Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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ANNO XXXIII Giugno 2018 - N. 328 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI
LE METE DEL GUSTO
DA ORIENTE A OCCIDENTE, UNA SERIE DI LUOGHI FANTASTICI DA VISITARE, ANCHE A TAVOLA
LA MADIA EDITORE
SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 328 TRAVELFOOD
pag. 29
VINARIA
di
Alessandro Rossi
pag. 94
LE METE DEL GUSTO
CHARLIE ARTURAOLA
Da oriente a occidente, una serie di luoghi fantastici da visitare, anche a tavola.
Dall’Uruguay al mondo intero il suo elogio della semplicità nella complessa architettura del vino.
La cultura del benessere
Ristorante Cipriani a Copacabana
I nemici della salute: i grassi saturi
di Jerry Bortolan............................................................... pag. 46
di Primo Vercilli................................................................ pag. 8
Alex Olmedo, nelle Isole Falkland
La scelta vegana
di Flavia Tomaello............................................................ pag. 52
Lisbona Veg
Hotel Klosterbräu & Spa, in Austria
di Silvia Bianco................................................................. pag. 10
di Gianni Di Lorenzo......................................................... pag. 56
Il menu engineering
Mauritius
Quale sarà il mestiere del futuro nella ristorazione?
di Maria Chiara Zucchi...................................................... pag. 62
di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 16
Thailandia
Chef di Spirito
di Maria Chiara Zucchi...................................................... pag. 70
Gesti semplici: l’arte di gustare la natura
Perù
di Sonia Leo..................................................................... pag. 18
di Giovanni Angelucci...................................................... pag. 78
Assaggi di Galateo
Cambogia
#Instafood: smartphone, coltello e forchetta
di Luigi Di Fronzo............................................................. pag. 84
di Fabio Ferrantino........................................................... pag. 22
Il focus di Alessandro Rossi
Chissenefood
Molti vini partono francesi ma finiscono
La passione secondo il foodie
drammaticamente italiani
di Cristiano Giliberti.......................................................... pag. 24
di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 92
Le mete del gusto
Bollinger RD 2004
Paco Pérez sulla Costa Brava spagnola
di Marco Tonelli.............................................................. pag. 100
di Alessandra Meldolesi................................................... pag. 30
Whisky Paradise a Bologna
Gazpacho Prontofresco.................................................... pag. 36
di Marco Tonelli.............................................................. pag. 105
Jefferson Rueda, un brasiliano cittadino del mondo di Flavia Tomaello............................................................ pag. 40
EDITORIALE di
Elsa Mazzolini
RIMINI BY NIGHT (CLUB)? “Rimini è una città dell’Emilia-Romagna sulla costa adriatica, nota per i night club sul mare e per le acque poco profonde”. Questo su Google. Se avessi pensato a Rimini per programmare una mia vacanza e avessi letto questa descrizione, avrei subito cancellato la meta oggi e per sempre. Fortunatamente la famosa città romagnola dispone di altri siti dove sono descritte le sue bellezze storiche, artistiche e ambientali, ma chi a livello istituzionale ha compilato la scheda di Google con questo tipo di messaggio, quale pubblico vuole attirare? Solo nottambuli da club privé e ragazze prezzolate? Oggi la comunicazione corre veloce sulla rete e sicuramente premia gli estremi molto di più rispetto alla normale informazione, ma ridurre Rimini ad un posto di locali notturni per “vecchi (e non solo) bavosi”, mi disgusta. In un mercato di turisti che ci vede al 5° posto (dopo addirittura alla Cina, quando solo 10 anni fa eravamo primi in classifica) significa non saper proporsi e non saper vendere in modo saggio: personalmente credo che anche quella specie di richiamo ad un certo turismo sessuale, come fa Rimini, non sia il massimo delle strategie di marketing. Ecco invece come noi descriviamo su questo numero tutta una serie di mete turistiche sparse nel mondo.
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LACULTURADELBENESSERE
a cura di
Primo Vercilli Medico Dietologo
I NEMICI DELLA SALUTE:
I GRASSI SATURI Ricorderete che negli ultimi numeri abbiamo affrontato l’argomento degli zuccheri semplici quali nemici della salute. Avevamo però già accennato come gli zuccheri fossero in buona compagnia: infatti oggi affronteremo l’argomento riguardante i grassi saturi che, sicuramente, se utilizzati in modo eccessivo, contribuiscono enormemente ad un peggioramento della salute. Non entriamo in discorsi particolarmente tecnici: diciamo però che esistono due grossi gruppi di grassi, i saturi e gli insaturi, che si differenziano per la loro composizione chimica. Studi molto recenti confermano che l’assunzione di acidi grassi saturi è correlata a un aumento del rischio cardiovascolare, in particolare di infarto miocardico e ischemia coronarica (studio eseguito su ben 73 mila donne e 42 mila uomini) e pubblicato su una importante rivista quale il British Medical Journal. Una dieta troppo ricca di grassi saturi non è mai troppo salutare: infatti viene vivamente consigliato di non superare la quota del 10% delle calorie totali giornaliere. Cosa significa in termini pratici? Significa che una persona che ha un fabbisogno quotidiano di 2000 KCal può consumare al massimo 200 KCal provenienti da grassi saturi, cioè (visto che un grammo di grassi equivale a 9 KCal) 22 grammi. Ebbene, noi di grassi saturi ne consumiamo enormemente di più! Quali sono gli alimenti che contengono questo tipo di grassi? Innanzitutto dobbiamo cominciare dai prodotti animali: le car-
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ni rosse contengono 15 grammi di grassi saturi per 100 grammi di alimento. Questo significa che, se mangiamo una fiorentina, abbiamo abbondantemente assunto tutta la nostra quota settimanale di grassi saturi! Va molto meglio con le carni bianche, che, invece hanno una quantità di grassi saturi intorno a 1-2 grammi. Va malissimo con i salumi (ve lo aspettavate, vero?): un salame ha 13 grammi di grassi saturi per 100 grammi, mentre la pancetta ne ha addirittura 39! Ma il problema non è ovviamente solo nelle carni: il burro contiene ben 51 grammi di grammi saturi, mentre i formaggi oscillano tra i 15 e i 25 grammi. Bè, se però i grassi saturi sono contenuti solo nei prodotti di origine animale, facciamo presto: basta ridurre questo tipo di cibo. Sicuramente l’iniziativa può essere lodevole, ma potremmo trovarci ugualmente ad assumere carichi importanti di questi grassi. Perché? Perché, per esempio 100 grammi di cioccolato (fondente!) contiene ben 32 grammi di grassi saturi! E poi ci sono tutti i prodotti a base del famigerato olio di palma. In Italia fino a un anno fa l’olio di palma era il grasso di elezione per un gran numero di prodotti industriali: biscotti, fette biscottate, creme alle nocciole, merendine, cracker, piatti pronti, carni e pesci impanati, gelati, latte in polvere per neonati, biscotti per bambini al di sotto di 36 mesi.
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Fortunatamente, in questi ultimi mesi, l’atteggiamento delle industrie alimentari nei confronti dell’olio di palma è cambiato: molte aziende hanno cominciato ad utilizzare tipi di grasso alternativi e più salutari e questo, permettetemi di dirlo, è un grosso vantaggio per la salute. Fino a pochi mesi fa, assumere anche semplicemente 4 biscotti a colazione significava fare un carico di 16 grammi di grassi saturi (pensate, con solo 4 biscotti!). Questo ovviamente significava che bastava mangiare mezza polpetta nella stessa giornata per superare già la quota limite. Consumare prodotti da forno privi di olio di palma e quindi molto più poveri di grassi saturi, ha permesso di distribuire meglio l’apporto di grassi saturi nella giornata, senza quindi rischiare di eccedere. Quindi, ben vengano prodotti con meno grassi saturi, ma attenzione: c’è anche un rovescio della medaglia. C’è il fatto che, tolti di mezzo i grassi, li si è dovuti sostituire con qualcos’altro: è una regola fondamentale in nutrizione! Se si toglie un nutriente, bisogna sostituirlo: quindi gli alimenti ricchi di grassi saturi hanno ceduto il passo ad alimenti ricchi di carboidrati raffinati, che però saziano meno, inducendo a mangiare di più. Senza contare che proprio i carboidrati raffinati hanno un ruolo non indifferente in processi metabolici che possono portare a obesità e a diabete, come già avevamo detto negli articoli pre-
cedenti, quando abbiamo additato gli zuccheri semplici come i primi nemici della salute. Le cifre di questo scambio sono importanti: ad esempio, negli Stati Uniti, mentre dal 1971 al 2000 diminuiva la percentuale di calorie assunta con i grassi, quella derivata dai carboidrati aumentava del 15%. E nello stesso periodo aumentava anche la quota calorica procapite. Il paradosso sta quindi nel fatto che, se diminuiamo i grassi saturi, ma li sostituiamo con zuccheri, il risultato può addirittura essere peggiore! Ecco perché, ancora una volta, l’unica soluzione ragionevole che si intravvede è quella di un giusto equilibrio tra i diversi componenti alimentari: mai pensare di risolvere un problema eliminando questo o quello, perché poi, necessariamente, saremmo costretti ad aumentare l’introito di qualche altro principio nutritivo, che, se assunto in eccesso, può essere dannoso come il nutriente che abbiamo eliminato. Ecco quindi ancora una volta lo stesso invito: non fidatevi di messaggio fuorvianti quali “prodotto a 0 grassi” oppure “prodotto a 0 zuccheri”: se volete un prodotto di questo tipo allora dovete bere acqua fresca! Educarsi al cibo significa capire le reali caratteristiche del cibo e imparare a gestirlo in modo vario, ordinato, evitando gli eccessi e gli estremismi: solo così ci possiamo gustare (senza che ci faccia male!) del buon cioccolato o una buona fiorentina!
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LA SCELTA VEGANA
a cura di
Silvia Bianco testimonial di cucina vegana
LISBONA VEG
VIAGGIO TRA I LOCALI DI TENDENZA
Lisbona ha le idee chiare sul concetto di veganismo. Vivere da vegan in questa città è molto facile, grazie anche ai numerosi ristoranti e caffè vegani e vegetariani. Ciò che colpisce di questa città è il fatto che tanti posti che non nascono per essere specificatamente veg offrono opzioni vegane nei loro menu, compresi alcuni piatti tipicamente portoghesi che sono stati veganizzati, ad esempio alcune zuppe come la caldo verde o la sopa de pedra. Pensate che ci sono persino piccoli locali di pesce e carne che indicano chiaramente nel loro menù le opzioni vegane che vanno dall’hummus, ai vari cous cous, alle insalate di alghe. Praticamente ovunque si trovano opzioni vegane e diverse panetterie offrono donuts vegan, oltre a diversi altri prodotti da forno. Tra gli snack che vengono serviti più spesso in molti ristoranti e bar, mentre si attende di essere serviti davanti ad una birra ghiacciata, troviamo, oltre alle olive tipiche, i tremoços, che non sono nient’altro che i lupini. Ottima fonte proteica, i tremoços sono il perfetto snack portoghese, adatti ad ogni occasione e molto amati dai vegani in generale proprio perché sono buoni, salutari e forniscono un ottimo apporto proteico con un basso apporto di carboidrati e grassi. Per una città che tradizionalmente è incentrata sulla pesca e la carne, specialmente di maiale, tutto ciò ha quasi dell’incredibile. Negli ultimi due anni c’è stata un’esplosione di ristoranti vegani nella capitale portoghese, di cui alcuni aperti proprio durante la seconda parte del 2017. Fondamentale per questa svolta è stata una petizione della Società Vegetariana Portoghese (Associação Vegetariana Portuguesa) iniziata nel 2015 che ha ottenuto ben oltre 15.000 firme e che, discussa dal parlamento portoghese nel 2016, nel Marzo 2017 ha varato una legge che obbliga tutte le mense pubbliche di scuole, ospedali, carceri, università, ecc. ad offrire un’opzione vegana nei loro menu. Ecco una guida di locali vegani e vegetariani a Lisbona; in realtà ce ne sono molti altri ancora, mi limiterò a quelli che ho potuto conoscere più da vicino e che mi sento di consigliare.
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LE METE DEL GUSTO
MERCATI DI LISBONA In qualsiasi mercato di Lisbona si trovano frutta e verdura a volontà e di eccellente qualità a prezzi decisamente convenienti, grazie anche al clima favorevole di cui il Portogallo gode per tutto l’anno e che gli permettere di coltivare ananas, banane e mango. I mercati a Lisbona sono un po’ un’istituzione e vengono tutt’oggi considerati dai portoghesi come primo luogo per la spesa della giornata, lasciando i supermercati come seconda opzione. Tra i principali mercati troviamo il Mercado Da Ribeira antico mercato diventato recentemente sede del Time Out Market. Rinnovato interamente, è uno dei mercati più grandi di Lisbona con negozi e ristorazione ed una buona offerta vegan. Mercado Biológico do Principe Real - Il mercato biologico di Principe Real, si tiene ogni sabato ed è l’ideale per comprare frutta e verdura fresche, oli, pane, marmellate e altri ottimi prodotti da produttori provenienti da tutto il Portogallo. Mercado Municipal Campo de Ourique è un mercato popolare, frequentato principalmente dagli abitanti del quartiere di Campo de Ourique, con bancarelle di prodotti selezionati freschi, e ristorazione vegan friendly.
pochi passi dalla movida del Bairro Alto. L’arredamento è tipico con tavoli, sedie e credenze in antico legno, piastrelle dipinte a mano ed oggettistica ornamentale ed artigianale proveniente da diversi luoghi e culture come riflesso dei viaggi dei due proprietari. Pranzo e cena possono essere consumati anche nel grazioso giardino interno all’ombra degli alberi centenari ed ascoltando il suono dell’acqua che scorre nell’antica fontana. Una splendida cornice per un pranzo e una cena da Terra, classificato come uno dei migliori cinquanta ristoranti delle città. JARDIM DAS CEREJAS Situato nell’area di Chiado, nel centro di Lisbona è uno dei pochi ristoranti in Lisbona ancora aperti alle 22:30. Nato come ristorante vegetariano, oggi è completamente vegano. Il servizio è a buffet anche di sera, e la cucina ha una forte influenza indiana,
LOCALI A BUFFET VEGAN Lisbona ospita diversi buffet vegani, tutti con prodotti freschi e quasi tutti con un menù che cambia ogni giorno. I buffet vegani non solo offrono una grande varietà, ma anche un eccellente rapporto qualità-prezzo. La maggior parte sono aperti sia a pranzo che a cena. RESTAURANTE TERRA Aperto negli anni 80 come ristorante vegetariano, offre gustosi piatti dal sapore unico della cucina portoghese mediterranea, con un servizio a buffet molto vasto che include una gamma di insalate (kiwi e barbabietole, spinaci e fragole), piatti caldi (zuppe, stufati, curry, falafel) e vari piatti di riso, pasta e patate. Da non perdere gli ottimi vini vegan e biologici e dessert 100% veg! Il ristorante è situato in una delle zone più antiche di Lisbona a
© Luciano Cruz
ma con tocco occidentale. I piatti sono leggeri ma gustosi, il buffet illimitato spazia da fagioli a innumerevoli verdure, seitan, lasagne con ragu di tempeh e polpettine di soia. Tra i loro squisiti dessert da non perdere c’è una deliziosa torta al cioccolato fondente e la loro versione vegana della “bolo de bolacha” (torta di biscotti) una torta tradizionale portoghese composta da strati di biscotti intervallati da una crema dolcissima e morbida. PALADAR ZEN Questa struttura un po’ esclusiva offre sia un menù à la carte sia un servizio a buffet vegetariano a pranzo e cena con molte opzioni vegane in entrambi i casi. Il buffet è quasi completamente vegano e molto vario ed abbraccia cucine diverse tra cui quella mediterranea, marocchina e indiana e spazia dal sushi alle insalate, allo stufato di fagioli brasiliani, alla Mussaka veg di melanzane, al sedano arrosto con ananas e carote, Cous cous alla menta e Curry di piselli, Stroganoff di seitan e molto altro ancora. Tra i dessert tutti rigorosamente fatti in casa, c’è un delizioso crumble di mele da non perdere!
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LA SCELTA VEGANA
CAFFÈ VEGANI
My Mother’s Daughters
FOODPRINTZ CAFÉ Aperto per colazione, pranzo e cena, è un caffè 100% vegano e offre un’eccellente selezione di piatti vegani biologici con ingredienti locali. I piatti sono gustosi e nel menu vengono riportate le opzioni senza glutine, soia e noci. Ottime le colazioni con pancake di grano saraceno e tofu strapazzato, le smoothie bowls, il tutto accompagnato da uno squisito “Macaccino”, bevanda calda a base di polvere di maca e cacao; per pranzo hamburger di lenticchie e quinoa e fagiolata con cous cous. Da non perdere, la linea di “formaggi” vegan, rigorosamente fatti a mano, a base di anacardi o soia, fermentati con rejuvelac di grano saraceno. Il tagliere di formaggi veg presenta un tris molto sfizioso: il Piney fatto con anacardi, pinoli e pomodori secchi, il Fruitloop di anacardi, mirtilli, fichi, albicocche ed infine l’Holy Chevre che ricorda il sapore del formaggio di capra ma i cui principali ingredienti sono anacardi e tofu. The Therapist non è solo un ristorante, ma una “clinica” dove medicina cinese, ayurveda, terapia quantica ti accolgono: si svolgono corsi tematici, massaggi e counseling. The Therapist si definisce caffè-ristorante flexitariano (mangiano comunque carne), ma non utilizzano latticini ed hanno una vasta offerta vegana e vegetariana. MY MOTHER’S DAUGHTERS Questo piccolo bar, aperto nell’autunno 2017 nella zona di Sao Sebastiao da Pedreida, pone attenzione particolare all’utilizzo di ingredienti biologici, a Km zero a sostegno di produttori locali, ma anche di artisti della zona, utilizzando oggettistica artigianale come lampadari in vetro soffiato, ciotole asimmetriche create appositamente per servire alcune pietanze. Imperdibile il loro “pão des queijo” ovvero il tipico pane al formaggio della tradizione brasiliana in versione vegan e il dahl di lenticchie e ceci con cumino e latte di cocco, funghi shitake caramellati e salsa allo yoghurt di soia ed anacardi.
THE THERAPIST Situato nella Lx Factory, un ex complesso industriale di una azienda tessile del 1800, attualmente ristrutturato e restituito alla città sottoforma di isola creativa che ospita eventi legati dal mondo della moda, pubblicità, comunicazione, musica, belle arti ed architettura. LX Factory è una delle innumerevoli e molto frequentate aree vibranti di Lisbona che offre diversi caffè e bar vegan friendly, come appunto The Therapist, negozi, librerie e persino un negozio di scarpe vegan.
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O ANTIGO TALHO La traduzione del nome di questo caffè è letteralmente “Il vecchio macellaio” ovvero esattamente quello che un tempo era questo posto. Da allora ha subito una completa trasformazione ed è oggi un negozio che vende una varietà di prodotti vegani eco-compatibili (scarpe, abbigliamento, etc ...) con un piccolo bar annesso al piano superiore inaugurato a fine 2017. Il menù cambia continuamente e si possono gustare mix di sapori internazionali, dal couscous marocchino, al pho vietnamita, alla fagiolata brasiliana, alle acai bowl, alla pasticceria crudista, a zuppe, quiche ed insalate.
LE METE DEL GUSTO
RISTORANTI VEGANI AO26 VEGAN FOOD PROJECT Ristorante interamente vegano ed un po’ esclusivo, con prezzi un po’ più alti rispetto alla media di Lisbona, sebbene non eccessivi. Nonostante ciò, AO26 Vegan Food Project è molto popolare tra vegani e non di Lisbona. La qualità del cibo è ottima; cucina tipica portoghese, con un tocco di modernità e molta cura nella mis-en-place. I piatti includono creazioni con tofu (da non perdere il tofu biologico in crosta di pane di mais con patate e castagne ed una salsa di spinaci, spezie portoghesi e aglio), seitan, hamburger, risotti, tempura, zuppe e ci sono diverse opzioni senza glutine. Le porzioni sono generose ed i dessert sono uno più buono dell’altro e variano con una certa frequenza. L’ambiente è accogliente e moderno con un servizio alla clientela molto attento.
VEGANEATS Piccolo locale interamente vegano, con pochissimi posti a sedere. E’ il locale per eccellenza delle versioni vegane dei piatti tradizionali portoghesi. Questo posto è gestito da due belle donne portoghesi che accolgono la clientela con un caloroso sorriso di benvenuto. I prezzi sono molto ragionevoli e le pietanze sono versioni vegane della tipica cucina portoghese, come il tofu à brás, un piatto che viene normalmente prodotto con baccalà e conosciuto come “ bacalhau à brás “. Il menu cambia ogni giorno e generalmente è costituito da un piatto principale del giorno, una quiche e altri piatti di accompagnamento come zuppe, insalate ed alternative alla carne. Hanno una vasta selezione di dessert, tutti di loro produzione ed uno più buono dell’altro. Da non perdere è la loro torta al cioccolato con arachidi servita tiepida, ma anche la torta di carote e lo strudel di mele e cannella. THE FOOD TEMPLE Nascosto tra i caratteristici vicoli del quartiere di Alfama, compare questo piccolo ristorante vegano che offre un interessante
menu creato dalle abili mani della Chef Alice Ming, canadese dalle origini cinesi. Alice cucina sapientemente piatti mediterranei, portoghesi ed asiatici preparando tutto nella sua cucina a vista. Questo piccolo tempio a conduzione familiare dall’atmosfera accogliente, varia menù ogni giorno, ma la sua insalata di edamame e mele con maionese vegana all’aglio è un must, ed ogni sera c’è una nuova selezione di tapas. The Food Temple è uno dei ristoranti vegani più in voga della città ed è anche molto frequentato durante i workshop di cucina vegan tenuti da Alice e che mostrano l’amore e la creatività nel creare le sue delizie. PRINCESSA DO CASTELO E’ un piccolo bistrot interamente vegano, piccolo ed accogliente, situato nel quartiere di Alfama, proprio accanto al castello, da cui prende il nome. Il menu cambia quasi ogni giorno; lo Chef Nandan adora la cucina fusion ed offre un mix di piatti europei con
influenze indiane, con opzioni senza glutine ed anche crudiste. Ottime, ad esempio, le lasagne con ragu di lenticchie e melanzane, oppure il curry di mango e datteri con salsa di arachidi accompagnato da una polentina alla cipolla rossa, oppure ancora la parmigiana di melanzane con besciamella di anacardi e basilico e l’arrosto di lenticchie e castagne con salsa ai mirtilli. Tra i dolci, la torta alla carruba, la cheesecake ai bacche di goji e pere, oppure tutta la pasticceria crudista con dei tartufini al cocco deliziosi.
