Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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ANNO XXXIV Ottobre 2018 - N. 331 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI
VINI
E VENDEMMIE
• Valpolicella e dintorni • La battaglia del Terrano • Luci e ombre del Sangiovese di Romagna • Le nuove realtà toscane • Le regioni dello Champagne
LA MADIA EDITORE
SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 331 VINARIA
di
Gianfranco Bolognesi
pag. 82
VINARIA
di
Mario Federzoni
pag. 92
SANGIOVESE DI ROMAGNA
LE REGIONI DELLO CHAMPAGNE
Luci e ombre di un grande vino.
L’eccezionalità di un territorio unico al mondo.
La scelta vegana
Intervista a...
Quando l’etica vegana si fonde con la religione
Giacinto Fanelli
di Silvia Bianco................................................................. pag. 8
di Lucy Gordan................................................................. pag. 46
Il menu engineering
GourmetFood
Il margine migliore è nel valore percepito
Local a Venezia
di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 14
di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 52
Chissenefood
GourmetFood
Alta cucina “per tutti chi?”
Il design gastronomico di Davide Cassi
di Cristano Giliberti........................................................... pag. 16
di Carla Latini................................................................... pag. 58
Golavagando Oraviaggiando
Gastón Acurio
Farina, pizzeria con cucina a Pesaro
di Flavia Tomaello............................................................ pag. 62
di Alessia Pellegrini.......................................................... pag. 20
Intervista a...
Prodotti Eccellenti
Kenny Dunn
S.T.E. Live Seafood.......................................................... pag. 24
di Lucy Gordan................................................................. pag. 68
Golavagando Montresor
Vinaria
Ristorante Oasi a Follonica
Il focus di Alessandro Rossi
di Claudio Mollo............................................................... pag. 28
L’algoritmo, il palato e l’inutile convizione
A Verona ristoranti diversi ma qualità costante
della non soggettività del vino
di Daniele Briani............................................................... pag. 30
di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 72
Tramvia a Bologna
Valpolicella e dintorni
di Daniele Briani............................................................... pag. 32
di Gianluca Ricci............................................................... pag. 74
Chef di Spirito
La battaglia del Terrano
Luigi Nardella
di Gianluca Ricci............................................................... pag. 78
di Sonia Leo..................................................................... pag. 34
Metinella
GourmetFood
di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 86
Vincenzo Vottero a Bologna
Azienda Agricola Marcampo
di Lisa Foletti.................................................................... pag. 38
di Teresa Cremona.......................................................... pag. 90 Assaggio di Libri................................................................ pag. 96
EDITORIALE di
Elsa Mazzolini
SI FA PRESTO A DIRE GOURMET... Cari ristoratori,
sgusciare le vongole per poterle mangiare dav-
stavolta tocca a voi.
vero con gli spaghetti?
Siete stati d’accordo con me (e vi ringrazio) circa
5) L’eccesso di confidenza. Con la scusa che
le pecche riscontrabili nel variegato mondo della
conoscono il cliente, alcuni ristoratori non gli
food communication, ma questo non vi rende
portano il menu, ma gli elencano qualche piatto
immuni dalla disamina di analoghe problematiche
del giorno. Anche se i consigli verbali sono utili,
riguardanti il vostro settore.
il menu va comunque sempre portato.
Riporto qui di seguito, in ordine sparso, alcune
6) I vini rossi a temperatura ambiente. Quale
mie idiosincrasie, spesso condivise con amici e
ambiente? Del ristorante, della cantina, del
colleghi:
magazzino? Perché tanti non rispettano le giu-
1) Nei ristoranti gourmet mi urta l’assenza del
ste temperature? Allo stesso modo depreco
tovagliato, spesso totale: né tovaglietta, né run-
l’assenza della glasset per i bianchi, che diven-
ner, né peggio ancora, appoggiaposate. E non mi
tano caldi in pochi minuti. Mali ormai datati ma
venite a dire che questa è una scelta estetica mi-
purtroppo sempre attuali.
nimalista. Si tratta, in realtà, di taglio delle spese
7) L’assenza del cucchiaio da salsa. Costa poco
di lavanderia!
comprarne almeno una dozzina per aiutare a
A me disturba assai, sia a casa mia che, a mag-
raccogliere meglio le salse nei secondi piatti.
gior ragione, al ristorante, mangiare sulla nuda
O ci obbligate alla scarpetta?
tavola, specie dove pago il costo del coperto,
8) Basta, basta, basta con la scusa dello shab-
che, dunque, “coperto” non è.
by chic per propinarci quel coacervo di sedie
2) Nei ristoranti con pretese gourmet non mi pia-
e tavoli tutti diversi tra loro e quella pioggia di
ce l’informalità dell’abbigliamento: il cliente deve
gabbiette scrostate, di angioletti, cuoricini e
poter riconoscere al volo chi è preposto al servi-
candelette sparse ovunque.
zio, senza dover pensare, poi, che fuori e dentro
Questa moda del finto povero o finto trasanda-
il locale viene usata la stessa camicia, lo stesso
to poteva andare bene fino a qualche anno fa,
pantalone. Mi sa di poco pulito.
ma quello che ieri poteva passare per voluta-
3) Se telefono prenotando per due e mi si infor-
mente usurato, appare oggi per quello che in
ma che per due c’è obbligo di mangiare lo stes-
realtà è: finto e trasandato.
so cibo, addirittura preannunciando la scelta da
Giustifico con ovvia bonomia altri mille peccati
web, mi infurio: non torno certo in collegio alla
veniali che posso riscontrare nell’espletamento
mia età e, quando esco, chiedo il servizio che mi
del servizio, relativi magari all’età o all’espe-
piace, non quello che piace al cuoco.
rienza di chi sta in sala, oppure a qualche libertà
4) I gusci delle vongole nel piatto! No, proprio
ormai diffusa, fuori dal galateo, allo scopo di
non ce la faccio. Sarà abitudine diffusa, ma a
snellire questa attività, ma non tollero nulla che
parte la regola che nei primi piatti tutto dovrebbe
possa configurarsi come mancanza di attenzio-
essere commestibile, perché dovrei mettermi a
ne, di educazione o di semplice cortesia.
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LA SCELTA VEGANA
a cura di
Silvia Bianco testimonial di cucina vegana foto di
VGiannella
QUANDO L’ETICA VEGANA SI FONDE CON LA RELIGIONE COME CELEBRANO LE FESTE ISLAMICHE I VEGANI DI RELIGIONE MUSULMANA
Eid Al Adha (letteralmente Festa del Sacrificio) è una festività islamica che viene celebrata ogni anno ed il cui simbolo è il sacrificio di un agnello a Dio, per commemorare quella che fu la volontà di Ibrahim di sacrificare il proprio figlio Ismael. Una delle prove più importanti e dure della vita di Ibrahim, fu proprio quella di sottomettersi totalmente al comando di Dio, il quale gli chiese di sacrificare ciò che di più caro avesse, ovvero il figlio Ismael. Nel momento in cui Ibrahim cercò di tagliare la gola a suo figlio sul monte Arafat, Dio intervenne lasciando illeso Ismael ed il sacrificio avvenne su una pecora. Ibrahim aveva superato la prova, aveva dimostrato con il suo atto che il suo amore per Dio era unico al punto tale da sacrificare la vita di coloro che gli erano più cari e mostrò così la sua totale obbedienza al comando di Dio. In commemorazione di ciò e per dimostrare il rispetto e la sudditanza a Dio, durante la ricorrenza dell’Eid Al Adha, in ogni famiglia islamica un agnello viene sacrificato proprio come Ibrahim stava per fare con suo figlio, ossia sgozzandolo. Una parte dell’agnello viene consumato in condivisione dalla famiglia stessa ed una parte viene consegnata ai più poveri. Non tutti i musulmani seguono questa tradizione, e a maggior ragione coloro che sono vegan si astengono da questo tipo di celebrazione. Come viene quindi vissuta dai musulmani vegani questa festività che è molto sentita dal mondo islamico al pari del Natale e della Pasqua per i Cristiani?
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LA STORIA DI NADA Nada E. Khalid è una dolcissima e giovane ragazza di 27 anni, i cui genitori, originari di Alessandria D’Egitto, si trasferirono in Bahrain, dove Nada è nata e cresciuta. Attualmente vive e lavora ad Abu Dhabi, dove gestisce anche il suo blog One Arab Vegan. Già all’età di 12 anni Nada nutre una forte avversione per la carne e smette di cibarsene, sebbene continui a mangiare pesce. Gli anni universitari trascorsi tra Nottingham e Londra furono quelli più importanti per lei, poiché le permisero di avvicinarsi all’alimentazione plant-based dopo anni di Junk food senza controllo, anni in cui sviluppò intolleranze ai latticini e il conseguente perenne appesantimento. Fu così che pian piano iniziò a volersi bene, iniziò a mangiare più sano, ad avere un’alimentazione prettamente vegetariana e, all’età di 20 anni, a diventare vegana a tutti gli effetti, ritenendola l’unica via per salvaguardare la sua salute e più in generale quella di tutti, degli animali e del Pianeta. Il suo blog One Arab Vegan è nato proprio per raccontare le disavventure agli esordi del nuovo stile di vita vegan di una giovanissima ragazza egiziana che viveva lontana dalla sua famiglia e che al contempo era nostalgica dei gusti della cucina tradizionale della sua mamma, ma desiderosa di creare ricette innovative, gustose e salutari. Ora il blog si è evoluto e gli argomenti variano dalle ricette della tradizione
LASCELTAVEGANA
araba rivisitate in chiave vegetale e sana (sebbene molte ricette mediorientali siano vegetali già in origine) ad argomenti più vari, sempre interpretati in chiave vegan come la salute, il fitness, il lifestyle, la bellezza, l’etica, cultura, viaggi, etc… Crescendo in una famiglia musulmana, in occasione delle celebrazioni dell’Eid Al Adha, Nada era abituata a trovarsi di fronte al macellaio che benediceva una pecora poco prima di tagliarle la gola: per lei era una consuetudine a cui non faceva molto caso. Assistendo a questa tradizione ogni anno sin dalla tenera età e vivendo in una famiglia che tipicamente mangiava molta carne, Nada asserisce che “non era in grado di determinare che gli animali macellati per diventare il suo cibo, erano altrettanto degni e meritevoli di tutta la compassione e l’amore che lei nutriva per i suoi gatti, cani, conigli e tartarughe.” E’ un po’ come accade per tutti i bambini del mondo, non fanno il collegamento tra i pacchetti sigillati di costate di manzo sugli scaffali del supermercati e le immagini delle mucche e i tori che vedono nei libri, in televisione o nei campi. Nada è oggi una ragazza adulta che, grazie alla sua dolcezza, è riuscita a far accettare la sua scelta di vita alla sua famiglia che, a parte qualche piccola battuta scherzosa di tanto in tanto, si è rivelata molto rispettosa. Non le fanno pressioni affinché lei assaggi piatti di origine animale, cosa che invece accadeva inizialmente ed inoltre fanno in modo che nessun piatto a base di carne sia posizionato vicino a lei, sul suo lato del tavolo. Per di più Nada
cucina e porta i suoi piatti vegan a tutte le feste di famiglia, preparandone sempre in abbondanza in modo tale da condividerlo con tutta la famiglia che spesso rimane estasiata dalla bontà dei suoi piatti. La dolcezza di questa ragazza sta anche nella sua scelta di celebrare l’Eid con uno spirito di compassione ed amore per il prossimo, preparando piatti vegani e consegnandoli a chi è più bisognoso; in questo modo anche i meno fortunati possono trascorrere un sereno Eid senza che nessun animale venga sacrificato.
LA STORIA DI SLAVA Slava Noor - blogger e fotografa, con la passione per il diving, originaria di Almaty, in Kazakistan ed attualmente residente a Dubai - dal 2011 si è convertita alla religione islamica. Slava è da poco diventata vegana ed è ancora nella fase di adattamento, ma le sue cene con il marito sono sempre un tripudio di colori e sapori con delle grandi insalate di cereali, legumi e grigliate di verdure e frutta. Durante le festività dell’Eid, Slava ritorna in famiglia ad Almaty; adora trascorrere il tempo con i suoi cari, sebbene talvolta si trovi ad affrontare qualche resistenza da parte di alcuni famigliari ed amici, che si mettono sulla difensiva quasi a discolpa delle loro “non-scelte” di vita. Slava è una ragazza saggia che comprende benissimo questi meccanismi e sa anche che non ha
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LA SCELTA VEGANA
senso andare allo scontro, cercando sempre di trovare un punto di incontro che non vada a ledere le sue scelte e che queste non vengano vissute dai familiari come delle imposizioni. Tant’è che con sua madre parlano delle ricette vegane preferite ed insieme programmano il menu del giorno preventivamente, scegliendo di offrire dei piatti vegani che tutti i commensali possano apprezzare e condividere. Raggiungono sempre un compromesso e ciò le fa ben sperare circa la possibilità che la sua famiglia passi lentamente ad una dieta più plant based. Slava è la dimostrazione che essere vegan va oltre ogni credo religioso o politico che sia. A coloro che la criticano in quanto vegana musulmana, lei risponde con fierezza che uno dei concetti più importanti dell’Islam è la compassione e che quindi non si è obbligati a macellare una pecora per stare con la famiglia e aiutare i bisognosi; esistono molti altri ammirevoli modi per celebrare questo giorno e non devono avere niente a che fare con la crudeltà sugli animali. Per la commemorazione della volontà del sacrificio, in alternativa alle tradizionali e cruente celebrazioni, Slava e suo marito scelgono di donare delle somme di denaro ai più bisognosi. Da due anni sostengono un progetto che offre pasti gratuiti a pensionati e disabili e quest’anno, per l’occasione, hanno donato un im-
porto che supera l’equivalente della spesa di 100 pasti. Coloro i quali hanno ricevuto queste somme di denaro hanno potuto scegliere come meglio spenderle, senza dover sacrificare nessun animale, ottenendo un contributo reale e necessario alle proprie esigenze. Esiste un dibattito molto acceso tra i musulmani ed i musulmani vegani sulla veridicità di quanto scritto sul Corano, poiché sembrerebbe che per il Corano Dio chiese ad Ibrahim di sacrificare il figlio durante una sua apparizione in sogno e non nella realtà e che fu il figlio di Ibrahim a credere che il sogno di suo padre fosse un vero ordine divino. Inoltre pare che ci siano dibattiti sul fatto che il comando di uccidere il figlio fu scritto nella Bibbia anziché nel Corano, così come fu nella Bibbia ad essere scritto esplicitamente che un agnello fu offerto da Dio al posto del figlio di Abramo. Insomma, a prescindere dalla veridicità di questi fatti ed alle interpretazioni, oggi abbiamo davvero bisogno di ammazzare miliardi di animali per commemorare episodi di testi sacri? Se leggiamo un qualsiasi testo religioso, osserveremo che non c’è istigazione alla violenza. Ma poi davvero si pensa che la sopravvivenza dei poveri dipenda da un pezzo di carne donato una volta l’anno a discapito invece di milioni di animali? Sia chiaro: lungi da me criticare la religione musulmana, cristiana o qualsiasi altra religione per cui nutro un profondo rispetto. Ciò che mi preme dire è che la carità pura proviene da ciò di cui più prezioso abbiamo per noi stessi oggi, in questo istante, e non di certo dagli animali da allevamento a cui oggigiorno non viene attribuito alcun valore vero. Sono considerati lo zero assoluto perché li si vede come qualcosa di totalmente distaccato da noi, mentre si considerano di estrema importanza il denaro, il successo, la tecnologia…Se si volesse seguire veramente l’esempio del Profeta, Cristiano o Musulmano che sia, dovremmo donare senza riserve ciò che amiamo profondamente e non ciò con cui non abbiamo alcun legame affettivo. Ne avranno beneficio i destinatari del nostro gesto e di riflesso anche noi.
Silvia e gli esperti rispondono...
Inviate le vostre domande a: lamadia@lamadia.com
Vorrei fare dei biscotti sani e gustosi per il buffet di compleanno di mio figlio, alla festa ci saranno anche bimbi vegani, posso usare il classico lievito in polvere? Sara - Vicenza Il lievito chimico può contenere degli stabilizzanti di origine animale derivanti da scarti di macellazione di bovini e suini e vengono identificati in etichetta con la sigla E470a. Suggeriamo di evitare questi prodotti, in quanto non è possibile sapere se la provenienza degli stabilizzanti sia di origine sintetica o naturale, a meno che non si contatti il produttore direttamente. In alternativa al lievito chimico consigliamo di utilizzare il cremor tartaro (o cremore di tartaro) che è un sale di potassio dell’acido tartartico estratto da uva o dal tamarindo. Ottimo sostituto anche per gli intolleranti ai lieviti, spesso viene utilizzato combinandolo con il bicarbonato di sodio per incrementare il potere lievitante che, in presenza di acqua, si innesca sviluppando anidride carbonica gassosa. L’azione lievitante del cremor tartaro è fantastica, conferisce una notevole morbidezza senza appesantire il prodotto. Nel caso di preparazioni dell’ultimo minuto, può sostituire il cremor tartaro, preparando un composto di bicarbonato ed aceto di mele aggiungendo mezzo cucchiaino di entrambi gli ingredienti all’impasto.
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LASCELTAVEGANA
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IL MENU ENGINEERING
a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop
IL MARGINE MIGLIORE È NEL VALORE PERCEPITO E NON NEL PREZZO D’ACQUISTO!
Di norma chi scrive consiglia ai propri clienti di acquistare il meglio – compatibilmente con i propri budget di spesa – disponibile dai propri fornitori, di non lesinare sulla qualità e non di farsi remora alcuna di spendere di più in fase d’acquisto. Altrettanto di norma la risposta che chi scrive riceve è simile a questa: “Ciò che dici è vero e sacrosanto. Ma se acquisto prodotti di qualità, poi devo alzare troppo i prezzi e rischio di indispettire i miei clienti. Non posso permettermelo!” Questa obiezione è perfettamente legittima e del tutto sensata. Ma se si lavora in maniera intelligente e ponderata, si può unire l’utile al dilettevole, acquistando prodotti di altissima qualità (delle vere eccellenze) senza intaccare il nostro margine, anzi, persino aumentandolo! Vediamo un esempio pratico. Recentemente, trovandomi a Carmagnola, decisi di fare un piccolo esperimento. Mi recai in un Cash&Carry lì vicino e acquistai dei peperoni, concentrandomi esclusivamente su un unico parametro: avrei acquistato solamente il prodotto dal prezzo più basso. Dopo una rapida ricerca, lo trovai: 0.95€/kg.
