La Madia Travelfood n. 332 - Novembre 2018

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SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 332 GOURMETFOOD

INTERVISTA A...

di

Lucy Gordan

pag. 31

pag. 84 SPECIALE MILANO

FLYNN McGARRY

Sempre più elevata la qualità dei ristoranti a Milano.

Il Justin Bieber del cibo, chef prodigio a New York.

La cultura del benessere

Antonio Guida al “Seta” è “cuoco da re”

Protective food: i cibi che proteggono dalle malattie

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 46

di Primo Vercilli................................................................ pag. 8

Gialle&Co., baked potatoes dal cuore italiano

La scelta vegana

di Camilla Rocca............................................................... pag. 52

Novembre è il World Vegan Month

La Griglia di Varrone

di Silvia Bianco................................................................. pag. 10

di Cristiana Lauro............................................................. pag. 54

Il menu engineering

Ernst Knam, il re del cioccolato

Come rilanciare piatti dall’enorme valore inespresso

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 58

di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 16

Ristorante Manna,

Chissenefood

l’alta cucina “volgare” di Matteo Fronduti

Le parole che non ti ho detto:

di Lisa Foletti.................................................................... pag. 62

advice for the young foodwriters

Pont de Ferr, l’osteria dell’anima sui Navigli

di Cristiano Giliberti.......................................................... pag. 19

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 66

Eventi

Il sistema Stumpo nei locali Mamma Rosa,

A Pesaro gran successo per la Pizza Rossini

La Tavernda dei Golosi e Osteria Italiana

di Giuseppe De Girolamo................................................. pag. 22

di Giulio De Ambrosis Vigna............................................ pag. 71

Chef di Spirito

Trussardi alla Scala:

La Cicoriella

l’operosità e il tocco aristocratico di Roberto Conti

di Sonia Leo..................................................................... pag. 25

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 74

Buone Nuove..................................................................... pag. 30

Pescheria Pesce Vivo

Speciale Milano

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 80

Marco Ambrosino

Vinaria

e il mediterraneo contemporaneo di “28 posti”

Il focus di Alessandro Rossi

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 32

La mineralità nel vino è una percezione tattile

La Bottega del Vino

di Alessandro Rossi......................................................... pag. 90

di Cristiana Lauro............................................................. pag. 38

Percorso tra i Vini d’Abruzzo

Eugenio Boer

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 92

di Giulia Gavagnin............................................................ pag. 40

I Crémant

Il bello e il buono di Cracco in Galleria

di Mario Federzoni........................................................... pag. 94

di Cristiana Lauro............................................................. pag. 44

Peodere dell’Angelo di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 97




EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

IGNORANTE CHI? È fin troppo frequente su Facebook imbattersi in soggetti che, quando non ti insultano al primo contraddittorio, pontificano, vogliono insegnarti a vivere, danno per oggettive le proprie convinzioni politiche, ritengono di avere a che fare con un mondo abitato, eccetto loro, da minus habens. Già la presunzione di superiorità è di per sé un limite, già il ritenere oggettivo il proprio pensiero è oggettivamente un paradosso, ma quanti di noi sono coscienti del fatto di “sapere di non sapere”? Una recente indagine dell’Ocse rivela che nel nostro Paese i cittadini incapaci di capire un testo semplice sono il 47% della popolazione. Ma chi pensa che “l’analfabeta funzionale” (o, più semplicemente, l’ignorante) si annidi solo nelle fasce marginali delle periferie, sbaglia. A non comprendere le indicazioni di un telefonino (io!), di un contratto di lavoro, di un documento della pubblica amministrazione, di un bugiardino, di una lettera di un avvocato sono i figli della media borghesia, i politici, i professionisti di vario genere, tutti accomunati da una superficiale infarinatura culturale e da un sostanziale disinteresse per tutto ciò che non sia prettamente materiale. Basta assistere ai quiz televisivi per rendersi conto di quanto siano profondi gli abissi dell’ignoranza, ma andrebbe ascoltato anche l’economista Tito Boeri che attribuisce a questo vulnus sociale l’attuale ristagno economico. Dunque, tornando a bomba, quando ci accaniamo a criticare la presunta insipienza o ottusità altrui, siamo certi di non essere noi gli ignoranti inconsapevoli?

ME

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LACULTURADELBENESSERE

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

GLI ALTRI AMICI DELLA SALUTE

PROTECTIVE FOOD

I CIBI CHE CI PROTEGGONO DALLE MALATTIE Abbiamo visto, nei precedenti articoli, quali sono i cardini alimentari nemici della salute: eccesso di zuccheri, eccesso di grassi saturi e carenza di fibre. Poi abbiamo anche dato un’occhiata ai “cibi della longevità” che hanno una marcata azione di modulazione della funzione dei nostri geni, primi tra tutti i geni dell’invecchiamento. Ora invece voglio accennarvi ad un’altra categoria importantissima di cibi che hanno invece una funzione protettiva: non agiscono quindi attraverso la modulazione dei geni, ma piuttosto intervengono in diversi meccanismi biochimici e metabolici proteggendo il nostro organismo dall’azione di radicali liberi, di processi infiammatori e di micro alterazioni della parete intestinale che, a lungo andare, possono portare ad una gamma impressionante di disturbi o, addirittura, di patologie. Ma quali saranno questi fantastici alimenti? Anche qui, forse, sperate nel vostro intimo che tra questi alimenti protettivi ci possano essere brioche alla crema, patatine fritte e bevande zuccherate, ma, purtroppo, rimarrete molto delusi: ancora una volta dobbiamo affermare che gli alimenti che hanno una maggior funzione protettiva sull’organismo sono verdura, frutta fresca e frutta a guscio, legumi, cereali integrali, semi, senza tralasciare olio, erbe aromatiche e aglio per i condimenti! A questo punto molti potrebbero obiettare: “ma io questi alimenti li mangio

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sempre!”. Tante volte, durante le visite che faccio, le persone sono assolutamente convinte di seguire un’alimentazione sanissima, poi invece si scopre che i legumi vengono consumati non più di 1 volta a settimana (se va bene); la frutta non più di una volta al giorno (come anche la verdura); frutta a guscio e semi non li menzioniamo neanche: quelli li mangiamo solo nel periodo natalizio; ma la cosa più preoccupante è che ci dimentichiamo di dire che inframmezziamo tutti questi “super-cibi” con carni processate (salumi, affettati, insaccati), prodotti industriali di ogni genere, salse, formaggi, bevande alcoliche o zuccherate o dolcificate, prodotti ad alto indice glicemico e chi più ne ha più ne metta. Ma, nonostante l’utilizzo frequente di queste tipologie di alimento, siamo assolutamente convinti di mangiar bene! Vi assicuro che conta molto poco consumare una manciata di noci se poi il nostro pranzo è fatto da pane, affettato e formaggio: quelle noci saranno come degli eroici soldati che verranno immolati inutilmente, annientati dall’effetto di grassi saturi, sodio, proteine animali e carboidrati ad alto indice glicemico che vengono forniti con il nostro succulento panino! I “protective food” non sono cibi che possono, se presi occasionalmente e in minime quantità, proteggerci da qualcosa: è come dire che pretendiamo di mettere 2 soldati in trincea che ci difendano dall’attacco di


LACULTURADELBENESSERE

1000 nemici! Assolutamente ridicolo! Per far sì che effettivamente questi cibi svolgano un’azione protettiva degna di questo nome, dobbiamo costruire delle trincee profonde e metterci dentro molti soldati, tutti ben addestrati. Ecco quindi come fare: a) La quantità di frutta e verdura della giornata non deve mai essere inferiore alla metà della quantità totale di cibi che ingeriamo (e già qui penso che chi legge queste righe si stia letteralmente disperando!); in più la quantità di verdura deve essere superiore a quella della frutta; b) Frutta e verdura devono essere prevalentemente crude; bisogna inoltre variare il più possibile la tipologia (rispettando nelle scelte sempre la stagionalità) e far sì che, durante la settimana, compaiano tutti i colori (blu/viola – verde – giallo/arancione – rosso – bianco), in quanto ogni colore è portatore di qualità antiossidanti e metaboliche peculiari e importantissime; c) I legumi vanno consumati almeno 3 volte a settimana; d) I cereali devono prevalentemente essere integrali, da agricoltura biologica, almeno in una proporzione del 70% rispetto a quelli raffinati; e) La frutta a guscio deve essere presente quotidianamente nella misura di 30 grammi; f) Quotidianamente devono essere presenti olio di oliva, erbe

aromatiche, aglio; attenzione all’olio: che sia di oliva o di mais o di riso è l’alimento più calorico che esiste. Se esagerate, rischiate di apportare tante calorie quanto un piatto di pasta! Ecco, già con queste poche regole possiamo contare di avere dei soldati che possono realmente combattere senza pensare di uscirne costantemente sconfitti: poi il resto starà a noi. Quanti nemici gli vogliamo mettere contro? Se cominciamo a pensare che tutte le volte che facciamo un aperitivo a buffet al posto della cena, tutte le volte che ci soffermiamo davanti ad un hamburger con salse, patatine fritte e bevanda, tutte le volte che ci consoliamo con una fantastica torta alla crema (anche fatta in casa!) è come se costruissimo un esercito di nemici che andrà a combattere contro i nostri bravi soldatini che sono là pronti a difenderci! Amici, la salute è una conquista da fare ogni giorno. Tutte le volte che ci dimentichiamo di questo ricordiamoci invece quanto penalizziamo i nostri soldatini, i nostri difensori, i nostri protettori, che sono lì, in trincea, a far sì che (ancora una volta, quella che giuriamo che sarà l’ultima!) possiamo gustarci la nostra salsa BBQ che inonda delle fantastiche salsicce bruciacchiate, inglobate in un morbidissimo pane ad alto indice glicemico!

