolla dorata,
con un parte delle verdure, del fondo e
Sbollentare per un minuto in acqua salata
kg. 1 di guancia di manzo, g. 100 di carota, g. 50 di porro, l. 1 di fondo bruno (brodo di carne scuro), g. 2 di pepe nero, 2 chiodi
garofano, 2 bacche di ginepro, g. 500 di carote baby, g. 5 di salvia, olio evo, sale.
Per la purea di patate: kg. 1 di patate rosse, g. 250 di burro, g. 2 di pepe bianco, 1 limone.
PREPARAZIONE: pulire le guance e mon-
guance e abbatterle in sacchetti da cottura
delle spezie. Cuocere a bassa temperatura a 70°C per 48 ore, abbatterle di nuovo e recuperare i liquidi di cottura. Filtrarli e
mano a mano il burro, il sale e il pepe. le carote e arrostirle in padella con un filo di olio evo e la salvia.
ridurli di 2/3.
PRESENTAZIONE: disporre al centro di
una forchetta e cuocerle al microonde alla
nappare con il fondo ristretto e per ultime
Per la purea: lavare le patate, forarle con massima potenza per 20 minuti, poi privarle della buccia. Passarle allo schiaccia-
un piatto la purea con sopra la guancia,
le carote arrostite. Decorare con verdure di stagione disidratate precedentemente.
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GOLAVAGANDO
DA “CECCO” A TORRE DEL LAGO I PIATTI CHE PIACEVANO A GIACOMO PUCCINI di
Domenico Acconci
Chi dice Torre del Lago dice Giacomo Puccini, infatti il musicista trascorse qui (un monumento a grandezza naturale lo immortala lì presso) la parte più intensa della sua vita. Qui si prese una villa in prossimità del panoramico specchio d’acqua, ma il lago amava anche solcarlo con la barca che si era procurata e che era sempre ancorata all’imbarcadero sulla piazza: usciva con un fido amico a pescare lucci e a sparare alle folaghe, che sono uccelli palustri che si nutrono di pesci e per questo sanno di pesce e che piacevano a Giacomo Puccini, anzi ne era ghiotto. Un uccello – è da ribadire – che raramente viene proposto nei ristoranti della zona, e solo su prenotazione, ma Giacomo Puccini sapeva sempre dove trovarlo; a volte era lui stesso a portarcelo dopo averlo cacciato. Poteva sempre averlo, cucinato a dovere, da un torrelaghese “doc”, da “ Cecco”, nella di lui osteria anche questa con vista sul lago. Ancor oggi esiste questa osteria – in realtà un ristorante elegante – sempre condotto dalla stessa famiglia Manfredi, con al timone della brigata di cucina l’erede Francesco. Tutti gli ingredienti cucinari sono a chilometro zero (anzi, per certo pesce a chilometri uno, perché il mare è dall’altra parte) la carne del macellaio “principe” del posto da bestie di allevamento locale, le ortaglie della campagna circostante. Scorrendo la lista, fra gli antipasti: crostini al sapore di mare; fra i primi piatti: maccheroni ai colombacci (ancora uccelli di passo); risotto al sugo di pomodoro (detto alla lucchese); polenta con cinghiale; cacciucco (su prenotazione); fra i secondi: filetto di manzo al pepe verde; agnello in umido con olive; gran fritto misto di pesce. Il bellissimo panorama, con la lontana cresta dei monti, è “in omaggio”.
“CECCO”
Piazzale Belvedere Giacomo Puccini, 10 Torre del Lago (LU) Tel. 0584-3410
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GOLAVAGANDO
A LIMONE PIEMONTE
FIOCCO DI NEVE OFFRE I PAESAGGI E I SAPORI DELLE LANGHE, PATRIMONIO UNESCO Nel pieno centro storico di Limone Piemonte (CN), a due passi dalle piste da sci della Riserva Bianca e dalla partenza di alcune delle passeggiate più incantevoli delle Alpi, sorge il FIOCCO DI NEVE RELAIS & SPA, un hotel raffinato in cui si respira l’aria di montagna, ideale per chi cerca relax e comfort, grazie alle camere ovattate, interamente rivestite di boiserie e alla sua Spa, che garantiscono all’ospite un’oasi di pace e serenità, dove vivere rilassanti giornate di abbandono al benessere e al lusso.
L’hotel situato nella vivace e accogliente località alpina, offre il modo di trascorrere un weekend alla scoperta di un territorio magico, quello delle vicine Langhe, patrimonio Unesco, e di gustare le eccellenze locali. Questo angolo del Piemonte è rinomato in tutto il mondo per la varietà e la qualità dei suoi prodotti, dal tartufo al vino, Barolo in primis. FIOCCO DI NEVE RELAIS & SPA
Via Roma, 2/C - Limone Piemonte (CN) - Tel. +39 0171 926352 - www.fioccodineverelais.com - info@fioccodineverelais.com
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GOLAVAGANDO
A PIETRASANTA
RISTORANTE
IL POSTO
PETRONIANO
UNISCE LA GASTRONOMIA ALL’ARTE
A BOLOGNA ESALTA LA TRADIZIONE
di
Domenico Acconci
di
Sono universalmente riconoscibili le donne “abbondanti” di Ferdinando Botero (egli non vuole che le si definiscano grasse), del resto l’artista, pur essendo un buon mangiatore, non ha forme “abbondanti”, e sua moglie, la scultrice greca Sophia Vari, è addirittura filiforme come le figure dello scultore svizzero Giacometti. Possiamo incontrarli al ristorante “Il Posto” di Pietrasanta, locale frequentato dai numerosi artisti che soggiornano nella cittadina toscana, sede di tante aziende per la lavorazione artistica del marmo e del bronzo (non a caso a “Il Posto” c’è spesso anche il critico d’arte Vittorio Sgarbi ). Dobbiamo anche precisare che il toponimo Pietrasanta non ha niente a che vedere con la lavorazione del marmo (una vera “pietra santa” per gli scultori) ma deriva da Guiscardo Pietrasanta, podestà inviato dalla Repubblica di Lucca a governare il territorio. È il momento ora di puntare il riflettore su Simone Andreano, un autentico “figlio d’arte” - e non poteva che continuarne la carriera - dato che il suo babbo è stato per tanti anni apprezzato cuoco al “Palace” di Saint Moritz, frequentato anche dallo scià di Persia. Bisogna precisare che Simone Andreano - patentato sommelier - è un grande intenditore di vini, pertanto nel suo locale non solo si mangia bene ma si beve anche bene. A tavola, fra gli antipasti troviamo: passatina di granturco con gamberetti; insalata di mare caldo; bianchetti al vapore con insalata di campo; fra i primi piatti: spaghetti con arselle; maccheroni con bianchetti; tagliolini al sapore di mare; fra i secondi: pesce fresco all’isolana; catalana di aragosta; filetto di manzo con tartufi. L’ambiente è elegante, con esposizione di opere d’arte di volta in volta rinnovate. I prezzi variano secondo le portate, ma sono tutti ben contenuti. Siamo nel centro di Pietrasanta, apertura a cena, dal venerdì alla domenica anche a pranzo. RISTORANTE IL POSTO
Piazza Carducci, 12 Pietrasanta (LU) - Tel. 0584 791416 www.ristoranteilposto.it
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Antonietta Mazzeo
Ci sono luoghi nei quali con magica intensità si depositano innumerevoli strati di memoria e di emozioni… atmosfere che hanno lasciato impronte di sé che ridanno vita alle pietre. Lo Chef Vincenzo Vottero con i soci Lica Mazzoni e Ugo Nazzarro, ha scelto di dare nuova vita allo storico ristorante che, nato 30 anni fa come Circolo Culturale, si è sempre più affermato in città per le sue specialità tradizionali e tipiche di Bologna. Lo scorrere degli anni e le diverse abitudini e vocazioni, anche legate al turismo della città, hanno reso necessaria la trasformazione negli interni. Un ambiente elegante, un’attenta cantina e un servizio accurato, fanno del Ristorante Petroniano, una vetrina esclusiva delle specialità gastronomiche del territorio, un vero gioiello di cui Bologna è orgogliosa: paste fresche e ripiene, coniglio, bolliti, arrosti, fino ad arrivare ai dolci della nonna. RISTORANTE PETRONIANO
Via dell’Orso, 9 - 40121 Bologna Tel. 051 225181
www.ristorantepetroniano.it
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Speciale
and more STORIA, CURIOSITÀ, ANEDDOTI, RICETTE, PROTAGONISTI... di
Giuseppe Lorusso
TANTE STORIE PER UN PIATTO DI PASTA Dal chicco alla farina, dalla farina alla pasta e dalla mano alla trafila. Tra fresche, ripiene e asciutte, le varietà di paste alimentari catalogate in Italia sono circa 1600, e questo primo elementare percorso non basterebbe certo a definirle tutte, giacché il racconto della pasta, della sua origine e della sua evoluzione, è naturalmente più ricco e articolato. Ma procediamo per gradi.
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DAL GRANO Nel cammino alimentare dell’umanità, dalla raccolta e dalla coltivazione delle graminacee, una pratica databile intorno ai 10.000 anni fa, arrivando ai primi impasti di acqua e farina messi a cuocere su pietre roventi, ancora per molto tempo pane e pasta resteranno perlopiù indistinti. Inoltre, prima di ricavarne una farina, il chicco continuerà ad essere consumato tal quale, e a testimoniarlo sopravvivono ancora oggi preparazioni salate e dolci come la cuccìa siciliana, il grano condito lucano o la colva pugliese; parente stretta quest’ultima della kolliva greca, un dolce nato per la commemorazione dei defunti, dolcificato con vin cotto e condito con frutta secca e spezie. Ripartendo dal chicco pestato, in progressivo avvicinamento alla nostra pasta secca, fresca e ripiena, ecco la semola battuta pugliese, la frascatula siciliana, la fregula sarda e via via le tante varietà regionali di pasta a granelli, frescarelli, brufadei, granetti, pasta rasa (o ragia), cous cous (trapanese, livornese, sardo), per non citarne che alcune. Finalmente, se dalla farina di grano tenero prende forma la prima pasta fresca e, in tutte le sue diverse declinazioni quella ripiena, dalla farina di grano duro arriverà la pasta asciutta.
La pasta fresca nasce modellando l’impasto a misura della mano, passando dalle “manate” alle quattro dita: coccetelle, cortecce (o quattro dita napoletane), proseguendo con gli strascinati, i cavatelli, capunti, cecatielli, malloreddus (gnocchetti sardi), minnuicchie, minchiarelli, chiancarelle, per finire con l’uso di un solo dito: le orecchiette baresi. La mano si attrezza poi con strumenti via via più ‘sofisticati’, dal coltello al ferro da calza, dal matterello ai dischi tagliapasta, dalla chitarra alle macchinette per tirare la sfoglia, e così alle paste cavate s’affiancano quelle arricciate: le trofie, trofiette (Liguria), strichetti, farfalle, farfalline ecc. e le paste fresche piatte: le sagne calabresi e le lasagne (emiliana e napoletana), i nastri, i nastroni e le pappar-
I LASAGNARI Le lasagne sono la versione più antica e popolare di un vasto mondo, che comprende cannelloni, vincisgrassi, timpani e timballi, da cui sono derivati anche i ravioli e le altre paste ripiene, che nella sfoglia sottile della lasagna hanno la loro matrice. Nei secoli le lasagne diventano popolari, tanto che nella Firenze delle corporazioni nasce una “Arte dei cuochi e dei lasagnari” e nella Repubblica Genovese lavorava un certo “Gualtiero lasagnarus”. Allora la lasagna veniva bollita in brodo di carne o acqua, disposta a strati e condita con abbondante formaggio, mentre nelle corti spopola il gusto dolce e fondente di zucchero e cannella, che ritroviamo ancora oggi nei timballi di pasta ottocenteschi, come il Pasticcio di maccheroni alla ferrarese, il Sartù de’golosi napoletano o quello alla siciliana immortalato ne “Il Gattopardo”.
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delle, e ancora i manfricoli umbri, trenette e linguine, fettuccine, tagliatelle, tagliolini, tajarin, e l’elenco potrebbe continuare.
LE PASTE RIPIENE Anche se avvicinabile alla nostra lasagna, la làgana romana, dal greco làganon (V-IV sec a.C.), citata già in Cicerone e Orazio, si presenta come una sottile sfoglia d’impasto d’acqua e farina che ritroviamo anche nel De re coquinaria di Apicio (230 d.C.), testo di riferimento per la cucina della Roma antica, dove viene utilizzata per confezionare sformati, timballi o torte farcite. Viene facile pensare a queste torte di carne, verdure e formaggio, come antesignane della pasta ripiena. Non a caso, nel poema eroicomico Il Morgante di Luigi Pulci, Margutte, scudiero laido e furbesco del protagonista, proclama: Io credo nella torta e nel tortello: l’una è la madre e l’altro il suo figliuolo. Ma di paste ripiene se ne mangiavano ben prima che se ne parlasse nel quattrocentesco poema del Pulci. Il riferimento è alla cucina arabo-persiana alto medievale, passata nei ricettari della corte di Federico II di Svevia e confluiti poi nel Liber de coquina, redatto in epoca angioina fra il 1285 ed il 1309. Il passaggio di questi usi di cucina dall’area musulmana a quella cristiana avviene, oltre a guerre sante, invasioni e dominazioni, anche grazie all’intensa attività
di traduzione dall’arabo in latino svolta da monaci e da studiosi come Giambonino da Cremona, che sul finire del XIII secolo, traducendo dall’arabo una monumentale enciclopedia scritta a Bagdad dal medico Ibn Jazla nella seconda metà dell’XI secolo, ne fa un estratto nel suo Liber de ferculis et condimentis. Qui troviamo accomunati i calzoni ripieni e i ravioli, nonché la descrizione del sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere farcita con un ripieno di carne per poi finire lessata o fritta. Il sambusuch e il sambusek, tuttora una specialità della cucina egiziana, possono considerarsi i progenitori arabopersiani dei nostri ravioli o, come con buone ragioni qualcuno è arrivato a sostenere, dei marubini cremonesi.