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Mi recai poi in una azienda agricola biologica, sotto consiglio di un caro amico. Cristina, la proprietaria, mi staccò i peperoni direttamente dalla pianta e me li porse, davanti ai miei occhi, ancora sporchi di terra: 1,90€/kg. Non erano dei normali peperoni, ma dei Peperoni “Corno di Bue” di Carmagnola, un’eccellenza agricola, contrassegnata dal Presidio Slow Food. Nonostante chi scrive non si possa ritenere un esperto, né di agricoltura né di cucina, già dall’odore percepiva la sostanziale differenza con i loro lontani cugini che intanto riposavano sul sedile dell’automobile, parcheggiata a pochi passi. A conti fatti il Peperone “Corno di Bue” di Carmagnola costò esattamente il doppio del Peperone acquistato al Cash&Carry. Ma cerchiamo di andare un poco più sul concreto: proviamo ad immaginare che quel peperone dovrà trasformarsi in un ingrediente per la farcitura di una pizza. Tenendo conto di utilizzare 100 grammi di peperone per farcire la nostra pizza, se decidessimo di utilizzare il peperone del Cash&Carry ci troveremmo con circa 9 centesimi di food cost,
mentre se decidessimo di utilizzare il Peperone “Corno di Bue” di Carmagnola spenderemmo 19 centesimi. Costo del Peperone del Cash&Carry sulla pizza: 9 centesimi di euro (ho arrotondato) Costo del Peperone “Corno di Bue” di Carmagnola sulla pizza: 19 centesimi di euro. Una differenza di 10 centesimi di euro a pizza. Magari è vero: su grandi numeri di vendita potrebbero impattare anche questi 10 centesimi di differenza. Ma non concentriamoci sul costo d’acquisto, concentriamoci sul valore percepito che riusciremmo a creare nella seconda delle casistiche. Chi scrive si domanda, infatti: quante clienti esistono, amanti della pizza con peperoni, che NON sarebbero ben contente di pagare un euro in più per una buona pizza farcita con un Peperone “Corno di Bue” di Carmagnola invece che quello scarto alimentare del Cash&carry annullando così la differenza di costo tra i due prodotti? Se ci trovassimo di fronte ad un menù e dovessimo scegliere tra queste due opzioni, quale sceglieremmo? Pizza con peperoni - 4,50€ Con pomodoro, mozzarella, peperoni Cornutella - 5,50€ Con salsa di pomodoro, mozzarella fior di letta e sua eccellenza il Peperone “Corno di Bue” di Carmagnola. Cosa acquisteremmo? Potremmo rispondere direttamente con i risultati delle centinaia di test effettuati in prima persona o tramite i nostri clienti: nel 90% dei casi tenderemmo ad acquistare la pizza “Cornutella”, lasciando i Peperoni del Cash&Carry a qualcun’altro. Questo perché nel primo caso ci troveremmo di fronte alla classica pizza con i peperoni, nulla di nuovo, nulla di entusiasmante, nulla degno di essere raccontato. Nel secondo caso ci troveremmo di fronte ad una vera e propria eccellenza, ad una pizza particolare, originale ed unica nel suo genere. E non potremmo fare a mano di assaggiarla. La morale che possiamo trarre da questa – e da decine di altre storie simili – è la seguente: NON dobbiamo ricercare i nostri margini nel PREZZO di acquisto ma, al contrario, nel VALORE PERCEPITO che possiamo offrire ai nostri clienti. Lo scopo non è solamente quello di aumentare il prezzo di vendita e quindi aumentare le nostre marginalità, ma è soprattutto quello di aumentare il valore e il gradimento dell’esperienza dei nostri ospiti. Solo così riusciremo a far combaciare il nostro interesse, che è quello di ondurre un’azienda sana, profittevole e etica, e quello della nostra clientela: vivere un’esperienza unica ed appagante.
a cura di
Furio Lottatori The Foodie Fighter thefoodiefighter.wordpress.com
ALTA CUCINA “PER TUTTI CHI ?” (INCUBO GASTRONOMICO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE) I fatti, più o meno, sono noti. Succede che un venerdì sera d’agosto, giusto prima del periodo delle meritate ferie, una nota giornalista d’inchiesta, a cena in un ristorante stellato della provincia di Bologna, non riesce a trattenere il disappunto per una prima portata valutata di quantità quantomeno scarsa (si scoprirà più tardi trattarsi di un amouse-bouche, il classico benvenuto offerto dalla cucina) e d’impulso posta - tramite l’account della propria rubrica ospitata nel portale di un grande quotidiano nazionale - una foto bruttarella del piatto incriminato, scattata col cellulare, corredata di commento tagliente riguardo le porzioni dei ristoranti di Alta Cucina.
sul significato e sul reale senso di quella che definiamo “Alta Cucina”. Perché se da un lato è vero che non è materia per tutti - come sostenuto a gran voce da parecchi dei commentatori - l’interrogativo che nasce spontaneo è su chi ne siano, allora, i veri e degni destinatari. Chi è davvero in grado di comprendere la Sacra Arte dei piatti, frutto di duro lavoro e sperimentazione, elegantemente composti in piatto a colpi di pinzette? Chi può permettersi di valutare la tal pietanza ? Dopo quanti punti e stelle sulla tesserina delle presenze si è davvero degni di esprimere la propria opinione?
La reazione del mondo del Food è immediata: le redazioni dei maggiori web-magazine vanno in fibrillazione e fanno a gara per arrivare prime sulla notizia, grande clamore sui social, dove quasi tutti concordano nella levata di scudi in favore della Chef, titolare insieme al fratello del malcapitato ristorante. Salvo qualche sparuta eccezione, che porta a sostegno della propria tesi la presupposta generale non accettazione delle critiche da parte dei grandi cuochi, nella maggior parte dei commenti prevale un pensiero su tutti: “L’Alta Cucina non è per tutti”.
Nell’ultimo decennio l’interesse verso la cucina parlata, fotografata e raccontata ha subito un incremento senza precedenti nella storia dell’informazione: di food parla chiunque e si parla ovunque, a qualsiasi livello. Tra un reality e una classifica, tra l’uscita di una nuova guida e chef-star immortalate sulle copertine dei rotocalchi, accolte agli eventi da frotte di telefonini branditi a braccio teso alla caccia del selfie da postare al volo sui social, su quella che fino a qualche tempo fa poteva considerarsi una nicchia esclusiva è comparso, nemmeno troppo inaspettato, lo spettro del mainstream.
Lungi dal Vostro qui Pregiato esprimersi a favore dell’una o dell’altra fazione, aldilà della sgradevolissima sensazione che mi ha accompagnato in quei giorni (in gran parte dovuta al coinvolgimento nella vicenda di una delle Chef tra le più amate e stimate d’Italia, nonché persona poco incline ai sensazionalismi e alla pubblica polemica), l’episodio suggerisce una riflessione
In un Paese in cui, alla consueta professione di Commissario Tecnico della Nazionale a tempo perso, abbiamo affiancato in successione quello di esperti di sci, vela, motociclismo e quant’altro, nella Bella Italia della Buona Tavola e delle Ricette della Nonna, è stato un attimo ritrovarsi gli uffici e i bar pieni di critici enogastronomici, capaci di giudicare la bontà di un vino o
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di un piatto semplicemente osservandone la foto sullo schermo di uno smartphone o di una tv. Se già per la maggior parte degli italiani il cibo non era mai stato semplicemente nutrirsi, ma una sorta di rito di convivialità da rinnovare giornalmente a pranzo e a cena, l’occasione per ritrovare a tavola le radici della propria cultura, l’esplosione mediatica del food ha fatto assurgere la cucina – e a maggior ragione l’Alta Cucina – al grado di vero e proprio status. Gioie e dolori della perdita dell’innocenza. L’arrivo di telecamere e riflettori ha di certo mandato alle stelle l’hype, ma allo stesso tempo ha aperto le porte a una clientela ben più variegata, sdoganando la presenza nei ristoranti di una nuova categoria di personaggi dal palato non sempre esattamente in grado di comprendere ciò che ha nel piatto e dal telefonino facile. Velocemente introdottasi a fianco della schiera di veri appassionati, quelli che ancora mostrano orgogliosi il proprio girovita testimone di anni e pecunia spesi per sedersi alle tavole più prestigiose, la presenza di questa nuova specie è motivata sostanzialmente da un unico fattore: quello di poterselo permettere. E’ inutile nascondersi dietro un dito: l’Alta Cucina costa e costa cara. In particolare in Italia le spese di gestione di un ristorante tra personale, balzelli imposti da un socio occulto che si intasca quasi la metà del fatturato, e la necessità di tenersi sempre aggiornati ha fatto lievitare i prezzi in maniera significativa, portando di fatto a una selezione della clientela e del target in cui la quota di coloro che considerano una cena stellata al pari della borsa griffata o della vacanza esotica da sbandierare in faccia ai followers su Instagram è cresciuta in maniera considerevole. Non è una presenza facile ma necessita di essere gestita, una sorta di male necessario, il prezzo da pagare per quella notorietà che a tanti dei protagonisti di questo folle mondo piace (e porta reddito) ma di cui altrettanti farebbero volentieri a meno. Come uscire da questa situazione ? Accettare passivamente la possibilità di finire sbeffeggiati su TripAdvisor dal primo fan della tagliatella ottima e abbondante della vecchia trattoria di una volta, oppure provare a fermarsi per un momento e domandarsi se la gloria mediatica valga davvero tutta questa pena ? Non è la prima volta che esprimo le mie perplessità verso un ambiente che negli anni ho vissuto come sempre più autoriferito e arrotolato su se stesso, un mondo dove Chef e critica, avvinghiati nell’abbraccio mortale della ricerca di risultati sempre più eclatanti sono finiti per dimenticare quelli che, per la vettura di Formula Uno che taluni ristoranti ambiscono a essere, in fin dei conti sono “i pneumatici”, e cioè il cliente. Lo chiedo a voi, amici ristoratori: non sarebbe il caso di voltarsi e fare un passo indietro?
GOLAVAGANDO
FARINA
PIZZERIA CON CUCINA A PESARO Alessia Pellegrini Giovanni Mastropasqua
di foto di
C’è una filosofia etica nel progetto Farina di Pesaro, una visione del mondo buono, giusto e lecito che parte dal destino del nome e si concretizza nel prodotto finito. Farina, del resto, è un ingrediente semplice dal valore simbolico, emotivo e profondo, fortemente connesso con il senso del vivere: la semina, l’impegno e l’attesa, ma soprattutto l’incontro, perché quando la farina si mescola con altri ingredienti diventa cibo di tutti. Mangiare diventa allora metafora di una presenza attenta e consapevole, una cura di sé e non una vuota abitudine ripetuta in modo consecutivo che non dà felicità. Nel “laboratorio gastronomico” Farina si utilizza lievito madre e cereali italiani, pomodori da agricoltura biologica, il fiordilatte e la mozzarella di bufala vengono da realtà locali, così come il 70% della materia prima. La pizza è buona, leggera e digeribile. In cucina i piatti vengono preparati con altrettanta cura, materia prima sana e genuina, pane prodotto con farina biologica, pasta fresca e dolci fatta in casa, uova biologiche, carni da allevamenti che rispettano abitudini e cicli vitali degli animali, verdura ed ortaggi di stagione, formaggi, salumi, birre e vini rigorosamente dalle colline intorno a Pesaro.
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COME NASCE “FARINA” Paolo Severi, titolare del locale, ha avuto un’idea semplice e, come tutte le idee semplici, le conseguenze sono rivoluzionarie. In un settore quale quello della ristorazione, che sempre più spettacolarizza e trasforma la tavola in un palco nel quale il cibo monologa con se stesso, qui mangiare torna ad essere un atto sociale nel rispetto dell’uomo che lo cura e di quello che lo prepara per servirlo ad altri, senza troppe sovrastrutture e con un servizio sobrio e attento. Ciò significa mettere l’accento sull’attenzione all’ingrediente valorizzandone le naturali caratteristiche e proprietà, significa fare ricerca sulla materia prima per offrire alla clientela un modello di cucina di qualità. Farina non è un abusato “Km 0” o ristorante “bio”, ma privilegio al territorio, attenzione ai presidi Slow Food, selezione di materia prima da agricoltura biologica ed una visione “local” ma con un pensiero “global”. Ripensare gli ingredienti primari significa non lasciare nulla al caso, significa mettere in equilibrio perfetto semplicità e cucina d’autore. Una rapida occhiata al menu e subito ci si accorge di essere di fronte ad un’offerta ben pensata, ampia ma non eccessiva, che non rischia mai di mandare in confusione l’ospite. Per la pizza si ha la possibilità di scegliere il proprio impasto preferito, tradizionale (che poi così “tradizionale” non è) o 100% farro; per la farcitura la mozzarella fiordilatte o la mozzarella di latte di bufala. Ci sono le pizze classiche e “del paese di Farina” e ci sono quelle che vengono servite a 6 spicchi con abbinamenti inediti ed originali, ma non chiamatele “gourmet”, perché da Farina, la pizza ha una realtà solida che fugge alle mode verbali. Dal menu della cucina primi piatti di paste fresche della tradizione, come i passatelli e gli strozzapreti; i secondi di carne, i secondi di pesce con il pescato fresco dell’Adriatico, i secondi né di carne e né di pesce per chi ha voglia d’altro. Una buona selezione di estratti e di bibite bio, birra alla spina e birre artigianali non pastorizzate, rigorosamente pesaresi e vini da aziende della provincia. Niente è lasciato al caso, lo abbiamo detto, anche quando si tratta di un caffè.
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GOLAVAGANDO
L’AMBIENTE Pensare in modo autentico significa sottrarre, anche quando si parla di stile. Farina è uno spazio vero, più da coperto che da copertina, utile e funzionale, non manca di nulla e nulla avanza, c’è quello di cui si ha bisogno per sentirsi ben accolti. Bianco e azzurro, l’azzurro del cielo e dell’acqua o l’azzurro del quinto chakra, quello che, tu pensa, ha a che fare con la sincerità, la comunicazione trasparente e pulita.
LA DEGUSTAZIONE La nostra degustazione si apre con la pizza: dal menù “Le classiche” scegliamo la 4 stagioni con pomodoro bio, fiordilatte, funghi freschi, olive taggiasche, carciofi romani col gambo e prosciutto cotto di alta qualità. Dal menu “La pizza che cambia” ci facciamo tentare dalla Margherita D.O.P. con pomodoro bio, mozzarella di latte di bufala delle Marche, basilico fresco, olio EVO d’eccellenza, origano selvatico con l’aggiunta di prosciutto crudo stagionato di Mercatello o dell’Az. Agr. Zavoli di Saludecio. Dalla cucina ci viene proposto un primo di strozzapreti fatti in casa al ragù bianco a cui segue petto di pollo bio con crema di sedano rapa e misticanza. Dalla carta dei dolci, zuppa inglese con amarene di Cantiano.
PERCHÉ FARVI VISITA Farina punta all’eccellenza senza cerimonie di autocompiacimento. Sai quello che mangi, sai chi e dove, e se ti piace lo puoi comprare perché tutto ciò che viene utilizzato è ben esposto negli scaffali a parete della sala e lo puoi portare a casa. Una cucina senza fraintendimenti, buona, sostenibile e da sostenere.
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FARINA
Via Leonardo Da Vinci, 33 - Pesaro - Tel. 0721 580451 www.pizzeriafarina.it
PRODOTTI ECCELLENTI
S.T.E. LIVE SEAFOOD COSA C’È DIETRO A QUESTO MARCHIO
Cosa c’è dietro un marchio? Molto spesso lo studio di grafici o di agenzie che cercano, non sempre riuscendoci, di caratterizzare un’azienda attraverso un segno, un logo, un’immagine, altre volte è solo il gusto personale del proprietario a condizionare le scelte. Nel caso del granchietto di S.T.E Live Seafood, la società che da poco tempo, insieme agli acquari vivaio, fornisce anche alla migliore ristorazione crostacei e molluschi esclusivamente vivi, a dettare la scel-
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ta è stato il cuore. Ed è bello, a volte, raccontare cosa si cela dietro a tutto questo, perché alcuni particolari rivelano il carattere, lo spirito, la passione di chi lavora in qualsiasi settore commerciale. Oggi questo si chiama storytelling e molte aziende lo adottano per cercare di dare un’anima alla propria attività. “Tutti mi dicono che le scelte vanno raccontate - spiega Valerio Sapucci - perché è vero che non vendiamo solo prodotti, ma prevalentemente le nostre stesse
STELIVESEAFOOD
emozioni ed allora il marchio, “lo stemma” di S.T.E. Live Seafood per me è proprio un’emozione, una grande emozione, perché è il risultato dell’impegno dei miei tre nipotini: Federica, Aurora e Tommaso. All’inizio, quando abbiamo deciso di dare vita a S.T.E. Live Seafood, abbiamo scelto nei disegni dei miei nipoti (consigliato dalle mie figlie) le immagini più idonee per comporre il marchio, così: il granchio centrale lo ha disegnato Federica, il delfino Aurora e tutti i pescetti di contorno Tommaso. Un lavoro di squadra, il lavoro del futuro di questa azienda. Fra tutte le scelte tecniche e professionali fatte in S.T.E. Live Seafood, lo stemma è quello che mi affascina di più. Pertanto a tutti coloro che mi hanno detto, mi dicono o mi diranno che lo stemma non è il più appropriato e che si sarebbe dovuto scegliere una grafica più rappre-
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PRODOTTI ECCELLENTI
sentativa, dico che l’importante è creare emozioni e questo, sicuramente, va oltre ogni più razionale considerazione”. Dunque, dietro a un marchio così fortemente sentito, c’è un lavoro altrettanto appassionato. Forte della solida esperienza nella costruzione di impianti di stoccaggio e depurazione per crostacei e molluschi, venduti in tutto il mondo, Valerio Sapucci (al centro nella foto in alto) ha deciso di utilizzarli per garantire un servizio di mantenimento dei crostacei secondo le esigenze quotidiane dei singoli ristoranti.
S.T.E. LIVE SEAFOOD
Via Guardia del Consiglio, 15
47899 Serravalle - RSM - Tel. 0549 901163 seafoodlivesrl@gmail.com
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I locali
on
Trésor
Scopriamo insieme quali sono i locali che racchiudono piccoli grandi tesori...
Ogni ristorante, locanda o trattoria, famosa o meno, può vantare il proprio “Mon Trésor”, un personalissimo tesoro fatto di attenzione per i dettagli, cura dei propri ospiti, professionalità in cucina e in sala. Noi abbiamo individuato alcuni di questi “Mon Trésor” e li segnaliamo nelle prossime pagine...
golavagando montresor di
Claudio Mollo
A FOLLONICA
RISTORANTE OASI PER UN INCONTRO RAVVICINATO CON IL MARE E LA SUA CUCINA
Adagiato su uno spicchio di costa Toscana, nella parte litoranea di Follonica che anticipa il golfo di Punta Ala, il ristorante Oasi rappresenta ormai da molti anni una sosta gastronomica irrinunciabile per gli amanti della Maremma. Un’elegante struttura, realizzata in legno e vetro, appoggiata sulla spiaggia a pochi metri dalla risacca, accoglie tutto l’anno un pubblico eterogeneo, cha va dai turisti nel periodo estivo ai tanti affezionati di Follonica e dintorni, ed anche a chi, transitando lungo la costa Toscana, è alla ricerca di un momento di relax in un buon ristorante. Con Mirko Martinelli, chef e proprietario dell’Oasi, la classica cucina marinara prende nuove forme e sapori, andando decisamente oltre l’impronta tradizionale e cavalcando l’innovazione in modo gentile e stuzzicante. L’impegno che Mirko mette nel suo lavoro è notevole, come anche quello per promuovere la terra di Maremma attraverso la valorizzazione dei tanti prodotti che offre il territorio e il coinvolgimento di risorse uma-
on
Trésor ne in attività promozionali, collaborando in modo fattivo con altri colleghi chef e operatori del settore dell’intera provincia. Con Mirko, a condividere questa bella avventura, c’è la moglie Valeria, che ha sempre supportato il lavoro del ristorante occupandosi della sala, dei vini e della prima accoglienza. Una coppia affiatata che sta portando avanti questo lavoro con grande passione e impegno crescente, appagata da una clientela di affezionati che torna spesso ad assaggiare la loro cucina. Il menu segue le stagioni e viene aggiornato con una certa frequenza. In carta il mare è il protagonista, ma anche gli amanti della carne non rimangono delusi e Mirko, ogni tanto, non disdegna di realizzare singolari pietanze con pesce, carne e crostacei, insieme, dimostrando fermezza e convinzione nel voler trasmettere messaggi di sapore personali ma sempre molto riconoscibili. La sala accoglie comodamente un buon numero di coperti, tra tonalità pastello, chiare e rilassanti. I tavoli rotondi impreziosiscono l’ambiente, arredato in stile sobrio-elegante. Il lato che dà sull’arenile, interamente a vetri, regala in estate bellissimi tramonti e in altri periodi dell’anno tutto il fascino del mare d’inverno. In abbinamento ai piatti di Mirko, un’ottima selezione di vini, da scegliere anche personalmente nell’enoteca climatizzata e a vista, presente all’interno del locale. Considerata la tipologia di cucina, nonostante le etichette, tra bianchi e rossi, siano tante e varie, in carta le bollicine hanno una grossa parte. Sempre di proprietà della famiglia il moderno stabilimento balneare adiacente al ristorante, frequentato da una clientela che negli anni si è sempre più fidelizzata e selezionata, apportando un grosso valore aggiunto all’intera struttura.
Il Mon Tresor è... IL SALTO DI QUALITÀ Sono due gli aspetti preponderanti che danno un valore unico a questo locale: l’aver cavalcato nel modo giusto il rinnovamento che diversi anni fa, per le tante “baracche” in riva al mare, divenne una vera e propria esigenza, per fare il salto di qualità e assomigliare sempre più a veri ristoranti, abbandonando lo stereotipo dei locali per merende. L’Oasi in questo senso ha spiccato il volo e, grazie all’intraprendenza della famiglia Martinelli, è divenuta in pochi anni uno fra i ristoranti più gettonati del litorale maremmano.
