Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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ANNO XXXIII Aprile 2018 - N. 326 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI
NIKOROMITO|NORBERTNIEDERKOFLER|MASSIMOBOTTURA|DAVIDESCABIN
ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTI TESTIMONIAL DELLA CUCINA DI OGGI
GIANFRANCOVISSANI|EMANUELESCARELLO|PIETROLEEMANN|HEINZBECK|ANDREAAPREA
LA MADIA EDITORE
SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 326 GOURMETFOOD La scelta vegana Pietro Leemann di Silvia Bianco............................................... pag.
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Il menu engineering Cosa succede quando si tolgono tanti piatti dal menù? di Lorenzo Ferrari........................................... pag. 16 Chissenefood Il diavolo mangia piada. Gourmet. di Cristiano Giliberti........................................ pag. 18 Assaggi di Galateo Si fa presto a dire cucchiaio, coltello e forchetta di Fabio Ferrantino......................................... pag. 20 Golavagando Il piatto di aprile del ristorante Chiosco di Bacco..................... pag. 22 Edit a Torino................................................... pag. 24 Chef di Spirito
SIMPLY THE BEST
Enza Crucinio
Alcuni tra i più importanti testimonial della cucina di oggi.
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di Sonia Leo................................................... pag. 80 Giovani Talenti Domenico Stile - Enoteca La Torre di Antonietta Mazzeo..................................... pag. 84 Vinaria Il focus di Alessandro Rossi Bâ(s)tard! ... Bâ(s)tard d’un Montrachet! di Alessandro Rossi....................................... pag. 96 Montalcino vendemmia 2013 di Alessandro Rossi....................................... pag. 98 Pas Dosé di Marco Tonelli............................................. pag. 102 Ca’ di Frara di Antonietta Mazzeo..................................... pag. 106 Cantina Fulghesu Le Vigne di Antonietta Mazzeo..................................... pag. 108
MEDIA PARTNER
EDITORIALE di
Elsa Mazzolini
SIMPLY THE BEST Sia chiaro: per noi “the best” sono tutti coloro che fanno il proprio lavoro con passione, dedizione, onestà. Ma è indubbio che vi sia chi, in ogni tipo di professione, coltiva idee innovative, genera tendenze, crea modelli di riferimento. Diventando il faro per molti altri. Marchesi è stato uno di questi: in un momento storico più statico rispetto all’attuale, aveva stravolto il sistema fino ad allora praticato dalla ristorazione, trascinando con sé una serie di colleghi che stavano maturando prospettive di cambiamento. Una rivoluzione. Oggi l’eccesso di creatività, di stimoli e contributi che arrivano da ogni parte del mondo rendono meno identificabile quel faro: ognuno ha il proprio, ognuno segue la corrente o lo stile a sé più affine. Indubbiamente il susseguirsi di tendenze più o meno legate ai paradigmi modaioli dell’ultimo decennio, da una parte ha alterato il senso delle proporzioni creando miti abnormi e drogando il loro peso economico, dall’altra ha stretto un discutibile connubio tra ideali e pragmatismo del mercato. Questo non toglie che ai personaggi di riferimento attuali spetti un merito non piccolo: quello di aver promosso, favorito e incoraggiato nella categoria un arricchimento professionale il cui valore va al di là di ogni possibile discussione. Ad alcuni dei più rappresentativi di loro viene dedicato il numero di aprile de La Madia.
ME
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© Francesco Mion
LA SCELTA VEGANA
a cura di
Silvia Bianco testimonial di cucina vegana
SIMPLY THE BEST…VEG!
PIETRO LEEMANN
E LA SUA CUCINA ETICO-INTIMISTA PER GOURMET Nel panorama veg, ci sono tanti cuochi che con passione cucinano vegetale. Tra i migliori che con maestria e sapienza trasformano gli ingredienti in piatti straordinari, c’è proprio lui, Pietro Leemann, 1 stella Michelin! Chef, lei da giovanissimo è stato piacevolmente colpito da una Charlotte Russe alla vaniglia preparata dello chef Angelo Conti Rossini, figura molto importante nella sua vita. Ci può descrivere in che modo? Angelo Conti Rossini era una persona molto carismatica dalla formazione tradizionale rigorosa. Un tempo fare il cuoco implicava un apprendistato impegnativo, col quale si acquisivano competenze importanti anche a livello pratico nell’eseguire i piatti, e lui si appoggiava proprio ad una scuola caratterizzata da una disciplina estrema. Qualsiasi cosa prendeva in mano, Angelo Conti Rossini lo trasformava in un piatto sublime. E questo mi colpì molto. Ciò che mi affascinò è che quella bavarese aveva anche una forza educatrice e di trasformazione delle persone che la mangiavano. Ho seguito quest’aspetto della sua cucina in tutti questi anni e tuttora è qualcosa che fa parte della mia ricerca e del mio modo di proporre la cucina.
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Agli inizi della sua carriera, Angelo Conti Rossini l’ha aiutata a lavorare ed incontrare altri chef importanti tanto quanto lui. Sì, nei primi passi soprattutto! Chi impara a cucinare è importante che vada da maestri molto validi, in particolar modo all’inizio della propria carriera, perché ci sono delle conoscenze che non sono scritte sui libri e vanno imparate “sul campo”. Angelo Conti Rossini mi ha aperto le porte delle prime realtà che mi hanno formato e che sono stati fondamentali per la mia carriera. Lei ha lavorato a fianco di grandi chef come Conti Rossini, Fredy Giradet e Gualtiero Marchesi. Se dovesse descriverli con un aggettivo, compatibilmente con la sua esperienza personale diretta, come li definirebbe? Angelo Conti Rossini era molto simpatico; Fredy Giradet era un aristocratico della cucina; Gualtiero Marchesi era una personalità entusiasta della vita. Più di 30 anni fa decide di diventare vegetariano. C’è stato un episodio in particolare che l’ha portata a prendere questa decisione, oppure è stato il frutto di un percorso interiore? È stata una trasformazione graduale, generata dal rendermi conto che la cucina che facevo nei ristoranti ed i piatti che preparavo erano molto buoni ed anche straordinari, ma poco attenti all’aspetto nutrizionale ed anche all’aspetto etico del cibo a 360°. La questione nutrizionale l’ho vissuta in prima persona, perché da cuoco generalista onnivoro, cucinavo e mangiavo di tutto, ma quella dieta non mi faceva sentire bene fisicamente come avrei voluto. Tutto ciò ha fatto scattare la scintilla iniziale che si è sviluppata includendo la mia esperienza orientale, le mie ricerche e tutte le trasformazioni
© Francesco Mion
avute nella mia vita. Il fatto che io non stessi tanto bene a livello fisico con una dieta onnivora è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di scoprire un mondo straordinario. Essendo la sua scelta vegetariana dettata anche da motivazioni etiche, com’è stato lavorare in cucine dove doveva per forza cucinare piatti con carne e derivati animali? Per qualche anno ho sofferto, vivevo un mondo esterno a me che non mi corrispondeva più e quindi avevo un grande travaglio interiore. Non ero contento, per questo ho deciso di aprire Joia. Con il Joia potevo essere indipendente e fare ciò che sentivo fosse giusto per me.
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LA SCELTA VEGANA
Appena diventa vegetariano affronta questo viaggio in Oriente: prima vive e lavora in Cina e poi anche in Giappone. C’è ancora qualcosa di Cina e Giappone nella sua cucina attuale? La cucina che propongo è frutto del mio vissuto e della mia filosofia di vita. Nel mio vissuto, l’Oriente esiste in modo importante: spesso utilizzo non solo ingredienti, ma anche aspetti culturali orientali. La mia cucina è una cucina Zen-Occidentale: l’influenza estetica e lo zen, ma anche la pulizia dei piatti, sono aspetti che mi corrispondono molto e che propongo nelle mie preparazioni. Lei ama molto leggere: quali letture predilige e quali rispecchiano di più il suo essere ed anche la sua cucina? Trovo vari modi per leggere. Si può leggere per rilassarsi con un giallo o un romanzo, oppure si può leggere per informarsi. Adesso ad esempio sto leggendo il libro di Naomi Klein “Shock Economy” in cui parla della situazione economica del presente. Oppure scelgo di leggere qualcosa che nutre dentro, e dove ogni pagina è un arricchimento per il nostro essere. Questi ultimi sono i libri che prediligo e che vanno dalla Bibbia, alla Bhagavadgīt, allo rīmad-Bhāgavatam, ai testi di Lao Tzu dove ciò che viene espresso è scritto perché la persona che lo racconta ha vissuto direttamente quell’esperienza arricchente. Sono strumenti per vivere meglio il percorso di ognuno, perché ognuno di noi, in un modo o nell’altro, volente o nolente, fa un viaggio di vita alla scoperta. Riuscire a migliorare questo viaggio attraverso persone che ne sanno più di me, è una cosa straordinaria e quella che mi piace di più.
© Giovanni Panarotto
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© Giovanni Panarotto
Come definisce oggi la sua cucina e come nascono i suoi piatti? La cucina del Joia è una cucina che fa bene a chi la mangia, fa bene a tutti gli esseri e fa bene al Pianeta che ci ospita. È una cucina in armonia con il creato e con tutte le sue creature ed i piatti nascono proprio per dimostrare l’importanza di questo presupposto, quindi invento o penso a dei simboli e li trasformo in piatti. Ad esempio “Sotto una coltre colorata” rappresenta una passeggiata in un bosco, “Anima Mundi” rappresenta una frase di Platone. “Oh mio caro pianeta” è un inno al Pianeta che ci ospita, e così via. Agisco per simboli o per stimoli che cercano di arricchire chi mangia il piatto ed al contempo donano completezza al piatto che poi verrà mangiato. Inoltre rappresentano la mia filosofia e quindi “io sono e che cosa desidero essere”. Che cosa rappresenta per lei il cibo? Il cibo, ancor prima di essere un nutrimento sano, rappresenta chi siamo. Quando noi mangiamo e cuciniamo, esprimiamo la nostra personalità che è in continua evoluzione e difatti il mio
RELAZIONE PRIVILEGIATA
Asparagi verdi cotti in terracotta con una fetta morbida di sedano e gli aromi dell’orto, pane azzimo di amaranto, formaggino di mandorle e salsa di porri e cavolfiore
INGREDIENTI per 4 persone
sfere di 50 grammi, tirarle al matterello e
Cuocere in forno a 300°C per 30 minuti.
di foglie di vite, 4 foglie d’alloro, g. 400
scente per 2 minuti. Per la salsa cuocere il
cerli in acqua bollente salata per 4 minuti.
Per gli asparagi: 24 asparagi verdi, g. 100 d’argilla, sale.
Per la salsa di cavolfiore: g. 100 di cavolfiori, g. 50 di porri, g. 50 di olio extravergine d’oliva, sale e pepe.
Per il formaggio di mandorle: g. 100 di
mandorle, g. 10 di miso, g. 20 g di succo di limone, g. 20 di menta, sale e pepe.
Per il pane azzimo di amaranto: g. 80
di farina di amaranto, g. 70 di fecola di patate, g. 55 di fioretto di mais, g. 170 di
acqua bollente, g. 25 di olio extravergine d’oliva, g. 5 di rosmarino tritato fine. PREPARAZIONE
Per il pane azzimo impastare a lungo gli
ingredienti tra di loro, preparare delle
cuocerle subito, sopra una pietra incandecavolfiore in acqua bollente salata per 10
minuti, aggiungere i porri tagliati a pezzetti e cuocere altri 4 minuti. Frullare il tutto, condire con olio extravergine, sale e pepe.
Mettere a bagno le mandorle per una notte. Sgocciolarle bene e frullarle, condirle
con il sale, il miso, il succo di limone e la menta tritata. Preparare delle sfere appiat-
Pelare gli asparagi, tagliarli a metà, cuoSopra a quattro tegole appoggiare le fo-
glie di vite, gli asparagi e una foglia d’alloro. Ricoprire con un’altra tegola e cuocere in forno a 210°C per 15 minuti.
Sopra al pane azzimo spalmare la spuma di cavolfiore, appoggiarvi sopra gli asparagi e infine i formaggini.
tite di 25 g di peso, mettere ad asciugare
Spiegazione
sott’olio e servirli a partire dal giorno do-
pura. Il pane con amaranto e senza gluti-
nell’essiccatore a 40°C per 4 ore. Metterli po. Con un matterello tirare a 2 centimetri
di spessore l’argilla, tagliare dei quadrati di 20 centimetri di lato, stampare sopra a ogni “tegola” una foglia verza. Farla asciu-
gare per 2 giorni in un luogo arieggiato.
L’idea è evoluta nel tempo diventando più ne, il formaggio è oggi vegano e crudista
come pure la crema di cavolfiore. L’ospite gode del veder arrivare in tavola questa
bellissima tegola che poi viene svelata con maestria dalle persone del servizio.
© Giovanni Panarotto
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LA SCELTA VEGANA
© Giovanni Panarotto
modo di vedere il cibo si è trasformato negli anni. L’importante per me è riconoscere ciò e non mangiare un cibo, per esempio, alla moda, o solo perché lo fanno gli altri; per me è importante cercare di capire ed individuare chi siamo noi e quindi quale cibo esprimere e mangiare, partendo da noi stessi. Lei è sempre stato un essere introspettivo e spirituale e ciò si fonde perfettamente con l’ambiente della cucina del Joia e con i suoi collaboratori. Nella prima parte della sua carriera, come riusciva a far coesistere questa sua personalità pacifica ed introspettiva in cucine che spesso erano ambienti “maschi” e talvolta aggressivi? Un tempo la cucina veniva chiamata ed ancora oggi viene intesa come una “brigata” che di per sé è un termine militare,con un sistema di organizzazione militaresco, con tutto ciò che comporta. Quello che cerco di fare nella mia cucina è che sia una comunità, che è una cosa molto diversa. In entrambi i modi, si riesce a dare qualità.
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Una è data dall’impostazione militaresca, da un rigore, dal fatto che tutti ripetono in un certo modo certe azioni. Nella comunità invece si tratta di un lavoro di gruppo, dove ognuno porta un contributo per la riuscita del risultato: questa è la grande differenza su cui punto molto. Il menu del Joia è all’80% vegan. C’è un motivo particolare per cui mantiene l’utilizzo di latticini nella sua cucina? Non sono vegano, ma sono vegetariano per vari motivi. Ad esempio i latticini, nella cultura che seguo, sono considerati un cibo sacro e quindi fa parte della mia dieta. Inoltre vengo dalla montagna ed in montagna la cultura del latte e del formaggio è decisamente presente e mi corrisponde molto. Al contempo, la tendenza della cucina al Joia è quella di essere sempre più leggera: e un vegetariano non mangia latticini tutti i giorni e a tutte le ore, quindi l’80% dei piatti è vegano ed il 20% non lo è. Questo è ciò che è in linea con me stesso al momento. Non necessariamente l’essere vegani è il punto di arrivo: il punto di arrivo è essere in equilibrio con noi stessi. Se noi costringessimo un eschimese ad essere vegano, combineremmo un disastro perché l’estrazione è completamente diversa. Non c’è un meglio o un peggio, non penso che chi mangia carne sia peggio di me, assolutamente, penso che ha fatto una scelta diversa. La mia speranza è che abbia scelto, perché ogni cosa ha senso se scelta, altrimenti si perde qualcosa. Ad ogni modo rispetto tutti, chiunque mangi con coscienza. Come vive Milano, la città del suo ristorante Joia, la cucina vegetariana? Quando ho aperto Joia eravamo 3 ristoranti vegetariani a Milano; ora ce ne saranno 100: una varietà gigantesca che mi fa piacere. Milano è diventata vegetarian friendly, nel senso che così come Milano è una città accogliente per gli stranieri o per gli omosessuali, per esempio, è una città molto aperta in generale e pronta
ad accogliere nuovi stimoli, perché il diverso arricchisce e questo è un presupposto per me molto importante e che mi piace molto di Milano. Ha mai pensato di aprire in qualche altra città d’Italia? Il Joia per come è costituito è irripetibile, è un ristorante gourmet con 16 cuochi, con un equilibrio proprio e con una scuola di cucina. Joia è un grande progetto lui stesso. Ho iniziato una collaborazione con l’Hotel Raphaël di Roma, che è diventato tutto vegetariano e dove la cucina del suo ristorante Mater Terrae è come al Joia, solo un pò più semplice, però è come al Joia. Il mio aprirmi ad altre città è per stimolare altri ristoranti a seguire ciò che conosco e la mia esperienza.
WILD
Composizione primaverile d’insalate e asparagi con i gusti intensi dei nuovi germogli e spuma soffice di aglio orsino INGREDIENTI per 4 persone
Sul fondo del piatto preparare delle sfere di
sesamo, g. 80 di erbe di campo pulite, g. 60
metri di altezza che dovranno essere disposti
g. 200 di asparagi bianchi, g. 20 di crema di di finocchi, g. 10 di succo di limone, g. 100 di aglio orsino, g. 40 di maizena, g. 100 di ceci,
g. 20 di fiori eduli, g. 40 di germogli di crescione, 2 rapanelli, g. 5 di maizena, g. 300 di latte di mandorla, sale. PREPARAZIONE
Mettere a bagno i ceci, cuocerli a pressione
per 20 minuti, sgocciolarli, frullarli e condirli con la crema di sesamo e sale.
Pelare gli asparagi e cuocerli in acqua bollente salata per 7 minuti. Tagliare i rapanelli a
Durante i corsi nella sua scuola “Joia Academy” cosa insegna ai futuri chef? Quale messaggio vuole trasmettere e quale consiglio più importante che dona a ciascuno dei suoi studenti? La Joia Academy nasce perché cucinare vegetariano non è facile e cucinare vegetariano-gourmet lo è ancora me-
fette sottili, pulire le erbe.
Frullare i finocchi e passarli al colino. Portare il loro succo a ebollizione, legarlo con la mai-
zena, condirlo con il succo di limone e l’olio d’oliva.
Pulire le foglie di aglio orsino, sbollentarle per 2 minuti in acqua bollente salata, raffreddarle in acqua e ghiaccio, strizzarle leggermente, frullarle e passarle al setaccio. Far bollire
ceci, infilzarvi gli asparagi tagliati a 5 centiin verticale. Giocare con le erbe infilzandole
nei ceci, guarnire con i germogli, i rapanelli, e i fiori per creare un giardino. Condire con la salsa di finocchio.
Spiegazione
Una zolla di terra in primavera ricoperta di fiori erbe e germogli. Mi piace molto andare
in campagna, raccogliere le erbe spontanee e portarle ai miei ospiti. Ne conosco circa
cinquanta ma se ne potrebbero mangiare molte di più in una gamma di
gusti almeno ricca come quel-
la dei famosi frutti dell’A-
mazzonia. Nel corso dei millenni abbiamo “ad-
domesticato” la natura
selezionando alcune piante e ingentilendone
il gusto, che allo stato selvatico è potente e energizzante.
il latte di mandorla e legarlo con la maizena disciolta in un goccio d’acqua, unire l’aglio orsino frullato e mettere in un sifone da mezzo litro caricando-
© Alessandro Arnaboldi
© Brambilla Serrani
lo con una bomboletta.
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LA SCELTA VEGANA
no. Al Joia, nel corso degli anni, abbiamo sviluppato tecniche che prima non esistevano, come ad esempio riuscire a preparare un biscotto genovese senza uova, una maionese fatta con il latte di mandorla, far fermentare e produrre formaggi con gli anacardi. Sono tutte tecniche che abbiamo sviluppato al Joia e quindi le insegniamo alla Joia Academy. Il consiglio che personalmente lascio ai colleghi cuochi è che se si vuole cucinare vegetariano, bisogna pensare vegetariano. Non deve essere un’imitazione del piatto con la carne, ma deve essere un piatto che parte con dei presupposti vegetariani, quindi non può essere l’hamburger di soia con le verdure attorno, ma deve essere un piatto che nasce come riflessione vegetariana. Il punto di partenza è proprio questo: la cucina vegetariana è fatta di verdure, che sono alla base di qualsiasi creazione. In Italia abbiamo un patrimonio immenso di cultura anche vegetariana proprio insito nella tradizione culinaria che è anche di verdure; siamo fortunatissimi, perché da nord a sud Italia esiste una gamma immensa e straordinaria di vegetali.
© Giovanni Panarotto
Come si pone nei confronti del suo successo, come lo vive? La cosa più gratificante è che ho avuto un sogno che poi ho realizzato. Il successo del Joia è molto appagante, perché era un’idea su cui, molti anni fa, nessuno avrebbe scommesso e difatti tutti mi dicevano “ma no, cosa vai a fare, è una cosa che non funzionerà mai”. Il successo è uno strumento utile per portare avanti il mio pensiero e far sì che le persone si avvicinino ad una cucina più vegetariana, ma anche più sana. Questo sarà il futuro, che succederà a breve ed in realtà sta già avvenendo: la cucina sarà sempre più sana, più amica del pianeta, più coerente con le persone che la mangiano. Questo è il messaggio che più mi preme diffondere.
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Ci può svelare se sta lavorando ad un progetto in particolare? Ho sempre tanti progetti: uno di questi è il concorso “The vegetarian chance”, dove cuochi da tutto il mondo si sfidano cucinando piatti vegetariani. Quest’anno si svolgerà il 12 e 13 maggio alla Fabbrica del Vapore a Milano. Un altro mio grande sogno - a cui ho iniziato a lavorare da poco - è fare un libro enciclopedico sulle basi della cucina vegetariana. Sarà un coronamento della mia carriera, perché non c’è ad oggi un compendio dove si parli dalle attrezzature alle conservazioni, ma anche alle fermentazioni, alla pasticceria senza uova, alla pasta senza glutine e anche all’aspetto nutrizionale degli alimenti, etc… È un lavoro ampio ed articolato, ma lo porterò a termine. Quando è a casa con la sua famiglia cosa le piace cucinare, quali sono i cibi che predilige? Mi piace offrire alle mie figlie cibi che a loro piacciono e che sono legati a quello che abbiamo vissuto tutti gli anni che siamo stati assieme, perché mia figlia più grande ha 22 anni e la seconda ne ha 18. Ovviamente eseguo una cucina un pò più semplice, ad esempio la settimana scorsa ho cucinato dei maccheroni di Kamut con dei broccoletti biologici ed una salsa di tartufo, la settimana prima invece ho cucinato una pasta di riso con verdure arrostite allo zenzero e con tofu affumicato all’interno. Nel primo caso era un qualcosa di tipicamente italiano e nel secondo qualcosa di molto orientale, ma le mie figlie sono aperte a culture diverse e sono molto sensibili al buono che rimane sempre il filo conduttore di tutto.
Anche le sue figlie sono vegetariane? No, non sono vegetariane, seppur tendenzialmente vegetariane. Molti giovani oggi stanno cambiando la loro alimentazione e quindi sono molto sensibili ai temi ambientali che poi li orientano nelle scelte. Se un giorno le sue figlie le esprimessero il desiderio di seguire le sue orme, ne sarebbe felice? In quale modo le aiuterebbe? Mi piacerebbe molto e sicuramente sarebbe più facile per loro rispetto a come è stato per me. Innanzitutto direi loro di farsi una cultura, perché è ciò su cui basare la propria vita, dopodiché le spronerei ad avvicinarsi al mondo della cucina andando ad imparare nei migliori ristoranti ed in questo potrei aiutarle avendo tutti i contatti per poterle indirizzare al meglio. Nel 1996 il Joia è il primo ristorante vegetariano d’Europa a ricevere la stella Michelin. Come si pone oggi Leemann nei confronti di tutti i critici e le guide gastronomiche? Prendere la stella nel 1996 è stato un grande onore, così come lo è essere seguito negli anni da tutte le guide. Sicuramente la critica gastronomica ha una sua logica che non necessariamente rispecchia la mia, ma se i parametri delle guide sono diversi dai miei, non posso obbligarle ad adattarsi al mio pensiero. Ciò che ho notato con grande piacere è che ognuno di loro si è aperto alla cucina che cambia, non sono rimasti fermi a come era la cucina trent’anni fa, ma hanno seguito la sua evoluzione. Per questo motivo sono convinto che sempre più i ristoranti non solo vegetariani, anche cinesi, giapponesi, indiani di qualità, entreranno a far parte di queste guide, perché è proprio un cambia-
mento culturale che sta avvenendo in tutto il mondo della critica gastronomica. Ci sono chef di oggi che ammira in particolar modo? Sì, ce ne sono diversi che sono a n c he car i am ici ed alcuni di loro sono allievi di Gualtiero Marchesi, come ad esempio Enrico Crippa, Paolo Lopriore, Carlo Cracco, Davide Oldani sono persone con le quali facciamo cose e siamo vicini come affinità e pensiero verso la cucina. Ce ne sono anche altri “non-marchesiani”: mi piace molto Davide Scabin, Massimo Bottura, Pino Cuttaia (servizi nelle prossime pagine, ndr). Ci sono cuochi che, a prescindere, stimo moltissimo e ciò che trovo molto bello nel panorama italiano - nel quale la qualità è cresciuta tantissimo - è che ci sono cuochi molto diversi tra loro e che hanno espressioni di cucina molto diverse. Un pò come nel mondo del vino e anche del cibo, che sono molto diversi tra le varie regioni d’Italia. La stessa cosa succede nei cuochi. Per me questo è un segno di qualità. La qualità, per me, non è uniformità, ma è la diversità tra le espressioni. Qualcosa che non le ho chiesto, ma che le piacerebbe far sapere ai lettori de La Madia Travelfood. È importantissimo salvaguardare l’artigianalità della cucina senza scendere a compromessi. Sono in opposizione decisa - e lo manifesto anche spesso - alle vie facili: mi op-
© Giovanni Panarotto
pongo ai semilavorati che in tanti comprano e che poi rendono la cucina tutta uguale, come pure non approvo la presenza di sostanze chimiche e di facilitatori in cucina. Per me la cucina è fatta di ingredienti che si comprano e poi si trasformano proprio come faceva Angelo Conti Rossini. Gli ingredienti si trasformano con maestria ed è la maestria il succo della qualità. Gli alginati comprati chissà dove o i coloranti non sono affatto simbolo di qualità. Ciò che auspico, quindi, è che si continui ad essere artigiani della cucina.