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LA SCELTA VEGANA

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

NOVEMBRE È IL WORLD VEGAN MONTH

ECCO ALCUNI RISTORANTI VEGETARIANI E VEGANI DI MILANO PER CONOSCERE LA CUCINA PLANT BASED Ogni anno il 1° novembre in tutto il mondo si festeggia la ricorrenza del World Vegan Day ed il mese di novembre viene considerato il World Vegan Month per celebrare l’anniversario della coniazione del termine “vegan”, avvenuta il 1° novembre del 1944, come contrazione di “vegetarian” (le prime tre e le ultime due lettere). In quel momento fu fondata The Vegan Society da Donald Watson (1910-2005) ovvero “una filosofia e stile di vita che cerca di escludere - nel limite del possibile e praticabile – tutte le forme di sfruttamento e di crudeltà rivolte agli animali per ricavarne cibo, vestiario ed ogni altro prodotto, e per estensione, promuove lo sviluppo e l’utilizzo delle alternative ai prodotti di origine animale per il beneficio dell’umanità, degli animali e dell’ambiente. In termini di regime alimentare denota la pratica di sbarazzarsi di tutti i prodotti interamente o parzialmente di origine animale” Cit The Vegan Society, The Memorandum and Articles of Association, 1979. Essere vegano non è solo nutrirsi senza derivati animali, è escludere dalla nostra quotidianità tutto ciò che implica sofferenza animale, umana e dell’ambiente sia come sottoprodotti, sia come servizi. Molto spesso la scelta alimentare di vegetariani e vegani viene ancora percepita come decisione etica che implica per forza rinunce a tavola. Ancora oggi in molti pensano che l’alimentazione plant based sia fatta di insalatine, verdure grigliate, semi e legumi, quando si dimenticano che molti dei piatti della tradizione nascono vegani. Il semplice piatto di spaghetti al pomodoro S. Marzano con foglioline di basilico è un pilastro della cucina italiana ed è semplicemente…vegano oltre che buonissimo! Fortunatamente l’offerta vegetariana e vegana in Italia ed in tutto il mondo si sta moltiplicando a dismisura, ad esempio nel capoluogo lombardo ci sono circa 150 esercizi

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che offrono opzioni vegetariane e vegane, la scelta è molto variegata, dai locali formali e ricercati, a piccoli bistrot e gastronomie, a locali etnici, esotici e spirituali, ce n’è davvero per tutti i gusti. Ecco perché vi propongo 7 tra i migliori locali vegetariani e vegani di Milano (ma ripeto, ce ne sono molti altri ancora!) che soddisfano i palati più esigenti, ma anche quelli di chi vegano non è. Scoprirete che nutrirsi nel rispetto di tutte le forme di vita e dell’ambiente che ci accoglie è molto più facile e buono di quanto possa sembrare!

SOUL GREEN

Piazzale Principessa Clotilde ang. via Vespucci Ristorante nel cuore di Milano che nasce dall’esigenza contemporanea di una cucina healthy e sempre più green. L’atmosfera del bistrot è in stile contemporaneo, un mix tra il coloniale e l’industriale che si rifà al look dei locali più modaioli di New York e Berlino. L’arredamento interno è scaldato da piante rampicanti sulle pareti e a cascata in stile string-garden sul soffitto. Muri délabré, colori tenui, tavoli e sedie in stili diversi (legno, marmo e velluto). Una semplicità ricercata e curata nei dettagli. Il mobilio è ricavato da materiali naturali di legno riciclato, creando dei veri e propri mobili di design. Il locale è molto luminoso, grazie alle ampie vetrate perimetrali. Insomma, un’oasi green nel centro città, per chi vuol sentirsi anche un po’ trendy. La cucina è a vista ed è specializzata in pietanze rigorosamente plant-based ed interamente senza glutine. Il menu è ricchissimo, i piatti colorati, completi e bilanciati a livello nutrizionale. Si ordina in totale autonomia direttamente da Ipad a disposizione di ogni tavolo. I musttry del locale sono le Souls Bowls che sono piatti unici completi


LASCELTAVEGANA

© Giovanni Panarotto © Giovanni Panarotto

© Francesco Mion

e bilanciati che uniscono i migliori ingredienti italiani a profumi esotici: ad esempio la Lebanese bowl con quinoa, hummus e falafel; la Thai bowl un curry verde, verdure miste e riso saltato; l’Italian bowl con cecina, peperoni, caponata, pesto e pomodori, la Caribbean bowl con platano, riso, latte di cocco, ananas, coriandolo, peperoni, pomodoro, peperoncino, origano; l’Indian bowl con riso basmati, piselli, cumino, tofu, latte di cocco, coriandolo, carote, lenticchie, curry. Le porzioni di ogni piatto sono generose ma corrette. Da non perdere anche la ricca scelta di vegan burger, creati unendo legumi, cereali spezie e verdura (fagioli neri, riso integrale, noci, cipolla, curry; barbabietola, quinoa bianca, riso rosso, funghi, paprika; ceci, spinaci, cumino, coriandolo, cipolla, tahini; ceci neri, pomodori secchi, olive, timo, maggiorana; topinambur, patate, menta, pepe nero), magari accompagnati da dissetanti estratti a freddo (così non si perdono le proprietà nutritive) o smoothie della casa che sono delle vere e proprie ricariche di energia in bicchiere a base di frutta e verdure. Nei bites & appetizers non perdetevi il vassoio di formaggi a base di anacardi, serviti con crackers e coulis! I dolci sono senza burro, uova e farine raffinate, ottima la mousse al cacao a base di avocado, burro di cacao e nocciole, il minicookie a base di farina di avena e nocciole, i tartufini di anacardi, o il biscotto di farina di riso e caffè accompagnato da gelato al caffè. Soulgreen è anche wine lounge, con una selezione di vini biodinamici e vegani provenienti da alcune delle migliori cantine italiane e internazionali. Soul green fa parte del programma di charity “Proud to Give Back”, in collaborazione con “Mission Bambini” che nel 2018 si impegna a garantire 3 pasti al giorno a 280 bambini ex lavoratori reintrodotti presso il centro educativo di Rayavarm, Markapur, India.

© Francesco Mion

JOIA

Via Panfilo Castaldi, 18 Nato nel 1989, come laboratorio avanguardista della cucina vegetariana dello Chef Pietro Leemann (foto sopra), negli anni ha saputo farsi conoscere ed apprezzare, tant’è che nel 1996 il Joia è il primo ristorante vegetariano d’Europa a ricevere la stella Michelin. L’ambiente del locale è raffinato e di classe, la cucina è dotata di un’enorme vetrata che la rende visibile ai clienti e da dove si possono scorgere i 16 cuochi al lavoro intenti a garantire ai propri ospiti un’esperienza unica dallo standard elevatissimo. La cucina di Leemann è una cucina Zen-Occidentale, frutto dei viaggi e delle esperienze orientali dello Chef, un mix in continua trasformazione che spazia dalla tradizione vegetariana italiana, all’alimentazione consapevole, alla dietetica cinese, il tai-chi , l’ayurveda e la cultura Vedanta. Utilizza ingredienti, ma anche aspetti culturali orientali, come l’estetica dei piatti e lo zen. La stretta connessione mente-corpo avvalora l’impegno di Leemann per uno stile di vita naturale e sano attraverso una cucina volta ad essere in armonia e rispettosa del creato e di tutte le sue forme. Al Joia vengono trattate materie prime rigorosamente biologiche e di primissima qualità, che esaltano i sapori e danno vita a piatti eccelsi. Da provare in particolare il menu a degustazione (l’ideale per addentrarsi appieno nella cucina di Leemann) a scelta fra “La Scoperta”, “l’Enfasi della natura” e “Zenith”, oppure un menu a la carta dove si può scegliere tra 4 antipasti, 4 primi, 4 zuppe, 4 secondi ed un’ottima proposta di dolci squisiti ed equilibrati. Il Joia ha anche il suo bistrot “Joia Kitchen”,

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LA SCELTA VEGANA

dove a pranzo è previsto un piatto unico a prezzi accessibilissimi a tutti, mentre a cena un menu degustazione completo a prezzi più contenuti rispetto al ristorante, ma ogni piatto proposto è sempre una vera opera d’arte proprio come gli irrinunciabili piatti gourmet offerti nel ristorante Joia. L’esperienza gourmand del Joia è da provare almeno una volta, anche da chi non è vegano.

ALHAMBRA

Via S. Gregorio, 17 Gastronomia vegetariana e vegana, situata in una zona tranquilla a due passi dalla Stazione Centrale e Corso Buenos Aires e dispone anche di tavolini all’aperto. Aperto sino a tarda serata, è un locale informale, un ambiente alla mano, ma accogliente con lo staff sempre disponibile e sorridente. Il ristorante è conosciuto per la sua cucina etnica rivisitata in chiave veg, Qui è possibile scegliere tra tanti piatti di qualità, dai sapori naturali ma molto gustosi, sempre diversi ogni giorno, nella formula a buffet o a menu fisso. Buon cibo a prezzi onesti con ordinazione al bancone ed il prezzo al peso, semplicità degli impiattamenti, ma a tutto gusto! La scelta è davvero variegata, tra i piatti più apprezzati lo spezzatino di seitan ed il loro tiramisù 100% veg, ma anche spaghetti integrali con ragù di seitan; zuppa di verdure; grano saraceno con legumi; falafel; zucca al forno con origano e timo; sformati di verdure con besciamella veg; farinata; lasagne; risotti con spezie ed aromi esotici e una notevole varietà di vellutate. Offerti col pasto, ci sono il loro pane ed hummus speziati, accompagnato da una tisana delicata. C’è la possibilità di pranzare e cenare, ma consiglio vivamente di prenotare perché il locale è molto frequentato.

LA COLUBRINA Via Felice Casati, 5

Una trattoria a gestione familiare (le chef sono mamma e figlia) nasce come locale tradizionale, ma negli anni ha inserito sempre più proposte vegan, tanto da arrivare ad avere un ampio menu di piatti vegetariani e vegani seppur continuano ad esserci quelli della consueta cucina tradizionale. La cucina è di tipo casalingo, l‘ambiente è semplice, ma veramente accogliente con tavoli in legno e luci calde. Il locale apre già per colazione dove le proposte sono dolci (torte, crostate, brioches vegane, brownies, donuts, pancake, cheesecake, etc) e salate (pizza, focaccia, farinate, sformati di cereali e legumi) tutto preparato artigianalmente dalle manine sante di Consuelo e della mamma Franca. A pranzo e a cena il menu è molto ricco, con vasta scelta di piatti vegani, persino crudisti e gluten free: dalle pizze con farine biologiche ed integrali con mozzarella di riso, alla parmigiana crudista, spaghetti di zucchine “cacio e pepe”, ottime paste fatte in casa

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come le tagliatelle Senatore Cappelli tartufo e broccoletti, le orecchiette, i ravioli di farro, yuca e batata e gli gnocchi di miglio e zucca con funghi shiitake. Per poi passare a deliziosi burger vegetali, insalatone, sformati di verdure, supplì, spalmabili di anacardi e tanto altro ancora. Un must da non perdere è l’aperitivo, con una proposta ricca, anzi ricchissima di ogni bontà vegan, dal cotto al crudo, dal salato al dolce, è un vero momento di condivisione della cucina de La Colubrina che tutti, vegani e non, devono provare almeno una volta, ma mi raccomando, prenotate perché è richiestissimo e rischiate di non trovare posto!