RISTORANTE OASI Viale Italia, 207
Zona Pratoranieri Follonica (GR)
Tel. e Fax 0566 260008
golavagando montresor di
Daniele Briani
A VERONA RISTORANTI DIVERSI MA QUALITÀ COSTANTE
Ricordo una sera a cena con il compianto Gualtiero Marchesi. Si parlava della cucina dei giorni nostri e di questi chef divi che lui non amava moltissimo, lui che per primo sdoganò la figura del cuoco del primo dopoguerra elevandola al rango di chef, senza rendersi conto che forse così facendo aveva dato il via alla nascita delle nuove star del piccolo schermo. Con lui quella sera si parlò della sfida del terzo millennio, una sfida che si sarebbe combattuta non più tra i fornelli di una cucina sempre più mediatica, ma in sala: quel servizio di sala che secondo il Maestro aveva bisogno di essere recuperato a nuova vita. E su questo must Luca Gambaretto (foto a lato), titolare del ristorante Maffei in Verona, ha costruito la sua filosofia imprenditoriale che l’ha portato in soli otto anni ad allargare il business dal Maffei ad altre tre realtà della ristorazione veronese. Sempre più convinto che ormai si mangia mediamente bene in moltissimi locali, ha capito che accoglienza e ospitalità erano il quid che poteva fare la differenza. “In una società che cerca l’immediata gratificazione su tutto, che brucia i like alla velocità del pensiero, è necessario avere uno staff che sappia far sentire il cliente a proprio agio da subito e in simbiosi con l’atmosfera del luogo che ha scelto per quel momento della sua vita”. Sono parole sagge, anche se arrivano dalla voce di un giovane che, dopo anni di gavetta dietro la ribalta, è uscito allo scoperto rinvigo-
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rendo la proposta del Maffei arricchendola di piatti che recuperano la classicità dell’ambiente in cui sono serviti, un ambiente che trasuda storia fin dalle museali fondamenta romane, per elevarsi alle verticalità seicentesche nel cuore della Verona shakespiriana. Un luogo raffinato, adatto a un pranzo di lavoro o a una cena romantica o conviviale, per chi ama uno spaghetto al gambero rosso e limone oppure un filetto di cervo con mele all’anice stellato adagiato su un letto di spinacino (foto sopra), preferendoli alle tradizionali pietanze veronesi. Se le ambientazioni classiche del Maffei possono essere troppo barocche e si preferisce qualcosa di più easy, un ambiente adatto a chi ama viaggiare e conosce quella ristorazione più pratica e senza i manierismi classici, Luca propone AMO (a sinistra). Si tratta di un bistrot che vive di scenografie più giovani, tipiche del bistrot senza tovaglia alla moda inglese, dove però le posate sono cambiate a ogni pietanza. Cibi rivolti a una clientela che vuole sperimentare, perché a fianco di uno spaghetto alle vongole con bottarga di Cabras servita su un letto di pane Carasau o un polipo alla piastra su rosti di patate al rosmarino, possiamo scegliere un Pad Thai di Vermicelli di riso con verdure miste, germogli di
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Il Mon Tresor è...
Trésor soia, frittata, nocciole, gamberi con curcuma e curry. AMO è l’acronimo di Arena Museo Opera, però ci piace pensare che invece evidenzi tutto l’amore che lo chef mette nelle sue creazioni, perché qui si parte dalla sola materia prima nuda, per arrivare al piatto finito attraverso un intreccio di sapori in un’esaltazione totale dell’home made, tipico di una cucina di altissimo livello. Basti pensare che la crostatina di frutta è realizzata al momento con il taglio della frutta fresca di guarnizione. Questo è il luogo ideale per giovani che vogliono un pranzo veloce, ma dalla cucina sopraffina, oppure desiderano passare una serata in compagnia, magari utilizzando il tavolo della convivialità, apparecchiato per sedici coperti, al quale si può accedere quasi fosse uno speed date gastronomico. Dato che gli opposti si attraggono e le contraddizioni imperano nella nostra società, Luca non poteva esimersi dall’aprire, uno a fianco dell’altro, due locali che più distanti per filosofia non potevano essere: Oblò e Saos. Per chi ama la carne e i burgers più ricchi e untuosamente sontuosi di Verona - e anche di Trento, visto che il secondo locale si trova nel centro del capoluogo trentino - Oblò offre una ricca scelta di tutto ciò che richiama una tradizione anglosassone
DO IT BETTER La grandissima passione per il mondo della ristorazione, inteso non solo come ricerca della qualità della materia prima ma anche come passione per la stessa, che porta a realizzare una serie di format così diversi tra loro nati per soddisfare una variegata tipologia di clientela, sempre nel rispetto dell’accoglienza e dell’ospitalità. Do it Better è lo slogan sotto il quale Luca Gambaretto raccoglie e realizza le sue idee imprenditoriali assieme al suo gruppo di lavoro. Diversificare la proposta per raccogliere le richieste del mercato può sembrare un’idea talmente semplice da considerarsi banale e forse lo è, ma la sua realizzazione ha bisogno di una mente brillante quanto volitiva e pragmatica. Luca è l’esempio di giovane imprenditore aperto a nuove sfide e capace di raggiungere la sua meta attraverso vari obiettivi.
di consumare la carne, partendo dai burgers classici per l’appunto (foto a destra), per passare alle BBQ Ribs oppure sentirsi oltremanica con una Full English Breakfast. La porta accanto parla invece una lingua assolutamente più salutista, fatta di centrifughe di frutta, smoothies, yogurt, e bowl come la chicken rice, la salmon salad (a sinistra) oppure l’avocado burger che farebbe raccapricciare il più convinto carnivoro della porta a fianco. Insomma una proposta sana per sentirsi sazi ma non appesantiti. Quattro tipologie di locali, una città e un solo imprenditore: a voi la scelta.
RISTORANTE MAFFEI
AMO BISTROT
Piazza Erbe, 38 - 37121 Verona
Vicoletto Due Mori, 5 - Verona
www.ristorantemaffei.it
www.amobistrot.it
Tel. +39 045 8010015
SAOS
Via G. Oberdan, 17 Verona
Tel. +39 045 801 6085 www.saos.it
Tel. +39 045 806 9146
OLBÒ
Corso Cavour, 5
Verona
Tel. 045 800 7347
www.oblocomfortfood.it
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golavagando montresor di
Daniele Briani
A BOLOGNA
TRAMVIA RINNOVA LA TRADIZIONE CON GENEROSA PASSIONE
Ci sono storie che a volte s’interrompono improvvisamente, per poi riprendere il loro scorrere naturale ripartendo laddove si era bloccato il loro fluire, come l’acqua di un fiume che, nonostante gli impedimenti, ritrova sempre la via a valle verso il mare. Per il Tramvia la storia inizia proprio affacciata sul fiume Reno, quando per l’appunto si chiamava Locanda del Reno e offriva ai viaggiatori che arrivavano da Bologna o da Firenze un momento di ristoro nell’attesa del cambio cavalli. Il borgo di Casalecchio rappresentava allora un luogo di villeggiatura o di riposo per quanti affrontavano il viaggio con la carrozza e venivano a visitare anche la famosa chiusa – oggi patrimonio dell’Unesco - che dal 1400 go-
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vernava le acque del fiume necessarie allo sviluppo industriale degli opifici e setifici bolognesi. Verso la fine dell’800 il progresso sostituisce i cavalli a quattro zampe con i cavalli vapore e s’inaugura il Tramway che da Bologna porta a Casalecchio, promuovendo la moda della gita fuori porta, incoraggiando il lavoro di osti e locandieri che sulla capacità ricettiva stavano creando la loro fortuna. E così, con una felice intuizione, il bisnonno dell’attuale proprietario archivia alla storia il nome Locanda del Reno e, in linea con l’arrembante progresso, lo cambia in Tramvia, continuando la felice esperienza di ristoratore e servendo il pesce del Reno appena pescato. La storia continua da una generazione all’altra, fino a interrompersi negli anni settanta del secolo scorso. Il locale rimane chiuso per qualche anno perché manca l’attore principale, colui
che possa interpretarne la vera anima di accoglienza riportando il Tramvia a punto di riferimento della comunità di Casalecchio. Così bisogna attendere il 2013 quando Antonio Gasperini (foto a sinistra) appende al chiodo, per così dire, la sua laurea in ingegneria gestionale e riprende quel filo interrotto negli anni settanta, rinnovando la tradizione di famiglia e riaprendo i battenti con una cucina che affonda le radici nella tradizione, evolvendosi verso il nuovo. Antonio recupera i locali della vecchia osteria lasciandoli intrisi delle atmosfere passate, capaci di emanare quel calore della vecchia e calda accoglienza dell’epoca delle carrozze, aggiungendo quel tocco di magistrale bonton, savoir faire e gusto della vita che solo un oste-operaio, come lui ama definirsi, può e sa dare. Antonio ha fatto della sua passione eno-gastronomica
on
Trésor la sua ragione professionale. Uno staff giovane ma competente e una costante propensione alla ricerca e al miglioramento caratterizzano la filosofia del menu che propone dalla classica tagliatella alla bolognese ai passatelli asciutti con ristretto di crostacei e carpaccio di capasanta, oppure i ravioli all’amatriciana di mare; ritornando poi alla tradizione con una cotoletta alla bolognese per spingersi verso un era un vitel tonné o un più asiatico tataki. Al fianco di piatti insostituibili, il menu si arricchisce anche di piatti stagionali che seguono l’offerta del mercato, anche per quanto riguarda il pescato giornaliero e soprattutto le crudità. Tre champagne aperti al calice sono la punta dell’iceberg di una carta vini copiosamente ricca, che spazia tra Italia, Francia, Inghilterra e Spagna ma sempre in continua evoluzione annoverando oggi circa duecento etichette,
Il Mon Tresor è... L’ATMOSFERA DELL’AMBIENTE Le atmosfere calde dell’accoglienza e dell’amicizia che Antonio ha saputo creare attraverso il riuso del locale con i suoi toni antichi, corredato da pezzi di arredo museali, dell’arte povera della civiltà contadina. Un filo logico che dall’arredo passa direttamente al menù, dove capisci che è la tradizione a comandare; una tradizione che riallacciandosi al passato ti parla di sapori netti e sinceri, di amicizia, di curiosità, di scambio.
di cui almeno un ventina sempre servite al calice. Sono circa ottantadue i posti a sedere interni divisi in due sale, più l’ampio giardino esterno affacciato sul fiume Reno, dove trovare refrigerio estivo dall’afa bolognese sorseggiando un buon calice. Una sala dedicata a eventi esclusivi racchiude un tavolo imperiale per venti commensali ed è solitamente declinata su momenti enogastronomici di particolare prestigio. Come in tutte le storie che affondano le radici nei secoli or sono, anche per il Tramvia pare ce ne sia una rintracciabile negli archivi storici del Resto del Carlino. Narra di un tesoro, un forziere pieno di monete d’oro ritrovato durante una delle tante ristrutturazioni. Un tesoro scomparso poco dopo il suo ritrovamento. Di quelle monete d’oro non si è saputo più nulla; ma il vero tesoro ritrovato, possiamo affermare sia proprio il Tramvia.
TRAMVIA Ristorante Albergo Residence Via Marconi 31
40033 Casalecchio di Reno (BO)
Tel. (+39) 051 575044
Mob. (+39) 388 1071347
www.tramvia.it - info@tramvia.it
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GOURMETFOOD
VINCENZO VOTTERO CAMBIARE SENZA TRASFORMARSI. MUTARE RESTANDO SE STESSI. MA SEMPRE A BOLOGNA. di
Lisa Foletti Niko Boi
foto di
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VINCENZOVOTTERO
È questa la cifra di Vincenzo Vottero, lo chef bolognese che, dopo 4 anni nei locali di via del Traghetto, la scorsa primavera ha scelto di proseguire la propria strada negli ampi spazi che furono del Caffè Biavati, in piazza di Porta Saragozza a Bologna, aprendo i battenti del suo “VIVO - Vincenzo Vottero Taste Lab” insieme a Ugo Nazzarro e Licia Mazzoni, sua compagna di vita. Il desiderio, ormai da tempo, era quello di trasferirsi in un luogo più idoneo e centrale, integrando il ristorante con un moderno american bar, secondo una tendenza già largamente diffusa in altre città ma ancora restia a prendere piede in terra emiliana, dove accade di scontrarsi con il tradizionalismo e la storica diffidenza dei bolognesi. [L’Antica Trattoria del Reno non è stata ceduta né abbandonata, ma ha assunto la nuova e inconsueta veste di “Italian Grill & BBQuality”, un format di cucina più classica con l’utilizzo di tecniche di barbecue e cotture alla griglia, affidato alle mani collaudate dello chef Enrico Bigi con la consulenza di Pietro Bonacorsi e Matteo Tarozzi, campioni italiani di barbecue.] Nella nuova sede Vottero ha trovato un ambiente decisamente più articolato e spazioso, in chiara assonanza con la sua personalità e con la sua idea di ristorazione. Il locale è luminoso, i grandi lampadari sfarzosi e ultramoderni lo ammantano di una veste magnificente, punteggiata di tocchi d’arte, tanto cari alla coppia Vottero/Mazzoni, come i divertenti ritratti dello staff appesi alle pareti o la scultura di Antonello Paladino adagiata in giardino. All’ingresso si staglia il bancone del bar, sormontato da una volta a botte di mattoni rossi e affiancato da un’area lounge destinata agli avventori che intendono soffermarsi per un drink. Proseguendo si approda in un’ampia sala dalle tonalità del bianco e dell’oro, per poi accedere alla vera gemma del locale, la corte interna. E’ raro e sorprendente trovare in centro città uno spazio esterno tanto ampio e, al contempo, così accogliente e raccolto: gli edifici circostanti incastonano il cortile proiettando gli avventori fuori dallo spazio
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GOURMETFOOD
e dal tempo. C’è un’area dove si pasteggia e una piccola zona relax, con tanto di divanetti e un praticello di erba sintetica che qualcuno potrebbe trovare kitsch, ma che si armonizza alla perfezione con l’ambiente circostante. Riguardo alla proposta gastronomica, nulla è cambiato nell’impostazione rispetto al vecchio locale: si mangia alla carta oppure si può comporre la propria degustazione di 7 portate a 48€, scegliendo tra i numerosi piatti del menu.
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VINCENZOVOTTERO
SPAGHETTO AL TORCHIO
di grano arso lumache e carciofi e la loro terra INGREDIENTI
pomodori secchi, g. 30 di porcini essiccati.
rale che hanno ad una estremità, compo-
grano arso, g. 200 di farina Petra 9 per
tore a 65°C se è necessario o fino a quan-
che da cucinare si trovano anche pulite e
Per lo spaghetto al torchio: g. 800 di pasta, 6 uova intere.
Impastare e formare con uno stampo in
Far essiccare ancora in forno o in essiccado non risulterà croccante.
bronzo da 1,2.
PROCEDIMENTO
Per il ragù di lumache: kg. 2 di lumache
zione del ragù, è molto importante: prima
Helix Vermiculata o Helix Pomatia detta anche vignaiola bianca (la mia preferita),
1 testa d’aglio nero fermentato, 3 porri privati della parte verde, 2 coste di se-
dano, g. 300 di vino rosso (ghemme o barbera), 1 foglia di alloro, g. 600 di salsa
di pomodoro fresca, l. 2 di brodo vegetale con foglie di carciofo, 2 carciofi violetti. Per la terra
Tritare al tritacarne stampo grosso, g. 50 di mais tostato, g. 80 di sesamo nero, g. 50 di
La pulizia delle lumache, per la preparadi cucinare le lumache si lasciano spurga-
re in crusca o pasta cruda per 2 settimane, poi vanno messe a bagno con acqua,
sale e aceto. Quando l’acqua è pulita dalla schiuma, le lumache si trasferiscono in
una pentola con acqua fredda e su fuoco
moderato. Appena iniziano a fuoruscire dal guscio si fanno cuocere a fuoco vivo
per 30 minuti; successivamente, si risciac-
quano in acqua fredda e si butta l’acqua servita per la cottura. Si sgusciano con uno
“stecchino” e si elimina la parte nera a spi-
sta dall’intestino e dallo stomaco. Le luma-
senza guscio nei supermercati, per evitare questa noiosa e difficile operazione.
Tagliare le lumache precedentemente descritte a pezzi e farle rosolare in un fondo
di porri e aglio nero fermentato e sedano tritati a coltello e alloro, bagnare col vino e fare evaporare, aggiungere il pomodoro
e il brodo, cuocere a fiamma molto mode-
rata per circa un’ora, aggiungere i carciofi privati delle parti dure e tagliati a julienne e protrarre la cottura per altri 10 minuti.
Cuocere gli spaghetti in acqua salata per
circa 6 minuti e finire la loro cottura nel ragu per altri 4/5 minuti circa, aggiungen-
do un mestolino di acqua di cottura, se necessario.
Guarnire con la finta terra.
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GOURMETFOOD
Chi è avvezzo ai percorsi di degustazione, specialmente nei ristoranti gastronomici, sa quanto sia difficile trovare proposte ricche a prezzi popolari. Anche in cucina, Vottero è rimasto se stesso: vivace, esuberante, pirotecnico. In altri termini, VIVO. Nomen omen. I piatti sono un coacervo di colori, ingredienti, suggestioni. Talvolta barocchi. In definitiva, piacevoli e divertenti. La sua cucina è energia masticabile. Sempre presenti in carta alcuni “classici” dello chef, come il “falso farro”, i tortellini con tartufo nero e perle di lambrusco, la tartare di capriolo affumicata, il cervo al BBQ con mostarda alle amarene Fabbri. Tra le nuove proposte, “Quinto elemento” è un rocher croccante realizzato con burro di cacao e polpa di ricci, ripieno di foie gras d’anatra, cosparso di semi di sesamo, accompagnato da germogli terrosi e da una panna acida al caffè (salsa ViVo): boccone prepotente e aromatico, che entra carnale ed esce salmastro, esplorando senza timidezza la linea di confine fra terra e mare. Non per tutti. “Calamaro in due consistenze” è l’originale calamaro mantecato con il suo fiocco croccante, fonduta piccante di finocchi e lemongrass e salsa di ostriche: curioso utilizzo del calamaro,
LA FARAONA VA A TARTUFI INGREDIENTI per 4 persone
varla dalla stagnola e pulirla dalla buc-
gine d’oliva, sale e pepe.
acqua possibile e procedere come un
1 faraona, tartufo bianco, olio extraver-
Per la purea di zucca: 1 zucca violina,
6-7 patate, parmigiano reggiano, latte, burro, sale.
Per la cacciatora al limone: carcassa di faraona, 1 porro, la scorza di 2 limoni, l. 1 di latte, l. 1 di brodo. PROCEDIMENTO
Pulire bene la faraona, condirla, porre i tagli sottovuoto (saranno due cosce, due
anche, due punte di petto e due petti superiori n.b. Mettere sottovuoto anche
cosce e punte di petto con petti superiori) e cuocere in roner i petti a 65°C
per 3 ore e le cosce a 82°C per 3 ore e
mezzo. Dopodiché abbattere e formare le porzioni.
Per la purea zucca (da accompagnare alla faraona): tagliare a pezzi la zucca
precedentemente pulita (lavata e svuo-
tata senza togliere la buccia) e avvolge-
re ogni singolo pezzo in carta stagnola. Cuocere in forno a 170°C per 1 ora e 20 minuti. Intanto lessare 6/7 patate e
pulirle. Quando la zucca sarà cotta, le-
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cia, strizzarla in un torcione levando più classico purè, ovvero scaldare il latte e
condirlo, unire la patata e la zucca e, sul
fuoco, aggiustarlo di parmigiano, burro e latte fino a consistenza desiderata.
Per le chips di zucca: tagliare all’affettatrice la zucca sottile (circa mm. 2 di spes-
sore) e metterla nell’essiccatore a 70°C con un pizzico di sale fino a quando non sarà secca.
Per la cacciatora al limone: prendere
una carcassa di faraona precedentemente pulita e rosolarla in padella con un
porro e la scorza di due limoni, dopo di
che sfumare con vino e succo di limone. Ricoprire con 1 litro di latte e 1 litro di
brodo e fare andare a fuoco basso per circa 3/4 d’ora dopo di che togliere le
ossa e frullare il tutto aggiustando di sale. Legare fino a consistenza desiderata.
Cuocere in padella con olio di oliva extravergine e rosmarino i pezzi di faraona
precedentemente cotti in sottovuoto rosolandoli molto bene, finire la cottura aggiungendo la salsa cacciatora in bian-
co e il profumo del tartufo per pochi minuti. Servire su purea di zucca e scaglie di tartufo bianco.