RISTORANTI VEGETARIANI E VEGANI OS TIBETANOS Ristorante vegetariano tibetano presente a Lisbona da oltre 35 anni. Appena entrati in questo locale, si viene catapultati in un’atmosfera molto lontana. Decorato con arazzi buddisti, striscioni colorati ed ornamenti ed oggettistica sempre di estrazione buddista, il ristorante ospita ai piani superiori dell’edificio un
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LA SCELTA VEGANA
tempio ed una scuola buddista. Il menu serve una selezione di verdure e piatti vegan con influenze internazionali. Tra i piatti da non perdere ci sono i Ting Momos, tipici panini tibetani che vengono cotti al vapore, oppure fritti e ripieni di seitan e verdure, oppure il curry di mango con tofu.
CUORI ALL’ASSENZIO Chef Simona Avallone ed Annalisa Presta Ristorante Piovono Zucchine Piazza Cairoli 6/7 - Brindisi INGREDIENTI per circa 8 krapfen
JARDIM DOS SENTIDOS Letteralmente “Giardino dei sensi”, è un ristorante spazioso ma con ambiente intimo, perfetto per cene romantiche. Vegetariano con influenze ayurveda, offre un buffet con consumazione libera a pranzo, mentre ha un menù à la carte alla sera. C’è una buona scelta vegana e molti dei piatti vegetariani possono essere richiesti in chiave vegan. Il cibo è un viaggio di sapori mediterranei con uno sguardo verso l’Oriente: dal tagliere di “formaggi” vegan, allo Stroganoff di funghi, frutta essiccata e noci in latte di cocco, al “kebab” di lenticchie con salsa al tamarindo e ceci arrostiti, al classico burger di seitan con maionese di soia e patate dolci fritte, al Seitan in stile Koreano con salsa Gochujang. Tra i dessert, ottima la crostata di mele, cannella ed uvetta senza zucchero, la cheesecake veg al passion fruit ed il crumble di mele e prugne. Jardim dos Sentidos per chi lo desidera, offre un’esperienza zen unica che inizia con un aperitivo di benvenuto, si passa poi ad massaggio di un’ora a scelta tra rilassante, ayurveda, shiatsu o tuina (massaggio tradizionale cinese) e poi una cena a lume di candela in una tenda all’interno del ristorante appositamente creata per queste occasioni e che viene riservata in esclusiva alla coppia. L’esperienza si conclude con uno speciale digestivo della casa.
g. 750 di farina 0, g. 12 di lievito di birra in polvere, g. 150 di
latte di riso, g. 60 di zucchero di canna, g. 10 di sale, g. 250 di acqua, g. 60 di burro di cocco. PREPARAZIONE
Impastare per almeno 15 minuti fino ad ottenere un impasto
elastico e omogeneo. Formare una palla e conservare in frigo coperta da pellicola per 6 ore. Poi stendere l’impasto spesso mezzo centimetro e lasciare riposare, sempre coperto, per mezz’ora. Piegare l’impasto in due e stendere nuo-
vamente. Ritagliare le porzioni usando lo stampino a forma
di cuore. Friggere a 170 in olio di semi, scolare e lasciare raffreddare.
Per la mousse ai frutti di bosco: montare a neve 400 ml. di
latte di cocco molto freddo. Cuocere un mix di more, mirtilli e ribes con poca acqua; passare al setaccio e, una volta fredda, aggiungere la purea alla panna.
Per la gelatina di assenzio: in una casseruola, mescolare 2 tazzine di assenzio e 1 di acqua; sciogliervi dentro 2 grammi
di agar agar. Far cuocere per qualche minuto, poi riempire le siringhe e far raffreddare fuori dal frigo.
RESTAURANTE COLMEIA (TÃO – NATURAL FOOD) E’ stato il primo ristorante vegetariano del Portogallo, inaugurato nel 1962 e situato in un edificio storico del XVIII secolo nella zona di BaixaChiado che offre vista sul fiume Tago. L’ambiente del locale è tipico portoghese, molto colorato, spazioso e luminoso. Oltre a piatti vegetariani, la cucina offre buoni piatti della tradizione portoghese con influenze macrobiotiche e ci sono diverse opzioni vegane. La proprietaria crede fortemente nell’alimentazione sana e sostenibile, usa quasi esclusivamente prodotti biologici e molti piatti sono senza glutine e senza zuccheri aggiunti.
FAST FOOD VEGAN VEGANA BURGER E’ Il primo fast food interamente vegano in Portogallo con ben tre sedi nell’area di Lisbona. Il locale è luminoso, in stile moderno, un posto tranquillo, ottimo per fare due chiacchere tra amici. Gli hamburger sono grandi e saporiti, con accostamenti particolari ma gustosi, come il burger di ceci e coriandolo e salsa di cipolle, oppure il burger di arachidi e ceci con salsa di pomodoro e basilico e pane di cipolla viola accompagnato da patate dolci fritte. Tra i dolci, oltre al crumble di mele e la mousse al cioccolato, c’è anche il Pastel de Nata in versione vegan!
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COMPOSIZIONE DEL PIATTO
Incidere il cuore lateralmente e, con una sac à poche, riempirlo di panna, poi spolverare di zucchero a velo e servire accompagnato dalla siringa.
IL MENU ENGINEERING
a cura di
Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop
QUALE SARÀ IL MESTIERE DEL FUTURO NELLA RISTORAZIONE? Secondo il parere di chi scrive non sarà un cameriere-semprepiù-venditore, non sarà un cuoco-sempre-più-tecnologico e nemmeno un Food & Beverage Manager evoluto. Niente di tutto questo. Anzi, quelli appena elencati saranno mestieri - purtroppo - sempre più delegabili a robot, macchine o sistemi. Dopotutto, se è ragionevole pensare che la creazione di una ricetta non sia delegabile, è altrettanto ragionevole pensare che la realizzazione della ricetta lo sia, almeno in larga parte. Così come il trattore sostituiva il bracciante nelle campagne, la tecnologia riuscirà a sostituire gran parte dei lavori manuali nelle nostre attività di ristorazione. Non è questione di “se” succederà, ma è questione di “quando” succederà. Chi scrive non ha la presunzione di stabilire se questo sia giusto o sbagliato - anche se crede che sia conseguenza del naturale evolversi del nostro settore - ma per onestà intellettuale vuole riportare che questo cambiamento è già in atto e già in movimento, da almeno un decennio, almeno per quanto riguarda alcune fasce di ristorazione. Ma, sempre secondo il parere di chi scrive, c’è un mestiere che deve ancora nascere e concretizzarsi, e che non sarà delegabile a robot, macchine e in generale ad esseri non senzienti, o lo sarà in modo davvero marginale. E questo mestiere è quello del futuro: lo User Experience Designer per Ristoranti. Cioè quella figura che si occuperà di progettare, testare e ottimizzare l’ESPERIENZA vissuta dal cliente nei nostri locali, rendendola positiva, unica, memorabile e... Indimenticabile. Oggi, e lo sarà sempre più in futuro, ciò che fa la grande diffe-
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renza tra un ristorante eccellente e un ristorante mediocre non è la capacità di acquisire clienti, ma la capacità di fidelizzarli. Di tenerseli stretti. Di trasformarli in clienti soddisfatti felici di parlare bene della propria esperienza e del proprio ristorante preferito. La scelta di un Ristorante non è una scelta “rischiosa”, della quale pentirsi amaramente. Ed è la ragione per la quale ogni cliente è in grado di dare almeno una chance ad un nuovo ristorante, se questo fornisce una ragione valida e unica per meritarsela. Ma il vero gioco non è ottenere quella prima chance, è meritarsi la seconda, la terza e la quarta! Il vero gioco non è acquisire nuovi clienti, ma farli tornare! E questo non è in grado di farlo il marketing, o il menu engineering, aspetti di cui questa rubrica tratta. O meglio, contribuiscono anche loro, ma in maniera marginale. Se i clienti tornano, è merito principalmente dell’Esperienza che hanno vissuto nei nostri ristoranti. Che non è data soltanto dal prodotto e da quanto qualitativamente siamo in grado di farlo ma è data dalla somma di tantissimi elementi, diversi ma concatenati tra loro, che contribuiscono a creare l’Esperienza Generale vissuta nei nostri locali. Per queste ragioni vedo, in un futuro non molto lontano che, così come sta succedendo in decine di settori affini al nostro, anche il mondo della ristorazione si sveglierà e necessiterà di una figura professionale in grado di progettare e inventare esperienze positive, uniche e differenzianti per la propria clientela. E quel giorno lo User Experience Designer per Ristoranti non sarà soltanto una fumosa ipotesi, ma una realtà consolidata, in grado di fare davvero la differenza.
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Gala teo ASSAGGI DI
a cura di
Fabio Ferrantino Docente di Galateo presso Bon Ton Academy Professore di Enogastronomia IPSSAR Piobbico
#INSTAFOOD
SMARTPHONE, COLTELLO E FORCHETTA
Oltre ad essere l’accessorio immancabile dell’umano 2.0, oggi, sembra quasi inevitabile che lo smartphone prenda parte nella mice en place moderna della tavola. La propensione, a volte ossessiva, di fotografare tutto ciò che stiamo per assaporare è una realtà ormai definita; esiste solo tutto ciò che è fotografato e condiviso! Qualcuno la chiamerebbe una triste deriva, altri, un semplice cambiamento sociale. Così, spesso, durante l’arrivo delle pietanze, nulla viene toccato, se non prima fotografato. Sulla tovaglia sarà già pronto il mezzo tramite il quale tutto avviene: lo smartphone. Il food è senza dubbio uno dei topic che maggiormente viene richiamato dagli hashtag e tale fenomeno non deve essere interpretato con leggerezza o distacco. Instagram (social network fotografico) è ormai di primaria importanza nel mondo digitale. I contenuti media, foto e video, sono diventati i canali primari per il trasferimento di concetti, idee e messaggi verso qualsiasi
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target di clientela o amici e parenti per i profili personali. Hashtag principe delle preparazioni culinarie è #foodporn, che ad oggi conta circa 157 milioni e mezzo di post. Coniato negli anni ’80 da Rosalind Coward, critica femminista, nel suo libro “Female Desire” definì pornografia alimentare “l’attenzione estrema, quasi morbosa, riservata alla presentazione dei cibi”. Dunque fotografare il piatto esteticamente bello, appena servito, permette di comunicare e condividere il piacere percepito in quel particolare momento. Tale fenomeno non è stato preso sottogamba da chi percepisce il marketing come strumento vitale per la propria azienda, tanto da comprendere che, anche un solo social network come Instagram, potesse influenzare positivamente la reputazione aziendale, facendo arrivare il proprio messaggio in modo rapido e diretto a probabili consumatori. Lo scopo fondamentale non è solo raggiungere un numero elevato di utenti e clienti potenziali, ma soprattutto veicolare
ASSAGGIDIGALATEO
informazioni importanti, strettamente legate a tematiche sentite, come la qualità dei prodotti utilizzati, la loro provenienza, la tradizione delle proprie ricette e la loro sostenibilità. Anche se questa storia inorridisce alcuni gastronomi ed estimatori, dobbiamo riflettere sul concetto che narrare e condividere il cibo è un aspetto intrinseco e millenario del cibo stesso, certamente ampliato e abusato, e in ogni caso questa è l’irrefrenabile e certa tendenza del futuro. La mente immagazzina molto più facilmente un video o una foto rispetto a righe di scrittura. Pensate all’ultimo film visto e all’ultimo libro letto: nello stesso lasso di tempo impiegato, vi ricorderete molto di più di una visione, che di un testo scritto. È giusto che una pagina social, come Instagram, sia gestita direttamente dal proprietario o dal personale del ristorante o dell’albergo, piuttosto che da un’agenzia di comunicazione. Bisogna far trasparire il proprio operato e metterci un po’ di emozioni soggettive, ma non per questo si debbono compiere errori madornali. Se volete gestire una pagina aziendale in modo efficace su Instagram, si devono seguire alcune semplici regole di base, spesso associate al Bon Ton digitale. In primis la coerenza, una parola che ricorre spesso in questa rubrica. La vostra pagina deve saper raccontare quello che in realtà siete, le foto devono far scaturire la voglia di arrivare nel vostro locale e trovare realmente quell’atmosfera e quella cucina. Raccontatevi brevemente ed in modo incisivo nella piccola descrizione in alto e aggiungete i vostri contatti. Potreste anche inserire direttamente il link per le prenotazioni. Vi sono due sezioni su Instagram, una più formale, il feed, ossia la galleria principale ed un’altra meno formale dedicata alle sto-
rie, foto che durano solo 24 ore prima di essere cancellate. Queste ultime possono essere conservate in archivi dedicati. Nel feed le foto dovranno risultare armoniose, con un tono cromatico uniforme, senza fastidiosi contrasti e disaccordi fotografici. Proprio per tale differenza fra feed e stories, si può ricondurre al feed la foto di un piatto finito o un’immagine che ritrae la nostra sala o la mice en place, mentre nelle storie, si può riportare il dietro le quinte: la preparazione di un piatto o del servizio, l’anima nascosta della vostra attività. I clienti vanno stimolati ed incuriositi. Dovrete essere capaci di affascinare e trasmettere la vostra passione per ciò che fate. Se si hanno dei dubbi sulla bellezza della foto è meglio condividerla nelle storie e non nel feed principale, questo è la vostra carta d’identità. Dovrà risultare pulito, ed attraente, vi dovrà rispecchiare. Instagram sta riscuotendo molto successo, sorpassando Facebook fra i più giovani, proprio grazie alla potenza della fotografia che in sé già racconta una storia, dunque, non cadiamo nell’errore di scrivere una descrizione troppo lunga, che pochi leggeranno. Puntate ad un messaggio essenziale e mirato, capace di fare segno. Vale la regola “less is more”. Subito dopo seguono gli hashtag, parole chiave utili a classificare i contenuti che vengono precedute dal simbolo “#”. È importante aggiungere hashtag inerenti, che permettano di essere identificati nelle categorie corrette. Cercate di aggiornare continuamente il vostro social e rispondete alle domande che vi vengono poste, sia in privato, sia pubblicamente sulla pagina, facendo notare la cura che riponete verso le persone che apprezzano il vostro operato.
a cura di
Furio Lottatori The Foodie Fighter thefoodiefighter.wordpress.com
LA PASSIONE SECONDO IL FOODIE O DELL’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE CONTRO Sarà capitato anche a voi. Postare su un vostro profilo social la foto di uno o più piatti, della cena stellata nel locale per il quale avevate faticosamente messo da parte euro su euro (no, scherzo, lo so che a voialtri le cene le offrono) e tra i like, i cuoricini e i commenti positivi trovare quello del vostro amico non-food che immancabile come un predessert entra a gamba tesa con il puntuto commento: “Bah, tre maccheroni? E’ la dose che mia nonna mi dava per sapere se la pasta era cotta”. Se non siete gente dal vaffa facile quanto il sottoscritto è probabile che cercherete con pazienza di spiegare all’amico che la pietanza immortalata fa parte di un percorso di degustazione comprendente altre settordici portate, ma nella logica social che impone alla controparte giammai di aver torto egli finirà per controbattere ancora che comunque per la cifra che avete speso che probabilmente lui nemmeno conosce - avete mangiato poco e che lui di sicuro si sarebbe alzato da tavola con la fame, il tutto seguito da farneticazioni di dopocena a base di pizza e fast-food per combattere i morsi dello stomaco vuoto non placati. La passione per il cibo, come tutte le passioni, è una brutta bestia, tanto brutta quanto è forte la passione stessa. E’ quella cosa che ti spinge a fare 1000 km andata e ritorno in giornata per andare a pranzo nello stellato di cui sopra, a dare la caccia a voli low-cost in direzione Girona o Copenaghen, oppure davvero a mettere sulla mensola un porcellino di terracotta da riempire rinunciando alle sigarette e rompere quando sarà pieno, per realizzare il sogno di percorrere ameno una volta il ciottolato di Via Stella a Modena o perdersi lungo la via che porta all’ex-convento di Castel di Sangro.
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Siamo fatti così, non c’è niente da fare, destinati a subire sempre e comunque critiche per via dei soldi che spendiamo al ristorante, da parte di gente che trova intollerabile spendere anche solo più di 30 euro a cranio per mangiare fuori, ma che magari il giorno prima ha speso mille euro per uno scarico in titanio per la propria moto o per un paio di scarpe firmate o una canna da pesca o per la stessa cosa per cui noi non cacceremmo un ghello. Pur ripensando a tutte le volte che ho sorriso sardonicamente ascoltando lo chef di turno raccontare di “non vendere cibo bensì [pausa, puntini e virgolette] emozioni”, mi ritrovo ad ammettere che forse ha ragione lui. Paghiamo (non tutti) non certamente per nutrire il nostro corpo, talvolta forse nemmeno lo facciamo per appagare i nostri sensi o il nostro gusto e voglio ammettere candidamente, qui davanti ai miei 3 lettori, di non avere sempre ben compreso nemmeno io il senso, la complessità e le sfumature di gusto di ciò che stavo assaggiando. Lo facciamo – quello sì – per nutrire il nostro ego. Così come il mio amico che ha appena montato lo scarico in titanio e non saprà che farsene di quei tre cavalli in più, o come la mia amica cessa (perdonami, amica) che resterà cessa anche caracollando sulle fiammanti Loboutin e l’altro amico ancora che non pescherà né di più né meglio con la sua canna in carbonio da un fantastiliardo. Esattamente come tutti loro anch’io, per il solo fatto di essermi seduto per una volta a quel desco, so che alla fine dell’esperienza mi sentirò meglio. E all’indomani dell’esperienza o del fresco acquisto e di totcento euro di carta di credito volati come lacrime nella pioggia, ciascuno di noi sarà di nuovo pronto a rompere le scatole ad altri per le loro scelte che non capirà.
TRAVELFOOD
LE METE DEL GUSTO DA ORIENTE A OCCIDENTE, UNA SERIE DI LUOGHI FANTASTICI DA VISITARE, ANCHE A TAVOLA
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GOURMETFOOD
SULLA COSTA BRAVA SPAGNOLA
PACO PÉREZ BRILLA CON CINQUE STELLE di
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Alessandra Meldolesi
LE METE DEL GUSTO
SOLIDE BASI, CON GUERARD E ADRIÀ Non somiglia al cliché del cuoco spagnolo come lo abbiamo conosciuto nello scorso siglo de oro, Paco Perez, cinquantenne di poche parole e ancor meno risate, schivo, riservato, renitente ai palcoscenici nonostante cinque stelle Michelin qua e là. Il suo tempo lo passa prevalentemente a Llançà, nel ristorante che gli ha dato la fama, il Miramar, perennemente candidato al triplete. Subito davanti al mare della Costa Brava, con le sue rocce di granito e la merlettatura di mille calette. Un flash di luce mediterranea che illumina i piatti come il miglior riflettore. Ed è il paesaggio in cui è cresciuto Perez, dopo essersi trasferito a pochi mesi per gattonare nel tapas bar di famiglia El Peña, dove ha iniziato a servire durante le vacanze estive e nel fine settimana, per poi passare in qualche ristorante tipico catalano. Sul suo curriculum i mostri sacri sono due: Michel Guérard, padre nobile della nouvelle cuisine, e soprattutto Ferran Adrià, frequentato per ben 5 anni, dal 1993 al 1998, nell’ambito di corsi e con inquadramenti differenti. Nel 1997 però è già Miramar grazie al matrimonio con Montse Serra, figlia dei titolari di quello che era uno stabilimento balneare, subito convertito alla moderna cucina catalana, interpretata in chiave sempre più tecnoemozionale. Arrivano presto i primi piatti firma, come il foie gras con cioccolato e mela, nato dall’amore per il cacao di Montse; cosicché nel 2006 è stella, raddoppiata nel 2010. Non basta, perché nel 2008 sopraggiunge l’Enoteca dell’Hotel Arts a Barcellona; nel 2012 il ristorante Cinco (per il numero dei sensi e le dita delle mani, oggi anche per la quinta stella) presso l’hotel Das Stue di Berlino; mentre nel 2017 è la volta di Terra, presso l’hotel Alabriga a S’Agaró, sempre sulla Costa Brava, e del più informale Sea Club. Quattro cucine per altrettanti ristoranti; anzi sette, visto che ci sono anche i tre tematici barcellonesi: Eggs, Royale e Bao Bar, dedicati rispettivamente a uova, hamburger gourmet e panini al vapore, cinesi nella preparazione e spagnoli nelle farciture.
IL SEGRETO? CLASSICITÀ E AVANGUARDIA Qual è allora la vera cifra di Perez? Forse la bicefalia, nel senso che a guidare la cucina sembra esserci un doppio cervello. Da una parte la classicità, a tratti perfino un po’ accademica, dovuta all’apprendistato in Francia; dall’altra l’avanguardia, in linea di discendenza da Ferran Adrià. Predominano rispettivamente sul gusto e sulle tecniche, anche molecolari, generando alchimie variabili secondo il piatto e il ristorante, sempre funzionali alla centratura scientifica del prodotto. La sperimentazione continua a svolgersi perlopiù al Miramar, dove Perez sforna ogni anno fino a 130 ricette, dagli appetizer alle friandises, destinate talvolta a diventare signature presso altri indirizzi. Il degustazione conta 35 corse cuttingedge; ma alla carta ci sono anche portate più rassicuranti.