SHAOLIN STATE OF HARMONY RAW VEGAN Via Teglio, 11

Nato nel settembre 2015, è situato all’interno del Centro Culturale Shaolin di Milano, Accademia di Scienze ed Arti Tradizionali della Cultura Shaolin, associazione no profit dove si studia, si esercitano le arti marziali, si medita e si mangia, secondo appunto la filosofia Shaolin. Shi-Heng-Ding è la Maestra che ha ideato e gestisce il ristorante, si occupa di divulgare la Cultura Shaolin ed è discendente della 35° generazione di monaci guerrieri Shaolin. Oltre ad essere educatrice sociale in Arti Marziali, Sport da Combattimento, Discipline Orientali e Presidente dell’Accademia-Centro Culturale, è Chef del ristorante. E’ dotata di straordinarie capacità da autodidatta nella presentazione dei piatti e con un fortissimo senso estetico e nell’armonia dei sapori. Shaolin State of Harmony – Raw Vegan non è semplicemente un ristorante, ma un tempio della nutrizione per il Corpo e per l’Anima attraverso la tradizione spirituale dei Monaci Shaolin e la Medicina Tradizionale Cinese, in sinergia con l’Occidente e le pratiche dell’Igienismo e del Crudismo. La cucina è vegana, crudista ed anche fruttariana, etica ed igienista e quindi senza alcun prodotto animale, il cibo è “cotto” al massimo a 42°, ovvero essiccato, mantenendolo, organoletticamente parlando, integro con tutte le proprietà nutritive, vitamine ed enzimi. Talune preparazioni prevedono l’aggiunta di Superfood che intensificano le qualità nutrizionali e gli antiossidanti rendendo ogni piatto molto nutriente, ma leggero e realmente energetico oltre che gustoso. I piatti sono creati rispettando le corrette combinazioni alimentari tra ingredienti acidi ed alcalini (dieta del PH+), rigorosamente di stagione secondo la visione olistica della medicina tradizionale cinese, con ingredienti biologici, ad impatto zero, senza glutine e senza conservanti ed additivi chimici. Sembrerebbe un mondo di “senza”, di privazione, ma così non è: i piatti sono molto creativi e coloratissimi, con nomi suggestivi ed invitanti. La mise en place è sorprendente, molto scenografica e colpisce profondamente, perché il motto di Shi-Heng-Ding è “Nutrire corpo e


mente, elevando lo spirito”. L’ambiente dello Shaolin State of Harmony si sviluppa in 4 spazi: un’accogliente e tranquilla sala da pranzo con cucina a vista, il dehor o bio-lounge bar per aperitivi e colazioni, una sala da tè/salotto culturale e il bio-shop. Non è un ristorante chic, ma il servizio è caloroso come un abbraccio. A pranzo, il RawVeg Healthy Bistrot offre una formula molto interessante: il MANDALA LUNCH TIME MediEATion, una “meditazione gustativa” con cibo sano e leggero servito in ciotola simbolo della Terra che nutre e dell’infinito del Cielo e per chi lo desidera, a seguire, può fare anche pratica di meditazione. Secondo la visione olistica della MCT (Medicina Tradizionale Cinese) ogni stagione privilegia un colore ed un gusto specifico nei cibi, questi ci indicano gli alimenti adatti a supportare gli organi del nostro corpo in quel preciso momento dell’anno. In autunno il colore bianco, organi: polmone/intestino crasso, sapore: piccante. In inverno il colore nero, organi: rene/vescica urinaria, sapore: salato. In primavera il colore verde, organi: fegato/ cistifellea, sapore: acido-aspro. In estate, il colore rosso, organi cuore/intestino tenue, sapore amaro. Il menù 4SEASONSSunset, dedicato alla cena, viene preparato attenendosi a questo principio della stagionalità. La sera, il servizio RawVeg Gourmet prevede la possibilità di scelta tra due vasti menu interamente crudisti ed ogni portata è accompagnata da una selezione di pregiati Tè cinesi e rarissimi Tè fermentati e dalla speciale Water Detox ai fiori, frutta, spezie ed oli essenziali.

GHEA

Via Valenza, 5 Si trova nei pressi della Darsena, a due passi dalla movida dei Navigli; ha aperto i battenti nel dicembre 2012 inizialmente come ristorante vegetariano, ma ad oggi è totalmente vegano. Il locale è spazioso e molto luminoso grazie alle ampie vetrate “cielo-terra”. E’ accogliente e ben arredato. Gli arredi sono in legno, in toni caldi del marrone e del giallo e si uniscono al verde di lampade ed oggetti di design e delle rigogliose canne di bambu e di varie piante presenti per tutto il locale, conferendo un’aria informale ed al contempo elegante. Di sera, il locale si

connota di un’aria moderna e raffinata: luci soffuse, buona musica di sottofondo, creano un’atmosfera avvolgente ed intima, ottima anche per delle cene romantiche. Le parole d’ordine nella cucina del Ghea sono qualità, sostenibilità e consapevolezza proprio perché la mission è promuovere una cultura alimentare in sintonia assoluta con l’ambiente e rispettando il delicato equilibrio dell’ecosistema. Per questa ragione, vengono utilizzati solo ingredienti biologici di alta qualità, il più possibile a Km Zero, con menu in continua variazione che seguono il ritmo di semina e raccolto e dei sapori di ciascuna stagione. E’ un vero proprio laboratorio culinario vegano con uno staff giovano ed alla ricerca di piatti creativi e nuovi, ma sempre ispirati alla cucina della tradizione mediterranea. A pranzo viene proposto un buffet caldo e freddo con formula “prezzo a peso” per un pasto più informale e veloce. A cena, il menu stagionale contiene quattro proposte per ciascuna categoria tra antipasti, primi piatti, secondi e dolci. Le portate sono stupefacenti per estetica e gusto. Al Ghea si coccola anche chi soffre di intolleranze alimentari e celiachia, preparando persino menù ad hoc. Ad ogni modo, il menu comprende sempre piatti gluten free, come la tartare di barbabietola alla senape antica con salsa di spinaci e mandorle e maionesi allo zafferano e ai semi di finocchio: il riso venere con burro di noci e pere, cialde al rosmarino e riduzione di aceto balsamico e tortino di patate con cuore di tofu alle alghe su salsa di broccolo e cavolfiore, cimet-

te scottate degli stessi e cavolini di Bruxelles caramellati. Non gluten free sono le gustosissime tagliatelle integrali con ragout selvatico di seitan al cacao e ginepro, pesto di cavolo rosso e pistacchi, oppure l’intirigante seitan con lenticchie rosse, cipolla rossa al vino e chiodi di garofano su crema di carote. Per concludere in dolcezza la cheesecake di noci di macadamia agli agrumi o la Sacher rivisitata con crema alla vaniglia e crumble di mais sono un peccato di gola tutto da gustare! Ottima anche la carta dei vini, biodinamici e vegani e delle birre artigianali pastorizzate a crudo e per chi non desidera alcolici, da non perdere le proposte di centrifugati freschi di frutta e verdura. Staff impeccabile, cortese e sempre con il sorriso.

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LA SCELTA VEGANA

BISTRÒBIÒ Via Valtellina, 10

Aperto nel 2015, è un piccolo ristorante in zona Isola, molto luminoso e curato, arredato in stile provenzale e con cucina a vista, in modo tale da creare un contatto tra lo chef ed i suoi ospiti, i quali possono percepire l’amore e la passione con cui vengono preparati i piatti dallo chef, il quale, a sua volta, può “conoscere” i suoi commensali. Durante la bella stagione si può usufruire di un carinissimo dehors che riflette l’arredamento del locale interno. Claudio Di Dio (foto in basso) è socio e chef di BistròBiò, proveniente dal mondo della comunicazione e della pubblicità, è diventato chef professionista partendo come allievo dello chef Simone Salvini.

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Da BistròBio ogni giorno è possibile gustare un menu diverso, nel pieno rispetto della stagionalità dei prodotti, con materie prime biologiche di esclusiva origine vegetale, il più possibile a Km Zero, in base a quanto la terra produce ed è disponibile presso le aziende fornitrici a cui si affida. Oltre alla qualità degli ingredienti utilizzati, la classe nell’impiattamento, la ricercatezza negli abbinamenti e nel gusto, una serie di scelte che valorizzano il territorio di origine, il rispetto ambientale, le ricette della tradizione ed al contempo l’innovazione contraddistinguono i piatti di BistròBio. Da uomo di comunicazione, lo chef porta in tavola un messaggio di benessere e gioia perché il cibo è vita, salute e convivialità: ogni portata viene servita con garbo, eleganza e con il sorriso che riservereste al vostro migliore amico, per farlo sentire a casa mentre assapora piatti bilanciati, belli da vedere, da vivere e da mangiare e perché no, anche da condividere. A pranzo, è possibile scegliere il piatto completo dal menu, oppure consigliatissima l’opzione “piatto unico di degustazione”, che offre due proposte di cereali, due proteine vegetali e due contorni con pane integrale fatto in casa ed acqua gratuiti. I dolci sono tutti da provare: dalla torta di carote, alla torta fondente al triplo cioccolato, ma ce ne sono sempre di nuove e si ha davvero l’imbarazzo della scelta. Inoltre è possibile selezionare le bevande tra una buona carta di vini biodinamici e vegani, birre, cocktail, sempre vegani, estratti e bevande a base di frutta.


Ricetta dello chef Claudio Di Dio BistròBio - Milano

Silvia e gli esperti rispondono... Buongiorno, vi seguo con molto interesse e sia io che la mia famiglia cerchiamo di ridurre il più possibile il consumo di prodotti di origine animale. Da sempre io ed i miei bimbi adoriamo i croccanti al sesamo, ma sono fatti con il miele e quindi non li acquisto più. C’è un modo per farli in casa senza miele? Il croccante al sesamo è una sorta di torroncino ai semi di sesamo e la ricetta originale prevede anche il caramello fatto con il miele. E’ un dolce tipico in varie zone del sud, in particolare in Sicilia e in Calabria, dove è molto diffuso. È anche conosciuto con il nome in dialetto di “giuggiulena”, o “giurgiulena”. Spesso è possibile acquistare questa leccornia nelle bancarelle in giro per le città del sud soprattutto durante le festività religiose, in particolar modo la “giuggiulena” viene consumata specialmente nel periodo di feste che va dalla commemorazione dei defunti alle feste natalizie. È possibile farne una versione vegan, in modo molto semplice. Dosi per 12 bastoncini: 200 grammi di semi di sesamo tostati a fuoco moderato (attenzione che bruciano facilmente!!) e mantenuti in caldo; 100 grammi di zucchero di canna a velo, 40 grammi c.a. di sciroppo d’agave. Far sciogliere lo zucchero,lo sciroppo ed 1 o 2 cucchiai scarsi di acqua in un pentolino antiaderente, quando lo zucchero si sarà sciolto completamente ed il composto inizierà ad addensarsi, aggiungete i semi di sesamo tostati in precedenza e tenuti in caldo. Mescolare con cura fino a che il composto risulterà molto appiccicoso. Versate il tutto tra due fogli di carta forno, eventualmente, lievemente unti d’olio Stendete con il mattarello, e lasciate raffreddare. Quando il croccante si sarà raffreddato quasi completamente, staccatelo dalla carta forno e con un coltello lievemente unto d’olio tagliate il croccante a bastoncini. La forma tipica è a rettangoli, rombi e quadrati e solitamente la si guarnisce con delle mandorle o zuccherini colorati sul composto steso e non ancora raffreddato. Per variare e dare un’aromaticità diversa, si può sostituire lo sciroppo d’agave con sciroppo d’acero, sciroppo di fiori di cocco, sciroppo di yacon, malto d’orzo, di riso, etc... Proprio per la presenza dei semi di sesamo, l’origine di questo dolce è attribuita alla cucina araba che ha influito molto nella cucina del sud Italia.