RISTORANTE JOIA
Via Panfilo Castaldi, 18 - 20124 Milano Tel. 02 29522124
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IL MENU ENGINEERING
a cura di
Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop
COSA SUCCEDE QUANDO SI TOLGONO TANTI PIATTI DAL MENÙ? Togliere TANTI piatti dal menù. Uno scenario che spaventa un ristoratore quanto l’idea di chiudersi in un luogo stretto e chiuso spaventa un claustrofobico. Tuttavia, è un passaggio necessario per realizzare un menù ingegnerizzato e per fornire un’esperienza migliore alla propria clientela. Purtroppo dobbiamo convincerci che alcuni piatti vanno eliminati. Le ragioni del perché vadano eliminate sono molteplici: 1. Perché non vengono venduti. La non popolarità di un piatto indica che la clientela non lo gradisce. E pertanto: perché tenerlo sul menù? 2. Perché poco profittevoli: è davvero conveniente mantenere un piatto all’interno della propria carta nonostante non faccia guadagnare il necessario? 3. Perché complicano il servizio in sala e in cucina, generando tensioni e malumori tra lo staff; 4. Perché non sono coerenti con la propria Identità Differenziante e quindi confondono la clientela 5. E via discorrendo. Chi scrive potrebbe continuare per giorni ad elencare le ragioni per le quali alcuni piatti vadano eliminati dal menù. Le ragioni per togliere (o no) un piatto dal menù sono potenzialmente infinite. L’obiezione più frequente di fronte a questa affermazione è questa: «Togliere dei piatti? Ma ho dei clienti che vengono solo per quelli!» Posto che non è detto che sia vero che alcuni clienti vengano solo per quei piatti, quella posta è un’obiezione più che legittima. Non c’è nulla di strano ad avere paura a togliere dei piatti dal menù. Perché è proprio vero: se si tolgono i piatti sbagliati, alcuni clienti smetteranno di venire proprio per colpa di quella scelta. E quindi è normalissimo avere paura di togliere alcuni piatti dal menù. Ma quelli sbagliati. Invece, se togli i piatti “giusti” – cioè quelli che rispecchiano le definizioni date poco più sopra in questo articolo – non succederà... niente. Esatto: niente. La clientela non se ne accorgerà nemmeno. È bene ribadirlo: chi scrive non ne parla per sentito dire, ne parla
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perché è proprio quello che accade tutte le volte che DIMEZZA la composizione di menù, su e giù per l’Italia. Tanta paura, tanta ansia di prestazione, tanti interrogativi… E poi i clienti nemmeno se ne accorgono. Visto e rivisto. E anzi, mi si permetta di scrivere tutta la verità. Non è vero che non succederà niente. Accadrà qualcosa. Accadranno tre benefici in particolare.
I TRE BENEFICI IMMEDIATI CHE AVRAI TOGLIENDO TANTI PIATTI DAL TUO MENÙ Infatti… 1) Accadrà, come per magia, che il servizio in cucina diventerà più fluido e meno caotico. Come stupirsene? Meno piatti sul menù significa meno preparazioni, meno piatti da servire, meno padelle sui fuochi, meno incomprensioni in comanda, meno probabilità d’errore e via discorrendo. Un beneficio non proprio da poco, vista l’eterna riconoscenza che avrà lo staff verso la proprietà del locale. 2) Accadrà, sempre come per magia, che il personale di sala saprà esattamente cosa consigliare alla clientela. Come stupirsene? Meno piatti sul menù significa meno possibilità di scelta, quindi meno possibilità che i camerieri (così come i clienti) soffrano di paralisi da opzioni. Scelte più immediate, meno cervellotiche e più lineari, per una clientela più soddisfatta e il personale di sala più rilassato e meno ansioso. 3) Accadrà infine che il cassetto si riempirà, e nessuno si spiegherà il perché. Ma il perché è presto detto: meno piatti sul menù significa conto acquisti più leggero, significa meno scarti, significa meno merce avariata e più forza contrattuale sugli acquisti che farai in grosse quantità su pochi, selezionati, prodotti. Togliere i piatti giusti dal menù è come fare una buona azione: non ha controindicazioni. E il consiglio è di farlo, seguendo i dettami dell’ingegneria del menù, il più possibile!
chisseneF a cura di
D
Cristiano Giliberti The Foodie Fighter thefoodiefighter.wordpress.com
IL DIAVOLO MANGIA PIADA. GOURMET. Non so se ce l’avete presente, il film. C’è quel momento in cui la protagonista, la povera Andy, colpevole di indossare sul lavoro un abbigliamento non intonato all’ambiente in cui si muove, viene letteralmente brutalizzata dalla crudele Miranda Priestly, che le spiega a modo suo come in realtà quel suo maglioncino azzurro (“ceruleo”, per la Mirandesca precisione) non sia altro che l’espressione a cascata di un mondo che muove milioni di dollaroni e di posti di lavoro, selezionato da persone come quelle che in quella stessa stanza si sdilinquiscono sulla diversità di due cinture apparentemente identiche eppure “così talmente diverse” da far sghignazzare la malcapitata stagista, mandando su tutte le furie la novella Crudelia de Streep. Ecco, io in genere arrivato a quella scena cambio canale, perchè è esattamente il punto in cui la povera bruttacopia di Anne Hathaway vista fino a quel momento, cede di schianto al Demonio e si trasforma in superpatata alla stramoda, facendo prendere finalmente vita alla vicenda. In realtà quello è il momento esatto in cui – nel mio film ideale - anzichè piagnucolare e arrendersi al Lato Oscuro del fashion, spero sempre che la upcoming stragnocca si rivolti verso il puttanone tricoalbino di firme vestito, vomitandole in faccia che a lei non gliene frega un bel niente di quel mondo fatto di fuffa, gonfiato ad elio, che si regge principalmente sulla creazione di necessità inesistenti e sullo sfruttamento di manodopera sottopagata nei paesi più miseri del mondo, retto da un’oligarchia di ego drogati di se stessi. Nel “mio” film Andy gira sui tacchi, se ne va alzando il dito medio; fine del film, titoli di coda. Capisco, far finire un film dopo poco più di mezz’ora di narrazione non è il massimo, infatti per fortuna non scrivo soggetti per il cinema, né tantomeno faccio il regista ma mi è capitato, talvolta,
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di rileggere la stessa paradossale situazione nel mondo del food, popolato negli ultimi anni sempre più da personaggi di sedicente alto profilo, intoccabili soloni e venerabili maestri del karaoke collettivo in cui per uno che canta sul palco la solita – autocelebrativa - canzoncina già sentita mille volte, ce ne sono altri 100 in platea ad applaudire in attesa di salire su quello stesso palco a fare la stessa cosa. Il comparto della ristorazione in Italia – a sentir dire loro – muove un giro di denaro considerevole e impegna un altrettanto considerevole numero di addetti al modico prezzo di stagisti paganti per lavorare, straordinari non retribuiti e “non ve lo ha ordinato il dottore, di fare questo lavoro”, al fianco di un carrozzone mediatico fatto di presenze televisive, onnipresenti chef a cinquanta pollici e una pletora di web magazine (non chiamateli blog, non lo sono) più o meno frequentati, ricchi di lanci quotidiani e poveri di sostanza, il cui obiettivo principale è quello di raccogliere clic da sventolare in faccia ai potenziali inserzionisti. Rewind. Play. Di scrivere di questo mondo, delle mie esperienze a tavola, nelle cucine o al fianco di chef più o meno quotati lo faccio per divertimento, ma lo faccio ormai da abbastanza tempo da potermi permettere, ogni tanto, di averne le palle piene. Piene di quei personaggi che mi fanno somigliare sempre più l’ambiente della ristorazione a quello della moda narrato nel film, popolato dalla medesima gamma di primedonne e comprimari, nani e ballerine, comportamenti al limite, ripicche e vendette trasversali. Lungi da me, per ora, l’idea di dargliela su, ma solo una considerazione su quanto fosse più leggero questo ambiente soltanto non più tanto lontano di dieci anni fa. No, non me ne vado, ma il mio dito medio è sempre mezzo alzato e purtroppo, negli stivali di vernice di Prada, non ci entrerei nemmeno se volessi.
Gala teo ASSAGGI DI
a cura di
Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico
SI FA PRESTO A DIRE CUCCHIAIO, COLTELLO E FORCHETTA Fino a qualche secolo fa la forchetta era da evitare come il demonio, il coltello era impiegato solo come arma o per preparare alcuni alimenti ed il cucchiaio era uno dei pochi utensili presenti in tavola. Lo strumento più antico utilizzato per cibarsi e raccogliere fu, senza dubbio, proprio il cucchiaio. Non a caso il suo nome deriva dal greco Kochliarion (Kochlos – conchiglia) per via del fatto che proveniva da alcuni elementi della natura come le conchiglie marine. Si può considerare una delle posate più antiche perché, fin dall’avvento della cultura della tavola, il cucchiaio si trovava “posato” su di essa. Quello di legno, per un lungo periodo, soprattutto nel medioevo, è stato considerato l’utensile dei poveri, perché utilizzato quasi esclusivamente per mangiare zuppe di scarso valore economico e nutritivo. Da tale condizione nacque la necessità dei nobili di contraddistinguersi iniziando a fabbricare cucchiai in svariati materiali, considerati più pregiati, come metalli e pietre preziose. Nella sua evoluzione, il cucchiaio si è declinato in diverse forme:
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il cucchiaio grande (1) utilizzato per le zuppe e minestre, il cucchiaio piccolo (4) per antipasti e dessert, il cucchiaio da pesce (10) per preparazione che prevedono ingredienti ittici ed il cucchiaio gourmet (11), ormai quasi scomparso, di forma piatta, usato al posto del coltello in caso di preparazioni tenere, da tagliare, e con molta salsa. Fra i cucchiai di piccole dimensioni: il cucchiaino da long drink (13), il cucchiaino a paletta per il gelato (14) ed il cucchiaino classico da tè (15) e più piccolo da caffè (16). Il cucchiaio va posizionato alla destra del piatto o della tazza nel caso di quello da tè o da caffè, nella parte superiore del piatto, di fianco i bicchieri, è possibile trovare il cucchiaino da dessert. Il coltello è nato invece per esigenze differenti. Esso, infatti, era utilizzato per cacciare e per difendersi; era impiegato in cucina per preparare vari cibi, come grandi tagli di carne che venivano sporzionati in piccole parti da un servitore, prima di essere portate ai commensali. In tal modo non vi era la necessità di adottare un coltello in tavola. Anche ai tempi dei romani un servo addetto, il trinciatore, si occupava di tagliare il cibo con una lama, in
ASSAGGIDIGALATEO
modo che i nobili lo potessero mangiare con le mani. Quello del trinciatore era considerato un ruolo molto importane e infatti, per svariati secoli, si è portata avanti la tradizione con la figura dello chef trancheur nelle brigate di cucina. Nel medioevo ogni uomo possedeva il proprio coltello personale. Per tale motivo, fino alla fine di questa epoca, non era una posata che avremmo trovato così facilmente in tavola. Dal rinascimento diventa di uso domestico, di pari passo con la forchetta che in parte lo sostituì. Un’evoluzione che avvenne anche per questioni di galateo. Il coltello personale era sempre visto anche come un’arma, dunque nel momento conviviale iniziò ad essere sostituito con delle lame dalla punta arrotondata, già presenti in Inghilterra a inizio del ‘600. A tal proposito un decreto reale di Luigi XIV, del 1669, bandì dalla tavola e dalle strade francesi i coltelli a punta, ritenuti illegali. Nell’arte della tavola odierna possiamo menzionare il coltello grande (3) e quello piccolo (6) da dessert e frutta, il coltello da pesce (9) non affilato e con un’inclinazione a paletta per sfilettare e separare le fibre tenere della carne, il coltello da bistecca (12) più affilato e appuntito ed in fine il coltello da burro (7) che troveremo posizionato sul piattino da pane. Quella della forchetta è una storia più complessa, controversa e curiosa. Sappiamo che i romani nobili ne facevano uso, ma con la fine dell’impero e la giunta dei barbari, scomparve dalle tavole. Durante il medioevo tale strumento fu associato al demonio e fu bandito dalla chiesa, ma nello stesso periodo per i Bizantini l’uso della forchetta era comune fra i nobili. San Pier Damiani, nella sua opera “De Institutione monialis”, lanciò le sue invettive contro Teodora, moglie del doge Domenico Selvo, che introdusse a Venezia l’uso di forchettine d’oro a 2 o 3 rebbi. Due anni dopo questo scandalo Teodora morì, presu-
mibilmente di peste e San Pier Damiani la considerò una giusta punizione divina per tali peccati. Bisogna superare quasi tutto il periodo buio medievale per riveder comparire la forchetta. Questa fu riconsiderata nel periodo rinascimentale, durante il quale si diffuse con molta lentezza, in tutta Europa, grazie anche a Caterina de’ Medici, che nella prima metà del ‘500 la esportò dall’Italia in Francia. La forchetta era malvista, perché strumento di eccessiva stravaganza, anche da alcuni re, come il Re Sole, che preferiva mangiare ancora con le mani. Iniziò ad usarla solo quando si trasferì presso la reggia di Versailles. Fino circa al 1700, trovare una sola forchetta in un monastero o in un convento, sarebbe stato un compito arduo. Sempre in questo secolo fu ideata la forchetta a 4 rebbi, simile a quella odierna, ad opera di un ciambellano del re Ferdinando IV di Borbone. Samuel W. Francis verso la fine del 1800, in America, volle unire la forchetta (fork) ed il cucchiaio (spoon) in un unico utensile che prese il nome di Spork, ma non ebbe grande successo commerciale a causa, forse, della sua scomodità. Nei tempi moderni si sono sviluppate diverse tipologie di forchette: quella grande (2) e quella piccola (5) da frutta e dessert (18), la forchetta da pesce (8) con la sua tipica forma, la forchettina da ostriche (17), la forchetta da lumache a due rebbi allungati (19) e la curiosa forchetta da crostacei (20) per estrarre la polpa di tali animali dalle loro chele. Queste ultime tre forchette si posizionano alla destra del piatto, perché vengono utilizzate con la mano destra, mentre con la mano sinistra si tiene ferma l’ostrica, il crostaceo o la lumaca con l’apposita pinza. Per le altre tipologie di forchette, la posizione a destra del coperto avviene solo nel caso in cui sarà servita un’unica portata che si mangia esclusivamente con essa.
GOLAVAGANDO
OLTRE IL TEMPO IL PIATTO DI APRILE DEL RISTORANTE
CHIOSCO DI BACCO CHEF CRISTIAN SEMPRINI E DANIELA BALDUCCI
INGREDIENTI per 4 persone
Ingredienti per il ripieno: g. 80 di patanegra 100% iberico, g. 80 di mortadella,
g. 70 di salsiccia, 1 uovo, g. 40 di parmigiano grattato.
Per il caviale all’aceto balsamico: g. 50 di acqua, g. 50 di aceto balsamico, g. 3 di agar agar, olio di semi q.b.
Per la crema al parmigiano: g. 7 di burro, g. 7 di farina, g. 50 parmigiano reggiano vacche rosse, g. 200 di latte.
Per la pasta all’uovo: g. 100 di farina,
1 uovo, 1 cucchiaio d’olio, 1 pizzico di sale.
PREPARAZIONE
Per la pasta all’uovo: impastare la farina
con l’uovo, l’olio e il sale. Una volta finito, mettere in un sacchetto sottovuoto e fare riposare per mezz’ora in frigorifero.
Per il ripieno: passare al tritacarne il pa-
tanegra e la mortadella; intanto cuocere la salsiccia in padella con un filo d’olio.
Una volta cotta, mettere in un contenito-
re e impastare assieme al patanegra, la mortadella e l’uovo.
Per il caviale: versare in un pentolino l’aceto, l’acqua e l’agar agar; portare a
bollore. Versare in un biberon da cucina e formare delle gocce nell’olio di semi,
possibilmente freddo, e formare il caviale
da raccogliere con un passino; lavare in acqua.
FINITURA
Stendere la pasta sfoglia e ricavare dei CHIOSCO DI BACCO
cerchi del diametro di 7 centimetri; di-
47825 Poggio Torriana (RN)
cappellacci. Una volta chiusi, cuocere la
Via Santarcangiolese, 62 Tel. 0541 678342
www.chioscodibacco.it
sporre al centro il ripieno e formare i
pasta e saltare in padella con una noce di burro.
IMPIATTAMENTO
Colare al centro del piatto la crema al
parmigiano, disporre i cappellacci e infine sistemare il caviale al balsamico.
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GOLAVAGANDO
EAT DRINK INNOVATE TOGETHER
EDIT
IL NUOVO SPAZIO A TORINO DOVE VIVERE IL GUSTO DELLA CONDIVISIONE Ha aperto a Torino EDIT, un luogo polifunzionale e un format all’avanguardia che ha sede nel cuore di una zona simbolo di riqualificazione urbana che comprende parchi, fondazione museali, studi di architettura, di design e gallerie d’arte. Il progetto ha alla base il tentativo di applicare al settore del food & beverage i più innovativi trend contemporanei, il co-working e la sharing economy, in un format capace di proporre un’esperienza interattiva a 360 gradi all’interno di uno spazio su due piani per una superficie complessiva di 2400 mq, aperto al pubblico 7 giorni su 7 dalle ore 7:00 alle 2:00. Dal pub collocato a fianco del birrificio, caratterizzato da 19 spine e un unico grande tavolo comune da 50
EDIT
Via Francesco Cigna, 96/17 10155 Torino
Tel. 011 19329700 www.edit-to.com info@edit-to.com
coperti, al ristorante al piano superiore con cucina a vista e un lungo bancone che le corre intorno, fino alla vera e propria condivisione degli spazi di EDIT. La Bakery, infatti, offre soluzioni per piccole riunioni di lavoro mentre al piano superiore si trovano 4 “cucine condivise”: spazi con attrezzature professionali pensati sia come supporto concreto a start up di piccole società di catering, sia come servizi a disposizione di eventi aziendali per show cooking, team building, ecc. I nomi dei curatori delle varie aree sono sinonimo di eccellenza: Pietro Leemann e Renato Bosco daranno la propria impronta alla Bakery e al Pub, i Costardi Bros. cureranno il Ristorante con la consueta creatività, i mastri birrai incarneranno al meglio
I NUMERI
GOLAVAGANDO
2400 i metri quadri sviluppati su due piani 55 gli addetti dei differenti spazi 7 i giorni di apertura 7:00 – 2:00 l’orario di apertura 25 i metri di bancone nel pub 19 le spine della birra 80 le referenze birra tra lattine e bottiglie 888 le referenze del cocktail bar 380 i posti a sedere 6000 i led che compongono l’installazione luminosa 80 x 13 lunghezza e larghezza del locale 4 le cucine 1 la Sala per show Cooking e eventi 20 i cuochi
lo spirito di condivisione della Brewery e i Barz8 – i fuoriclasse della “mixology” Salvatore Romano e Luigi Iula – animeranno il Cocktail Bar.
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GOURMETFOOD
NIKOROMITO|NORBERTNIEDERKOFLER|MASSIMOBOTTURA|DAVIDESCABIN
GIANFRANCOVISSANI|EMANUELESCARELLO|PIETROLEEMANN|HEINZBECK|ANDREAAPREA
NON CERTO TUTTI, MA SICURAMENTE ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTI TESTIMONIAL DELLA CUCINA DI OGGI
Biografie, racconti, interviste, ricette 27
© Daniel Töchterle
GOURMETFOOD
NORBERT NIEDERKOFLER UNA CUCINA FORTEMENTE IDENTITARIA IN ARMONIA CON LA GRANDEZZA ECOLOGICA DELLA MONTAGNA
di
Giulia Gavagnin
Lo chiamano tutti soltanto “Norbert” perché il suo cognome è quasi impronunciabile. Ha l’aspetto di un professore saggio, indurito un poco dall’accento teutonico che gli conferisce un tocco di severità solo apparente. Sì, perché se chiudi gli occhi, lo immagini alla maniera di un eroe romantico: su una rupe, solo, stupito e ammirato dalla grandezza delle “sue” montagne, le Dolomiti della Val Badia. E’ consapevole di essere come un lillipuziano davanti a Gulliver, l’ha capito dopo aver viaggiato in ogni parte del mondo che l’uomo è nulla dinanzi alle forze della Natura, che se non rispetti la Natura, lei non rispetta te, ti schiaccia e tu cessi di essere un Uomo degno di questo nome. Nel manifesto programmatico di “Cook the Mountain” - il progetto che gli ha valso nientemeno che il terzo macaron sulla casacca - dice di sé: “Sono un individuo. Come lo sei tu. Ho le mie forze e le mie debolezze. Come le hanno tutti. Cerco di essere genuino ma non sempre ci riesco. E tu? Ma quan-
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NORBERTNIEDERKOFLER
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© Alex Filz
do riesco a far sentire alle persone il profumo e i sapori familiari della mia terra, sono semplicemente felice”. Umile come una formica laboriosa contro un gigante di granito, Norbert è grato alle sue vette imperiose perché avverte il sublime insito nella loro grandezza e nelle infinite sfumature dei prodotti che generosamente dispensano attraverso il duro lavoro dei contadini. Per questo al St. Hubertus di San Cassiano - quest’anno premiato appunto dalla Michelin con il massimo riconoscimento - da tempo ha smesso di utilizzare ingredienti “da ristorante stellato”. Ha accantonato foie gras, caviale, pesci di mare e più recentemente anche gli agrumi, di improbabile coltivazione nel suolo dolomitico.
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GOURMETFOOD
“Se mi serve l’acido, lo cerco altrove”, dice. Ha persino sostituito l’olio d’oliva con l’olio di vinacciolo, che aromatizza in casa con aneto, verbena, basilico. Lavora a contatto con contadini di monte e di valle che gli mettono a disposizione trecento tipologie di verdure ed erbette, venticinque tipi di carote, centinaia di erbe alpine, foglie di amaranto, cipolle selvatiche ecc. Per non parlare dell’utilizzo di fieno, pigne, pinoli, Graukase (“il formaggio più magro del mondo”), resina di pino mugo, selvaggina, pesci d’acqua dolce. La sua è ormai una cucina dalle cento sfumature, di grigio della montagna e di verde della valle: del terroir che interseca visione, passione e tradizione. Quasi una Trinità.