VINCENZOVOTTERO
usualmente apprezzato per la sua consistenza più che per il sapore (invero assai tenue), qui reso incisivo dalla mantecatura con patate e porri, dalla sferzante salsa d’ostriche e dalla sfiziosa croccantezza del suo fiocco. “Onda bianca” è un crudo di spigola di lenza generosamente distribuito su una focaccia cotta a vapore e appena ripassata al BBQ, accompagnato da maionese bianca e misticanza al tosazu: consistenza leggera, morso goloso, maionese senza tuorli che riporta alla mente certi vitel tonné d’antan. Per il risotto con riso carnaroli “Ri-
ANIMELLE DI AGNELLO croccanti salsa tosazu e cavolo nero PROCEDIMENTO
Preparare la crosta di cereali cuocendo separatamente oltre il tempo della loro normale cottura, riso, orzo, amaranto e quinoa con
brodo ottenuto con le ossa di agnello. Frullare separatamente fino ad ottenerne una sorta di pomata, stendere sul silpat ad essiccare a 70°C per circa 12 ore, poi triturare grossolanamente.
Scottare le animelle in acqua bollente e raffreddarle in ghiaccio. Privarle della pellicina che le ricopre, passarle in farina uovo sbattuto con sale pepe e succo di mezzo limone e infine nel trito di cereali.
Soffriggere in burro chiarificato fino ad imbionditura e servire con foglie di cavolo nero cotte in forno sotto un velo di parmigiano
reggiano grattugiato e gratinato, con una giardiniera di gambi di cavolo nero cotti a freddo in aceto di mele e vino bianco, mantenuti in olio di semi e utilizzati da guarnizione con gocce di panna acida o yogurt greco. Servire con salsa tosazu che è una salsa a base di fumetto di tonno bonito (palamita), alga kombu, salsa di soia e hon mirin (sake dolce da cucina).
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GOURMETFOOD
serva San Massimo”, lime nero fermentato, estrazione di gamberi rossi e gamberi crudi, è lo chef a raccontarci del suo soggiorno ad Abu Dhabi, dove ha scoperto la forza aromatica dei lime neri essiccati e fermentati, e del successivo desiderio di ricreare quelle sensazioni in cucina, passando i lime in fornetto essiccatore per 5 giorni a 72 gradi: il risultato è un risotto in cui si impone un’acidità contundente, parzialmente mitigata dalla dolcezza carnosa dei gamberi e screziata appena da un ricordo resinoso, quasi affumicato, e da un guizzo salmastro. “Uova del mare” è lo spaghetto di Carla Latini con uova di seppia, bottarga di muggine e uova di salmone Keta, forse il piatto meno elaborato e sovrascritto fra tutti quelli assaggiati: pochi sapori netti e definiti, di una semplicità quasi disarmante, marino, generoso senza ridondanze. Tra i secondi piatti, “Purple” è la rana pescatrice con semi di girasole, polvere di alghe e salsa al cassis, un piatto di sostanza giocato sui contrappunti
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VINCENZOVOTTERO
VECCHIO MURO
croccanti, salsa tosazu e cavolo nero INGREDIENTI per 4 persone
Per la terrina: 1 porro, 1 anatra, 1 foie gras, 4/5 foglie di alloro, 1 bicchiere di Calvados, g. 250 di burro (Beppino Occelli), g. 400 di panna.
Per la sfoglia di macarons alla liquerizia e pepe nero: g. 170 di zucchero a velo,
g. 110 di farina di mandorle, g. 90 di albumi (2/3 uova a seconda della grandezza), 2 cucchiai di zucchero semolato, 1 cucchiaio di polvere di liquirizia, pepe nero.
Stendere su un foglio di silicone e lasciar riposare sul forno 10 minuti prima di infor-
fragranti di semi e alghe, e sulla carnosità della coda di rospo, legati dallo spunto fresco del cassis. La carne irrompe muscolare nel “Black & black”, Black Angus ribs con salsa di aglio nero fermentato, pesto di melissa e funghi galletti, un piatto sontuoso e gourmand, dove l’ampia marezzatura della carne regala succosità, e la salsa di aglio nero fermentato ridefinisce i contorni del boccone con le sue filigrane acide e aromatiche. Passando ai dessert, “Oreo” è un fine pasto che attinge ai sapori dell’infanzia mettendo a tacere il bisogno di rassicurazioni e conferme: gelato di biscotto Oreo, denso e ricco, con salsa di cioccolato bianco e vaniglia, crumble di mandorle e lamponi. In una parola, il comfort. Per finire, l’immancabile ghiacciata di zenzero con cioccolato fondente caldo, pezzo forte dello chef ormai da anni: una granita di zenzero, compatta, servita al tavolo con una colata di cioccolato caldo fondente, in cui il cortocircuito tattile creato dalle diverse temperature rinvigorisce il goloso boccone, orlato appena da una lieve piccantezza. Nel brulichio di clienti, la serata scorre senza intoppi, Licia ha la giusta allure da padrona di casa e il maître, Francesco Parigi, si mostra attento e mai invadente, in un delicato lavoro di cesello per una clientela decisamente numerosa e variegata. Di Vincenzo Vottero non si può che appprezzare la fedeltà a se stesso, quasi ostinata: in lui non si ravvede alcuna smania di voler apparire diverso da come è, e da come è sempre stato. In profonda empatia con la sua cucina, sempre esuberante, mai apolide né seriale.
nare. Cucere a 155°C per 10 minuti. PROCEDIMENTO
Rosolare in una padella il porro e l’alloro, aggiungere la carne pulita e tagliata a pezzetti, cuocerla poco (deve rimanere al sangue) e sfumare con Calvados. Abbatte-
re e frullare con il Bimby aggiungendo la panna un po’ alla volta. Frullare il composto e unire il burro.
Quando il composto sarà omogeneo e ben frullato, versare in uno stampo prece-
dentemente imburrato e ricoperto di semi di chia. Ricoprire il composto con semi di chia e lasciare rapprendere in abbattitore o in frigorifero.
VIVO - VINCENZO VOTTERO TASTE LAB
Piazza di Porta Saragozza, 6 - 40123 Bologna Tel. 051 334568
www.vivoristorantebologna.it vivotastelab@gmail.com
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INTERVISTA A...
GIACINTO FANELLI UNA STELLA NASCENTE A BARI di
Lucy Gordan Ezio D’Onghia
foto di
Bari è oggi la città con sette ristoranti abbastanza vicini tra di loro, a cui è stato assegnato il Piatto Michelin per la buona cucina: “Ai 2 Ghiottoni”, “Biancofiore”, “Da Nicola”, “Il Buco”, “La Bul”, “La Pignata” “Taberna”. Il “Ristorante Biancofiore” si colloca in fondo a Corso Vittorio Emanuele II, la strada principale di Bari vicino alla Basilica di San Nicola e al Castello, a nemeno dieci minuti a piedi dal magnifico Teatro Petruzzelli. Qui ho intervistato il giovane chef, Giacinto Fanelli, pugliese D.O.C., per La Madia Travelfood.
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GIACINTOFANELLI XXXXXXXXX
L’INTERVISTA Com’è nato il suo amore per la cucina? È nato con la frequentazione presso l’IPSSAR A. Perotti di Bari ed in seguito si è sviluppato con le varie esperienze lavorative dal Poggio alla Sala Resort di Montepulciano, al ristorante Mariva di San Vincenzo (Grosseto), dall’Hotel Ghirlandina 45 di Rimini, a strutture di Monterosso al Mare, Cinque Terre in Liguria, Livigno in Lombardia. Altri chef in famiglia? Sì, alcuni membri della mia famiglia lavorano nel settore della ristorazione. Mio fratello maggiore, per esempio, é direttore di sala presso il “Plenilunio”, alla Fotezza Mola qui a Bari. Lei ha lavorato per tre anni a “La Bul” con Antonio Scalera; è lui il suo mentore? Cosa ha imparato da lui? Presso il ristorante “La Bul”, qui a Bari, ho consolidato e affinato la tecnica e il rigore nell’e-
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INTERVISTA A...
MERLUZZO
in oliocottura con crema di gazpacho pugliese e pane di Altamura INGREDIENTI
Per il gazpacho: tagliare tutta la verdura
ml. 500 di olio extravergine d’oliva.
senza crosta e condire con olio, aceto e
Per il merluzzo: g. 200 di merluzzo fresco,
in modo grossolano, aggiungere il pane
Per il gazpacho: g. 500 di pomodori ra-
sale, infine pestare tutti gli ingredienti fino ad ottenere un composto omogeneo.
mati, g. 50 di cipolla rossa, g. 320 di ce-
Lasciar macerare per circa 24 ore, dopodi-
trioli, g. 50 di peperoni, g. 250 di pane di
ché frullare e passare al setaccio.
Altamura raffermo, basilico, sale, olio evo
Adagiare il filetto di merluzzo tiepido con
e aceto q.b.
i crostini di pane di Altamura e accompa-
PROCEDIMENTO
gnare con il gazpacho ben freddo.
Per il merluzzo: cuocere i filetti (privati delle spine) in olio extravergine con sonda
al cuore (dovrà raggiungere una temperatura di 52°C). Raffreddare in olio.
secuzione. Sicuramente Scalera è mio mentore: mi ha trasmesso i fondamenti di questo mestiere: umiltà, rigore, conoscenza, dedizione per il lavoro. L’aspetto del suo lavoro che ama di più? Beh, sicuramente trasmettere piacere attraverso la mia cucina.
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Di meno? Le troppe ore al giorno di lavoro. Come definerebbe la sua cucina? Strettamente legata al territorio e rigorosamente rispettosa della materia prima. La definirei una cucina senza fronzoli. Le sue specialtà? Prevalentemente piatti di mare, con pasta fresca e verdure di stagione: spaghet-
GIACINTOFANELLI
GALLINELLA DI MARE
marinata al lime con carota di San Vito e germogli di rapa INGREDIENTI
g. 300 di gallinella, 2 carote di San Vito, germogli di rapa, fiori di sale, pepe nero, olio extravergine d’oliva.
Per la marinatura: g. 100 di fiori di sale, g. 100 di zucchero di canna, 2 lime, menta, aneto, pepe nero in grani. PROCEDIMENTO
Mixare in un robot da cucina gli ingredienti della marinatura fino ad ottenere un composto omogeneo.
Squamare, eviscerare e sfilettare la gallinella; ricoprire il filetto di pesce con il composto ottenuto per la marinatura; lasciar marinare in frigo per circa 6 ore.
Infine lavare accuratamente il filetto di pesce togliendo completamente i residui della marinatura, asciugando. Comporre il piatto.
ti, cozze, fave novelle e caciocavallo; tonno in crosta di mandorle e cipolla rossa in agrodolce; trancio di dentice, datterino giallo e asparagi. Da quando lavora qui? Il ristorante è stato inaugurato nel dicembre 2012 e io ho iniziato nell’agosto del 2013.
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INTERVISTA A...
TERRINA DI FOIE GRAS
con gel al mango, crudo di gamberi rossi e granella di nocciole INGREDIENTI Per la terrina
g. 300 di fegato fresco, g. 150 di fiori di sale, ml. 50 di moscato di Trani. Per il gel di mango
g. 250 di polpa di mango, g. 1 di agar agar, g. 50 di zucchero. Altri ingredienti
g. 100 di gambero rosso fresco, g. 50 di granella di nocciola, germogli. PROCEDIMENTO
Per la terrina: eliminare dal fegato fresco d’oca i vasi sanguigni e le nervature. Mettere a marinare con i fiori di sale e il moscato per 24/28 ore in frigo.
Diego Biancofiore ha riposto in me molta fiducia.
Avvolgere il fegato nella pellicola fino ad ottenere un cilindro, mettere sottovuoto e cuocere a bassa temperatura fino a raggiungere 61°C al cuore.
Per il gel di mango: portare ad ebolizione la polpa di mango con zucchero e agar agar. Raffreddare in abbattitore, infine emulsionare con il mixer. Pulire i gamberi rossi e comporre il piatto.
Crede nei giudizi delle guide? Ovviamente, come in tutti i settori, ci sono persone che svolgono il proprio lavoro professionalmente, ma a volte purtroppo i metodi di giudizio di alcune guide risultano approssimativi. Chef che ammira? In Puglia abbiamo molti chef eccellenti: tra questi in primis Angelo Sabatelli e Antonio Scalera. I suoi vini preferiti? I vini naturali, tra cui molti pugliesi. Un piatto che non le piace? Piatti molto piccanti o speziati che coprono il vero gusto della materia prima.
RISTORANTE BIANCOFIORE Corso Vittorio Emanuele, 13 70122 Bari
Tel. 080 523 5446
www.ristorantebiancofiore.it biancofiore.diego@libero.it
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di
Giulia Gavagnin
GOURMETFOOD
L’ALTA CUCINA DI PRODOTTO CON TOCCHI ESOTICI DEL
LOCAL A VENEZIA
Si scrive in un modo, e si pronuncia in due: Lòcal e Locàl. All’anglosassone, con l’accento sulla “o”, perché i fratelli Luca e Benedetta Fullin - rispettivamente addetti alla cantina e alla sala - posseggono una vocazione decisamente internazionale maturata in lunghe esperienze londinesi. Alla veneziana, con l’accento sulla “a” perché il progetto “Local” non prescinde dalla valorizzazione della materia prima autoctona, non solo in ambito culinario. Lagunari da generazioni, i Fullin hanno la ristorazione nel sangue. I genitori gestiscono la pensione Wildner, nota in città anche per l’ottima cucina tradizionale. Luca si appassiona al vino, soprattutto artigianale, e inizia ad accarezzare l’idea di avere un proprio ristorante di taglio contemporaneo, che gli permetta di osare con una carta dei vini vocata esclusivamente al biologico. Dopo qualche anno trascorso nella grande ristorazione londinese, la sua idea prende forma, e a pochi passi da pizza San Marco nasce Local. Una bella cucina a vista, tre cuochi indaffarati (oggi aumentati a cinque) dietro a una vetrata, come in certe ambientazioni nipponico-metropolitane. Il pavimento è un terrazzo alla veneziana di palladiana memoria, con
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LOCAL
cinquemila murrine incastonate a richiamare il logo del locale. La cantina è lastricata di “masegni”, i macigni grigi di trachite che costituiscono il guscio della città, in ogni sestiere, e ai piedi di ogni canale. Anche Benedetta torna da Londra, abbandonando un lavoro corporate per contribuire al successo della nuova creatura. Manca l’ultimo tassello del puzzle, forse il più importante: uno chef veneziano ma con occhi e orecchie aperte sul mondo. Si materializza Matteo Tagliapietra da Burano, l’isola tutta pescatori, merletti e case variopinte. Il background, però, è importante: Locanda Cipriani a Torcello, Bauer a Venezia, Locanda Locatelli e Nobu a Londra, per finire con uno stage al Noma. Esperienze glocal che gli hanno permesso di ripensare la tradizione attraverso strumenti differenti, in una
ANGUILLA
puntarelle, mango e miso INGREDIENTI per 4 persone
1 anguilla di kg. 1pulita ed eviscerata, soia, mirin, faggio per affumicare, mango, miso bianco, puntarelle. PREPARAZIONE
Rimuovere testa e coda dell’anguilla, tagliar-
la in 4 parti di 200 grammi circa e metterla in una busta sottovuoto con soia e mirin (proporzione 1 a 1).
Lasciare marinare per 12 ore. Nel frattempo
preparare una crema con il mango e il miso: cuocere il mango in un pentolino; una volta
che raggiunge la consistenza di un chutney, aggiungere il miso bianco e continuare la cottura per 5 minuti.
Affumicare l’anguilla con il legno di faggio
per poi passarla in griglia e cuocerla da ambo le parti. Una volta cotta, rimuovere la pelle e servire.
Mondare le puntarelle. PRESENTAZIONE
Appoggiare l’anguilla al centro del piatto,
città invasa ogni anno da turisti come fossero locuste che travolgono tutto ciò in cui s’imbattono. “Volevamo portare una ventata di freschezza in questa città, così bistrattata per la ristorazione”, dice Benedetta. Difficile darle torto. Fuori dal giro dei grandi alberghi - che pure propongono per lo più una cucina tradizionale di laguna, di risotti di pesce, fegati alla veneziana, “moeche” fritte - la ristorazione veneziana raramente ha spinto sull’acceleratore, omettendo di esplorare territori meno battuti. I Fullin e Tagliapietra, invece, hanno voluto remare in direzione ostinata e contraria, avviando una piccola rivoluzione lagunare. Innanzitutto, valorizzando le biodiversità locali che per peculiarità territoriali donano tinte inaspettate alla tessitura dei piatti. Frutta e verdura sono coltivate artigianalmente nelle isole, a diretto contatto con la matrice salina del terreno.
fare due punti di crema di mango e miso ed infine adagiare le puntarelle condite.
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SEDANO IN 3D
GOURMETFOOD
INGREDIENTI per 4 persone
giungere la panna semimontata e unire
g. 50 di zucchero, 1 bacca di vaniglia.
il composto negli stampini a semisfera e
g. 150 di sedano rapa, g. 85 di panna, Per la meringa: g. 200 di zucchero, g. 100 di albume, g. 50 di acqua, g. 300 di panna.
il tutto alla purea di sedano rapa. Versare congelare.
Per la terra al malto
Per la terra al malto: mettere gli ingre-
malto, g. 50 di farina di nocciola, g. 50 di
lare e poi unire la birra.
IMPASTO 1: g. 175 di farina 00, g. 80 di zucchero, g. 75 di birra.
IMPASTO 2: g. 40 di farina, g. 20 di mal-
to, g. 70 di nocciole, g. 4 di sale, g. 60 di burro.
Per il sedano candito: 2 coste di sedano, acqua e sciroppo di zucchero (proporzione 1 a 1).
Per la granita di levistico: g.500 di levistico.
Foglie di sedano e fiori eduli PREPARAZIONE
Per la base di sedano rapa: mettere tutti
dienti secchi del 1 impasto nel Bimby; frulPreparare il secondo impasto allo stesso modo. Fare essiccare gli impasti al forno ad 80°C per tutta la notte.
Mescolare i due impasti, frullarli, lasciarli asciugare ed essicare.
Per il sedano candito: privare il sedano delle fibre, sbollentarlo per un minuto circa e raffreddrlo in acqua e ghiaccio.
Mettere sottovuoto con lo sciroppo di acqua e zucchero. Cuocerlo a bagno a 60°C per 5 ore.
Per la granita di levistico: centrifugare il levistico e congelare il succo ottenuto.
gli ingredienti in un pentolino e cuocer-
IMPIATTAMENTO
purea. Frullare con il mixer e passare al
rapa sul piatto, mettervi sopra la terra al
li fino ad ottenere la consistenza di una setaccio.
Una volta raffreddato, preparare la meringa all’italiana. Una volta fredda, ag-
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Posizionare le due semisfere di sedano-
malto, il sedano candito, i fiori eduli, le foglie di sedano e terminare con la granita di levistico.
Le erbe sono raccolte personalmente da Matteo nelle barene ovvero provengono da un piccolo orto di Cavallino Treporti. Nell’isola di S.Erasmo, fiore all’occhiello della topografia lagunare, oltre al pregiato carciofo violetto (la “castraura” ne costituisce la prima fioritura), si coltiva la dorona, un vitigno autoctono dalle uve particolarmente saline. In stagione, nelle barene, si caccia la selvaggina da piuma. Infine, non serve menzionare l’ampia varietà di pesci, crostacei e molluschi che provengono dalla laguna e dalle aree circostanti (ghiozzo “gò”, lotregani, boseghe, moeche, schie ecc.). La materia prima a km. 0 viene lavorata con piglio estroso, non immune da suggestioni asiatiche tra Cina, Giappone e Vietnam, con tecniche e ingredienti che amplificano le tonalità dell’elemento locale più che snaturarlo. Nulla di più tradizionale, in questa città: Venezia è sempre stata una città mercantile, non occorre scomodare Marco Polo per capire quanto l’estremo oriente sia presente nel DNA lagunare, e l’uso di spezie e alghe così connaturato all’essenza stessa della Serenissima. “Non credo di snaturare gli ingredienti a Km. 0 con l’inserimento di elementi orientali. Nella storia di Venezia c’è sempre stato l’Oriente: così, anzi, credo di restaurare tradizioni antiche” dice Matteo. “Sono stato al Noma, ed è stata un’esperienza bellissima, perché mi ha insegnato a rispettare l’ingrediente in modo particolare, quasi sacro. Ma le fermentazioni di cui tanto si parla oggi e che anche io in parte utilizzo, non le ho imparate a Copenaghen, ma da maestri giapponesi. La cultura nipponica della cucina è universale, tanta è la cura e il rispetto della materia prima. Credo che importarla e applicarla moderatamente anche alla nostra cucina sia un arricchimento, non una stravaganza. Così, se al tradizionale risotto di gò veneziano (il ghiozzo è un pesce di laguna particolarmente grasso, adatto per i risotti, ndr) aggiungo l’alga nori e il katsuobushi porto la mia esperienza di viaggio nella città più visitata al mondo”. Matteo prosegue: “Recentemente ho mes-
LOCAL
RISOTTO DI GÒ INGREDIENTI per 4 persone
Per il brodo: kg. 1 di gò (o ghiozzi) puliti ed eviscerati, 2 spicchi d’aglio, 1 e 1/2 circa di acqua fredda, 1 cipolla, 1 costa di sedano, 1 foglia di alloro, 5 gambi di prezzemolo, 1 bicchiere di vino bianco secco.