Inviate le vostre domande a: lamadia@lamadia.com

CROSTATINA

di nocciole e cioccolato crudista con crema golosa al cioccolato piccante, frutta fresca e zuppetta di crema pasticcera al limone INGREDIENTI per 4 persone

g. 150 di nocciole, g. 300 di cioccolato fondente, g. 50 di dat-

teri, g. 50 di cacao amaro in polvere, g. 50 di olio di girasole, bevanda di riso q.b., un pizzico di peperoncino, g. 250 di be-

vanda di soia, g. 30 di amido di mais, g. 30 di sciroppo di riso

o altro dolcificante, un pizzico di curcuma, buccia di 1 limone grattugiata, lamponi, mirtilli, passion fruit e frutta a piacere. PROCEDIMENTO

Frullare le nocciole, 100 grammi di cioccolato fondente e i

datteri lasciandoli a grana grossa. Oliare uno stampino da forno e, con il composto frullato, creare una crostatina. Far riposare la crostatina in frigorifero per 20 minuti. In una piccola casseruola sciogliere i restanti 200 grammi di cioccolato fon-

dente, aggiungere una volta sciolto il cacao amaro, il peperoncino e l’olio di girasole e qualche cucchiaio di bevanda di

riso finchè non si formerà una crema liscia. Lasciar raffreddare a temperatura ambiente

In un’altra casseruola versare la bevanda di soia, aggiungere l’amido di mais, la curcuma e lo sciroppo di riso o altro dolcifi-

cante liquido (acero, agave etc.), mescolare bene con la frusta

per non fare grumi e cuocere a fuoco basso per almeno 20

minuti finché non cambia la consistenza da liquido a crema. Laciar raffreddare a temperatura ambiente Lavare e preparare la frutta fresca.

Togliere dal frigorifero le crostatine e farcirle con la crema di cioccolato piccante. In un piatto fondo collocare la base di crema pasticcera appoggiare la crostatina; guarnirla con la frutta a piacere e porre il resto della frutta nel piatto.


IL MENU ENGINEERING

a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

COME RILANCIARE PIATTI DALL’ENORME VALORE INESPRESSO Nella pratica di ingegnere del menu, accade spesso di imbattersi in prodotti, piatti o ricette dall’immenso valore inespresso. In queste righe chi scrive vorrebbe fornire il suo personalissimo metodo per ridar loro nuova luce e liberare tutto il loro potenziale di vendita. Dopo parecchi anni passati a mettere le mani dentro i menu (e i numeri generati da quest’ultimi) posso permettermi di dire che la stragrande maggioranza dei ristoratori in Italia hanno all’interno della loro proposta ALMENO un prodotto con un gigantesco valore inespresso che non viene capitalizzato nel modo corretto. E questo fa perdere opportunità, marginalità e grandi occasioni. A volte è un piatto che si realizza dalla notte dei tempi e che, proprio per questa ragione, viene ritenuto scontato, banale, visto e rivisto... Con la conseguenza che non lo si valorizza al meglio. A volte è un prodotto che ha una splendida storia da raccontare... Che non viene raccontata. Altre ancora non si intuisce il valore del marketing e della comunicazione, e si finisce per privarsi di tali armi. E spesso è un mix delle precedenti. Recentemente mi sono imbattuto in un particolare liquore all’albicocca, servito in un locale bellunese di grande successo, soprattutto per la lungimiranza di chi lo guida da più di sessant’anni. Il liquore all’albicocca in questione mi incuriosì e decisi di approfondire la questione. I titolari raccontarono che era un prodotto tipico e storico del ristorante, realizzato sin dall’apertura, nel

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1954: un bicchierino di liquore all’albicocca, servito con un’albicocca sotto-spirito, fatta in casa, con la loro ricetta segreta. Un mangia-e-bevi per terminare il pasto in allegria. Continuarono raccontando come, negli anni passati, quando la legislazione riguardante gli etilometri era molto più blanda e c’era decisamente più propensione a bere amari e grappe a fine pasto, era un successo e chiunque lo beveva, mentre oggi la pratica era finita in disuso, se non tra qualche storico appassionato. Rimasi davvero colpito di fronte a quell’aneddoto, raccontato con estrema naturalezza e sincerità, e mi resi immediatamente conto di essere di fronte al classico prodotto con un grande potenziale, inespresso. Era necessario – e doveroso, fosse anche solo per rispetto di quella bella tradizione in declino – fare qualcosa per invertire il trend e riportare alla ribalta le vendite di quell’amaro a fine pasto, e così facemmo. Il processo di rilancio è stato questo:


ILMENUENGINEERING

1) Creazione di un nuovo naming. Passammo da «Liquore all’Albicocca» ad «Alpicocca 1954» (tecnicamente è una «crasi», cioè una fusione tra due nomi: Alpina 1954, il nome del locale, e Albicocca, il frutto sotto spirito che accompagnava il liquore stesso). 2) Creazione di una nuova immagine. Con un set fotografico professionale siamo riusciti a ridare dignità ad un prodotto che, anche a livello visivo, aveva tanto da raccontare. 3) Creazione di un copy – cioè una descrizione che lo accompagnava – personalizzato ed emozionante. 4) Nuovo collocamento sul menu. Lo mettemmo in bella vista, a sormontare tutti gli amari e le grappe, per rendere la scelta dell’Alpicocca 1954 quasi obbligatoria, a discapito di altre scelte meno differenzianti e coerenti con il contesto. I risultati non tardarono ad arrivare e, se prima dell’intervento ne venivano venduti circa 70 in 6 mesi (un numero che equivale ad una non-vendita!) ora, solo negli ultimi 2 mesi, ne sono stati ordinati più di 240. Le vendite del liquore sono aumentate di 11 volte, senza colpo ferire.

Sono certo che questo sia solo l’inizio di un lungo, lento ma inesorabile processo di rilancio: la pallina di neve sta solamente iniziando a scendere dalla montagna e trasformarsi in valanga. Il processo per farlo diventare una tradizione, un must, è ancora lungo, ma... è iniziato. Chi scrive l’ha visto succedere decine di volte: il rilancio del liquore procederà praticamente da sé, autoalimentandosi e autosostenendosi tramite il passaparola e riprova sociale. Tra qualche tempo tornerà ad essere un rito di passaggio che chiunque entri in quel ristorante (e che, al contempo, non sarà il guidatore designato!) dovrà compiere. Chi legge cosa può imparare da questo lieto fine? Due cose. 1) Si cerchi di analizzare con occhio lucido e distaccato ciò che si fa: spesso si è seduti sopra una miniera d’oro e non si è grado di rendersene conto. Si guardino i numeri, si ascoltino i feedback dei clienti, si cerchi di leggere tra le righe: quello che può essere scoperto potrà sorprendere davvero tutti. 2) Se si ha a disposizione un prodotto storico, una tradizione, una ricetta decennale (o addirittura, secolare!) non la si cambi nella sua essenza o negli ingredienti che la compongono, ma si lavori sulla metodologia di vendita e di comunicazione, aggiornandola ad oggi. Impossibile sbagliare.



a cura di

Furio Lottatori The Foodie Fighter thefoodiefighter.wordpress.com

LE PAROLE CHE NON TI HO DETTO ADVICE FOR THE YOUNG FOODWRITERS

Nella galassia di gastroscribacchineria in cui capita di imbattersi giornalmente - per chi come me e voialtri 15 affezionati lettori che seguite anche me tra i tanti foodscriventi - non è raro incappare in esempi di una strana e dilagante forma di ipertrofia, grafomane e isterica. Si sa, il mestiere di raccontare ciò che si mangia e si beve, per sua propria natura non è affatto facile: colmare con le parole il gap sensoriale tra cibo vero e ciò che si può esprimere con un’immagine+didascalia è impresa ardua, della quale purtroppo alcuni si sentono all’altezza pur non avendo i necessari requisiti. Finisce così che la smania di fare la differenza, in un campo in cui la gara tra vecchie volpi e giovani leoni è sempre più agguerrita, porti chi scrive di cucina e ristorazione a fare uso improprio dei mezzi a disposizione con risultati variabili: dalla sommessa risatina del malcapitato lettore fino al conclamato sfondone, con tanto di giro virale di (dis) onore sul web. Dalle iperboli azzardate all’eccesso di fantasia, passando attraverso il più veniale peccato di abusare delle solite quattro parole, la gamma degli arricciamenti di naso è vasta quanto la Rete stessa. Alzi la mano chi non ha mai avuto la tentazione - di fronte all’ennesima *ECCELLENZA ASSOLUTA DEL TERRITORIO* - di tirare fuori dallo schermo per il cravattino l’autore dell’articolo e strapazzarlo alla stessa maniera di Nanni Moretti nella famosa scena di “Palombella Rossa”, riservando all’estensore lo stesso trattamento con cui il protagonista annichilisce (e pure schiaffeggia) l’indisponente intervistatrice colpevole di infarcire il proprio discorso con anglicismi e modernismi fuori luogo al grido di: “COME PARLAAA???”. Le parole sono importanti, ma qualche volta i foodwriter del Terzo Millennio paiono non accorgersene, quando le utilizzano come pietre. Da loro, in questi anni, abbiamo imparato l’insostenibile leggerezza con cui utilizzare la parola sostenibilità, abbiamo imparato che non esiste innovazione senza tradizione, che il Km 0 è più importante per un maiale da ingrasso che per un’auto usata, che la filiera non può essere altrimenti se non tracciabile e pertanto corta (come la famosa scala del pollaio…) e che qualsiasi cosa, dalle lasagne della nonna fino al dentifricio, può avere una declinazione Vegan, e Xxxxxx Free, cioè *senza* qualcosa, dal deprecabile Glutine fino al demoniaco Olio Di Palma.

I pronipoti di Buonassisi e Veronelli pompano il suffisso gourmet in coda alla qualsiasi, dall’hamburger alla pizza fino al dentifricio di cui sopra: le loro uscite in locali prestigiosi non sono mai semplici pranzi o cene, ma tasting experiences da settordici portate a scartamento ridotto, delle session da dodici ore incatenati alla sedia, costretti a provare l’intero menu degustazione presentato dalla chef star di turno, definita sovente come visionario, avanguardista, rivoluzionario, pasdaran dell’amatriciana e che citano sempre chiamandolo per nome proprio, come se fosse amicone di vecchia data: “Il benvenuto di CarloMassimo é un’oliva ripiena di estratto di quaglia (una, intera – NdF) su un cucchiaino di mousse di sesso degli angeli e una balena liofilizzata spolverata di plancton”. E se può risultare un po’ fanè la splendida cornice di Piombiana memoria, la location di nuove aperture ed eventi non è mai meno che esclusiva, i locali non sono più bar, ristoranti, bettole o locande, ma diventano “laboratori di idee” dove sviluppare “format e concept”, “spazi open hour” che si estendono dalla colazione all’after dinner transitando per la maledetta Apericena o l’immancabile Sunday Brunch. I piatti della cucina del trentesimo secolo non sono più semplicemente buoni, ma devono emozionare, divertire, commuovere, terrorizzare e mandare in estasi, ogni boccone deve essere un concentrato di contrasti: il caldo e il freddo, il dolce e il salato, la scioglievolezza e la strafottutissima PARTE CROCCANTE, che Dio abbia in gloria chi l’ha inventata al solo scopo che un utonto di trippavvaisor la potesse sbattere in faccia a qualche povero cuoco da pub. Tutto è show, tutto è hype nei ristoranti del boom digitale: di design l’arredamento, di design le posate, maneggevoli come mangiare tenendo in mano due lance da 40 cm. Tutto è improntato alla caccia di un sensazionalismo fine a se stesso che appiattisce verso l’alto ogni cosa, financo le parole, fino al paradosso per cui tutti i protagonisti della scena si ritrovano omologati nella stessa spasmodica ricerca di un’originalità, che trova il proprio vertice tra gli inutili gridolini delle stories di Instagram. #foodporn #èperlavoro, #YUMM e altre amenità di dubbio gusto, a ricoprire foto orrendamente inquadrate sbilenche di piatti presi dall’alto, tutte identiche le une alle altre come le immancabili abat-jour a led sui tavoli dei ristoranti di grido. Identiche come i vostri articoli, boys.