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GOURMETFOOD
Al momento risalta in particolare Levante, dedicato al vento che porta pioggia e temporali: sul piatto è raffigurata una spiaggia dopo la tempesta, disseminata di alghe, stelle marine e ricci, ma anche cocci di bottiglia. Oppure Impollinazione, con il suo simbolismo delle origini: l’alveare, con i diversi fiori da cui le api ricavano il polline, è realizzato in meringa con la stampante 3D; si accompagna all’acqua di gratitudine, benvenuto e ringraziamento all’ospite per la sua visita. E ancora Mangiando ossa, provocazione sull’incommestibile a base di midollo. I cervelli all’opera tuttavia sono ben più di due: Paco Perez appartiene alla schiera di quegli chef che sono imprenditori, in quanto prima talent scout. I luogotenenti che ha piazzato nei punti strategici del suo piccolo im-
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pero sono cresciuti con lui e ne hanno accompagnato l’ascesa. Ragazzi che non smette di esortare a praticare cucina catalana, come esercizio di umiltà. C’è innanzitutto la sua spalla creativa al Miramar, Luis Alonso, classe 1987. E poi lo chef dell’Enoteca Alex Vehi, ancor più giovane con i suoi 26 anni, al fianco di Perez da 9 anni, di cui 3 nella posizione attuale. E il nostro Antonio Arcieri, trent’anni appena compiuti, che manda avanti insieme a Marco Gonzalez la cucina di Terra.
UN ITALIANO IN SQUADRA Nato a Lamezia Terme e cresciuto sul Lago Maggiore da una coppia di operai migrati al nord, in futuro potrebbe tornare in Italia per aprire un posto suo. “L’idea che potessi fare il cuoco è venuta a mia mamma, un giorno mentre lavava i piatti ha suggerito l’alberghiero e io, che pensavo di diventare geometra, ho cambiato subito idea. Così ho frequentato il De Filippi a Varese, mentre lavoravo qua e là. Ed è stato il titolare della pizzeria Nadir, che da gourmet frequentava gli stellati, a mettermi in contatto con Paco Perez attraverso un giornalista spagnolo suo amico. Non avevo ancora passato l’esame che già tenevo in tasca il biglietto di sola andata. La stella del Miramar a quei tempi era una, ma a me che fantasticavo di Adrià e avevo letto i suoi libri, poter affiancare un suo discepolo sembrava già un sogno. E difatti è stato uno choc, perché non riuscivo a credere a quello che
LE METE DEL GUSTO
POLINIZACIÓN Questo piatto rappresenta l’origine: un nido d’ape realizzato con una stampante 3D e tinto con una varietà di fiori, da cui le api ottengono il polline. L ‘”Impollinazione” è inoltre accompagnata dall’ACQUA DELLA GRATITUDINE, che mira ad accogliere e ringraziare l’ospite per la sua visita.
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GOURMETFOOD
stava accadendo. Ho avuto la fortuna che il capo partita e il suo aiuto agli antipasti lasciassero praticamente in simultanea, cosicché sono entrato in pianta stabile per poi girare tutte le partite e finire secondo, deputato alle aperture di Berlino e del pop-up di Dubai. Fino all’incarico a S’Agaró”. Dalla partenza sono passati 11 anni e ancora oggi manca il biglietto di ritorno. C’è scappato pure uno stage a elBulli poco prima che chiudesse, nel 2011, per imbracciare il sifone e vivere in prima persona “la rivoluzione”.
DAL MARE ALLA TERRA Nel contesto di un hotel a 5 stelle, la ristorazione si connota nel senso di una classicità mediterranea, ispirata all’ambiente circostante nell’ingredientistica e non solo: l’idea arriva quasi sempre da Llançà, volando su un foglio a penna che solo Perez sa decifrare; da lì iniziano le prove finché il menu non è testato, corretto e variato. “Spero un giorno di diventare come lui”, confessa Arcieri. “Ammiro il suo stile marinaro e mediterraneo. Mi piacerebbe aver inventato l’oloturia alla carbonara, oppure il risotto di ricci di mare e tartufo nero. Perché ha sempre avuto una passione per la nostra cucina, è quasi più italiano di me”. Sono tre i classici finora emersi dalle maree dei cambi di carta: i cetrioli di mare con trippa di baccalà, ceci verdi e pancetta iberica; il cannellone di scampi e caviale; la spalla di agnello laccata con barbabietola alla brace, purea di pastinaca, panna acida e petali di capperi. © Francesc Guillamet
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La cucina dell’Enoteca è ancora diversa. Il pesce la fa da padrone: vedi il ceviche di ostrica con latte di tigre ma al lulo, frutto tropicale che smorza l’aggressività dell’originale, servito in uno stampo congelato di emulsione di ostrica per la voga peruviana. Oppure la celebre oloturia alla carbonara, con la salsa italian sounding di cipolla, pancetta iberica e pelle del mollusco arrostita per il collagene, irrorata di panna, la polpa saltata che sostituisce la solita seppia per una diversa testura e in stagione una spolverata di tartufo nero. Ma c’è anche la classicità sublime di una parmentier agli ovoli con foie gras e uovo a bassa temperatura; o quella di una sogliola cucinata a bassa temperatura e poi alla piastra, servita con una sauce meunière all’acqua di tartufo, perché è soprattutto nei secondi che si avverte l’impronta di Guérard. Il percorso va dal mare alla terra, con il giovane piccione alla francese nel finale: il petto scottato al burro, la polpettina delle cosce, il loro fondo e due olive sferificate, una verde, l’altra nera, per il contrasto sapido e amaro, più un panino cinese al vapore farcito di rigaglie per il sincretismo stilistico totale. La pasticceria torna su un registro più giovane. Vedi la macedonia con gelatina e sorbetto dello sciroppo della frutta stessa, per variare la sensazione sciroppata; oppure il Principe ricostruito con il gelato di biscotto negli stampi e il ripieno di crema al cioccolato, per un twist ironico che sdrammatizza la grandeur.
LE METE DEL GUSTO
LEVANTE 2017 Il “Levante” è un tipico vento della costa mediterranea. Solitamente provoca tempeste di mare e pioggia. Questo piatto rappresenta il paesaggio che troviamo sulla spiaggia dopo una tempesta del “Levante”. Il mare ci restituisce le alghe, i resti delle specie marine, come le stelle marine, i ricci di mare ... e inoltre, altri resti come i cocci delle bottiglie.
COMIENDO HUESOS Questo piatto rappresenta l’idea di “mangiare ciò che non è concepito per essere mangiato”, ossia un osso. Per questo, viene utilizzato il midollo osseo, parte interna dell’osso: si prepara un caldo di carne di manzo con latte. Una volta che assimila tutto il sapore, si cola e si emulsiona con agar agar. Si inserisce in uno stampo e si congela a -40°C. Il prodotto finale si liofilizza tra le 24 e le 48 ore. Risultato: un osso croccante con sapore carnico con ripieno di midollo cremoso.
RISTORANTE MIRAMAR
Passeig Marítim, 7 - 17490 Llançà Girona (Spagna)
Tel. +34 972 38 01 32
www.restaurantmiramar.com
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PRODOTTI ECCELLENTI
LA FRESCA NOVITÀ DELL’ESTATE PRONTOFRESCO
GAZPACHO
LA ZUPPA FREDDA GUSTOSA, LEGGERA, TRENDY, VERSATILE E FACILE Il Gazpacho è un piatto tipico della cucina spagnola: è considerato un piatto della salute perché composto da alcuni ingredienti centrali della dieta mediterranea estiva come il pomodoro, il peperone, il cetriolo e l’olio extravergine d’oliva che, sapientemente equilibrati, offrono un sapore ricco e molto piacevole. Il Gazpacho è molto apprezzato in estate e viene servito freddo. Può essere arricchito per realizzare molteplici varianti adatte per diversi momenti di consumo.
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LE METE DEL GUSTO
Gazpacho per Fantasiosi Aperitivi e Apericena Servire il Gazpacho tal quale circa 60–70 grammi oppure diluito con acqua a piacere, quindi aggiungere uno stuzzichino:
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PRODOTTI ECCELLENTI
Gazpacho: ricette per Zuppe Fresche Certificate Gusto & Benessere GAZPACHO CON TONNO E CIPOLLA INGREDIENTI per 1 porzione g. 205 di Gazpacho g. 50 di peperoni freschi gialli e rossi cubettati g. 50 di pomodori freschi da insalata a cubetti g. 30 di cetrioli freschi a cubetti g. 50 di tonno in olio sgocciolato g. 30 di cipolla rossa fresca a fettine PREPARAZIONE Sgocciolare bene il tonno. Servire il gazpacho con il tonno, la cipolla, i peperoni, i pomodori e i cetrioli a cubetti.
GAZPACHO CON VERDURE FRESCHE E CUBETTI DI PANE INTEGRALE
GAZPACHO CON PROSCIUTTO CRUDO E UOVO SODO INGREDIENTI per 1 porzione g. 205 di Gazpacho g. 50 di peperoni freschi gialli e rossi cubettati g. 50 di pomodori freschi da insalata a cubetti g. 30 di cetrioli freschi a cubetti g. 10 di prosciutto crudo sgrassato croccante 1 uovo sodo
INGREDIENTI per 1 porzione g. 205 di Gazpacho g. 50 di peperoni freschi gialli e rossi cubettati g. 50 di pomodori freschi da insalata a cubetti g. 30 di cetrioli freschi a cubetti g. 30 di pane integrale tostato, a cubetti PREPARAZIONE Tostare il pane: deve risultare dorato e non marroncino per evitare la formazione di acrilammide (sostanza dannosa per la nostra salute). Guarnire il Gazpacho con i peperoni, i pomodori, i cetrioli e il pane tostato a cubetti.
PREPARAZIONE Sgrassare il prosciutto e tagliarlo finemente. Cuocerlo in microonde a massima potenza o in padella per 1 minuto: deve diventare croccante. Servire il gazpacho con il prosciutto crudo croccanti, l’uovo sodo i peperoni i pomodori e i cetrioli a cubetti.
GAZPACHO CON POLPO ALLA PIASTRA INGREDIENTI per 1 porzione g. 205 di Gazpacho g. 50 di peperoni freschi gialli e rossi cubettati g. 50 di pomodori freschi da insalata a cubetti g. 30 di cetrioli freschi a cubetti g. 120 di polpa cotto e grigliato
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PREPARAZIONE Cuocere il polpo in acqua a fuoco basso per un’ora circa. Grigliare il polpo per 30 secondi in una pentola antiaderente o su una griglia senza aggiunta di grassi. Servire il Gazpacho con il polpo e guarnire con peperoni, pomodori e cetrioli a cubetti.
GOURMETFOOD
JEFFERSON RUEDA UN BRASILIANO CITTADINO DEL MONDO di
Flavia Tomaello
Uno chef, nato in Brasile e formatosi in Francia, che ha saputo esplorare la gastronomia italiana e si è perfezionato in alcune delle principali cucine spagnole. Il risultato? Un ristorante che offre ricette da tutto il mondo e fa della carne di maiale il suo piatto principe. 40
LE METE DEL GUSTO
Gli ingredienti sono di origine brasiliana. L’influenza, francese. Le caratteristiche principali, italiane. Le tecniche, spagnole. La peculiare formazione cosmopolita dello chef brasiliano Jefferson Rueda ne fa uno dei cuochi più interessanti di tutta l’America Latina. Nato a San José del Río Pardo - una piccola cittadina dell’interno dello stato di San Paolo in Brasile - Jefferson Rueda comprende chiaramente la sua vocazione fin da giovane: a 17 anni inizia la formazione come chef presso il SENAC brasiliano, che manteneva a quel tempo degli scambi con il Culinary Institute of America. Mentre studiava, riusciva a pagarsi le spese grazie al lavoro di macellaio, che gli ha insegnato come scannare pecore e maiali. Dopo un soggiorno in Francia, dove porta a termine la sua formazione persso Le Cordon Bleu e nella cucina dell’Apicius parigino, torna in Brasile, e si stabilisce a Sao Paulo passando per il Cantaloup e il Parigi, dove riesce a carpire i segreti della cucina francese del famoso chef Laurent Suaudeau. In questo stesso periodo si reca spesso in Italia, Paese che percorre da un estremo all’altro, per impregnarsi della sua gastronomia. Nel 2002 trova posto nell’ormai chiuso Madeleine. Qui richiama inmediatamente la curiosità della stampa: la rivista Guia gli conferisce il premio come “chef rivelazione” del 2002. Un anno dopo, inizia il suo percorso internazionale e rappresenta il Brasile nel concorso biennale per cuochi Bocuse D’Or, a Lione, in Francia. E’ a questo punto che i semi di vari progetti vengono gettati: nel 2003 inaugura il Pomodori che, come indica il nome, ha delle forti influenze italiane. Durante i successivi otto anni fa incetta di premi e riconoscimenti, incluso quello di “chef dell’anno” per il 2007, rilasciato dalla rivista Prazeres da Mesa. Nel frattempo, con sua moglie Janaina Rueda, apre il Bar da Doña Onça, specializzato nella cucina paulista, che ancor oggi riceve la sua personale consulenza. Inquieto e prolifico, nel 2011, non appena portato a termine il progetto Pomodori, si mette a capo di un altro emblematico ristorante di San Paolo: l’Attimo, che sebbene portasse avanti la proposta di un menù italiano, aggiungeva molti elementi pro-
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GOURMETFOOD
pri della cultura brasiliana, specialmente nell’uso degli ingredienti. In cerca dell’eccellenza assoluta, Jefferson passa sei mesi di prefezionamento presso alcune delle migliori cucine d’Europa, El Celler de Can Roca, a Girona in Spagna, e il Can Fabes, che non esiste più e che apparteneva allo scomparso Santi Santamaría a San Celoni, sempre in Spagna. Comincia inoltre ad interessarsi del funzionamento di due piccole fattorie organiche rivolte all’allevamento dei maiali e considerate tra le migliori produttrici di prosciutto al mondo, Els Casals e Buti Fajas. Queste esperienze risulteranno di vitale importanza per lo sviluppo del suo successivo (e attualmente ultimo) progetto. Nel 2013 è di nuovo nominato chef dell’anno dalle riviste Prazeres da Mesa e Saopaulo, del gruppo Folha de Sao Paulo, che hanno scelto il suo ristorante come la migliore novità dell’anno.
LA CASA DO PORCO Senza adagiarsi sugli allori ottenuti per l’Attimo, nel 2015, durante i festeggiamenti per i suoi 20 anni da chef, Rueda lancia il suo nuovo progetto: A Casa do Porco. Qui, in un ambiente ipermoderno che fa sentire il cliente come se fosse seduto al tavolo di un ristorante di New York, lo chef va a briglia sciolta offrendo infinite ricette tutte diverse e provenienti da ogni parte del mondo ma con un unico elemento in comune: l’ingrediente principale è la carne di maiale, “la più versatile e democratica del mondo”, a detta dello stesso Rueda. Chi entra in questo ristorante, che si trova al numero 124 di rúa Araújo, a San Paolo, deve provare almeno una volta il maiale alla San Zé, brasato per sette ore. Altri suggerimenti? La Torradinha coperta di sanguinaccio al mandarino, pancetta al vapore con pane cinese e conserva di pepe e cipolla
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LATTUGA ROMANA con costicine e riso “temperato” INGREDIENTI per 10 persone
Per le costine grigliate: g. 700 di costine di maiale, sale, pepe de costilla de cerdo, pepe nero in grani, erbe (per es. timo) a piacere, ml. 100 di melassa di canna.
Disossare le costine e marinarle con tutti gli ingredienti per due ore. Cuocere le co-
stine in un termocircolatore per altre 12 ore a 72°C. Lasciar raffreddare e tagliare a dadi di cm. 5x5. Terminare con la melassa di canna e mettere in forno a 180°C per 5 minuti.
Per il riso “temperato”
g. 250 di riso per sushi (Gohan), ml. 375 di acqua, g. 4,5 di sale, ml. 45 di aceto, g. 10 di zucchero.
Per il condimento, mescolare l’aceto, il sale e lo zucchero e scaldare fino a che tutti gli ingredienti si dissolvono nel liquido. Lavare il riso, sciaquare bene i grani e cuo-
cere in pentola (per ogni tazza di riso, aggiungere una tazza e mezza di acqua). Me-
scolare il condimento nel riso cucinato e spargere in un vassoio o sul tavolo per farlo raffreddare più velocemente. CONCLUSIONE
10 unità di lattuga romana, g. 250 di riso “temperado”, 10 costine grigliate, g. 30 di
alghe marine idratate e condite con limone, pepe Tougarashi (miscela di vari tipi di pepe) a piacere.
Usando la lattuga romana come base, sovrapporre in questo ordine uno sull’altro i seguenti ingredienti: riso, costine, alghe e decorare con il pepe.
LE METE DEL GUSTO
PANCETTA CON GOIABADA INGREDIENTI per 10 persone Per la pancetta
g. 500 di pancetta di maiale, l. 1 di strutto di maiale, l. 1 di acqua, g. 80 di sale, g. 20 di zucchero, olio.
Mescolare insieme l’acqua, il sale e lo zucchero fino a dissolverli per bene. Immergere la pancetta in questa salamoia
liquida e lasciar riposare per tre ore. Togliere la pancetta e asciugare con carta assorbente.
In una pentola collocare lo strutto, aggiungere la pancetta e lasciar cuocere a fuoco lento (75°C) per 5 ore.
Togliere la pancetta dallo strutto, adagiare in un vassoio e lasciar raffreddare per 4 ore.
Successivamente, tagliare la pancetta in cubetti grandi e sof-
friggere in una padella con olio precedentemente riscaldato (200°C) fino a farla diventare dorata e croccante. Lasciar riposare.
Per la salsa di goiabada
g. 100 di goiabada cremosa, g. 30 di salsa di pepe fermentato.
Mescolare gli ingredienti, inserirli in una sac a poche e lasciar riposare.
Per i sottaceti di cipolla
g. 50 di cipolla rossa, ml. 20 di acqua, ml. 20 di aceto di riso, g. 5 di zucchero, g. 2 di sale.
In una pentola, mescolare l’acqua, l’aceto, il sale e lo zucche-
rossa o il bollito di filetto, frutti di mare e cavolo. La vetrina di Rueda ha continuato a riempirsi di premi: a neanche un anno dall’inaugurazione, A Casa do Porco era già entrata direttamente al posto 24 della classifica dei migliori ristoranti latinoamericani “50 Best Latin America” e aveva già ottenuto una stella dalla Guida Michelin. Per di più, nel 2016, Rueda viene rieletto come il migliore chef brasiliano dell’anno. Il successo è indescrivibile: tanto che sarà necessario affrontare una fila chilometrica per accedere a un suo tavolo. Una receptionist dal sorriso perfetto prende nota del numero di cellulare di ogni avventore e chiama solo quando si produce il miracolo e si libera un tavolo. Un sabato sera l’attesa può durare anche oltre le due ore. E questo nonostante il locale non sia situato in un quartiere cool della città; anzi al contrario, i paulisti tendono a evitare questa zona. Per
ro e mettere sul fuoco fino al punto di ebollizione. Spegnere il fuoco.
Quando si raffredda, aggiungere la cipolla e lasciar riposare in freezer per 12 ore. CONCLUSIONE
15 cubetti di pancetta, salsa di goiabada, cipolle sottaceto, fiori di stagione, fior di sale.
Collocare la pancetta in un recipiente e, con il sac a poche, adagiare sopra la goiabada.
Sopra la goiabada disporre le cipolle sottaceto e decorare con i fiori.
Concludere spargendo un po’ di fior di sale.
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GOURMETFOOD
SUSHI DI GUANCIALE DI MAIALE INGREDIENTI per 10 persone Per il guanciale
g. 500 di guanciale, l. 1 di strutto di maiale, tucupi (brodo giallastro a base di mandioca).
In una pentola collocare lo strutto, aggiungere il guanciale e lasciar cuocere a fuoco
far passare il tempo nell’attesa, si può provare un sacchettino di Porcopoca (un gioco di parole tra “porco”, maiale, e “poca”, popcorn): costa appena due dollari e prepara il palato a ciò che verrà dopo. Lo si può chiedere anche d’asporto, ma l’esperienza non sarà la stessa. In ogni caso, l’attesa vale la pena: gli ingredienti utilizzati per ogni piatto sono a dir poco perfetti, i migliori sul mercato. Difficilmente si esce dal ristorante senza aver notato lo stesso Rueda che non perde d’occhio ogni piatto da quando esce dalla cucina fino a quando arriva sul tavolo del commensale. Inoltre, narra la leggenda che quando un cliente chiama per chiedere informazioni o per fare una prenotazione, può trovare lo stesso chef che rispondere alla chiamata. Esiste comunque un segreto per poter degustare le sue prelibatezze senza dover invecchiare facendo la fila: arrivare a metà pomeriggio. La cucina è aperta continuativamente tra mezzogiorno e mezzanotte. Chi stia pensando di far passare il tempo prima di provare A Casa do Porco, per recarvisi in un momento in cui non sia più così in voga, farebbe meglio a rivedere la biografia dello chef: sicuramente l’inquieto Jefferson Rueda sarà già al lavoro per un prossimo progetto. A CASA DO PORCO
R. Araújo, 124 - República, São Paulo SP, 01220-020, Brasile
Tel. +55 11 3258-2578
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lento (75°C) per 3 ore. Come tutti i tagli delicati, è necessario fare attenzione al giu-
sto punto di cottura: togliere dal forno quando sarà soffice e ben cotto. Togliere il grasso e mettere in frogorifero per un’ora. Togliere dal frigorifero e tagliare a fette. Pennellare con tucupi e sbattere. Per il riso
g. 500 di riso per sushi (Gohan), scorza di un’arancia, ml. 750 di acqua, g. 9 di sale, ml. 90 di aceto, g. 20 di zucchero.
Per il condimento, mescolare aceto, sale e zucchero e scaldare fino a quando tutti gli ingredienti si sciolgono bene nel liquido. Lavare il riso, scolare bene i grani di
riso e cuocere in pentola (per ogni tazza di riso, aggiungere una tazza e mezza di acqua).