LE LASAGNE NELLA SFIDA TRA BOLOGNA E NAPOLI La lasagna come la conosciamo oggi è nata dal connubio di varie tradizioni culinarie. Bologna al Nord e Napoli al Sud da sempre si contendono i natali e l’ortodossia della pasta a strati. Alle due latitudini corrispondono altrettante interpretazioni della ricetta, a cominciare dall’utilizzo di besciamella e ricotta: la versione bolognese prevede una sfoglia di pasta all’uovo (anche verde, con l’aggiunta di spinaci nell’impasto) e l’utilizzo del ragù alla bolognese, Parmigiano Reggiano, besciamella e burro; la lasagna napoletana presenta invece una sfoglia bianca, di solito non all’uovo, con ragù al pomodoro, polpette, ricotta vaccina, provola, pecorino o altri latticini. Quella di Carnevale, poi, cela un mondo al suo interno. Ricca, trasgressiva, esagerata, a Napoli è un rito popolare che da secoli sfida miseria e le gerarchie sociali, almeno per un giorno.
Timballi e pasticci di pasta nascono tutti come piatti di recupero. E la pasta al forno è la soluzione perfetta per ridurre i 145 kg di cibo che ogni italiano spreca in un anno. La pasta è la base per una teglia “svuotafrigo”, condito per esempio con scarti, avanzi e alimenti prossimi alla scadenza, come per esempio formaggi, latticini, salumi e verdure già cotte. E anche la pasta del giorno prima può trasformarsi in un goloso sformato. E gli italiani lo sanno bene, visto che oggi la pasta rappresenta appena il 3,5% in valore sul totale dello spreco domestico. Inoltre, l’impronta ecologica di una porzione di pasta da 80 grammi è minima (1mq globale) e, che sia in cartone o in film plastico, il suo packaging permette un recupero al 100% dei materiali d’imballaggio. Lungo sarebbe qui seguire, dai taccuini della salute medievali ai ricettari cinquecenteschi, per arrivare al celeberrimo manuale dell’Artusi, la fortuna della pasta ripiena in tutte le sue manifestazioni regionali: tortelli, ravioli, agnoli lombardi e agnolot piemontesi, offelle triestine, pansooti, caramelle, fagottini, lunette, mezzelune, pansotti, fino ai ravioli napoletani e calabresi e ai culurgiones sardi. Il passaggio successivo è quello relativo alla pasta asciutta che ci preme trattare. Dal momento che una cultura alimentare legata ai cicli agrari e alle stagioni spinge di necessità alla creazione di tecniche per la conservazione del cibo, come conservare un prodotto deperibile come la pasta fresca se non essiccandola? Qui la storia conferma ancora una volta quanto la cucina resti il luogo per eccellenza della contaminazione e dello scambio. Perché migrando da un paese ad
I CONSIGLI PER CUOCERLA AL MEGLIO Per ridurre il rischio di seccare la pasta, coprirla per 3/4 di cottura con carta stagnola e preferire a ferro e alluminio le pirofile in vetro o ceramica; utilizzare condimenti non troppo acquosi e ungere con attenzione il fondo e i bordi del recipiente. La pasta secca rende di più (e assorbe meno sugo) della pasta fresca. Sorvegliarla sia in cottura che durante la gratinatura finale. E ancora, la lasagna deve cuocere a una temperatura più bassa dei cannelloni; la cottura al forno, gelatinizzando gli amidi, “congela” la cottura della pasta mantenendola al dente anche per il giorno dopo. Infine, a dimostrare la versatilità e la modernità della pasta al forno, la cuoca, scrittrice e blogger Sonia Peronaci ha realizzato per AIDEPI tre ricette in esclusiva valide tutto l’anno: una Lasagna di Carnevale, Conchiglioni al forno vegetariani e ziti con il pesce: “Colleghiamo la pasta all’italianità più pura, che sia in cannelloni, lasagne, timballi e affini, e non c’è niente di più vero. Chi di noi non è cresciuto col profumo di ragù e formaggio filante nelle domeniche o nelle occasioni speciali in famiglia? Amo questo universo di tradizione e ricordo, ma amo allo stesso tempo anche la modernità con cui affrontare questi piatti. Una pasta fresca può essere arricchita con zafferano e curcuma, il ragù ora è anche di seitan, le lasagne sono di pesce. Trovo sia meraviglioso come approccio “moderno”: indica coraggio nello sperimentare, apertura mentale, curiosità, pur nel rispetto della storicità delle ricette”.
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un altro, da un continente a un altro, la cucina viaggia, viaggia con gli uomini e con questi viaggiano i prodotti alimentari, le pratiche per manipolarli e le maniere di consumarli. Con i sapori viaggiano i saperi, con i prodotti i costumi alimentari, gli usi di cucina e le maniere della tavola. È quello che gli studiosi hanno definito movimento geoculinario. Nel nostro caso torniamo a parlare dell’importante ruolo svolto dall’impero islamico che nella sua massima espansione, valicati i Pirenei nel 759, si spinge fin sotto la Grande Muraglia cinese dove viene fermato nel 751. Il nuovo insieme geopolitico, che va dall’India alla Spagna, mette per la prima volta in comunicazione il Levante con l’Oriente mediterraneo, creando così le condizioni per una circolazione di prodotti, tecniche, piante e nuovi gusti culinari.
LA GENESI DELLA PASTASCIUTTA Questa riflessione è per motivare come, anche per la pasta asciutta, a parlarne per primi sono testi arabi. Dal contatto con la Cina gli arabi avevano riportato la tecnica per produrre una pasta alimentare secca, che i cinesi però, non conoscendo ancora il frumento, ottenevano lavorando una fecola ricavata dal midollo di una palma, la sagopalma. Come ci ricorderà poi al suo rientro dalla Cina nel 1295 Marco Polo ne Il Milione, parlando di lasagne fatte con farina di alberi, che sono molto buone. La prima descrizione della pasta secca, denominata itryya (striscia), è nel libro del lessicografo siriano Bar Alì del IX secolo. L’itrija - dice Bar Ali - è un manufatto di semola che viene preparato come il tessuto del fabbricante di stuoie e che viene poi seccato e cotto. La pasta secca, in formati diversi, si ritroverà ancora nei secoli successivi nei manoscritti di medici
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Da noi nel Sud d’Italia la pasta è quella liscia per antonomasia - commenta Giuseppe Di Martino, pastaio di AIDEPI e presidente del Consorzio Pasta di Gragnano IGP - e c’è una ragione ben precisa. Storicamente a Napoli, la pasta rigata veniva prodotta solo per i mercati del Nord. Era venduta dai Gragnanesi sul mercato di Roma e chiamata per questo “uso Roma”, da cui i famosi Rigatoni romani, ottimi con la pajata. Vengono invece indicate “uso Bologna” le farfalle, un formato che riproduce la tradizione emiliana della pasta sfoglia e che richiede, sia in produzione che in cottura, un buon equilibrio tra le ali e il nodo. Stile “Napoli” sono invece Ziti e Mafaldine insieme a tutte le variazioni di formati lisci.
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e filosofi egiziani e persiani con relative ricette circa la preparazione e prescrizioni per il suo consumo. Non solo, ma nella cucina araba e poi arabico-andalusa, sono già presenti i diversi formati con una loro precisa denominazione: fidāwish per la pasta corta, simile a piccole trofie, rishta per tagliatelle o tonnarelli, tiltīn per la pasta a quadrucci. In Italia, a conoscerla per prima è la Sicilia durante la dominazione araba (827-1091); da qui l’appellativo “mangiamaccheroni” affibbiato ai siciliani prima che passasse ai napoletani, che almeno fino ai primi del Seicento rimarranno dei “mangiafoglie”. La produzione di pasta alimentare secca sull’isola doveva essere già diffusa da tempo se nel 1154, nel cosiddetto Libro di Ruggero, dedicato al re Ruggero II il normanno, il suo curatore, il geografo arabo-siculo Al-Idrisi, dava notizia che a una giornata di cammino da Palermo, a ponente di Termini c’è un abitato di nome Trabia: [ricco] d’acque
perenni che [fanno muovere] parecchi mulini. La Trabia ha una pianura e dei vasti poderi nei quali si fabbrica tanta [copia di] paste da esportarne in tutte le parti, [specialmente] in Calabria e in altri paesi di Musulmani e Cristiani: che se ne spediscono moltissimi carichi di navi… Al-Idrisi parla, evidentemente, della prima manifattura di pasta secca prodotta per l’esportazione. E che questo metodo di lavorare la pasta, prima di risalire la penisola per le impervie vie di terra, sbarcasse a Genova, lo testimonia il più volte citato rogito genovese del 1279, dove il milite Ponzio Bastone lascia in eredità barixella una plena de maccaronis. Maccheroni, eccoci approdati ad un termine che per lungo tempo è stato usato per indicare genericamente la pasta o gli gnocchi freschi in particolare, quelli impastati con pane bianco grattato, uova e farina e passati sulla grattugia. Bisognerà aspettare il Settecento perché il maccherone passi a identificare propriamente le paste lunghe trafilate. Un’operazione che avviene a Napoli, dove il ‘maccarone’ diventa il cibo quotidiano della plebe partenopea, cotto per le strade in grandi pentoloni e da consumare con le mani, condito con formaggio grattugiato e pepe. Tuttavia, prima della sua consacrazione ad alimento popolare, il maccherone è presente nei ricettari di corte e borghesi. Nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino da Como (1450 ca.) troviamo maccaroni siciliani pertusati, si dice, con un ferro lungo un palmo […] e sottile quanto uno spago, che seccati al sole dureranno 2 o 3 anni. Il tempo di cottura consigliato è di due ore, in brodo di carne, e il condimento è cacio, burro e spezie dolci. Ancora, nel 1474, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, nel suo De honesta voluptate et valetudine, cita i vermicelli, come piccoli vermi da seccare al sole che dureranno, ci assicura, per due anni e più. Intanto, già nel 1348, Giovanni Boccaccio aveva celebrato i maccheroni nel
raccontare come nel leggendario paese di Bengodi eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva. Ma è nel Cinquecento che il maccherone fa il suo ingresso nella letteratura, arrivando a definire un genere burlesco, il genere maccheronico. Autore di riferimento è Merlin Cocai, al secolo Teofilo Folengo, con le sue Maccheronee e il Baldus, poema eroicomico dove sono riportate venti ricette, doctrina cosinandi viginti, rappresentative dell’arte “leccatoria” del tempo. Sempre del genere burlesco è il poemetto di Francesco de Lemene (1654) Della discendenza e nobiltà de’ maccaroni, dove Napoli e Bergamo si contendono la primogenitura dei maccheroni. I campioni delle due parti, Zaccagnin e Coviello, si misureranno armati di forchetta a chi ne divorerà di più. L’importanza del poemetto sta nel primo tentativo di classificazione dei diversi formati della pasta con la descrizione di una fantasiosa genealogia: Farina sia nata Pasta: madre prolifica che in stato vedovile ebbe un figlio naturale Gnocco chiamato (finito male per i suoi pessimi costumi); ma dai suoi tre mariti Cannella (mattarello) Gramola e Torchio ella aveva già avuto altri figli. Da Cannella ella aveva generato Polenta e Lasagna; madre a sua volta quest’ultima di Torta e Raviolo. Ma è da Torchio che Pasta doveva generare il fiore della sua stirpe, Maccarone, da cui discende Fidelino, padre di Pestarino. Non c’è nome illustre della letteratura e dell’arte che non sia misurato con un fumante piatto di maccheroni, fra i tanti ricordiamo Giacomo Casanova che a Chioggia, nel 1734, dopo averne fatto una gran mangiata, dedica un sonetto in onore dei maccheroni e viene subito incoronato Principe dei Maccheroni! Un altro appassionato divoratore di macchero-
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ni fu Gioacchino Rossini. Di lui si racconta che, chiuso in una stanza del palazzo del suo impresario Barbaja, in un solo giorno componesse l’ouverture dell’Otello nutrendo il suo estro creativo con gran piatti di maccheroni che si faceva mandare espressamente da Napoli. Noto gourmand, e cuoco dilettante, Rossini, nel dare la ricetta dei maccheroni di cui andava famoso, non mancava di raccomandare: Perché i maccheroni riescano appetitosi occorre buona pasta, ottimo burro, salsa di pomodoro e parmigiano eccellenti, e una persona intelligente che cuocia, condisca e serva. Nel corso dell’Ottocento la produzione di pasta alimentare in Italia si concentra a Napoli. Nel 1833 Ferdinando II di Borbone promuove la costruzione del primo moderno pastificio meccanizzando l’operazione dell’impasto che fino ad allora veniva eseguita con i piedi. Grazie al clima favorevole all’essiccazione, Portici, Torre del Greco, Torre Annunziata e Gragnano diventano importanti centri di
produzione. Nel 1856, alla mostra industriale di Parigi è Napoli ad aggiudicarsi il primo premio internazionale per la produzione di pasta. La pasta ormai viene riconosciuta come un patrimonio italiano, se già alla fine del Settecento, Thomas Jefferson, non ancora presidente degli Stati Uniti, riesce a procurarsi e ad inviare nel suo paese una macchina, completa di torchio e trafile, per fabbricarla. Non possiamo parlare di pasta asciutta senza ricordare il suo incontro con il pomodoro, meglio, con la ‘pommarola’, il sugo di pomodoro che in Toscana ancora scempiano in ‘pomarola’. E seppure questo dimostrerebbe quanto avrebbe tardato a risalire a nord il tipico condimento della pasta, la prima “salsa di pomi d’oro”, con olio, pepe, aglio trito e mentuccia di campagna, la ritroviamo ne Il panunto toscano di Francesco Gaudenzio nel 1705. Qui ci sono anche le minestre di vermicelli, di maccheroncini di Sicilia e di maccheroni grossi tondi, per i quali si consigliano: 2 ore di cottura, un’ora stagionati al caldo, conditi con cacio e provatura fresca o secca e lasciati ancora stagionare per qualche tempo. Ma a celebrare il matrimonio fra pasta e sugo di pomodoro è il napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino nella V edizione del suo trattato La Cucina teorico-pratica del 1847. Qui, oltre ai maccheroni alla napoletana, maccheroni imbottiti, zuppa di maccheroni e timpàno di maccheroni, compaiono i vermicelli con purè di pomidoro e vongole e infine un timpàno di vermicelli crudi con li pomidoro.