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EVENTI

A PESARO GRAN SUCCESSO PER LA

PIZZA ROSSINI

CON LA PARTECIPAZIONE DEI PIZZAIOLI NAPOLETANI CAMPIONI DEL MONDO di

Giuseppe De Girolamo

Un vero successo, al di sopra d’ogni più rosea aspettativa, è stato quello conseguito con il “Festival della pizza di Pesaro – Rossini”. Oltre 2000 pizze, prodotte e vendute in tre giorni (dal 28 al 30 settembre), rappresentano il soddisfacente bilancio che ha visto la piazza centrale di Pesaro riempita da lunghe file d’attesa per poter gustare una pizza Rossini. I tanti pizzaioli artefici del successo erano guidati da Danilo Pagano, presidente della “Squadra Nazionale Acrobata Pizzaioli Italia”; a questi si sono aggiunti i migliori pizzaioli d’Italia, coordinati dal giornalista Giuseppe De Girolamo, artefice anche delle foto di queste pagine. Primo a esibirsi, il maestro pizzaiolo Michele Leo (ultimo a destra nella pagina accanto), proprietario della Pizzeria

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PIZZAROSSINI

Il Brigante, a Venosa, che al Pizza Village 2018 di Napoli ha conquistato il titolo di campione mondiale per la categoria Pizza Napoletana STG (Specialità Tradizionale Garantita). Dopo di lui si è prodotto per il pubblico il maestro pizzaiolo Salvatore Antonio Grasso (qui sopra al centro), titolare della Pizzeria Gorizia in via Bernini/ Piazza Vanvitelli a Napoli, Vice Presidente dell’Unione Pizzerie Storiche Napoletane “Le Centenarie”. Infine il giorno 30 è sceso in campo il Maestro pizzaiolo Cav. Umberto Fornito (qui sopra a sinistra), titolare

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EVENTI dell’Antica pizzeria Frattese a Frattamaggiore (NA), 1° campione al mondo per la pizza STG nel 2004 al campionato mondiale della pizza di Salsomaggiore Terme, pluridecorato in numerose manifestazioni italiane, europee e mondiali della pizza, fino a conquistare il World Champion Pizza Maker dell’International Pizza Challenge di Las Wegas 2018 - Pizza Expo IPC Winner (massimo trofeo assegnato al mondo per la categoria Pizza). Il Sindaco di Pesaro, Matteo Ricci (a destra nella foto sopra), si è detto soddisfatto del successo, affermando: “Sta andando davvero bene, perché sono più le persone rispetto alle pizze a disposizione: l’esperimento di quest’anno ha superato le più rosee previsioni, a dimostrazione che la “Rossini” rappresenta un pezzo di identità della nostra città; è una pizza stravagante della quale siamo molto innamorati e tutti coloro che l’assaggiano se ne innamorano come noi. Intendiamo quindi far diventare fisso questo appuntamento, magari legandolo a città che, come noi, lavorano sulla musica, ma anche sulla pizza, e Napoli è il nostro partner privilegiato”. Dello stesso parere anche l’assessore alla Bellezza, Vivacità, Cultura e Turismo, Daniele Vimini (a sinistra nella foto in alto) - vice Sindaco della città marchigiana dove appunto ebbe i natali Gioachino Rossini - che ha fortemente voluto i festeggiamenti in occasione dei 150 anni dalla morte di Rossini. Lo scambio di collaborazione per una sempre maggiore diffusione della pizza, patrimonio immateriale dell’umanità, è stato tale che i tre supercampioni di pizza napoletana che hanno presenziato a Pesaro, hanno poi voluto inserire nei loro menu anche la pizza Rossini. Di particolare impegno culturale sono stati i “Laboratori di pizza”, mentre divertente si è dimostrata essere la gara tra i divoratori della “Rossini”, sei mangiatori di pizze, il primo classificato dei quali (foto qui sotto) ne ha ingurgitate ben 11 in 30 minuti.

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Buone Nuove

le novità del mese

GLI OPPOSTI SI ATTRAGGONO:

www.nudeglass.com

LA SEMPLICITÀ DI NUDE E L’ESTROSITÀ DI IRIS APFEL

BN

Il marchio di design globale Nude ha iniziato una collaborazione con la businesswoman americana, interior designer e fashion icon Iris Apfel, con una campagna pubblicitaria mondiale che durerà tutto l’anno, ed unirà l’ethos di Nude “Simple is Beautiful” all’inconfondibile look dell’estrosa novantenne. Durante questa collaborazione Nude presenterà una serie di prodotti da collezionare ispirati dall’esuberante stile di Iris. Tra queste creazioni vi è la rivisitazione del modello Beak - disegnato da Tomas Kral - contraddistinta da colori brillanti ed audaci disegni geometrici; inoltre Nude lancerà una divertentissima mascotte: la bambola Iris Apfel, design di Harry Allen. Ulteriori irresistibili modelli saranno presentati nel corso dell’anno e culmineranno con un’inedita serie che sarà esposta alla fiera Maison & Objet 2019. “Come si può notare, non sono certo una minimalista - asserisce Iris Apfel mi piace stratificare gli accessori e vestirmi a colori, ma questo non significa che io non sia in grado di pensare in mode semplice. Nude è la mia semplicità, la semplicità è uno state of mind. Penso davvero che semplice sia bello”.

NATALE GOURMET

BN

Sempre eleganti e preziose le confezioni che ogni anno l’azienda Loison studia per i propri panettoni, come “Smeraldo”, raffinato involucro per il panettone ai marron glacé, “Rubino”, splendida latta per il “regal cioccolato”, Zaffiro per il Pandoro o il suggestivo Veneziano per il panettone cioccolato e spezie.

NON SOLO VINO… LE ALTRE COLTURE DI BANFI

BN

La passione di Banfi e l’amore per il territorio di Montalcino ci raccontano una storia che va oltre il vino, incoraggiando produzioni altrettanto autentiche e prestigiose. Banfi coltiva infatti anche 39 ettari ad uliveto da cui si produce l’Olio d’Oliva Banfi e l’Olio Poggio alle Mura. Dei 356 ettari di colture erbacee, tutti in regime biologico, si ricordano, infine, le coltivazioni di grano duro varietà Cappelli, che danno origine a quattro formati: le mille righe, i vitoni, gli spaghettoni ed i nastri, essiccati a temperatura inferiore ai 38°C per mantenere inalterate le caratteristiche organolettiche della materia prima macinata presso il Molino Borgioli di Calenzano fino alla lavorazione artigianale e al confezionamento presso lo storico Pastificio Fabbri. Infine il Condimento Balsamico Etrusco, prodotto con percentuali variabili di Moscadello e Trebbiano: dopo la cottura del mosto, passa in botte dove inizia il processo di “balsamizzazione”. Successivamente si procede al progressivo travaso in botticelle di capacità decrescenti per un invecchiamento totale di circa 12 anni.

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www.castellobanfi.com


GOURMETFOOD

SPECIALE

MILANO SI DISTINGUE PER LE SUE CUCINE, TRA LE PIÙ QUALIFICATE IN ITALIA

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GOURMETFOOD

MARCO AMBROSINO E IL MEDITERRANEO CONTEMPORANEO DI “28 POSTI” di

Giulia Gavagnin Marco Varoli

foto di

E’ probabilmente lo chef più interessante della sua generazione. Ha scelto Milano come punto d’approdo e la città ambrosiana ha scelto lui, conformemente allo spirito ecumenico e meritocratico che la caratterizza. Lui è Marco Ambrosino, 34 anni, isolano di Procida e viaggiatore per vocazione. Attenzione, però. Oggigiorno sono tutti globetrotters dei fornelli con esperienze equamente ripartite tra la cucina di nonna, la brigata stellata di Washington e lo chef eremita delle montagne. Marco Ambrosino si è invece imbattuto in un percorso diverso, transitando attraverso trattorie per turisti e spaghetti alle vongole, banchi di università e numeri, Libera Iovine e Noma. Approdando, infine, nell’unico luogo italofono dove “tutto è possibile (forse)”: Milano, sponda Naviglio, il porto di mare sforzesco. Al timone di “28 Posti”, tra la nuovissima Darsena e la

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riva del Naviglio Pavese, dove migliaia di persone di tutte le età, provenienze, ceti sociali, costumi si incontrano e dibattono, nell’area democratica di Milano dove bohème, graffiti, politica e gin tonic convivono in un matrimonio d’amore. Il nome dice tutto. Sono, appunto, 28 posti ripartiti tra due piccole stanze, arredi di materiale ecosostenibile fabbricati dai carcerati di Bollate, attenzione totale verso gli sprechi e una cucina immediatamente riconoscibile: marina, iodata, balsamica. Mediterranea nelle sfumature meno consuete. Quelle delle asperità delle alghe e dell’intensità dei ricci di mare. Quelle della salsedine intensa, a volte acre e persistente dei porti delle grandi città del sud. Istanbul, Atene, Barcellona, Napoli, Marsiglia. Cariche di voci, persone, odori, spezie, prodotti e di quel “nonsoche” di indefinito. Come racconta lo scrittore francese Jean Claude Izzo: “Nelle città del Mediterraneo..non trovi mai davvero quello che eri venuto a cercare. Forse perché questo mare, i porti che ha generato, le isole che culla, le linee e le forme delle sue rive rendono la verità inseparabile dalla felicità. l’ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione”. In questa verità inseparata dalla felicità troneggiano alcuni ingredienti, che sono ricordo, sapore, sensazione. Per il marsigliese Izzo sono aglio, menta e basilico. Per Ambrosino, le mille sfaccettature ancestrali del mare. “Ho iniziato a cucinare per gioco, come tutti i ragazzi della mia età”, racconta. “Quando avevamo 14 anni andavamo tutti a prestare aiuto in qualche ristorante turistico, a fare spaghetti alle vongole e impepata di cozze. Poi ho studiato più o meno seriamente, ho frequentato il liceo e la facoltà di economia all’università. Interrotta, quando sono andato al Melograno di Ischia, il ristorante di Libera Iovine, la prima

TAGLIOLINO

porro fondente, limone candito, polvere di capperi Cuocere i porri interi su brace finchè non risulteranno completamente bruciati all’esterno; ancora caldi chiuderli in un contenitore ermetico.