CUCINARE LA MONTAGNA E’ visione l’immedesimazione con le peculiarità di un territorio, l’estrazione dei suoi sentori più reconditi che genera creazioni uniche. “Provate a cercare su google “fonduta di betulla”: troverete solo il mio carpaccio di vitello da latte, tuberi e, sì, proprio fonduta di betulla con erbette. Il mio obiettivo è creare piatti delicati e inconfondibili dal ricchissimo tesoro che ci offre la natura altoatesina ”. Tradizione è il ricordo di casa, della mamma che preparava per i cinque
NORBERTNIEDERKOFLER
SANDWICH DI TESTINA senape della Val Venosta INGREDIENTI per 4 persone
gillare. Cuocere in forno a vapore a 100°C
lino tagliata a metà, 1 carota pelata, 1 co-
parti di carne. Mantecare con brunoise di
Per la testina di maialino: 1 testa di maiasta di sedano verde pulita, g. 60 di burro
fuso, 1 cucchiaio di senape, olio di vinacciolo, sale, pepe.
Per la crema di senape: g. 50 di senape della Val Venosta, ml. 20 di panna.
Per il centrifugato di cetriolo: 4 cetrioli, 4 bacche di ginepro.
Per la guarnizione: erbe di montagna. PREPARAZIONE
Per la testina di maialino: inserire ogni
figli il Kaiserchamrr’n con la confettura di mirtillo rosso. “Il mirtillo rosso è la mia infanzia, un profumo persistente dei miei ricordi, un sapore lontano e antico. Lo utilizzo molto spesso, nel menu attuale lo trovate fermentato con la lingua di vitello, ma l’abbinamento con la carne di cervo è il più tradizionale”. La passione è l’inconsueto, è ciò che non ti aspetti. “Una volta ho preparato un orzotto, arricchito con erbe di montagna. La lingua ne ha percepito il bouquet vigoroso e intenso ma mancava qualcosa che rinfrescasse le papille ad ogni boccone, qualcosa di piacevole e un po’ sfacciato: la verbena odorosa. Un’erba inconsueta, dalle foglie sottili, che si comporta con il risotto come io mi comporto con la vita”.
mezza testina in una busta sottovuoto; si-
per 4 ore. Staccare accuratamente tutte le sedano e carota, burro e aromi.
Inserire in uno stampo da plumcake e conservare 6 ore in frigorifero. Porzionare e rosolare in una padella antiaderente, leggermente unta.
Per la crema di senape: versare la senape in una bowle e aggiungere a filo la panna
sbattendo con una frusta fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo.
Per il centrifugato di cetriolo: pelare e centrifugare i cetrioli. Tostare le bacche di ginepro in padella, tritarle e aggiungerle al centrifugato.
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UN LUNGO PERCORSO Il sentiero verso questa identità inconfondibile è stato lungo. Niederkofler arriva al St. Hubertus nel 1993, dopo un intenso nomadismo. “Ho frequentato la scuola alberghiera per poter viaggiare. Sono nato in Val Lurina, un posto bellissimo, ma che a un giovane sta stretto, per forza di cose. Allora ho deciso che avrei lavorato come cuoco per sei mesi l’anno e scoperto il mondo per gli altri sei, con quello che avrei guadagnato. Nel frattempo ho avuto grandi maestri, su tutti Eckart Witzigmann a Monaco e David Bouley a New York”. Nel 1993 arriva la chiamata della famiglia Pizzinini, che vuole rendere più moderna la ristorazione dell’hotel di sua proprietà, il Rosa Alpina di San Cassiano. “Sarei dovuto rimanere lì solo sei mesi, ma la storia oggi è un’altra, come si può vedere. Il ristorante all’inizio era anche pizzeria, con ingressi separati per gli sciatori. Le cose sono cambiate poco alla volta, fino alla seconda stella. Da allora ho capito che per essere diverso dagli altri avrei dovuto seguire una strada totalmente personale: quella della mia identità, indissolubilmente legata al territorio in cui sono nato e vissuto”. Tra i piatti più significativi del percorso totalmente “autoctono” di Niederkofler troviamo gli gnocchi di rapa rossa, con briciole di pane al carbone vegetale, birra fredda, rafano e daikon e “c’era una volta una trota”, dove la carne è servita in tartare senza sale, la pelle del pesce è essicata e fritta a parte e con le lische e le teste viene preparata una salsa beurre blanc. Esempi di cucina identitaria, ma anche senza sprechi, che è il mantra dello chef e dei suoi progetti etico-sociali.
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ORTO DI LUMACHE INGREDIENTI per 4 persone
g. 100 di acqua frizzante, ghiaccio, salvia,
bollire per 1 ora, raffreddare. Sgusciare le
spurgare, rosmarino, timo, alloro, crusca.
dragoncello, olio per figgere, sale.
per ripulirle dai residui di intestino; sciac-
Per le lumache: 20 lumache fresche da
melissa, verbena, millefoglie, menta, shiso,
Per la cottura delle lumache: g. 30 di
Per le fragole verdi sottaceto: g. 250 di
a brunoise, 4 spicchi d’aglio in camicia,
miele, 1 scalogno pelato, 1 foglia di allo-
scalogno a brunoise, g. 50 di sedano rapa
g. 30 di timo, g. 30 di rosmarino, g. 100
di burro, ml. 30 di vino bianco secco, l. 1 di fondo di pollo, alloro, foglie di sedano,
fragole verdi, ml. 200 di acqua, g. 30 di
ro, 5 bacche di ginepro, g. 150 di aceto di mele.
sale, pepe, amido di mais.
PREPARAZIONE
Per l’acqua di prezzemolo: g. 200 di
mache in una cesta con le erbe aromatiche
prezzemolo, l. 2 di acqua, sale.
Per la pastinaca: 2 pastinaca, g. 20 di scalogno tritato, olio di vinacciolo, fondo vegetale, ml. 200 di panna fresca, ml. 50 di latte fresco, sale, pepe.
Per la tempura: g. 200 di farina di riso,
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Per spurgare le lumache: adagiare le lu-
e la crusca (solo dopo 10 giorni l’intestino delle lumache si sarà ripulito dalla terra si potrà procedere a cucinarle).
Per cuocere le lumache: adagiare le lu-
mache in una pentola con abbondante
acqua fredda e portare ad ebollizione. Aggiungere le erbe aromatiche e lasciar sob-
lumache e strofinarle nell’amido di mais quare sotto acqua corrente. Tritare le erbe e soffriggerle nel burro insieme all’aglio
e alla brunoise. Aggiungere le lumache,,
sfumare con il vino bianco, lasciar evaporare. Aggiungere il fondo di pollo e lasciar sobbollire per 10 minuti. Aggiustare di
sapore. Separare le lumache dal fondo e
frullare quest’ultimo, filtrarlo e legarlo con amido di mais fino a renderlo cremoso. Riunirvi le lumache.
Per l’acqua di prezzemolo: sbollentare il prezzemolo 5 minuti, separarlo dal liquido,
conservando entrambi, raffreddare in ac-
qua e ghiaccio. Frullare il prezzemolo nel Thermomix a massima velocità aggiungendo poco alla volta l’infuso, fino alla giusta consistenza. Filtrare all’etamine.
NORBERTNIEDERKOFLER
Per la pastinaca: pelare la pastinaca e tagliarla a mirepoix. Soffriggere lo scalo-
gno nel burro ed aggiungervi la pastinaca. Aggiungere il liquidi e lasciar sobbollirre 1
ora. Frullare al Thermomix ottenendo una crema liscia ed omogenea. Aggiustare di sapore.
Per la tempura: creare la pastella, intingervi le erbe aromatiche e friggere fino a doratura, poi salare.
Per le fragole verdi sottaceto: portare ad ebollizione i liquidi con gli aromi. Inserire le fragole nel vaso e versarvi sopra
il liquido, una volta tiepido. Chiudere e
pastorizzare 15 minuti a 90ÂşC. Frullare e aggiungere alla tempura.
Š Daniel TÜchterle
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© Daniel Töchterle
GOURMETFOOD
COOK THE MOUNTAIN E CARE’S Cook the Mountain è un progetto globale che coinvolge allevatori, agricoltori, alpinisti, sociologi e ovviamente chef, i quali, ognuno per il proprio ambito di competenza, si dedica alla valorizzazione dei sapori di montagna valorizzandone la stagionalità, le filiere, il territorio. E’ stato presentato a Expo 2015 ma è in continua evoluzione. “Ho 57 anni, un figlio di otto anni al quale voglio lasciare qualcosa di bello. Viviamo in un territorio unico, ricco di ecosistemi e culture. E’ nostro dovere non sprecare le risorse naturali e non dimenticare cos’hanno fatto i nostri nonni e bisnonni per lasciarci quello che abbiamo. Dobbiamo essere responsabili con chi verrà dopo di noi. Cook the mountain è cucinare i prodotti del territorio senza sprecare nulla. Chi viene oggi al St. Hubertus trova tutti i secondi piatti in due servizi, il primo con le parti più nobili, il secondo con la frazione più povera, che è poi quella che mi dà maggiore soddisfazione. Non voglio più utilizzare solo il filetto e gettare via il resto”. C’è poi la naturale evoluzione di Cook The Mountain, quasi il suo corollario. Care’s – The Ethical day chef è un grande progetto che culmina in un evento che è molto più di un
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© Alex Filz
NORBERTNIEDERKOFLER
congresso. Una grande fiera dell’ecosostenibilità alimentare nella cornice della Val Badia (con un’appendice estiva a Salina, in Sicilia) dove produttori, artigiani, grandi gruppi si confrontano sui temi degli sprechi e dei recuperi. Gli chef non sono rimasti a guardare: il turco Maksut Askar del Neolokal di Istanbul, lo sloveno Tomas Kavcic del Pri Loizetu di Zemono e la colombiana Leonor Espinosa del Leo Cocina y Cava di Bogota hanno esposto la loro filosofia sulla cucina sostenibile, autentico mantra dell’incarnazione attuale di Care’s. La tanto celebrata “conoscenza della materia prima”, secondo Norbert, dovrebbe essere la prima preoccupazione del cuoco: non solo per offrire al cliente il prodotto migliore, ma soprattutto in chiave anti-spreco. “Solo sapendo bene come si usano gli ingredienti è possibile non sprecare: un prodotto può essere utilizzato nella sua interezza, o essere fermentato in tutto o in parte per un utilizzo successivo. È così che si rispetta anche il lavoro dei contadini”. E se lo dice il nono tristellato d’Italia, c’è da credergli.
© Alex Filz
RISTORANTE ST. HUBERTUS
Strada Micurà de Rü, 20 - 39036 San Cassiano (BZ) Tel. 0471 849500 - www.rosalpina.it
© Alex Filz
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GOURMETFOOD
A ROMA
HEINZ BECK
COSTRUISCE CAPOLAVORI IN UN LUOGO DA SOGNO di
Cristiana Lauro
Il tentativo di descrivere La Pergola attraverso parametri noti ha fin qui prodotto opere incompiute lasciando quel luogo sempre monco di qualcosa. La Pergola non è soltanto il ristorante di un hotel di lusso fortificato da tre solide stelle Michelin e, a pensarci bene, non è nemmeno un luogo, a meno di cambiare definizione per tutti gli altri. E’ un “non luogo”. E se la vista panoramica non svelasse i riconoscibili capolavori monumentali della città di Roma, potrebbe esistere, uguale a se stesso, in qualsiasi altra parte del mondo.
© Antonio Saba
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© InterMedia Japan
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La bellezza - qualsiasi forma di bellezza - poiché piena di grazia, è immune al pregiudizio del luogo. Collezione di vasi di Emile Gallè, Il Palazzo di Circe, meraviglioso arazzo della Manifattura Reale di Aubusson del XVIII secolo e poi Henry Vollet, Federico Cervelli e secoli di arte e storia appoggiati lì, cavallereschi e generosi nel farsi guardare. 3.800 etichette di vini sulla carta, circa 70.000 bottiglie giù in cantina, sono la creatura portentosa che Marco Reitano, con talento e minuziosa cultura enologica, é riuscito ad affermare fra le più riconosciute e stimate al mondo. Simone Pinoli - che come Marco è in servizio a La Pergola da più di vent’anni - ha realizzato un servizio di sala fra i più pregevoli, pensando ai vertici dell’alta ristorazione in giro per il mondo. Simone si distingue per l’innata disinvoltura nel posizionare il cliente sempre al centro della scena. Lusso e splendore appoggiati, adagiati senza fasto, mai esibiti e sempre col sorriso sulle labbra. E poi la cucina di Heinz Beck, fedele nel tempo e genio creativo sempre vigile, attento alla memoria dei sapori e all’armonia anche estetica del piatto.
© Marco Serafini Amici
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S’CAMPO INGREDIENTI per 4 persone
gere in infusione le foglie di basilico ben lavate. Dopo 10 minuti
carote, g. 100 di zucchine, erbe aromatiche, sale, brodo di pesce
stenderla su una placchetta ad un’altezza di 1 centimetro. Conge-
Per le puree di verdure liofilizzate: g. 100 di fagiolini, g. 100 di ristretto.
Per salsa di pomodoro: g. 200 di pomodorini, 2 spicchi d’aglio, 1 rametto di basilico, olio extravergine d’oliva, sale.
Per la granella di patate: 2 patate, olio extravergine d’oliva, sale. Per gli scampi croccanti: 4 scampi, granella di patate.
Per la guarnizione del piatto: shiso rosso e verde, affila cress. PREPARAZIONE
Per le puree liofilizzate: pulire i fagiolini privandoli delle estremità; tagliarli a pezzi e metterli dentro una busta per sottovuoto con un pizzico di sale e le erbe aromatiche.
togliere l’aglio, il basilico, frullare la salsa, passarla allo chinois e lare, tagliare a quadretti e liofilizzare.
Per la granella di patate: pulire le patate e lessarle in acqua sa-
lata fino a cottura. Sbucciarle, passarle al passapatate e adagiare i cilindretti su carta da forno, avendo cura di mantenerli ben distanziati. Essiccare in forno a 80°C per 15 minuti.
Friggere la granella ottenuta in olio extravergine d’oliva; asciugare su carta assorbente e regolare di sale.
Per gli scampi croccanti: sgusciare gli scampi, eliminare con delicatezza il filo dorsale e scottarli leggermente in una padella antiaderente. Impanarli con la granella di patate.
Cuocere in forno a vapore a 90°C per 30 minuti, frullare e stende-
PREPARAZIONE DEL PIATTO
gelare, tagliare a quadretti e liofilizzare.
dure e salsa di pomodoro liofilizzate avendo cura di tracciare 4
Ripetere lo stesso procedimento con le carote e le zucchine, mantenendo lo stesso tempo di cottura per tutte le verdure.
Per la salsa di pomodoro: lavare i pomodorini e tagliarli a metà. Saltarli in padella con pochissimo olio e l’ aglio in camicia.
Lasciare sobbollire per 15 minuti, rimuovere dal fuoco ed aggiun-
In un piatto fondo, allineare 5 quadretti di ciascuna purea di verlinee, una per ogni colore.
Adagiare lo scampo croccante sul bordo del piatto, guarnire con lo shiso, l’affila cress ed irrorare i cubetti di puree liofilizzate con il fondo ottenuto dal brodo di pesce precedentemente ristretto al 50%.
© Janez Puksic
re la purea su una placchetta ad un’altezza di 1 centimetro. Con-
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© Antonio Saba
GOURMETFOOD
Perché sei rimasto sempre fedele a la Pergola? Perché è la mia casa. Vi torno dopo ogni visita agli altri ristoranti e sono grato alla proprietà che ha creduto in me 24 anni fa. Dopo tanti anni ci lega ancora un rapporto di profonda stima e rispetto reciproci. Cosa è essenziale nelle pratiche dell’alta cucina? Passione, studio, rigore, eccellenza delle materie prime e tecnica sono aspetti essenziali nella cucina in generale. A maggior ragione nell’alta cucina. La tua definizione di cucina italiana. Mediterranea, salutare e leggera senza rinunciare al gusto. RISTORANTE LA PERGOLA
I piatti cui sei più affezionato. È come chiedere a una mamma qual è il figlio prediletto. Ma proverò a rispondere: i Fagottelli La Pergola, il Fiore di zucca in pastella su fondo di crostacei e zafferano con caviale e la Sfera di melograno su crema di gianduia e cannelloni ai pinoli salati.
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GOURMETFOOD
© Alessandro Moggi
GUCCI OSTERIA
APRE UNA FINESTRA SULLE CUCINE DEL MONDO BY MASSIMO BOTTURA di
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Alessandra Meldolesi
GUCCIOSTERIA
UNA CUCINA SEMPRE APERTA SULL’ARTE È da tempo che quel preciso momento è segnato in agenda: le ore 10 del primo del mese, almeno un trimestre prima della fatidica data. Un solo nodo al fazzoletto, un unico allarme potrebbero non bastare. Bisogna essere veloci nell’avventarsi sulla tastiera, nel premere il clic fortunato. Perché prenotare è una gara. Non è facile per nessuno conquistare un tavolo all’Osteria Francescana, primo o secondo ristorante del mondo, poco importa, sicura eccellenza della cucina italiana: il fully booked dura mesi e si rinnova in un batter d’occhio, quando le caselle cambiano repentinamente colore. Ed è un peccato, perché il volo è altissimo, probabilmente irripetibile, un’esperienza irrinunciabile per qualsiasi gourmet e appassionato. Sarà probabilmente per questo che la Gucci Osteria (understatement vizioso, perché la qualità è al 100% gastronomica) giunge come una novità tanto attesa: il luogo dove la cucina di Massimo Bottura si rende finalmente accessibile al grande pubblico, anche grazie all’apertura ininterrotta, dalla mattina fino a sera, con la cucina sempre attiva nelle ore pomeridiane. Costumi internazionali per un ristorante che si affaccia su piazza della Signoria, con il via vai dei turisti a fendere il sentimento di meraviglia. Dentro il trecentesco palazzo della Mercanzia hanno sede gli uffici del gruppo, fondato a Firenze nel 1921 da Guccio Gucci, già portiere al Savoy di Londra; ma nel 2011 vi è stato insediato un museo relativo alla storia della moda, che nel 2017 l’amministratore delegato Marco Bizzarri, compagno di banco di Bottura dal 1976 al 1981, nell’ultima fila in fondo a destra, ha deciso di ripensare in chiave interattiva, affidando la regia al direttore creativo Alessandro Michele, (foto a pag. 44) coadiuvato da artisti visivi quali Jayde Fish, Trevor Andrew e Coco Capitán. Non solo vestiti e accessori, vintage e moderni, ma istallazioni video, opere d’arte, affreschi, documenti e artefatti cortocircuitano passato e presente lungo i due piani della Galleria, il cui biglietto va per metà a finanziare opere di restauro in città. Mentre il piano terra è consacrato a bottega, con la vendita di pezzi unici concepiti appositamente per lo store, si tratti di vestiti o cuscini fatti a mano, e per l’appunto a ristorante.
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GOURMETFOOD
È il Gucci Garden (foto sopra), così chiamato per il ricorrere di motivi animalier o fitomorfi e quale repertorio di metafore sempreverdi.
“GUCCI VENDE UN SOGNO” “Ma non si tratta del cliché cucina-moda”, premette Bottura. “In questi due anni ho constatato una cosa importante: che Gucci sta lavorando esattamente come noi in Francescana, con la stessa filosofia. Guardando il passato e analizzando gli archivi, per scegliere dettagli da portare nel futuro. Entrambi consideriamo le rispettive tradizioni in chiave critica, non nostalgica. Condividiamo le stesse ossessioni, e mi riferisco anche a Maserati, che con la tecnologia avveniristica perpetua le linee di sempre. Questo è fondamentale per un Paese come il nostro. Noi non possiamo seguire i trend, perché siamo il passato e dobbiamo creare il futuro rompendo gli schemi. Abbiamo 2000 anni di storia, che vanno filtrati e analizzati per portare il meglio con noi.
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© Peter Schlesinger
GUCCIOSTERIA
Gucci vende un sogno, come la Francescana. E non c’è prezzo che tenga: la gente vuole comprare proprio quello”.
UN ALTRO RINASCIMENTO Il risultato è un tripudio di italianità cosmopolita, perché Firenze è da sempre un centro di scambio culturale, a cominciare dal Rinascimento. Tanto che versi della Canzona de’ sette pianeti di Lorenzo De’ Medici sono riprodotti alle pareti in caratteri dorati. E questo, dice Bottura, è anche il momento di un altro Rinascimento, che riguarda la cucina italiana. Tutto è artigianale, fatto a mano, preziosamente nostro: le boiserie, i manichini dipinti, la carta da parati. Né la scelta dei piatti poteva essere casuale: è caduta su Richard Ginori, acquisita da Gucci qualche anno orsono. “Ed è stato il grandissimo lavoro degli ultimi due anni, cominciato nell’ambito di piccoli eventi in Francescana. Mi ero stancato di vedere in giro questo minimalismo, banalizzato e scimmiottato alla ricerca del consenso. Avevo voglia di riscoprire la classicità, ma filtrata da un cervello contemporaneo. La cucina deve essere buona e sana, poi c’è tutto il resto: l’arte, le mie passioni, la musica, il design”.
IL MONDO ARRIVA IN TOSCANA Il concept è chiaro: “vieni nel mondo con me”. Senza nessun riferimento alla Toscana, almeno per ora, la carta alterna piatti ispirati alle cucine di tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, all’America Latina. Al timone del resto c’è Karime Lopez Kondo, giovane cuoca messicana, già spalla di Virgilio Martinez al Central di Lima, passata per il Pujol e il Ryugin, qui chef per la prima volta; mentre la pasticceria è opera di
Tamara Rigo, già in forze al St. Hubertus. “Perché le donne hanno una sensibilità particolare”, dice Bottura, allievo devoto di Lidia Cristoni. La Toscana è piuttosto nel mercato, dove Karime sceglie i suoi prodotti: il pesce del Tirreno e gli ortaggi dei contadini, che guarniscono le carni di Simone Fracassi. “Soprattutto tagli poveri: la chianina c’è, ma rimacinata e nascosta dentro un hot dog; i piatti principali sono il baccalà e la lingua, ed è un messaggio di rottura in un santuario della moda, dove tutti cercano di essere fit per centrare la taglia. Invece è passato senza fatica”, prosegue Bottura. “La Francescana resta il nostro laboratorio di idee, a partire dal quale sviluppiamo tutto il resto. Se ogni giorno non sfamassimo 120 dipendenti, non saremmo mai arrivati ai refettori, che presuppongono l’esperienza delle nonne, capaci di riciclare ogni scarto”. In questo caso la cucina opera una coalescenza fra motivi di via Stella e di via Vignolese: arriva dalla Franceschetta in particolare il goloso street food emiliano. Ma su tutto aleggia la sensibilità di Karime, le cui origini latine spandono un’aura incantata. Quel sentimento di real maravilloso, “che incontriamo allo stato bruto, latente, onnipresente in tutto ciò che è latinoamericano, dove l’insolito è quotidiano e lo è sempre stato”, scriveva Alejo Carpentier. In cucina e non solo, le aree periferiche sono le riserve di magia del vecchio mondo. Ma colpiscono anche la qualità e la chirurgia delle esecuzioni, precise come nelle migliori brigate. La carta si compone di 13 piatti, di prezzo compreso fra 15 e 30 euro, 3 contorni al costo di 10 euro e 5 dessert da 15; la carta dei vini conta una ventina di etichette selezionate con l’aiuto di Giuseppe Palmieri. Ma la formula è in progress. È tanto latina nel suo schema quando botturiana per eleganza e potenza la tostada, antipasto che Karime ha messo a punto al mercato: in cerca di pesci sostenibili per un ceviche, vi ha scelto palamite locali, la cui polpa, dopo una leggera marinatura al lime, viene servita con una tostada di mais lavorato con la calce, impastato, lasciato riposare, fritto e messo nuovamente a riposo, come si fa solamente in Messico.
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TOSTADA INGREDIENTI per 6/8 persone
kg. 1 di palamita a cubetti, g. 200 di polpa di avocado, g. 400 di coriandolo, g. 50 di Ibiscus secco, 2 uova intere, g. 200 di masa per tortillas (impasto per
tortillas), g. 200 di olio di semi, 2 chipotle, 1 ravanello, succo di lime, germogli di coriandolo, olio di semi di girasole per friggere. PREPARAZIONE
Per la tostada: prendere l’impaso di masa, formare delle palline delle stes-
se dimensioni (20 grammi circa) e stenderle con una pressa per tortillas. Posizionarle in una padella antiaderente calda e cuocerle circa un minuto
per lato. Una volta cotte da entrambi i lati, lasciar raffreddare a temperatura
ambiente. Successivamente, versare l’olio di mais in una padella e riscaldare fino a una temperatura di 170°C, quindi friggere le tortillas finché non saran-
no ben dorate e croccanti. Una volta pronte, trasferire le tortillas su fogli di carta assorbente per eliminare l’olio in eccesso su entrambi i lati.