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Nel corso del XX secolo la pasta spodesta al ‘consumato’, alla minestra o passato serviti in apertura del pranzo borghese, il suo ruolo, e i ricettari, le rubriche dedicate alla cucina sugli almanacchi e sui periodici sono sempre più attenti a registrare ricette regionali di pasta. Nell’edizione del 1907 de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, accanto ai maccheroni alla napoletana troviamo dei curiosi spaghetti alla quaresima, romagnoli, conditi con un pesto di noci, pangrattato, zucchero a velo, odori di spezie, olio e pepe.
LE ALTERNE FORTUNE DELLA PASTA Il successo, o la notorietà, della pasta valica le frontiere e non risparmia neanche Paesi gelosi della propria tradizione culinaria come la Francia o mostri sacri della cucina come Auguste Escoffier. Nella Guide Culinaire del 1903, e ancora nella Ma Cuisine del 1934, il grande chef francese dà la sua interpretazione dei maccheroni al sugo, dei maccheroni alla napoletana, al gratin, alla panna gratinati ai tartufi e all’italiana, quest’ultima parecchio laboriosa: saltati in padella con pepe e noce moscata e legati con metà gruyère e parmigiano grattugiato, burro e nuovamente ripassati nel burro e disposti in un timballo. E ci risparmiamo i maccheroni alla milanese e quelli alla siciliana. Ad ogni buon conto, la pasta alimentare, insieme alle verdure, funghi, olive, tartufi, uova e pesce di piccola taglia, viene accolta, nella cucina internazionale codificata da Escoffier, come garniture, guarnizione, che potremmo assimilare al contorno o alla decorazione. È il 28 dicembre 1930 quando, su “La Gazzetta del Popolo” di Torino, il fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, lancia il suo “Manifesto contro la pastasciutta”, dove si proclama: L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana. Giacché da questo alimento amidaceo... ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo. Qualche giorno dopo Marinetti viene sorpreso in un ristorante a divorare spaghetti. La notizia finisce sui giornali e un anonimo non manca di canzonarlo in rima: Marinetti dice Basta, / messa al bando sia la pasta. / Poi si scopre Martinetti / Che divora gli spaghetti. Il proclama marinettiano era comunque motivato, l’intento era incentivare il consumo di riso, di cui l’Italia mussoliniana era una forte produttrice a fronte della scarsità del grano. A sconfessare la condanna futurista ci hanno pensato gli italiani continuando a fare della pasta il loro piatto nazionale, e in proposito, Giuseppe Prezzolini, brillante letterato e scrittore fiorentino, in Maccheroni & C. nel 1958, scriverà: Gli spaghetti hanno diritto di appartenere alla civiltà come e più di Dante, perché a suo dire […] l’opera di Dante è il prodotto d’un singolare uomo di genio, mentre gli spaghetti son l’espressione del genio collettivo del popolo
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italiano. E aggiungeva: La cucina italiana è una filosofia della vita, perché La filosofia non si trova solo nei trattati dei professori che ne portano il nome [...] anche il piatto di spaghetti che abbiamo sulla tavola è importante quanto una dottrina filosofica, o rappresenta, nell’affermazione che facciamo della sua importanza e del suo valore, una filosofia. Ma Consumare un piatto di pasta può essere rivelatore: dal modo col quale mangi gli spaghetti... una persona acuta scoprirà anche qualche tratto del tuo carattere, se sei avido, avaro, frettoloso, timoroso, impetuoso, meticoloso, cauto, disordinato, distratto. Bene, ora, e per il futuro, siamo tutti avvertiti.
DA DOVE ARRIVA (E QUANTO COSTA) IL GRANO PER FARE LA PASTA ITALIANA Dato che di pasta ne produciamo tanta (secondo AIDEPI, 3,2 milioni di tonnellate nel 2016), serve tanto grano di qualità per coprire il fabbisogno medio dell’industria della pasta. La maggior parte ce l’abbiamo in casa. Dal 1967, a fronte di una superficie agricola destinata al grano duro sostanzialmente invariata (circa 1,2-1,4 milioni di ettari), le rese dei campi italiani sono triplicate. Ma la produzione media di 4 milioni di tonnellate annue è sufficiente a coprire solo il 70% del necessario. Questo è il primo, ovvio, motivo per cui siamo obbligati a importare grano dall’estero (il 30% o il 40% del totale a seconda dell’annata). E i pastai italiani lo fanno, da sempre, scegliendo i migliori grani prodotti in aree vocate come Francia, Australia, Messico e Nordamerica. Infatti anche all’estero c’è un ottimo grano: l’83% del grano estero importato per fare la pasta è di qualità superiore, con un contenuto proteico oltre il 13%. Proprio per questo i grani migliori al mondo che importiamo vengono pagati circa il 15% in più di quello nazionale.
GRANO ESTERO NELLA PASTA ITALIANA? SÌ, MA SOLO SE AL TOP. E NE IMPORTIAMO SEMPRE MENO Asserisce Emilio Ferrari, Presidente dell’Unione delle Associazioni dei Semolieri dell’Ue. “Non esiste una sola varietà di grano: ce ne sono tante, con caratteristiche diverse e in grado di adattarsi a luoghi diversi e solo alcune sono adatte alla pasta. In Australia, dove il clima è desertico, le rese sono molto basse, ma la qualità del grano è alta per contenuto proteico, qualità del glutine, colore e peso specifico del chicco. Dal Sud della California e dall’Arizona scegliamo varietà pregiate, che in alcune annate arrivano a costarci anche il doppio del migliore grano duro italiano. Quello messicano è molto vitreo e ha una resa più alta. In Montana e nel Canada, invece, gli agricoltori hanno trasformato le barriere climatiche e ambientali in un punto di forza, spostando in primavera il ciclo di coltivazione. Lì il terreno è fertile grazie al clima più freddo che rallenta il metabolismo della sostanza organica. E poi il grano viene coltivato in zone poco sfruttate o sottoposte a rotazione colturale. Tutti fattori che, a fronte di rese molto basse (meno della metà che in Italia), favoriscono tenore proteico e indice di glutine molto alti. La qualità del grano francese, che ha un ciclo autunnale-vernino come quello italiano, è invece favorita da una filiera estremamente organizzata, dove
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IL PARADOSSO DEL GRANO ESTERO CHE SALVA QUELLO ITALIANO (E AIUTA LA FILIERA) Il ricorso a grano estero di qualità permette anche di gestire la variabilità della produzione nazionale. Preso singolarmente, circa 1 chicco di grano italiano su 3 sarebbe ai limiti dei parametri che ci siamo dati 50 anni fa con la legge di purezza, ma, miscelato con grano estero più forte e tenace, può ancora diventare pasta. Si tratta di grano ottimo e salubre, che senza l’aiuto del grano importato finirebbe nella filiera del pane o del cous cous.
i raccolti sono ottimizzati con stoccaggi differenziati a seconda della qualità, il Governo sostiene la ricerca di nuove varietà di frumento e c’è un sistema di redistribuzione del reddito agli agricoltori virtuosi. Proprio quello che noi pastai stiamo cercando di implementare anche in Italia”. Dunque importiamo grano di qualità. E se il 30% del fabbisogno (circa 2 milioni di tonnellate) sembra tanto, è meno della metà di 200 anni fa, quando questa percentuale era del 70%. Ma molto c’è ancora da fare per garantire all’Italia autosufficienza qualitativa su questa materia prima. Allora come oggi, il secondo motivo per cui importiamo grano dall’estero è perché non sempre e non tutti gli anni il grano italiano raggiunge gli standard qualitativi previsti dalla legge di purezza. Lo stesso Ministero dell’Agricoltura informa (analisi del Crea riferiti al periodo 2011-
2016) che solo il 35% del grano italiano ha contenuto proteico superiore al 13% e circa il 30% del grano duro prodotto in Italia è di qualità medio bassa, con un contenuto proteico inferiore al 12%, che lo rende non adatto alla pastificazione. “In Italia abbiamo un ottimo grano – afferma Paolo Barilla – e infatti noi pastai acquistiamo tutto quello adatto a fare la pasta. Purtroppo questa qualità non è omogenea e ogni anno parte del raccolto è per noi inutilizzabile. Dobbiamo tenere conto che nella trasformazione da grano a semola si perde circa 1 punto percentuale di proteine, quindi per fare la pasta all’italiana serve un grano con almeno l’11,5% di tenore proteico”.
I 3 PERCHÉ NON SEMPRE IL GRANO ITALIANO È ADATTO A FARE LA PASTA Ma perché in Italia parte della produzione di grano duro non è adatta alla pasta? E soprattutto come si può rimediare? Le cause sono climatico-ambientali ma c’entrano anche tradizioni agricole “sbagliate”. Per esempio, in alcune aree del Sud, le rese possono essere elevate ma il grano sconta un basso contenuto proteico: il grano è una pianta che ha bisogno di poca acqua, ma siccità e piogge irregolari limitano il suo assorbimento dal suolo di azoto e altri nutrienti, influenzando negativamente il valore nutrizionale della granella. Inoltre, i terreni sono strutturalmente poveri di sostanza organica, anche perché la tradizione di bruciare i campi per preparare la semina interrompe il ciclo dell’azoto. E il fatto che il grano duro cresca in terreni “difficili” ha reso questa coltura fonte di reddito agricolo dominante, e pochi sono i campi tenuti a riposo o sottoposti a rotazione. Infine, la polverizzazione dell’offerta e la mancanza di strutture di stoccaggio adeguate rende difficile la valorizzazione e la classificazione della materia prima.
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ANDALINI LA PASTA NEL PROPRIO DNA
La storia del Pastificio Andalini è un intreccio di passione, tradizione e artigianalità. Ma soprattutto di persone. Una famiglia, capace di tramandare di generazione in generazione, l’amore per quel prodotto, la pasta, che sente essere parte del proprio dna.
Il percorso di Andalini è di un’azienda in costante crescita: nata nel 1956 grazie all’incontro di due anime gemelle, Arrigo ed Egletina, il “Pastificio Andalini & Aleotti” proponeva già all’epoca, all’interno della piccola bottega artigiana sita nel centro di Cento di Ferrara, un assortimento di pasta all’uovo con formati, tipologie ed ingredienti all’avanguardia, come “la pasta verde con gli spinaci”, i “maccheroni al torchio” e le “tagliatelle in vassoio”. Oggi il Pastificio Andalini vanta 6 linee di prodotti retail che vanno dalla pasta all’uovo ai prodotti biologici per le mense e per il consumatore attento all’alimentazione, alla pasta di semola a sfoglia sottile che cuoce in soli 4 minuti, ai formati speciali realizzati con forme ed ingredienti originali e ricercati. Per poter soddisfare tutte le esigenze e diventare un punto di riferimento non solo per la produzione di pasta all’uovo, ma anche per quella di semola, il Pastificio Andalini nel 2000 ha acquisito il Pastificio La Sovrana di Canosa di Puglia, cuore pulsante di quello che è da sempre considerato il granaio d’Italia. E sono tante altre le novità introdotte in questi ultimi anni con l’ampliamento dello stabilimento produttivo: dal restyling di tutti i packaging alla nuova brand image aziendale, dalla comunicazione su importanti testate nazionali, alla presenza sul web e sui social network, fino ad arrivare ad importanti eventi organizzati sul territorio. Oggi si seguono nuove strade, come la creazione di formati di pasta realizzati con ricette e farine alternative, come il grano antico Senatore Cappelli, i legumi e i cereali perché Andalini crede nei consumatori attenti al benessere, alla salute e all’ambiente. Rilevante poi tutta la sezione “Catering”: dedicata ai professionisti del settore Horeca, per rispondere a tutte le esigenze della ristorazione professionale.
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Grazie alla selezione e mix delle semole, all’utilizzo di apposite trafile, e ad un processo di essiccazione dedicato, la pasta si mantiene corposa, elastica e porosa e pronta ad affrontare le varie fasi di lavorazione, valorizzando l’arte creativa di tutti gli chef. LA PASTA ALL’UOVO Vanto della cucina emiliana nel mondo, è prodotta ancora seguendo la ricetta dell’antica tradizione: uova garantite all’origine e provenienti da allevamenti che utilizzano esclusivamente mangimi naturali per una colorazione autentica. La sfoglia dei nidi e la fantasia dei formati speciali, hanno tutto il gusto della pasta buona come quella fatta in casa con la ruvidità conferita all’essiccazione. PASTA RUVIDA TRAFILATA AL BRONZO DI SEMOLA DI GRANO DURO È la pasta di semola di grano duro che – attraverso l’utilizzo di semole pregiate – apporta 14g di proteine ogni 100g di pasta. Grazie ad un processo produttivo moderno, ma rispettoso della tradizione, viene essiccata a bassa temperatura dalle 9 alle 23 ore a seconda dei formati, per conservare le naturali qualità organolettiche e nutrizionali della pasta. La trafilatura crea una superficie che facilita il sodalizio perfetto con tutti i condimenti. PASTA DI SEMOLA DI GRANO DURO Proveniente da selezionate semole di grano duro, lavorata lentamente ed essiccata a bassa temperatura così come prescritto dalla migliore tradizione pastaia italiana. È la pasta studiata per essere utilizzata in
precottura e successivo rinvenimento. La sua particolare produzione permette di ottenere un’ottima resa in cottura, conservare le caratteristiche organolettiche e offrire al consumatore un piatto dai sapori espressi. Ideale per banqueting e ristorazione collettiva. PASTA BIOLOGICA DI SEMOLA E BIOLOGICA ALL’UOVO Prodotta con semole provenienti da agricoltura biologica e uova derivanti da allevamenti che utilizzano esclusivamente mangimi biologici, è la linea pensata per chi predilige un’alimentazione sana e naturale, senza per questo rinunciare al gusto della buona cucina. Particolarmente indicata per la ristorazione collettiva destinata ai bambini. PASTA DI SEMOLA “4 MINUTI” Una linea dedicata al gusto e alla velocità di cottura. Questi i plus della 4 Minuti Andalini, il prodotto distintivo del brand che riesce a mettere insieme, in un’unica soluzione, tutta la qualità della sfoglia sottile con la praticità della cottura rapida. La 4 Minuti evita il lavoro ed il costo della precottura, garantendo un prodotto espresso che esprime al meglio le caratteristiche organolettiche solitamente perdute nella fase di precottura e rinvenimento. Semola di grano duro 100% italiano. Prodotti con il 14% di proteine.