Una volta raffreddati, aprire i porri ed estrarre solo il cuore fondente.

Per la polvere di capperi, dissalarli completamente, riporli in forno a 60°C finché non saranno completamente secchi.

Per le bucce di limone candito, sbollentarle 3 volte in acqua, cuocerle in sciroppo 1/1 fino a completa canditura.

Cuocere in acqua salata i tagliolini, mantecare velocemente in padella con il porro e

l’olio extravergine, completare il piatto con polvere di capperi disidratati e le zeste di limone candito.

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GOURMETFOOD

LA CHIAJOZZA Per l’olio al pino marittimo: frullare al

Per la sabbia: cuocere in forno a 180°C i

mo e olio di vinacciolo.

due albumi; aggiungere un cucchiaio di

Bimby uguale peso di aghi di pino maritti-

Per il gelato ai ricci di mare: unire in un contenitore riccio di mare, sale, pepe, succo di limone; mettere il composto in una gelatiera.

carapaci delle canocchie; montare a neve

Finitura del piatto: condire le canocchie con olio al pino marittimo.

nero di seppia; seccare in fondo a 60°C.

Aggiungere cavolo cappuccio a julienne

Frullare la meringa e i carapaci fino ad ot-

Completare con quenelle di gelato al ric-

tenere una sabbia sottile.

condito con aceto di mele e menta. cio e la finta sabbia.

cuoca stellata del Meridione”. Quello è stato il momento del cambiamento, la sottrazione definitiva dai libri dei consigli di amministrazione. “La cucina “materna” di Libera mi ha insegnato tantissimo, ma ben presto ho sentito la necessità di provare qualcosa di diverso, di innovativo. Sono stato un anno in Spagna, nel pieno boom del Bulli di Adrià, che purtroppo non mi ha aperto le sue porte. Non mi sono perso d’animo. Sono rimasto un po’ in terra iberica e poi mi è stato concesso uno stage di soli due mesi al Noma di Copenaghen. Quella è stata l’esperienza che ha davvero cambiato le mie prospettive perché mi ha fatto capire che cucina non è solo nutrimento, è anche filosofia, attività multidisciplinare e, soprattutto, racconto. Da Renè Redzepi non si trascorrono

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OSTRICA, CIPOLLA SOFFIATA, CILIEGIA SOTTACETO, CAFFÈ AGNELLO PRESALÈ: AGNELLO, OSTRICA, CAVOLO NERO, LATTUGA DI MARE

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GOURMETFOOD

soltanto ore a pulire erbe e verdure, ma c’è la possibilità di essere a contatto con un microbiologo che fa la stessa cosa per finalità completamente diverse: arrivare a costruire insieme un piatto che ha una differente profondità rispetto a quella del piatto di un ristorante qualsiasi”. Tuttavia, la cucina di Ambrosino non è la solita “felice sintesi” di elementi partenopei e nordici. La scuola di Redzepi ha insegnato un metodo di lavoro, non un compendio di ricette. “Attraverso gli insegnamenti di Redzepi, ho capito come raccontare il mio Mediterraneo, con le sue bellezze e i suoi contrasti, a volta spiazzanti”. I piatti di Ambrosino oggi rappresentano forse l’estrema avanguardia della cultura campana: la pasta di Gragnano con mandorle, pomodoro secco e lattuga di mare; i tagliolini con porro fondente, polvere di cappero e limone candito; le eliche al pistacchio, noccioli

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di oliva e salicornia sono tutti fortemente caratterizzati da elementi isolani ma spingono sulle acidità e sugli elementi spigolosi dell’ingrediente in modo inconsueto, al limite dello stupore. La Chiaiozza è un racconto nel racconto, forse l’estrema sintesi dell’arte di Ambrosino: ispirato all’omonima baia, luogo d’infanzia dello chef, è un crudo di canocchie, gelato di ricci di mare, cavolo cappuccio, olio al pino marittimo sopra una sabbia di nero di seppia e carapaci di crostacei che suscita immagini di onde lievi e mare in bonaccia, luci abbaglianti del mattino e porti pescosi. 28 Posti vuole essere proprio questo: un porto, con tutte le sue caratteristiche. Crocevia di genti e atmosfere, caos e rifugio, punto di partenza e di arrivo. Sempre con le tinte azzurro intenso, il profumo dei limoni, e i contrasti del Mediterraneo, nel porto immaginario più internazionale d’Italia.


RICOTTA

cenere, polline, bottarga Per il gelato al polline: realizzare una base di gelato al fiordilatte; aggiungere polline di fiori misti, mettere il composto nella gelatiera.

Per la cenere di agrumi: bruciare a 220°C in forno le bucce di limone, arancia, mandarini, lime, in uguale quantità . Frullare le bucce bruciate fino ad ottenere una polvere sottile.

Finitura del piatto: disporre sulla base la ricotta, spolverare con la cenere

di agrumi, completare con una quenelle di gelato al polline, una grattugiata di bottarga di muggine.

28 POSTI

Via Corsico, 1 - Milano Tel. 02 839 2377

www.28posti.org

28posti@gmail.com

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GOURMETFOOD

LA BOTTEGA DEL VINO META SICURA PER CHI NON SI ACCONTENTA di

Cristiana Lauro

I luoghi che diffondono la cultura del vino a Milano senza cedere agli “sprizzoni” sono rimasti pochi, però piuttosto solidi. N’Ombra de Vin, Cantine Isola, Enoteca Ronchi, Il Cavallante - per fare qualche nome affidabile - e poi La Bottega del Vino di Emilio Cremascoli, bellissima cantina con cucina che in pochi anni ha ottenuto molta visibilità attraverso un pubblico di grandi imprenditori milanesi. Ma il successo, se di sola facciata, non è sostenibile a lungo, di solito ha vita breve e, infatti, la credibilità di questo locale è garantita anche e soprattutto dalla frequentazione abituale dei palati più colti di Milano. E’ il punto di ritrovo dei veri appassionati di vino, dei collezionisti, di chef e sommelier dei migliori ristoranti di Milano. Figure che non scivolano nei locali a casaccio e che non si accontentano del primo calice che gli porgi, figure alle quali non manca, tuttavia, la garbata leggerezza di evitare la Messa cantata su ogni sorso di vino pregiato. Il fascino che emana questo genere di locali insieme all’indiscusso successo di pubblico, sono il risultato del superamento, incolumi, delle mode passeggere. La conseguenza diretta di una resistenza granitica alla facile seduzione delle tendenze flut-

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tuanti e inconsistenti, quindi prossime alla data di scadenza. Correnti diffuse, informi, che appiattiscono i locali spogliandoli di qualsiasi attrattiva e personalità avvicinandoli pericolosamente al rischio di disastri finanziari. A pochi giorni dalla scomparsa prematura di uno dei più grandi personaggi del vino italiano, Giuseppe Rinaldi, Emilio Cremascoli ci ricorda che proprio nella sua cantina riposano le più grandi annate di barolo prodotte dal suo amico Beppe. Fu sempre Emilio a suggerirle a tutti noi che ci trovavamo lì la sera per assaggiare “alla cieca” quel bendidio di vini - soprattutto italiani e francesi - ma anche per parlare, scherzare, condividere piatti di salumi e formaggi di ottima qualità e la cucina di Paolo Pivato, buona, confortante e concreta, senza inutili orpelli. Una proposta ampia e variabile dove brilla uno dei migliori riso al salto di Milano. La Bottega del Vino ha ricevuto diversi riconoscimenti da parte della critica enogastronomica italiana ed è indubbiamente un grande luogo del vino. Ma anche dell’amicizia e del cuore.

LA BOTTEGA DEL VINO

Piazza Lega Lombarda, 1 - Milano - Tel. 02 3459 3030 www.labottegadelvinomilano.com


GOURMETFOOD

LA CUCINA EMOTIVA ED EMOZIONALE DI

EUGENIO BOER di

Giulia Gavagnin Marco Varoli

foto di

Il cerchio è la figura geometrica perfetta per eccellenza, senza inizio né fine. Eugenio Boer è un perfezionista nato di vocazione luterana, e l’ha scelta come biglietto da visita per rappresentare se stesso attraverso otto suggestioni disposte in modo circolare. Non è un menu, è una proposta che trasmette senso di compiutezza, ma anche di ciclicità, come le stagioni, della natura e della vita. Temi che Eugenio Boer esplora senza soluzione di continuità perché la sua è dichiaratamente una cucina concettuale, ma fortunatamente mai concettuosa. Per ripartire ha scelto una via discosta dal centro di Milano, lontana dai bagni di folla, una sobria stanza pensata all’unisono con l’architetto Mario Abruzzese e un nome che si pronuncia in

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modo inequivoco: Buur, con due puntini non sulle “i” ma dopo la “u”. In queste poche righe si potrebbe condensare l’essenza di Eugenio Boer, che ci vorrà scusare per l’improvvido gioco di parole. Sì, perché dopo la breve parentesi di Enocratia (uno strano luogo con un menu à-reverse, padrone il vino e servo il cibo), Eugenio è approdato a Essenza: quattro anni, la meritata stella Michelin e dopo quindici giorni l’annuncio che la proprietà avrebbe fatto a meno dell’alta cucina e, quindi, del suo chef neo-gallonato. Digerita l’amarezza, si è concesso uno stage da Alain Ducasse per ricordarsi (si fa per dire) dove risiedono i fondamentali ed è subito ripartito. Da un piccolo ristorante ravvivato da tinte bianco-azzurre che ricordano le ceramiche di Delft e una proposta culinaria priva di carta che descrive senza filtri la sua persona, con garbo, senza egocentrismi. Del resto, lo sapeva già: persona più importante della sua vita è se stesso, perché non estrinsecarla totalmente? A 40 anni Eugenio ha realizzato il suo sogno, aprire un ristorante proprio, che lo rappresenta fin dal nome stampato sulla porta d’ingresso. “Questo sono io, senza filtri e senza competizione con gli altri”. Difficile avere dubbi. La cucina di Eugenio Boer, per quanto

possano essere utili le definizioni, è neoclassica, eppure totalmente personale. E’ la cucina di un apolide (il padre è olandese, la madre siculo-ligure) che ha visto la tradizione con gli occhi e con l’intelligenza emotiva l’ha rielaborata, al bivio tra ricordo ed esperienza. Si porta alcuni classici da Essenza: le “bitterballen”, una versione nordica delle polpette al less che colpiscono l’immaginazione dei bimbi olandesi perché venduti in astucci colorati anche ai distributori automatici, il macaron di ganache di cuore e fegato di piccione; l’uovo caduto nel prato e il ragù di polpo; il risotto alla cenere con salmerino di montagna e le sue uova in omaggio al maestro Norbert Niederkofler, il piccione in tre cotture e salsa gravy che rende omaggio l’altro grande maestro Gaetano Trovato. Un’asse Francia – Olanda che occasionalmente sceglie la via tortuosa di Ventimiglia. I “classici” risiedono nel fondo della figura circolare, come fossero le fondamenta. A risalire verso la cima si incontrano le altre “suggestioni” non prive di aspirazione metafisica. Sono veri e propri temi, alcuni immediati, come “il mare” (va da sé), “think green” (scelta veg) e “il viaggio” (foto a sinistra) (cartoline e impressioni dai vari pellegrinaggi in giro per il mondo). Quasi immediato “cuisine du marchè”, che ricorda Bocuse ma solo per assonanza: qui Boer (stranamente) non mette alla prova la nostra cultura gastronomica, ma si diverte con i prodotti di giornata. Le sinapsi, invece, si allertano dinanzi a “waste don’t waste” e a “Taverna Santopalato”: cosa saranno mai? Qui, per il cliente meno smaliziato, soccorrono le didascalie dell’ottimo maitre Simone Dimitri, ex Mandarin Bistrot. Il primo è un inno all’ecosostenibilità e alla riduzione degli sprechi, giacchè viviamo ormai nella consapevolezza che i nostri figli non godranno delle stesse risorse dei loro padri. Il secondo è un omaggio a un luogo mitologico torinese, dove si elaborò la cucina futurista, che doveva trasmettere la stessa velocità di una tela di Boccioni: Boer reinventa il pollo Fiat, con la sua pelle soffiata e cosparsa d’argento, la coscia fritta, un finto zabaione acidulo e una polvere al pomodoro.