Per la chipotle mayo: separare un tuorlo d’uovo dall’albume. In una ciotola
unire l’uovo intero, il tuorlo d’uovo e l’olio di semi versato a filo e incorporare il tutto con una frusta.
Inserire i chipotle in un frullatore e frullarli in modo da ottenere una pasta. Aggiungere i chipotle alla maionese e condire con un pizzico di sale.
Per la crema di avocado: in un frullatore miscelare la polpa di avocado con il sale e il succo di limone fino ad ottenere una crema liscia e omogenea.
Per la polvere di coriandolo: lavare bene il coriandolo, asciugarlo con cura. Lasciarlo essiccare nell’essiccatore a 60°C per circa 5 ore. Frullare il tutto fino ad ottenere una polvere sottile.
Per impiattare: condire la palamita a cubetti con zeste di lime, sale e olio d’oliva. Tagliare il ravanello in fettine molto sottili. Tritare l’ibiscus secco in un frullatore fino ad ottenere una polvere sottile. In un piatto piano disporre la crema di avocado conferendo una forma circolare e adagiare sopra la pala-
mita condita; aggiungere ancora un po’ di crema di avocado e coprire con la tostada. Finire la tostada con la maionese di chipotle e la crema di avocado come da foto. Spolverare il tutto con le due polveri di hibiscus e coriandolo, qualche germoglio di coriandolo fresco e le lamelle di ravanello fresco.
GOURMETFOOD
I PIATTI SUI PIATTI GINORI La Caesar salad in Emilia, ossessione di Bottura, trova in Piazza della Signoria una veste nuova: il cespo di insalata è farcito con gli ingredienti tipici della ricetta: acciuga, maionese all’acciuga, tuorlo pastorizzato, crostini di pane e Parmigiano croccante metamorfizzati in leggerissime farfalle che sembrano levarsi in volo dal decoro Richard Ginori. Real maravilloso in senso stretto. Il risultato è una sfogliatura d’acqua, che consente di apprezzare la masticazione del vegetale in purezza, senza mascheramenti. Oppure lo street food italiano. L’hot dog di chianina come l’Emilia Burger e il Taka bun, panino al vapore farcito di cavolo acidulato con yuzu e aceto di lampone, coriandolo, mela rinfrescante e pancia di maiale al miso, vaporoso omaggio a David Chang. In tutti i casi, giura Bottura, il segreto sta nelle proporzioni: “L’ho capito guardando un filmato di Andy Warhol. Davanti alla camera fissa, si mette a sedere e tira fuori il suo burger con la faccia annoiata, inizia a mangiare e dopo due bocconi è già stanco, allora toglie metà del pane, lo arrotola, raddoppia le proporzioni del ripieno e finisce. Solo chi sa mangiare può fare una roba del genere”. Fra i primi ecco gli ormai iconici tortellini alla crema di Parmigiano Reggiano; una pasta spezzata al fondo di pesce ispirata a Gennaro Esposito, sulla rotta verso Marsiglia e la bouillabaisse; il risotto mari e monti con il battuto di scampi alla base, il dashi di funghi in cottura, la mantecatura all’extravergine, i chiodini tostati e l’aria delle teste dei crostacei. Mare sopra e sotto. “Il messaggio più importante però sta nella scelta dei tagli, la pancia di maiale come la lingua, uno dei miei ingredienti preferiti. Sono nato con il quinto quarto e come qualsiasi cuoco so che trattato nel modo giusto vale tutto. In questo caso la carne è marinata leggermente, cotta sottovuoto, porzionata e laccata”. Effetto cremino, viene impiattata con un finto occhio di bue di crema di topinambur e gel di tuorlo (in ossequio alle usanze latine di accostare carne e uova), verza brasata e tostata sulla base di una salsa acida alle erbe aromatiche. E sono straordinari i dessert. Il sorbetto al mandarino con insalata di frutta, dove la mela del Trentino incontra gli agrumi del Meridione, impalpabile nel panneggio dei suoi veli; la cheesecake all’amarena, che rimanda al frutto di Modena, con un sorbetto acidulo, il dolce e la spuma leggerissima alla vaniglia; Charlie Marley, omaggio a sorpresa al figlio di Bottura, a base di nocciole, cioccolati, fave di cacao e arancia. GUCCI OSTERIA DA MASSIMO BOTTURA Piazza della Signoria, 10 - Firenze Tel. 055 7592 7038
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GUCCIOSTERIA
CHARLEY MARLEY INGREDIENTI
Ingredienti per 8/10 persone
Per la spugna di nocciole: g. 300 di burro, g. 150 di zucchero di canna,
g. 150 di zucchero bianco, g. 5 di uova intere, g. 150 di farina di nocciole, g. 150 di nocciola tritata, g. 235 di farina 00, g. 2 di lievito in polvere.
In una ciotola versare la farina di nocciole, le nocciole tritate, la farina 00 e il lievito in polvere e miscelare il tutto.
In un’altra ciotola sbattere insieme il burro ammorbidito, lo zucchero
In una pentola versare il latte, la panna e il glucosio e riscaldare a fuo-
co medio fino a raggiungere una temperatura di 70°C. In una ciotola versare i tuorli d’uovo e lo zucchero di canna e montarli fino a renderli
spumosi. Versare i tuorli con lo zucchero nella pentola con il composto
precedentemente preparato. Cuocere per 6 minuti. In un contenitore
inserire il cioccolato e il cacao in polvere e versare il composto caldo precedentemente ottenuto; miscelare fino a completo scioglimento del cioccolato in modo da ottenere una crema liscia ed omogenea. Lasciare
raffreddare il tutto e inserirlo in un contenitore da Pacojet. Congelare in freezer. Prima dell’utilizzo pacossare con il Pacojet.
bianco e quello di canna. In un contenitore capiente sbattere le uova,
Per la choco ganache: crema pasticciera (ml. 500 di latte, g. 200 di
re tutti gli ingredienti secchi e miscelarli servendosi dell’aiuto di una
colato 70%, g. 30 di panna, g. 400 di crema choco + g. 200 di pasta di
avendo cura di ottenere un liquido liscio e spumoso. Al termine versaspatola. Infine aggiungere il composto di burro e zucchero e miscelare
ulteriormente. Versare il tutto su una teglia foderata con carta forno e cuocere in forno a 170°C per 15 minuti. Una volta cotto, togliere dal forno e conservare a temperatura ambiente.
Per il crumble: g. 200 di burro, g. 200 di zucchero, g. 120 di farina di mandorla, g. 250 di farina di grano saraceno, g. 100 di cacao in polvere, g. 30 di nocciole, g. 30 di fave di cacao tritate.
In una ciotola montare il burro con lo zucchero, rendendolo morbido.
Quando ha raggiunto una consistenza soffice, aggiungere la farina di mandorla, la farina di grano saraceno, il cacao in polvere, le nocciole e
le fave di cacao tritate e miscelare il tutto. Adagiare il tutto su un silpat e infornarlo a 170°C per 30 minuti.
Per la crema di mascarpone all’arancia: kg. 1 di mascarpone, g. 110 di zabaione (g. 80 di tuorlo, g. 70 di Grand Marnier, g. 30 di zucchero), g. 60 di zucchero a velo, g. 80 di succo d’arancia.
Per lo zabaione: preparare una pentola di acqua bollente e una bastar-
della resistente al calore di dimensioni sufficienti a stare sospesa sopra
tuorlo d’uovo, g. 50 di amido di mais, g. 150 di zucchero), g. 100 di ciocnocciola.
Preparare una pentola di acqua bollente e una bacinella resistente al calore di dimensioni sufficienti a stare sospesa sopra l’acqua senza toccarla. Nella ciotola inserire il latte e la panna e posizionarla sulla pentola
di acqua bollente in modo da riscaldarli. In una ciotola rendere spumosi
i tuorli d’uovo, lo zucchero e l’amido di mais. Versare il composto precedentemente preparato nella pentola con il latte e la panna e cucinare per 5 minuti a bagnomaria. Aggiungere il cioccolato e, quando ben
amalgamato, rimuovere dalla pentola e lasciare raffreddare. Incorporare
200 grammi di pasta di nocciola al composto in modo da ottenere la ganache al cioccolato.
Per la spuma di latte: ottenere una spuma montando 200 grammi di latte caldo con un frullino.
Per impiattare: fave di cacao tritate.
Disporre su un piatto la spugna di nocciole e una quenelle di cioccolato.
Posizionare tutte le creme e la schiuma di latte attorno alla spugna di nocciole e spolverare con delle fave di cacao tritate.
l’acqua senza toccarla.
Con la frusta a mano miscelare il tuorlo d’uovo e lo zucchero nella ba-
stardella, lontano dal calore. Quando lo zucchero si sarà ben dissolto, porre la bastardella sopra la pentola di acqua bollente facendo in modo che la cottura avvenga con il calore prodotto dall’acqua bollente e con-
tinuare a miscelare vigorosamente. Non appena le uova saranno calde, prima che si addensino, aggiungere il Grand Marnier e il succo d’aran-
cia, versandoli molto lentamente e facendo attenzione a non smontare le uova. Quando il composto raggiungerà una consistenza spumosa sarà
pronto. Incorporare allo zabaione il mascarpone mescolando con un cucchiaio attraverso un movimento rotatorio sempre nello stesso verso.
Per il gelato al cioccolato: l. 1 di latte, ml. 240 di panna, g. 50 di glucosio, g. 140 di tuorlo d’uovo, g. 200 di zucchero di canna, g. 500 di cioccolato fondente al 75%, g. 80 di cacao in polvere.
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GOURMETFOOD
DAVIDE SCABIN
L’ULTIMO GRANDE SOLISTA DELLA CUCINA ITALIANA di
Giulia Gavagnin
Fare la rivoluzione e diventare classici è un’impresa, soprattutto se tutto accade a Rivoli, provincia di Torino. Davide Scabin li’ è nato, e lì e’ rimasto. Non ha avuto grandi maestri, non ha risciacquato casacche nella Senna come i suoi più illustri colleghi e predecessori, non si è concesso anni sabbatici a contatto con popolazioni di nativi per ritrovare se stesso, come sembra imporre l’ultima frontiera dell’alta cucina, metafisica sino a rasentare il parossismo. Scabin non ne ha mai sentito la necessità, perché la sua essenza risiede nell’ostinato solipsismo, in un’ispirazione ossessiva che percorre i sentieri del vizio per diventare arte. Incosciente come tutti i coraggiosi, intravvede la propria unicità nell’ormai
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DAVIDESCABIN
FUSIONE E A FREDDO INGREDIENTI
Preparare la panna alla vaniglia mettendo
10 lime, 10 limoni, g. 100 di sciroppo di
glia nella panna.
Per la lastra di limone e lime
zucchero, zucchero al limone, zenzero
q.b., alcol di menta, caramelle menta/liquirizia, 1 kiwi, 1 arancia, gelatina di lampone.
Spremere i lime e i limoni e unire il succo così ottenuto allo sciroppo di zucchero.
Mettere il composto in un sacchetto sottovuoto (23x26cm) e far congelare in modo
da ottenere una lastra. Coppare la lastra di agrumi con un cerchio di diametro 11 centimetri, ottenendo 4 dischi dello spes-
sore di mezzo centimetro. Appoggiare ogni disco su un pezzo di carta da forno
in infusione un pezzetto di stecca di vani-
Separare i 4 tuorli dagli albumi e disporli su una teglia ricoperta da un letto di zuc-
chero semolato. Ricoprire i tuorli con altro zucchero e lasciar marinare per 9/10 ore.
Una volta trascorso questo tempo, pratica-
re un’incisione sul lato di ogni tuorlo con
un bisturi. Svuotarli della parte liquida in modo da ottenere una camicia finissima di tuorlo. Riempirla con la panna alla vaniglia
aiutandovi con una siringa senza ago. Pas-
sare i tuorli nello zucchero semolato ancora una volta e adagiarli su carta da forno.
e riporre in freezer. Lasciare raffreddare e
Per la finitura del piatto
zucchero al limone, un pizzico di zenzero,
ca, 1/4 alchechengi, 2/4 fragole, 2 mezzi
mettere su ogni disco: una spolverizzata di una goccia di alcol di menta, un pizzico di
caramelle, 2 palline di kiwi, 2 pezzi di arancia e un pezzo di gelatina di lampone. Riporre nuovamente in freezer. Per l’uovo
4 uova, zucchero semolato q.b., 1 stecca di vaniglia, g. 100 di panna.
1 mora, 2 mirtilli, g. 10 di gelatina di tonilamponi, 1 pezzo di ananas, foglie di menta, 5 meringhe, cocco in polvere, g. 60 di acqua frizzante.
Estrarre i dischi dal freezer e disporvi la
frutta e tutti gli altri ingredienti. Mettervi al
centro del disco il tuorlo farcito. Al tavolo, versare nel piatto l’acqua frizzante.
lontano 1990, quando mette in carta al Bontan di San Mauro Torinese orecchiette alle cime di rapa con foie gras, incontro tra proletariato emigrante e nobiltà transalpina. Dopo qualche giorno, l’entusiasmo del proprietario del ristorante sfuma in autentica furia. L’autorevolissima rivista “Grand Gourmet” reca una ricetta del Divin Gualtiero, tragicamente identica a quella del giovane talento di Rivoli: orecchiette alle cime di rapa con
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GOURMETFOOD
fegato grasso. Arriva una solenne lavata di capo ma anche una presa di coscienza definitiva: “se il caso ha voluto che abbia pensato all’unisono con il Maestro posso, anzi, devo essere io il mio classico”. Fedele solo a se stesso e determinato nella sua prospettiva self-centered, Scabin inizia a scrivere la propria autobiografia senza modelli di riferimento. Il principio della rivoluzione è al Combal di Almese (il primo ristorante da patron), dove propone un menu classicamente piemontese per tutti e uno sfacciatamente creativo per le confraternite carbonare che lo richiedono in gran segreto. Le voci corrono, si mormora insistentemente che in quel di Almese vi sia un fuoriclasse dal paso doble tale da cambiare le partite, e in un attimo Scabin diventa oggetto di culto. Riparte dal Combal. Zero, sontuosamente incastonato nel Museo di Arte Contemporanea di Rivoli, Itaca e futuro. Qui riscrive molte regole della cucina italiana, sempre senza maestri, sempre come stella polare di se stesso, riuscendo in un’impresa riservata a pochi: essere avanguardia e al tempo stesso diventare un classico.
VENT’ANNI DI CYBER-EGGS La rivoluzione scabiniana inizia simbolicamente vent’anni fa con il concepimento del Cyber-Eggs. E’ il novembre del 1997 e lo chef si trova nel reparto pasticceria del Combal di Almese, impegnato in attività di routine. Con le mani manipola svogliatamente della farina, ma il suo pensiero è sempre rivolto a un imprecisato “altrove”. Casualmente il suo sguardo incrocia un uovo. E’ colpo di fulmine: la Natura ha saputo creare un elemento perfetto nella sua lineare essenzialità, nel packaging e nel contenuto. Un elemento cui apparentemente non si
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DAVIDESCABIN
DAL SOGGETTIVO ALL’OGGETTIVO: LA MADELEINE DI PROUST
può aggiungere né togliere nulla. E’ davvero così? Il giovane Davide sente il richiamo della sfida e pensa a un nuovo modo di concepire l’uovo, rivoluzionandone innanzitutto l’aspetto esteriore. Dopo innumerevoli tentativi a vuoto, la chiave di volta. Un rotolo di domopak trasparente, una doppia camera d’aria. Espone in vetrina il tuorlo nobilitato da caviale, scalogno, vodka, come fosse un oggetto-merce, da guardare ma non toccare. E’ quella pellicola a renderlo una piccola opera d’arte. Scabin fa come il pittore Alberto Burri, trasfigura l’”oggetto-scarto” all’interno di una poetica della forma e dello spazio. È davvero una nuova rivoluzione: se Marchesi apre il raviolo, Scabin lo sigilla. La gestualità è totalmente innovativa, l’instant-bite è filtrato dalla ferinità del bisturi, che apre la via all’esplosione di piacere che è l’essenza del nucleo. Oggi il Cyber-Eggs è feticcio, piacere istantaneo, lusso sfacciato per pochi (questo “scherzo” costa 55 Euro), opera d’arte, oggetto da riprodurre serialmente come una stampa di Andy Warhol. In poche parole, “un classico”.
Innovatore feroce e iconoclasta, Davide Scabin è stato il massimo esponente mondiale del food-design. Packaging arditi e contenuti rispettosi della tradizione alternati a sperimentazioni spiazzanti: un mix vincente, a suo modo “pop” molto prima di Davide Oldani, con un culto della personalità da icona degli anni Novanta. “Ravioli shake”, “Piola Kit”, “Hambook” sono solo alcuni esempi di piatti ortodossi contenuti in involucri da museo d’arte contemporanea. Shaker, vasetti con dotazione di carte da gioco da circolo bocciofilo, libri e cornici sono accessori bizzarri e attraenti, che contengono piccoli capolavori di cucina borghese impreziositi da una tecnica fuori dal comune. Ravioli con tre diverse tipologie di burro, bagna cauda, tomino al verde, agnolotti in brodo, lingua brasata, panna cotta e Barbera D’Asti, prosciutto e gelatina di melone. Con il cruento “Charlie (Omaggio a Zio Sam)” Scabin ha giocato a fare il Jeff Koons dei fornelli, con lattine di coca cola tagliate a metà a simulare bare riempite di hamburger, cosce di quaglia e patatine. L’irrisione dell’American Dream servita su un piatto d’argento. Poichè gli ingegni vivaci non si bagnano mai due volte nello stesso fiume, a un certo punto, però, sopraggiunge la necessità di cambiare registro, e quel bisturi che serviva a incidere il Cyber-Eggs diventa la lama che indaga nelle profondità del gusto. Molti piatti diventano apparentemente essenziali, le stoviglie uniformi. Alcune inven-
VITELLA FASSONA di razza piemontese al camino INGREDIENTI per 4 persone
g. 800 di filetto di vitella Fassona già pulito, g. 300 di grissini spezzettati, g. 50 di farina, 3 uova intere,
5 spicchi d’aglio vestito, g 400 di burro, g. 100 di olio d’oliva, g. 150 di pangrattato alla camomilla, salvia, g. 12 di sale, una macinata di pepe. 1 mazzetto di salvia
1 mazzetto di rosmarino
4 spicchi d’aglio “vestito” PREPARAZIONE
Tagliare il filetto in 4 fette da 200 grammi ciascuna, sbattere le uova con sale e pepe, un rametto
di salvia e uno spicchio di aglio. Passare la carne nella farina, nell’uovo e nel grissino, ripetere il passaggio nell’uovo ed infine nel pangrattato.
Scaldare una padella con 200 grammi di burro, 100 grammi di olio d’oliva, un rametto di salvia
e 4 spicchi d’aglio. Quando il burro comincia a spumeggiare, mettere a cuocere la carne per circa
4/5 minuti, continuando ad aggiungere il restante
burro al fine di tenere costante la temperatura e non bruciarlo. Una volta dorati, togliere dal fuoco e tenere al caldo a riposare per circa 10/15 minuti.
Mettere le erbe in una teglia e condirle come
un’insalata con olio, sale e pepe. Asciugarle in forno a 180°C per 2 minuti, poi disporle in un piatto
da portata o in piattini individuali e bruciarle con un cannello.
Adagiare la carne sulle erbe con la fiamma ancora accesa, spegnere e servire ancora fumante.
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GOURMETFOOD
ROGNONE AL GIN INGREDIENTI per 6 persone
1 rognone di g. 350/400, g. 100 di burro, 1 rametto di rosmarino,
1 rametto di salvia, 2 spicchi d’aglio, 1 cetriolo, ml. 100 di gin Bombay Sapphire. Per la salsa al gin
ml. 500 di Champagne, g. 500 di panna, g. 500 di brodo, g. 80 di
burro, 3 scalogni tagliati a julienne, 1 ciuffo di prezzemolo, 5 bacche di ginepro, g. 50 di senape, 2 foglie di salvia, ml. 150 di gin Bombay Sapphire. PREPARAZIONE
Rosolare l’aglio, la salvia e il rosmarino nel burro finché questo
non assume una colorazione nocciola. Pulire il rognone dal grasso, salare e pepare leggermente e metterlo in un sacchetto da cot-
tura con il burro nocciola tiepido. Cuocere in forno secco a 65°C per 50/55 minuti.
Per la salsa al gin: soffriggere gli scalogni nel burro, aggiungere
il prezzemolo spezzettato con le mani, sfumare con lo champagne
e far ridurre della meta’. Unire il brodo e far ridurre della meta’, poi aggiungere la panna, la salvia, le bacche di ginepro e la senape. Aggiustare di sale e pepe bianco.
Una volta ridotto il tutto a metà, aggiungere il gin e incendiare ma non far consumare del tutto l’alcool.
I bordi della pentola risulteranno leggermene bruciati così da conferire un po’ di affumicato alla salsa. FINITURA DEL PIATTO
Affettare il rognone a fettine sottili, adagiarle al centro di ogni piatto con l’aiuto di un cerchietto di acciaio, e decorare con il
cetriolo tagliato a piccoli cubetti precedentemente fatti macerare
per 2 ore nel gin. Al momento di servire, versare nel piatto la salsa al gin calda.
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zioni non vengono comprese subito: la “Check Salad” del 2007 sembra una sequenza nuda e cruda di ortaggi da bagnare con una soluzione salina, nient’altro. Soltanto tre anni più tardi viene accolta con un’ovazione a un congresso, ed è un trionfo. Molti ricordano quella conferenza. Lo chef piemontese sale sul palco con un sifone in mano ed esordisce al fulmicotone: “questo l’ha trovato un archeologo”. Non è una sterile polemica contro Ferran Adrià, ma la constatazione che tutti i suoi epigoni cavalcano l’onda emotiva di una moda che non aggiunge nulla al miglioramento dell’esperienza gustativa. Questo è ancora oggi il nodo centrale della ricerca di Scabin, a dir poco scettico sulle contaminazioni contemporanee. “Schiume, sferificazioni, licheni, fermentazioni. Cosa ne resterà? Poco o nulla. Alcune di queste tecniche sono già tramontate, altre seguiranno a ruota. Perché? E’ semplice. Non appartengono alla nostra cultura. Noi siamo italiani, per la nostra memoria gustativa l’amatriciana non tramonterà mai, perché è come la madeleine di Proust. E’ nell’amatriciana, o nel vitello tonnato, o nelle melanzane alla parmigiana che si è formato il nostro ricordo. Ed è quel ricordo di bambino, di adolescente, o comunque il ricordo di un momento particolarmente piacevole a formare il gusto oggettivo. Quello che io intendo codificare”. Dunque, l’obiettivo è quello di muovere il ricordo radicato e profondo nell’esperienza di ognuno di noi, in un processo che prevede cinque stadi: gusto, piacere, emozione, esperienza e infine ricordo. La ricerca ha successo se il cuoco riesce a confezionare la “madeleine”: un risultato decisamente non alla portata di tutti. “Posso rinchiudermi in un laboratorio per tre mesi e lavorare otto ore al giorno per creare il miglior gelato al cioccolato al mondo. Probabilmente ci riesco. Ma se quel gelato al cioccolato non ti riporta alla mente il tuo primo bacio, o la prima passeggiata sulla spiaggia di Alassio o qualsiasi altra cosa abbia segnato in maniera piacevole la tua esistenza io non ho raggiunto il mio obiettivo. Che è darti la madeleine di Proust”. Da novello Swann, Scabin ha confezionato almeno tre piatti straordinari: la “Fassona al camino”, una cotoletta di vitello impanata nel pane e nelle briciole dei grissini, profumata alla camomilla e finita ‘al camino’ su erbe fumanti; il rognone al gin, e la paradossale “Fusione a Freddo”. Una cotoletta, una frattaglia, una macedonia che non sono state concepite solo per essere le migliori nel loro genere, ma anche per suscitare un ricordo primordiale e “atavico”.