PASTIFICIO ANDALINI
Via Martiri di Belfioare, 13 44042 Cento (FE) www.andalini.it
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GOURMETFOOD
DIVINE CREAZIONI
MASTERSHOW I GRANDI CHEF INTERPRETANO UNA PASTA SENZA UGUALI
Surgital, la prestigiosa azienda romagnola che ha fatto della tradizione pastaria italiana il vessillo di tutta la propria produzione, ha messo in campo una serie di incontri con i grandi maestri della cucina nel contesto delle diverse regionalità. Da Torino a Catania, da Milano a Treviso, dalla Svizzera a Dubai, gli eventi Mastershow hanno disegnato una mappa della cultura gastronomica del Paese espressa nella sua forma più alta: quella della cucina stellata e delle eccellenze professionali. 13 gli chef stellati, 2 le eccellenze della pasticceria, 9 gli eventi Mastershow Divine Creazioni in Italia che Surgital ha organizzato in collaborazione con l’Associazione Professionale Cuochi Italiani. Mastershow ha visto la presenza della migliore ristorazione, in un dialogo costruttivo e stimolante. Dagli eventi è scaturito l’album, MASTERSHOW-DIVINE CREAZIONI da cui traiamo le ricette delle prossime pagine, da cui si evince un unico concetto, Divine Creazioni: la pasta senza uguali.
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Speciale and more
TRIANGOLI AL PESCE SPADA jus grass, rape rosse e pane croccante INGREDIENTI per 4 persone
12 Triangoli al pesce spada Divine Creazioni Surgital, 2 rape rosse
grandi, g. 100 di pane tipo lariano, g. 200 di polpa di manzo, sale q.b.,
zenzero fresco q.b., finocchietto q.b., olio, rosmarino, timo q.b., pepe in grani q.b.
PREPARAZIONE
Sbollentare le rape rosse, raffreddarle e tagliarle a listarelle.
Per il jus grass: far rosolare la polpa di manzo a fuoco forte, aggiungere lo zenzero fresco, il finocchietto e il pepe in grani.
ANTHONY GENOVESE
Sfumare con acqua e ghiaccio, deglassare e far ridurre. Filtrare il jus e, appena raffreddato, recuperare il grasso in superficie.
Tagliare a cubetti il pane condito con sale, pepe, olio, rosmarino e timo, passarlo in salamandra per farlo dorare.
Cuocere i Triangoli in abbondante acqua salata, scolarli e mantecarli con il jus grass, le rape rosse e il pane croccante.
Ristorante Il Pagliaccio Roma
Combinando sapientemente l’esperienza internazionale con la tradizione mediterranea, la cucina di Anthony Genovese stupisce con accostamenti equilibrati, contrasti imprevedibili e una mise en place rigorosa ed elegante, con citazioni alla cucina orientale. Certo i viaggi frequenti in Giappone, Malesia e Thailandia hanno sicuramente lasciato un’impronta importante nella visione della cucina di Anthony Genovese, ma è la padronanza con cui rimescola e reinterpreta ingredienti e tecniche a fare dei suoi piatti elementi di assoluta originalità. Il suo percorso inizia con i primi studi in Francia, la formazione da Pinchiorri e poi di nuovo all’estero, a Londra. Quando torna in Italia e apre il Pagliaccio ha le idee molto chiare: oggi è uno dei più rinomati ristoranti di Roma con due stelle Michelin.
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GOURMETFOOD
MARCO STABILE Ristorante Ora d’Aria Firenze Dopo tanti riconoscimenti, tra cui l’ingresso del suo ristorante Ora d’Aria nella prestigiosa associazione Jeunes Restaurateurs d’Europe - di cui in seguito sarà anche Presidente - Marco Stabile ottiene nel 2011 la prima stella Michelin. E’ il coronamento di un percorso di lavoro importante che lo vede al timone de L’Osteria di Passignano della famiglia Antinori, quindi ad una lunga permanenza da Arnolfo e al ristorante dell’azienda enologica Beringer Blass. Ma è nel suo ristorante che Marco Stabile esprime tutta la sua personalità, innovativa, curiosa, cosmopolita, ma come sempre ben radicata nella sua Toscana. Reinterpreta i classici toscani con sapiente maestria e un tocco di ironia che si nota a prima vista anche nell’impiattamento. Ora d’Aria, alle spalle degli Uffizi, vanta una proposta culinaria originale che dimostra di saper vedere lontano e che spesso ha anticipato le tendenze. La raffinata ospitalità del locale è anche nella derivazione del nome che, se nella prima sede evocava la vicinanza con le vecchie carceri delle Murate, oggi vuole restituire l’idea di un luogo piacevole e rilassante, una pausa dal frenetico quotidiano.
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Crema di foie gras alla liquirizia con
MAMMOLI DI PATATA VIOLA alla piastra, rosso d’uovo, senape e limone INGREDIENTI per 4 persone
400 g di Mammoli di patata viola Divine Creazioni Surgital, g. 150
di foie gras di anatra, g. 50 di liquore St. Germain, g. 300 di latte, g. 5 di sale, g. 2 di farina di semi di carrube, g. 2 di polvere di liquirizia, 2 rossi d’uovo, g. 20 di senape, succo di 1 limone. PREPARAZIONE
Cuocere i Mammoli in abbondante acqua salata, scolarli e farli rosolare in una padella antiaderente con pochissimo olio. Preparare la crema scaldan-
do il latte, il foie gras, il sale e la farina di semi di carrube a circa 95°C. Una volta disciolto, frullare e aggiungere il St. Germain. Montare il rosso d’uovo
con il succo di limone, la senape e poco sale. Disporre la crema sul fondo
del piatto, aggiungere i Mammoli, spolverare con pochissima liquirizia e versare sui Mammoli alcune gocce di salsa d’uovo.
Speciale and more
TORTELLINI ALLA MODA DI BOLOGNA, latte cagliato e olive disidratate INGREDIENTI per 4 persone
g. 360 di Tortellini alla moda di Bologna Divine Creazioni Surgital, g. 100 di olive taggiasche, l. 1.5 di latte intero, g. 3 di acido citrico, burro, parmigiano grattuggiato q.b., brodo. PREPARAZIONE
Essiccare le olive taggiasche in un disidratatore, poi tritarle.
Far intiepidire a 50°C il latte, aggiungere il citrico e portare ad ebollizione,
GIANCARLO PERBELLINI
quindi lasciar cagliare facendo sobbollire per 15 minuti. Scolare in una eta-
mina, tenendo il latte morbido. Versarlo in sifone e caricarlo con 3 cariche d’aria; tenere in caldo.
Cuocere i Tortellini alla moda di Bologna, mantecarli con il brodo, burro e
parmigano. Sifonare il latte nel piatto, aggiungere i Tortellini alla moda di Bologna e guarnire con le olive tritate.
Ristorante Casa Perbellini Verona
Nasce in provincia di Verona, frequenta l’istituto alberghiero e lavora nella pasticceria di famiglia. Conclusi gli studi, fa le prime esperienze nei più importanti ristoranti di Verona e al “San Domenico” di Imola. Qui la cucina di Nino Bergese lo spinge ad approfondire la sua formazione in Francia prima di aprire il suo ristorante in Italia a Isola Rizza, dove porterà i fondamenti dell’alta ristorazione e otterrà nel giro di pochi anni la prima stella Michelin (1996). Sei anni dopo la seconda. Nel 2014 lascia Isola Rizza e inaugura nel cuore della Verona antica qualcosa di più di un ristorante: “Casa Perbellini”, un locale dove la cucina e il suo lavoro sono al centro di tutto. Una sfida subito premiata: due stelle Michelin, tre cappelli dalla Guida de L’Espresso, il riconoscimento “Olimpo della Ristorazione” dalla guida del Touring Club Italiano. Nel frattempo ci sono state tante altre tappe: sei locali a Verona, un ristorante a Venezia e uno a Hong Kong.
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GOURMETFOOD
MARCO SACCO Ristorante Piccolo Lago Verbania
È chef a due stelle Marco Sacco. Ha trasformato il Ristorante Piccolo Lago sul lago di Mergozzo a Verbania, ereditato dai genitori, in uno dei più rinomati d’Italia. Poco più che ventenne va a lavorare nei grandi ristoranti di Francia e viaggia, viaggia molto, per sperimentare nuove metodiche e ingredienti. Anche quello nella sua terra è un viaggio di ricerca per valorizzare il patrimonio locale a partire da quello ittico, cosa che gli è valso il soprannome di “chef d’acqua dolce”. Al suo ristorante approdano decine di giovani chef per imparare i segreti dell’alta cucina. Un compito, quello della formazione, che a Sacco sta molto a cuore. Si considera un allenatore, responsabile di ogni singolo membro della squadra, così che nella sua cucina è il gioco di squadra a vincere.
PANCIOTTI CON CAPPESANTE E GAMBERI DEI MARI DEL NORD INGREDIENTI per 10 persone
40 Panciotti con cappesante e gamberi dei Mari del Nord Divine Creazioni Surgital, 30 gamberi rossi, g. 700 di stracciatella di burrata, g. 100 di salsa di melone, g. 50 di riduzione teste di gamberi rossi.
Per salsa melone: g. 100 di polpa melone, g. 9 di Porto rosso.
Per la riduzione teste di gambero: g. 300 di teste di gamberi rossi, olio di semi di arachidi q.b. PREPARAZIONE
Per salsa melone: frullare il melone ed il porto rosso fino ad ottenere una purea fine, mettere nel biberon.
Per la riduzione teste di gambero: pulire bene dalle cervella le teste di gambero. Scaldare una padella antiaderente con un goccio d’olio, scotta-
re per 30 secondi le cervella e poi passare allo chinoix fine e raffreddare. Conservare in biberon.
Composizione del piatto: disporre in un piatto la stracciatella di burrata,
adagiare i gamberi rossi tagliati a pezzetti e conditi leggermente con sale ed olio, fare tre punti con la salsa melone e qualche goccia di concentrato di gambero, finire con i Panciotti.
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Speciale and more
SCRIGNI CON BURRATA DI PUGLIA INGREDIENTI per 4 persone
16 Scrigni con burrata di Puglia Divine Creazioni Surgital, kg. 1 di cime di rapa, g. 100 di ricotta affumicata semistagionata, pomodoro disidratato Crutomat q.b., g. 100 di olio e.v.o. PREPARAZIONE
Cuocere le cime di rapa in acqua bollente, strizzarle, quindi frullarle con
un po’ di olio e.v.o., sale e pepe. Passare al cinese per ottenere una crema liscia. Cuocere gli Scrigni in abbondante acqua salata. Condirli in padella
CLAUDIO SADLER Ristorante Sadler Milano
con poco olio e.v.o. e disporre la crema di cime di rapa nei piatti. Sovrap-
porre gli Scrigni. Spolverare con il Crutomat e grattugiare sopra la ricotta affumicata. Servire.
WWW.SURGITAL.IT
Nel piatto ci deve essere ordine e disordine, simmetria e casualità e tanto colore perché il cliente deve guardare il piatto come se osservasse un’opera d’arte astratta. Appassionato d’arte moderna, Claudio Sadler è sicuramente uno degli chef più conosciuti d’Italia, la cui cucina solidamente radicata nella tradizione esprime sempre alti livelli di creatività e innovazione. Sadler viene dalla scuola di Gualtiero Marchesi e di Georges Cogny e mentre con loro affina le sue conoscenze, parallelamente insegna all’istituto alberghiero, attività che non ha mai abbandonato (nel 2002 crea “Q.B. centro di cucina enogastronomico” per professionisti e appassionati). Dice: saper insegnare significa saper imparare. Apre il suo primo locale a Pavia, ma è all’Osteria di Porta Cicca a Porta Ticinese di Milano, trasformata piano piano in ristorante, che arriva la prima stella Michelin, nel 1991. Nel 2002 la seconda e quindi approderà nel 2007 a Ristorante Sadler. Un ristorante Sadler è anche a Tokyo, un altro a Pechino (2008) in piazza Tienanmen.
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GOURMETFOOD
CON IL MARCHIO “NON SOLO BUONO”
GRECI
RAFFORZA IL GUSTO DEL MADE IN ITALY E DELLA PASTA
L’esperienza produttiva di “Greci Specialità per la Ristorazione” risale al 1923, anno in cui prese avvio l’attività per la trasformazione del pomodoro. Da allora l’Azienda, situata a Ravadese, in provincia di Parma, nel Cuore della Food Valley italiana, ha seguito un percorso che nel tempo le ha permesso di raggiungere posizioni di vertice nel proprio settore, operando ovunque sia presente una ristorazione di qualità. “La nostra anima è agricola e la passione per il cibo vero unita alla nostra lunga esperienza ci permettono di riconoscere materie prime autentiche, per provenienza, per stagionalità. Sono quelle materie prime che scegliamo con cura direttamente nei campi e ancor prima, fin dalla semina, quegli ingredienti che usiamo ogni giorno per i nostri prodotti, che lavoriamo freschi in stagione. Ma abbiamo voluto che questa innata passione per le buone cose diventasse una vera e propria mission aziendale, mirata alla valorizzazione del nostro territorio italiano ed al patrimonio gastronomico nazionale, pur con attenzione ai bisogni che cambiano e in ascolto delle nuove tendenze. Per questo, sotto il marchio NON SOLO BUONO, offriamo la trasparenza e la garanzia della provenienza degli ingredienti dei nostri condimenti: dai pomodori emiliani ai ciliegini di Pachino lavorati nel cuore dell’estate, alle salse al pistacchio verde di Bronte dop, alla nocciola Piemonte igp, alla mandorla d’Avola, tutte ottenute da frutti interi per preservarne le fragranze durante la macinatura. E poi i ceci neri della Murgia, i fagioli Lamon, i capperi e l’origano di Pantelleria e ancora i carciofi pugliesi, la zucca mantovana, il radicchio di Treviso e Chioggia, la cipolla rossa di Tropea, fino ad arrivare alle creme ai formaggi tipici della nostra tradizione casearia: Castelmagno, Pecorino romano, Parmigiano Reggiano, Formaggio di fossa, Scamorza e Fontina, perfettamente fusi in creme ricche e gustose ed altri ancora…” Questo è il mondo delle eccellenze d’Italia Prontofresco.