Versare il condimento nel riso e spargere su un vassoio o sul tavolo per farlo raffreddare più in fretta. CONCLUSIONE
g. 500 di riso, g. 5 di pasta di curry verde, ml. 100 di tucupi nero, 1 sfoglia di nori. Lavorare il riso raffreddato. Grattugiare la scorza dell’arancia e mischiarla al curry
verde. Spennellare questa miscela nella parte superiore del riso. Collocare la striscia di guanciale supra il riso e terminare con un nastro di nori.
GOURMETFOOD
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LE METE DEL GUSTO
IN BRASILE
CIPRIANI
TESTIMONIA LA CLASSE DELLA CUCINA ITALIANA di Jerry
Bortolan
“Futebol”, sole, spiagge, samba, carnevale, belle donne e “vivere il momento”: è il brand che identifica da sempre il Brasile al quale si è aggiunta, ora, la gastronomia. E se fino a poco tempo fa il riferimento culinario legato al Brasile si fermava al churrasco o alla fejoada, ora non è più cosi. La grande movida enogastronomica che ha invaso gran parte del pianeta non ha lasciato indifferenti i gourmet brasiliani. Cosi, se a Rio de Janeiro la musica più ascoltata e diffusa è quella della Bossa Nova di Joao Gilberto e di Tom Jobim, non è altrettanto per l’alta gastronomia che, invece, parla e canta “italiano” nel più celebre e sofisticato ristorante di Rio, il “ Cipriani”. Un prezioso angolo d’Italia, un posto unico che, per il suo format ed eleganza, si differenzia dai ristoranti di Rio: una volta entrati, si è accolti con sorrisi, grande professionalità e con il calore che la nostra ospitalità sa comunicare e creare, avvolgendoti subito con la sua atmosfera. Il Cipriani si trova all’interno dell’ulteriore simbolo dell’ospitalità mondiale che fa capo al mitico “Belmond Grand Hotel Copacabana Palace” e che si affaccia sulla spiaggia della mitica Avenida Atlantica, di fronte all’oceano. A rivoluzionare la sua cucina è arrivato lo chef trentunenne Aniello Cassese, che ha cambiato la squadra in cucina e in sala. Ma, soprattutto, ha inserito la storia della nostra cultura gastronomica, che ora suona e compone con altri alimenti d’eccellenza
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GOURMETFOOD
FAGOTTINI
pappa al pomodoro, basilico, pomodori e calamari INGREDIENTI per 6 persone
g. 500 di pasta fresca all’uovo aromatizzata al pomodoro, kg. 3 di pomodoro San Marzano, kg. 1 di pane tipo 1 raffermo, g. 200 di carota, g. 200 di cipolla dorata, g. 200 di
sedano, 2 spicchi d’aglio, olio extravergine d’oliva nocellara, kg. 1 di basilico, g. 20 di olio di basilico, g. 200 di pomodorini gialli e rossi, g. 300 di calamari, g. 100 di patata. PREPARAZIONE
Preparare una classica pappa al pomodoro con sedano, carote, cipolla, aglio,
pomdoro San Marzano e pane raffermo. Dopo ridurre il tutto in purea e riempire la pasta fresca di pomodoro, conferendo una forma di fagottini.
Per la crema di basilico: sbollentare in acqua salata il basilico e poi frullarlo con un poco di amido della patata. Passare tutto al setaccio fino ad ottenere una crema liscia e omogenea.
Per i pomodori confit: cuocere i pomodorini tagliati a metà nel forno a 95°C per un’ora e mezza. Lasciar riposare a temperatura ambiente.
Per i calamari: tagliare i calamari a rondelle; una parte sarà cotta in olio a 52°C e l’altra sarà fritta con l’aiuto di semola rimacinata.
Collocare nel piatto purea di pomodoro e maionese di nero di seppia; formare del-
le strisce con la purea di basilico ed adagiarvi i fagottini cotti in abbondante acqua
salata. Decorare con i pomodorini confit, le differenti consistenze di calamari; finire il piatto con olio di basilico e germogli di rapa rossa.
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brasiliani e italiani reinterpretati, in nuove sinfonie, per accontentare il palato dei gourmet brasiliani e per quelli del resto del mondo, di passaggio a Rio. Aniello Cassese ha un grande talento espresso con stile rigoroso. Sa cosa vuole far uscire dalla sua cucina; pratico ed essenziale, non gioca con la tecnica e la creatività per stupire, ma sa come trattare i diversi alimenti che compongono un piatto e sa renderlo comprensibile, catturando l’attenzione del palato e esaltando i sensi con accenni di fusion o piccole contaminazioni con spezie locali. E poi dedica anche una piacevole attenzione alle giuste porzioni nel piatto, per non lasciare insoddisfatti i commensali che, come spesso accade nei menu degustazione dei ristoranti gourmet, trovano nei piatti portate pressoché mignon di cibo, e i brasiliani pensano che sia un assaggio…! Ma chi è Nello, come lo chiamano gli amici? Nasce a Nola, in Campania, e come tutti i cuochi che hanno sentito la sacra vocazione per il food, a 14 anni va a lavare i piatti in una trattoria del paese e ad annusare i fumi e i vapori della cucina tradizionale, semplice ma intensa per i sapori e il gusto dei prodotti genuini del territorio, come ortaggi, farine, pasta, carne e pesce. A 16 anni va a fare l’apprendistato al Gran Hotel Bristol di Stresa, dove si forma. Ma è nel 2008 che approda a Londra nella cucina di Gordon Ramsay, il super stellato chef inglese, e con lui costruisce la sua cultura, armonica e tecnica, che poi esalterà, approfondendola, a “Casal Monastero”, un Resort super esclusivo nella campagna toscana. Testiamo a tavola il suo “Cardapio” (menu) in un dinner che abbiamo condiviso con due colleghi brasiliani che scrivono sul food. Dopo i pirotecnici e goduriosi amouse-bouche, arrivano in tavola piatti tanto belli e ghiotti come:
LE METE DEL GUSTO
SIGARO
whisky affumicato, cioccolato 80% l’uovo organico a bassa temperatura, cuore di carciofo; o il carpaccio di manzo wagyu, cipolla croccante, pinoli e condimento al tartufo; la tarte di cipolla, salmoriglio, caramello di pomodoro secco, provola e gelato al parmigiano. Lo starter per entrare nel vivo dei primi e secondi lo dà il cambio musica che è quella di un sottofondo ritmico della bossa nova, come “Desafinado”, un pezzo sofisticato e storico di Joao Gilberto. Si entra nel tunnel di un viaggio del piacere immenso con i raviolini del plin ripieni di pollo alla cacciatora, su uno specchio di purea di patata tostata e schiuma di taleggio e provolone D.O.P. Oltre al piacere visivo, che già produce golosità, una volta in bocca e assaporati, esce solo un “wow” che vuol dire tutto: niente super aggettivi, ormai superati perché sempre eccessivi, per dire che è un piatto appagante e fantastico (non dimentichiamo che siamo in un altro mondo). Così come il secondo di carne con l’agnello, fava, guanciale, pecorino romano e menta, un mix di fattori calibrati per definire l’esigenza di mangiare in modo contemporaneo. Alla fine, i miei amici che hanno goduto con me il lungo menu degustazione erano stupiti di sentirsi leggeri ma appagati: questa la forza e la grandezza della nostra cucina in mano ad uno dei nostri geniali chef. E per gratificare gli ospiti dell’Hotel che per l’ora del lunch sono a bordo piscina, lo chef propone anche una ghiotta pizza napoletana per sole 20 comande, realizzata con una lievitazione di 72 ore, pomodori San Marzano e mozzarella di bufala fatti arrivare da Napoli.
INGREDIENTI per 6 persone
6 cilindri di cioccolato fondente 80% correttamente temperato.
Per il ripieno del sigaro: bollire 600 grammi di zucchero semolato con 300 grammi di acqua fino a raggiungere una temperatura di 121°C. Nel frattempo sbattere in una planetaria
500 grammi di tuorlo d´uovo e collocare a filo lo zucchero cotto; continuare a sbattere fino a che il composto non sará raddoppiato di volume. Addizionare, continuando a sbattere, 10 grammi di colla di pesce idratata. Sbattere fino a raffreddare il composto e finalizzare con 2 grammi di semi di vaniglia e l. 1,5 di panna semimontata. Riposare nel frigorifero per una notte prima di riempire i sigari di cioccolato.
Per la cenere di carbone dolce: montare a neve 60 grammi di bianco d´uovo e collocare poco alla volta 300 grammi di zucchero semolato; alla fine addizionare 10 grammi di alcol
puro e 3 grammi di colorante nero alimentare. Nello stesso tempo preparare uno sciroppo di zucchero con 200 grammi di zucchero e 30 grammi di acqua fino ad arrivare ad una temperatura di 120°C. Mischiare i 2 composti, raffreddare e frullare il tutto. Passare al setaccio fine per ottenere la cenere alimentare.
Per la torta di cioccolato al latte e nocciola Piemontese i.g.p.: mischiare 150 grammi
di uova intere con 50 grammi di zucchero moscovado. Iniziare a battere in una planetaria 150 grammi di burro, fino a diventare bianco e dopo addizionare il composto di uova.
Collocare, infine, 35 grammi di farina di riso e 75 grammi di cioccolato al latte 33% sciolto.
Mischiare il composto ottenuto con 160 grammi di nocciole piemontesi tostate in forno. Riempire una teglia, precedentemente imburrata, con il composto e cucocere in forno a 160°C per 20 minuti. Raffreddare e tagliare in una forma quadrata.
Per il gelato al whisky: mischiare 1 litro di schotch whiskey torbato con 5 litri di panna. Cuocere a bassa temperatura a 52°C per 48 ore. Dopo, separare il siero dal composto principale e mischiare con 1,2 litri di latte fresco, 200 grammi di zucchero semolato, 56
grammi di destrosio e 62 grammi di glucosio. Bollire il tutto e addizionare con 2 grammi di
farina di carruba. Il giorno dopo mischiare con 400 grammi di panna fresca a 38% di grasso e passare nella mantecatrice per gelati.
Per finire: salsa al cioccolato, cacao amaro in polvere.
Finalizzazione del piatto: spennellare il sigaro di cioccolato con cacao amaro in polvere e
passare la parte in cima nella cenere edibile. Collocare nel piatto la cenere edibile e, nel
lato, un quadrato caldo di torta al cioccolato e nocciole. Disporvi sopra una quenelle di gelato al whisky e decorare con salsa al cioccolato.
CIPRIANI
Av. Atlântica, 001 - Copacabana,
Rio de Janeiro - RJ, 22020-040, Brasile Tel. +55 21 2548-7070
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di
Flavia Tomaello
GOURMETFOOD
NELLE FALKLAND
ALEX OLMEDO IL CUOCO DELLA FINE DEL MONDO
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LE METE DEL GUSTO
Alex Olmedo ha lasciato la propria città natale, Santiago del Cile, per dedicarsi alla sua passione, la cucina, in uno dei confini della terra: le isole Falkland (Malvine). The Waterfront è uno dei due grandi hotel che ci sono nelle isole Falkland o Malvine, un arcipelago che si trova quasi alla fine del mondo, molto vicino all’Antartide e storicamente al centro di una disputa territoriale tra Argentina e Gran Bretagna. E’ un hotel accogliente, piccolo e decorato con molto buon gusto. Nel ristorante ci sono un paio di tavoli con vista sul mare, un salone adiacente con poltrone color porpora davanti ad enormi vetrate e, cosa fondamentale, una calda e piacevole atmosfera che lascia intravvedere un certo sorriso nei visi di quelli che vi fanno capolino dopo aver sofferto lo sferzante vento che solitamente soffia lungo Ross Road, la via principale sul lungomare di Port Stanley, la capitale delle Falkland. Il proprietario di questo piccolo paradiso è Alex Olmedo: un cileno nato a Santiago che giunge per la prima volta su queste isole nel 1990. Aveva studiato gastronomia e turismo oltre ad aver imparato l’inglese a scuola fin dall’età di 5 anni. “Ho avuto la sensazione che qui avrei potuto sviluppare la mia vocazione, oltre che ad avere una spinta in più per praticare la lingua inglese senza uscire geograficamente dai confini del Sudamerica”, racconta Olmedo. In quegli anni il Cile si trovava nel difficile passaggio verso la democrazia e nel suo Paese le opportunità lavorative erano scarse. “Anche qui alle Fackland le cose non erano tanto meglio: c’era povertà, la gente era ancora ancorata al passato, le auto erano vecchie e quasi non esistevano negozi” rievoca Olmedo. Nostante ciò, ad appena 20 anni, riceve un’opportunità unica per un ragazzo così giovane e senza molta esperienza internazionale: ossia diventare lo chef dell’Upland Goose, un hotel che oggi non esiste più ma che disponeva di 30 stanze e un salone ristorante per 150 persone e che ha chiuso i battenti nel 2005. “Io non avevo mai cucinato per più di 10 persone allo stesso tempo!”, ci spiega Olmedo facendo trasparire una certa emozione. Dopo un anno di intenso lavoro decide di percorrere il Cile da un estremo all’altro: si fa lasciare da un aereo ad Iquique, nel nord del Paese, e da lì comincia a scendere, città dopo città, fino ad arrivare a Punta Arenas, nell’estremo sud. Deciso a continuare la sua carriera in Cile, fa domanda d’impiego in diversi posti ma si scontra sempre con la cruda realtà: lo stipendio era sempre molto più basso di quello che aveva percepito sulle Falkland. Ed è così che rivolge di nuovo lo sguardo verso queste isole.
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GOURMETFOOD
Nel 1992 Olmedo ritorna nelle isole per lavorare come chef in seconda con un contratto di un’anno presso il Malvina House, l’altro grande hotel di Port Stanley. “Il posto stava lentamente migliorando: cominciavano ad apparire le prime strade asfaltate, la gente usciva di più, si erano aperti alcuni bar, molti stavano investendo nella ristrutturazione delle case”, continua a raccontare lo chef. L’esperienza fino ad allora acquisita presso l’Upland Goose non era risultata del tutto vana: dopo appena una settimana dal suo insediamento gli viene chiesto di prendersi carico della cucina. Ne nasce un accordo che lo vede accettare questa responsabilità: avrebbe lavorato durante tutta l’estate senza sosta, sette giorni su sette, in cambio della libertà di viaggiare durante l’inverno. In questo modo gira per il Sudamerica, il Nordamerica, l’Europa e il Medio Oriente, sempre con lo stesso obiettivo: “Conoscere e sperimentare la gastronomia di ogni posto visitato”, secondo la versione data dallo stesso Olmedo. Tutte queste esperienze gli hanno poco a poco spianato la strada verso una visione di una propria gastronomia e ciò gli permette ancor oggi di offrire al cliente un menu veramente cosmopolita. “Se il mio menu riporta ‘cucina francese’ o ‘cucina italiana’ è qualcosa di sincero: girare il mondo mi ha permesso di aggiungere autenticità ai miei piatti”, ci spiega. A completamento dei suoi studi, aggiunge un Master a distanza in gestione alberghiera della durata di tre anni che gli permette un grande salto professionale all’interno del Malvina, hotel in cui finisce per esserne il manager. “Da un giorno all’altro, ho avuto la sensazione che il lavoro mi stesse consumando e che non mi stessi dedicando a ciò che
CALAMARI PATAGONICA INGREDIENTI
kg. 1 di calamari, puliti.
Per il ripieno: g. 500 di polpa di granchio, g. 500 di pane
bianco grattugiato, ml. 200 di panna fresca, 2 uova intere,
ml. 50 di olio extravergine d’oliva, g. 100 di cipolla rossa tritata, 2 spicchi d’aglio tritato, sale e pepe bianco, 1 pizzico di noce moscata.
Per la salsa: g. 400 di pomodori sminuzzati, ml. 100 di olio
extravergine d’oliva, g. 100 di cipolla sminuzzata, 2 spicchi d’aglio tritato, sale e pepe, 2 cucchiai di basilico fresco tagliato fino, ml. 100 di vino bianco, 1 cucchiaio di zucchero. PREPARAZIONE
Soffriggere l’aglio e la cipolla in olio d’oliva fino a renderla
morbida ma senza che prenda colore. Lasciar raffreddare. In
un recipiente, mettere insieme tutti gli ingredienti che rimangono per il ripieno e aggiungere il soffritto di cipolla.
Riempire i calamari con la polpa di granchio e chiudere l’estremità con uno stuzzicadente.
Per la salsa di pomodoro: friggere la cipolla e l’aglio in olio
d’oliva a fuoco lento per circa 15 minuti. Tener controllato il
condimento. Mettere una pentola grande d’acqua a bollire, aggiungere un cucchiaio di sale e abbassare il fuoco. Intro-
durre con attenzione i calamari ripieni e cucinare a fuoco lento per circa cinque minuti. Togliere dalla pentola con una spatola e lasciar scolare bene. Collocarli in un vassoio leggermente unto e mantenere al caldo.
Riscaldare in una padella di ferro fuso e aggiungere un po’ di olio d’oliva.
Richiudere il calamaro ripieno, metterlo su un piatto da portata e versarvi sopra la salsa. Servire con delle foglie di basilico sparpagliate e un filo di olio d’oliva.
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LE METE DEL GUSTO
realmente mi appassionava, così che ho preso la difficile decisione di rinunciare all’incarico”, ci spiega. Dopo un paio d’anni durante i quali si disintossica dai ritmi lavorativi a cui era sottoposto, decide di aprire nel 2000 Falkland Recipee, la sua prima impresa. “Questo ristorante è rimasto aperto per 11 anni e ha accompagnato il cambio sociale delle isole: finalmente era possibile offrire una cucina di alto livello in un ambiente degno”, descrive Olmedo. Nel 2011 il ristorante ha chiuso definitivamente i battenti. “La recessione mondiale del 2010 ha penalizzato la nostra attività: abbiamo cominciato a perdere soldi e il progetto non era più percorribile”, racconta.
FILETTO D’AGNELLO WELLINGTON INGREDIENTI
2 filetti d’agnello senza ossa, olio d’oliva, sale e pepe, g. 200 di paté d’oca, g. 500 di pasta sfoglia.
Per la duxelle: g. 400 di champignon sminuzzati, g. 200
L’ERA WATERFRONT Prima della chiusura del Falkland Recipee, Olmedo aveva acquisito, già nel 2008, un vicino bed & breakfast: The Waterfront, conosciuto prima come Rose’s House ed Emma’s House, ma sempre con la stessa funzione: alloggio e colazione. Da allora lo spazio aveva subito diverse ristrutturazioni, ampliamenti rifacimenti e cambi. “Siamo riusciti a farlo diventare un luogo importante per il mercato locale”, dice orgoglioso il suo proprietario. “Questo è un’aspetto importante: se qualcuno nell’isola vuole andare a mangiare fuori, gli rimangono solo due opzioni: il Malvina House e noi”, aggiunge. Olmedo ha capito ad un certo punto di aver trovato il suo lavoro ideale. La sua decisione è stata quella di non ricreare un grande salone, bensì un ambiente per massimo 50 o 60 persone. “In totale, Port Stanley conta 2.500 abitanti, dei quali al massimo 500 avrebbero avuto la possibilità di accedere al mio ristorante. Se avessi ritrutturato il locale per 150 persone sarebbe sempre rimasto mezzo vuoto. Ecco che già con 10 persone ai tavoli, da fuori il locale si vede frequentato e con una certa atmosfera”, descrive lo chef. “Essere giunto sulle isole in così giovane età è stato per me un’enorme opportunità, ma anche un bel colpo di fortuna: la gente del posto mi ha dato tanto e io ho cercato di restituire loro quanto più possibile”, spiega Olmedo. “Tutto ciò che ho imparato qui, l’ho riversato in questo posto.”, aggiunge. E sottolinea: “Ho avuto la possibilità di vivere nel luogo che io stesso ho scelto e ho deciso di rimanere qui, dov’era casa mia”. Il nome ufficiale del ristorante dell’hotel è Waterfront.Kitchen. Cafe e il suo stile è una miscela di elementi diversi. “Ho preso molti elementi dai coltivatori di caffè in Australia e Nuova Zelanda”, confessa lo stesso Olmedo. Il locale apre alle 8 del mattino e offre colazioni, pranzi, tè del pomeriggio e cene. Offre anche pasti veloci, come sandwiche da portar via e un wine bar con cocktail serali. “Qualsiasi sia il momento della giornata, c’è sempre una buona ragione per venire”, conclude Olmedo.
di cipolla tritata, g. 50 di burro, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo tritato, 1 pizzico di noce moscata, sale e pepe. PREPARAZIONE
Riscaldare l’olio in una padella con il fondo spesso. Chiudere i filetti e aggiungere sale e pepe, togliere dalla pentola e lasciar riposare sopra una griglia di ferro.
Aggiungere le cipolle, i funghi e il burro nella stessa pen-
tola di prima. Una volta cotto il tutto, togliere dal fuoco e aggiungere il prezzemolo, i condimenti e le spezie.
Collocare in un recipiente coperto e mettere in frigo.
Ungere con il paté d’oca la parte superiore dei filetti e ta-
gliarli in sei pezzi uguali. Disporre sopra una cucchiaiata di duxelle e avvolgere insieme i filetti facendo attenzione
che la chiusura rimanga sotto il filetto. Lasciar riposare. Spennellare con uovo e mettere in forno ben caldo fino a farli diventare ben dorati e cotti.