DAVIDESCABIN
L’X FACTOR ATAVICO Alla ricerca del gusto oggettivo si aggiunge un ulteriore obiettivo: individuare il ricordo più decisivo, quello primordiale. Scabin lo definisce “atavico” e la sua codificazione non è per nulla scontata: “Mi piacerebbe individuare l’emozione atavica, ma non è facile. C’è pochissima letteratura in materia, le cose che ci hanno insegnato a scuola sulla fisiologia del gusto sono state tutte messe in discussione. Quel che è certo è che la nostra percezione del gusto si sposta di pochi millimetri in decenni, diversamente della tecnologia che corre velocemente. Tra cinquant’anni mangeremo molte cose di oggi e alcune di domani, ma senza dubbio ci emozioneremo con le stesse cose di oggi e di ieri”. Il percorso che conduce all’emozione atavica è circolare, e Scabin lo definisce fantasiosamente “perversione”, da non confondere con la “trasgressione”. “Trasgressione è una linea retta che conduce a una forma patologica perché ogni volta si deve ricominciare laddove si era smesso. Perversione è invece un processo circolare, che riesce a ricreare un piacere attraverso qualcosa di già conosciuto”. Il raggiungimento di quest’obiettivo è un vero e proprio X-Factor, che potrebbe cambiare per sempre l’dea preformata di cucina che abbiamo a tutt’oggi. Tuttavia, gli elementi che definiscono l’emozione atavica sono multisensoriali, non sono legati alla sola fisiologia del gusto. “Il gusto deve dare piacere, altrimenti non vale nulla. Se dà anche emozione, il cuoco ha raggiunto il proprio obiettivo. Ma l’emozione è legata all’esperienza personale: c’è chi lega i propri ricordi alla parmigiana di melanzane della nonna e chi al gelato industriale che consumava in spiaggia da piccolo. Il gusto costituisce soltanto uno dei tasselli che scatenano l’emo-
zione e aprono la strada al ricordo. Gli altri possono essere determinati anche da colori e suoni. Per questo la mia ricerca è complessa, e coinvolge tutti i sensi”. Uno degli esiti di questa ricerca è il menu contemporaneo del Combal.Zero, “Up and Down”, che inizia dove tutti finiscono: con i piatti più strutturati (i secondi) perché il nostro organismo è più disposto ad accoglierli. Così le robuste ribs di cervo con mostarda e yuzu e la pluma di maialino alla Ceasar Salad precedono gli agnolotti ripieni di papero alla melarancia con salsa alle acciughe, foie gras e fondo bruno e l’etereo carpaccio di astice al gorgonzola. Il ricordo ne esce appagato, con la sensazione che questo sia solo uno dei tanti esperimenti dell’ultimo, grande solista della cucina italiana.
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GOURMETFOOD
ANDREA APREA
UN NAPOLETANO ALLA CONQUISTA DEL MONDO. STORIA DI UN VIAGGIATORE. di
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Giulia Gavagnin
ANDREAAPREA
Intelligenza ed equilibrio, cuore e radici. Andrea Aprea è partenopeo doc ma non ha mai avuto paura di levare le ancore e partire alla scoperta del mondo, perché Napoli e il Golfo ce li ha dentro, e non lo abbandoneranno mai. C’è una frase di Bellavista, il bizzarro personaggio reso famoso nel mondo da Luciano De Crescenzo, che potrebbe essere stata pronunciata dallo stesso Aprea: “Anche se Napoli, quella che dico io, non esiste come città, esiste sicuramente come concetto. E allora penso che Napoli è la città più Napoli che conosco e che ovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli”. Quest’anno lo chef del Vun – ristorante del lussuoso hotel Park Hyatt di Milano- ha conquistato la seconda stella Michelin. Non è stato soltanto un riconoscimento alla sua indubbia bravura, ma anche alla codificazione di un concetto ben preciso di cucina mediterranea. Quella che scava nei ricordi, nell’emozione suscitata dai piatti della nonna e dal menu delle feste, attraverso un’estrazione magistrale dei gusti primari. La tecnica di Aprea è esemplare, frutto di grande abnegazione e della frequentazione di illustri cucine in giro per il mondo. “Ho frequentato la scuola alberghiera perché desideravo intensamente fare il cuoco e non mi spaventava l’idea di viaggiare. Dopo aver terminato il servizio militare come paracadutista, sono subito andato a Londra. Ci sono rimasto due anni, prima di finire a Kuala Lumpur, e tornare in Italia, a Sirmione prima, poi al Bulgari di Milano con Elio Sironi e infine a Palazzo Sasso di Ravello con Pino Lavarra”. L’esperienza decisiva, però, era di là a venire, ancora nella Perfida Albione. “Sono tornato a Londra, prima da Fat Duck con Heston Blumenthal, poi da Waterside Inn con Alain Roux. Sono state esperienze molto diverse, ma così formative che solo a quel punto ho capito che potevo tornare in Italia, aprire la valigia delle mie conoscenze e applicarle a ciò che sono e mi piace davvero”.
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GOURMETFOOD
Così, Aprea approda nuovamente nella sua Napoli, al Comandante dell’hotel Romeo, dove fa molto parlare di se, per la maturità tecnica raggiunta. Dopo qualche tempo arriva al Park Hyatt di Milano, cui fa guadagnare la prima stella Michelin. E’ il primo ristorante di un hotel a Milano a ottenere il macaron, oggi raddoppiato. Segno che questo ragazzo ci sa fare davvero.
L’EREDE DEI MONSÙ Aprea si sente idealmente l’erede dei “Monsù” (tradizione di “monsieur” secondo il vernacolo napoletano), i cuochi alla corte dei Borboni che proponevano la cucina aristocratica partenopea. Per intendersi, quelli del sartù di riso con il ragù alla napoletana, ricetta di difficile esecuzione e chiara origine francese anche nel nome. “Mi piace l’idea che la mia sia una cucina d’autore e che nelle mie radici vi sia anche una lontana tradizione d’oltralpe. Un cuoco non può prescindere dalla cultura francese anche se pratica una cucina mediterranea, storicamente priva di fondi. Io ho imparato a utilizzare il jus alla scuola di Alain Roux, e oggi, infatti, la mia spalla d’agnello (con zabaione alla senape, peperoni e melissa) non sarebbe la stessa senza l’utilizzo del fondo”. Questa preparazione è la sua interpretazione dell’agnello pasquale, storicamente presente nelle case napoletane. In
generale, tutta la cucina di Aprea è ispirata dal ricordo d’infanzia o giovanile, ma anche da esperienze universali comuni che lasciano un segno. “Da qualche tempo propongo alcuni amouse-bouche, che compongono quello che chiamo “aperitivo anni Ottanta”. Tra questi, lo spriz sferificato su foglia d’ostrica, e un gioco di olive e arancia. L’aperitivo è conviviale in se, ci riporta sempre a momenti piacevoli. Ho pensato: perché non valorizzarne il gesto sotto una forma diversa?”.
LA MISTIFICAZIONE COME FORMA D’ARTE L’essenza della cucina di Aprea risiede proprio nel travestimento, nel mutamento della forma per mantenere intatta la sostanza. Non è un caso che il suo piatto iconico, la “caprese dolce-salato” costituisca la “summa” di questa filosofia. E’ la magistrale ricostruzione di una mozzarella con una tecnica mutuata dall’alta pasticceria: una sottilissima sfera di zucchero soffiato alla maniera dei maestri muranesi che contiene una soffice spuma di latte di bufala e latte vaccino, appoggiata su una coulis di pomodoro, emulsione di basilico e acciuga. Una sinfonia esplosiva di sapori mediterranei, generata da una maturità esecutiva non comune. “La
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ANDREAAPREA
TORTELLO CACIO E PEPE INGREDIENTI per 4 persone
Tagliare finemente la cipolla, sbianchirla
PREPARAZIONE
di pecorino romano grattugiato, g. 500 di
scolarla e asciugarla con della carta as-
la farcia, stendere la sfoglia di pasta molto
Per la farcia cacio e pepe “liquida”: g. 400 brodo vegetale, g. 25 di cipolla, g. 75 di
patata, g. 25 di pepe nero, 8 fogli di colla di pesce.
Stufare la cipolla e la patata; bagnare con
brodo vegetale e portare a cottura la pata-
in acqua salata leggermente acidulata, sorbente. Continuare la cottura in padella
dolcemente, velandola con lo zucchero fino a quando non sarà ben asciutta e lucida. Aggiustare di sale e pepe
ta tagliata finemente. Incorporare il peco-
Per la pasta all’uovo: g. 600 di farina
tutto a 50°C per qualche minuto. Aggiun-
tuorlo.
rino a 65°C, passare al termomix e frullare
gere il pepe, la colla di pesce precedentemente ammollata in acqua fredda e stampare negli stampi in silicone da raviolo.
Per la cipolla caramellata: 1 cipolla bianca, g. 20 di zucchero, sale q.b., pepe q.b., aceto bianco di vino q.b.
00, g. 150 di semola rimacinata, g. 500 di
Mettere tutti gli ingredienti in planetaria, lavorarli assieme e porli sottovuoto. Far riposare in frigo.
Una volta che la gelatina avrà gelatinato
sottile (spessore mm. 1,5), appoggiare sul primo strato di sfoglia la farcia di tortello e coprire con il secondo strato di sfoglia.
Chiudere i tortelli e copparli senza lasciare
bordi di pasta con un coppapasta cilindri-
co e sistemare i tortelli su una placca con semola a 4°C. Per la cottura, utilizzare un
po’ di brodo vegetale che dovrà essere portato a 78/80°C e immergere delica-
tamente i tortelli per un minuto e mezzo.
Scolare i tortelli delicatamente, appoggiarli su un cucchiaio, creare un piccolo nido di cipolla bianca caramellata, qualche sca-
glia di pecorino, pepe schiacciato e due tre foglie di erba pepe.
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GOURMETFOOD
tecnica è sempre al servizio della valorizzazione dell’ingrediente, mai del suo stravolgimento. La caprese dolce-salato è un piatto tecnicamente complesso, ma preserva tutte le caratteristiche delle sue componenti”. Il rispetto della materia prima è sempre alla base della filosofia di Aprea, anche nel caso di ingredienti non complessi. “Nelle mie preparazioni la pasta è rigorosamente di Gragnano, cotta al dente, valorizzata talvolta da condimenti molto semplici, come il pecorino e il limone; talvolta più complicati, come la salsa con peperone, sarde e crescione. Se ne facessi un frullato, mi sentirei innanzitutto poco rispettoso nei confronti degli artigiani che l’hanno prodotta”. Aprea, tuttavia, si ritiene uno chef di cucina italiana a tutto tondo, soprattutto nei mesi invernali, quando la stagione permette di valorizzare gli ingredienti tipici delle regioni del nord. Qualche tempo fa ha coraggiosamente tenuto in carta persino un ossobuco di pescatrice con zafferano, arancia e liquirizia. Un piatto tipicamente nordico che ha spaccato in due la platea. “Non mi preoccupo di eventuali critiche, perché fanno parte del percorso. Quello che so, è di essere un cuoco rispettoso della tradizione italiana da nord a sud, perché sono fiero di essere italiano. Noi chef non dovremmo avere paura di valorizzare le risorse del nostro Paese perché sono tante e tali da non dover invidiare nulla a nessuno. Credo che il futuro della nostra cucina risieda in questo, e nel detto anglosassone “less is more”: perché siamo così fortunati nella tradizione e nella qualità della materia prima, che bastano pochi ingredienti per fare piatti straordinari”. Senza dubbio, la presenza di Andrea Aprea nel capoluogo lombardo ha contribuito ad innalzare la qualità della sua ristorazione. Lo dimostra il crescente successo del Vun, che accontenta una clientela assai variegata di gourmet, uomini d’affari e turisti stranieri non sempre abituati alla complessità delle tavole stellate. Non è azzardato affermare che lo chef campano rappresenta oggi un punto fermo della cucina d’autore italiana. Forse, è anche già pronto a raccogliere l’eredità di qualche illustre maestro che con la sua arte culinaria ha illuminato la scena meneghina e, quindi, nazionale.
CAPRESE DOLCE, SALATO INGREDIENTI per 4 persone Per la sfera di mozzarella
g. 500 di isomalto, g. 30 di acqua. Portare l’isomalto alla temperatura di
180°C. Spostare dal fuoco e, con l’aiuto di un mestolo, aggiugere l’acqua.
Versare il composto ottenuto su un silpat. Con quest’ultimo lavorare lo zucchero an-
cora caldo per amalgamare bene il tutto piegandolo piu’ volte su se stesso fino
ad ottenere l’effetto satinato. Soffiare la massa ancora calda (90°/100°C), fino ad
ottenere una sfera dalla superfice sottile. Far raffreddare e creare un’apertura sulla base, che servirà poi per inserire la spuma di mozzarella.
Per la spuma di mozzarella
g. 250 di mozzarella di bufala, g. 125 di latte intero ( fresco), g. 250 di panna fre-
sca, g. 100 di albume, g. 6 di colla di pesce.
Ammollare la colla di pesce in acqua fredda. Frullare nel mixer la mozzarella tagliata RISTORANTE VUN - PARK YATT MILANO
a cubetti e il latte fino a ottenere una cre-
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fresca, frullare solo per qualche istante
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ma liscia. Aggiungere l’albume e la panna senza montare il composto. Passare al colino fine. Sciogliere la colla di pesce in una
piccola parte del composto di mozzarella
ottenuto e unirla a tutto il resto. Passa-
re nuovamente al colino fine, riempire il sifone e caricarlo con 2 bombolette per
crema. Lasciare riposare per 2 ore in frigorifero prima di utilizzarlo.
Per il coulis di pomodoro
g. 200 di pomodori datterini, g. 200 di
pomodori ciliegia, g. 200 di pomodori del “piennolo”, 2 scalogni, 1 mazzettino di basilico, olio, sale e pepe.
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ANDREAAPREA
Tagliare finemente lo scalogno, farlo appassire dolcemente in una
freddandoli velocemente in acqua e ghiaccio. Tagliarli a metà e
precedentemente tagliati in quarti e cuocere per qualche minuto
sistemarli tutti con la polpa interna rivolta verso l’alto. Insaporire
casseruola. A fuoco vivace aggiungere le tre varietà di pomodori
mescolando frequentemente. Salare e pepare. A questo punto continuare la cottura lentamente per 15 minuti. Spostare dal fuoco la casseruola e mettere in infusione il mazzetto di basilico.
adagiarli su una placchetta con carta forno avendo l’accortezza di
bene i pomodorini con timo, scorza di limone, aglio, sale e pepe. Per ultimo spolverare con lo zucchero a velo. Lasciare i pomodori
ad appassire dolcemente in forno a 50°C per tre ore con valvola aperta.
Frullare al mixer la salsa emulsionando con dell’olio a filo, ottenendo così una cosistenza più cre-
Per i crostini di pane
mosa. Passare a colino cinese, abbattere.
g. 200 di pane cafone, olio d’oliva.
Per l’emulsione di basilico
Ricavare da 2 fette di pane dei picco-
g. 100 di basilico sbianchito, g. 80 di par-
li cubi (cm. 0,5x0,5). Scaldare una
migiano grattugiato, g. 100 di pinoli to-
padella antiaderente con un filo
stati, g. 20 di pecorino grattugiato,
d’olio. Dorare omogeneamente
g. 80 di olio d’oliva.
i cubetti di pane, trasferirli su una placchetta con della car-
Sbianchire precedentemente il
ta assorbente.
basilico in abbondante acqua salata. Raffreddarlo in acqua e
Per i cubi di mozzarella
ghiaccio, scolarlo e strizzarlo
g. 100 di mozzarella
bene da tutta l’acqua in ec-
Tagliare la mozzarella in
cesso. Una volta ottenuti 100
piccoli cubi di cm. 0,5x0,5.
grammi di “basilico sbianchito”, aggiungere in un contenitore tutti gli altri ingredienti, amalgamando bene il tutto. Riempire così un conteni-
Per
la neve
tore
di mozzarella
per Pa-
cojet e ab-
g. 300 di mozzarella,
battere a –20°C.
g. 400 di siero di mozzarella.
Pacossare il tutto. Ab-
battere nuovamente. Poco
Tagliare la mozzarella in bocconi. Riempire un conteni-
prima di utilizzarlo, pacossarlo una seconda
volta e passarlo al setaccio a maglia fine con l’aiuto di una spatola. Conservare l’emulsione un sacchetto da pasticceria.
tore Pacojet e versare all’interno il siero di mozzarella. Abbattere a
in
Per i pomodori appassiti
20 pomodori datterini, scorza di limone, aglio, timo, sale, zucchero a velo, pepe.
Spellare i pomodorini sbollentandoli per qualche secondo e raf-
-20°C. Pacossare una prima volta. Abbattere nuovamente e ripassare al Pacojet prima dell’utilizzo per ottenere la consistenza “neve”. PREPARAZIONE
Adagiare sul fondo il coulis di pomodori, i crostini di pane, i pomodorini canditi, i cubi di mozzarella, l’emulsione di pesto. Porvi
sopra la sfera riempita di spuma di mozzarella, poi la neve di mozzarella, l’olio extravergine di oliva, sale maldon, pepe mignonette ed infine dei germogli di basilico. Servire.
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GOURMETFOOD
TRA LAGUNA E CAMPAGNA, IN FRIULI
EMANUELE SCARELLO RACCONTA “AGLI AMICI” LA STORIA CENTENARIA DI UNA FAMIGLIA FELICE di
Giulia Gavagnin
È difficile capitare a Godia così, per caso. Già il nome della regione intimorisce, non si sa bene cosa sia: Friuli-Venezia Giulia, come un Giano Bifronte che contiene una cosa e il suo opposto. Udine e la sacra lingua (il “furlan”) da un lato, Trieste e la sua levità asburgico-levantina dall’altra. Mondi incompatibili: come nelle migliori tradizioni (pisani e livornesi insegnano) le due realtà non si amano propriamente alla follia. Ciononostante, in questo strano luogo di confine un po’ austriaco, un po’ slavo, un po’ mondo a sé, soltanto la famiglia Scarello da Godia è riuscita a creare un autentico, sofisticato tempio di alta cucina contemporanea. Con buona pace dei triestini, il migliore della regione. E, senza ombra di dubbio, uno dei migliori d’Italia.
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AGLIAMICI
Nasce nel lontano 1887, quando un trisavolo, ex guardia del re, ottiene la licenza per aprire un emporio di generi coloniali e tabacchi. Il paese è un crocevia commerciale, gente che va, gente che viene. Fino agli anni ’60, quando nei locali giunge il primo televisore del circondario. Soste prolungate necessitano il conforto di un buon cibo. Inizialmente la locanda apre la cucina solo per eventi e ricorrenze, poi, un po’ alla volta, i genitori degli attuali patron iniziano a trasformare “Agli Amici” in un ristorante moderno. Mamma Ivonne frequenta la scuola transalpina del Lenotre Plaisir, papà Tino diventa sommelier. La divisione delle competenze è quella attuale a parti invertite: Emanuele ai fuochi e Michela in cantina. I coniugi trasmettono la passione per l’alta cucina ai figli, che iniziano a seguirli nelle trasferte in Italia e all’estero alla scoperta di buone tavole. Il DNA da cavallo di razza si intravede subito: dopo i viaggi, le esperienze in Francia e il contatto quotidiano con il “comfort food” cucinato da mamma, Emanuele a ventinove anni ottiene la prima stella Michelin. La sua cucina è ancora sperimentale, a volte virtuosistica, altre di matrice schiettamente francese. Ma la direzione da intraprendere gli era stata chiara già l’anno precedente, quando aveva concepito la millefoglie di filetto e foie gras con riduzione di Picolit. Un piatto da lui allora ritenuto difficilissimo, ma che valorizzava un ingrediente fondamentale del territorio. Da allora la sua cucina è molto cambiata, si è spogliata di barocchismi inutili, privilegiando pulizia nell’esecuzione e impiego di ingredienti autoctoni. “Vivo in una regione di confine, ricca di influenze culturali, ma anche di
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GOURMETFOOD
GNOCCHI DI GODIA con suprema al cavolfiore e sarde affumicate da noi INGREDIENTI per 4 persone
g. 500 di patate cotte, g 90 di farina manitoba, g. 30 di tuor-
lo d’uovo, g. 7 di sale, noce moscata, pepe, g. 320 di brodo
di gallina, g. 24 di burro, g. 30 di farina di riso, g. 32 di panna fresca, sale, pepe, g. 200 purea di cavolfiore, 4 filetti di alici sottosale, g. 100 di latte, 8 sarde precedentemente affumicate.
PREPARAZIONE
Per gli gnocchi: impastare le patate cotte e schiacciate,
spolverare con la farina, il tuorlo, sale, pepe e noce moscata. Formare e conservare in frigorifero fino all’uso.
Fondere il burro, unire la farina di riso e cuocere fino a colorazione nocciola, unire il brodo freddo e cuocere almeno
20 minuti a fuoco lento. Togliere dal fuoco e unire la panna, il sale, il pepe e la purea di cavolfiore e riportare il tutto a
70°C. Lavare bene sotto l’acqua corrente i filetti di alice quin-
di metterli a cuocere con il latte a fuoco moderato. Frullare
bene e conservare al caldo. Cuocere gli gnocchi in acqua bollente. Velare il fondo del piatto con la suprema di cavolfiore e adagiarvi gli gnocchi, gocciare con la salsa di alici e completare con le sarde affumicate.
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una grandissima ricchezza di materie prime. Abbiamo lago, mare, montagna. Non sono in tanti a condividere un simile patrimonio”. La ricerca continua, corroborata da profonde letture e da una sensibilità nella scelta dell’ingrediente fuori dal comune, ha procurato all’insegna di Godia la seconda stella nel 2012. La parola d’ordine è sempre quella: far sentire l’ospite a casa (non a caso, dagli “amici”), ma non in una qualsiasi, bensì quella che svela i segreti di una terra feconda e ricca di eccellenze note e meno note. La terra del Picolit, del Verduzzo, dei grandi vini bianchi del Collio, ma anche della
AGLIAMICI
SOLO D’ALGHE la mia insalata di mare INGREDIENTI
Per la panna cotta al lime: g. 125 di panna fresca, g. 35 di succo di lime, zeste di 3 lime, g. 0,5 di agar agar, g. 0,5 di pectina, sale.
Per la crema all’uovo: g. 250 di olio di girasole, g. 50 di olio extravergine d’oliva, 2 uova medie, g. 3 di sale, g. 12 di succo di limone, g. 12 di senape, yogurt greco.
Alghe: spirulina, fagiolini di mare, wakame, alga dulce (rossa), lattuga di mare,
salicornia, muschio d’Irlanda, umibudo (uva di mare), foglia d’ostrica, uova di wasabi, salty finger, finger lime, see fennel, alga nori, gocce di acqua di mare. PREPARAZIONE
Per la panna cotta al lime: portare a bollore la panna con le polveri ed il sale; lontano dal fuoco aggiungere il succo di lime e le zeste. Mescolare, sten-
dere e raffreddare. Successivamente montare con un mixer e mettere in una tasca da pasticceria.
Per la crema all’uovo: procedere come per una normale maionese a differenza che l’uovo utilizzato è pastorizzato in guscio a 65°C per 50 minuti e viene utilizzato intero (tuorlo + albume).
Per le alghe in generale: quelle conservate sotto sale, si mettono a bagno per 4 minuti in acqua corrente, si asciugano e sono cosi pronte per essere utilizzate.
cipolla di Cavasso Nuovo, del formadi frant, della misconosciuta mela Seuka del Natisone, dalla quale Emanuele ottiene una pregiata composta per accompagnare alcuni formaggi locali. La valorizzazione del territorio non si limita all’enogastronomia, ma abbraccia anche i prodotti dell’artigianato locale. I fratelli Scarello sono orgogliosi di utilizzare la coltelleria di Michele Massaro, forgiatore di Maniago (PN), che ha disegnato in esclusiva per loro un unico pezzo in acciaio inox sbalzato, bellissimo e affilato. Emanuele si considera “uomo di campagna e di mare”, le due anime del suo territorio e della sua cucina. Ricerca erbe spontanee e radici (“purtroppo il più vicino mercato ortofrutticolo che offre una selezione di radici non è in Italia ma a Lubiana”) che mette in carta con olive e gelato alla colatura di alici: amaro, grassezza e umami in un unico, esplosivo antipasto. Nel tempo libero va per mare e laguna, tra Marano e Lignano, che gli hanno insegnato ad apprezzare il pescato autoctono (“che me ne faccio di astici e aragoste se qui posso avere la migliore pescatrice o il migliore rombo chiodato?”). Oggi in menu troviamo il branzino di lenza con verza brasata, cavolo nero e latte al cren. Una preparazione in crescendo di reminiscenze chiaramente asburgiche. Spesso nei suoi piatti la terra e il mare vanno a braccetto. Gli gnocchi con melanzane, suprema di pollo e scam-
PRESENTAZIONE
Alternare la crema d’uovo, la panna cotta al lime e lo yogurt greco per tre volte, adagiarvi quindi sopra le alghe e i germogli di mare. Come gesto finale spruzzare con un vaporizzatore l’acqua di mare ( pastorizzata).