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Speciale and more
CAPPELLACCI ROSSI alla scamorza su pesto di rucola e zenzero con calamari spillo
A base di rucola e zenzero
Pesto gustosissimo e originale, ottenuto abbinando la
rucola italiana coltivata nella Piana di Albenga, piace-
volmente amarognola, con lo zenzero rinfrescante, gli anacardi ed il Parmigiano Reggiano.
Un pesto che si presta ad essere abbinato a numerosis-
simi piatti per tutte le stagioni: dai primi ai secondi ed anche come dressing per carpacci semplicemente diluito
Le ricette di queste pagine sono state realizzate dallo chef Carlo Spinetti
con acqua.
INGREDIENTI
Pesto di rucola e zenzero Prontofresco ricotta fresca
Crema di scamorza affumicata Prontofresco calamari spillo freschi
Filetti di peperoncino Prontofresco germogli di rucola
Petali di rosa rossa essiccati Prontofresco
PACCHERI DI GRANO DURO su passata di ceci neri della Murgia e polpo alla piastra Prodotto: Ceci neri della Murgia
Questi straordinari legumi ricchi di fibra, dal colore inconsueto sono provenienti dalla Puglia, dalla zona dell’Altopiano della
Murgia. Il colore nero e il gusto ricco, leggermente sapido, sono caratteristiche della varietà. I ceci neri Prontofresco sono cucinati con una tecnica che conserva il sapore naturale del
prodotto. Ideali per contorni di eccellenza e per la preparazioni
dei piatti più vari: antipasti e insalate sfiziose, per condire primi
piatti in abbinamento a molluschi e crostacei, per salse originali
e in generale per piatti esclusivi in cui valorizzare la particolarità della provenienza. INGREDIENTI
Paccheri di grano duro
Ceci neri della Murgia Prontofresco Ricotta vaccina
Pepe arlecchino Prontofresco
Polpo cotto sottovuoto Prontofresco
Peperoncini lacrima d’Oro Prontofresco
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GOURMETFOOD
LINGUINE
con crema di mandorle, limone e gamberi in crosta di prosciutto Prodotto:
SALSA ALLA MANDORLA D’AVOLA
Questa salsa ricca e concentrata è stata realizzata con mandorle siciliane
provenienti dalla località di Avola, in provincia di Siracusa. Le mandorle, fra le più famose e buone mandorle
Italiane, pelate e macinate sono la-
vorate in modo delicato, partendo da
frutto intero, in modo da trattenere anche la parte oleosa, ricca di profumi e sapore.
È stata aggiunta scorza candita di limone a di origine Sicilia e Parmigiano
Reggiano, per creare un delicato con-
trasto di sapori dal risultato sopraffi-
no. Risulta ottima in abbinamento a primi piatti a base pesce. INGREDIENTI • Linguine
• Crema alla mandorla d’Avola
Prontofresco diluita con poca acqua di cottura della pasta
• gamberi freschi scottati • zeste di limone fresco biologico • aneto • prosciutto di Parma croccante • Cubed pepper Prontofresco • Misto fiori per decorazione Prontofresco
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Speciale and more
SPAGHETTI ALLA CHITARRA con fonduta di pomodoro pachino e profumi mediterranei Prodotto:
SUGO DEL SOLE
Una Salsa spiccatamente mediterranea realizzata nel cuore dell’estate,
con pomodori ciliegini Pachino IGP
dal sapore dolce e intenso. I pomodori in parte passati e ristretti ed in parte tagliati a pezzi, sono stati arricchiti
dai profumi mediterranei del basilico fresco e dell’origano di Pantelleria
che conferiscono note aromatiche in-
confondibili. La ricetta contiene sale marino iodato e poco olio di girasole
alto oleico per mantenere la dolcezza e freschezza del pomodoro. INGREDIENTI
• spaghetti alla chitarra • sugo del Sole Prontofresco • foglioline di piante aromatiche e basilico
• capperi di Pantelleria Prontofresco dissalati e fritti
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GOURMETFOOD
LUCIA ANTONELLI LA PASTA COME CONDIVISIONE fotoservizio di
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Gabriele Fiolo
Tirare la sfoglia a mano ancora con il mattarello; tramandare la cucina tradizionale recuperando i gusti antichi con ingredienti sani di provenienza certa e che conservino il profumo della casa dove è cresciuta; conservare semplicità e genuinità. Questa è la missione di Lucia, in continuità con gli insegnamenti prima della nonna poi della mamma da cui ha appreso i primi rudimenti e segreti dello stare in cucina, imparando ad investire amore per ciò che si fa. Ed ecco che la sua passione ha trasformato la sua casa in un piccolo ristorante per gli amici, che nel fine settimana si riempiva di persone unite dalla voglia di stare bene assieme, sedute attorno a un tavolo ricco di sapori. Fu così che quando le fu proposto di continuare la conduzione del ristorante della famiglia di suo marito, non ebbe alcun dubbio. I suoi suoceri avevano aperto i battenti della Taverna del Cacciatore a Castiglione dei Pepoli nel giugno del ’69. Ci troviamo sul crinale appenninico in terra di confine, ricca di cultura gastronomica
e di sapori, tra Emilia Romagna e Toscana; con la nuovissima variante di valico si può raggiungere, in meno di mezz’ora, sia Bologna che Firenze. Dal 1991 Lucia si dedica anima e corpo alla cucina donandole le sue energie e la sua forza, con tutto l’entusiasmo di chi ha abbracciato la scelta giusta. La naturale proposta della cucina, quindi, non poteva che essere a base di piatti dai genuini, schietti e sinceri sapori della tradizione montanara con grande attenzione sia alla pasta fresca, tirata esclusivamente al mattarello, che ai piatti di selvaggina e di bosco. Questa sua passione è stata premiata più volte, tanto da essere incoronata con il titolo di “Regina del Tortellino” nella disputa La sfoglia tira, una sfida giocata sul tavolo della tradizione gastronomica, organizzata dai consorzi “tOurttlen” di Bologna e da “Modena a tavola” e dedicata al miglior tortellino. Per Lucia ogni cliente è di grande importanza, per lei non fa alcuna differenza per chi cucina: con alcuni instaura anche un rapporto speciale, ma dedica le stesse cure e attenzioni anche al cliente occasionale. Come Regina del Tortellino, ha sempre cercato di comunicare il suo lavoro, affinché proprio tutti possano gustare i suoi rinomati e famosi tortellini in brodo, preparati anche nella versione senza glutine. RISTORANTE TAVERNA DEL CACCIATORE
Via Cavaniccie, 6 - Castiglione Dei Pepoli (BO) - Tel. +39 0534 91143 www.tavernadelcacciatore.com - info@tavernadelcacciatore.com
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GOURMETFOOD
IL MIGLIOR STRUMENTO PER SALTARE LA PASTA La cucina è uno di quei posti dove meno si pensa di trovare un riscontro scientifico fatto di regole e di numeri, fatta eccezione forse per qualche dato nelle ricette: “quattro uova, due cucchiai di farina, 1/5 litro d’acqua... cuocere per 30 minuti... cuocere in forno a 220°C, lasciare raffreddare...” Al di là di questo, sembrerebbe che la scienza, in cucina, non abbia diritto di cittadinanza: la cucina è il luogo dei profumi e dei sapori, e non c’è posto per numeri o formule. Ma a guardare meglio, dietro le tecniche di cottura emergono altri meccanismi che un occhio esercitato riesce a cogliere e a portare alla luce. Meccanismi che regolano il funzionamento e la struttura degli strumenti di cottura che usiamo quotidianamente e che celano al loro interno una grande quantità di scienza spesso tutt’altro che elementare.
“SALTA PASTA”
PADELLA IN ALLUMINIO, 3 MM, SVASATA ALTA • Ottima conducibilitá termica pari a 225 W/m. • Risparmio energetico delle fonti di riscaldamento. • Sicurezza dal punto di vista igienico. • Conformitá alle leggi in materia di contenitori a contatto con gli alimenti. • Leggerezza grazie al ridotto peso specifico. • Durata nel tempo grazie allo spessore dei contenitori. • Conveniente rapporto qualitá-prezzo.
E allora come cuocere la pasta? Se ci accontentiamo di buttare gli spaghetti nell’acqua calda in una pentola per i minuti consigliati dal produttore, scolarli e condirli, il risultato sarà mediocre. Cucinare la pasta invece, seppur possa sembrare un semplice gesto, ha bisogno di una serie di accorgimenti. Qualunque sia la sua composizione, la pasta, fresca o di grano duro, innan-
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zitutto dev’essere cotta in acqua bollente, in modo da ridurre il tempo di cottura e quindi la delitescenza. Ma il gesto fondamentale, una volta scolata, rimane il passaggio in padella, cioè saltare la pasta. In genere s’intende per “saltare la pasta” quell’operazione di miscelazione finale tra pasta e condimenti che viene fatta allo scopo di assemblarli in maniera ottimale. La miglior padella per saltare la pasta è quella in alluminio, 3 mm di spessore, svasata alta. Il metallo alluminio e la sua forma sono fondamentali per ottimizzare tutte le sfaccettature che l’elaborazione del saltar la pasta comporta per non compromettere la miglior riuscita della preparazione. L’alluminio è l’ideale per l’assorbimento e la trasmissione del calore; la forma “svasata alta” con raggio di curvatura che partendo dal centro si accentua sul bordo, consente di saltare molto bene gli ingredienti, di continuare a gestire perfettamente la cottura e amalgamare il tutto in maniera ottimale. L’alluminio per la sua ottima conducibilità termica permette di cuocere il cibo in modo uniforme alle pareti come al centro dello strumento di cottura. Si ha quindi un risparmio di energia della fonte di calore usata, ed inoltre la sua leggerezza e la sua maneggevolezza facilitano il gesto del saltar la pasta senza fatica. Occorre, però, accertarsi al momento dell’acquisto, che la pentola sia di alluminio puro almeno al 99,% per alimenti, come prevedono le norme europee in materia di contenitori a contatto con gli alimenti ed in particolare il decreto legge del 18 aprile 2007 n° 76.
PENTOLE AGNELLI
Via della Madonna, 20 24040 Lallio (BG)
www.pentoleagnelli.it
GOURMETFOOD
DI CHE PASTA SIAMO AL SUD? PIACE SOPRATTUTTO QUELLA SECCA E LISCIA IL MERIDIONE ASSORBE IL 36% DEI CONSUMI NAZIONALI Gli italiani e la pasta al Sud: la mangiano tutti (99%) e per il 48% è l’alimento preferito per ragioni di gusto o salute. 1 su 3 la consuma ogni giorno e la porzione media è di circa 80 grammi. Tenuta in cottura, qualità del grano e capacità di legarsi al sugo sono i fattori più importanti della qualità percepita della pasta italiana, individuati da una ricerca commissionata da AIDEPI alla Doxa per festeggiare i 50 anni della legge di purezza sulla pasta. Da Roma in giù la pasta piace soprattutto liscia, anche se tutto dipende dal sugo giusto. L’amore per la pasta, il rapporto quasi sentimentale che lega gli italiani ai piatti della tradizione, è retaggio antico. Non a caso, siamo leader mondiali di produzione (3,2 milioni di tonnellate) e consumo (24 kg a testa). Ma quali sono le abitudini di consumo al Sud, dove produzione e consumo di pasta sono documentati già dal primo Medioevo? Secondo elaborazioni di AIDEPI (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiane) su dati IRI, nel 2016 nel Mezzogiorno sono state vendute oltre 378mila tonnellate di pasta, il 36% del totale. Il doppio rispetto al Nord Est e un terzo in più rispetto a Nord Ovest e Centro. Di conseguenza il consumo di pasta è leggermente superiore alla media nazionale, con circa 25-26 chili pro-capite all’anno.Una ricerca Doxa-Aidepi approfondisce questa fotografia analizzando la qualità percepita della pasta secondo gli italiani residenti al Sud, Nel Mezzogiorno tutti o quasi mangiano pasta (oltre il 99%), in media 4-5 volte a settimana. Due curiosità mostrano uno scenario in evoluzione: i veri fan della pasta stanno spostando il baricentro geografico verso il Centro Italia – dove il 45% mangia la pasta tutti i giorni, contro il 32% del Meridione. E la porzione media di un piatto di pasta nel Sud è di circa 80 grammi a persona, registrando la percentuale più bassa del Belpaese.Per il 48% dei meridionali la pasta è l’alimento preferito. La scelgono per ragioni di gusto o salute. La tipologia più acquistata è la pasta secca. Quasi 4 pacchi di pasta secca su 10 totali sono stati venduti a sud di Roma, mentre il Nord Ovest è leader per la pasta fresca. Nel solco di questa tradizione, la novità è il crescente gradimento per la pasta integrale: quasi la metà del campione (47%) dichiara di acquistarla, mentre 3 anni fa erano solo il 14%.
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SPAGHETTINI
con acqua di limone, olio e provolone INGREDIENTI
g. 280 di spaghettini 3 limoni
l. 0,5 circa di acqua
g. 100 di provolone del Monaco giovane olio extravergine d’oliva q.b. pepe nero
PREPARAZIONE
Mettere le scorze di limone a macerare in acqua per una
notte; dopo questo tempo scolare e portare a bollore il
prodotto ottenuto. Aggiungere gli spaghettini e un po’
d’olio e cuocere aggiungendo acqua se c’è bisogno. Infine
mantecare con il formaggio ed ultimare il piatto con pepe e un goccio d’olio.