Per il risotto: g. 280 di riso Carnaroli, 1 cucchiaino di scalogno tritato, vino bianco secco per sfumare, 1 cucchiaio di burro, 1 cucchiaino di parmigiano reggiano, sale, pepe, 1 goccio di limone.
Per la finitura: alga nori tritata, Katsuobushi. PREPARAZIONE
Per il brodo: fare imbiondire l’aglio in camicia con un filo d’olio, togliere
l’aglio e versare i gò. Tostarli e bagnare il tutto con il vino bianco fino a far-
lo evaporare. Una volta evaporato, versare l’aqua fredda fino a coprire i gò.
Aggiungere la cipolla, il sedano, i gambi di prezzemolo e l’alloro e far sob-
bollire per 30 minuti. Di tanto in tanto schiumare il brodo. Spegnere il fuoco e far riposare per 20 minuti. Passare il brodo di gò al chinoise a maglia fine.
Per il risotto: rosoloare lo scalogno in una pentola da risotto, aggiungere il riso,
il sale e farlo tostare. Sfumare poi con il vino bianco ed iniziare ad aggiungere il
brodo un po’ alla volta, continuando a mescolare fino a cottura. Una volta cotto, si
procede con la mantecatura fuori dal fuoco aggiungendo sale, pepe, burro, un po’ di prezzemolo, il parmigiano reggiano e un goccio di limone.
Finitura: impiattare il risotto ed aggiungere alla fine l’alga nori e le scaglie di katsuobushi.
so in carta gnocchi con cervella e ostriche, finiti con una salsa d’ostrica di scuola orientale che serve a legare il piatto. Credo che sia un plus, non un minus, che richiama anche l’odore salmastro che caratterizza le calli e i rii di Venezia”. Queste contaminazioni sono onnipresenti: dal carciofo con rucola e aglio nero, ai paccheri con agnello, yogurt, chili rosso e menta e all’anguilla con mango, miso e puntarelle, tutti i sapori sono decisi e sapidi, con suggestioni esotiche accattivanti e mai invadenti. Se Venezia è un labirinto naturale dove perdersi tra calli e campielli è un attimo, sarà quantomeno piacevole perdersi anche nell’intrigo di sapori del Local, tra esotismi salmastri e richiami ancestrali all’identità lagunare. Probabilmente, oggi, uno degli indirizzi più interessanti del nord-est.
LOCAL
Salizzada dei Greci, 3303 30122 Castello (VE) Tel. 041 241 1128
www.ristorantelocal.com Prenotazioni: thefork.it
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GOURMETFOOD
IL DESIGN GASTRONOMICO DI
DAVIDE CASSI IN COLLABORAZIONE CON ILDE SOLIANI foto di
di Carla Latini Marco Bargnesi - Hilde Soliani
Si chiama Design Gastronomico ed è la punta più avanzata della ricerca scientifica in campo gastronomico. È l’evoluzione naturale della cucina molecolare che ha dominato la scena fino a qualche anno fa. Se la cucina molecolare ha studiato le proprietà sensoriali del cibo e inventato nuove tecniche per modificarle, il design gastronomico ne sfrutta i risultati per progettare il piatto in ogni suo aspetto, come esperienza multisensoriale e trans-sensoriale: non solo si considerano tutti i sensi insieme, ma si progettano anche le interazioni tra di essi. Si tratta, in altre parole, di progettare non solo il cibo, ma tutta l’esperienza di cui è protagonista: ambiente, stoviglie, luci, suoni, profumi.
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DAVIDECASSI
È per questo che il Future Cooking Lab dell’Università di Parma, diretto dal prof. Davide Cassi, ha fortemente voluto nel suo team anche Ilde Soliani (Hilde Soliani Profumi - foto in alto), notissimo naso con alta sensibilità gastronomica, che ha iniziato ad occuparsi del design olfattivo, affiancando la ricercatrice e designer Roberta Razzano che cura da sempre gli aspetti visivi e gustativi dei progetti. Da anni infatti, prima fra tutti i profumieri, Ilde propone una linea di profumi ispirati ai piatti di chef famosi ed un’altra dedicata ai singoli artisti dei fornelli. Il nuovo percorso è stato presentato alla Trattoria Antichi Sapori di Gaione, appena fuori Parma, in un evento organizzato in collaborazione con lo chef-proprietario Davide Censi e la sua brigata di cucina e di sala.
Volutamente una trattoria e non un tristellato d’élite. Il titolo della serata: ‘Texture in movimento’. Sono stati presentati piatti da nomi evocativi: Aperitivo: “Antichi Sapori” non newtoniani e Pinzirò Primo: Anarchia tricolore Secondo: Il norcino del mare Dessert: Bolle di sapone e fiocchi di neve L’aperitivo parte da un cibo quasi tradizionale, una sifonata di parmigiano, per lavarlo via immediatamente dalla bocca con il più innovativo dei drink: si entra così in un mondo nuovo in cui l’innovazione e la tradizione si fondono fino a confondersi. Le tecniche ci sono, sono complesse e raffinate, ma restano sempre nascoste, subordinate e funzionali all’esperienza sensoriale. I drink non-newtoniani, ideati da Roberta Razzano nel 2012, sono costituiti da liquidi di colori, sapori e profumi diversi, che restano separati nel bicchiere e in bocca, finché non interviene un’azione di mescolamento a miscelarli. Ogni sorso è diverso dagli altri. Ogni volta una sequenza unica e irripetibile di sensazioni. Un’idea simile è alla base del Pinzirò, una versione multicolore e multiaroma del pinzimonio, creata sempre da Roberta Razzano nel 2007: un pinzimonio composto da diversi sali, colorati, aromatizzati ed acidificati, che formano figure fantasiose sul fondo di un calice d’olio d’oliva, con bastonci-
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GOURMETFOOD
ni di verdure colorate inserite all’interno. Anarchia tricolore è un piatto bianco, rosso e verde, composto da gelatine di diverse consistenze a base di basilico, pomodoro, cocco e scorza d’arancia, guarnite da pinoli tostati, burrata e gamberi rossi crudi, con un impiattamento appositamente studiato da Davide Censi. Il termine “anarchia” richiama una tendenza stilistica della cucina contemporanea: si tratta di un piatto in cui i singoli componenti possono essere abbinati tra di loro in modo diverso, ma sempre piacevole, da parte di chi li mangia. Anche in questo caso, dunque, una soggettivizzazione ricercata e spinta dell’esperienza gastronomica. La tecnica è raffinata ma nascosta: per sublimare l’intensità dei sapori e degli aromi naturali, si utilizza la criomacinazione, polverizzando finemente gli ingredienti in azoto liquido. Nel Norcino del mare si mette in campo un inedito contrasto tra sapori ittici cotti e crudi, saldando fra di loro, grazie ad un enzima naturale, tonno crudo e calamaro alla griglia a creare la morfologia tipica dei salumi. Anche qui, l’impiattamento innovativo e tradizionale ad un tempo di Davide Censi. Ma è al momento del dessert che la forza creativa del design gastronomico si spigiona al meglio. Qui i commensali diventano protagonisti: si alzano e degustano i
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fiocchi di neve prodotti all’istante sifonando la panna nell’azoto liquido, degustano il criomojito e festeggiano inseguendo, come bambini in un sogno, le bolle di sapone commestibili magistralmente aromatizzate da Ilde Soliani con un ineffabile sottofondo di ciliegia. Tutto è una festa: il design gastronomico ha trasformato il compassato rito tridentino della cena silenziosa nel ristorante d’elite in una nuova liturgia riformata, dove cliente, cuoco e designer concelebrano una cerimonia di puro divertimento ed emozione.
GOURMETFOOD
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XXXXX XXXXX di
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GASTÓNACURIO
RICORDO E CUORE NELLA CUCINA DI
GASTÓN ACURIO IL PORTABANDIERA DEL PERÙ di
Flavia Tomaello
Iperattivo e poliedrico, lo chef Gastón Acurio è l’artefice del successo raggiunto in tutto in mondo dalla gastronomia del suo Paese. Nel 1994 la cucina peruviana cambia per sempre. In quell’anno, Gastón Acurio, insieme a sua moglie Astrid Gutsche, apre nel grazioso quartiere di Miraflores, a Lima, l’emblematico ristorante Astrid & Gastón. Da allora il locale è diventato un faro di riferimento per tutti gli chef del Paese che in quasi venticinque anni hanno portato la gastronomia peruviana ad essere una delle più apprezzate al mondo. Acurio nasce nel 1967. Suo padre Gastón Acurio Velarde era un apprezzato politico peruviano che aveva occupato incarichi di spicco come ministro e senatore. A 20 anni (aveva da poco iniziato gli studi presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Universidad Complutense di Madrid) la sua vera vocazione prende il sopravvento tanto che, dopo poco tempo, si trovava già im-
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GOURMETFOOD
merso a tempo pieno nella sua grande passione: la cucina. Per prepararsi professionalmente studia in Spagna e si iscrive al Cordon Bleu di Parigi. Proprio nello scenario romantico della capitale francese, e all’interno di questa realtà educativa, conosce la sua attuale compagna che, come lui, sembrava essere predestinata ad un’altra professione. Astrid infatti aveva studiato medicina. Nel locale di via Cantuarias la ricerca della cucina peruviana iniziava a scaldarsi a fuoco lento. Questo locale, prima di diventare il riferimento mondiale della gastronomia del suo Paese natale, si era specializzato in cucina francese e solo in seguito, con il passare degli anni, il suo menù è andato arricchendosi di carne di cuy, ceviches, mais e di tutti quegli ingredienti che sono propri della tradizione peruviana. Acurio è stato un pioniere: prima di lui, nessun ristorante del suo Paese aveva mai osato lasciare la cucina a vista, o considerare allo stesso livello di importanza il bancone del bar e il
CEVICHE CLASSICO INGREDIENTI per 4 persone
kg. 1 di filetto di pesce tagliato a dadi, sale e pepe bianco macinato q.b., 2 pepe-
roncini limo tagliati a fette, 2 cipolle rosse tagliate finemente, succo di 20-30 limoni, spremuti a metà, 1 o 2 cubetti di ghiaccio. PROCEDIMENTO
Il pesce scelto può essere un pesce tipo rombo. Per il ceviche si usa solitamente
qualsiasi tipo di pesce che abbia una carne ben resistente di color rosa o bianco e dal sapore delicato. Per questa ricetta non servono il tonno o altri tipi di pesce azzurro dalla polpa fibrosa.
Tagliarlo a pezzi estraendo la polpa e unire le spezie in abbondanza insieme al sale. Mescolare bene e lasciar riposare per 10 minuti.
Aggiungere la metà del peperoncino limo. Mescolare con i pezzi di pesce e lasciar riposare ancora per 5 minuti. Aggiungere la metà della cipolla e mescolare il tutto. Affinare la salatura.
Aggiungere pepe a piacere. Mescolare.
Lasciare i piccoli cubi di ghiaccio sopra il preparato e attendere un paio di minuti.
Aggiungere il resto della cipolla e del peperoncino limo. Servire nel recipiente e usare il cucchiaio per mangiare.
salone ristorante, o incorporare tecniche e influenze ancestrali peruviane in ricette moderne. Per questo la sua visione è stata di una portata dirompente fin dall’inizio: “La cucina deve celebrare il prodotto e lo chef deve essere molto più umile, giocare a fare da ponte affinchè gli ingredienti e i produttori possano parlare e i commensali riescano a riceverne il messaggio”, spiegava. Lui però nega che a posizionare il suo Paese nello scenario gastronomico internazionale sia stato esclusivamente merito suo. “La nostra cucina è eredità dei nostri nonni, ossia ciò che abbiamo mangiato tutti i giorni nelle nostre case e che tuttavia, abbiamo percepito come inferiore a quella europe o a quella nordamericana.” racconta “Con i cuochi della mia generazione ci siamo messi a lavorare in squadra, ci siamo rafforzati e abbiamo invertito la tendenza.” conclude.
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GASTÓNACURIO
Il successo di Astrid & Gastón ha trasformato Acurio in un personaggio di calibro nazionale: nel 2002 ha realizzato un suo programma televisivo (Aventura culnaria) e ha pubblicato il suo primo libro omonimo, il primo di altre dodici successive prubblicazioni. Da buon iperattivo, ha esplorato diversi aspetti della cucina e diversi modelli di ristorante. E alla fine Tanta è diventato un locale specializzato in
UOVA TIMIDE INGREDIENTI per 1 persona
base di stufato precotto a piacere, 1 spicchio d’aglio, 2 cipolle grandi, 1 peperon-
cino, 2 uova, olio, sale e pepe, a piacere, basilico per la decorazione. PROCEDIMENTO
Si tratta di un eccellente escamotage per
recuperare ogni tipo di stufato o per farne uno per l’occasione.
Può esserci una base di carne, di riso o minestrone... va bene tutto.
A questo stufato si aggiunge un soffritto fatto con l’aglio, la cipolla e il peperoncino, il tutto tagliato finemente. Si riscalda e si serve sul piatto. Sopra si appoggiano un paio di uova fritte.
cucina rapida e La Mar specializzato in ceviche, Chicha ha ricreato il modello dell’antica “chichería” peruviana (locale dove si vendeva la “chicha”, una bevanda fermentata a base di mais, ndr); Panchita Parrilla ha riportato in vita gli spiedini; Madam Tusan è diventata la sua incursione nel mondo dei chifa (ristoranti di cucina fusion peruviano-cinese); Los Bachiche ha svoltato verso l’unione tra la cucina italiane e quella del suo Paese; Papacho’s serve degli hamburger organici artigianali e Barra Chalaca riprende l’idea del ceviche con un sapore più informale e innovativo. I suoi locali hanno cominciato diffondersi in Cile, Colombia, Argentina, Stati Uniti, Messico e Panamá…
DAL PERÙ VERSO IL MONDO Di pari passo cominciano a piovere premi: la rivista América Economía lo elogia come il principale imprenditore dell’America Latina del 2006; nel 2011 viene eletto come uno dei 20 cuochi più influenti del mondo, mentre Astrid & Gastón appare
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GOURMETFOOD
SPIEDINI DI LINGUA INGREDIENTI per 4 persone
kg. 1 di lingua, 8 stecchi per spiedini. Per la marinatura
4 tazze di peperoncino “panca” frullato, 1 tazza di aceto di vino, 2 cucchiai di origano macinato, sale, pepe, 1 cucchiaio di cumino a piacere, 2 cucchi di aglio macinato. Da portare in tavola
peperoncino di huacatay, a piacere.
PROCEDIMENTO
Pulire la lingua per bene. Marinarla con la miscela degli ingredienti indicati per almeno 4 ore. Durante il processo, continuare a
girare la lingua e spennellarla con la marinatura. Metter da parte il liquido della marinatura. Cucinare la lingua in acqua e sale fino
a che si possa rompere con le mani. Lasciare raffreddare. Quando sarà ben fredda, tagliarla a dadi e inserirvi con attenzione gli stec-
chi per spiedini. Una volta terminata questa operazione, continuare a cospargervi la marinatura e mettere in frigo per due ore.
Mettere sulla griglia e cuocere fino a quando ogni pezzo risulti ben dorato e sia caldo all’interno.
Bagnare con peperoncino di huacatay.
ininterrottamente nella lista dei 50 migliori ristoranti del mondo (ha raggiunto il quattordicesimo posto nel 2013 e nel 2015) e dell’America Latina (ha guidato la classifica nel 2013). La sua parabola di imprenditore raggiunge l’apice con la fondazione di APEGA (Associazione Peruana di Gastronomia) nel 2007 e dell’Istituto di cucina Pachacútec, dove si offre formazione ai giovani in situazioni di difficoltà. “L’educazione è uno degli strumenti più potenti per trasformare la vita di giovani che non hanno avuto opportunità, ma che hanno talento”, spiega lo chef. E’ stato anche l’ideologo della Fiera Gastronomica Internazionale di Lima (Mistura), che si volge initerrotamente ogni anno fin dal 2009. Nel 2014, Astrid & Gastón trasferisce il suo locale presso il luogo che attualmente lo ospita, l’Hacienda Moreyra, una residenza storica nel quartiere di San Isidro, dichiarata monumento storico nel 1972: una costruzione la cui origine risale nel lontano XVII secolo, poi ricostruita dopo il terremoto del 1746. La proprietà mantiene un’aura di magia e ogni ambiente è stato stu-
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GASTÓNACURIO
diato con mobili e stili diversi: un cliente può anche tornare decine di volte e avere sempre la sensazione di essere stato seduto in posti differenti. Un paragrafo a parte merita il bar, una specie di giardino d’inverno che riporta la memoria agli antichi cortili coloniali americani. Il nuovo locale ha significato per Arcurio un ritorno al suo primo amore: la cucina che aveva in parte abbandonato, dal punto di vista strettamente pratico, assorbito com’era dagli impegni imprenditoriali. I chachos de chicharrón limeño, il cuy pekinés (una ricetta storica, che viene riportata da più di dieci anni nel menù), il polpo alla brace, il capretto da latte (altro classico immancabile nei suoi menu), la padella di riso con l’anatra… chi ha provato qualcuno dei suoi piatti emblematici, mantiene per sempre quel ricordo. Astrid e Gastón, fuori dai riflettori, hanno due figlie: Ivalú, che segue i passi dei suoi genitori e studia in un istituto gastronomico - alberghiero, e Kiara, veterinaria. “Sono cosciente delle frontiere e dei valori dei quali posso essere il portabandiera e cerco di essere coerente, soprattutto quando mi trovo all’interno della mia cucina”, ha dichiarato lo chef. Quando si tratta di sorprendere i suoi ospiti, Acurio sa bene che deve fare appello a due capisaldi: “Il ricordo e il cuore”. E conclude dicendo che la gastronomia è stata uno degli strumenti chiave affinchè i peruviani potessero recuperare la loro autostima.
ASTRID & GASTÓN
Av. Paz Soldán 290, San Isidro, Lima 27 - Perú
Tel. +511 442-2777 / +511 442-2775 / +511 442-2774
www.astridygaston.com - restaurante@astridygaston.com
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di
Lucy Gordan
INTERVISTA A...
KENNY DUNN
FONDATORE E CEO DI “EATING EUROPE” TOURS PIONIERE DEI TRAVELFOOD IN EUROPA Kenny Dunn è cresciuto vicino a Filadelfia. Si è laureato in economia e commercio alla Penn State University e poi ha completato un Master’s in gestione dello sviluppo all’American University di Washington D.C. Nel 2009 si è trasferito a Roma perché a sua moglie messicana, che già lavorava all’ONU di New York, è stato offerto un impiego alla FAO. Due anni dopo Kenny ha fondato “Eating Europe Tours”, che è diventato il più grande tour operator in Europa nel campo culinario. Dal 2011 “Eating Europe” ha dato il benvenuto ad oltre 80,000 partecipanti di cui oltre 5,000 hanno scritto recensioni positive su TripAdvisor ed altri siti web.” È raccomandato dalle guide Lonely Planet, Rough Guide e Fodor’s. Al Testaccio ho avuto modo di intervistare Kenny Dunn.