WATERFRONT CAFÈ
36 Ross Road, Stanley, East Falkland FIQQ1ZZ, Isole Falkland Tel. +500 21462
www.waterfronthotel.co.fk
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GOURMETFOOD
A SEEFELD
KLOSTERBRÄU
SIGNIFICA ACCOGLIENZA, BENESSERE E BUONA CUCINA. E UNA CLASSE SENZA TEMPO. di
Gianni Di Lorenzo
Seefeld è un luogo dove l’eleganza non è mai appariscenza. Chi sceglie questa meta – evitando le mondane Gstaad e St. Moritz – lo fa per una questione di stile e riservatezza. E una delle residenze preferite da questo tipo di utente è il Klosterbräu Hotel & Spa, 5 stelle storico in pieno centro, le cui mura un tempo appartenute ad un monastero del XVI° secolo confinano con la chiesa parrocchiale di Sant’Osvaldo,
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LE METE DEL GUSTO
una delle principali mete di pellegrinaggio del Tirolo a causa del “miracolo dell’ostia” che vi ebbe luogo. Otto ristoranti di ottimo livello, 3.500 mq di Spa con piscina interna ed esterna riscaldata, una grotta dove è possibile spillare, con sottofondo di mistici canti gregoriani, una premiatissima birra fatta in casa, questo resort di lusso a (ineccepibile) conduzione familiare è il paradiso per coloro che amano la neve – a Seefeld si svolgeranno i Campionati del Mondo di Sci nordico nel 2019 – ma anche per chi vuole concedersi una pausa di vero relax nel silenzio
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GOURMETFOOD
IL MIRACOLO EUCARISTICO CUI ERA DEVOTO MASSIMILIANO I Il prodigio si consumò nella cittadina austriaca nel 1384, un Giovedì Santo. Nella cittadina di Seefeld, Oswald Milser, castellano di Schlossberg, pretese durante la Messa del Giovedì Santo del 25 marzo 1384, di ricevere l’Ostia magna come quella del sacerdote celebrante. Ma al momento in cui stava per essere comunicato, il pavimento cominciò a tremare e si ruppe. Oswald si aggrappò all’altare e per non cadere e il sacerdote ritrasse subito l’Ostia dalla bocca dell’uomo. Il tremore allora cessò e cominciò a stillare vivo Sangue. Numerosi furono i testimoni che assistettero al Miracolo, e ben presto la notizia si sparse per tutta la nazione. Lo stesso imperatore Massimiliano I ne fu molto devoto. Oggi è possibile visitare la chiesa di Sant’Oswald dove è esposta la preziosa Reliquia dell’Ostia macchiata di Sangue, oltre ai numerosi dipinti che raffigurano il Prodigio.
di una natura incantevole, tra boschi, laghetti, prati sterminati e una gastronomia d’eccezione, sia nelle locande tipiche improntate alla tradizione tirolese, sia proprio al Klosterbräu dove la tipicità assume vesti più raffinate. In particolare la colazione - momento clou della giornata specialmente per chi brucia calorie con lo sport - qui è spettacolare, ricca com’è di proposte per ogni tipo di richiesta.
HOTEL KLOSTERBRÄU & SPA
Klosterstraße 30 - 6100 Seefeld in Tirol Austria
Tel. +43 5212 26210
www.klosterbraeu.com
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LE METE DEL GUSTO
L’ESCLUSIVITÀ DI UN AMBIENTE STRAORDINARIO Seefeld in Tirol è un comune di 3.400 abitanti nel distretto di Innsbruck-Land, in Tirolo ed è senza dubbio la destinazione più chic dell’inverno austriaco. La più grande e famosa delle 5 frazioni che formano l’Olympiaregion Seefeld, è una delle più importanti stazioni sciistiche in grado di sintetizzare alla perfezione l’autentico charme di un paesino di villeggiatura alpino con il fascino ambizioso e cosmopolita di una famosa località turistica invernale ed estiva.
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GOURMETFOOD
CONSTANCE FESTIVAL CULINAIRE BERNARD LOISEAU A
MAURITIUS di
Maria Chiara Zucchi Yahia Nazroo
foto di
Nato nel ’51 a Chamaliere (Puy-de-Dome), arrivato giovanissimo nelle cucine prima di Troisgros e poi di Verger, Bernard Loiseau aveva la cucina nel DNA, tanto che salì in modo fulmineo i gradini che ben presto lo portarono nell’empireo della cucina francese: nell’85 entra nei Relais & Chateau con il suo bel ristorante La Cote d’Or a Saulieu (un paio d’ore da Lione), via via conquista la prima e la seconda stella Michelin, fino ad arrivare alla terza nel ’91 e a ottenere i 4 cappelli della Gault & Millau con il punteggio massimo di 19,5. Pubblica libri bellissimi, è pioniere nei programmi televisivi di cucina, gode delle simpatie dei più noti uomini politici, tra i quali l’allora Presidente Mitterand, ottiene la Legion d’Onore nel 1995, secondo solo dopo Paul Bocuse, è un affabulatore na-
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LE METE DEL GUSTO
to relativamente ai temi enogastronomici che approfondisce e i cui canoni riesce ad innovare, lui, insieme a Ducasse e a Veyrat, i protagonisti di una vera e propria new age francese. Tante luci nascondono fatalmente tante ombre e sono stati forse proprio i meccanismi imprevedibili del successo a travolgerlo e a portarlo al suicidio nel 2008. Al suo genio, alla sua cucina nitida, in modo antesignano rispettosa della materia prima e dell’equilibrio nei piatti, da 13 anni è dedicato il Festival Culinario che porta il suo nome e che riunisce a Mauritius, nei locali delle prestigiose strutture Constance, un nutrito gruppo di chef, pasticcieri e operatori del mondo del food, oltre ad irriducibili schiere di gourmet. Dunque in una delle isole più belle dell’Oceano Indiano si portano i profumi e i sapori di un mondo che riconosce in Loiseau uno dei suoi epigoni più importanti. La moglie Dominique, insieme ai figli, è tuttora l’ambasciatrice di un messaggio che mantiene inalterato nel tempo il suo valore e la sua forza. Come è nata l’idea del Festival e perché farlo a Mauritius? Lo chef Michele Scioli di Constance Prince Maurice, dopo aver lavorato a Saulieu con mio marito, si è sempre tenuto in contatto con noi. Dopo la scomparsa di Bernard, 15 anni fa, abbiamo sentito la necessità di organizzare insieme un evento: non solo una settimana gastronomica con il nostro chef Patrick Bertron, ma una gara di cucina con chef francesi in coppia ciascuno con uno chef del gruppo Constance. Come si è evoluto il Festival nel tempo? Il Festival attuale coinvolge i cuochi provenienti da tutta Europa e, qualche volta, da più lontano, sempre in coppia con chef del Gruppo Constance provenienti da tutto l’Oceano Indiano. Ma non si tratta solo di una competizione culinaria, bensì di un rassegna di tutto ciò che ruota attorno ad un ristorante: ecco pertanto un concorso di pasticceria diretto dal Maestro Pierre Hermé, il “caffè gourmand” Nespresso, il bar e la competizione dei cocktail, la sommellerie e l’”arte della tavola”.
Al centro, la figlia di Bernard Loiseau, Blanche Loiseau, nella giuria della Constance Pastry Competition presieduta dal Maestro Pierre Hermé (ultimo a destra).
migliore, lo stile armonioso del gusto. Reis partecipava in coppia con lo chef de partie Arshil Soopun, del Constance Ephelia Seychelles. Il Festival si è rivelato esemplare per il clima umano che lo permeava e per le capacità organizzative dello staff di cucina del Gruppo Constance: dall’acquisto delle materie prime direttamente al mercato locale, all’esecuzione in coppia dove lo scambio professionale costituiva la cifra valoriale, fino alla presentazione alla giuria avvenuta sempre in tempi rigorosamente precisi. Un perfetto omaggio a Loiseau…
Dal 2016 il Trofeo Deutz, istituito dalla Maison Deutz, è diventato parte integrante del Festival Culinario Bernard Loiseau. I 6 chef stellati devono proporre un amusebouche che si abbini perfettamente allo champagne William Deutz. Michael Reis ha vinto anche questo trofeo. Nella foto, il CEO di Deutz Fabrice Rosset e lo chef Michael Reis. © Maria Chiara Zucchi
Quali peculiarità hanno determinato il vincitore di questa edizione? Quest’anno il vincitore è risultato essere Michael Reis del ristorante Johanns di Waldkirchen (Germania), un giovane fuoriclasse con esperienze importanti, per esempio, allo Steirereck e da Arzak, che ne hanno determinato la perfezione delle cotture, l’esaltazione del prodotto nel suo momento
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GOURMETFOOD
I TEAM IN GARA
GRAN BRETAGNA, POLONIA, ITALIA, FRANCIA, REPUBBLICA CECA E GERMANIA IN GARA CON GLI CHEF DEI CONSTANCE HOTELS & RESORTS
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TEAM A MARK KEMPSON - Gran Bretagna AARON PHARABEAU - Constance Lemuria Seychelles 1) Pancake di Taro, tartare di capesante e arancia mauriziana 2) Gamberetti del Madagascar di OSO, crema di vindaye, involtino di gamberi e insalata di mango 3) Maialino iberico caramellato, ananas flambato, rape e tamarindo
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TEAM B ANDREA CAMASTRA - Polonia VINESH LUTCHIA - Constance Belle Mare Plage 1) Colori e texture del Taro con fonduta di formaggio affumicato, marshmallow di Taro e cocco, chips di Taro; 2) I gamberetti del Madagascar di OSO e l’isola; 3) Tradizione di maiale iberico con banana vindaye, nane con curry di verdure, Panacon mauriziano e salsa di arachidi 64
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TEAM C UGO ALCIATI - Italia PRAKALP PRASSANNA - Constance Halaveli Maldives 1) Taro alla griglia con carne di manzo cruda, acciughe e parmigiano; 2) Riso Carnaroli con spezie Roche, gamberi OSO del Madagascar; 3) Pancia di maiale iberico cubettata e impanata, con crema di zucca profumata all’arancio e salsa di vino rosso
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TEAM D ARNAUD VIEL - Francia SASHA DINOO - Constance Prince Maurice 1) Sfera cremosa di parmigiano, zenzero con alga marlin affumicata, spezie dolci sbriciolate, combava; 2) Gamberi Oso ripieni di alghe, cannelloni di melanzana, latte di cocco leggero, crema di pasta al curry con teste di gamberi; 3) Carne di maiale iberico con crosta di arachidi, ananas crudo e cotto, patata dolce, flan creolo in crosta di erbe, caffè perlato e succo di vaniglia
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TEAM E
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OLDA SAHAJDAK - Repubblica Ceca IDUNIL BIYANWILAGE - Constance Moofushi Maldives 1) Chips di Taro con melanzane agrodolci 2) Gamberetti OSO del Madagascar con mango al curry e bisque 3) Carne di maiale iberico con ananas tostato, olio di tamarindo e lime, crema di cocco
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GOURMETFOOD
I VINCITORI TEAM F MICHAEL REIS - Germania ARSHIL SOOPUN - Constance Ephelia Seychelles
CANAPÈ VEGETARIANO DI TARO in burro scuro, confit di Taro con safran, pera, cuore di palma crudo e noci macadamia
BARBECUE DI MAIALE IBERICO
Costine di maiale iberico grigliate con succo di peperone, tortino di patate dolci, guacamole di cipolla rossa e frutta mista, prodotti tradizionali per il bbq delle Mauritius in modo moderno INGREDIENTI
vuoto e metterla in una padella calda a fuoco forte. Cuocere fino
chiai di olio vegetale, 1 cipolla piccola tagliata sottile, 5 spicchi
po arrostire il peperone da tutti i lati direttamente sulla fiamma
kg. 2 di coste di maiale, 15 peperoncini rossi, 4 pomodori, 2 cuc-
d’aglio tagliati finemente, 1 cucchiaino di paprika, 2 anici stellati, 1 rametto di citronella, pepe nero macinato, 1/4 di tazza + 1 cucchiaio di olio extravergine d’oliva. PREPARAZIONE
Riscaldare l’acqua per il bagnomaria a 62°C, salare le coste di
maiale, metterle in un sacco da sottovuoto, aggiungere un filo d’olio e sigillare. Mettere il sottovuoto a bagnomaria e cuocere
per 90 minuti in una pentola capiente. Togliere la carne dal sotto-
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a che le coste siano abbrustolite da un lato e servirle. Nel frattemfino a che non sia carbonizzato, circa 2/3 minuti per lato. Scottare
il pomodoro nell’acqua bollente, pelarlo e frullarlo col peperone.
Scaldare anche 1 cucchiaio di olio vegetale aggiungendo la cipolla, l’aglio, anice stellato, la citronella e aggiungerla alla salsa di peperone e pomodoro con paprika, sale e pepe.
Per il tortino di patate dolci: kg. 1 di patate dolci, g. 200 di burro scuro.
Tagliare le patate in piccoli cubetti e cuocere in forno a 100°C per 45 minuti e mixarle col burro prima che raffreddino.
LE METE DEL GUSTO
GAMBERI OSO
biologici del Madagascar, gnocchi di crema di formaggio croccante, salsa agrodolce di ananas e papaya e zucca cruda marinata INGREDIENTI
3 gamberi Oso, 10 cucchiai di olio di gamberi, 1 rametto di coriandolo fresco, 2 cucchiaini di polvere di cumino, 1/2 cucchiaino di sale, 2 cucchiaini di curry in pasta.
Le spezie: g. 6 di semi di senape, g. 10 di semi di cumino, semi di coriandolo e semi di finocchio.
Per l’olio di gamberi: kg. 1 di carapaci, 1 cipolla pelata e tritata grossolanamente, 1 carota pelata e tritata grossolanamente, 1 gambo di sedano tritato grossolanamente, 2 foglie di alloro, 3-4 rametti di timo fresco, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, 1 litro di olio extravergine di oliva. Ridurre i gusci in pezzi. In una pentola capiente saltare a fuoco forte carota, sedano e cipolla con un poco di olio, aggiungere i carapaci e il concentrato di pomodoro e continuare la cottura per altri 5 / 8 minuti. Versare con cura il rimanente olio, aggiungere le foglie di alloro e il timo facendo attenzione che tutti gli ingredienti siano coperti . Si può aver bisogno anche più di 1 litro d’olio, dipende dalla grandezza della pentola. Cuocere a fuoco alto
per altri 5 minuti poi abbassare
e cuocere lentamente per almeno 3 ore.
Lasciar raffreddare e scolare l’olio da tut-
te le parti solide, passarlo un paio di volte al cinese e conservarlo ben pulito dalle impurità.
Preparazione dei gamberi: mettere i
gamberi sottovuoto e cuocerli a bagnomaria per 30 minuti.
Per gli gnocchi di crema di formaggio:
5 cucchiai di crema di formaggio, 10 cucchiai di farina, 2 uova, lime.
Mescolare tutti gli ingredienti in una bowl, far
bollire l’acqua e cuocere “in camicia” gli gnocchi per 3 o 4 minuti.
Per il riso integrale: grigliare il riso integrale (precedentemente lessato) e spezzarlo in piccoli pezzi.
Per l’ananas e papaya chutney (salsa agrodolce): 2 tazze
di ananas tagliato a cubetti, 1 tazza di papaya fresca tagliata a cubetti, 1 mango maturo, 1 piccolo peperoncino verde fresco e piccante, 2 cucchiai di foglie di menta tritate.
Unire tutti gli ingredienti in una bowl, aggiustare di sale e tenere per un’ora a temperatura ambiente.
Per la zucca cruda marinata: 1 pezzo di zucca, cl. 25 di olio di gamberi, prezzemolo tritato (facoltativo).
Tagliare la zucca in fettine sottili, sistemarla in una bowl capiente e mescolare con l’olio di gamberi. Per la salsa: 2 banane mature, g. 10 di polvere di curry. In una bowl amalgamare bene i due ingredienti.
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GOURMETFOOD
CONSTANCE BELLE MARE PLAGE Incredibilmente affascinante, sorprendentemente contemporaneo. Il Constance Belle Mare Plage è uno dei resort più amati di Mauritius. Simbolo della calda ospitalità dell’isola, il resort 5 stelle accoglie oggi i suoi ospiti in ambienti dal design sofisticato e allo stesso tempo confortevoli e luminosi, grazie a colori vivaci che richiamano il sole, la sabbia e il mare. I materiali impiegati sono naturali, come la pietra e il legno, e non mancano pregiati pezzi di artigianato locale. Ciò che rende davvero unico il Constance Belle Mare Plage è la sua anima eclettica: l’iconico resort del gruppo Constance Hotels and Resorts riesce infatti a soddisfare i desideri di una clientela eterogenea, dalle coppie in viaggio di nozze alle famiglie con bambini, dai gruppi di amici a quanti decidono di staccare la spina e concedersi una vacanza in solitudine anche grazie ai suoi 5 ristoranti. Il soggiorno trascorre in un mix di esperienze appassionanti, tra sport, spiaggia e mare, cucina di alto livello che esplora le tradizioni gastronomiche di tutto il mondo e trattamenti benessere esclusivi firmati Uspa e Ymalia. Ideale per trascorrere una vacanza al sole dei tropici quando in Italia fa ancora freddo, il Constance Belle Mare Plage propone un’infinita serie di esperienze per rilassarsi, divertirsi e scoprire la gioiosa art de vivre dell’isola delle spezie. Punto di forza del resort resta la sua lunga spiaggia bianca: 2 km di sabbia scintillante dove rilassarsi, passeggiare, ascoltare il suono delle onde accarezzati da una piacevole brezza o tuffarsi nelle calde acque turchesi dell’oceano.
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LE ATTRATTIVE DELLA
THAILANDIA
NELLE SUE DESTINAZIONI PIÙ SUGGESTIVE di
Maria Chiara Zucchi
Un bel viaggio inizia dal momento esatto in cui si decide di partire, dal mezzo utilizzato, dalla compagnia di parenti o amici, qualora non si opti per la beata solitudine. In ogni caso una vacanza o un viaggio di lavoro penalizzati o rovinati da orari non rispettati, scomodità dei mezzi stessi, servizi scadenti o inadempienze nelle promesse di molti tour operator, costituiscono ormai una problematica che ha coinvolto numerosi viaggiatori. I maggiori reclami riguardano i trasporti aerei (63%), i treni (20%) e i traghetti (15%). Il tipo di disservizio più frequente in aeroporto riguarda i ritardi e le cancellazioni, nonché il danneggiamento dei bagagli. Con la Qatar Airways – forte del suo terzo posto stabile tra le migliori Compagnie mondiali anche nella classe Economica e Premium, oltre che nella Business e First – molte incognite vengono azzerate. Recentissima è l’inaugurazione delle rotte Doha-Pattaya, Doha Chang Mai e Doha Penang, quest’ultima grazie al primo volo non stop con il Boeing 787 Dreamliner, eccellente combinazione di alta ingegneria aeronautica e raffinata ospitalità a bordo. Ogni destinazione, a questo punto, è avvantaggiata. Ce ne siamo resi conto dopo il confortevolissimo viaggio inaugurale verso la Thailandia: volo perfetto ed energie da spendere nell’itinerario che, fotograficamente, raccontiamo in queste pagine.
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PATTAYA Situata nella provincia di Chonburi, è una delle più movimentate località di mare di tutta la Thailandia. Per secoli, Pattaya fu un piccolo villaggio di pescatori, ma un cambiamento radicale si verificò nel 1961, quando il primo gruppo di militari americani che stavano combattendo in Vietnam arrivò in città per riposarsi. Pattaya divenne una popolare località turistica sulla spiaggia ed oggi attira poco meno di 5 milioni di visitatori l’anno. Le capanne di pescatori lungo gli arenili sono state sostituite da hotel, resort e negozi, tra cui il più grande centro commerciale di fronte al mare dell’Asia, il Central Festival Pattaya Beach Mall. Pattaya effettivamente offre una gran varietà di divertimenti e sport, strutture alberghiere e locali notturni. Sebbene la città abbia goduto in passato di una reputazione non idilliaca (soprattutto per la sua vita notturna), le autorità locali hanno decisamente migliorato la qualità dell’ambiente e delle spiagge, cambiando il volto alla zona e facendola diventare una destinazione adatta anche alle famiglie. Oggi i visitatori si recano a Pattaya per praticare windsurf, sci d’acqua, nuoto, immersioni, vela e fare escur-
sioni alle vicine isole. Gli sport in mare non sono comunque le sole attrattive: altre attività comprendono bungee-jumping, ciclismo, go-kart, Muay Thai, solo per nominarne alcune. Inoltre, i dintorni della città sono in grado di accontentare appassionati di golf a qualsiasi livello, dai principianti ai professionisti.