LA PASTA SECONDO LO CHEF PEPPE GUIDA dell’Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense (NA)
TOTANO SU TOTANO
candele spezzate, melanzane affumicate e cipolla rossa marinata
INGREDIENTI
kg. 0,5 di totano nero, 1/2 bicchiere di vino bianco, 2 spicchi d’aglio, 4 melanzane
medie, maggiorana, sale, pepe, olio evo q.b., 2 cipolle di Tropea, succo di 1 limone, g. 320 di candele spezzate, basilico. PREPARAZIONE
Pulire i totani, tagliarli ad anelli leggermente grossi e i 9 tentacoli a metà. In un tegame
aggiungere 2/3 cucchiai di olio, l’aglio e i totani. Farli caramellare e intenerire. Sfumare
con il vino e deglassare. Arrostire le melanzane su carbone di ulivo donando così un leggero sentore di affumicato. Una volta cotte, condirle con lo spicchio d’aglio, sale, pe-
pe, olio e maggiorana e frullare il tutto finemente. Tagliare la cipolla ad anelli sottilissimi
e metterla a marinare con succo di limone, sale e pepe. Lasciarla riposare per un’oretta poi sciacquarla e condirla con un goccio d’olio. Cuocere la pasta in abbondante acqua leggermente salata, scolarla al dente e completare la cottura in padella con i totani per
gli ultimi due minuti. Aggiustare di sale e pepe. In un piatto fondo posizionare una parte della crema di melanzane, adagiarvi sopra la pasta e il suo condimento, completare infine con cipolla rossa marinata e qualche fogliolina di basilico.
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GOURMETFOOD
ENRICO COSENTINO L’INVENTORE DEGLI SCIALATIELLI di
Gianni Di Lorenzo
Lo sostiene anche Wikipedia: gli scialatielli sono un formato di pasta fresca usato nella cucina campana, tipici di Amalfi dove sono nati per mano dello chef Enrico Cosentino nel 1976 (presentati ad un concorso culinario nel 1978, gli valsero il premio entremetier dell’anno). Il loro nome si presume derivi da due parole della lingua napoletana: scialare (godere) e tiella (padella). Il racconto può proseguire con i ricordi del loro inventore: “Lavoravo a La Caravella di Amalfi (dove ha meritato la stella Michelin ndr), ormai sul finire degli anni ‘60. Nel pieno del boom turistico dell’Italia felice di allora, sentii il bisogno di creare una pasta adatta ad esaltare inizialmente i sughi di terra. - ci dice Cosentino. - Mi misi al tagliere e prova dopo prova pensai di aver elaborato il composto giusto:
kg. 1 di farina 00, g. 40 di olio evo, g. 40 di pecorino o misto parmigiano/pecorino; g. 15 di sale fino, 8 foglie di basilico tritato, 2 uova intere, pepe di mulinello a piacere e g. 350/400 di latte intero. Impastare il tutto e farlo riposare mezz’ora. Tirare la sfoglia con il mattarello allo spessore di 4/5 millimetri, quindi realizzare delle strisce della lunghezza di 10/12 centimetri. La pasta così prodotta non deve assomigliare ad una tagliatella, ma deve presentare la consistenza di un piccolo cilindro schiacciato. La cottura assomiglia a quella degli gnocchi: quando la pasta affiora, deve cuocere ancora 4 o 5 minuti. Al cliente andrebbe ricordato che gli scialatielli non si dovrebbero avvolgere attorno alla forchetta, ma andrebbero “pinzati”.
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Speciale and more
CHI È ENRICO COSENTINO? In Campania specialmente lo conoscono tutti sia perché ha scritto pagine importanti della storia gastronomica nazionale, sia per essere il Presidente Italcuochi Campania e aver affiancato molti noti chef nel loro percorso professionale, sia anche per aver insegnato per anni nella Scuola Alberghiera di Castellammare di Stabia, dove ha inculcato in tanti giovani l’amore per la cucina, sostenendo che si deve lavorare non solo col cuore, ma anche con la mente. E con umiltà. “I cuochi di oggi - ci dice - devono osservare tre C: Conoscenza, che si acquisisce attraverso lo studio; Competenza che si assimila con l’esperienza lavorativa e Capacità, ossia consuetudine e pratica di lavoro”. Cosentino tuttavia ci invita a riflettere sul fatto che in Italia il cuoco, come inquadramento lavorativo, non è altro che un semplice operaio. “Pensate alle cucine dei grandi chef oggi anche laureati, o a quelle delle più importanti strutture alberghiere che devono sfornare in sicurezza centinaia di pasti al giorno: ecco, per lo Stato italiano, tutto questo è in mano ad un semplice operaio. - ci fa notare Cosentino, che conclude: - Sarebbe ora che lo Stato italiano riconoscesse la professionalità dei cuochi con un inquadramento giuridico che attribuisse un valore agli studi fatti, agli stage di formazione, al ruolo in cucina, perché ogni cuoco o chef ha in mano non solo il benessere, ma persino la salute dei suoi ospiti. Che oggi è compito di un semplice operaio...”.
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GOURMETFOOD
A MARZAMEMI
CAMPISI
HA I SAPORI DELLA TERRA E DEL MARE DI SICILIA a cura di
Gianni Di Lorenzo
Un paesino siciliano con un fascino tale da provocare la sindrome di Stendhal: questo è Marzamemi, borgo marinaro di ascendenza araba che ha saputo conservare la struttura settecentesca risalente a quando la nobile famiglia Villadorata modificò la splendida tonnara, fece costruire la chiesa di San Francesco di Paola e le case dei pescatori. Il fiato si accorcia già appena si giunge sulla splendida piazza Regina Margherita intatta nelle sue vestigia storiche, e viene a mancare appena ci si affaccia sui due porti naturali di La Fossa e La Balata. Tutto è luce, mare, profumi, storia e magia, un insieme inebriante che cattura i sensi. E’ proprio in questo contesto ambientale intriso di tradizioni legate al proprio passato e alla tonnara in particolare, che nel 1854 nasce l’azienda familiare Campisi, la cui attività principale era ed è tuttora la lavorazione del pregiato tonno rosso del Mediterraneo. Ma non è da dimenticare che Marzamemi è situata nel comune di Pachino ed è per tale motivo che l’azienda Campisi si è negli ultimi anni dedicata alla lavorazione e trasformazione di prodotti vegetali, primo fra tutti L’oro Rosso di Pachino, il “Pomodoro di Pachino IGP”, conosciuto nel mondo per la sua infinita dolcezza.
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Speciale and more
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GOURMETFOOD
TAGLIATELLE
su passata di zucchine, cozze e bottarga marinata all’Armagnac INGREDIENTI per 10 persone g. 700 di tagliatelle all’uovo kg. 4 di cozze
g. 50 di bottarga Campisi
1/2 bicchiere di Armagnac g. 700 di zucchine
aglio, prezzemolo, sale, peperoncino, olio extravergine d’oliva
Il fiore all’occhiello della linea di prodotti ittici Campisi è tuttavia la bottarga di tonno rosso. La bottarga è il caviale del tonno, ottenuto dalle sue uova. Questa lavorazione ha radici molto antiche; le fasi di produzione artigianale della bottarga sono quattro: la salagione, la pressatura, l’asciuga-
PREPARAZIONE
Lavare accuratamente le cozze eliminando il bisso
e spazzolarle bene; in una padella mettere olio extravergine d’oliva, aglio intero (che poi toglie-
remo). Aggiungere le cozze, il peperoncino e il prezzemolo, lasciar cuocere; non appena aperte, toglierle dal guscio e lasciarle nel loro intingolo. Pulire bene le zucchine e prendere solo la parte
verde; scottarle in acqua bollente e porle in acqua
e ghiaccio; asciugarle bene, porle in un contenito-
re e unire qualche lamella d’aglio, sale, pepe, olio extravergine d’oliva. Con un minipimer mixare il tutto per ottenere una consistenza cremosa.
Cuocere le tagliatelle in abbondante acqua salata, scolarle e metterle in padella con le cozze, amalgamando con cura.
COMPOSIZIONE DEL PIATTO
Su di un piatto fondo porre la passata di zucchine
calda, aggiungere le tagliatelle con le cozze, spolverare con la bottarga Campisi precedentemente marinata in Armagnac. Finire con un rametto di erbe aromatiche e un filo d’olio.
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SPAGHETTI bottarga e limone
INGREDIENTI
g. 300 di spaghetti olio evo
qualche fogliolina tenera di valeriana il succo di un’arancia o limone
la buccia grattugiata dell’arancia o del limone sale
bottarga Campisi q.b. PROCEDIMENTO
Portare a 3/4 di cottura gli spaghetti in abbondante acqua salata, scolarli e terminare la cottura in padella con un‘emulsione di
acqua di cottura, il succo dell’arancia o del
tura e infine la stagionatura. La salagione consiste nel passare a sale la sacca contenente le uova di tonno, successivamente sottoposte a pressatura. Concluse queste due fasi, la bottarga viene accuratamente asciugata e infine appesa in ambienti ventilati e asciutti per la fase di stagionatura. In cucina, la bottarga di tonno rosso è ottima per la preparazione di un delizioso primo piatto. Un esempio nelle ricette di queste pagine...
limone e olio evo. Mantecare.
Sistemare gli spaghetti nel piatto, spolve-
rare con la buccia dell’arancia grattugiata e un’abbondante grattugiata di bottarga Campisi.
Guarnire con le foglioline di valeriana, un filo d’olio a crudo e servire.
CAMPISI SALVATORE S.R.L. Via Marzamemi 12, 96018 - Marzamemi (SR) Tel. +39 0931 841166
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IGLES CORELLI E LA CACCIA
TRA RITO ANCESTRALE, RISPETTO PER LA NATURA E GOLA di
Giulia Gavagnin
È straordinariamente coraggioso il volume “La caccia di Igles e dei suoi amici – Un giro tra le eccellenze della cucina italiana con chi ha saputo valorizzare le carni di selvaggina”, uscito da poco in libreria. Di questi tempi, infatti, solo a parlare di caccia si rischia il linciaggio: pratica violenta, irrispettosa della natura, ancora vergognosamente permessa. Molti si chiedono, infatti, quando sarà finalmente vietata in nome del Pensiero Unico secondo cui “gli animali valgono più degli uomini”. Figuriamoci, poi, che opinione possano avere costoro su un libro di ricette di selvaggina, per giunta firmate da notissimi chef stellati, tra i quali nientemeno che Massimo Bottura, Heinz Beck, Moreno Cedroni, Mauro Uliassi e Gianfranco Vissani! La verità è che il libro scritto a quattro mani dall’editore e cacciatore Michele Milani e il grande chef Igles Corelli con la partecipazione di venticinque superstar della cucina italiana non delinea soltanto un percorso culinario d’eccezione (impreziosito dalle bellissime foto di Davide Dutto), ma attraverso i pensieri degli chef e di alcuni giornalisti del settore, descrive il legame primordiale dell’uomo con la selvaggina come risorsa da recuperare non solo dal punto di vista culturale, ma anche economico. Michele Milani nella prefazione eviden-
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IGLESCORELLI
zia che l’Italia vive una situazione paradossale: se da un lato la normativa non permette più la commercializzazione di germani, alzavole, fischioni (prelibatezze per le quali gli appassionati in passato facevano anche centinaia di chilometri), dall’altro ha inserito la selvaggina da pelo in una filiera controllata che consente un mercato regolare di caccia, con ottimi risultati sia nella lotta al bracconaggio che nella promozione di territori che rischiano l’abbandono “anche per l’insostenibilità dell’economia agricola tradizionale”. Alcune aree geografiche, infatti, sono più adatte al ripopolamento di caprioli, cervi, daini che alle forme di agricoltura attualmente praticata: la regolamentazione della caccia nelle predette aree gioverebbe al territorio sia in termini economici che culturali. Di questi vantaggi sono persuasi tutti gli chef che hanno aderito al progetto, pur consapevoli che il pregiudizio contro l’ars venatoria è millenario e perciò duro a morire. “La caccia è rito antico e spietato” dice Igles Corelli, autore di dieci delle trentacinque ricette presenti nel volume.
Nulla di più vero. L’uomo ha da sempre avvertito la predazione degli animali come pratica cruenta, pericolosa, sanguinaria. Nientemeno che tremila anni fa Omero aveva dedicato un inno ad Artemide descrivendo lo sgomento che invadeva i monti, le foreste, le terre e i mari al passare dell’impetuosa e spietata Dea della caccia. Nel Medioevo, con lo sviluppo dell’agricoltura, la caccia è stata definitivamente considerata attività adatta solo a nobili sfaccendati allergici alle colture: Dante Alighieri parla di “selvaggia dilettanza” come passatempo di nessun valore e di segno opposto alla leggiadria d’animo che si conviene a chi prova l’amore universale. Eppure, nonostante il disprezzo culturale per la “selvaggia dilettanza”, per secoli l’arte venatoria è stata metafora letteraria di amore, di passione e di simbiosi con la natura. Da Petrarca a Paul Valery la cerva inseguita ha simbo-
Autori: Michele Milani, Igles Corelli Editore: MiCom Anno edizione: 2016 Pagine: 204, rilegato
LA CACCIA DI IGLES E DEI SUOI AMICI
Un giro tra le eccellenze della cucina italiana con chi ha saputo valorizzare le carni di selvaggina
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GOURMETFOOD
leggiato concupiscenza, desiderio di bellezza e aspirazione al ricongiungimento con l’Eden primigenio. Tra golose interpretazioni di piccione, cervo, fagiano, pernice, germano, capriolo e colombaccio gli chef, con pensieri e ricette intendono valorizzare proprio l’amore per la caccia come rito ancestrale ma rispettoso dell’equilibrio della natura. Non è un caso che le parole emotivamente più toccanti provengano dalle tre donne chef del libro. Nel presentare il suo celebre risotto con alzavola Maria Grazia Soncini ricorda papà Eraclio (della mitica, omonima “Capanna” di Codigoro) che tornava dalla caccia con la lepre “appesa a testa in giù e orecchie a ciondoloni…il rituale della pulizia.. il sangue, il rumore delle interiora che cadevano giù e l’afrore amaro dell’intestino…ed era tutto nell’ordine naturale delle cose, imprinting che non ti lascerà più. E lei non era una lepre era “la lepre”. Isa Mazzocchi de “La Palta” di Borgonovo Val Tidone, autrice di un goloso stinco di cinghiale al cioccolato bianco con asparagi selvatici e gutturnio, racconta che quando cucina la selvaggina si immedesima “nelle donne di casa del passato che, con cura e amore, cucinavano le prede cacciate dai loro mariti” (anche se la tec-
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nica l’ha appresa da George Cogny…). Fabrizia Meroi del “Laite” di Sappada (BL) sottolinea il “profondo rispetto nei confronti di quello che è da considerare un vero e proprio patrimonio culturale
del nostro territorio”, evidenziando “l’intento di unire il passato e il presente a tutto ciò che la natura mi offre”: missione riuscita nella ricetta del gallo forcello. Gli altri chef, tuttavia, non sono certamente da meno. L’istrionico Salvatore Tassa di “Colline Ciociare” di Acuto propone una Humus di Cervo, sottolineando che nella ricetta il suo pensiero “è stato quello di creare un habitat naturale attraverso un linguaggio di acidità, di profumi e di amarume tipici della terra di montagna in equilibrio con il sapore del cervo”. Davide Scabin del Combal.Zero di Rivoli presenta uno stupefacente piccione tra mare e terra con poche e sapide parole: “c’è qualcosa di meraviglioso nelle preparazioni a base di selvaggina, un ritorno atavico all’essenza”. Infine, ci sono i realisti, come Philippe Lèveillè del Miramonti L’Altro di Concesio, che appone il sigillo su una classica e robusta Royale di cervo contemporanea farcita di foie gras: “carne dimenticata dalla grande cucina, forse troppo intensa, troppo profumata per la nostra epoca…”. Condividiamo il pensiero ma auspichiamo altresì che questa pubblicazione contribuisca a rimuovere l’odioso pregiudizio: provare per credere.