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GOURMETFOOD
pi esaltano la piccola gloria locale, la patata Kennebec di Godia, vivacizzata dall’amaro del vegetale e dalla succulenza del crostaceo appena pescato. Ma, probabilmente, lo chef friulano dà il meglio di sé quando prende ispirazione da tecniche alloctone che in realtà celano ingredienti del tutto locali. Il riuscitissimo risotto mantecato al burro acido con anguilla laccata e mela verde sussurra suggestioni orientali e nord europee ma, in realtà, parla la lingua degli Scarello al 100%. “Potrebbe sembrare un piatto di cucina fusion, ma non lo è. La laccatura dell’anguilla è eseguita in un ristretto di succo di agrumi e nella fermentazione del burro mi sono ispirato al formadi frant della Carnia. Ho la fortuna di vivere in una terra che offre la materia prima adeguata a ogni tipo di preparazione”. Un piatto sorprendente, messo a punto un anno fa è il “Solo d’alghe” ovvero la personale lettura dello chef dell’insalata di mare. Un caleidoscopio di erbe d’acqua salata, dalla laguna di Grado al Sud Italia (spirulina, fagiolini, wakame, alga dulce, lattuga di
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L’AGNELLO POST SALÈ
sella d’agnello cotta in acqua di mare con emulsione di olio extravergine d’oliva e vongole veraci INGREDIENTI
g. 600 di controfiletto d’agnello, g. 500 di acqua, g. 10 di sale, g. 7 di zucchero. Per la crema soffice di vongole e olio affiorato: g. 350 di acqua di vongole, 68gr di
olio di semi di arachide, g. 68 di olio affiorato, g. 4 di gelespessa, g. 0.4 di albumina,
rapette rosse, foglie di spinacino fresco, 48 vongole veraci, 1 spicchio d’aglio, vino bianco.
PREPARAZIONE
Aprire le vongole nella maniera tradizionale con vino i bianco e aglio, filtrare e tenere da parte le vongole.
Per la crema soffice: unire tutti gli ingredienti e versare il composto ottenuto all’interno di un sifone da mezzo litro con 2 cariche. Tenerlo in caldo a 65°C.
Per l’agnello: pulirlo dall’elastina, metterlo all’interno di un sacchetto sottovuoto
per cotture con 50 grammi di acqua di mare pastorizzata. Cuocerlo a 70°C. Forno a vapore per 8/12 minuti (il tempo varia in base alla pezzatura del controfiletto). Raffreddare in acqua e ghiaccio.
COMPOSIZIONE DEL PIATTO
Tostare violentemente l’agnello, metterlo al centro del piatto, salarlo, distribuire le
vongole calde, le rapette precedentemente bollite e la schiuma di vongole e affiorato distribuendola su tutta la superficie dell’agnello. Unire le foglie crude di spinacino.
AGLIAMICI
mare, salicornia, muschio d’Irlanda, umibudo, foglia d’ostrica, alga nori) impreziosite da una panna cotta al lime e una crema d’uovo. Il finocchio marino è condito con scorza di limone e un botanical gin realizzato appositamente per gli Scarello. In abbinamento, un cocktail a base di succo di limone e Santon, un vermuth realizzato con vini locali e assenzio marino, che cresce nella Laguna di Grado. Infine, un altro prezioso frutto dell’ingegno di Emanuele è l’agnello “post-salè”, cotto in emulsione di vongole veraci e olio affiorato. “In Francia ho spesso cucinato l’agnello pre-salè della Normandia che, allevato vicino al mare, dovrebbe acquistarne la sapidità. Nulla di più falso: io non ci ho mai sentito il mare! Allora, ho pensato io di metterci l’elemento marino, cuocendo un agnello della Carnia con un’emulsione di olio e acqua di vongole di Grado e di accompagnarlo alle stesse vongole”. Qui sì che si ritrova la sapidità, e un piacevole allungamento del sentore salmastro! I dolci sono quasi sempre connotati anche da una nota di salato. Il Picolit torna sotto forma di zuppa, con frutta, verdura e crema di fave Tonka e il cremoso al cioccolato viene accompagnato da peperoni grigliati e gelatina di lamponi. AGLI AMICI 1887
Via Liguria, 252 - 33100 Udine - Tel. +39 0432 565411 www.agliamici.it - info@agliamici.it
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GOURMETFOOD
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GIANFRANCOVISSANI
GIANFRANCO VISSANI IL BURBERO DAL CUORE DI BURRO di
Maria Chiara Zucchi Lorenzo Poli
foto di
È il personaggio più controverso del panorama cheffologico italiano. Apripista nella rassegna dei cuochi televisivi, è probabilmente tuttora il più noto presso il grande pubblico che lo odia o lo ama, ma che non rimane mai indifferente alle sue provocazioni, prima tra tutte quella contro la pratica alimentare vegana (rimasta famosa la frase:” I vegani sono una setta. Li ammazzerei tutti!” pronunciata con la consueta, incontenibile irruenza) ma anche quelle contro gli allevamenti intensivi degli animali, l’uso dei miglioratori nel pane, l’abuso delle cotture a bassa temperatura, la dominazione del pomodoro urbi et orbi, e oggi quella contro la “fake cuisine”, ossia contro quel tipo di cucina finta, fatta di effetti speciali ma di poca sostanza. E di poca conoscenza e rispetto delle nostre materie prime, di cui invece lui è uno dei massimi esperti.
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GOURMETFOOD
CRUDO DI CERNIA
marinato al tabacco e cocco con ventaglio di caco mela finissimo al pepe del Nepal INGREDIENTI per 4 persone
g. 200 di filetto di cernia, g. 2 di foglia di tabacco, g. 10 di cocco disidratato, 2 cachi mela, olio evo, sale e pepe del Nepal q.b. PREPARAZIONE
Fare marinare per una notte il filetto di cernia con il tabacco, il cocco e l’olio evo, batterlo poi sottilmente dandogli una forma tonda della stessa grandezza del fondo del piatto che utilizzere-
mo. Tagliare finemente il caco mela e creare una raggiera fitta che adageremo al centro della cernia. Condire con un pizzico di
sale ed una leggera grattugiata di pepe del Nepal; completare con un filo d’olio evo. © Niko Boi
Ma non solo di quelle. Memorabile una puntata di Masterchef dove Vissani era stato invitato come giudice aggiunto: mentre il trio Cracco, Barbieri e Bastianich si esibiva nel consueto copione (benevolo apprezzamento del piatto realizzato dal concorrente, o plateale disprezzo) il Maestro affondava la sua lama critica in ogni singolo elaborato, spiegando tecnicamente e con precisione chirurgica perché, per esempio, una preparazione era talmente sbagliata da non dover nemmeno essere ammesso in giudizio. Spiegava, invece di limitarsi alla scena.
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GIANFRANCOVISSANI
© Niko Boi
Il cuoco di Baschi che, con Marchesi (ma in modo totalmente differente da lui), ha completamente rivoluzionato la cucina italiana sia nei contenuti che nell’estetica, è infatti innegabilmente una delle figure professionalmente più competenti nel mondo del food. E uno dei più prolifici, grazie ad una inesauribile e connaturata vena creativa. Chi, malignamente, lo definisce “superato” rispetto alle stelle del momento, non riesce a percepirne la complessità concettuale, l’originalità strutturale ed esecutiva delle sue proposte, la modernità costante e al passo con i tempi. Perché lui è sempre avanti: acutissimo osservatore, finissimo esteta, Torquemada contro usi e costumi poco eleganti sia nei ristoranti che nei clienti di cui bolla le superficialità e l’insipienza con inaspettata vis comica, Vissani ha una naturale propensione per i cambiamenti, per le novità, per l’evoluzione delle cose. Eppure né questi fattori, né la raffinatezza sempre aggiornata del suo ristorante, né il servizio impeccabilmente gestito dal figlio Luca, la perfetta orchestra della cucina, la sontuosa cantina, le poche stanze ospitali, gli sono valse negli anni l’assegnazione della terza stella e francamente questa è una delle più scandalose posizioni della Rossa francese, pervicacemente mantenuta negli anni. La ruvidezza dei modi e la discussa popolarità del soggetto non giustificano in alcun modo quello che appare come un palese e ingiustificato affronto al protagonista della nostra
RAVIOLI
di bacche di faggio allo zenzero, salsa di radice di prezzemolo, radice nera cruda INGREDIENTI per 4 persone
g. 200 di pasta fresca bianca, g. 250 di latte, g. 100 di bacche di faggio, g. 20 di burro, g. 20 di farina, succo di zenzero q.b.,
g. 50 di radice di prezzemolo, 1 spicchio d’aglio, 1 foglia d’allo-
ro, cl. 30 di brodo vegetale, g. 100 di radice nera, olio evo, sale e pepe q.b.
PREPARAZIONE
Frullare le bacche di faggio con il latte e portarle a bollore, nel frattempo preparare un roux biondo con il burro e la farina;
filtrare il latte e versarlo pian piano nel roux mescolando di continuo per ottenere un composto liscio ed omogeneo.
Regolare di sapore ed unire il succo di zenzero, fare raffreddare. Fare imbiondire l’aglio in una casseruola con olio ed alloro,
versare la radice di prezzemolo tagliata finemente e cuocere qualche minuto; unire il brodo e portare a bollore; togliere aglio ed alloro, frullare e filtrare, regolare quindi di densità e sapore.
Lavare bene la radice nera e tagliarla a bastoncini; stendere la pasta sottilmente e confezionare i ravioli con la farcia preparata prima. Servire i ravioli crudi in un piatto piano con la salsa e i bastoncini a decoro.
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migliore cucina. Lui sembra non curarsene, ma preferiamo non riportare qui i coloriti epiteti con cui bolla certe classifiche gestite con colpevole e miope parzialità. Ormai, in tutti questi anni sempre sulla scena sia come cuoco eccellente che come scomodo (e per questo seguitissimo) opinionista, ha comunque imparato una certa politica del mestiere, lui che proprio dalla politica (pleonastico ricordare il “risotto di D’Alema”) era stato messo in vista agli albori della sua brillante carriera. In fondo tutti i cuochi oggi famosi devono ringraziare quel risotto, prodromo proprio della loro popolarità attuale.
LUCA, L’ALTRA FACCIA DI VISSANI Un palmares d’eccezione: (2007 arriva il primo premio come Miglior Maitre dalla Guida dei Ristoranti del Sole 24 Ore con Davide Paolini; 2009, sempre come miglior Maitre con Paolo Marchi per Identità Golose; 2011 Miglior Maitre per l’Epresso di Enzo Vizzari; 2011 ancora Miglior Maitre con il Premio Montresor Awards; 2018 Premio IAT come miglior Maitre di sala e Manager di Hotellerie) Luca Vissani, figlio prediletto (perché fortunatamente è l’unico) dell’ingombrante Gianfranco, non ha niente da invidiare al famoso padre. Diplomatico tanto quanto l’altro è esplicito, discreto tanto quanto l’altro è diretto, gentile tanto quanto l’altro è rude, Luca sembra fatto apposta per bilanciare il carattere non facile del genitore, a cui a volte sembra rubare pacatamente il ruolo. Cresciuto ad una scuola non facile dove non gli è stato risparmiato nulla quanto a burberi insegnamenti, dure lezioni sul campo, rumorosi rimproveri, il giovane Vissani si è guadagnato ogni merito e ogni medaglia, molto più di tanti “figli di personaggi famosi”. Competente, abile, signorile, Luca è il perfetto padrone di Casa Vissani, quello a cui non sfugge nulla, quello che dirige la squadra di sala con il decoro che conviene ad un ambiente dove ogni cliente deve poter trovare il piacere della migliore ospitalità. E se Gianfranco è il Maestro in cucina, Luca è il Maestro dell’arte dell’accoglienza.
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Ma come si rapporta lui con il mondo degli italici cucinieri? “Sono sempre stato un outsider, un cane sciolto, un battitore libero – ci risponde con la consueta franchezza – Ho provato, negli anni passati, ad inserirmi in organizzazioni o associazioni di categoria, ma mi sono reso conto che ogni confine mi sta stretto, mi limita, si contrappone al mio bisogno di assoluta indipendenza. Difficilmente mi si potrà imbrigliare nelle logiche o nelle ideologie altrui e non perché io sia per definizione un bastian contrario, bensì perché ho bisogno della mia autonomia di giudizio, senza compromessi”. Tu che hai aperto le porte della televisione per far entrare la cucina da protagonista, come giudichi oggi l’apporto dei tuoi colleghi? I cuochi che impazzano oggi in TV rischiano la sovraesposizione e il conseguente rigetto. La loro immagine rischia di esaurirsi in fretta. E quando stanchi, scompari! Ma non ti sembra un po’ una contraddizione la tua, visto che sei sempre in qualche trasmissione? No, perché quando intervengo come
GIANFRANCOVISSANI
cuoco, faccio il mio lavoro e non lo spettacolo. Il problema di molti format, Masterchef in testa, è quello di favorire lo spettacolo, la competizione, l’esibizione dell’ansia dei partecipanti. Alla fine i telespettatori, non essendoci focus sul piatto, non capiscono assolutamente com’è fatto e non ne conservano il ricordo. Il messaggio che ne deriva è fuorviante, soprattutto per i giovani che credono che davvero un grande piatto si faccia in un’ora, col solo supporto di una creatività spesso mal gestita, mancando delle basi necessarie. Io invece ho sempre cercato di spiegare ogni ricetta, a partire dalla scelta degli ingredienti, per poi passare alle tecniche di cottura.
PICCIONE ESSICCATO
con fagiolini neri crudi, millefoglie di cappesante e aglio nero, puntini di fondo di piccione, cheesecake ai romaneschi e aghi di pino INGREDIENTI per 4 persone
2 piccioni, 1 spicchio d’aglio, 1 rametto di rosmarino, 8 fagiolini neri, 2 cappesante, 4 spicchi di aglio nero, 40 aghi di pino, olio evo, sale e pepe. Per la cheesecake
1 uovo, g. 35 di zucchero, g. 250 di Philadelphia, g. 110 di purea di broccoli romaneschi, sale e pepe q.b., g. 100 di grissini sbriciolati, g. 70 di burro fuso q.b. PREPARAZIONE
Lasciare marinare per una notte le cappesante con l’aglio nero ed olio evo. Disos-
sare il piccione e tagliare i petti a fettine sottilissime, salare, pepare, quindi fare di-
sidratare in forno a 60°C per 12 ore circa sotto peso; preparare le cosce a toulipe e con le carcasse rimaste fare un fondo di cottura ristretto.
Un tuo giudizio sulla ristorazione di oggi? È una bufala. Una presa in giro. Alimenta un sistema artefatto, pieno di falsità e sovrastrutture, minato da interessi che poco hanno a che fare con la bellezza della nostra professione. Il fatto è che ormai il danno è fatto e difficilmente si potrà tornare indietro.
Per la cheesecake: sbattere l’uovo con lo zucchero, unire la Philadelphia continuando a montare e la purea di broccoli, regolare infine di sale e pepe; mescolare il burro fuso ai grissini e stendere il composto su una piccola placca quadrata. Versare la crema preparata in precedenza e cuocere in forno a 140°C per circa un’ora; fare poi raffreddare e tagliare a forma di piccolo rettangolo, intorno poggiarvi gli aghi
di pino. Comporre il millefoglie tagliando sottilmente la capasanta e alternarla con
l’aglio nero a fettine sottilissime, adagiarvi in cima i fagiolini neri tagliati a pennetta e conditi con olio sale e pepe. Cuocere i toulipes in una padella con olio evo aglio e rosmarino; aggiustare di sapore.
In un piatto piano adagiare le fette di petto di piccione a formare due strisce, al centro posizionare la cheesecake e ai lati il millefoglie ed il toulipe; completare con
Non ti sembra di essere troppo duro? No. Vedrai, il tempo mi darà ragione.
puntini di fondo a bordo piatto.
© Niko Boi
CASA VISSANI
Strada Statale 448, Km 6.600 05023 Baschi (TR) Tel. 0744 950206
www.casavissani.it info@casavissani.it
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GOURMETFOOD
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NIKOROMITO
NUOVO “SPAZIO” IN ITALIA E ALL’ESTERO PER
NIKO ROMITO A ROMA E DUBAI di
Lisa Foletti
Cercando una definizione di “spazio”, abbiamo compreso perché Niko Romito ha scelto questo nome per il suo progetto. Termine dai molti significati, ora fisici, ora filosofici: intervallo, distanza, estensione, ambiente dove accadono eventi e fenomeni, luogo indefinito e illimitato in cui si pensano contenuti oggetti, persone, idee. Altrettanti i significati e le forme di “Spazio Niko Romito”, nelle sue diverse location: ultima in ordine di apertura, quella inaugurata a fine gennaio nel quartiere Parioli di Roma, la quarta dopo Rivisondoli (AQ) e Milano, e dopo l’esperienza all’interno di Eataly Ostiense, sempre a Roma. Il concept è quello di un ristorante-laboratorio dedicato ai giovani cuochi della Scuola di Cucina “Niko Romito Formazione” di Castel di Sangro (AQ), dinamico, curato ma conviviale, semplice nella veste ma complesso nella struttura. Il nuovo locale romano è uno “spazio” multifunzionale aperto dalle 7:30 alle 23: non solo ristorante ma anche caffè, rosticceria, forno, cocktail bar, luogo di formazione e lavoro per tanti ragazzi, dove albergano idee ed energie. La formazione, da Spazio, è un concetto basilare: non solo la brigata di cucina, ma tutto lo staff è coinvolto in un percorso di training per acquisire adeguata preparazione e affiatamento.
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GOURMETFOOD
CAPPELLETTI DI SCAMPI
brodo di crostacei e dragoncello INGREDIENTI
g. 500 di impasto per pasta ripiena, kg. 1 di scampi, 2 rametti di dragoncello, 1 costa di sedano, 1 cipolla ramata, scorza di limone, sale fino, vino bianco, peperoncino.
PREPARAZIONE
Per i cappelletti: pulire gli scampi, separando la polpa dai carapaci e dalle teste.
Condire la polpa con sale fino e scorza di limone, inserire in una sac a poche in frigorifero. Stendere la pasta in sfoglie sottili, formare i dischi con un coppapasta di 6
centimetri di diametro. Porre al centro dei dischi il ripieno e chiudere. Mantenere in frigorifero.
Per il brodo: sciacquare i carapaci, togliere gli occhi dalle teste e asciugare. In una
casseruola versare olio extravergine, tostare sedano e cipolla tagliati grossolanamente e aggiungere teste e carapaci. Lasciar insaporire e sfumare con vino bianco.
Coprire con acqua fredda, aggiungere il dragoncello e lasciar andare per circa 2 ore. Filtrare.
Scaldare il brodo, cuocere i cappelletti in abbondante aqua bollente salata, servire con il brodo molto caldo e una fogliolina di dragoncello.
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Qui a Roma, un paio di settimane prima dell’apertura abbiamo assistito a una lunga sessione di formazione tenuta da Valerio Capriotti (foto in basso), responsabile di sala e sommelier: se tutti i locali avessero la possibilità (o la capacità, o la voglia) di fare un lavoro del genere con il proprio staff, probabilmente quello della ristorazione sarebbe un mondo migliore. Le grandi vetrate prospicienti Piazza Verdi offrono alla vista dei passanti la zona forno e il bar, invitanti, con tavolini ravvicinati ma comodi dove poter consumare una colazione, un pasto veloce o un drink. Al bancone, l’esperienza del bartender Mauro Cipollone, affiancato da un giovane assistente, consente di sorbire qualche buon miscelato prima o dopo cena, ma anche durante, come abbiamo fatto noi: mano decisa nei cocktail, spesso a tinte forti, speziati, aromatici, giocati sull’uso di prodotti per lo più artigianali (come i vermouth dell’ex profumiere Baldo Baldinini).
NIKOROMITO
SEPPIA ARROSTO estratto di seppia e puntarelle INGREDIENTI
kg. 1 di seppie fresche sporche, g. 200 di nero di seppia, g. 50 di concentrato di pomodoro, scorza di limone, sale fino, g. 200 di puntarelle, 1 acciuga sott’olio, olio extravergine d’oliva. PREPARAZIONE
Pulire le seppie mantenendo le interiora e il nero. Frullare il nero con concentrato di pomodoro, scorza di limone e sale fino. Scottare in padella le seppie, aggiustare di sale. Saltare rapidamente in padella le puntarelle con l’acciuga e poco olio.
Disporre sul piatto le puntarelle, appoggiarvi la seppia, con un pennello distribuire la salsa sulla seppia. Finire con olio extravergine d’oliva.
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Attraverso un piccolo corridoio si approda nell’area riservata al ristorante, accolti dai modi garbati di Sabrina Romito: la sala è disposta su 2 livelli, tempestata di piante, con pareti vetrate e una copertura di travetti e canniccio che richiama un pergolato. Al primo livello campeggia la grande cucina a vista, marchio di fabbrica del progetto Spazio. Si può pasteggiare nei tavolini lì accanto (come abbiamo fatto noi), al bancone affacciato sulla cucina (come ha fatto chef Romito quella stessa sera), oppure nell’area sottostante, scendendo qualche gradino. Complessivamente il locale è moderno e composito, anche grazie al gioco di spazi e dislivelli. I ragazzi dello staff sono tanti, svegli, sorridenti, forse ancora un poco incerti per via dell’esiguo rodaggio, ma nel complesso un buon gruppo. Il menu è esattamente come ce lo si aspetta: un numero giusto di portate (6 per tipo), descrizioni semplici, varietà, stagionalità, prezzi accessibili. Non sono previsti menu degustazione, ma noi lasciamo che la cucina, guidata dall’executive Gaia Giordano (foto a lato), scelga qualche piatto da proporci. Come da tradizione romitiana, arriva subito una tazza di consommé tiepido, limpidissimo, delicato, con un bell’allungo saporito. Poi si inizia con la ricciola scottata, sal-
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NIKOROMITO
© Francesco Fioramonti
sa al prezzemolo e cipolla arrosto: un tataki carnoso, goloso e perfettamente equilibrato. A seguire, ci viene servito il piatto a nostro avviso più geniale e dirompente dell’intero menu, il radicchio tardivo e mandorle: due soli ingredienti, una concentrazione e una centratezza di gusto da lasciare senza fiato; piatto apparentemente facile, che tradisce grande perizia nella cottura del radicchio (morbido ma consistente, succulento, dall’amarezza presente ma stemperata) e nella preparazione della salsa di mandorle. Segue un altro piatto dalla marca inconfondibile, cappelletti di scampi, brodo di crostacei e dragoncello, omaggio al Reale: un ricordo di quell’ “assoluto” che ha delineato lo stile e decretato la fama di chef Romito, un brodo di fattura straordinaria per pulizia e intensità, in grado di esaltare la semplicità e la purezza
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GOURMETFOOD del cappelletto. Giunti ai secondi, ci viene proposta la seppia arrosto con estratto di seppia e verdure di stagione: una grossa e tenera seppia arrostita, spennellata del suo nero e adagiata su una manciata di sferzanti puntarelle scottate; niente di più e niente di meno, un piatto definito e perfetto nella sua linearità. Per il dessert, la pasticceria si affida a una forma nota, ma con ingredienti nuovi come frutto della passione, caramello, liquirizia e aceto balsamico: dolce-acido per chi ama un fine pasto leggero e raffinato. Piccola pasticceria confortante, con i bignè ripieni di crema pasticcera e caramello all’arancia. La cifra romitiana è evidente e inconfondibile anche qui a Roma, e si riassume in una parola abusata ma efficace: essenzialità. A ogni piatto un sapore netto e dominante, a ogni portata una sensazione ben distinta, come se qualcuno avesse distillato con l’alambicco il cuore di ciascun ingre-
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diente. Sapori puri supportati da consistenze, temperature e aromaticità sempre decise e nette. Carta dei vini snella e divertente, priva di blasoni e ricca di realtà artigiane, soprattutto italiane e francesi, in puro stile Capriotti. Dopo i cocktail, noi abbiamo optato per il “Attention chenin méchant” 2016 di Nicholas Reau, uno chénin blanc dalla beva rabbiosa, illusoriamente facile e dannatamente accattivante. Largo a Spazio, dunque.