THE SANCTUARY OF TRUTH I lavori sono cominciati all’inizio degli anni ’80 e non sono ancora terminati, anche se una data prevista per la conclusione è stata azzardata: il 2025. Ma non si procede affatto con pigrizia, non c’è alcuna lentezza o trascuratezza. E’ presente invece
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possono portare a condurre un’esistenza ideale: la Religione, la Vita, la Filosofia immortale, la Pace. Orario: tutti i giorni dalle 08:00 alle 17:00 Indirizzo: 206/2 Moo 5, Soi Naklua 12 , Naklua, Banglamung, Chonburi 20150 Sito web: http://www.sanctuaryoftruth.com/
ACQUARIO UNDERWATER WORLD Underwater World Pattaya è un’attrazione per il tempo libero e mostra la ricca varietà di vita marina che si trova in tutta la regione. All’Underwater World Pattaya i visitatori vengono condotti in un viaggio sul fondo del mare che inizia da spiagge sabbiose e da piscine superficiali rocciose. Da qui si comincia la discesa, passando tra coralli di colore brillante e tutti i tipi di esotici abitanti dell’oceano. Si arriva, infine, in uno spettacolare tunnel lungo oltre 100 metri completamente trasparente ove è possibile ammirare creature, pesci e grandi predatori che abitano le profondità oceaniche. Oltre ad offrire uno spaccato reale della diversità sottomarina dei mari thailandesi, l’acquario svolge anche un ruolo importante nell’educazione e nella conservazione delle specie marine. Una delle esperienze più innovative ed eccitanti è quella di nuotare nelle vasche con mante e squali.
una certosina precisione, incoraggiata da chi ha voluto questo tempio e desidera che sia compiuto con la massima cura, quasi fosse davvero un’opera d’arte senza fine, continuamente aggiornata, come se il lavoro degli artisti la arricchisse ogni giorno grazie alle preghiere dei fedeli. Il Santuario è tutto in legno, ogni centimetro viene intagliato dalle sapienti mani di circa 300 artigiani che non hanno mai usato nemmeno un chiodo. Il loro compito è quello di celebrare la Verità, che nasce dalla religione, dalla filosofia e dall’arte. L’idea originaria fu del miliardario thailandese Thail Khun Lek Viriyaphan, scomparso nel 2000: la sua ambizione era realizzare qualcosa di innovativo. Il tempio domina la baia con un intreccio di guglie, angeli, dei e animali. Si compone di quattro sale dedicate all’iconografia religiosa thailandese, khmer, cinese ed indiana. Una sorta di pantheon orientale nel quale sono rappresentati all’interno i sette elementi creatori - Cielo, Terra, Padre, Madre, Luna, Sole e Stelle – mentre all’esterno sono raffigurati i quattro elementi che
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Orario: Tutti i giorni dalle 09:00 alle 17:30 Indirizzo: 22/22, soi 11Bang Lamung District, Chon Buri 20150
GIARDINO TROPICALE DI NONG NOOCH Nel 1954 il Sig. Pisit e la Sig.ra Nongnooch Tansacha acquistarono circa 600 ettari di colline e valli tra Pattaya e Sattahip, nella provincia di Chonburi. La terra doveva diventare una piantagione di mango, arance e noci di cocco. Durante uno i suoi viaggi all’estero, la signora Nongnooch rimase colpita dalla bellezza di alcuni dei giardini di fama mondiale che ebbe occasione di visitare e decise di trasformare il frutteto in un fantastico giardino tropicale di fiori e piante ornamentali. Il giardino Nongnooch, aperto al pubblico nel 1980, ha aggiunto poi fra le attrazioni uno spettacolo culturale quotidiano, uno show con gli elefanti e offre ai visita-
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tori la possibilità di fare un passo indietro a quando i dinosauri erano i padroni della terra nella nuova attrazione “Dinosaur Valley” con stupefacenti ricostruzioni a grandezza naturale dal Cretaceo e dall’era Giurassica, includendo il Triceratopo e il Tirannosauro Rex. Il luogo, oltre ad essere una delle attrazioni più popolari della Thailandia, è un affermato centro di botanica mondiale ed è in continua evoluzione. Qui si trovano la più grande collezione di palme e la più interessante varietà di orchidee di tutta la Thailandia. Il giardino è stato anche riconosciuto come uno dei dieci più belli al mondo. Orario: Dalle 08:00 alle 18:00 tutti i giorni Indirizzo: Na Jomtien 6 Tambon Na Chom Thian, Amphoe Sattahip, Chang Wat Chon Buri 20250 Sito web: www.nongnoochtropicalgarden.com
KOH LARN Nel mare prospicente la città si trova l’isola di Koh Larn, a 45 minuti di traghetto, vicino alle isole di Koh Krok e Koh Sak. Diverse le spiagge da visitare: le più popolari sono Tawaen Beach insieme a Samae Beach; mentre le più appartate sono Tien Beach e Thang Lan Beach. Una bella esperienza è la visita al punto panoramico Khao Nom Hill (sulla strada per Samae Beach): per arrivare in cima alla collina, seder-
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si nel padiglione, godere della fresca brezza con vista spettacolare su Pattaya City, Naban Port e Nual Beach bisogna affrontare una scalinata di 200 gradini. Altro view point è quello di Guan Yin. Sono in pochi a conoscerlo, probabilmente perché la strada, in salita, non è delle più agevoli. Una volta arrivati in cima, proprio dietro alla grande statua si gode della frescura e della vista sulle spiagge di Tawan e Thong Lang.
CHANG MAI Per calarsi nella cultura thai, il nord è il luogo d’elezione e la pittoresca città di Chiang Mai, capoluogo dell’omonima regione, è una tappa obbligatoria per tutti i viaggiatori. Si trova a circa 700 km da Bangkok ed è situata vicino alle montagne più elevate del paese. La Rosa del Nord è percorsa dal fiume Ping che è anche il principale affluente
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del Chao Phraya, il Fiume dei Re, che attraversa Bangkok. Fondata da re Mengrai nel 1296 (il nome Chiang Mai vuol dire “città nuova”), prese il posto di Chiang Rai quale capitale del regno Lanna. Mengrai costruì attorno alla città canali ed alte mura per proteggerla dai tentativi di invasione birmane. Tutt’oggi, il centro storico è racchiuso in questo quadrilatero. Protetta dalle sue maestose mura e da numerosi canali, circondata da splendide montagne, oggetto di miti e leggende, Chiang Mai è una città mistica e ricca d’arte, sempre più proiettata verso un futuro di modernizzazione.
WAT CHIANG MAN Wat Chiang Man fu fondato da re Mengrai nel 1297 sul sito di Wiang Nopburi, una città fortificata del popolo Lawa, che fu usata dal re come campo durante la costruzione della sua nuova capitale. Fu quindi il primo tempio di Chiang Mai, il più antico della città. Gli edifici sono splendidi esempi di architettura Lanna e ospitano alcune statue molto antiche e venerate del Buddha. Come nella maggior parte dei templi thai, la struttura più antica è il chedi. Il chedi chiamato Chang Lom Chedi (Chang significa elefante) si siede su una base quadrata che supporta un secondo livello di pietra grigia circondata da 15 elefanti. In cima si trova la parte superiore dorata del chedi, che contiene una camera per le reliquie. Il chedi è una miscela di stili Lanna e Cingalese. Orario: Il complesso del tempio è aperto tutti i giorni dalle 6:00 alle 17:00 Indirizzo: 270 Ratchapakhinai Rd, Thesaban Nakhon Chiang Mai, Amphoe Mueang Chiang Mai, Chang Wat Chiang Mai, 50200
LE METE DEL GUSTO
© Tourism Authority Thailand
Collocazione: Wat Chiang Man si trova verso l’angolo nord-est del centro storico, all’interno delle mura, tra Phra Pok Klao 13 Alley e Ratchaphakhinai 1 Alley. Entrando dal lato nord delle mura, attraverso Chang Puak Gate, si percorre Phrapokklao Road per circa 300 mt. per poi voltare a sinistra. Dopo 200 mt. si incontra il wat.
WAT PHRATHAT DOI SUTHEP Il tempio Suan Dok, costruito a Chiang Mai nel secolo XIV, ha l’edificio principale aperto ai quattro lati. Tutto intorno ci sono diversi “chedi” contenenti le ceneri dei governatori della città. Il suo stupa principale contiene una reliquia del Buddha che, secondo la leggenda, si sarebbe miracolosamente duplicata. Il duplicato fu posto sul dorso di un elefante bianco che fu lasciato
libero di girovagare in attesa che si fermasse ed indicasse il luogo dove far sorgere un nuovo wat per custodire la reliquia. L’elefante si diresse sul monte Doi Suthep, dove si fermò e morì. In questo posto, nel 1383 venne eretto il Wat Phrathat Doi Suthep. Vi si accede per mezzo di una scalinata di 300 gradini, oppure utilizzando una piccola funicolare, fiancheggiata da due muretti a forma di serpenti Naga con mosaici colorati e scintillanti. All’interno del Wat si trova uno dei chedi (o stupa) più venerati (e fotografati) dell’intera Thailandia, completamente ricoperto in foglia d’oro. Il tempio è un centro di venerazione popolare, ospita una vasta comunità monastica ed un’interessante scuola di meditazione, la Doi Suthep Vipassana Meditation Center, aperta a tutti coloro che sono interessati ad approfondirne le tecniche secondo i principi buddisti. Orario: 06,30-18:30 Indirizzo: Wat Phra That Doi Suthep Road Srivijaya Suthep Mueang Chiang Mai District Chiang Mai, Sito web: http://www.doisuthep.org/ Collocazione: a circa 30 minuti dal centro di Chiang Mai
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ELEPHANT CONSERVATION NATIONALE INSTITUTE L’importante Centro di Protezione degli Elefanti coniuga l’interesse culturale con la tutela ambientale. Gli elefanti svolgevano un ruolo fondamentale come animali da soma durante il periodo d’oro dell’industria del teak e, nonostante quell’epoca sia passata, molti pachidermi sono stati accolti presso il centro: qui i visitatori possono assistere a dimostrazioni della loro abilità nelle attività forestali e cimentarsi addirittura nella cura di questi formidabili animali. L’obiettivo principale dell’Elephant Conservation National Institute è quello di promuovere la tutela degli elefanti in modo sostenibile e preservare le tradizioni locali per le generazioni future. L’Istituto ha anche lo scopo di ampliare la tipologia dell’offerta turistica della provincia, per cui vi è un coinvolgimento degli animali in attività legate al turismo. Orario di apertura: 09:00 – 16:00 (tutti i giorni) Indirizzo: 28-29 Tambon Wiang Tan, Amphoe Hang Chat, Chang Wat Lampang 52190 Tel: +66 54 829 333 Web: http://www.thailandelephant.org/en/ Indicazioni: in autobus è possibile partire da Chiang Mai o Lampang e dire al conduttore di fermarsi al Thai Elephant Conservation Center. Oppure prendere il treno da Bangkok e poi scendere a Lampang o alla stazione ferroviaria di Chiang Mai. Ci sono collegamenti in bus fino al campo.
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NIGHT BAZAR Di sera, Chiang Mai indossa il suo abito più bello e va in scena il Night Bazaar. E’ un mercato enorme che si trova nel cuore della città, sulla Klan Chan Road, tra Tha Pae e Sri Donchai Road. Il mercato è famoso per l’artigianato locale ma si trovano esposti anche gioielli, giocattoli, stoffe di lino e seta, abbigliamento, accessori, oggetti ad alta tecnologia. Il clou è rappresen-
LE METE DEL GUSTO
tato dai prodotti provenienti dal nord della Thailandia e dai paesi limitrofi, in particolare quelli associati con le tribù delle montagne. In poche parole si può trovare di tutto, non ultimo dell’ottimo street food. Frequentare il mercato è comodo, sicuro ed estremamente piacevole. La gente locale, terminato il lavoro, esce regolarmente per fare shopping oppure per cenare nella zona del mercato serale che viene completamente pedonalizzata. Il mercato comincia ad operare intorno alle 17:00 anche se i venditori continuano ad arrivare anche fino 23:00. L’unica regola da tenere a mente è che la contrattazione è la norma: non ci sono regole: serviranno molta pazienza ed uno smagliante sorriso perché lo shopping diventi un’arte. Orario: dalle 20:00 alle 24:00 tutti i giorni Indirizzo: Chiang Klan Road. Chiang Mai, 50100
DOI INTHANON Da Chiang Mai ha inizio la maggior parte dei trekking che si spingono più a nord; in modo particolare quello al Parco nazionale di Doi Inthanon (foto in alto), che comprende la montagna più alta della Thailandia con i suoi 2595 mt. Nel parco si visitano splendide cascate, risaie terrazzate, vallate spettacolari e piccoli villaggi abitati dalle tribù delle colline: sulle pendici del monte vivono e lavorano circa 5000 individui. Questa montagna, meta di naturalisti ed appassionati del bird-watching ospita numerose specie di orchidee, più di 400 specie di uccelli, l’orso bruno asiatico, il macaco e molte altre specie tipiche.
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PERÙ
INCROCIO DI POPOLI E TRADIZIONI OGGI TRA I PIÙ INTERESSANTI AL MONDO di
Giovanni Angelucci
Era solo il 2016 quando il ristorante Central di Virgilio Martinez venne proclamato per la terza volta consecutiva il migliore dell’America Latina dalla Latin America’s 50 Best Restaurants. Soltanto a distanza di un anno, l’ultima edizione del 2017 ha incoronato un altro re e ancora una volta viene dal Perù: lo chef Mitsuharu Tsumura del ristorante Maido (Madia n. 313 - Dicembre 2016). E se è vero come è vero che la cordata dei talentuosi cuochi peruviani fa da capofila nella rivoluzione ga-
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stronomica latinoamericana innescata ormai qualche anno fa, è altrettanto certo che migliaia di viaggiatori volano ogni anno in questo meraviglioso paese del Sud America esclusivamente per essere travolti dal suo vortice enogastronomico. Non è un caso che per il sesto anno consecutivo il Perù riceva il premio come “Migliore Destinazione Culinaria nel Mondo” nei prestigiosi WTA, gli Oscar del Turismo che si sono tenuti a Phu Quoc, in Vietnam. Così come il Machu Picchu (foto sopra), eletto “Migliore attrazione Turistica” con una crescita annuale del 6%. Evidentemente questo Paese riveste una curiosità e un interesse enorme da parte dei viaggiatori. Qui è presente una biodiversità immensa. Con le sue tre regioni naturali (la costa, la sierra e la selva) contiene 84 dei 117 microclimi esistenti in natura e dà vita a circa il 10% di tutte le specie globali di piante e animali. Cosa vuol dire? Vita e linfa dell’umanità. E forse le 3000 varietà di patata qui esistenti o le 800 specie di mais coltivate possono rendere l’idea. Un enorme tesoro sotto molteplici forme che nel corso degli anni, a partire dal 1500, i numerosissimi immigrati spagnoli, italiani, francesi, cinesi, giapponesi, in primis, hanno fatto proprio. La varie conquiste che si sono susseguite durante i secoli hanno portato con loro una catena di influenze in grado di modellare usi e costumi di un popolo, arrivando a creare ciò che è oggi il Perù. La ricchezza del luogo è stata plasmata e impersonificata nella cosiddetta cucina peruviana “fusion”, risultato di differenti saperi espressi attraverso ricette e pratiche straordinarie.
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Qui dapprima si insediarono le abitudini e le pratiche culinarie spagnole; la cucina araba e africana aveva il suo spazio creato dagli schiavi che furono introdotti nel Paese a partire dal XVII secolo. Piatti come l’anticucho de corazón ne sono la più chiara espressione: la carne andava al padrone, gli scarti e le frattaglie agli schiavi. Anche il tacu-tacu è di eredità africana e ancor oggi è tra piatti simbolo: una miscela di fagioli cotti e riso, conditi
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generosamente con pasta di peperoncino giallo. Li seguirono gli immigrati cinesi, e quasi in parallelo gli italiani: si dice che i nostri connazionali formassero la più grande colonia europea in Perù, portando i mercati locali a scoprire nuovi prodotti come il basilico, e a sperimentare preparazioni precedentemente sconosciute tra cui la pasta (famosi sono i tallarines verdes). Ma la storia racconta anche che il 3 aprile 1899 la nave giapponese Sakura Maru arrivò a Callao, il più importante porto dello Stato, con 790 contadini a bordo, tutti disposti a lavorare nelle piantagioni di zucchero della costa. Fu il primo contatto peruviano con i cittadini giapponesi che si trasferirono anche in altre province dell’interno e iniziarono a dedicarsi al commercio, tra cui i ristoranti che dovettero offrire piatti adattati al gusto locale. Ecco quindi che appare per la prima volta il concetto di Nikkéi, la parola che designa gli emigranti giapponesi e i loro discendenti in ogni parte del mondo,
il cui massimo esponente nella cucina peruviana è il già citato Mitsuharu Tsumura, detto Micha. Questo cangiante panorama colmo di diversità e cultura è oggi la multifaccia del Perù, probabilmente il luogo dove più divertirsi restando seduti ad una tavola. Riuscire ad unire tutte le sue diverse anime sotto un unico tetto è compito arduo. Lo fa con successo ogni anno Mistura (foto in queste pagine), l’evento che celebra la gastronomia peruviana. Organizzato da Apega, la Sociedad Peruana de Gastronomía fondata nel 2007 dal famoso chef Gastón Acurio (Madia n. 295 - Gennaio/ Febbraio 2015) ha portato la sua decima edizione a Rímac, il distretto antico e culturale di Lima, perfettamente adatto allo slogan di quest’anno: “con sabor a barrio” (sapore di quartiere). La rassegna prende il suo nome dalle antiche “mistureras” che combinavano aromi e sapori, così come oggi ama definirsi il popolo peruviano, un meraviglioso incrocio di razze. Gli chef più acclamati al mondo sono
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stati qui ospiti, da Ducasse a Bottura, da Adrià a Martinez e quest’anno anche il Presidente di Slow Food Internazionale Carlìn Petrini. Tra le varie aree di Mistura, il Grande Mercato è il luogo dove 300 piccoli coltivatori e produttori dalle diverse regioni della nazione si incontrano per mostrare le eccellenze del territorio: quinoa, peperoni, patate, peperoncini, pesce fresco, cacao, uve eccellenti, camu camu, lúcuma, maca, caffè, manioca, papaya, granadilla e tanti altri sapori e profumi.
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Il tema “mangiare sano” è stato centrale durante la fiera ed è un argomento fortemente sostenuto dalla Generacion con Causa, un gruppo di giovani chef peruviani che hanno dato (la loro) vita ad un movimento la cui mission è consolidare le basi della cucina peruviana, mantenere le tradizioni e portarla ancor più in alto attraverso creatività e curiosità. Simbolo di questo gruppo è la causa (foto a lato), un piatto tipico a base di patate e ajis (tipo di peperoncino peruviano) delle Ande, con limone e olio europei, simboli di unione e pace tra i popoli. Sono più di 50 giovani di grande talento e rappresentano il futuro dell’identità culinaria del Perù. Riguardo questo Paese si è raccontato tanto, i suoi luoghi mitici come le maestose Ande sono mete di pellegrinaggio, il ceviche della costa, il Pisco della regione vinicola di Ica e i più famosi ristoranti di Lima sono ormai strafamosi. Ma se pensate che oggi tutto sia stato raccontato, bèh, siete in errore perchè siamo nel tempo in cui l’Amazzonia peruviana sta cominciando a vivere una nuova vita. Il cosiddetto polmone del mondo è anche la grande dispensa che attira l’attenzione degli chef (Pedro Miguel Schiaffino - Madia n. 304 - Gennaio/ Febbraio 2016 - con il ristorante di Lima Amaz ne ha fatto un credo) con la sua diversità, freschezza e gusto degli ingredienti, molti dei quali ancora inesplorati.
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Prodotti come il cacao e il caffè hanno già mostrato il loro grande valore e si sono fatti strada nel mercato internazionale, mentre i frutti precedentemente classificati come esotici (cocona, camu camu, aguaje, pitajaya) sono sempre più presenti nei mercati di Lima e nei ristoranti dove prima non si conoscevano. E poi c’è la sua cucina regionale che mostra con orgoglio i piatti della selva, come la chiamano i locali: tacacho con cesina (banana fritta con carne secca), juanes (riso con pollo avvolto in foglie di banano), il chorizo amazon, il patarashca (pesce avvolto in foglie e cotto alla brace), l’inchicapi (zuppa a base di arachidi macinate, mais e yucca con pollo) e il timbuche (brodo noto come “levantamuertos” a base di pesce e uovo sbattuto). Ma non finisce di certo qui, i mercati di
Iquitos, la capitale della foresta Amazzonica peruviana, sembrano appartenere ad una realtà parallela fatta di usanze forti e radicata in un tessuto popolare che discende direttamente dai cosiddetti nativi (se vorrete incontrarli dovrete avere il coraggio di addentrarvi nell’impervia selva e il suggerimento è di farlo con il preparato tour operator italiano Perù Responsabile). Quello di Belèn è il principale della città, dove ogni giorno dall’alba al tramonto si riversano migliaia di persone in cerca di affari. Un enorme labirinto dai mille vicoli straripanti di banchi: frutta amazzonica, yucca, strani pesci appena pescati nei fiumi, il più famoso e grande di tutta l’Amazzonia è il paiche. Qui c’è di tutto, centinaia di specie vegetali e animali, si incontrano anche caimani, tartarughe, scimmie, larve, trippe e frattaglie di ogni genere, roditori e caracoles giganti. Un patrimonio che ha sempre fatto parte di questi luoghi e che oggi ha stregato i più grandi cuochi impegnati a valorizzarlo nelle proprie cucine.
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CAMBOGIA
IL FASCINO DI UNA STORIA ATAVICA OGGI DIVENTATA ACCESSIBILE di
Luigi Di Fronzo
Una natura selvaggia e inebriante, una rete di magnifici canali d’acqua ritagliati da risaie, piccole città coloniali e templi maestosi immersi nella giungla che rappresentano uno dei vertici assoluti di bellezza nell’intero pianeta. E ancora la vita notturna delle città emergenti come la capitale Phnom Penh, oltre al corollario di spiagge e isole tropicali ancora poco invase dal chiassoso turismo di massa. Con una voglia di riscatto che arriva dritta dalla generosità, dal carattere caparbio (anche se candido, gentilissimo) dei suoi abitanti, la Cambogia si appresta ad allinearsi alle nazioni di punta del continente asiatico, con numeri da record. Sette i milioni di turisti previsti per il 2020 (con un percentuale annuale di crescita di circa il 6%) e una sorta di accentuata «Cambomania» che si deduce anche dalla scelta di ambientare film (il recente Per primo hanno ucciso
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mio padre di Angelina Jolie, uscito da Netflix) e rilanciare anche in Italia libri come il besteller Il lungo nastro rosso di Loung Ung (Edizioni Piemme), che si aggiungono all’avvincente Cacciatori nel buio di Lawrence Osborne (Adelphi Edizioni) e a un classico come Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia di Terzani (Tea). D’altra parte, se arrivare in Cambogia negli anni Novanta era un’avventura temeraria e folle (con Pol Pot nascosto nella giungla e molti Khmer Rossi ancora in circolazione) oggi il decantato Paese delle meraviglie offre un ventaglio di possibiltà che da sole valgono il viaggio. A parte il tragico, ma civilissimo, istruttivo itinerario per scoprire la storia recente dei campi di concentramento (negli anni Settanta bastava portare gli occhiali sul naso o girare con una matita in tasca per essere trucidati, in quanto pericolosi sovversivi) ci sono innumerevoli attività, di fascino dirompente. Ad esempio, scoprire la religione dedicata al tempio di Buddha e l’olimpo dorato dell’hinduismo, visitando il centinaio di templi e pagode a Siem Reap e scalando i maestosi edifici in pietra, sommersi dalla giungla: magari concedendosi in più qualche suggestivo tramonto con lo sguardo che si adagia sui bassorilievi, i pannelli che illustra-
no epiche battaglie, come anche i volti di demoni e divinità che fiancheggiano gli ingressi. Un’altra possibilità, dopo aver solcato le aree paludose o le rapide del Mekong è poi quella di visitare le imperdibili località coloniali. In primo luogo Battambang (anch’essa raggiungibile per via fluviale) dove, oltre ad un passaggio sul rustico treno di bambù, si ammirano bucolici villaggi e case di lontana matrice francese, affacciate sul lungofiume. E poi più a sud, verso il confine con il Vietnam, indugiare sul mare di Sihanoukville o bazzicare sulla costa che separa la piccola Kèp e l’incantevole Kampot (d’obbligo qui un passaggio ai mercati per acquistare il celebre pepe nero). Qualche idea in più? Farsi cullare su una barca in una notte di luna piena; girare in bicicletta tra i vicoli punteggiati dalle vecchie shophouse cinesi e, naturalmente, allungarsi al sole tropicale dell’isola di Koh Rong, fra distese di sabbia bianca e bungalow che bordeggiano la giungla lussureggiante.