Buone Nuove le novità del mese
DESSERT CARTE D’OR, OGGI SENZA GLUTINE SI.GI: IL FUTURO COLTIVANDO IL PASSATO
BN
Quella di SI.GI è quasi una missione: ripiantare frutti antichi e rari secondo metodi biologici naturali. Ecco dunque che frutti “dimenticati” come la pera angelica, i morici, le brugnolette, le visciole, l’uva spina o le more di rovo vengono lavorati con poco zucchero, senza conservanti, solo a mano e nel rispetto dei cicli stagionali per racchiudere nel vetro tutti i sapori e le sostanze benefiche per la salute. Un grande sforzo per una piccola azienda che si preoccupa di asciugare ancora al sole le visciole come si faceva una volta (ricche di antiossidanti, una volta si davano ai bambini e agli anziani come energizzante), oppure di preparare la “sapa” bollendo lentamente fino a 36 ore il mosto in un grande paiolo. Alle conserve, alle confetture naturali (alcune con i frutti dentro), si affiancano delicati sottoli (carciofini, melanzane, peperoni, zucchine), pesche, prugne, pere sciroppate, gelatine di vino e birra, vini da dessert (Baccononlosa) a base di frutta. Una passione per le cose buone da premiare con... passione.
Azienda Agricola SI.GI - C.da Acquevive, 25 - 62100 Macerata www.agricolasigi.it
BN
Unilever Food Solutions presenta cinque proposte Dessert Carte D’Or oggi senza glutine: Panna cotta, Crema Catalana, Mousse al Cioccolato, Sorbetto al Limone, i “classici” Dessert Carte D’Or, che hanno ottenuto la certificazione Senza Glutine e la nuova ricetta Tiramisù con Mascarpone, novità assoluta 2018, arricchita di mascarpone e Gluten Free. Secondo la Relazione annuale 2015 al Parlamento del Ministero della Salute (pubblicata sul sito AIC, Associazione Italiana Celiachia) i celiaci diagnosticati in Italia sono circa 182.000, in aumento costante ogni anno del 5%.
www.unileverfoodsolutions.it
UN SACCO BELLO!
BN
I Brutti e Buoni sono dei dolci tipici di Gavirate, un piccolo paese sul lago di Varese alle pendici del parco dei Fiori. Leggeri e fragranti, con un aroma di vaniglia ed il gusto puro della nocciola e della mandorla dolce, questa specialità che richiama un passato scritto nella sua ricetta, si accompagna con vini, liquori, infusi e creme. Realizzati con nocciole tostate, zucchero e albume d’uovo, questi dolcetti che assomigliano agli spumini vengono incartati a coppie per evitare gli sbriciolamenti e mantenerne profumi e sapori.
www.pasticceriamilanosrl.it
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ILFOCUSDIALESSANDROMAGNUM
a cura di
Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”
CHE NE SAPPIAMO NOI DEI VINI AMERICANI? Gli Stati Uniti sono tra i primi consumatori di vino al mondo, ma anche un importante Paese produttore che si colloca al quarto posto dopo Italia, Francia e Spagna. Il vino americano non è certo di moda nel nostro Paese, ma onestamente neanche in Europa. Anzi, per chi non conosce questa produzione (io per primo), la loro viene considerata la caricatura del prodotto di qualità: si tratta di vini molto alcolici, tannici, marmellatosi e stancanti. Ora, non siamo qui per difenderli o giudicarli e non possiamo certo dire che non abbiano scopiazzato lo stile Francese di Bordeaux, questo è ovvio, ma consideriamo che i due padri dell’indipendenza americana, Franklin e Jefferson, si appassionarono così tanto ai vini francesi, che sognarono di produrre grandi vini in America. I vini americani sono quasi sempre prodotti da vitigni francesi vinificati in piccole botti di rovere. Negli ultimi venti anni, sopratutto quelli californiani, sono stati vittima di un eccesso di pratiche vitivinicole, come del resto è accaduto a vini di Bordeaux. Eppure, assaggiando tante annate degli ultimi 50 anni, non si può non ammettere che da queste terre siano usciti alcuni grandi vini, per quanto difficili da scovare. Ora, riformulo la domanda: che ne sappiamo noi dei vini americani se li non li abbiamo mai bevuti e continuiamo a non berli?
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Va bene, sono vini lontani geograficamente da noi, non esistono seri importatori che ci permettono di trovare il prodotto nel nostro mercato, ok, ma è come se avessimo una sorta di timore, di paura che qualcuno di così grande, “gli americani”, possano essere migliori noi. Quindi cosa facciamo? Non li giudichiamo e li escludiamo da qualsiasi batteria di assaggio europea, come se non fossero all’altezza? Io credo non sia giusto. La storia dei vini americani è lunga, molto lunga, ma sarò breve nel raccontarla, per quel che posso. Se ne comincia a parlare intorno al 1879, quando Gustave Nybom, acquista terra a Rutherford in Napa Valley, e fonda la cantina Inglenook. Poi è la volta del francese George de Latour che fonda Beaulieu. Dunque, due grandi nomi del vino californiano, grazie anche all’intervento del mitico enologo russo poi successivamente californiano Andre Tchelistcheff. In Sonoma, in una regione più prossima all’oceano e più fresca di Napa, arriva il conte ungherese Haraszthy e fonda Buena Vista. In Minnesota, il marchigiano Cesare Mondavi va in California, si innamora e decide di investire nel vino. Ha due figlie e due figli, Peter e Robert. Robert Mondavi sarà il simbolo del vino
ILFOCUSDIALESSANDROMAGNUM
americano di qualità del ventesimo secolo (ricordo ancora recentemente di aver bevuto un Cabernet Sauvignon Riserva 1982 da urlo, tutt’altro che riconducibile ad un vino californiano). Successivamente sarà la volta di Louis Martini ecc, ecc... Ma attenzione, la svolta è sicuramente nel 1976 quando esce il primo numero di Wine Spectator e, sempre nel 1976, a Parigi, il mercante e appassionato di vini Steven Spurrier organizza il “Giudizio di Parigi”. Ma cos’é il Giudizio di Parigi? All’Hotel Intercontinental si assaggiano, in comparazione e alla cieca, vini americani e vini francesi prodotti ovviamente da Cabernet Sauvignon e Chardonnay. Tutti gli esperti sono francesi meno due, Steven Spurrier e Patricia Gallagher, ma dei loro giudizi non se ne terrà conto nella classifica finale. E qui, a sorpresa, gli americani piazzano una doppietta: un vino al primo posto nei bianchi, con Chateau Montelena 1973, che nei rossi, con Stag’s Leap 73, un pò come la storia del nostro Sassicaia 1985. Tutti in silenzio, tutti sbalorditi e tutti a casa. Ma come? Questi americani sanno fare vini così buoni? Così eleganti, fini, longevi e profondi? Come si permettono? La storia continua. Nel 1984 Robert Parker, un avvocato di Baltimora, pubblica il primo numero di “The Wine Advocate”. In
breve tempo viene considerato l’uomo più influente in assoluto nel mondo del vino ed oggi è ancora così. Grande naso, grande palato e persona incorruttibile. A partire dagli anni ’70 - ’80 sono emersi nuovi territori ad alta vocazione, oltre a Napa, Sonoma, Santa Cruz: sempre in California, zone fresche della costa centro-meridionale (Monterey, Paso Robles, Santa Ynez), e poi l’Oregon, considerato giustamente, in alcune sue valli, una patria ideale per il Pinot nero, e alcune valli dello stato di Washington, più a Nord (la Columbia valley in particolare), con clima molto continentale ed estati secche. Quindi questi vini americani? Perché ci spaventano tanto e li consideriamo sempre fuori corso o prodotti con stili a noi non riconducibili? Soldera ha affermato che il “gusto americano”, viene considerato come una sorta di gusto inferiore e adolescente (cui però ispirare i nostri vini). Un momento, ma gli americani sono anche tra i più grandi consumatori di vini italiani? Come possono consumare prodotti adatti ad un palato oramai evoluto e poi produrre vini così differenti? Qualcosa non torna. Non saremo noi a trarre ovviamente delle conclusioni, ma forse non siamo ancora pronti ad un vero confronto perché in fondo abbiamo paura che nel vino, forse, gli americani siano o possano diventare più bravi di noi.
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VINARIA
BOLLICINE SUDTIROLESI PRODOTTE CON UVA E FRUTTA di
Gianluca Ricci
Bollicine da Belle Epoque, quelle che da qualche anno vengono prodotte in un minuscolo ma pregiato fazzoletto di terra compreso fra il Trentino e il confine del Brennero. Che i vini del Südtirol, in particolare i suoi sontuosi bianchi, posseggano quel certo non so che capace di stregare tanto il comune bevitore quanto il raffinato esperto è noto da tempo, come nota da tempo è la straordinaria abilità con cui i produttori altoatesini hanno affinato le loro capacità portando i loro prodotti a competere con i migliori del mondo. Che però dai vigneti faticosamente piantati nelle vallate dolomitiche potesse nascere una bollicina in grado di convincere anche i più diffidenti in pochi potevano prevederlo. Eppure già l’imperatore Francesco Giuseppe ci aveva visto lungo, quando aveva destinato il Südtirol alla produzione di vino e frutta. E la corte di Vienna mai e poi mai avrebbe permesso che la principessa Sissi trascorresse le sue dorate ferie nel Belpaese senza il conforto di un vino che non le facesse rimpiangere le ben fornite cantine del palazzo di Schonbrunn. Dei primi tentativi fatti dai vignaioli del territorio la storia non conserva tracce apprezzabili: si sa solo che uve Riesling opportunamente lavorate erano riuscite nel miracolo; di certo c’è che nei primi anni del Novecento, ormai purtroppo tramontata la stella dell’imperatrice Elisabetta, fece la sua comparsa il “Tiroler Gold” della “Ubertscher Champagnekellerei Burk” di Appiano, uno spumante
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BOLLICINESUDTIROLESI
prodotto secondo quello che oggi definiremmo metodo classico, seppure con le inevitabili differenze legate allo stato pionieristico delle conoscenze della vinificazione dell’epoca. Quel primo spumante altoatesino ebbe vita breve, a causa principalmente dei conflitti bellici che sconvolsero aspramente quella contesa terra di confine. Ma il seme piantato allora non inaridì, anche se si dovette attendere il 1965 per rivedere in bottiglia un degno erede in grado di dare vita ad una vera e propria tradizione: accadde alla Fiera di Bolzano, dove Franco Kettmeir, vignaiolo di Caldaro, presentò la sua Cuvée realizzata con metodo Charmat usando solo Pinot bianco. Una sorpresa che convinse il suo creatore ad insistere sulla strada aperta quasi per scommessa, fino a trasformarlo in vero chef de cave una trentina di anni dopo, quando la sua cantina sfornò il primo metodo classico realizzato con Pinot Nero, Chardonnay e, particolarità rimasta inalterata fin dalle origini, Pinot bianco. Salorno, Soprabolzano ma soprattutto Caldaro i territori di provenienza delle uve: quest’ultimo in particolare, col suo microclima mediterraneo ai piedi delle Dolomiti, il più adatto ad affinare proprio quel Pinot bianco che dello spumante altoatesino rimane la specificità più marcata, grazie
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VINARIA
all’eleganza, alla profondità e alla ricchezza che è in grado di donare al vino se ben coltivato. I produttori di spumante in Südtirol oggi si contano sulle dita di due mani, a testimonianza del fatto che l’ambizione di arricchire la propria gamma con un vino fuoriclasse si scontra con le difficoltà di raggiungere a latitudini estreme le condizioni ideali per una corretta maturazione dei vini. Ma la ferma volontà di proseguire nella ricerca, prerogativa unanimemente riconosciuta ai vignaioli altoatesini, è attestata dalla nascita, nel 1990, di un’associazione voluta per riunire intorno a problematiche comuni tutti coloro che a sud del Brennero si erano impegnati nella nobile arte della produzione delle bollicine. Sette sono attualmente i membri che la innervano (Kettmeir, Arunda, Braunbach, Martini, Praeclarus, E+N e Haderburg), gli stessi che, per dare
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Haderburg
BOLLICINESUDTIROLESI
visibilità ad un prodotto che con le sue 250mila bottiglie annue non può che essere ancora considerato di nicchia, hanno provato di recente a dare vita ad un superspumante realizzato con il meglio della produzione di ogni singola azienda: 190 bottiglie soltanto, destinate alla beneficenza, in cui è però condensata la summa della bollicina made in Südtirol. Deus ex machina dell’operazione Josef Reiterer, patron di Arunda di Meltina, ad oggi la cantina più alta d’Europa con i suoi 1200 metri di altitudine: “Ad un tratto abbiamo pensato di unire le nostre forze – ha ricordato il presidente dell’associazione – anziché sprecarle in una inutile concorrenza. Anche perché il mercato dello spumante, va riconosciuto, risente di una diffusione spinta del fenomeno, che alla fine procura danni all’intero sistema. Le nostre bollicine soddisfano poco più che il mercato locale e sono nate in molte cantine per supportare soprattutto i grandi bianchi che godono di una tradizione
più che consolidata. Il nostro obiettivo, pur consapevoli che l’ultima cosa di cui ha oggi bisogno il mercato è un ulteriore ampliamento della gamma, è quello di farci conoscere, perché siamo consapevoli di produrre spumante di grande qualità”. I vigneti, tutti collocati tra i 500 e i 1000 metri di altitudine, si trovano in condizioni di escursione termica importante, una situazione che se da un lato non crea problemi nella gestione dell’acidità, dall’altro può rendere difficile il necessario bilanciamento tra sapidità ed estratto, anche perché a quelle latitudini ci si ostina a lavorare quel Pinot bianco che solo se portato alle corrette condizioni di maturità conferisce al vino profumi e sapori davvero unici. “Non è un caso – ha aggiunto Reiterer – che i nostri spumanti diventino tali solo dopo almeno 24 mesi e non è raro che alcune cuvée riposino in cantina anche cinque anni prima che le bottiglie vengano sboccate e avviate alla vendita”. E il fenomeno si è diffuso a tal punto lungo le vallate alpine che c’è stato persino qualcuno che ha osato là dove nessuno si era mai spinto prima, nel tentativo di combinare un matrimonio forzato tra due delle eccellenze riconosciute del territorio e della civiltà altoatesina, ovvero la grande capacità di lavorare in cantina e la straordinaria qualità delle mele. È nato così lo spumante di mele che Peter Thuile ha realizzato con grande perizia nella cantina del suo Sandwiesn Hof a Gargazzone: il processo di produzione è laborioso anziché no, ma il risultato ha dell’incredibile, visto che dalla fermentazione controllata del sidro ottenuto dalla spremitura di mele delle varietà Pink Lady, Granny Smith e Breaburn nasce un prodotto che si faticherebbe a classificare diversamente da uno spumante tradizionale se non si facesse riferimento all’etichetta sulla bottiglia. Un prodotto unico, non solo per il Südtirol, a testimonianza che se da quelle parti qualcuno si mette in mente un’idea, è difficile che non la realizzi nel migliore dei modi. Sono in molti infatti a scommettere che nel giro di pochi anni il baricentro qualitativo della produzione di bollicine in Italia finirà per spostarsi inevitabilmente lungo l’asse del Brennero.