NIKO A DUBAI PER BULGARI di
Giovanni Angelucci
Tra gli Emirati Arabi dove potevano arrivare i nostri cuochi con le proprie ricette se non a Dubai? Sarà perchè l’internazionalità è di casa (gli emiratini compongono solo il 10% della popolazione) e gli investitori sono parecchio attivi, anche nel deserto la fertilità sembra non mancare. Qui la squadra italiana ha avuto una presenza importante negli ultimi anni: sono diversi i pezzi da novanta che con consulenze ed effettive presenze nei ristoranti hanno colorato il deserto con il tricolore, da Enrico Bartolini al Roberto’s, a Heinz Beck al Waldorf Astoria, Bice all’Hilton Jumeirah, Alfredo Russo al Vivaldi, il format di Armani, Alfonso Crescenzo allo Splendido del Ritz Carlton, l’anglo-italiano Giorgio Locatelli dell’Atlantis, Marco Torasso nelle due torri Grovesnor House, Pinchiorri con il The Artisan, e il più recente Niko Romito che ha firmato la cucina del Bulgari Hotels & Resorts (anche a Pechino e Shanghai). Il tristellato abruzzese ha realizzato ad hoc un nuovo concept
NIKOROMITO
vicino alla sua filosofia di base con una proposta fatta di semplicità e sintesi con la ricerca verso la quintessenza del sapore che lo contraddistingue; idea fedele ma diversa in esecuzione con piatti lontani dal menù del suo ristorante. “L’obiettivo è dar vita a un vero e proprio “codice” della cucina italiana contemporanea, esprimendo al massimo livello la cultura, l’eleganza e lo spirito vitale del made in Italy. Il gusto vero è un valore assoluto, e come tale può parlare a tutti: la sfida è distillarlo, esportarlo e far sì che tutto il mondo impari a riconoscerlo”, spiega lo chef. Precisi protocolli così da rendere il nuovo menù assolutamente replicabile dalle brigate e da poter garantire lo stesso livello di qualità, il medesimo linguaggio, e un’esperienza ugualmente forte ed esclusiva in tutte le location, indipendentemente dai limiti imposti dalla geografia. A Dubai è l’emiliano Giacomo Amicucci (foto a lato) ad occuparsi dei grandi classici serviti: un brodo per iniziare, un originale antipasto in cui è sintetizzato un grand tour delle regioni d’Italia, accompagnati da versioni ricodificate della tagliatella al ragù (provata la linguina al pesto di basilico e nocciola piemontese, squisita); ravioli di ricotta, spinaci e acqua di pomodoro; cotoletta alla milanese, carni (filetto di vitello con pesto mediterraneo e mandorle), ventresca di tonno e filetto di rana pescatrice, tiramisù pregevole. Con il pane ovviamente sempre protagonista al centro della tavola in quanto elemento cardine della filosofia di Romito.
SPAZIO NIKO ROMITO
Ristorante - Via Guido d’Arezzo 5C - Roma - Tel. 06 8535 2523
Pane e Caffè - Piazza Giuseppe Verdi 9E - Roma - Tel. 06 8551990 www.spazionikoromito.com - info@spazionikoromito.com
IL RISTORANTE - NIKO ROMITO DEL BULGARI RESORT DUBAI
Jumeira Bay Island, Jumeira 2, Dubai UAE - Tel. +971 4 7775555 www.bulgarihotels.com
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Giovani talenti di
Antonietta Mazzeo Giovanna Di Lisciandro
foto di
A ROMA RISTORANTE ENOTECA LA TORRE
DOMENICO STILE UNA CUCINA IN MOVIMENTO
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DOMENICOSTILE
A
dagiata sull’ombrosa riva destra del Tevere, nello storico quartiere Della Vittoria, Villa Laetitia è un armonioso incrocio tra stile liberty, elementi rinascimentali, marmi policromi barocchi e influenze orientali, come attesta il bellissimo giardino sempreverde che circonda la villa. Progettata nel 1911 dall’architetto romano Armando Brasini, Villa Laetitia è la dimora storica di proprietà della famiglia Fendi Venturini. Ad un secolo dalla sua edificazione, la stilista Anna Fendi Venturini - con un’attenta ed integrale opera di restauro - le ha restituito l’antico splendore, trasformandola in una residenza raffinata, di un’eleganza esibita ma non ostentata: un’isola di pace al centro di Roma. Hotel di Charme, al secondo piano la residenza storica ospita il Villa Apartment, esclusivo e di assoluta privacy. Le sei stanze di differenti categorie; sono caratterizzate da un gusto preciso nell’accostamento di mobili e materiali di epoche diverse. Le stanze, deluxe e suite, hanno una magnifica vista sul giardino e sui giganteschi platani del Lungotevere. La Garden House, nata come appartata foresteria della villa, è un luogo a se stante:, incastonato nell’affascinante quartiere Prati, è cinto da un folto giardino. Ognuna della 14 camere si distingue per tema decorativo, arredo e una miriade di dettagli dettati da buongusto e sapiente ricercatezza. Da giugno 2013 il piano terra ospita il Ristorante Enoteca La Torre, stella Michelin dal 2010 e 3 forchette del Gambero Rosso, a cui è dedicato l’antico salone da pranzo della villa, caratterizzato dalla grande vetrata che scompone la luce solare in un mosaico caleidoscopico, simbolo stesso di Villa Laetitia. L’ambiente denota un’elegante fusio-
ne tra affreschi e stucchi neobarocchi, arredi originali di inizio ‘900, porcellane e vasellame di pregio, tra cui anche alcuni pezzi a firma “Anna Fendi”. Al piano terra sono disponibili numerosi altri spazi, fra i quali la sala Castellani - utilizzata come tea room ma anche per degustazioni - e una sala bar, dove gustare un aperitivo in attesa degli altri ospiti. Domenico Stile, classe 1989, nato sul Golfo di Napoli, a Castellammare di Stabia e cresciuto a Gragnano, da febbraio 2016 è l’Executive Chef a cui va il merito di aver ottenuto in pochi mesi la conferma della Michelin per il ristorante e la sua prima stella. La passione per la cucina l’ha ereditata dallo zio Franco la Mura (chef in una scuola di cucina e maestro nella decorazione di vegetali) che lo ha guidato attraverso
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Giovani talenti
CREMA BRUCIATA DI PASTIERA pompelmo, sorbetto agli agrumi e achillea INGREDIENTI
Per la crema: g. 320 di tuorlo, g. 320 di zucchero, g. 600 di acqua, g. 600 di grano cotto per pastiera, g. 600 di ricotta mista setacciata, g. 100 di zucchero, g. 600 di panna semimontata, g. 50 di
cedro candito, g. 50 di arancia candita, g. 30 di colla di pesce, zest limone e arancia.
Portare acqua e zucchero a 121°C e creare con tuorli e zucchero una pàte à bombe. Aggiungere tutti gli altri ingredienti, tenendo per ultimi la panna semimontata e la colla di pesce e mescolare dal basso verso l’alto.
Per il crumble di mandorla: g. 250 di farina 00, g. 250 di farina mandorle, g. 250 di burro, g. 250 di zucchero di canna.
Impastare con la foglia e infornare a 160°C fino a doratura.
Per il gel di pompelmo rosso: g. 200 di succo di pompelmo,
il duro apprendistato nella cucina e nella vita. Il suo primo insegnante e maestro è stato lo chef e Presidente Italcuochi Enrico Cosentino, insegnante all’alberghiero di Castellammare di Stabia, l’inventore dello scialatiello, vera istituzione della cucina campana. Il primo riconoscimento a 18 anni: medaglia d’oro al concorso “Internazionale d’Italia Marina under 23 Cucina Artistica”, per una scultura realizzata con il burro. A 20 anni parte dalla sua Campania e comincia a viaggiare; approda alla corte di Gianfranco Vissani dove resta circa due anni, a seguire frequenta le cucina di Antonino Cannavacciuolo, Piazza Duomo con Enrico Crippa, e Bottura nel 2013; poi, 3 anni da Nino Di Costanzo, con cui ha avuto la fortuna di lavorare a più riprese. Non mancano anche brevi esperienze all’estero, tra cui uno stage a Chicago nel famoso ristorante Alinea. Intraprendente, volitivo, di grande umiltà, Domenico non ha portato a Enoteca La Torre solo le suggestioni della sua terra, ma anche una cucina di “sentimento”, dove la costante è rappresentata dal dinamismo, perchè la staticità non è innovazione e chi non si forma, si ferma! Un cucina lineare la sua, pulita, precisa, scrupolosa e coscienziosa, che si fonda su basi classiche ma nel contempo è una cucina passionale, una vera e propria poetica del mare e della tradizione partenopea, che parte dalle sue origini, per arrivare alla ricerca ed alla sperimentazione. Ne risulta un quadro ricco di sfumature diverse, di sorprendenti novità, di perfetti bilanciamenti, di estetica raffinata. Tra gli ingredienti con cui
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DOMENICOSTILE
g. 50 di sciroppo (g. 100 di acqua e g. 100 di zucchero), g. 3 di agar agar.
Portare a bollore lo sciroppo e il pompelmo con agar agar; una volta rappreso il tutto, frullare con minipimer e filtrare.
Per la tuille di arancia: g. 100 di farina 00, g. 100 di burro a crema, g. 250 di zucchero a velo, g. 75 di succo d’arancia.
Unire tutti gli ingredienti, mescolare con una frusta, porre
all’interno di un sac a poche e conferire la forma desiderata su un silkpat. Infornare a 190°C per 6 minuti.
Una volta cotto il tutto, prima che si raffreddi, conferire una forma arricciata.
Per il sorbetto agrumi e achillea: g. 400 di succo di mandarino, g. 400 di succo d’arancia, g. 100 di succo di limone,
g. 100 di succo di pompelmo, a cui si aggiunge la base del sorbetto (g. 180 di zucchero, g. 60 di glucosio, g. 250 di acqua, g. 2 di stabilizzante).
Unire alla base del sorbetto l’achillea e lasciare in infusione; filtrare e unire al succo di agrumi; frullare al minipimer e pacossare.
MOUSSE AL CAFFÈ CARAMELLATO tabacco, liquirizia e fiori di sambuco INGREDIENTI
Per il biscotto: g. 110 di uova, g. 45 di tuorli, g. 60 di zucchero, g. 0,5 di
sale, g. 7,5 di zucchero invertito, g. 65 di albume, g. 62,5 di zucchero, g. 55 di farina 00.
Montare uova, tuorli, zucchero, sale fino ad ottenere una massa spumosa;
incorporare albumi montati a neve ed infine la farina setacciata. Stampare sul biscuit l’effetto chicco di caffè e cuocere in forno a 200°C per 6 minuti.
Per la mousse al caffè: g. 300 di tuorli, 2 uova, g. 500 di zucchero, g. 220 di acqua, l. 1 di caffè, l. 1 di panna, g. 30 di colla di pesce.
Portare acqua e zucchero a 150°C, versare all’interno il caffè, far ridurre e versare sui tuorli. Montare come una pàte à bombe; quando il composto sarà freddo, incorporare la panna semimontata e la colla di pesce sciolta.
Per il gelato ai chicchi di caffè e sambuca: g. 800 di latte, g. 200 di pan-
na 32%, g. 80 di zucchero, g. 2 di stabilizzante, g. 10 di sciroppo al sambuco, g. 20 di liquore di sambuca.
Mescolare tutti gli ingredienti e portare a 64°C; mettere nei tombolini e pacossare.
Domenico trova maggiore affinità ci sono senza dubbio i molluschi, con cui realizza piatti eccellenti. Le preparazioni sono piacevoli ed attuali; ne sono testimonianza, tra gli altri, il risotto con le bucce dei limoni di Amalfi, o l’anatra marinata al coriandolo, finocchio, arancio e spezie, lo scenografico piatto altoatesino macedonia sotto la neve il cui racconto riporta all’estate e la campana delizia al limone riproposta in chiave contemporanea. Sul carrello trova posto un’ottima selezione di rari e ricercati formaggi italiani e francesi. Particolare attenzione è posta nella cura del cliente, reso partecipe del lavoro di cucina: la descrizione dei piatti r gli abbinamenti con i vini sono raccontati da una squadra di professionisti di gran livello, dal maitre di sala Luigi Picca al sommelier Rudy Travagli. La ricercata cantina, visitabile su richiesta, è posta in una sala interrata le cui pareti sono rivestite con azulejos bianchi e blu con motivi floreali. Si tratta di una collezione composta da oltre 1200 etichette selezionate da Anna Fendi Venturini. Il fascino e la sobria eleganza di Villa Laetitia, uniti alla speciale proposta gastronomica del talentuoso Domenico Stile, regalano al fortunato avventore un’esperienza di raffinata e autentica qualità, un vero e proprio viaggio, nel quale, accanto alla tradizione, ci si imbatte in sapori e profumi nuovi e sorprendenti, sempre in evoluzione.
Per la creme brulée: g. 200 di panna, g. 60 di latte, g. 100 di tuorlo, g. 80 di zucchero, g. 10 di fiori di sambuco.
Mescolare tutti gli ingredienti, cuocere negli appositi stampi per 45/50 minuti a 100°C. Coprire con pellicola a contatto.
Per il gel di liquirizia: g. 250 di acqua, g. 10 di pasta liquirizia, g. 10 di pasta caffè, g. 3 di agar agar.
Portare tutti gli ingredienti a bollore, lasciare gelificare una notte, frullare con mixer ad immersione.
Per la spuma di tabacco: g. 700 di panna 32%, g. 300 di latte, 7 tuorli, g. 300 di zucchero, g. 300 di panna 32%, g. 5 di colla di pesce, g. 7,5 di tabacco da pipa.
Confezionare una classica crema inglese e sciogliere all’interno la colla di pesce. A parte lasciare in infusione per una notte la panna con il tabacco, mescolare i due composti e unire tutto in un sifone.
RISTORANTE ENOTECA LA TORRE
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Giovani talenti
DOMENICO STILE INTERPRETA
RAVIOLOTTI CON POLENTA E MONTASIO D.O.P. gamberi rossi, dragoncello e caviale
INGREDIENTI per 4 persone
PROCEDIMENTO
D.O.P. Divine Creazioni Surgital
Sgusciare i gamberi e farli ma-
16 Raviolotti con polenta e Montasio 12 gamberi rossi aglio
arancia
g. 100 di bisque di crostacei 1 limone
dragoncello caviale
olio evo
sale e pepe Xantana
Per i gamberi
rinare con le bucce di arancia, limone e aglio per circa 2 ore. Per la bisque
Recuperare tutti i carapaci dei
gamberi, farli tostare in un brodo
di sedano, cipolla, aglio, prezze-
molo e basilico, sfumare con brandy ed aggiungere il pomodoro.
Lasciar cuocere per circa 2 ore. Frullare
tutto al Pacojet; filtrare la salsa ed addensare con Xantana.
Per la coulis di dragoncello
Sbollentare il dragoncello in acqua salata e bicar-
bonato, raffreddare e frullare al Bimby addensando con Xantana.
ASSEMBLAGGIO
Alla base del piatto mettere la bisque, aggiungere la coulis di dragoncello, adagiare i Ra-
violotti cotti e spadellati con un filo di olio evo. Completare ogni Raviolotto con caviale, gamberi crudi.
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Giovani talenti
CASTELMAGNI
carciofi alla brace, coniglio e aglio nero fermentato INGREDIENTI per 4 persone 16 Castelmagni
Divine Creazioni Surgital
li sottovuoto con aglio, olio, prezzemolo e menta per 45 minuti a 85°C.
4 carciofi
Per il coniglio
prezzemolo
bocconcini e marinarli sotto-
aglio
basilico menta
brodo vegetale un coniglio
Disossare il coniglio, ricavare dei vuoto con timo e rosmarino per circa 8 ore. Al momento del servizio, arrostirli.
una testa aglio nero
Per l’aglio nero
olio evo
con brodo vegetale
cerfoglio
sale e pepe Xantana
PROCEDIMENTO
Per la salsa ai carciofi
Pulire i carciofi e condirli internamente con sale, olio, aglio, prezzemolo e menta.
Posizionarli all’interno di un barbecue con i carboni e lasciar cuocere per circa un’ora.
Privare i carciofi della parte esterna, frullarli con brodo vegetale portandoli a consistenza ed addensare con poca Xantana. Per i carciofi sottovuoto
Pulire i carciofi, tagliarli a spicchi e cuocer-
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Pulire l’aglio, frullarlo setacciare.
ASSEMBLAGGIO
Porre alla base la salsa di carciofi e
quella di aglio nero
alternandole; ag-
giungere i bocconcini
di coniglio e gli spic-
chi di carciofo; infine
adagiare i Castelmagni
precedentemente ripas-
sati in padella con una noce
di burro. Completare con cerfoglio e polvere di carciofi.
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Giovani talenti per
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FOSSATELLI DEL RUBICONE
salsa di champignon e senape, tartufo nero, trombette dei morti INGREDIENTI per 4 persone
Per la crema di tartufo nero
Divine Creazioni Surgital
brace. Inserire nel Bimby con brodo vege-
16 Fossatelli del Rubicone tartufo nero
champignon
trombette dei morti
Cuocere i tartufi sotto la cenere di una
tale e frullare fino ad ottenere una consistenza liscia.
scalogno
Per le trombette dei morti
burro
minando eventuali residui di terriccio.
patate
senape PROCEDIMENTO
Reidratare le trombette, aprirle a metà eliLasciare asciugare una notte. Friggerle in olio e lasciarle essiccare in forno a 60°C.
Per la salsa di champignon
ASSEMBLAGGIO
aggiungere gli champignon tagliati a fet-
salata, scolarli, spadellarli con una noce di
Creare un fondo con scalogno e patate, tine, sfumare con vino bianco e portare a cottura. Alla fine aggiungere la senape, il
Cuocere i Fossatelli in abbondante acqua burro e impiattarli come da foto.
sale, il pepe e frullare al Bimby.
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ILFOCUSDIALESSANDROROSSI
a cura di
Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”
BÂ(S)TARD! ... BÂ(S)TARD D’UN MONTRACHET! NON C’È NIENTE FARE! LO CHARDONNAY È IL MONTRACHET ED INSIEME AI SUOI FRATELLI È IRRAGGIUNGIBILE: NESSUNO PUÒ COMPETERE Non possiamo farci niente, è impossibile competere. Ho cercato con attenzione e insistenza, ma non ho trovato ancora ad oggi nessuno chardonnay che possa gareggiare con i cinque mostri sacri. Ok va bene, ovviamente sono a conoscenza del fatto che un certo Corton Charlemagne sull’altra montagna - quella di Corton, forse il più bel vigneto di Borgogna stilisticamente parlando - é grande quanto loro. E’ vero, ci sta, ma sempre in Francia siamo. Ma partiamo per gradi: Montrachet è il nome di un Grand Cru (definizione che affonda le sue radici nella tradizione dei Monaci Cistercensi che più di mille anni fa separarono con muretti a secco le migliori parcelle di terreno, quelle atte a divenire il vino migliore) della Cote de Beaune, certamente il più prestigioso Grand Cru bianco di Borgogna. Quel pugno di ettari è in grado di dare i migliori vini bianchi del mondo. I comuni sono quelli di Puligny e Chassagne e cubano meno di mille anime tra tutti e due. E’ una famiglia numerosa quella dei Montrachet: oltre al fratello maggiore, cioè “il” Montrachet (circa 8 ha), ci sono i fratellini più piccoli ma altrettanto buoni Chevalier-Montrachet (7ha), Bâtard-
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Montrachet (12 ha), Bienvenues-Bâtard-Montrachet (3,5 ha), Criots-Bâtard-Montrachet (1,5 ha), chi più in su, chi più in giù di qualche metro, ma la perfezione è questione di centimetri, ovviamente. La superficie totale in produzione è di 7,99 ettari, di cui 4,01 ettari ricadono sul territorio comunale di Puligny e 3,98 ettari sul territorio comunale di Chassagne. Per estrema precisione, sulle mappe la parte che versa su Puligny si chiama Montrachet e quella su Chassagne Le Montrachet. Ma perché questi vini bianchi sono considerati i più buoni e i più longevi del mondo? E perché hanno caratteristiche completamente differenti da tutti gli altri chardonnay? Per tanti fattori, ma principalmente per due: la geologia (ma anche il clima e l’esposizione) e l’acidità. Geologicamente i suoli risalgono al Giurassico, dunque a più di 175 milioni di anni fa. L’altitudine è compresa tra i 250 e i 270 metri, perfetta per mantenere calore ed avere freschezza. Il suolo è principalmente calcareo, con uno strato abbondante di ciottoli attraversato da una banda di marna rossastra.
BÂ(S)TARD!...BÂ(S)TARD
Ma, soprattutto, parliamo di un suolo altamente drenante, caratteristica fondamentale e quasi unica nel suo genere. Poi arriviamo all’acidità. La spiccata acidità che quasi tutti i vini bianchi francesi hanno, ma soprattutto quelli di questa area geografica (lo Chablis, per esempio, altro grandissimo chardonnay francese, vive di altre logiche dettate anche da un clima più rigido e terreni differenti), è figlia del fortunato substrato geologico come raccontavamo prima. Questi vini hanno la possibilità di svolgere completamente il processo chimico-fisico naturale della malolattica - è una vera e propria seconda fermentazione, successiva alla fermentazione alcolica, che dipende dai batteri naturalmente presenti nel vino che agiscono sull’acido malico trasformandolo in acido lattico - senza appiattirsi mantenendo un’elevata acidità e un grande punto di bevuta. E’ anche grazie a questa fermentazione che, al naso, questi vini diventano perfettamente riconoscibili, infatti questa trasformazione spesso genere note vanigliate, tostate, casearie spesso assimilabili al burro.
Solitamente questo processo non è ben gradito da parte dei vini bianchi in cui l’acidità conferisce freschezza e preserva le note fruttate. Infatti questa seconda fermentazione tende ad appiattire il vino, rendendolo meno fragrante e consistente a meno che non si parli, appunto, di vini di altissima acidità. Organoletticamente il Montrachet è dominato da sentori di burro d’alpeggio e croissant, frutta secca, spezie e miele. Ha corpo, crema e armonia oltre ad una grande eleganza. In bocca è asciutto, sontuoso e profondo. La texture è cremosa e oleosa. I grandi produttori che hanno fatto la storia di questi Cru sono sicuramente Ramonet, Sauzet, Domaine de La Romanée Conti, Comtes Lafon, Domaine Leflaive, Domaine LeRoy, Bouchard Pere et Fils, Jadot, Jacques Prieur, Carillon e pochi altri. Ora, la domanda che mi faccio è sempre la stessa da anni. Perché cerchiamo, ma non solo in Italia, di copiare quello che non può essere copiato? Prendiamo spunti, studiamo e cerchiamo di imparare da chi è più bravo, ma costruiamo una nostra strada, perché le strade italiane non saranno mai uguali a quelle francesi.