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GOURMETFOOD

RISOTTO

alle ortiche, lavanda, polline di fiori e formaggio di capra INGREDIENTI

setaccio con un peso sopra per eliminare

g. 800 di ortiche

frullarle in un Thermomix con 30 gram-

g. 360 di riso carnaroli g. 130 di burro demisel brodo vegetale

g. 185 di caprino fresco

g. 15 di Trunchètt (formaggio di capra stagionato)

g. 16 di polline

g. 2 di fiori di lavanda

g. 100 di grana padano 12 mesi grattugiato

vino bianco sale e pepe

panna fresca al 35% di materia grassa PROCEDIMENTO

Pulire le ortiche e conservare solo le fo-

glie; sbianchirle e lasciarle scolare in un

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il liquido in eccesso. Una volta asciutte, mi di burro demisel, del brodo vegetale, sale e pepe, fino ad ottenere una purea

densa e cremosa. Setacciare il caprino con

il Trunchètt attraverso un setaccio fine, amalgamare il composto con sale, pepe e della panna, fino ad ottenere un compo-

sto cremoso. Tostare il riso in un tegame con sale e pepe, sfumare con vino bianco e portare a cottura con brodo vegetale.

Mantecare con burro e grana, avendo cura

di far asciugare molto il riso prima, aggiungere il caprino e la purea, regolare

di sale e pepe e impiattare, stendendo

accuratamente il riso su un piatto piano, cospargendo la superficie con il polline e i fiori di lavanda.

Alla sommità c’è la storia e l’ispirazione, unita forse all’aspirazione. E’ dedicata nientemeno che a “Nino Bergese” e interpreta in chiave “pop” la storia del Re dei Cuochi, colui il quale portò la grande cucina italiana fuori dai palazzi. Da questo set si distinguono per luminosità un sontuoso risotto bianco finito con un fondo bruno disposto ad anello circolare e la costoletta di agnello “alla Villeroy”, sfilacciata e speziata, fritta in una polpetta e accompagnata da una salsa alla liquirizia. Costruzioni contemporanee filtrate dai dettami della cucina classica, tenendo a mente le parole del grande chef de La Santa: “sgrassare e schiumare, non stancarsi mai di sgrassare e schiumare fondi e sughi”. Un mantra che conduce fino ai dessert, delicatissimi, con l’ennesimo omaggio, nientemeno che al pittore Lucio Fontana: una panna cotta squarciata da un rapido taglio di coltello, sotto fragole all’aceto e radicchio rosso. “Sono stato un globetrotter, accolto dall’Olanda, dalla Liguria, dalla Sicilia, dalla Germania, dalla Francia e infine da Milano dove rimarrò a lungo. Oggi


SCARTI sono il prodotto della mia esperienza e la mia cucina è lo specchio del mondo che vivo e ho vissuto, filtrato attraverso il mio sguardo. Una vera cucina “contemporanea”. Tuttavia, credo che le definizioni siano relative. Ciò che veramente mi sta a cuore è che sia una cucina “buona”, nel senso di “fatta bene”. Sono convinto che il buono e il bello non siano soggettivi, bensì oggettivi, e nella costruzione del “buono” sono debitore alla grande scuola francese, insuperata per tecnica e disciplina”. Eugenio Boer, dunque, porta a Milano la “buona cucina contemporanea”. Una sfida difficile, dalla quale uscirà probabilmente vincitore. Intanto, noi ci lasciamo suggestionare con grande piacere, attendendo le creazioni future dell’Olandese Volante.

INGREDIENTI per 4 persone

g. 280 di pasta “mischiato potente” Pastificio dei Campi, g. 100 di kefir di capra, g. 250 di riduzione brodo vegetale, g. 50 di bratta croccante. Per la riduzione di brodo

15 pomodori cuore di bue, 15 topinambur, g. 250 di champignon, 2 porri, 15 cipolle bionde, 1 ceppo di sedano, kg. 1 di carote, 3 cucchiai doppio concentrato di pomodoro, l. 20 di acqua, 15 pastiglie carbone vegetale. Tagliare a metà le cipolle (lasciando la buccia) e i pomodori e adagiarli su una padella antiaderente calda con dell’olio di semi; brasarli fino ad ottenere una colorazione bruno-nerastra. Nel frattempo, pulire tutte le verdure e versarle in una pentola capiente con l’acqua. Aggiungere pomodori e cipolle, una volta pronti.

Far sobbollire il RISTORANTE BU:R

Via Mercalli ang. Via S. Francesco - Milano Tel. +39 02 62 06 53 83

www.restaurantboer.com info@restaurantboer.com

brodo per 1-2 ore;

aumentare la fiam-

ma e far bollire fino

a ridurre della metà.

Filtrare il tutto con

uno chinoix fine co-

perto da una mussola,

aggiungere il carbone ve-

getale e ridurre nuovamente fino ad ottenere una glassa. Per la bratta croccante

6 fette di pane vecchio, g. 60 di fondi di caffè, olio extravergine.

Seccare il pane sotto una lampada riscaldante oppure sopra al cappello del forno (non devono abbrustolire), dopo averle cosparse di bratta.

Una volta seccato, frullare il tutto nel Thermomix e tostare in una padella antiaderente con olio extravergine.

Scolare su carta assorbente ed eliminare l’olio in eccesso. PREPARAZIONE ED IMPIATTAMENTO

Cuocere la pasta molto al dente, glassarla nella riduzione di brodo e impiattare, distribuendo il kefir alla base del piatto (con una pipetta o un cucchiaio, dando un senso di movimento), adagiare i vari formati di pasta, ben glassata, in modo casuale sul kefir. Cospargere il piatto con della bratta croccante e servire.

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GOURMETFOOD

IL BELLO E IL BUONO DI

CRACCO IN GALLERIA di

Cristiana Lauro

Cracco in Galleria è uno dei locali più eleganti, oggi, a Milano. Forse il più bello di tutti, anche se il giudizio estetico, essendo legato a contesti personali fluttuanti, lascia un po’ il tempo che trova. La scelta di Carlo Cracco di rinunciare negli ultimi anni all’esposizione televisiva per tornare a fare il cuoco e l’imprenditore sembra vincente, visto che il locale è sempre fully booked. D’altra parte la ristorazione medio/alta a Milano sta viaggiando una spanna sopra a tutti, punta dritto avanti con la giusta mira. Lascia il presente a bocca aperta: zitto, muto e in ginocchio. Cracco in Galleria è un motore artigianale all’interno del quale rilevare sviste o imperfezioni è esercizio acrobatico. Difficile trovare un livello complessivo di pregi e servizi così soddisfacente nella ristorazione stellata internazionale, inclusa quella che ha fin qui consolidato crediti superiori rispetto a Cracco in Galleria che è aperto da pochi mesi.

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Il progetto è stato realizzato dallo studio Peregalli e Rimini che ha curato dettagli molto esclusivi e raffinati in uno spazio ampio che affaccia sulla Galleria Vittorio Emanuele II e si eleva su tre piani fra bistrot, ristorante e salone per gli eventi. La cantina sottostante è da sballo non solo per le 10.000 etichette di vini pregiati soprattutto francesi, ma anche per la razionalità con cui è stata concepita: bella e funzionale. Stucchi, decorazioni, porcellane di Ginori personalizzate con tocco ricorrente anche su pareti (decorate a mano) e tappezzerie - sia in sala che nel fumoir - dove è possibile accompagnare la fine serata con un sigaro, un classico fra i drink, o un distillato. Il menu degustazione di undici portate tocca i noti classici della cucina di Cracco, come l’insalata russa caramellata e il tuorlo d’uovo fritto, i grandi secondi di carne come il piccione e il germano reale arrosto, oppure piatti di pesce di ottima qualità, ad esempio i gamberi di Santa Margherita Ligure. E poi ci sono i famosi risotti dello chef, indiscussi da sempre. Carlo Cracco è riuscito a dare armonia e omogeneità al suo nuovo locale. Armonia nei piatti (tutti pensati e realizzati con pochi ingredienti, quelli che bastano), armonia nell’ambiente (in-

cluse le cucine con le ceramiche di Giò Ponti alle pareti) e nel servizio in sala. Perché Alex Bartoli - che ha imparato la grande scuola di sala all’Enoteca Pinchiorri di Firenze - a soli 24 anni, si muove con la sicurezza di chi ha il tiro in porta e la rete certa. Disponibile dunque un menu degustazione di 11 portate a 190 euro insieme a un’ampia scelta di vini al calice. RISTORANTE CRACCO

Galleria Vittorio Emanuele II - Milano - Tel. +39 02 876774 www.ristorantecracco.it - info@ristorantecracco.it

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GOURMETFOOD

ANTONIO GUIDA

AL “SETA” È “CUOCO DA RE” CON UNA CUCINA ARMONIOSAMENTE NEOCLASSICA di

Giulia Gavagnin

Qualcuno dice che “il diavolo sta nei dettagli”, dimenticandosi che il suo contraltare “Dio sta nei dettagli” è un detto molto più antico e definisce meglio il concetto. Infatti, se è vero che le insidie si annidano nelle cose piccole come i granelli di polvere che minano l’efficienza degli ingranaggi, è altrettanto noto che sono le sfumature a contribuire alla perfezione. In ogni caso, è più probabile che Antonio Guida guardi al divino che al maligno: la sua è una “cucina del dettaglio” che aspira alla bellezza delle forme, della rotondità, del gusto in una prospettiva decisamente neoclassica, quasi apollinea. Non è chiaro fino in fondo quali siano i “dettagli” che l’hanno portato ai vertici della scena nazionale. Le origini salentine hanno portato in dono l’eccezionale capacità di valorizzare al massimo ingredienti mediterranei baciati dal sole, il percorso d’eccellenza in grandi cucine ha contribuito all’acquisizione di una padronanza tecnica assoluta. Fin qui, tuttavia, la sua biografia è comune a quella di altri illustri colleghi. Qual è il segreto, allora, dell’attenzione spasmodica al dettaglio? Forse la contiguità protratta con lo