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Imperdibile guardare l’ultimo branco di esemplari di delfini d’acqua dolce, come anche visitare i villaggi delle comunità Bunong (nella privincia di Mondulkiri) dove si ammaestrano gli elefanti; ancora, affrontare qualche escursione naturalistica e trekking (naturalmente con una guida esperta) per avvistare cervi, orsi e bufali selvatici nell’area del Lumphat Wildlife Sanctuary. Tutto prima di ultimare la permanenza nella capitale Phnom Penh, dove dopo la visita al Palazzo Reale (con tetti rosso fuoco e pagode d’argento) è d’obbligo un’escursione alle isole della seta, dove le donne tessono ancora con rudimentali telai a mano.
A TAVOLA Le meraviglie della cucina cambogiana sono una possente attrazione per il visitatore, al di là dei popolari templi di Angkor Wat e delle pagode buddiste sparse nel paese. E nulla hanno da invidiare alle prelibatezze del cibo thailandese o vietnamita. Il merito viene anche dalla semplicità dello stile di vita tipico dei villaggi, dove l’alto livello gastrono-
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mico si deve anche alle contaminazioni e alle influenze con le tradizioni indiane, cinese e persino d’occidente (si veda il proliferare delle baguettes alla francese). L’ingrediente-base di molti piatti è il riso, declinato in tutte le diverse qualità: dal profumato riso-gelsomino (malis) a quello più grezzo e selvatico. Altro piatto ricorrente è il pesce (quello gigante del Melong, ma anche i piccoli bianchetti) da cui deriva l’inconfondibile prahok, una salsa di pesce fermentato che contraddistingue il sapore forte e pungente di molti piatti khmer, insaporiti da spezie, cardamono e pepe di Kampot. Sono cinque però i piatti più frequenti, accompagnati dalla tipica Angkor (la marca più popolare di birra).
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Famosissimo l’Amok, un filetto di pesce aromatizzato, ricoperto di kroeung (una pasta ottenuta dalla mescolanza di varie spezie) e avvolto da noccioline, latte di cocco e uova: autentica prelibatezza che viene bollito, oppure cotto in una foglia di banana. Quando ci si siede a colazione o si va alla ricerca dello street food è facile invece imbattersi nel Num Ban Chok, più noto nella dizione anglosassone di khmer noodles: spaghetti di riso con un curry verde a base di pesce, fatti andare in un intruglio delizioso di citronella, curcuma e limone di kaffir. Per i carnivori c’è invece il Lok Lak, saltato in padella - cubetti di manzo con cipolle rosse, servite su un tappeto di lattughe, pomodori, cetrioli e succo di lime – o in alternativa il Kuy Teav, zuppa di spaghetti di riso con brodo di maiale (esiste anche una variante con interiora di porco e pesce). Sempre in tema di pesce spicca ancora il Kdam chaa, granchio fritto con pepe verde tipico dei mari del sud, ma davvero una delizia è anche il samlor machou bunlay (zuppa di pesce con ananas). A parte il capitolo insalate nobilitato dal phlea sait kow (manzo, verdura, coriandolo e menta) una sezione a sè merita quella degli insetti, di cui i cambogiani vanno letteralmente ghiotti insieme a grilli, coleotteri, formiche, larve e tarantole fritte. Infine come tipico paese del sud-est asiatico la Cambogia offre un’ampia quantità frutta tropicale fra banane, ananas, noci di cocco, jackfruits e giganteschi durian dalla polpa succosa. (ldf)
GLI HOTEL TEA HOUSE Nella capitale Phnom Penh si può trovare rifugio in questo delizioso hotel, accolti in una hall coloratissima fra morbidi cuscini, lampade sgargianti, vasi antichi, tutto all’interno di un ambiente che mescola cineserie fiabesche e nitido design urbano. La proprietà fa parte del gruppo Maads, deliziosa catena di boutiquehotel (fondata da Marie e Alexis de Suremain) diffusa in alcune città del Paese, che vanta anche ristoranti e negozi. La zona della città è rilassante, decisamente molto piacevole, e nello spazio esterno c’è anche un delizioso giardino tropicale. Oltre 30 le varietà di delizioso tè orientale, offerte di pomeriggio. https://maads.asia/teahouse BLUE LIME Sempre nella città principale del paese, a due passi dal Royal Palace e dal Museo Nazionale, spicca questo tranquillo hotel di charme, arredato in tono minimalista. Si direbbe un’autenica «cool accomodation» dalla quale ci si può appunto immergere in un balzo nell’eccitante e dinamica vita quotidiana della capitale, data una posizione che non potrebbe essere
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più centrale (non senza il bagno in una magnifica piscina fiancheggiata da cabine con tende bianche e circondata da alberi tropicali e folti banani verdeggianti). https://maads.asia/bluelime TEMPLATION La zona di Siem Reap rappresenta semplicemente il top, con le sue ville ecologiche circondate da giardini esotici: luogo semplicemente perfetto per blindarsi in un silenzio Zen dopo una lunga giornata passata fra i templi di Angkor Wat, divorati dalla giungla impenetrabile. Una vera oasi di calma, silenzio e bellezza, che appartiene alla catena Maads. L’hotel disponde di grandi camere impeccabili, curatissime – Junior Suites, Pool Suites e Pool Villas (ciascuna con piscina privata) – ma vanta anche una magnifica hall e l’ampia piscina circondata dal verde, oltre a un fantastico ristorante e una rinnovata area Spa & Fitness. A volte c’è persino l’opportunità di frequentare un corso di cucina locale, guidato dallo chef. https://maads.asia/templation RAMBUTAN Un’alternativa per chi vuol restare principalmente tra Siem Reap e Phnom Penh è convergere sulle oasi
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di moderno asian style rappresentato dalla catena del Rambutan, che ha scelto di chiamarsi come il classico frutto del drago simile al litchi. Quello di Phnom Penh, ad esempio, è una villa anni Sessanta ben ristrutturata, con camere minimaliste, pavimento in cemento lucido, immancabile piscina color acquamarina e tanti pezzi di arte contemporanea (come anche i più rustici setacci color giallo paglia) appesi alle pareti. Qualcosa del genere si ripropone anche nell’albergo-gemello di Siem Reap con qualche mobile vintage in più, pareti colorate in stile vagamente mediterraneo, dondoli in legno sulle terrazzo. Ottimo il servizio cucina. www.rambutanhotelsr.com PHUM BAITANG In un certo senso l’esperienza è unica in questa sofisticata ricostruzione di un idilliaco villaggio di campagna cambogiana, tra risaie e piantagioni immacolate. E’
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qui che ha soggiornato Angelina Jolie durante le riprese del suo film sugli anni del terrore in Cambogia e forse il passaparola ha funzionato, visto che è abitudine incontrare, nei tranquilli vialetti verdi che si percorrono (a piedi o in bicicletta) per raggiungere l’area ristorante, anche attori del jet set di Hollywood. Una residenza a 5 stelle con lussuosissimi cottages imperiali (circondati da 8 acri di giardino), Cigar & Cocktail Lounge, piscina a sfioro di 50 metri, ristorante con tappeti orientali e decori in legno di rattan. Tutto sembra persino troppo perfetto, un’atmosfera un po’ da Truman Show. www.zannierhotels.com INDEPENDENCE HOTEL E’ l’altro aspetto del lusso, un poco vintage e anni Sessanta che piace tanto ai nuovi ricchi cambogiani. Qui nella balneare Sihanoukville c’è questo storico hotel-grattacielo, fondato nel 1964 (9 anni dopo l’indipendenza della Cambogia) e frequentato dal jet-set mondano: un’icona che rammenta i fasti precedenti alla sanguinosa rivoluzione, quando il Paese sembrava aprirsi alla modernità e veniva visitato da attori come Chaplin, oltre a politici e vip. Non a caso, in alternativa alle deliziose villette al bordo del mare (con piscina privata) si può ancora soggiornare nella suite spettacolare che ha accolto la diva Jacqueline Kennedy nel ’67. Immancabile poi un po’ di relax, camminando tra i vialetti dei 22 acri di foresta e giardini tropicali, come anche sulla spiaggia dell’hotel, con bella vista sulle non lontane isole dell’arcipelago. www.darahotels.asia/independence-hotel-resort-spa
SOK SAN BEACH RESORT E’ il luogo ideale per passare qualche giorno sul mare (foto in alto), dopo la doverosa scoperta di templi e storiche cittadine coloniali cambogiane. Già arrivando in barca si intravvede il lungo molo di legno che si protende tra le acque turchesi della baia, con la cintura di verde che circonda la spiaggia: amabile contorno per questo resort sull’isola di Koh Rong, che dista meno di un’ora via mare dalla principale città della costa, Sihanoukville. Si possono fare innumerevoli attività e sport acquatici (kayak, diving, snorkeling) oltre all’immancabile giro in quadbikes tra le piccole comunità nei villaggi sull’isola. E poi, al ritorno, ecco il meritato relax fra i massaggi nell’area spa, in alternativa all’aperitivo con vista tramonto al Sundeck Beach Bar. Gli chalet sono in tipico stile Khmer (con armatura in legno e letti con zanzariera) e quasi tutti poggiano su questa spiaggia incantevole che si apre su uno dei mari più belli del sudest asiatico. www.soksanbeachresort.com
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a cura di
Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”
MOLTI VINI PARTONO FRANCESI MA FINISCONO DRAMMATICAMENTE ITALIANI PUNTIAMO SUI NOSTRI VITIGNI AUTOCTONI SONO TRA I MIGLIORI AL MONDO SOPRATTUTTO NEL RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO Non è una critica ai vini bianchi italiani, anzi, è un monito: non imitiamo quelli francesi. A volte, quando stappiamo un vino bianco italiano e cerchiamo di leggerlo in profondità – parlo di Italia perché sono italiano, ma potrei riferirmi anche ad altre aree vinicole – ci sembra di ascoltare nel bicchiere un idioma francese, almeno al primo impatto olfattivo. Come se fossimo ai blocchi di partenza di una finale Olimpica dei cento metri: subito in vantaggio, grande sprint e poi ci perdiamo sull’allungo e non vinciamo la gara. Da esperto allenatore ammetterei che non è possibile vincere una gara come questa, perché i nostri atleti hanno caratteristiche differenti. La Francia ha dalla sua la geologia, il clima e il metodo di vinificazione. Climat è una parola molto in uso ma particolarmente difficile da tradurre. Per Climat s’intendono le caratteristiche uniche di una determinata parcella o vigna. Ognuna di queste ha sfumature e peculiarità che derivano dalla zona e dalla storia.
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La geologia è fondamentale per lo stile dei vini, non solo quelli italiani o francesi. Più di 170 milioni di anni fa la Francia era completamente coperta dal mare con un clima molto differente da quello di oggi. Infatti era molto più caldo e il clima era quasi tropicale. Man mano che le acque si sono ritirate, i substrati geologici, principalmente calcarei, sono venuti a galla. I substrati marini antichi francesi sono perfetti per la Vitis vinifera, perché sono suoli composti da stratificazioni mutevoli e diversificate, con molti più elementi nutritivi a disposizione. Comunque, nonostante questo, tutti a imitare lo chardonnay di Borgogna e ultimamente quello della zona dello Chablis. Perché? Lo chardonnay della Côte de Beaune è sicuramente meno aromatico e più adatto a un invecchiamento in legno. Molti vini bianchi italiani non hanno queste caratteristiche. I vini bianchi francesi, grazie al loro substrato geologico, hanno mineralità, verticalità e salinità e possono – in alcuni casi - mutare e generare vini più avvolgenti e profumati. Anche il clima è fondamentale per il concetto di terroir: grandi
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escursioni termiche, microclimi complessi e difficilissimi a volte da gestire in vigna, determinano la struttura del clima francese. Arriviamo alla vinificazione. Qui non c’è niente da scoprire, indubbiamente le vinificazioni vanno adattate ai tipi di vino e alle tipologie dei vitigni utilizzati. I francesi, come dicevamo qualche riga sopra, giocano un campionato a parte, per caratteristiche organolettiche e conformazione geologica. Terreni come quelli francesi determinano un apporto di acido citrico ben superiore a quello che le strutture dei nostri terreni sono in grado di regalare. Questo consente ai vini bianchi francesi di svolgere totalmente, nella maggior parte dei casi, la fermentazione malolattica, che ammorbidisce e rende ancora più gradevoli i vini senza togliere la spinta acida fondamentale per l’evoluzione futura e la tenuta nel tempo. Oltre a ciò, un’acidità maggiore determina un migliore assorbimento del legno nel caso la fermentazione e l’evoluzione avvengano all’interno di fusti di rovere. Se parliamo di legno, non dobbiamo dimenticarci l’importanza delle tonnellerie e dalla loro qualità: ovviamente la migliore fini-
sce sempre nelle cantine francesi. In Italia difficilmente possiamo svolgere totalmente il malico perché appiattirebbe troppo i nostri vini. Ancor più difficile è far svolgere all’intera massa un lungo invecchiamento in legno. Ecco perché i vini bianchi italiani danno il meglio quando l’utilizzo del legno è ridotto al minimo e le fermentazioni sono svolte principalmente in acciaio. L’evoluzione in legno e la nota casearia tipica dei vini francesi che svolgono la totalità o quasi del malico in fusto, spesso portano a confondere inizialmente alcuni vini italiani con alcuni vini francesi. Purtroppo a volte, anzi spesso, tendono a tornare drammaticamente quello che sono ovvero vini italiani. La nostra forza sono i vitigni autoctoni come la Garganega, il Verdicchio, il Vermentino, la Malvasia friulana e tanti altri che sono - per il loro stile e per la loro storia - veramente imbattibili. Puntiamo su quelli. La Francia è la Francia. L’Italia, l’Italia. W l’Italia.
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DALL’URUGUAY AL MONDO INTERO
CHARLIE ARTURAOLA E IL SUO ELOGIO DELLA SEMPLICITÀ NELLA COMPLESSA ARCHITETTURA DEL VINO di
Alessandro Rossi
Io non do punteggi mai. Nessuno score. Per giustificare un punteggio serve il commento. Torniamo tutti ad essere più democratici. La fortuna dei vini italiani all’estero? Le I.g.t.
Chi è Charlie Arturaola? Difficile raccontarlo tutto d’un fiato: un’enciclopedia non basterebbe. Per molti è un mito vivente, un rappresentante di spicco nel mondo vino, un genio passionale, un uomo ammirato per la sua competenza e semplicità giunto a noi per altri sentieri. Charlie è un uomo rigoroso che per diverse generazioni ha occupato spazio e volume nel complesso sistema vino. E’ considerato uno dei dieci palati più influenti della storia moderna del vino americano. Nel 2012 a Londra ha ricevuto il premio International Wine & Spirit Competition Comunicator Award, il riconoscimento internazionale più importante per questo settore. Nato a Montevideo in Uruguay da una famiglia di origine Basca, s’innamora del vino - quello sfuso in damigiana - che tutti i giorni si beveva a tavola e non mancava mai. La sua è un’esperienza incredibile maturata prima nel settore dell’hôtellerie, poi nella ristorazione statunitense: Puerto Rico, Repubblica Dominicana, Inghilterra, Stati Uniti, Italia, Francia e chi più ne ha più ne metta, Charlie ha vissuto in qualsiasi Paese che abbia a che fare con il vino. Dal 1995 le sue carte dei vini sono sempre state considerate tra le migliori d’America.
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L’INTERVISTA Charlie, quanto è cambiato questo settore da quando hai iniziato a lavorarci? La tua lunga esperienza ti ha permesso di attraversare intere generazioni di professionisti e appassionati. Come trovi le nuove leve? Si esatto, sono trenta anni che vivo intensamente il mondo del vino; in questi anni sono cambiate tante cose e tante altre sono destinate a cambiare nuovamente. L’angolo di osservazione non è più quello di prima e in alcuni casi manca il rispetto. Il rispetto è un doveroso riguardo nei confronti della storia e della tradizione, perché stiamo parlando di aziende e territori, non di numeri. Spesso mi accorgo che i giovani palati di adesso, quando si presentano in cantina, irrispettosamente parlano solo di tannini, acidità, sapidità ma non sono attratti della storia: per loro non è fondamentale. Ho notato ultimamente, nei miei ripetuti viaggi qui in Italia e più precisamente a Milano, belle donne, giovani amanti del vino, pseudo-esperti che parlano solo di bollicine come se le avessero inventate loro.
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La lettura del vino è differente e cambia da Paese a Paese. Quali sono le principali differenze che hai osservato nei tuoi continui spostamenti? Hai perfettamente ragione, ad esempio in Francia sono molto romantici, si parla di terra, di famiglia e di tradizione. In Italia troviamo più cuore, più calore. La Spagna è molto tecnica, in alcuni casi troppo, come il Brasile peraltro. In America invece studiamo il vino troppo sui libri, più diventiamo Master of Wine, Master Sommelier e più ci allontaniamo dalle bottiglie di vino, dall’esperienza diretta e questo è un errore gravissimo. Spesso mi faccio una domanda: ma questi esperti preparatissimi quanto aiutano a vendere il vino? Sono importanti per il commercio o lo complicano? Lo ripeto: così ci allontaniamo dalle bottiglie, andiamo verso un precipizio, una strada senza via d’uscita. Senza la storia si perde la passione, si lascia per strada. Sai quanti personaggi ho conosciuto lungo il mio percorso? Tantissimi. Grandi degustatori che si riempivano la bocca e adesso cosa fanno? Niente, sono a casa a cucinare con la moglie, non hanno fatto carriera perché il vino non si degusta con il computer, ma attraverso la storia e la passione per la terra. Anche tu sei riconosciuto come grandissimo esperto di vino, sei anche più preparato di un Master of Wine. Stai in qualche modo rinnegando il tuo passato? Assolutamente no, ma negli ultimi dieci anni mi sono ricreduto, ho cambiato mestiere e mi sono reinventato. Il mio scopo adesso è indicare a chi non ha i soldi per bere i grandi Cru di Francia o i migliori vini del mondo, come può bere molto bene spendendo il giusto.
Trovare il miglior vino possibile per tutte le tasche; non interessa la provenienza, il vitigno o il luogo di produzione. Il mondo ha bisogno di confronto, tutti possono imparare da tutti. Anni fa in America erano commercializzate poche tipologie di vino e non necessariamente prodotte negli States: riesling, pinot nero, merlot, cabernet, chardonnay e sauvignon blanc. Adesso tutto è cambiato: c’è più confronto con altre varietà, un’apertura maggiore che porta a una contaminazione; è arrivato il malbec, ci sono il tempranillo, il sangiovese e tante altre varietà.
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Prima neanche si conoscevano in America questi vitigni, adesso è tutto molto più globalizzato. Sai cosa mi rende felice? Trovare a Miami, in un American bar, un sangiovese al bicchiere. Questo perché ci si aggiorna, si ricercano i vini adatti al momento storico o al tipo di cucina proposta. È importante essere curiosi. A proposito di cucina, oggi è molto difficile trovare una lista di vini che incontri i favori del cliente e che sia studiata per armonizzare la cucina dello chef. Non trovi? Conosco molti chef di tutto il mondo, avendo viaggiato tantissimo. La vera sfida è questa: saper creare una carta dei vini in equilibrio con la cucina. Uno degli abbinamenti più riusciti che ho sperimentato nella mia vita è stato al Master Food and Wine di Möet & Chandon in Argentina.