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KENNYDUNN
L’INTERVISTA Come ti è venuta l’idea di fondare “Eating Europe” Tours? Abitavo di fronte alla gelateria Giolitti, qui al Testaccio. Mi capitava di avere diversi amici e parenti stranieri che mi venivano a trovare qui a Roma. Una delle cose che amavo fare con loro era portarli in giro in questo mio quartiere per fargli vedere il bar dove prendevo il caffè, il banco al mercato dove compravo la frutta e verdura, il pastificio per pane e salumi e la macelleria per la carne. Non mi piaceva, però, portarli in visita ai monumenti, pertanto dicevo loro: “Voi potete facilmente andare da soli ai Musei Vaticani o al Colosseo, ma domani vi porterò in giro nel quartiere.” Poi, durante un viaggio a New York nell’autunno del 2010, mi è capitato di partecipare come cliente ad uno degli “Scott’s Pizza Tours”. Non avevo mai partecipato ad un food tour prima. Wow! I tour di Scott hanno sempre avuto un gran successo. Scott è un individuo fenomenale: hanno scritto di lui dappertutto. Hanno anche girato un video su di lui, che organizza pizza tour in tutti i cinque quartieri di New
York. Quando sono tornato a Roma, ho cominciato a chiedermi perché non fare tour come quelli di Scott. Mi sono detto: “Ehi, più o meno faccio già questo per i miei amici quindi, seguendo il modello di Scott, posso farne la mia impresa!”.
d’Europa che non dimenticheranno presto. Sveliamo i quartieri delle città più importanti, come ci vivono gli abitanti e che cosa mangiano. Nostro scopo è donare un’esperienza unica, ineguagliabile, non-turistica, collegata al cibo.”
E poi? Come sono cresciuti i numeri e i luoghi dei tour? Piano piano ho ingaggiato altre guide, poi abbiamo fatto il tour di Testaccio non soltanto di giorno, ma anche di sera ed iniziato i tour di giorno e di sera a Trastevere. Infine, a Roma, abbiamo istituito lezioni di cucina romana. “Perché soltanto Roma?” (mi sono chiesto), perciò sono seguiti Londra, Amsterdam, Praga e Firenze. Parigi inizia tra poco. Potete vedere tutti i nostri tour cliccando sul sito: www.eatingeuropetours.com. Tutti durano tra 3 e 4 ore. È possibile anche comprarli come regali. Limitiamo ogni tour a non più di 12 partecipanti. Volendo è possibile prenotare un tour privato.
Quante guide impieghi qui a Roma? Per adesso sono 23 liberi professionisti. In amministrazione siamo in 4.
Qual è la tua mission? Come spiega il nostro sito web: “Ai nostri ospiti noi diamo un assaggio
Altrove? Dipende da quale città, ma all’incirca 10 guide per città. In tutto abbiamo 60 guide e oltre 130 artigiani del mondo del cibo: commercianti, ristoratori, produttori di birre, gelatai, fornai, baristi ecc. Scegli tu le guide o ti scelgono loro? Le scegliamo noi! Prima i candidati ci inviano un video e poi li incontriamo proponendo un argomento, tipo: “Immagina che sei la guida di un nostro tour: come racconteresti questo posto, questo personaggio, o questo cibo?” Dedichiamo molto tempo alla scelta
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INTERVISTA A...
delle nostre guide. Ovviamente devono conoscere la storia della loro città e della cucina locale, ma devono essere simpatici e devono sapere raccontare con entusiasmo. Il tour è una collezione di racconti vissuti dai partecipanti. Come ti trovano i tuoi clienti? All’inizio tramite passaparola. Poi tramite il nostro sito web. Ma adesso lavoriamo con agenzie di viaggio, linee di crociere, e cooperazioni. Andiamo a fiere del turismo in Europa e negli Stati Uniti. Qualche volta tra i nostri clienti ci sonono agenti di viaggi che, dopo aver partecipato ad un nostro tour, collaborano con noi. Quale tour va per la maggiore? Il Twilight (serale) Tour di Trastevere è di gran lunga il nostro bestseller. Hai partecipato a tutti i tuoi tour? Tutti tranne due: il tour serale a Firenze e il Pub Tour di Londra. Non ho ancora avuto occasione. Hai un tuo preferito? Quello a cui hai appena partecipato:
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“A Taste (un assaggio) di Testaccio”. Si può dire che l’ho partorito io. Testaccio, il porto di Roma antica, deriva il suo nome dalla montagna di cocci rotti delle anfore scaricate al porto. In breve “Monte Testaccio” era un cumulo di rifiuti del porto nei primi due secoli dopo Cristo. Fino a vent’anni fa era un quartiere della classe operaia; adesso è considerato “chic”. Cosa offrite in particolare? Tutti noi sappiamo cosa significa visitare un Paese per la prima volta senza parlare la lingua: ti senti un pesce fuori d’acqua. Una cosa è visitare i monumenti come il Colosseo o il Big Ben, un’altra vivere una città come fanno gli abitanti. Vogliamo insegnare ai nostri clienti quello che è tipico mangiare a Roma, come il supplì, o a Praga, come il gulasch, piatti che non si trovano altrove. Vogliamo dare ai nostri clienti “un assaggio” della vita locale. Sul sito avete incluso la “Food Lover’s Guide to Rome”; ma per le altre città? Abbiamo una “Food Lover’s Guide” per ogni città dove abbiamo dei tour.
È difficile convincere i partecipanti ad assaggiare un cibo che non conoscono? A Firenze, solo io tra i visitatori, ho voluto assaggiare il lampredotto. Abbiamo deciso di includere il lampredotto perché è un piatto simbolo della cucina e dello street food fiorentino. All’inizio, come te, avevamo paura che potesse non piacere ai nostri clienti, ma stranamente non si è verificato. Anzi, piace quasi a tutti e addirittura molti lo citano come il momento culminante del tour. Questa è la nostra missione, il nostro scopo: vogliamo sorprendere e rallegrare i nostri clienti. Che cosa ami dell’Italia? Adoro esplorare tutte le regioni d’Italia e scoprire le specialità di ogni regione. L’Italia è l’unico Paese al mondo dove tutto cambia a poca distanza: il cibo, i colori, la luce, le abitudini, i dialetti, la storia. L’Italia è un’unione di regioni, un po’ come gli Stati Uniti, ma più condensata. Basta pensare alle differenze tra la Puglia e la Toscana. E di Roma? Roma è un museo a cielo aperto. Sebbene mi manchino molte cose degli Stati Uniti, amo il ritmo più lento, più umano della vita a Roma. Negli Stati Uniti ci sono tante regole. A Roma, se esci a pranzo, stai a tavola per almeno un’ora e forse ordini anche del vino: niente a che fare con l’abitudine americana di mangiare di corsa un tramezzino e tornare stressato alla scrivania. Inoltre Roma è a meno da tre ore di volo da tutte le città importanti d’Europa. La stampa critica sovente l’amministrazione romana ma, malgrado questo, il numero di turisti continua a crescere ogni anno. Puoi parlare con chiunque dei nostri clienti e scommetterei che nessuno di loro lascia Roma senza voler ritornare. Roma incanta
KENNYDUNN
le persone nonostante i suoi difetti. Se stai a Roma soltanto per tre giorni, non fai caso agli escrementi dei cani sui marciapiedi, ai gabbiani che mangiano i rifiuti abbandonati, alle buche nelle strade. Sei incantato dalla sua architettura, dal cibo, dal clima e dalla storia. Roma è unica. In quale altra città puoi mangiare in o davanti a un palazzo che risale a 2000 anni fa? Ogni periodo della storia dall’800 a.C. a oggi è rappresentato artisticamente a Roma. La storia fa parte integrale della vita di ogni giorno a Roma. Che cosa disprezzi dell’Italia? La mancanza di senso civico (anche se non riguarda tutt’Italia), l’illegalità diffusa, la mancanza di serietà sul lavoro di tanti, quando manca il lavoro per chi lo cerca. E di Roma? Il degrado che diventa sempre peggiore: la carenza dei servizi pubblici come la raccolta dei rifiuti, l’inefficienza dei trasporti pubblici, le strade e i marciapiedi pieni di buche, la corruzione eterna e fuori controllo che toglie fondi ai servizi pubblici.
Se potessi inaugurare tre nuovi tour con un successo immediato garantito, in qualsiasi parte del mondo, cosa sceglieresti? Noi ci chiamiamo “Eating Europe” perciò le nostre destinazioni dovrebbero trovarsi in Europa. Amo molto la cucina asiatica, soprattutto quella giapponese e sud-asiatica, ma bisogna essere realistici, perciò, se la situazione politica cambia in Turchia, proba-
bilmente sarà Istanbul. Il Portogallo o la Spagna potrebbero essere altre possibilità. E in Italia? Palermo per i suoi mercati e per la sua storia multi-culturale. Anche Napoli. Forse anche Parma, Bologna, e Torino, ma logisticamente sono più complicate per portarci dei croceristi.
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ILFOCUSDIALESSANDROROSSI
a cura di
Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”
L’ALGORITMO, IL PALATO E L’INUTILE CONVINZIONE DELLA NON SOGGETTIVITÀ DEL VINO Siamo nel 2018 e in molti vecchi film girati in bianco e nero in bobina di pellicola, si predissero per questi tempi navi spaziali, macchine volanti, vita sulla Luna e tanta, tanta visione Kubrickiana. Non è andata proprio così ma abbiamo fatto passi da giganti; non che la matematica applicata venga introdotta nelle scuole materne, ma almeno ne abbiamo sdoganato l’opinione. La fisica quantistica ancora non è insegnata nelle scuole elementari, ma siamo sulla buona strada. Bene, torniamo al vino, materia oggi in discussione e partiamo da tre aggettivi: analitico, soggettivo e temporale. Analitico è un procedimento – intendiamo chimico in questo caso – che è proprio dell’analisi e procede per via di analisi. I dati estratti analizzano le parti fondamentali della materia e, ahimè, come lo fu per la matematica, esclude l’opinione. Un vino è di fatto materia, composto da elementi sensibili al cambiamento quindi non discutibili. Il vino in fondo è vino, che ci piaccia o no è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione totale o parziale del frutto della vite ovvero l’uva. Ovviamente, raccontato così, perde tutta la sua poesia, ma analiticamente, lo ripeto, parliamo di un processo chimico-fisico. L’analisi non è soggettiva, ma il vino in fondo lo è. Soggettivo è un aggettivo che ha fondamento nel soggetto, ciò che esiste in rapporto con il pensiero, quindi intendiamo un’analisi completamente opposta, un’analisi più empirica se vogliamo entrare nel campo della filosofia. Quindi il vino ha una parte soggettiva, un pensiero tutto personale che può indurre il degustatore ad esternare, con cautela, se un vino è fatto per il suo palato o no, se è di suo gusto o meno.
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Ma passiamo alla temporalità che è la condizione – mutevole – di ciò che è temporale. Tutto muta con il trascorrere del tempo, qualsiasi cosa: le mele si ossidano quasi istantaneamente, le persone invecchiano e le case crollano. Il vino muore; prima migliora, poi si stabilizza e poi inizia il suo lento declino come la macchina umana e quindi finisce il suo percorso. Ora, vi chiederete quale è lo scopo di questa introduzione tutt’altro che sommelieristica. Il vino non è in discussione, la materia vino non può essere più analizzata in maniera soggettiva, perché il vino in fondo è vino: analitico. La soggettività dipende dal nostro palato, ma questo è influenzato dalla nostra vita: lo stato sociale, la famiglia, il conto in banca, le nostre idee anche filosofiche e tanti altri momenti di riflessione che rendono il vino non buono e nemmeno cattivo, ma soggettivo. La soggettività va rispettata sempre e comunque. La temporalità del vino invece ha un duplice aspetto; analitica e soggettiva. La prima è inesorabile perché alla chimica non si può sfuggire, come alla matematica d’altronde. La soggettività temporale invece va rispettata in qualsiasi caso. Possono essere di gradimento vini molto vecchi che hanno perso alcune caratteristiche oppure vini giovani che ne possiedono altre. I vini in fondo sono come i film: possono emozionarti, possono farti ridere o farti piangere. Sono soggettivi. La parola chiave comunque è sempre una sola: dipende.
VINARIA
VALPOLICELLA E DINTORNI NON SOLO AMARONE E RIPASSO di
Gianluca Ricci
Theobroma, Arleo, El Cencio, El Nane, Cormì, Rubeo, Reoltre: sulla fantasia dei nomi nessuna obiezione, ci sono quelli che hanno scoperchiato la scatola dei ricordi di famiglia e quelli che invece hanno provato a giocare con le parole. Tutti, invece, hanno giocato con uve e vitigni, pur vivendo e lavorando in un territorio, la Valpolicella, che col solo magistero della sua tradizione dovrebbe garantire affari e visibilità a prescindere. È però un fatto che nella terra dell’Amarone e del Ripasso molte cantine stanno provando a sondare mondi nuovi e inesplorati, pur partendo sempre da ciò che di buono sanno fare. E così si prendono Corvina, Rondinella, Molinara, i pregiati vitigni che da decenni reggono le sorti dell’economia locale, ma anche Corvinona e Creatina, e li si vinifica insieme a Cabernet o Merlot, ma anche Sangiovese, per dare vita a creature enologiche che del Valpolicella originario conservano qualche traccia ma che per forza di cose si proiettano altrove, spesso purtroppo nell’indifferenza del consumatore. Molti vignaioli, i più tradizionali e affezionati, stanno gridando da tempo allo scandalo, convinti come sono che tali esperimenti non facciano il bene di un brand che, se è riuscito ad affermarsi nel gusto e nel cuore degli appassionati, lo ha fatto perfezionando negli anni procedure e materie prime, senza ricorrere a facili scorciatoie. Il rischio anzi sarebbe, a loro dire, quello di snaturare un prodotto che di invenzioni come queste
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VALPOLICELLA
non ha assolutamente bisogno. La necessità di movimentare un mercato sempre più vittima del marketing e sempre meno attento al rispetto dei più elementari parametri qualitativi, avrebbe però spinto molti ad arricchire la propria offerta commerciale e la propria gamma di produzione con vini che, scimmiottando i loro progenitori, se ne sono allontanati al punto che hanno finito per disperdersi in quella indistinta medietas che caratterizza gli scaffali di negozi e supermercati là dove non è possibile raccogliere in uno spazio unico etichette immediatamente riconoscibili. Anche se, a dire il vero, un denominatore unico c’è ed è rappresentato dal rispetto della tecnica di produzione, che in quasi nessun vino di quelli messi all’indice dai puristi del Valpolicella si esime dal passaggio sulle cosiddette “arele”. Le uve utilizzate, tutte o alcune di esse a seconda del risultato che si cerca di ottenere, prima di essere lavorate in cantina vengono infatti lasciate appassire, operazione che piacerebbe a molti potesse diventare un vero e proprio marchio di fabbrica del territorio. Ecco perché tale libera proliferazione viene, se non incentivata, sicuramente tollerata a livello centrale. «In realtà si tratta di una scommessa», ha confessato fra il serio e il faceto Andrea Sartori, il presidente del Consorzio del Valpolicella. «Incentivando, o per lo meno non ostacolando, la produzione di vini che alla base costituita da uno o due vitigni tipici del Valpolicella vedono
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VINARIA
aggiungersi altre uve compatibili si è voluto vedere un po’ l’effetto che fa, ovvero provare a fare della Valpolicella il territorio dell’appassimento per antonomasia». Da qualche anno, in effetti, in molte zone del nostro Paese, ma non solo, produttori particolarmente attivi stanno provando a realizzare vini che nascano dalla spremitura di uve appassite naturalmente sulla pianta o successivamente in cantina. Una procedura che per decenni ha fatto la fortuna dell’Amarone, il principe dei vini nati dall’appassimento delle uve. «Si tratterebbe del tentativo di arginare una concorrenza che si sta facendo di anno in anno sempre più pericolosa – ha aggiunto Sartori – e al tempo stesso di potenziare la prerogativa più qualificante del nostro territorio. Nessuno qui ha intenzione di cannibalizzare né l’Amarone, figurarsi, né tanto meno il Ripasso, che dal lavoro di appassimento riceve benefici espliciti anche se non diretti». D’altronde sarebbe una follia, considerato il boom di vendite degli ultimi anni. «È la dimostrazione che questi vini non hanno minimamente intaccato il mercato principale: ricordo che nel 2017 l’Amarone e il Ripasso hanno fatto registrare un +5% nelle vendite e ancor meglio è andata al
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Valpolicella con un +7%. Ciò significa che chi ha acquistato i vini di cui stiamo parlando non lo ha fatto a discapito di quelli tradizionali». Dati che fortificano i presupposti teorici del progetto: «Ciò a cui vogliamo puntare – ha ammesso Sartori - è il primato di una esperienza esclusiva. Non è un caso che su tutte le etichette dei vini nati in Valpolicella al di fuori delle prerogative del disciplinare della denominazione sia stato dato spazio più al metodo che ai varietali. Chi acquista una bottiglia di questi vini deve essere attirato, oltre che dal nome dell’azienda, dal sistema di produzione, ovvero l’appassimento. In più di una riunione si è parlato dell’opportunità di creare a questo proposito una vera e propria categoria di vini, ovviamente targati Valpolicella». L’idea che regola il fenomeno e in un certo senso lo giustifica è quella di elaborare un perimetro normativo e dunque produttivo che possa fare della Valpolicella la terra eletta per questo tipo di lavorazione. «Al momento non abbiamo ancora pensato a nessun disciplinare né tanto meno ad una possibile nuova denominazione, ma ora come ora non mi sento di escludere alcun tipo di iniziativa in tal senso, anche se siamo consapevoli delle difficoltà dell’operazione». Tuttavia si vuole fare sul serio, al punto che la Regione Veneto pare sia intenzionata ad attivare le procedure per il riconoscimento da parte dell’Unesco dell’appassimento come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Un pronunciamento in tal senso modificherebbe in modo radicale l’intera questione, attribuendo di fatto alla sola Valpolicella la paternità di una tecnica che, pur avendo nell’Amarone un inarrivabile punto di riferimento, non è tuttavia protetta da alcuna difesa normativa. Oggi chiunque in qualunque parte del globo può permettersi di produrre vini con uve appassite, ma il giorno in cui l’Unesco riconoscesse alla provincia di Verona questa specificità sarebbe difficile per tutti provare a sfondare in un campo più che protetto. «È per questo che dobbiamo muoverci in tal senso. E lo dice uno che personalmente su questo progetto non ha investito ancora molto. La mia azienda ha prodotto solo poche bottiglie in appassimento e nessuna di esse è venduta in Italia. Oggi ci limitiamo ad alcune aree test in Germania, Stati Uniti e Asia». Se i risultati saranno confortanti e se i produttori saranno compatti nel portare avanti l’iniziativa, è possibile che la Valpolicella possa conoscere un interessante rinascimento enologico. Una novità che affonda inevitabilmente le sue radici in una tradizione impossibile da disconoscere.
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VINARIA
LA BATTAGLIA DEL
TERRANO TRA CARSO E KRAS di
Gianluca Ricci
Da un paio di anni in qua i viticoltori di Slovenia, Croazia e Friuli stanno spendendo gran parte delle loro energie non tanto e non solo sul miglioramento qualitativo dei loro prodotti (peraltro fortemente apprezzati da un pubblico sempre più ampio), quanto piuttosto sulla disputa burocratica relativa alla gestione (e allo sfruttamento) della denominazione Terrano, o Teran, per dirla alla slava. Una tipologia enologica particolarmente apprezzata da quelle parti, che affonda le radici dei suoi vitigni nella notte dei tempi e che oggi rischia di trasformarsi nel detonatore di una vera e propria battaglia commerciale capace di lasciare profonde ferite, assai difficili da rimarginare. È per questo che dopo due anni di litigi più o meno mascherati e un pronunciamento della Commissione Europea con cui l’Unione minaccia di risolvere d’imperio la faccenda concedendo, seppure in deroga, al solo vino croato Hrvatska Istra la possibilità di fregiarsi dell’ambita denominazione di Teran, ministri, assessori e presidenti di consorzio sono al lavoro per
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ILTERRANO
dare vita a quella che, se approvata, diventerebbe la prima dop transfrontaliera d’Europa, passando lungo due confini ma unendo, di fatto, un unico territorio. Il Terrano, che in Slovenia viene invece chiamato Refošk, non deve il suo nome a quello del vitigno (si produce infatti con il Refosco), ma all’inveterata abitudine dei consumatori di quell’area geografica a considerare “terrani” i vini locali, da distinguere rispetto ai vini “navigati” come la Malvasia, ovvero quelli importati via mare. Dal nome comune a quello proprio il passo è stato lungo ma inesorabile e soprattutto definitivo. Manca l’ultimo centimetro, ovvero l’ufficializzazione, unita ad un’equa distribuzione dei vantaggi fra tutti i viticoltori che, dimentichi dei confini nazionali, si sono ostinati a produrre vino da un medesimo vitigno: “Il Terrano – ha chiarito l’assessore regionale alle Risorse Agricole del Friuli Venezia Giulia Cristiano Shaurli – nasce dalla terra del Carso italiano e del Kras sloveno: due nomi per un unico suolo.