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VINARIA
“ … e il precoce Primitivo che ci dà Gioia del Colle dentro muscoli ribolle sì che pare argento vivo …) (A. Morelli)
TERRE DEL PRIMITIVO DA TURI A GIOIA DEL COLLE di
Antonietta Mazzeo
Composta da pianure e colline, circondata dai mari, la Puglia possiede un clima mite, tipicamente mediterraneo, particolarmente adatto all’agricoltura e alla viticoltura. Un ampio panorama ampelografico differenzia la vitivinicoltura pugliese da quella delle altre regioni italiane e del Meridione. Caratterizzata da una spiccata mutevolezza del territorio, dalle vette montuose della Daunia alle coste sabbiose del Salento, passando per ampie e assolate zone collinari, la Puglia può contare su una grande varietà di territori, che si esprime in un ricco bouquet di profumi e di sapori senza eguali. Si ritiene che la vite sia stata presente in Puglia prima dei tempi della colonizzazione greca nell’VIII secolo a.C. , tuttavia alcune delle varietà oggi coltivate in questa regione sono state introdotte proprio dai greci. Con l’arrivo del dominio degli antichi romani i vini della Puglia cominciarono ad essere presenti e apprezzati sulle tavole di Roma.
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TERREDELPRIMITIVO
Plinio il Vecchio, Orazio e Tibullo hanno lasciato ampie testimonianze nei loro scritti sulle tecniche di coltivazione della vite e della produzione di vino, decantandone le caratteristiche. La produzione vinicola pugliese è fra le principali d’Italia; negli ultimi anni i produttori pugliesi, consapevoli dell’enorme potenziale vinicolo della regione, hanno sviluppato una produzione di qualità, valorizzando il potenziale di uve autoctone, come Negroamaro, Primitivo e Uva di Troia, a cui il sole e la terra donano spiccate doti di riconoscibilità e un’imponente struttura che la passione e l’esperienza traducono in vini autentici, dal forte carattere identitario. Tra i rappresentati di questi frutti dell’amore per la propria terra, dal sapore inconfondibile e dal gusto unico, è la Cantina dei Fragni e Terre di San
Vito: tra vigneti, uliveti secolari, frutteti e orti, la tradizione si coniuga con le tecniche più moderne nel pieno rispetto dell’ambiente. Gioia del Colle è un piccolo agglomerato che circonda il bellissimo castello che Federico II di Svevia fece edificare nel 1230, ed è al centro della Murgia Barese, nell’altipiano carsico tra il Mar Adriatico ed il Mar Jonio. Il paesaggio rurale è caratterizzato da tipici, lineari muretti a secco che delimitano e sostengono il terreno agrario lentamente accumulatosi nel tempo e sul quale l’uomo ha impiantato i vigneti. La pietra, in simbiosi con la vite, è parte integrante della Murgia e la caratterizza in molteplici aspetti agronomici
ed enologici. L’introduzione in Puglia dello “sconosciuto Primitivo” ancora senza nome, avvenne molto probabilmente nel XII secolo ad opera dei Benedettini. L’abate primicerio Francesco Filippo Indellicati, grande esperto di botanica e agronomia, fu il primo ad effettuare una sorta di “selezione clonale” del Primitivo. Sul finire del secolo notò la crescita disordinata nelle campagne gioiesi di molta uva da vino; tra le varie uve, una varietà maturava prima delle altre, pur avendo una fioritura abbastanza tardiva. Per tale caratteristica la denominò “Primaticcia o Primativo” dal latino “primativus”. Il primicerio effettuò un’attenta selezione delle marze della varietà e le impiantò in agro di Gioia del Colle in una zona denominata “Liponti”, che fa ancora oggi parte della contrada denominata “Terzi”. Il Primitivo Gioia del Colle viene prodotto nell’area omonima, in provincia di Bari con il 100% di uve del vitigno Primitivo: rubino intenso, assume sfumature aranciate con l’invecchiamento. Il bouquet fruttato si caratterizza per le note di ciliegia, amarena e prugna. Al palato è avvolgente, armonico, fruttato, con un retrogusto mandorlato. L’invecchiamento lo rende etereo e molto persistente. Il Primitivo di Gioia del Colle è una delle aree delle denominazioni di maggiore interesse, nell’ambito del panorama vinicolo pugliese. La produzione è quasi interamente rappresentata dagli associati del Consorzio Tutela Vino Doc Gioia del Colle, attualmente presieduto da Vito Donato Giuliani. Tra i grandi interpreti di questo splendido vitigno, attraverso la sua filosofia di produzione, l’espressione del territorio e la tecnica operano; Tenute Chiaromonte, Coppi, Giuliani Vito Donato, Tenuta Viglione, Pietraventosa, Plantamura, Azienda Agricola Tre Pini, Cantine Imperatore, Tenuta Patruno Perniola, Terrecarsiche, Vini Fatalone, Agricola Cannito, Cardone, Botromagno, Francesco Mastrangelo.
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VINARIA
DALL’UVA ALLE CILIEGIE! Turi è nota per la sua ciliegia “ferrovia” e per essere uno dei suggestivi borghi dell’Area Metropolitana di Bari, caratterizzato dalle sue case imbiancate con la calce, le viuzze strette e lastricate, i chiostri e le edicole votive, oltre che da bellezze storico-artistiche di pregio, tra cui la Chiesa Matrice, la Chiesa di San Rocco (foto a lato) e il Chiostro delle Clarisse. Rossa rubino, a forma di cuore e dal sapore dolce, le chiamano “oro rosso di Puglia” perché anche nell’aspetto queste ciliegie si mostrano come autentici gioielli: grandi, rosse, lucenti, consistenti, saporite, le “Ferrovia” sono le ciliegie italiane più apprezzate ed esportate nel mondo. Le prime notizie della Ciliegia Ferrovia si hanno nel 1935. L’origine del nome “Ferrovia” ha un che di leggendario. Era la fine degli anni ‘40 e gli inizi ‘50 e, non essendoci camion o altri mezzi, la ciliegia fu trasportata con il treno, che all’epoca era definito in gergo semplicemente ‘ferrovia’. Da quel momento la ciliegia acquista questo nome. Successivamente si è diffusa sul territorio del
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sud-est barese fino ad arrivare a essere la principale cultivar di Turi, Casamassima e Conversano. La Ciliegia rappresenta una delle principali fonti di ricchezza per l’economia agricola del Sud-Est barese, in particolare per i Comuni di Conversano e Turi dove si distingue per la qualità e il suo ineguagliato calibro tra i 28 e 30 mm.
L’OSPITALITÀ PUGLIESE Un luogo è di più della sua descrizione geografica; la percezione varia a seconda delle emozioni che l’ospitalità è in grado di suscitare nel viaggiatore. L’accoglienza l’ospitalità e la ristorazione rappresentano alcune tra le bellezze e le eccellenze della Puglia. La dimora di charme Masseria Montepaolo (foto in basso a sinistra) è situata su un poggio che domina una dolina carsica, uno dei laghi della riserva naturale della “Città d’arte” di Conversano. Dimora di caccia del XVI° sec. dei Conti Acquaviva D’Aragona, conserva ancora le poderose mura. Eleganti, affascinanti e ricche d’atmosfera, le camere in stile ‘800 e gli ambienti comuni con le volte a crociera in pietra a vista. A metà strada fra i comuni di Turi e Sammichele (Bari) Il giardino dei ciliegi oltre ad essere un B&B è anche una piccola azienda agricola a conduzione familiare; con tutte le caratteristiche delle coltivazioni pugliesi, qui si producono prodotti biologici certificati, in particolare olio d’oliva, ciliegie ferrovia e confetture. Tra le mura incantate del centro storico di Turi al Menelao a Santa Chiara, aria e acqua, terra e fuoco si incontrano in una proposta enogastronomica d’eccellenza. A caratterizzare le proposte gastronomiche sono le materie prime, prodotti di qualità e sempre di stagione, che si raccontano in un ambiente unico, mantenendo saldo il legame tra passato e presente anche attraverso i materiali che lo caratterizzano.
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Nell’antica e raffinata struttura del Palazzo Vescovile di Conversano, al ristorante Pashà la chef Maria Cicorella, madre del patron Antonello Magistà (foto qui sopra), rielabora i gusti della tradizione pugliese, un’alchimia delicata e spontanea di colori e premure, sapori equilibrati e decisi, cotture creative e sapienti, gastronomia casereccia di classe. Qui nulla è lasciato al caso e la qualità del servizio esalta la bontà di un piatto. “La buona cucina è una forma d’amore da coltivare e condividere”, questo è il pensiero che ha portato la chef Maria Cicorella alla creazione della Pashà KitchenAid® School, un programma di lezioni di cucina, in cui è possibile apprendere tutti i passaggi per la preparazione di un intero menù. Semplicità, allegria ed eleganz: l’Osteria di Chichibio, a Polignano a Mare (Ba) è un ristorante in perfetto stile barese dove il pescato giornaliero di mare che fa bella mostra di sé sul classico letto di ghiaccio è l’assoluto protagonista, con preparazioni sia cotte che crude, di una cucina espressa in modo naturale, grazie alla cottura nel forno a legna e alla produzione artigianale di tantissimi ingredienti. A Putignano (Ba), nel palazzo storico al centro di piazza Plebiscito all’Osteria Botteghe Antiche, il rispetto delle stagionalità e delle materie prime, incontrano la capacità da parte dello chef di reinventare e reinterpretare ogni piatto, mescolando la tradizione più autentica al gusto contemporaneo, con stile e creatività. Luogo di anima, di passione e di gusto, l’atmosfera è quella da osteria, con sedie e tavoli semplici e tanti prodotti tipici sparsi tra pareti e scaffali, ma con un’attenzione e un garbo particolari, tanti colori a ravvivare l’ambiente e la bella cucina a vista per tenere sotto controllo cosa arriva in tavola.
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VINARIA
Circondati dalla bellezza dell’architettura del centro di Bari, In Alto Vineria, il locale nato dall’esperienza della “Locanda di Federico”, offre un’ampia scelta di vini regionali e di birre artigianali. Il “calice” può essere accompagnato da gustose specialità del “cibo di strada pugliese”, come taglieri di salumi o di formaggi, taralli, focacce calde, panini, ma trovano spazio anche preparazioni vegetariane.
L’OLIO PUGLIESE La Puglia è, storicamente, zona di ulivi e di olio, con tantissime aziende di grande qualità, che la caratterizzano come uno dei territori olivicoli più importanti al mondo. A Conversano, nella bassa Murgia, tra ulivi centenari immersi nella magia di un mondo contadino che detta le regole della vita, al Frantoio D’Orazio si continua un percorso di ricerca e valorizzazione delle materie prime, di quelle cultivar (Olivastro, Cima di Mola, Leccino, Nociara, Coratina e Simone) che danno sostanza alla storia e alla tradizione contadina di questo territorio, per meglio esaltare la bontà e la fragranza di sua maestà l’extravergine d’oliva.
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I sotterranei di alcuni edifici monumentali della Città vecchia di Bari racchiudono suggestive aree archeologiche, vere e proprie testimonianze di millenarie vicende storiche. L’itinerario “Bari Sotterranea - Un viaggio nella città sotto la città” (foto in basso), attraverso le complesse stratificazioni nascoste nel sottosuolo della città, consente ai visitatori di andare indietro sino all’età romana, per poi rivelare la Bari bizantina in cui rivive la brulicante cittadina di mille anni fa. I percorsi prendono avvio dal Castello Normanno Svevo per proseguire nella Cattedrale romanica e si concludono nell’area archeologica di Palazzo Simi, Centro Operativo per l’Archeologia di Bari. La Puglia si conferma terra dove è possibile vivere un’esperienza esaltante, non solo per il suo mare, i suoi borghi, la sua dimensione rurale e moderna insieme, i suoi castelli e le cattedrali, ma soprattutto per l’autenticità, la cultura, le tradizioni e l’enogastronomia. Un territorio straordinario dove il passato e la contemporaneità si conservano intatte, con una biodiversità pressoché unica e con una posizione biogeografica che la rende un ponte naturale tra l’Europa e l’Oriente Mediterraneo.
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