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VINARIA
BENTORNATI NEI FAVOLOSI ANNI ‘80
MONTALCINO VENDEMMIA 2013
ANNATA A 5 STELLE? PER ORA, MA IL BICCHIERE DICE 5 di
Alessandro Rossi
“A Montalcino non esistono annate, ma vendemmie”: così ha esordito Enrico Viglierchio - Direttore Generale di Castello Banfi - ad una cena durante il lungo week-end di anteprime 2013. Ora, nel vino esistono tre cose: la vigna, la vendemmia e l’opera dell’uomo. Considerando che sull’andamento metereologico di una vendemmia non possiamo intervenire, credo che questa riflessione sia più che corretta, sopratutto per le variazioni climatiche che stiamo attraversando negli ultimi anni. Diciamocela tutta però, prima di gridare al “quasi miracolo”: la vendemmia 2013 non piaceva più di tanto e non era inizialmente molto amata. La maggior parte dei produttori erano titubanti, quasi preoccupati. Agitazione é forse il termine più appropriato, perché la difficoltà sta nella gestione della vendemmia e nella sua interpretazione. Aggiungo di più: forse quando ci si imbatte in vendemmie più verdi come la 2013, non vengono più lette con la stessa facilità di una volta. Ma torniamo alla nostra vendemmia 2013: avete presente i favolosi anni ‘80, ruggenti e scapestrati quando la Toscana fu incoronata regina delle regine del vino, esibendo i muscoli e alzando la cresta come un gallo grazie alle indiscusse potenzialità sopratutto a Montalcino? Beh, ecco, questa vendemmia mi ricorda, sperando anche in longevità, sotto molti punti di vista, quelle vendemmie di tanti anni fa, atte a generare Sangiovesi di un tempo. Ovvio che non si parla solo di Montalcino ma anche di
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altre zone vitate della Toscana, perché molte similitudini le si possono rilevare anche nel Chianti, sopratutto quello di altura. Comunque parliamo di un vino lento, assonnato, che non ha fretta. Una di quelle vendemmie dove comanda la freschezza, l’eleganza, la sottigliezza, la sottrazione di materia ma dove la bilancia pende anche verso la concentrazione. Vini atti a divenire solo con il tempo. Entrando nello specifico e nel tecnico, l’acidità, la freschezza (in alcuni casi al limite del verde), la diluizione, se vogliamo, e anche un’affascinante riduzione su molti Brunello di Montalcino 2013 che ho assaggiato, sono il comune deno-
MONTALCINOVENDEMMIA2013
minatore di questa annata che, a tratti, ricorda molto la 2008 dove regnava un minor frutto, corpo e complessità. Ma per capire chi è veramente questa vendemmia 2013 e darle un’identità, abbiamo intervistato un grande maestro assaggiatore, Federico Staderini. Un uomo che ha studiato a lungo il sangiovese e le sue numerose sfaccettature, oltre ad esse tra i più grandi interpreti di questo vitigno. Dott. Staderini, innanzitutto la domanda, ovviamente, è di rito: cosa ne pensa della vendemmia 2013 a Montalcino? È sicuramente una grande vendemmia senza ombra di dubbio. Ha goduto della normale gradualità di maturazione delle uve in vigna. La stessa gradualità della vendemmia 2016, per intenderci, tranne per il fatto che nella 2013 le rese sono state per natura più basse. Ovviamente parlo della Toscana che considero il mio unico osservatorio reale considerando che lavoro nella maggior parte dei casi in questa terra. La vendemmia 2016 ha generato grandi vini ma con meno concentrazione rispetto alla vendemmia 2013. Non escludo che chi ha avuto occhio molto vigile diradando, abbia temperato questa tendenza vegetativa. Ma per sua natura, mi immagino che ci siano molti più vini di una struttura densa e fitta nel 2013 di quanti forse ce ne saranno nel 2016. Quali sono le caratteristiche principali e comuni che si riscontrano nei Brunello di Montalcino 2013? Io, di mia natura, mi concentro molto sui miei vini ed ho un vizio, ovvero quello di confrontarmi, se posso, con tanti altri produttori sul bicchiere, ma non troppo. Quello che posso dire è che ultimamente però ho avuto l’opportunità di assaggiare una serie di Brunello di Montalcino 2013 e quasi tutti mi confermano la stessa tendenza. Credo esista un’onda, una “piega” di stile, un moto ondoso che scaturisce da un fattore climatico, che parte dalla Maremma bassa, Capalbio per intenderci. Dopo sette giorni arriva a Montalcino nelle parti più calde, dopo 10/11 giorni raggiunge le parti più fresche per poi passare al Chianti Classico e terminare al passo del Muraglione, ai confini con la Romagna, ed è un’onda stilistica che vorrei dire rappresenta il “taglio” di quella annata. Ovviamente interagisce in maniera diversa, il che dipende dal microclima, da ciacun comprensorio e molto dalla varietà. Si è visto anche nella vendemmia 2017 tra le varietà più precoci e quelle più tardive. C’è molto più divario nell’età della raccolta sulle varietà precoci dove c’è stato un anticipo molto più ampio rispetto alla differenza delle vendemmie delle varietà tardive. L’assaggio comunque mi ha confermato che i vini della vendemmia 2013 a Montalcino sono vini compatti, alcuni già pronti e tutti con tanta energia interiore.
Credo che saranno molto molto longevi. Beneficeranno della maturazione in bottiglia. Però, sono tutti compresi in un punteggio alto di valutazione a differenza di altre annate, nelle quali la banda di variazione è più larga. Nel 2013 la variabilità è più ristretta e la media sospinta verso l’alto. Secondo lei esiste veramente un problema di gestione delle vendemmie? Faticano i nostri produttori ad immedesimarsi e a cambiare mentalità quando si passa da vendemmie calde a vendemmie più fresche? Non credo sia esatto. Parlo per esperienza personale lavorando a Poggio di Sotto, ovviamente. La preoccupazione maggiore non è questa, non è la diversificazione delle vendemmie. La grande preoccupazione è nei confronti delle contromisure da applicare in vigna per fronteggiare le vendemmie come la 2017 per esempio. E’ solo nella direzione del gran caldo che si riscontrano difficoltà, i risultati parlano chiaro. Nel 2013 i vini sono molto buoni, appunto per questo non credo che esistano difficoltà di interpretazione.
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VINARIA
Che curva del tempo può sfidare un’annata come la 2013 a Montalcino? È in grado di partecipare alla storia di questo territorio? Io conosco le reazioni del vino sangiovese da Brunello attraverso le più disparate condizioni delle annate solo da relativamente poco tempo; dal 2010, quando iniziai come garzone, se così si può dire. Invece avere memoria non nitida ma nitidissima della serie storica nella nostra biblioteca privata degli aromi là dietro nel cerebro, come ben individuato dalle neuroscienze, è fondamentale per voler divinare sulla durata dei vini. Peraltro lo stesso principio di memoria storica vale quando si voglia comporre l’assemblaggio di un vino prima dell’elèvage sur bois. Mi sono trovato nel 1987, credo intorno alla metà di novembre, ad una tavola dove erano assisi tre grandi personaggi di una famosa azienda di Pomerol. Prima del pasto comune insieme a una tavolata di cantinieri in divisa azzurra, i tre si erano in precedenza barricati in cantina, sbarbate le linee telefoniche, per mettere insieme il taglio di quell’87 compulsando a tratto a tratto proprio la loro biblioteca degli aromi. Ed erano passati a fatica 45 giorni dalla vendemmia. L’esercizio delle previsioni si fa con tanta esperienza alle spalle. In più, l’età media dei vigneti in Italia potrebbe essere compresa tra i 17 ed i 24 anni, suppongo quelli di Montalcino compresi, mentre in varie appellazioni francesi tra le più prestigiose tra i 35 ed i 45 anni. Questo ha pure un gran peso nella longevità dei vini. Ispirandomi a vendemmie del passato quali la 2001 - inizialmente pur più spigolosa di tannini della 2013, mi posso figurare che il Brunello 2013 - per i prossimi 15/20 anni lo si godrà con piena soddisfazione.
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Di seguito i primi dieci Brunello di Montalcino 2013 che più mi hanno impressionato in degustazione: BRUNELLO DI MONTALCINO 2013 - POGGIO DI SOTTO Al naso è profondo, elegante, raffinato, complesso oltre che intrigante. Piccola frutta rossa dolce e note di tabacco. La bocca è succosa, sapida e lunghissima. La chiusura è balsamica con note di liquirizia: 98/100. BRUNELLO DI MONTALCINO TENUTA NUOVA 2013 - CASANOVA DI NERI Suadente e dal tannino levigato, penetrante e persistente. Al naso si riscontra frutta rossa, toni balsamici, menta e pepe. La bocca ha forza e grande equilibrio ma al tempo stesso eleganza: 96/100. BRUNELLO DI MONTALCINO 2013: SALVIONI - LA CERBAIOLA Al naso é molto fine, esile ed elegante. La bocca è di spessore e grande complessità. Tannino denso e molto educato con un finale che vira su sensazioni più officinali: 95/100. BRUNELLO DI MONTALCINO MADONNA DELLE GRAZIE 2013 - IL MARRONETO Al naso è un vino sottile e molto floreale, elegante e leggiadro. La bocca rispecchia l’eleganza e la struttura. Un vino estremamente sapido, lungo e dal tannino già ben levigato: 95/100. BRUNELLO DI MONTALCINO 2013 - LE POTAZZINE Naso penetrante, elegante, molto profondo e pulito. La bocca è caratterizzata da una frutta rossa molto sottile ma succosa, una buona acidità oltre che da tannini fitti e ben amalgamati: 94/100. BRUNELLO DI MONTALCINO FORNACE 2013 - LE RAGNAIE Un sangiovese elegante, di grande propensione all’invecchiamento. Un vino lungo, asciutto e pronto. La bocca è di grande persistenza, fresca ed elegante: 93/100. BRUNELLO DI MONTALCINO 2013 - COL D’ORCIA Al naso è austero e progressivo, grafite e frutta rossa, rigido. Più dolce in bocca dove si ritrova la stessa frutta. E’ un vino molto lungo ed estremamente elegante: 93/100. BRUNELLO DI MONTALCINO 2013 - ARGIANO Un naso molto pulito ed essenziale. La bocca è profonda, cremosa, una grande struttura che si tramuta in lunghezza. La chiusura è in versione elegante, sottile ma con un tannino nobile che aiuta la bevuta: 92/100. BRUNELLO DI MONTALCINO 2013 - CAPANNA Un vino di una grande freschezza, profondo, elegante, e ben ideato. Un naso ricco di bacche rosse e spezie. La bocca la si apprezza per la grande lunghezza e la grande succosità: 92/100. BRUNELLO DI MONTALCINO 2013 - CANILICCHIO DI SOPRA Un vino dai tratti marcati e terrosi. Molto profondo come frutto, denso, teso e ben delineato. La bocca anche in questa fase è lunga ma cremosa, mantiene la giusta rigidità: 92/100.
VINARIA
PAS DOSÉ
LA BOLLA SUGAR FREE CHE PARTE DALLA PIANTA di
Marco Tonelli
Dieta, anche nel vino. Non parlo di quantità, intesa come consumi o come numero di degustazioni, sempre più numerose, ma di quella relativa agli zuccheri presenti negli spumanti. Magrezza mezza bellezza quindi? Quasi, ma senza dimenticare quelle doverose precisazioni che vanno riferite soprattutto al fenomeno, molto italiano, del dosaggio zero. A far chiarezza sulla tipologia, relativa al residuo zuccherino presente o, per meglio dire, assente, non ci pensano purtroppo i termini che invece dovrebbero definirla. Pas dosé, dosaggio zero, brut nature sono, nel nostro Paese, tutti sinonimi di uno spumante metodo classico con un residuo compreso tra zero a 3 grammi per litro. Le origini di questa tipologia, come detto, oggi molto in voga, vanno cercate in diverse direzioni. Pensiamo alla tavola. Le tendenze gastronomiche rivolte alla leggerezza e alla latitanza di condimenti, hanno favorito l’utilizzo della bolla e, nello specifico, di una dotata di agilità e tensione, l’u-
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PASDOSÉ
nica in grado di non eclissare bocconi sempre più ipocalorici. A questo, nel tempo, si è aggiunta un’enomania che assegna, non si sa perché, la patente di esperto di vini a chi prediliga questa tipologia, quasi come se proprio l’etichetta potesse a sua volta etichettare la qualità del bevitore. Il motivo? Alcuni ad esempio pensano che uno spumante metodo classico, nostrano e non, finalmente liberato dalla schiavitù dello zucchero, risulti essere più vero. La verità è in realtà quella che il dosaggio zero sia un fattore che vada costruito nel tempo. Di cucina e relative tendenze ne ho già parlato. Un altro fattore decisivo, non solo per la nascita ma anche per la diffusione di questa tipologia, è invece quello che fa riferimento al riscaldamento globale. In zone limite per la viticoltura come la Champagne, la tipologia pas dosé è cresciuta di pari passo con la progressiva regolarità della maturazione dei grappoli. Per questo la tipologia in questione è andata sempre più aumentando all’interno delle gamme di etichette delle diverse maison. Sta di fatto che i vini top di questa zona siano ancora in prevalenza dosati come brut o extra brut. La scelta di dosare fino a 15 gr/litro (limite per etichettare uno champagne come brut) i prodotti di punta di ogni singola maison, ricade innanzitutto su di un fattore essenziale: quello dell’equilibrio, valore assoluto per un vino che voglia durare nel tempo. A questo se ne affianca uno di natura strettamente più tecnica, visto che generalmente ad un quantitativo di zucchero più alto si accompagnano più elevati livelli solforosa. Nei climi più caldi come il nostro invece la maturazione sempre più esatta, se non addirittura ‘over’ in certe annate, determina che questa tipologia sia quasi una scelta obbligata. Alcuni produttori, per fortuna in numero decrescente, ritengono ancora che per realizzare un buon dosaggio zero sia sufficiente non aggiungere zucchero alle proprie bolle. Tutto sbagliato! Una bolla sugar free come si deve parte dalla pianta (vanno selezionate attentamente le parcelle e il posizionamento delle stesse) e non da una semplice omissione in cantina. Di seguito ecco una personalissima selezione di quegli spumanti e/o champagne senza dosaggio, che mi sono passati nel bicchiere, rimanendomi impressi nella memoria gustativa. L’elenco segue un disordine rigorosamente casuale. Per chi amasse le graduatorie, dirò che Jacquesson e Gimmonet prevalgono tra gli champagne e Ferghettina e Ca’ del Bosco tra le bolle nazionali. Lo spumante zero di Ferrari merita invece ancora un po’ di riposo in bottiglia per esprimersi al meglio.
FERGHETTINA FRANCIACORTA DOCG DOSAGGIO ZERO RISERVA 33 2010 In mezzo a tanti mostri sacri della denominazione, un vino fatto da un’azienda che nel tempo ha saputo ritagliarsi una nicchia tra i grandi della bolla bresciana. Uno Chardonnay che sta 80 mesi sui lieviti. In bocca entra appuntito di agrumi e poi guadagna larghezza su toni di mela e zenzero candito.
CA’ DEL BOSCO FRANCIACORTA DOSAGGIO ZERO VINTAGE COLLECTION 2013 Tre vitigni ricavati da vigneti di età differenti. Poi in cantina 4 anni sui lieviti, zero zucchero aggiunto dopo la sboccatura. Profumi di agrumi in scorza e mela. In bocca la carbonica ha stile, il sorso gli fa rima con un frutto luminoso e nitido, specie su toni di mela renetta e mela granny smith. Frutta secca nel finale.
IL MOSNEL FRANCIACORTA ROSÉ DOSAGGIO ZERO PAROSÉ 2012 Un vino con l’accento, in tutti i sensi. Mette l’accento sul carattere del Pinot Nero, uva prevalente nel blend, con quelle sue asprezze controllate di frutti di bosco rossi, ma mette anche l’accento anche su quella maturità golosa che sa di confettura di melograno. Accenti salati lungo il sorso.
FERRARI TRENTODOC PERLÉ ZERO CUVÉE ZERO 10 Solo Chardonnay di tre annate differenti. Il riferimento al 10 va perciò alla data di creazione di questa cuvée. Lungo pit stop sui lieviti: siamo sui sei anni. Il vino apre su un naso sottile e quasi sussurrato di agrumi, sia in polpa che in scorza, con qualche tocco di frutta bianca. In bocca è asciutto, dritto, tutto d’un pezzo.
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VINARIA
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MARIE COURTAIN CHAMPAGNE EXTRA BRUT EFFLORESCENCE 2013
DRAPPIER CHAMPAGNE BRUT NATURE DOSAGE ZERÒ SANS SOUFRE
Maison guidata da Dominique Moreau. Una donna che fa champagne con gli attributi, per quel loro essere sinceri e aderenti con il territorio: qui siamo nell’Aube. Solo Pinot Nero affinato in legno. Al naso, frutto rosso sottile con qualche tocco di lievito. Bocca tesa, a tratti magra, dalla travolgente sapidità marina.
Pinot Nero non millesimato da una delle aziende più rappresentative dell’Aube. Ogni tanto questa etichetta soffre di problemi legati alla chiusura, alias tappo. Quando è in forma ha una beva fulminante, saporita e appagante, anche in fase di abbinamento.
PIERRE GIMONNET CHAMPAGNE OENOPHILE 1ER CRU NON DOSÉ 2008
JACQUESSON CHAMPAGNE CORNE BAUTRAY DIZY 1ER CRU 2007
Solo Chardonnay in prevalenza provenienti da Cramant e Chouilly. Sì alla malolattica, no a un riposo sui lieviti ridotto; qui siamo quasi a 90 mesi. Alla cieca sbaraglia cuvée molto più prestigiose e blasonate. In bocca è una freccia, senza tuttavia mai essere solo monodimensionale.
Da un vigneto di Dizy, piantato negli anni ’60, con discreta quota di argilla. Solo Chardonnay in quest’annata leggermente umida. Il vino non ne risente, merito anche di un produttore da anni molto costante. In bocca generosa quota di frutta bianca che vira anche verso golosità tropicali. Rigorosa chiusura quasi marina.
LOUIS ROEDERER CHAMPAGNE BRUT NATURE 2009
D’ARAPRÌ METODO CLASSICO PAS DOSÉ
Questa bottiglia con etichetta ideata da un noto designer prende vita con l’annata 2006. Il millesimo in questione rende meglio con il Pinot Nero, per inciso l’uva percentualmente maggiore in questa etichetta. In bocca mostra prontezza e allungo acido-sapido
L’assenza di zucchero qui ci porta in Puglia con questo metodo classico frutto dell’assemblaggio di Pinot Nero e Bombino bianco. Meno di tre anni sui lieviti. In bocca ha rigore agrumato, ma anche quei toni cremosi di pesca bianca matura e nocciola.
VINARIA
CÀ DI FRARA
VINI CHE RISPECCHIANO E RISPETTANO L’OLTREPÒ PAVESE di
Antonietta Mazzeo
Il gesso, la marna e l’argilla; un territorio, una cultura, uno stile di vita che esprimono tutti i sapori della tradizione vinicola italiana. Armoniose e suggestive colline, riparate dai venti di levante e di ponente da alture più elevate, un’isola nell’Oltrepò Pavese tra i comuni di Oliva Gessi e Mornico Losana, riflesso di antica cultura popolare e tradizioni, nomi espressivi e caratterizzanti, toponimi precisi: il primo, nella cosiddetta Valle del Riesling, ad indicare terreni gessosi e calcarei che contribuiscono a produrre vini fini ed eleganti con un’intensa mineralità (Riesling, Pinot Grigio e Pinot Bianco); il secondo caratterizzato da substrati di argilla, sabbia e marna che donano finezza a vini con pigmentazioni molto intense, di buon corpo, sensazioni olfattive persistenti, con buona acidità e morbidezza, vini fatti per essere longevi (Pinot Nero e Chardonnay, e vitigni a bacca rossa). “ … Per realizzare prodotti con una chiara identità è indispensabile assecondare gli elementi naturali che caratterizzano un territorio …” Un terroir generoso e versatile con un microclima caratterizzato da una temperatura mite in inverno ed uniformemente calda e ventilata in
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estate, l’ideale ambientazione dei magnifici vigneti di Cà di Frara, una delle aziende più rappresentative dell’Oltrepò, per vocazione impiantati “…rispettando i boschi di acacie, le siepi di more e i cespugli di rose canine …” Un grande passato con un piede nel futuro; quattro generazioni hanno segnato la storia di Cà di Frara, iniziata nel 1905 da Francesco, bisnonno dell’attuale proprietario ed enologo, Luca Bellani, con l’acquisto 15 ettari di vigneti in questa stretta vallata vocata per la coltivazione della vite. Oggi gli ettari sono quasi 50 per una produzione di circa 400.000 bottiglie, e Luca - con l’aiuto del fratello Matteo, del cugino Gianluigi, agronomo, e di Veronica Barri, managing director - mediante l’acquisizione di nuovi vigneti, selezioni clonali mirate, ampliamento della cantina con nuovi materiali e tecniche di vinificazione, sta realizzando un progetto orientato al rispetto totale per il prodotto, coniugando la tradizione con la migliore e più moderna tecnica vitivinicola “… Il lavoro è teso ad esaltare il processo armonioso della natura, così generosa in questi luoghi …”
CÀDIFRARA
A Cà di Frara si è sempre prestata molta attenzione alla scelta dei terreni più adatti ai diversi vitigni utilizzati nel territorio: una scelta segnata dall’esempio e dall’opera di un grande vignaiolo come Tullio Bellani, padre di Luca, che sulla fine degli anni Settanta, portando l’impronta dell’innovazione ha saputo dare la massima espressione ad ogni vigneto. In ogni fase di lavoro c’è sempre grande attenzione nel ridurre al minimo l’impatto ambientale: da sempre, in tutti i vigneti, si attuano coltivazioni naturali ed i trattamenti anticrittogamici sono controllati e ridotti al minimo con prodotti non inquinanti. L’uva è raccolta esclusivamente a mano e portata in cantina di vinificazione unicamente in cassette. La pigiatura soffice e la successiva fermentazione in purezza a temperatura controllata, certificano il rispetto totale del prodotto, per risultati unici: uve che poi diventeranno Riesling, Pinot Grigio, Pinot Nero, Chardonnay e Bonarda; vini fermi o con le bollicine che, con una precisa identità, interpretano le principali varietà vinicole della zona nelle sue diverse espressioni. Tutti i vini messi in bottiglia sono frutto di un progetto di qualità: qui si producono spumanti metodo classico che non temono di mettersi in competizione né con le produzioni “nazionali” né, tanto meno, con quelle dei nostri cugini d’Oltralpe. In occasione della 50ª vendemmia 1961-2011, verranno immesse sul mercato le “edizioni speciali” con sboccature 2018: Oltre,
il Classico Extra Brut – V.S.Q. Pinot Nero Metodo Classico e Oltre, il Classico Extra Brut Rosé – V.S.Q. Pinot Nero Rosato Metodo Classico, spumanti che regalano nasi fini e profumati con bocche articolate, fresche, eleganti e dal finale minerale e sottile. Luca, dinamico, estroverso, e con un carattere deciso, ci sorprende di anno in anno per gli elevati standard qualitativi raggiunti in forza di un profondo rispetto della tradizione, la creatività ed una totale dedizione alla viticultura, valori che rispecchiano lo stile di un’ azienda in continua crescita e progresso.
CA’ DI FRARA
Loc. Casa Ferrari, 1
27040 Mornico Losana (PV) Tel. 0383 892299
www.cadifrara.com
cadifrara@cadifrara.com
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VINARIA
IN SARDEGNA
FULGHESU LE VIGNE COLTIVA ANTICHE VARIETÀ CON BIOLOGICO RISPETTO di
Antonietta Mazzeo
L’azienda storica della famiglia Fulghesu-Chighini “Le Vigne” si estende su circa 10 ettari, situati tra le splendide colline a ovest delle ultime propaggini del Gennargentu, nella regione storica della Barbagia di Belvì, in provincia di Nuoro. Tutto ebbe inizio negli anni trenta, quando venne impiantato il primo vigneto con le antiche varietà tuttora coltivate come il Mandrolisai DOC, il Cannonau, il Muristellu, il Monica, ed altri vitigni quali il Barbera Sardo e la Tintoria, dal quale si ottiene un vino color rosso sangue. L’amore per le vigne, la cantina e il vino, spinsero nel 1969 il capo famiglia Nino Fulghesu ad estedere la proprietà acquistando altri terreni, allo scopo di intraprendere un percorso all’insegna di una progressiva modernizzazione e valorizzazione dei prodotti. Particolare cura e attenzione è stata riservata alla scelta delle diverse cultivar impiantate, tenendo presenti le caratteristiche pedologiche, morfologiche e l’esposizione dei terreni, così da valorizzare al meglio il fascino del “terroir” locale. Le colture sono biologiche, con tecniche di produzione rigorosamente tradizionali. Oggi Maria Teresa, con l’aiuto del fratello Giuseppe ed il supporto della famiglia, continua l’opera iniziata dal padre: produrre vini di alta qualità, destinati ad arricchire, anno per anno, la storia di una cantina dove attualità e tradizione s’incontrano. Qui si tramanda un importante patrimonio di vigne e conoscenze: un percorso non casuale, fortemente legato alla diversità dei paesaggi, dei venti, del carattere degli uomini e quindi dei loro vini.
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CANTINA FULGHESU LE VIGNE
Località “Su Figili Cerebinu” - Via Roma 113 08030 Meana Sardo (NU) Tel. 0784 64320
EDITORE La Madia srl Sede legale: Via E. De Amicis, 53 - 20123 Milano (MI) Sede operativa: Via Pacchioni, 365 - 47521 Cesena (FC) Tel. 0547 23821 - Fax 0547 25809 Internet: www.lamadia.com - E-mail: lamadia@lamadia.com
CONFEDERATION EUROPEENNE
DES GOURMETS La famiglia dei Gourmets europei si è data una nuova dimensione per valorizzare
il piacere
della convivialità e della cultura
enogastronomica italiana
Direttore responsabile: Elsa Mazzolini La Madia srl è parte del Gruppo Cose Belle d’Italia www.cosebelleditalia.com
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