Sarebbe assurdo che lo stesso vino prodotto sulla stessa terra su cui gli effetti dell’unificazione europea hanno di fatto cancellato ogni confine finisca per avere due nomi distinti e soprattutto una legislazione diversa”. Una precisazione inequivocabile, giunta dopo che dal Ministero delle Politiche Agricole avevano fatto sapere che sarebbe stato meglio lavorare per sostituire il nome in etichetta ed evitare pericolose disavventure burocratiche con i cugini sloveni. Così è nata l’idea di lavorare per una sola dop distribuita su due nazioni diverse, un vero e proprio “unicum” che creerebbe i presupposti normativi per altre operazioni del genere, oggi arenate sui reticolati burocratici che separano nazioni diverse, unite però dai medesimi vitigni e dagli stessi terreni. Un primo passo in questa direzione lo ha compiuto la guida di Slow Wine: le cantine di Carso e Collio presenti nel volume sono indifferentemente italiane e slovene, senza distinzione di confine, a rimarcare l’unicità di un prodotto che non può
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VINARIA
essere diviso solo dalla burocrazia. A confermare la posizione è lo stesso Boris Lisjak, presidente del Consorzio dei Produttori del Vino Terrano del Carso, una ventina in tutto, destinati però ad aumentare nel caso in cui il progetto dop arrivasse a concretizzarsi: “Il Carso è unico dall’Italia alla Slovenia”. Difficile, secondo lui, prevedere nel progetto l’inclusione dei produttori croati, visto che, a suo dire, il Terrano, checché ne pensino i soloni della Commissione Europea, avrebbe poco a che fare con i vini prodotti da quelle parti, nonostante siano oltre cento i produttori croati che vi si dedicano e più di trecento gli ettari destinati alla coltivazione del vitigno conteso. Non per nulla la Commissione Europea ha concesso ai croati la possibilità di utilizzare in etichetta la definizione, pur garantendo agli sloveni la certificazione della doc. A tutt’oggi però non è ancora ben chiaro come dovrebbero o potrebbero comportarsi all’indomani dell’approvazione di una dop che accomunasse i vini italiani e quelli sloveni sotto la denominazione Teran, obbligandoli di fatto a trovare una soluzione diversa per le loro etichette. Tuttavia l’importante è evitare litigi e malumori: una dop transfrontaliera salverebbe sicuramente capra e cavoli, purché giunga all’indomani di precisi accordi internazionali, attirando fra l’altro l’attenzione degli appassionati di tutto il mondo su un fenomeno fino ad ora abbastanza limitato. Il Terrano rimane un vino conosciuto per lo più nelle immediate vicinanze della zona di produzione: le prime tracce storiche risalgono al
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XIV secolo, quando i maggiorenti locali lo servivano ai dignitari imperiali in visita versandolo dalle bottiglie di ceramica dove era stato a lungo conservato, anche se non sono pochi coloro che ritengono di poter identificare con il Terrano quel “Pucinum” di cui lo storico romano Plinio il Vecchio racconta andasse ghiotta Livia, la moglie dell’imperatore Augusto. In realtà si tratta del tipico vino contadino, dal carattere forte e fermo, che con gli anni l’affinamento delle tecniche di coltivazione e di produzione ha reso particolarmente interessante. Non è un caso che intorno ad esso si sia accesa una battaglia, fortunatamente solo burocratica: i protagonisti intuiscono evidentemente le grandi potenzialità del prodotto e non sono disponibili a lasciarsele scippare impunemente. Sarà la diplomazia a dover scongiurare un inutile spargimento di… vino e assicurare ai produttori un futuro più sereno.
VINARIA
SANGIOVESE DI ROMAGNA LUCI E OMBRE DI UN GRANDE VINO di
Gianfranco Bolognesi
Nel libro “La Romagna nel Bicchiere”, che ho scritto con Andrea Spada agli inizi del nuovo millennio, parlavo di un rinascimento dei vini romagnoli che ha fatto crescere una nuova generazione di produttori, più aperti ai cambiamenti che, con il contributo e l’esperienza dei migliori enologi italiani, soprattutto toscani, hanno creato vini totalmente rinnovati rispetto al passato, con una nuova materia, un nuovo linguaggio, uno stile e un gusto che si traducono, in molti casi, di profumi e sapori di inedita bellezza e profondità.
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Dal vitigno sangiovese piantato in terreni collinari dove le rese per ettaro sono sempre più scarse rispetto al piano e il lavoro in vigna richiede fatica e sacrifici, sono nate anche in aree meno famose (Modigliana, Covignano - Coriano) una serie di etichette di grosso spessore in cui è evidente l’acquisizione generale di nuove tecniche di vinificazione tese ad esprimere la territorialità con un gusto di modernità nel vino attraverso la freschezza, la pulizia e lo spessore del frutto.
SANGIOVESEDIROMAGNA
E allora perché i migliori sangiovesi non ottengono quei consensi di critica e di mercato che meritano? Perche’ non hanno il successo e il prestigio dei vini toscani ottenuti con le stesse uve, la stessa tecnica, persino le stesse mani del winemaker ? G.B. Sono domande che mi sento porre da sempre. E la risposta è sempre quella. Forse il problema non è il vino in sé ma nel nome che si porta addosso. Purtroppo nel nome Sangiovese c’è di tutto: troppe denominazioni, troppe sigle, e troppe le regioni di appartenenza, troppi i vini modesti che hanno creato un’immagine negativa che penalizza le migliori etichette. Mi rendo conto che non è facile cambiare l’identità di un vino legato alla memoria storica della sua regione. Ma sono altresì convinto che per valorizzare le eccellenze occorre puntare sulle diversità, investire sul proprio nome (il brand dell’azienda) e meglio ancora sul nome della località a maggiore vocazione vinicola. Nessun grande vino, sia rosso sia bianco, ad eccezione di alcuni Gewurztraminer alsaziani con vendemmia tardiva e i grandi Riesling della Mosella, portano in etichetta il nome del vitigno. Secondo la sua opinione, un grande vino è... G.B. Il russo – americano Andrè Tchelistcheff, il principe degli enologi, il mito che ha cambiato i vini del mondo inventando lo stile dei migliori vini della California (e in Napa Valley gli hanno dedicato un monumento), Chateaux bordolesi, il Masseto e l’Ornellaia e tanti altri ancora, diceva che un grande vino “è il risultato di una equazione che coniuga e contempla ad un tempo eleganza, equilibrio, morbidezza, consistenza e complessità”. Un vino che deve viaggiare nel tempo con eleganza e distinzione.
Nomen Omen: è così anche per il Sangiovese? G.B. Dicevano gli antichi romani che “il nostro destino è nel nome, il nome è un presagio”. Per i vini, i migliori vini, il nome è anche un concetto di valori e di intelligenti strategie di marketing e comunicazioni. Abbinati ad etichette di forte impegno emotivo, incrementano i risultati commerciali per non parlare poi della soddisfazione di aver creato un marchio che promette qualità, spessore, unicità e quindi eccellenza. Conosco vignaiuoli storici ed altri
emergenti che producono ottimi Sangiovesi in purezza o con l’apporto di uve internazionali che non hanno nulla da invidiare ai blasonati vini toscani. Sono loro, devono essere loro, i primi a credere nei loro vini ed avere il coraggio e l’orgoglio di imporre il proprio marchio e non chiamarlo più Sangiovese, come hanno fatto altri con successo. Chi, per esempio? G.B. La Toscana, che divide con la Romagna la primogenitura del vitigno sangiovese, ha chiamato i suoi mi-
gliori vini con il nome della località di provenienza: Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano, Morellino di Scansano, Carmignano e quello delle varie zone del Chianti. I vignaioli delle Langhe (come quelli della Valtellina) vivono in simbiosi con il Nebbiolo ed hanno creato grandissimi vini che si fregiano del nome di piccoli paesi a spiccata vocazione vinicola conosciuti in tutto il mondo: Barolo e Barbaresco nelle Langhe, Gattinara nel Vercellese, Ghemme nel Novarese, Sizzano nel Biellese, Sassella, Grumello e Valgella in Valtellina (Lombardia). Anche i grandi Chateaux bordolesi ottenuti da uve cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot e la Borgogna con soli due tipi di uve, pinot nero e chardonnay, producono i più grandi e i più costosi vini bianchi e rossi del mondo col nome della proprietà o del terroir (vigneto). C’è un’altra “categoria” di vini nata agli inizi degli anni ’70 che alcuni produttori del Chianti hanno scelto puntando sul proprio nome o su quello del vigneto di proprietà a discapito della Denominazione di Origine (DOC). Il vino che ha rivoluzionato il mercato e ha creato le basi di una moderna enologia è stato il TIGNANELLO (dal nome del podere Tignanello) nel 1971, un Sangiovese nato in purezza della famiglia Antinori. Altri lo hanno seguito e sono nati vini con uve di sangiovese che hanno conquistato mercati internazionali : Percarlo, Flaccianello, Cepparello, Pergole Torte, Fontalloro, tanto per citarne alcuni. Per non parlare poi di straordinari vini a base di cabernet sauvignon come il Sassicaia del Marchese Incisa della Rocchetta, il Solaia della famiglia Antinori, l’Ornellaia e il Masseto (merlot) della famiglia Frescobaldi. Tutti questi vini portavano in etichetta “vino da tavola” (oggi sono IGT o
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DOP) e gli americani per distinzione e merito, li hanno chiamati Supertuscan. Purtroppo in Romagna e in altre regioni d’Italia, si è privilegiato il nome del vitigno in etichetta come elemento distintivo della produzione enologica ed è stato un gravissimo errore. Il vitigno sangiovese, a differenza del nebbiolo che è uno dei vitigni meno coltivati al mondo, è il più diffuso e il più coltivato in Italia con oltre 70.000 ettari dei quali il 10% in Romagna. Ne consegue che con il nome Sangiovese in etichetta troviamo decine e decine di denominazioni legate alla regione di provenienza o alla zona: Toscana Sangiovese, Marche Sangiovese, Umbria Sangiovese, Puglia Sangiovese, Abruzzi Sangiovese e Maremma Toscana Sangiovese, Molise Sangiovese e tante altre ancora. Anche la Romagna, secondo lei, ha troppe denominazioni col nome Sangiovese che confondono le idee e le scelte dei consumatori? G.B. C’è una marea di Sangiovese in
Romagna Sangiovese – Romagna Sangiovese Novello-Romagna Sangiovese Superiore – Romagna Sangiovese Riserva. Romagna Sangiovese sottozone di: Bertinoro-Brisighella- CastrocaroCesena-Longiano-Marzeno-Meldola-Modigliana-Oriolo-PredappioSan Vicinio-Serra. Colli di Rimini Sangiovese-Colli di Faenza Sangiovese-Colli di Imola Sangiovese-Colli Romagna Centrale Sangiovese-Sangiovese IGT Rubicone- Sangiovese IGT ForlìSangiovese IGT Ravenna.
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Romagna : dai semplici vini da pasto a vini più o meno impegnativi ad altri ottenuti con orgoglio e giustificate ambizioni. Spiegatemi come fa il consumatore a districarsi in questa gigantesca Torre di Babele dove tutto ha nome Sangiovese ed ognuno parla una lingua diversa dall’altra. Il problema quindi non è il vino ma il nome che si porta addosso che fa la differenza. Un vino, e a maggior ragione un grande vino, non è mai dovuto al caso. Alla sua nascita occorrono vari elementi, il terreno, il clima l’esposizione al sole ed è la localizzazione specifica di un vigneto che fa la differenza. Bastano a volte poche centinaia di metri e il vino cambia personalità si fa diverso. E’ il mistero, il fascino del vino. In particolare il sangiovese in purezza tende ad acquistare caratteri distintivi e ben percettibili a seconda delle aree di coltivazione delle uve. Figuriamoci se da un vigneto d’uva sangiovese disteso su masse ghiaiose cementate a Predappio Alta e a Cusercoli può nascere un vino uguale dal calcare di Bertinoro o dai terreni sabbiosi tra il Forlivese e il Faentino o dalle arenarie e argille di Brisighella e Modigliana. Per intenderci bene non è un altro Sangiovese, è un altro vino che ha il
diritto di chiamarsi col suo nome proprio: la località di provenienza. La Romagna ha scelto di legare il suo nome geografico a quello del sangiovese col risultato che con quel nome sono piovuti sul mercato rivoli di ottimi vini e fiumi di vini mediocri, privi di personalità. E sono stati proprio questi ultimi che hanno creato un’immagine negativa a tutto il Sangiovese: vino popolare, folcloristico, legato a sagre paesane, piadina e liscio. E’ la legge della moneta cattiva che scaccia quella buona? Quali le contromisure? G.B. Dopo la Doc unica Sangiovese di Romagna del 1967 nuove Dop “premiano” oggi le aree collinari della Romagna e all’interno di esse le località a maggiore vocazione vinicola chiamate sottozone. Perché poi chiamarle sottozone se sono le aree migliori della Romagna? La Toscana ancora una volta insegna: al vertice il Chianti Classico quindi, inferiori, di minor valore, le Sottozone Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Rufina.) (La zona del Chianti Classico fu delimitata addirittura nel 1716 con un editto del granduca Cosimo III De’ Medici e non si parlava di sangiovese ma di territorio). Negli anni ’70 feci uno studio sul San-
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giovese di Romagna (Proposte per il Sangiovese di Romagna – 25 novembre 1976), analizzai i pregi e i difetti in un periodo in cui si beveva senza la cultura del bere e l’immagine e la qualità del vino erano molto peggio di oggi. Anche il Sangiovese di Romagna poteva, doveva avere una classificazione che distinguesse qualità e quantità, produzioni commerciali da prodotti di nicchia legati al nome delle aree migliori. Occorreva una svolta, scommettere e puntare sulla qualità per distinguerla nettamente dalla quantità, altri lo facevano mentre cambiava il consumatore sempre più curioso e assetato di conoscenza per le nuove etichette e i nuovi stili del vino italiano. Le mie proposte prendevano esempio dalla storia e dall’esperienza dei cugini francesi i quali dal più semplice dei loro vini, il Beaujolais ai grandissimi Chateaux bordolesi con la classificazione del 1855 - ancora oggi attualissi-
ma - hanno creato la piramide della qualità. Alla base la denominazione più vasta che abbraccia tutto il territorio, a metà le aree comunali, al vertice il meglio del meglio, il cru con il nome della proprietà o del vigneto. Parte delle mie proposte oggi fanno parte integrante della nuova piramide dei vini di Romagna: alla base Romagna Sangiovese, a metà Colli di …. , al vertice Sottozona di …. Fatte allora (40 anni fa) avrebbero facilitato e orientato meglio le scelte del consumatore, avrebbero dato dignità e il giusto rilievo ai vini migliori delle località storiche della Romagna perché solo i grandi vini sono trascinamento, bandiera, riferimento esemplare, conoscenza, espansione dei valori del territorio, sono qualità che portano dietro altre qualità e sono l’antiglobalizzazione per eccellenza perché la loro forza sta nell’orgoglio della diversità per eleganza, prestigio e personalità. Oggi il consumatore, culturalmente più evoluto, non chiederebbe un Romagna Sangiovese Sottozona di Bertinoro o Predappio ma semplicemente un Bertinoro o un Predappio, così come chiede un Barolo o un Barbaresco. E il nome di questi vini non sarebbe replicabile da nessuna parte d’Italia e del mondo.
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METINELLA NEL CUORE DELLA TERRA DEL “VINO NOBILE” di
Antonietta Mazzeo
Verdi onde di colline che dolcemente crescono dalla Valdichiana sino a raggiungere la prossimità di Montepulciano inseguono campi dorati punteggiati di cipressi: una terra dai confini sfumati, ma dall’identità molto definita, ove la natura è ancora fantastica. Odori, sapori, suggestioni enogastronomiche, eleganti architetture e inimitabili paesaggi naturali prendono vita sulla leggenda e sul mistero della civiltà etrusca. “… Non è possibile vedere campi più belli; non vi ha una gola di terreno la quale non sia lavorata alla perfezione, preparata alla seminazione …” (Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia) L’azienda vinicola Metinella di Montepulciano (SI) in Toscana, si trova nel cuore di una delle regioni vitivinicole più prestigiose e rinomate d’Italia. Di proprietà dell’imprenditore bresciano Stefano Sorlini (a destra), Metinella che riprende nel nome quello dei primi appezzamenti acquistati - nasce sul finire del 2015 dalla fusione di due aziende, situate a poca distanza l’una dall’altra, ubicate nel comprensorio votato ai vigneti del Nobile.
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naturali. Vocazione dell’azienda è creare vini di qualità, ad iniziare dal celeberrimo Nobile di Montepulciano, a cui è riservata la maggior parte della produzione.
Un’importante opera di riqualificazione e rinnovamento ha portato alla totale sistemazione e al miglioramento degli impianti dei vigneti e al completo rinnovamento della cantina, dove sono state sostituite tutte le botti, ora di rovere da 25 e da 50 ettolitri, nella convinzione che sia il formato ideale ove ospitare il vino durante la conversione malolattica e il suo relativo affinamento. La tenuta si estende oggi su un’area di 22 ettari, di cui 18 vitati, con caratteristiche molto diverse per suolo, esposizione, altitudine, microclima, il che conferisce ai vini di Metinella complessità e carattere unici. I terreni sono franco sabbiosi di origine pliocenica e godono di una esposizione ottimale da est a sud. Vi sono piantate vigne di Sangiovese, Mammolo, Colorino, Canaiolo, Manzoni e ulivi. Le coltivazioni delle vigne e dell’oliveto sono seguite quotidianamente, ogni fase avviene solo ed esclusivamente nel momento giusto col massimo rispetto delle esigenze
“…. Montepulciano è una terra straordinariamente vocata alla viticoltura, un ambiente unico, un luogo di antica e gloriosa tradizione nella produzione vinicola verso cui nutriamo un grande rispetto e un grande amore. – racconta Stefano Sorlini – Per questo abbiamo scelto di lavorare nel completo rispetto della natura, escludendo ogni forzatura e l’utilizzo di prodotti chimici. In questi primi anni, ci siamo impegnati moltissimo sia in vigna che in cantina, per ottenere il meglio dalle nostre uve e creare dei vini di spiccata personalità, che esprimano al meglio il terroir …”
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A “firmare” i cinque i vini prodotti dall’azienda è Andrea Marzoni, noto enologo toscano. Particolare e unica la bottiglia che li racchiude, di forma troncoconica; bianca ed essenziale l’etichetta, nella pregiata e spessa carta filocotone, che richiama la naturalezza dei vini di Metinella e riporta la silhouette dei due cipressi che svettano sul viale d’ingresso. L’Alfiere di Metinella è Burberosso, Vino Nobile di Montepulciano DOCG, che viene prodotto tenendo fede alla tradizione dell’antico disciplinare, che prevedeva il 90% di Sangiovese (in questo caso Prugnolo Gentile, clone di Sangiovese presente esclusivamente in Toscana). A comporre il restante 10% concorrono per il 5% uve di Canaiolo e per l’altro 5% uve di Mammolo. 142-4, è una selezione di Vino Nobile di Montepulciano DOCG, prodotto esclusivamente da uve di Prugnolo Gentile, il cui nome si riferisce alla particella del vigneto Pietra del Diavolo da cui provengono. Rossodisera l’interpretazione che Metinella dà del Rosso di Montepulciano, alla ricerca di un vino che non fosse vassallo del Nobile di Montepulciano, ma che avesse un carattere e un’identità propri e ben definiti. Rossorosso Cabernet in purezza (50% Sauvignon, 50% Franc)., prodotto da uve provenienti da vigne collocate a diverse altitudini e quindi con caratteristiche completamente diverse, in modo da ottenere un blend di alto pro-
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filo organolettico dal bouquet intenso e tipico. Ombra, Toscana Bianco IGT, è l’interpretazione alternativa della vinificazione del Sangiovese, dalle cui uve è interamente composto. Prodotto in sole 1.500 bottiglie è vino bianco fresco, piacevole, gaio, dal bouquet aromatico di sentori floreali, che ha avuto un successo inaspettato. Ora è un Vinsanto del Chianti DOC, viene prodotto con Malvasia, Trebbiano e Grechetto, le cui uve vengono raccolte a mano e fatte appassire per 4 mesi prima della torchiatura. A Metinella si produce un pregiato Olio Extravergine di Oliva, il Verdeoro; blend Toscana 2017, a 10 mesi dalla produzione: … Erba falciata, mela verde, mandorla fresca. Ingresso amaro medio, piccante intenso e persistente. La struttura ospita anche un piccolo ristorante, un posto familiare dove la chef Giulia Campiani (foto in basso), tra tradizione e innovazione, propone una personale e contemporanea interpretazione della cucina tipica toscana, a base di prodotti locali e verdure dell’orto dell’azienda. Tra le molte idee e progetti per il futuro, un impianto interrato per il recupero delle acque piovane, da utilizzare per eventuali soccorsi idrici dei nuovi impian-
ti, l’ampliamento dell’agriturismo con il recupero e la ristrutturazione di strutture dedicate all’accoglienza, ma non manca il progetto di uno spumante, Metodo Classico o Martinotti, con vigne appositamente impiantate per questa finalità. Terroir, tipicità, tradizione e contemporaneità sono gli elementi che danno origine a Metinella, ove tutto si crea, tra intraprendenza, gioco e divertimento, ma senza mai abbandonare i valori che da sempre hanno contraddistinto l’importanza e il prestigio del “vino nobile”.