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Due importanti cuochi messicani mi chiedono: “Charlie, cosa facciamo con il nostro Mole?” (Il Mole è un cioccolato messicano fortissimo, molto strutturato oltre che piccante, ed era abbinato in quell’occasione a una carne di maiale). “Con quale vino lo serviamo?”. Dico loro di non preoccuparsi, abbiamo le bollicine rosé che secondo me sono perfette. Ovviamente mi prendono per pazzo, ma li tranquillizzo. E’ stato uno degli abbinamenti più azzardati ma riusciti della mia vita. Cosa suggerisci a un giovane appassionato che si avvicina al vino? Quale deve essere l’approccio corretto, secondo te, quando incominciano a scoprire un vino nel bicchiere? Consiglio di non studiare un territorio o una singola azienda. Prima scegliete un vitigno, cercate di capire dove meglio si adatta, e poi approfondite. Ad esempio il cabernet sauvignon è una tra le varietà più importanti, una delle mie preferite perché è interessante come si sviluppa nelle varie zone del mondo. Sei riconosciuto a livello internazionale come uno dei massimi esperti quando si parla di vino e tra i più grandi degustatori di sempre, anche alla cieca. In Italia abbiamo Luca Gardini come principale interprete, che ha partecipato al tuo ultimo film “The Duel of Wine” proprio come tuo sfidante. Cosa vuoi suggerire a tutti gli appassionati che vorrebbero seguire le tue orme? Bella domanda, per risponderti ti raccontato una storia. Era una sera tranquilla durante un Food and Wine Festival ed arriva un amico di mia moglie. In mano aveva un bicchiere con dentro del vino bianco, me lo passa e mi chiede se riesco a riconoscerlo. Guardo, annuso e dico: “Siamo in Borgogna, ovviamente parliamo di uno chardonnay, non so se è un Mersault o un Puligny-Montrachet, ma penso sia il secondo”. Prosegue lui: “Di che annata?”. Rispondo io: “Mah, credo sia un 2008”. Lui mi guarda e senza dire niente se ne va borbottando qualcosa: avevo riconosciuto il vitigno, la zona e l’annata. Il naso è fondamentale, ogni zona ha caratteristiche ben precise che s’imprimono nella memoria olfattiva. Anche a me capita di avere dubbi sui vini che degusto, ma cerco di fidarmi sempre della mia prima impressione perché è quella che conta, non bisogna cercare altro. Sono diventato uno dei dieci migliori palati d’America anche grazie al mio intuito, mi fido molto di me stesso. Ricordo un curioso episodio durante uno dei più grandi concorsi degli Stati Uniti, l’American Sommelier Competition al Waldorf Astoria di New York nel 2002. Servono un vino e mi sento dire: “Questo lascialo a Charlie perché lui sa cosa è”. Lo assaggio e lo riconosco subito senza neanche pensarci: non era un vino ma era un liquore basco. Da giovane mi ero ubriacato più volte con quel liquore (ride) e ovviamente la memoria gustativa si è immediatamente attivata ricordandomi gli aromi e i sapori. Il palato è un computer va istruito e alimentato, non dico quoti-
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dianamente ma quasi. E’ un triangolo: vista, naso e bocca. Un altro consiglio molto importante è questo: quando dovete assaggiare molti vini, cercate di iniziare e finire presto. Io dopo l’una del pomeriggio non assaggio più perché sono saturo e stanco. Se manca l’attenzione e la lucidità è inutile degustare. Non deve essere semplice confrontarsi con degustatori di tutto il mondo come spesso ti capita perché cambia lo stile, l’approccio e il modo di interpretare il vino. Io cerco di avere grandi competenze e la cultura di quello che bevo per poter in qualche modo essere da tramite. E’ importante capire la cultura dei popoli che producono vino e di quelli che lo consumano, per questo cerco sempre di confrontarmi con tutti, se posso. Mi piace comprendere il punto di vista di un giapponese, di un tedesco o di un francese, per esempio. Non è possibile, comunque, degustare con persone che giudicano superficialmente i vini: hai percepito bene il tannino, l’acidità è bilanciata? Bene allora è già una virtù. Quando arrivano questi grandi assaggiatori - magari profumati di Patchouli - spesso mi faccio delle domande. Il concorso mondiale di Bruxelles secondo me è una delle competizioni più democratiche che conosca. Prima si presentavano i Masters of Wine con il computer, adesso non è più consentito perché non è l’approccio giusto. Mettere insieme cinquanta nazionalità permette di imparare gli uni dagli altri e di avere un confronto corretto e educativo. A Bruxelles non sono invitati solo sommelier perché non può essere logico: è necessario un panel che comprenda tutte le categorie interessate (commercianti, sommelier, giornalisti, buyer, ecc…).
Raccontami come vede Charlie Arturaola il futuro del vino. Mi ricordo un giorno a New York, più precisamente all’Hilton di Manhattan, dove erano presenti per un tasting più di 750 aziende italiane fuori dalle distribuzioni americane. Ho pensato subito: Ma quante sono? Sono più le aziende non importate e distribuite di quelle che sono dentro. Questo ovviamente lascia ben sperare perché c’è spazio per tutti. Adesso purtroppo è una guerra, una guerra dei prezzi. Ho visto per la prima volta cadere il prezzo di Santa Margherita che in America era a circa 25 dollari e reggeva da più di venti anni (il Pinot Grigio ancora tiene). Oggi è possibile bere molto bene se sai dove guardarti intorno. Per esempio, il Portogallo che insieme all’Italia è il Paese con più uve autoctone, offre al mercato vini molto buoni a un ottimo rapporto qualità-prezzo. Ricordi il boom della Campania e della Sicilia ai tempi? Incredibile. Le I.G.T. sono state una denominazione fondamentale per far conoscere i vitigni italiani all’estero, però ha squalificato la D.O.C e la D.O.C.G perché permette di coltivare le uve tipiche di una regione in qualsiasi altra zona, però a livello numerico ha fatto conoscere meglio l’Italia nel mondo. Ovviamente parlo di quello che è successo ai vini italiani nella parte di mondo che io ho vissuto, principalmente gli Stati Uniti. Sappiamo tutti che la Spagna, la Francia e l’Italia sono i massimi produttori, ma sai chi potrebbe competere prossimamente con queste nazioni? La Nuova Zelanda. Vende per circa 579.000.000 di dollari producendo principalmente sauvigon blanc e pinot nero. Chi lo avrebbe mai detto?
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Oggi è fondamentale un buon marketing ed è quello che manca secondo me all’Italia. Per esempio “Benvenuto Brunello” è un momento molto utile perché si possono incontrare e assaggiare la maggior parte dei produttori e i vini di una denominazione. I mercati fruttuosi come la Russia, l’America, il Canada e la Scandinavia necessitano di una comunicazione incisiva e di un buon marketing da parte dei produttori, per capire soprattutto cosa possono offrire sotto il profilo qualitativo. Le Guide del Vino? Quanto sono utili e quanto servono ancora? Sono utili e credo anche nelle riviste, ma oramai è tutto online. A me piace tutto quello che porta un messaggio nuovo, fresco e utile al consumatore finale; la comunicazione settoriale deve essere in qualche modo di supporto al business. D’altro canto le guide sono troppe, guarda per esempio la guerra dei sommelier in Italia: troppe correnti e troppe associazioni. Non è più importante mandare avanti il vino? La comunicazione deve supportare le vendite e non viceversa. Se analizziamo attentamente il mercato degli spirits, dei drinks, dei cocktail e della birra, questi stanno rubando inevitabilmente spazio al vino e dobbiamo attrezzarci per riportare l’attenzione verso questo segmento. Come dovrebbero muoversi le aziende produttrici sul mercato? Le aziende devono essere più presenti: Parker, Wine Spectator, da voi il Gambero Rosso, tutto è fondamentale, ma per vendere il vino è necessario che le aziende si muovano: se non ti fai vedere, non vendi. Il prosecco sta ottenendo un grande successo a livello planetario? Tutti inizieranno probabilmente a scimmiot-
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tarlo e se l’Italia non sarà in grado di proteggerlo, probabilmente sarà prodotto da un’altra nazione. Le nuove logiche di comunicazione e il marketing sono e saranno molto importanti per il futuro del vino. Cosa ne pensi dei social-media? I social-media stanno aiutando molto la comunicazione del vino e l’industria, questo mi piace molto. Sono molto importanti ma in fondo sono un gioco, funzionano fino ad un certo punto. A proposito di comunicazione, sei il personaggio più mediatico che conosca nel mondo del vino. Sei stato protagonista di ben due film: “El Camino del Vino” e “The Duel of Wine” che è stato presentato fuori concorso alla mostra del Cinema di Venezia. Inoltre sei il protagonista di un Wine Tv Show in Canada, entro fine anno parteciperai ad altri due show dedicati al vino su Latin America Food and Wine Networks. Mi diverte moltissimo recitare. Dicono che ho la faccia giusta: non credevo di poter essere un buon attore invece me la cavo bene. Il primo film è stato girato nel 2011, El Camino del Vino. Racconta una storia bizzarra, dove io perdo il palato e intraprendo un viaggio alla ricerca delle mie origini. Il secondo film s’intitola The Duel of Wine ed è il seguito. È un duello all’ultimo bicchiere, dove io di nascosto - considerando che tutti pensano che abbia perso veramente il palato - attraverso un auricolare suggerisco a un amico le degustazioni fino a fargli ottenere un grande successo. Alla fine, mascherato, decido di riconquistare il mio posto tra i grandi esperti di vino proprio in una sfida all’ultimo bicchiere con il vostro Luca Gardini, grandissimo palato. Charlie un’ultima domanda: dai punteggi sui vini? Io non do mai punteggi. Nessuno score. Per insegnare va giustificato il punteggio, serve il commento.
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LE METE DEL GUSTO
CHAMPAGNE DI STILE E LANCIO
BOLLINGER RD 2004 di
Marco Tonelli
Nel vino c’è chi beve solo rosso o solo bianco. Se tuttavia solo i colori della squadra del cuore non si possono cambiare, capita allora che la preferenza del bicchiere possa farlo. La molla del cambiamento? La bolla, magari targata champagne. E’ moderna nel gusto perché ha beva e se guardi a fattori come il blasone, ti accorgi che diverse maison vantano nobili quanto antichi natali. Il tempo, un valore assoluto per lo champagne. Sia quello speso dentro alle cantine sia quello fuori, in vigna, con un clima che si fa sempre più hot. Allora la Hit Parade dello champagne cambia, facendo sì che i dosaggi si abbassino all’innalzarsi delle temperature e dei valori dello zucchero presenti negli acini. Da qui il nuovo trend del brut nature e dell’extra brut, preceduto, solo qualche anno fa, da altre tendenze come il rilancio del rosé o l’affermazione dei Blanc de Blancs, specie se accoppiati a bottiglie trasparenti che ne valorizzassero il colore. A questo si aggiunge oggi l’attenzione verso la vigna. Robe da pazzi - fino a pochi anni fa - per un vino che nasce nel chiuso delle cantine, rinnovarsi anche all’aperto.
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Ma il vino –pensa un po’- si fa con l’uva. Quindi via alla definizione qualitativa dei vigneti, anche all’interno della già codificata partizione in Grand Cru e Premier Cru. Non basta? Allora si prosegue con quelle aperture al bio e sue declinazioni, anni fa timide ma reali convinzioni di qualche piccolo produttore, oggi quasi necessità e per questo abbracciate anche dalle grandi maison. Per tutto questo e tanto altro ancora si può dire che l’immagine dello champagne sia sempre in movimento, un po’ perché il moto –basta guardare al bicchiere- ce l’ha nel Dna, un po’ perché è un vino che vuole rimanere sempre di grande attualità. Quella di oggi tuttavia non trova tutti d’accordo.
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Penso a quelli che di champagne ne hanno bevuti e si ricordano come la definizione del sorso non fosse –come oggi- così omologata. Un gusto in cui prima ancora dei descrittori trovava posto uno stile aziendale che andava oltre, persino nelle cuvée de prestige, l’annata o l’uvaggio. Per questo, in passato, si poteva parlare realmente per certe maison, ad esempio, di taglio vinoso e potenza. Chi non ricorda le non proprio tiepide proteste egli ultras di Krug, quando la maison decise di cambiare la sua Grande Cuvée? Polemiche non tanto indirizzate al cambio d’abito (etichetta), quanto a un più che soltanto supposto cambio del contenuto. Triste, in ogni epoca, perdere lo stile a favore di una semplice moda. Alcuni duri e puri esistono ancora, persino in Champagne. Penso a maison i cui successi hanno o hanno avuto nomi e cognomi, più che numeri o segni più nei bilanci. Penso ad Anselme Selosse che oggi lascia in dote al figlio Guillaume, già bravo pure lui, una serie di etichette che hanno un modo unico di stare nel bicchiere, perché parlano con il trascorrere nel tempo in maniera unica: da bianco con le bolle più che da vino bollato come andato, perché ossidato. A questo si aggiunge un’ulteriore schiera di figliocci che, rispetto al numero, hanno però qualità e continuità solo in un paio di produttori. Altri nomi di questo mondo di stile sono: Jacquesson, alleggerito ma sempre di spessore, Dom Pérignon (stupefacente la replica fedele
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BOLLINGER CHAMPAGNE EXTRA BRUT RD 2004 La composizione delle uve è la stessa della Grande Année, ma con grande impiego, oltre 80%, di vigneti classificati Grand Cru. Dosaggio rasoterra, ma a seguito di una scelta presa, decenni fa, prima di qualsiasi moda. Profumi complessi in questa fase ancora sbilanciati su fiori e frutta, in virtù del poco tempo speso in bottiglia. In bocca la gioventù si sente, non è squilibrio ma piuttosto una verve e un vigore giovanile, in cui tutto cerca di emergere su tutto il resto. Al palato di chi scrive agrumi e sale, sottobosco, zenzero, tocchi selvatici di erbe aromatiche. Finale lunghissimo. Se oggi l’RD 2004 si mescola - forse - ad altre cuvée d’alta gamma in fatto di personalità gustativa, con un riposo in bottiglia - parlo di anni - la qualità e il timbro di questa etichetta verranno fuori alla grande, forse in maniera addirittura più evidente della tanto celebrata 2002. In fondo se per questo vino il tempo ha una valenza assoluta in fase produttiva, non smetterà certo di averlo anche una volta messo in bottiglia.
di uno stile specie rispetto al numero elevato di bottiglie prodotte, Salon citrino e semplicino da giovane ma eccellente dopo molta bottiglia), Pol Roger solido così come Bollinger. Il carattere in molti di questi esempi arriva dalle persone, uomini e donne in grado di anteporre le convinzioni alle convenzioni. Penso a chi sceglie ancora il legno per i propri vini nonostante l’acciaio vada di moda o a chi faccia il remouage ancora a mano, nonostante la meccanizzazione anche qui sia il futuro. Il grande vino però non si fa mai con le scorciatoie, ma tirando dritto per la propria strada: unica o univoca che sia. Si passa di lì se vuoi il carattere. Quello di Churchill che in qualche modo ritrovi nel Pol Roger a lui dedicato e quello coraggioso e un po’ incosciente di Lily Bollinger nell’RD della maison di Ay. Proprio la maison distribuita in Italia da Meregalli ha presentato in anteprima worldwide la nuova annata del Bollinger RD Extra Brut 2004. La scelta della presentazione italiana va anche al fatto che il nostro Paese, in forte controtendenza rispetto ad altri mercati, si dedichi parecchio ai prodotti top delle diverse maison. L’RD, sigla che significa recentemente degorgiato, è una bolla con un suo stile, uno ovviamente in cui gli uomini giocano ancora un ruolo essenziale. Per questa etichetta la maison impiega un numero sempre maggiore di uve di proprietà, quindi più persone che monitorano le vigne, un remouage e una sboccatura esclusivamente realizzate a mano. Il fattore umano o se preferite l’artigianalità in qualche maniera si sente, e non si tratta di suggestione. Si tratta piuttosto di un gusto che sa, sopra ed oltre qualsiasi descrittore, di lavoro duro, rigoroso, se serve anche rigido, che curva schiene, ma lascia la testa alta, sempre.
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A BOLOGNA
WHISKY PARADISE È UNA COLLEZIONE DI MALTI RARI E VINTAGE UNICA AL MONDO di
Marco Tonelli Stefano Triulzi
foto di
Sulla strada del whisky, sempre più spesso lastricata di special release, edizioni limitate d’imbottigliatori e last cask di distillerie ormai chiuse, il rischio di smarrire la direzione è molto alto. In questo panorama la dannazione della scelta di una bottiglia può addirittura assumere i connotati della medesima etichetta, imbottigliata nello stesso anno ma con due gradazioni che differiscono per alcuni decimali, in grado di dar vita rispettivamente a due distillati completamente diversi per qualità e complessità aromatica. Si sa che per ogni inferno ci deve essere sempre un paradiso. Quello del whisky ha sede a Bologna, città, almeno nell’immaginario collettivo - vissuta come una tra le più terrene in quanto gaudente soprattutto in fatto di sorsi e morsi: il capoluogo felsineo è la sede di Whisky Paradise di Giuseppe Begnoni. Accumulatore, collezionista, ‘antiquario’, ma soprattutto affetto dal morbo della passione per il malto di qualità, inizia (era il 1969) a muovere i primi passi in questo universo collezionando mignon, formato ancora presente soltanto nei frigobar degli alberghi e che un tempo costituiva una sorta di advertising liquido che sostituiva i moderni mezzi di comunicazione. Il passaggio alla taglia superiore per Begnoni fu rapido, giusto in tempo per abbandonare il collezionismo legato alle ceramiche di whisky e alle caraffe pubblicitarie. Il commercio di malti rari e vintage cominciò invece nel 1994 con l’acquisto di ben 5500 bottiglie dal Sestante import, salvo integrarle, due anni dopo, con la prestigiosa collezione di Giaccone (insignita del primato di collezione privata più vasta al mondo dal libro del Guinness dei primati nel 1997).
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“Possiamo dire che Edoardo Giaccone è stato colui che ha portato il whisky di qualità in Italia, grazie alla sua whiskyteca e grazie ai suoi imbottigliamenti esclusivi”. L’identikit ce lo fa Giuseppe, che completa il quadro spiegandoci come Giaccone e Samaroli furono i responsabili benemeriti dell’arrivo dei whisky full proof in Italia. Gli scozzesi imbottigliavano dai 40° ai 43° per ragioni di quantità –un grado inferiore presuppone una maggiore diluizione del contenuto del barile- e per motivazioni inerenti alla tassazione. A onor del vero non furono tuttavia i single malt i primi ‘scozzesi’ ad arrivare nel nostro paese. “I blended (whisky prodotti a partire da miscele di cereali) giunsero in Italia negli anni ’40, tuttavia ciò che li rendeva eccezionali era il fatto di essere composti dal 60-65% di malto, mentre oggi raramente si supera il 12%”, ci racconta Begnoni, che, da vero appassionato ancor prima
che commerciante, ci spiega perché abbia deciso di dedicarsi ai whisky vintage. Il passaggio epocale nel mondo dei single malt, forse senza speranza di restaurazione, è quello a cavallo della metà degli anni ’70. “Per il whisky delle isole quelli furono i tempi della cosiddetta rivoluzione industriale” ci racconta Begnoni. Fino a metà degli anni ‘70 le distillerie erano animate dalla vita di chi ci abitava, lavorava e, per certi versi, ci cresceva. Una sorta di simbiosi in grado di instaurare quell’orgoglio di appartenenza che implicitamente si riversava nella qualità degli stessi prodotti della distilleria. La provenienza non più autoctona della materia prima, il maltaggio effettuato da poche realtà (Port Ellen dal ’75 in poi ‘maltava’ per moltissimi altri marchi) sono fattori che hanno limitato le attività dei diversi marchi alla distillazione e all’affinamento. Troppo poco, secondo Begnoni, per mantenere una qualità costante nel tempo. “Tutto quello che è stato imbottigliato fino all’86/’87 era molto buono, per il resto bisogna affidarsi ai single casks, per altro facendo molta attenzione”. Tutto è perduto? Non proprio, visto che il ‘San Pietro del Paradiso degli spiriti’ (nel tem-
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po Begnoni ha allargato i propri interessi anche a Rum, Cognac e altri liquori) ci segnala tra i blended il Dewar’s Signature o il Cutty Shark 25 anni, mentre tra i single malt ci rinnova l’attenzione verso i single casks. La passione che ancora lo anima e lo ha sempre guidato tanto nella messa a punto della propria collezione - che ha sempre la precedenza in merito a nuove acquisizioni - quanto in quella del proprio catalogo, oggi composto da 40000 bottiglie, si basa su fattori assolutamente empirici. Istinto, ma soprattutto una straordinaria memoria storica e fotografica, sono ancora gli unici fattori utilizzati da Giuseppe Begnoni nel valutare le eventuali nuove acquisizioni. “Decido di acquistare solo dopo aver fatto mente locale di quanti esemplari ho visto” - prosegue spiegandoci alcuni parametri più oggettivi: “ma è fondamentale il grado di conservazione dell’etichetta oppure il livello del liquido che non deve mai essere al di sotto del collo della bottiglia”. Negli anni ha incontrato bottiglie di ogni tipo, comprese quelle che ha rivenduto alle stesse distillerie che ne erano sprovviste! Quali? Non si può ‘peccare’ proprio in paradiso, per questo le lasciamo alla memoria di Giuseppe, non prima di avergli chiesto come siano cambiati alcuni brand nel corso degli anni. “Tutti i Macallan dal ’46 al ’68 non avevano grosse sensazioni di alcol percepito, erano più speziati e anche leggermente torbati, visto che fino agli anni ’50 si usava vera torba per alimentare le caldaie” e prosegue con Glenfarclas. “I whisky prodotti da questa distilleria erano molto riconoscibili, grazie ad un gusto evidente di sherry e spezie. La grande sfortuna di Glenfarclas è stata semmai quella di essere troppo vicina a Macallan...”.
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Assaggiando alcuni esemplari dei prodotti selezionati da Whisky Paradise, è immediata la sensazione di finezza che esprimono tutti i malti vintage, anche quelli che non possono vantare invecchiamenti da record. Infine, senza assaggiare veri e propri pezzi di paradiso come il mitico Glenfiddich 1937 (64 anni d’invecchiamento e stimato oltre 70000$), ciò che colpisce è l’equilibrio dei whisky di Begnoni, mai intaccati da zuccherosità del caramello, oggi largamente impiegato per modificare il colore del distillato facendolo sembrare molto più invecchiato, oppure da quel pronunciato aroma di vaniglia, sempre più diffuso nei malti di oggi, per una grossolana tostatura dei legni utilizzati per le botti. Se per Proust i veri paradisi sono quelli perduti, per Begnoni sono quelli ritrovati in giro per l’Europa e non solo. Escludendo tutto il campionario di whisky provenienti da tutto il mondo -straordinaria la collezione di Bourbon camuffati da medicinali per aggirare il proibizionismo - vanno citati tra i Cognac il Latour & C 1896 e l’Hine 1904, mentre tra i rum i Bally del ’29 e del ’32, i rum pre-Castro e l’introvabile Saint James 1885. Incredibile infine il numero di liquori pre-anni ’80 che Begnoni ci confida essere i preferiti
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dei bartender giapponesi per la preparazione di cocktails. Un mercato, quello del far east, tanto competente e altrettanto ‘spirituale’, sino a diventare il cliente più affezionato dei distillati di Whisky Paradise. In fondo il paradiso può attendere... anche dentro ad una bottiglia.
WHISKY PARADISE Via Agucchi, 84/5 - Bologna www.whiskyparadise.com
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