METINELLA
Via Fontelellera, 21 - Montepulciano (SI) Tel. 0578 799139 www.metinella.it
di
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Teresa Cremona
AZIENDA AGRICOLA
MARCAMPO
NEL VOLTERRANO UN AGRITURISMO CON IL CUORE NEL VINO E NEL BUON CIBO © ph Claudio Mollo
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Questa è una storia di lavoro, di perseveranza e di successo. È la storia di Genuino ed Ivana del Duca e della loro famiglia: abbruzzesi tenaci e grandi lavoratori. Persone di cuore, che hanno saputo accompagnare creatività e fantasia alla fatica e alla quotidianità. Genuino nasce in Abruzzo, in provincia di Teramo; giovanissimo entra nell’Arma e per vent’anni fa il carabiniere in Toscana. Nel 1991 decide di cambiare vita e apre il ristorante ‘Vecchio Mulino’ alle Saline di Volterra e nel 2001 inaugura il Ristorante Enoteca Del Duca all’interno di Palazzo Inghirami, nel centro storico di Volterra, oggi seguito con ottimi risultati dallo chef Alessandro Calabrese, 27 anni, di cui 2 dal celebre Arnolfo di Colle Val d’Elsa. Gli ambienti sono suggestivi, la cucina di territorio è realizzata con cura, tanto che l’indirizzo risulta un sicuro riferimento gastronomico. Ma Genuino Del Duca vuole una sua vigna, la sua cantina, il suo vino e nel 2003 acquista il Podere di Marcampo, appena fuori Volterra, nel Parco Naturale delle Balze e dei Calanchi. Un casolare circondato da 5 ettari di terreno con 250 ulivi secolari, che risale ai primi del Settecento, ma che è stato abbando-
AZIENDAAGRICOLAMARCAMPO
AGRITURISMO PODERE MARCAMPO
Podere Marcampo, 30 - Località San Cipriano Volterra (PI) - Tel. 0588 85393
www.agriturismo-marcampo.com info@agriturismo-marcampo.com RISTORANTE DEL DUCA
Via Di Castello, 2 - Volterra (PI) - Tel. 0588 81510 www.enoteca-delduca-ristorante.it info@enoteca-delduca-ristorante.it
nato dagli anni ’50 ed è quindi ridotto a un rudere. Lo smontano pietra dopo pietra, conservano amorevolmente tutto, pietre, sassi, tegole, legni, travi. Consolidano, rinforzano, rimontano e oggi il casale, con le sue belle linee antiche, è al centro di una giovane vigna di 2 ettari, circondato dai roseti, affacciato su una piscina panoramica. Una parte dell’edificio è stata adibita ad agriturismo che accoglie gli ospiti anche con una rinnovata cucina. Nel periodo estivo è soprattutto Genuino a curare il barbecue per le fiorentine, con l’apporto indispensabile di Ivana. Ci sono tre camere, due appartamenti e una suite. Ambienti di curata rusticità, che affacciano su un panorama infinito, le Balze appunto, un mare di ondulate colline che a perdita d’occhio sfumano dal verde alle tonalità azzurrine di un lontano orizzonte. Ma Marcampo è anche Cantina. Ed è qui che il sogno-progetto di Genuino si completa: nonostante e contro il parere di tutti, lui ha creduto nella possibilità che il terreno intorno al Podere potesse essere adatto alla viticoltura, e così una nuova vigna è stata impiantata. Oggi l’Azienda Agricola produce cinque vini IGT: un Bianco, il Terrablu, Vermentino in purezza. E quattro Rossi: Genuino (Sangiovese), Marcampo (Sangiovese e Merlot), Severus (Sangiovese) e Giusto alle Balze (Merlot), per un totale
© ph Claudio Mollo
di circa 13000 bottiglie. L’Azienda produce anche alcune Grappe che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali, ottenute da selezioni di vinacce di Sangiovese e Merlot. Dell’Azienda vinicola si occupa principalmente Claudia, figlia di Genuino (insieme nella foto qui sopra), una giovanissima sommelier, che segue i lavori in vigna e la commercializzazione nel mondo dei vini dell’Azienda di famiglia.
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LE REGIONI DELLO CHAMPAGNE L’ECCEZIONALITÀ DI UN TERRITORIO UNICO AL MONDO di
Mario Federzoni
IL SOTTOSUOLO (PARTE PRIMA)
Su una superficie complessiva di circa 34.000 Ha (il 6.6% degli A.O.C-Appellation Origine Contrôlée) gli impianti viticoli della Champagne, tuttora in produzione, occupano circa 32.200 Ha di terreno. I filari delle viti si snodano per 120 Km c.a., con larghezze che vanno dai 300 mt. ai 2 Km. e insistono su 5 Dipartimenti francesi: • Marne (22.000 Ha) • Aube (7.000 Ha) • Aisne (3.050 Ha) • Seine et Marne (60 Ha) • Haute Marne (75 Ha) La Champagne dista 150 Km. c.a. da Parigi (a Nord-Est) e comprende 634 Comuni, dei quali solo 320 sono vocati alla viticoltura champenois: 213 nella Marne, 63 nell’Aube, 39 nell’Aisne, 3 nel Seine et Marne 2 nell’Haute Marne.
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IL SOTTOSUOLO (PARTE SECONDA)
L’unicità dei vini della Champagne è dovuta a condizioni ambientali molto particolari; infatti questo è il territorio viticolo più settentrionale di Francia (Reims = 49°5 / Epernay = 49° latit. nord) che gode di un clima oceanico con 1.600 ore/annue di insolazione e di una pluviometria piuttosto modesta; così le uve, oltre al raggiungimento di una perfetta maturazione, hanno il tenore in esteri più elevato del mondo e una grande complessità di profumi, fini e specifici. Essendo anche il livello dei tannini molto contenuto, si possono ricavare vini di grande finezza ed eleganza. La conformazione del terreno in Champagne è unica e assai particolare: 70 milioni di anni fa, la regione era completamente sommersa dall’oceano, poi il progressivo ritiro delle acque sedimentò un suolo gessoso (craie) dello spessore medio di 200/300 mt.; un terribile terremoto successivo (20 milioni di anni fa) spaccò la crosta gessosa, sollevandola e impregnandola di fossili marini oltre che di minerali vari; poi ancora un altro sommovimento tellurico, ma di maggior intensità (10 milioni di anni fa) rispetto al precedente, creò varie formazioni collinari inframezzate da numerose piccole vallate. L’elemento principale del sottosuolo della Champagne è quindi il cosiddetto “craie”, che gli antichi abitanti di lingua gallica chiamavano “can pan” (terra bianca), variamente permeato dai vari sedimenti marini (Belemnite quadrata) cui si accennava in precedenza. Le radici delle viti penetrando nelle profondità di questi depositi cretoso-calcarei ne assorbono gli elementi salini e minerali di cui sono estremamente ricchi.
Ma il sottosuolo della regione non è sempre uniforme, anzi, esso varia a seconda dei diversi dipartimenti in cui è suddivisa l’area Champenoise: a grandi linee, potremmo suddividerlo come segue (riservandoci di entrare più avanti nello specifico): Marne, Aisne e Seine et Marne sono simili, a parte alcune piccole differenze, con formazioni per lo più argiloso-calcaree e argillose. Côte de l’Ile de France, Chigny les Roses, Bouzy, Verzenay, Trépail, Ambonnay, Epernay, parte della Vallée de la Marne e della Côte des Blancs, presentano invece un sottosuolo di craie bianco ricchissimo di sedimenti di calcarei (68%). Vi sono poi altre formazioni geologiche riguardanti piccole aree vitate: Vitry-le-François, che presenta un craie grigio, contenete argilla (94%); Congy-Villevenard, viceversa, ha una buona parte di craie (36%) misto a sabbie silicee, argille e marne bianche e verdi. L’Haute Marne e, più a sud, l’Aube hanno sottosuoli risalenti al Giurassico (146-151 milioni di anni fa) composti da calcare (34%), marne bianche e verdi (33%) e sabbie silicee (27%). Unica e strana eccezione è il territorio di Montgueux, dove troviamo un craie, formatosi circa 80 milioni di anni fa, contenente marne grigie e carbonati, più calcareo nella parte collinare e maggiormente argilloso verso valle. Questo mixage di differenti sostanze gessose, fossili e minerali si evidenzia sia come fonte di nutrimento essenziale per i vigneti, che come cattivo conduttore del calore solare, infatti, lo immagazzina d’estate e lo restituisce assi lentamente durante l’inverno; assicura inoltre un buon drenaggio delle acque in eccesso, favorendo anche l’assorbimento dell’umidità nei periodi troppo piovosi, che potrà essere poi resa a disposizione delle radici della vigna in estate, attenuando così gli effetti di eventuali periodi siccitosi.
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IL CLIMA In Champagne la temperatura annua è mediamente di +10°. Essendo una zona continentale, spesso a periodi di mite clima atlantico seguono giornate di freddo clima nordico, questa situazione, combinata alla conformazione più o meno collinare del terreno ed alla presenza di valli e foreste, rende una moltitudine di diversi microclimi. Questa “presenza verde” dominante le cime delle colline ed estesa anche a varie parti degli altopiani circostanti, contribuisce a trattenere l’umidità ed a creare una buona stabilizzazione delle temperature, perché la vite, per potersi sviluppare al meglio, necessita di climi e umidità costanti. I vigneti champenoise assorbono circa 6/700 mm. d’acqua (più a Epernay che a Reims) durante l’arco dell’anno, più a luglio (il mese più piovoso) che a febbraio (il mese con le minori precipitazioni). Malgrado quanto espresso sopra, la regione non è scevra da deleterie gelate invernali (in media 3/4 giorni l’anno) che abbassano la temperatura molto al di sotto delle medie (fino a -10°), e che spesso arrecano gravi danni sia ai germogli, nel periodo vegetativo, che ai ceppi della vite. Per citare uno degli anni più neri ricordiamo il 1985 quando d’inverno il termometro scese a -25° distruggendo più di 1/5 dei vigneti champenoise; Anche in primavera, o più raramente in autunno, improvvise gelate notturne o bizzarri sbalzi di temperatura possono causare danni nelle fasi di fioritura e ridurre così le rese vendemmiali; infine anche probabili ed improvvisi temporali estivi, a volte accompagnati da violente grandinate, potrebbero arrecare più di un danno a vaste parti dei vigneti.
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UN’ECCEZIONALE VENDEMMIA 2018 Il CIVC: “Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne” - che ha sede a Epernay e riunisce tutti i viticoltori e tutte le Maison di Champagne - ha reso pubblici i dati salienti della vendemmia 2018, definendola così: precocità, qualità, quantità… decisamente fuori dalla norma. Iniziata il 20 agosto, la vendemmia 2018 pare sia stata la quinta a svolgersi in tale mese negli ultimi 15 anni, grazie a un clima eccezionale, alla positività della vendemmia: i numerosi grappoli erano in perfetto stato sanitario con buona aromaticità e ricchezza di zuccheri. La resa commerciabile dichiarata di 10.800 kg/ha sarà raggiunta in tutte le aree e la raccolta di questa annata favorevole, permetterà a Vigneron e Maison di ricostituire la riserva interprofessionale che potrà poi essere usata per migliorare le cuvèe in eventuali future annate sfavorevoli. Saranno comunque solo le prossime degustazioni (invernali e primaverili) a confermare le speranze di un millesimo eccezionale. (M.F.)
LE SOTTOZONE La tradizione vuole che il territorio champenoise sia diviso in 4 Macroregioni: Montagne di Reims e Côte des Blancs-Sézannais - nel dipartimento della Marna; Vallèe de la Marne tra Marna e Aisne; Côte des Bar (Aube) situata a circa 110 Km, sud-est di Reims. Ognuna di queste macro-zone raggruppa però altre aree che hanno caratteristiche assai differenti tra loro (18 in tutto):
MONTAGNE DE REIMS Con altezze medie dei rilievi che non superano i trecento metri; i terreni sono normalmente esposti a sud, tuttavia vi sono anche alcune aree esposte a nord, dove la maturazione delle uve è garantita dalla discesa a valle, durante la notte, dell’aria calda creatasi nelle ore diurne e soleggiate delle zone più alte. Qui il vitigno predominante è il Pinot Noir e lo Champagne della zona è assai rinomato per la sua potenza e grande struttura. Le sottozone sono 5: • Montagne de Reims: che si estendendono a raggera da Tours sur Marne fino a Rilly la Montagne. • Vallè de la Vesle: a sud di Reims. • Vallè de l’Ardre: a ovest di Reims • Massif de Saint Thierry: a nord-ovest di Reims. • Monts de Berru: a nord-est di Reims.
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VALLÉE DE LA MARNE I vigneti della Vallata della Marna sono posti di fronte alle Montagne di Reims. Il vitigno principalmente coltivato è il Pinot Meunier, che nello Champagne produce un bouquet fruttato e grande morbidezza. Le sottozone sono 6: • Grand Vallèe de la Marne: a nord-est di Epernay. • Coteaux Sud d’Epernay: a sud e sud-ovest. • Vallèe de la Marne rive droite: da Epernay a Dormans. • Vallèe de la Marne rive gauche: da Mardeuil a Dormans. • Terroir de Condè: a sud lungo il fiume Surmelin. • Vallèe de la Marne occidentale: a valle di Dormans e nell’Aisne.
CÔTE DES BLANCS E SÉZANNAIS Così hiamata, perché vi si producono quasi esclusivamente uve bianche. Tale zona si estende, a forma di falce, da nord a sud per una ventina di chilometri, sino alla Cote de Sézanne, situata ancor più a meridione. Il vitigno principale è lo Chardonnay, che dona agli champagne della Côte des Blancs finezza ed eleganza. Le sottozone sono 4: • Cote des Blancs: da Epernay fino a Vertus. • Val du Petit Morin: a ovest e sud-ovest di Vertus. • Cote de Sezanne: il punto più a sud della zona. • Cote de Vitryat: piccola area a sud-est vicino alla città di Vitry.
AUBE Chiamata anche Cote de Bar, perché si estende dal Comune di Bar-su-Aube a quello di Bar-sur-Seine; un tempo era senza dubbio la zona vitivinicola meno considerata della Champagne, mentre oggi gode di un’ottima rivalutazione. Il vitigno principale è il Pinot Noir e particolarmente rinomati sono gli Champagne rosé della zona, rotondi e dagli aromi complessi. Le sottoregioni sono 3: Barsuraubois: che circonda Bar sur Aube, zona più vicina a Chablis. Barsequanais: attorno a Bar sur Seine, che è la parte più meridionale. Montgueux: a ovest di Troyes.
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ASSAGGIO DI
LIBRI a cura di Giorgia Zucchi
ENCICLOPEDIA ENOGASTRONOMICA DELLA ROMAGNA Primo di tre volumi ideati per raccogliere e riassumere la straordinaria ricchezza della civiltà enogastromica romagnola. Un libro raro e incantevole che rappresenta la Romagna dal punto di vista della tavola e del cibo, per viaggiare a ritroso nel tempo, guidati dalle parole di intellettuali o poeti, come Tonino Guerra. Volume 1 - di Graziano Pozzetto - Società Editrice Il Ponte Vecchio - 340 pagine - Euro 14,36
ALBANA Dove nasce, la sua storia, chi lo produce. L’Albana è un vino legato indissolubilmente alla sua terra, la Romagna, generosa e ospitale, un luogo dell’anima. Giovanni Solaroli e Vitaliano Marchi hanno scritto un libro che profuma proprio come un calice d’Albana e che racconta tutto quello che c’è da sapere su questo vino/vitigno, descrivendolo come l’autentico vessillo del vino romagnolo.
di Giovanni Solaroli e Vitaliano Marchi Società Editrice Il Ponte Vecchio - 165 pagine Codice ISBN: 978-88-6541-733-1 - Euro 15,00
LA CUCINA DEL CASTELLO DEL NERO Con un’attenzione totale ai prodotti e ai dettagli, “La Cucina del Castello Del Nero” è un libro che racconta l’esaltante cucina di Giovanni Luca Di Pirro, executive chef (una stella Michelin) del Resort Castello del Nero, accompagnata dalle belle immagini di Claudio Mollo. Un viaggio visivo, prima che un ricettario, dove le ricette sono consultabili e scaricabili esclusivamente tramite il “QR Code” rintracciabile all’inizio della pubblicazione.
di Giovanni Luca Di Pirro e Claudio Mollo - 80 pagine
IL GRANDE LIBRO DEI RUM Dopo il successo della prima edizione datata 2013 (premiata all’International Rum Conference di Madrid del 2014 come “Mejor Labor Educacional en el Mundo del Ron ano 2013”), l’autore presenta la nuova edizione 2018: “Sono orgoglioso di offrire al pubblico degli appassionati di questo distillato con radici centenarie - dichiara Davide Staffa - questa rinnovata versione, implementata con oltre il 50% di contenuti in più rispetto alla precedente, con l’inserimento di numerose foto nuove molto accattivanti, ma soprattutto resa molto elegante dalla interpretazione grafica del gruppo editoriale La Madia Travelfood di Cesena (e alla sensibilità e capacità di Giorgia Zucchi in particolare). 686 pagine a colori con una copertina in tela di rara bellezza: all’interno, oltre alla storia della canna da zucchero e del rum, vengono raccolte e descritte oltre 900 etichette di rum con le relative aziende produttrici. Lo definisco - conclude Staffa - un capolavoro unico nel suo genere, molto apprezzato e ricercato da un pubblico europeo nonostante per ora sia scritto solo in italiano”.
di Davide Staffa - 2ª edizione - La Madia Editore - stampa a cura della Tipografia Valgimigli di Faenza 686 pagine - cm. 21x28 - Euro 59,00
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EDITORE La Madia srl Sede legale: Via E. De Amicis, 53 - 20123 Milano (MI) Sede operativa: Via Pacchioni, 365 - 47521 Cesena (FC) Tel. 0547 23821 - Fax 0547 25809 Internet: www.lamadia.com - E-mail: lamadia@lamadia.com
CONFEDERATION EUROPEENNE
DES GOURMETS La famiglia dei Gourmets europei si è data una nuova dimensione per valorizzare
il piacere
della convivialità e della cultura
enogastronomica italiana
Direttore responsabile: Elsa Mazzolini La Madia srl è parte del Gruppo Cose Belle d’Italia www.cosebelleditalia.com
REDAZIONE Caporedattore: Maria Chiara Zucchi Impaginazione: Andrea Amadori Stampa: D’Auria Printing SPA - (AP) Web e Social: Giorgia Zucchi - Alessandro Sandini Redazione e centro di distribuzione in Gran Bretagna: ALIVINI Company Limited - London - Tel. +44 20 8880 2525
COLLABORATORI Domenico Acconci, Giovanni Angelucci, Silvia Bianco, Daniele Briani, Teresa Cremona, Giulia Gavagnin, Giuseppe De Girolamo, Maurizio Di Dio, Gianni Di Lorenzo, Fabio Ferrantino, Lorenzo Ferrari, Luigi Filippi, Lisa Foletti, Lucy Gordan, Verdiana Gordini, Cristiana Lauro, Giuseppe Lo Russo, Furio Lottatori, Giovanni Mastropasqua, Antonietta Mazzeo, Alessandra Meldolesi, Claudio Mollo, Alessia Pellegrini, Giacomo Pilati, Alessandro Ricci, Gianluca Ricci, Alessandro Rossi, Simone Rosti, Flavia Tomaello, Marco Tonelli, Primo Vercilli. Fotografi: Nikoboi, Pasquale Spinelli, StudioGraf, Lido Vannucchi Illustratori: Patrizia Zavatti
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