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scienziato dei fornelli Pierre Gagnaire, presso il quale ha ricoperto pressoché tutti i ruoli, non da ultimo quello quasi inedito –alle nostre latitudini- di “saucier”? Se così fosse, potremmo dire “il Diavolo (o Dio) è nella salsa”. Antonio Guida nasce a Depressa, frazione di Tricase, e nel suo bagaglio culturale porta gli inconfondibili profumi vegetali della Puglia. Inizia a fare il cuoco per fascinazione casalinga, la mamma fa la pasta fresca tutti i giorni, come se non ci fosse distinzione tra momenti di lavoro e di festa. Così, quel lavoro sembra già un hobby. Poi, gli apprendistati nelle navi da crociera, alla corte di Pinchiorri prima e di Iaccarino poi, e un lungo decisivo periodo da Gagnaire, che gli fornisce l’assist vincente per entrare direttamente al Pellicano di Porto Ercole come executive chef. Dodici anni di successi, due stelle Michelin e, infine, la chiamata del Mandarin Oriental, lussuosissimo albergo nella porzione di centro più lussuosa di Milano, a pochi metri dal Quadrilatero della Moda. Al Seta si porta l’intera brigata, compresi gli indispensabili Federico Dell’Omarino e Ni-

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GOURMETFOOD

cola Di Lena (foto a lato), rispettivamente sous-chef e pastry-chef, e riconquista rapidamente le due stelle. Il suo percorso è intimamente coerente con l’evoluzione del capoluogo lombardo, popolato da una clientela sempre più esigente. “Adoro questa città, così varia di persone, occasioni e stimoli. Milano mi ha adottato, e io cerco di ricompensarla con il massimo sforzo”. Le suggestioni lombarde sono state immediatamente recepite in piatti già diventati classici: i ravioli farciti con cassoeula e ostriche e l’ormai celeberrimo riso in cagnone con verdure, maccagno e polvere di lampone, praticamente un compendio dell’arte culinaria di Guida. “Amo i sapori rotondi, con acidità non troppo spinte e comunque distinguibili. L’acidità la ricavo dagli agrumi, dallo yuzu, dal rabarbaro o, appunto, dal lampone che mi piace moltissimo”. Questa lussuosa affidabilità, questi sapori intriganti e mai invadenti sono ormai apprezzatissimi in città da una vasta clientela anche abituale. “Ho clienti

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SAGNE AI FRUTTI DI MARE con crema di trippa ai crostacei INGREDIENTI

PROCEDIMENTO

g. 300 di farina, g. 100 di farina di segale,

dienti, stendere la pasta e tagliarla come

Per l’impasto per le sagne

g. 90 di acqua, 1 uovo, g. 30 d’olio. Per il brodo di crostacei

Per le sagne: impastare tutti gli ingredelle tagliatelle sottili; arrotolarle su se stesse per ottenere le sagne.

carapaci di crostacei, 1/2 stecca di lemon

Per il brodo di crostacei: rosolare le

cipolla, g. 50 di pomodorini tagliati, vino

grass e lo zenzero. A parte dorare i ca-

grass, g. 5 di zenzero, sedano, carota e bianco, acqua.

Per la crema di trippa

g. 200 di trippa bollita, brodo di crostacei. Per la salsa

aglio, scalogno, peperoncino, gamberetti, cozze, vongole, spinacini baby, catalogna.

verdure con i pomodorini, la lemon rapaci; unire alle verdure, sfumare con vino bianco e bagnare a coprire con

acqua. Far cuocere per circa un’ora a fuoco lento.

do di crostacei per circa 15 minuti, aggiustare di sale e pepe, frullare e filtrare.

Per la salsa: mettere aglio e scalogno tri-

tato in padella, far cuocere a fuoco lento

senza dorare, aggiungere una parte del brodo di crostacei e far ridurre. Una volta cotta la pasta, saltarLA in padella e alla

fine aggiungere i molluschi e i crostacei

privati del guscio, gli spinacini baby ed il peperoncino. Legare la pasta con un filo di olio extravergine.

Filtrare.

ESECUZIONE DEL PIATTO

Per la crema di trippa: cuocere la trippa

piatto, adagiare la pasta e guarnire con la

tagliata a julienne con una parte del bro-

Disporre la crema di trippa alla base del catalogna cruda a carpaccio.

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GOURMETFOOD

RISOTTO IN “CAGNONE”

con verdure, Castelmagno e polvere di lamponi INGREDIENTI Per il riso

g. 250 di riso vialone nano l. 1 di brodo di pollo

g. 50 di burro Normandia

salvia q.b. tagliata a julienne g. 30 di parmigiano 24 mesi g. 15 di Castelmagno vino bianco Guarniture

polvere di lamponi PROCEDIMENTO

In un rondò già caldo versare un filo d’olio; lasciar prendere temperatura e bagnarlo con del vino bianco. Far evaporare il tutto e continuare la cottura con il brodo di pollo. A fine cottura mantecare il riso con del burro,parmigiano, Castelmagno e salvia. ESECUZIONE DEL PIATTO

Mettere il riso nel piatto formando un cerchio; cospargerlo con polvere di lamponi.

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che vengono a cena anche più volte al mese. Oltre a gratificarmi, mi impongono nuove sfide: non posso proporgli sempre gli stessi piatti, si annoierebbero. Così, sono costretto a reinventarmi sempre. Con piacere, s’intende”. Oggi, il cliente del Seta può scegliere tra due percorsi di degustazione: “la via della seta” che comprende i classici e un menu più breve legato alla stagione. Oltre, beninteso, alla carte che cambia frequentemente. I nostalgici del periodo maremmano possono ancora chiedere, magari non facendo troppo rumore, il risotto al nero di seppia con crema di curcuma e calamaretti spillo, ma il best-seller del momento è il risotto alle erbe con acetosella, patate e ostriche. L’ostrica è un ingrediente che Guida ama molto, sia come comprimario che come protagonista: tra i classici la ritroviamo cotta, con patate, peperoni friggitelli e una salsa allo champagne che rivela la maestria del “saucier” di cui si accennava in premessa. Un altro classico imperdibile, apprezzato dalle guide di tutto il mondo è il pollo ficatum, servito abitualmente con crema di cannellini alle alghe, fregola e garusoli e talvolta con la variante della salsa di alghe e burgul mantecato come fosse un risotto: le carni provengono dall’allevamento Moncucco di Massimo Greppi nel vercellese che utilizza antichi metodi di ingrasso e finisce la nutrizione dei volatili con fichi secchi macinati. L’autunno, tuttavia, è forse la stagione più interessante per il repertorio di Guida, grande conoscitore della selvaggina. Un evergreen sin dai tempi del Pellicano è la lepre a-la-royàle, che è come dire il “volo del calabrone” del cuoco virtuoso. La preparazione richiede quattro giorni tra marinatura e preparazione, la salsa al cioccolato, ottenuta dopo lunga decantazione, è opulenta, ricorda quel che disse la rosa al Piccolo Principe: “È il tempo che dedichi alla rosa che fa bella la rosa”.


CAVOLFIORE

con salsa di latte di mandorla, yuzu e ricci di mare INGREDIENTI

Unire 200 grammi di latte di mandorle e

g. 300 di acqua, g. 100 di mandorle ba-

A parte si fa un burro montato con acqua

Per il latte di mandorla stoncino.

Per la crema cavolfiore

g. 250 di cavolfiore, g. 100 di latte. Per i frutti di mare

cozze a falde, vongole, gamberetti a pezzetti, lumachine.

Altri ingredienti

cavolfiori, succo di yuzu, acqua di cozze

Un autografo di mediterraneità è la ruota pazza di Cavalieri apposta in duplice esemplare sulla sommità, insieme al cavolino di Bruxelles: sempre nell’ottica dell’attenzione al particolare. Tuttavia, se la royale è il grande classico, il nuovo menu di selvaggina potrebbe una specie di libro dei sogni per gli amanti del genere: chartreuse di pernice con scalogno brasato e lampone disidratato; royale di fagiano con porcini e salsa di ortiche; risotto all’anice stellato, cavolo nero e succo di lepre; zuppa di colombaccio, raviolini e lenticchie; pernice farcita con fegato grasso, canolicchi e tartufo; filetto di lepre con coscia in salmì e stracciatella. Un desco di nobiltà pura, che valorizza solo materie prime pregiatissime come si faceva alla corte di Luigi XIV. Parafrasando Nino Bergese, potremmo dire che Antonio Guida è “cuoco da re”. Non è un caso che oggi sia al comando di una macchina perfetta nella città che oggi in Italia corre a una velocità diversa.

e vongole, burro normandia, mandorle a

100 grammi di purea di cavolfiore.

e succo di yuzo che useremo per scaldare

i frutti di mare. Pulire i cavolfiori e porzio-

narli come da foto, cuocerli in un liquido composto da 1l di latte e 100 grammi di

panna liquida e sale per circa 7 minuti (il cavolfiore deve essere fondente.

Una volta raffreddato, si frigge in olio di semi 180°C fino a doratura. Si bagna con acqua di cozze e vongole per insaporire e si cosparge con il burro allo yuzu di cottura dei frutti di mare.

filetti, alghe nori, latte, panna.

ESECUZIONE DEL PIATTO

PROCEDIMENTO

na, adagiare il cavolfiore mettere i frutti di

Frullare le mandorle a bastoncino con l’ac-

qua nell’hotmix a 95°C per 10 minuti; filtrare e aggiustare di sale.

A parte stracuocere i cavolfiori nel latte e frullarli per ottenere una purea liscia.

Disporre la salsa di mandorle nella fondimare scolati dal burro; inserire nel cavolfiore 3 pezzetti di filetti di mandorle, unire qualche goccia di succo di yuzo. Finire il

piatto con una julienne di alga nori precedentemente tostata.

SETA

Via Andegari 9 - Milano Tel. 02 8731 8897

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GOURMETFOOD

GIALLE&CO.

BAKED POTATOES DAL CUORE ITALIANO di

Camilla Rocca

Ha aperto a Milano il primo ristorante che trasforma e reinterpreta in chiave italiana la tipica baked potato inglese. E’ in zona Moscova ed è interamente dedicato alla patata cotta al forno e declinata in quindici ricette signature e altre stagionali ideate dallo chef Andrea Vigna. Ce n’è per tutti: dalle Fishytariane alle Veggytariane, dalle Meatariane alle Vegane. Tutto nasce dall’idea di cinque amici, durante un viaggio a Londra. Cercando qualcosa di tipico e poco distante dall’albergo la compagnia approda in un pub dove la proprietaria acclama a gran voce che qui si possono trovare le migliori baked potatoes della città. Ne ordinano diverse, dalla classica burro panna acida e bacon alla variante con pollo e salse, ma il tasting non è soddisfacente: pesantezza e gusto sciapo. Uno di loro decide quindi di sfidare la proprietaria a cucinare una baked potato all’italiana, per carpire in cambio i segreti della ricetta tradizionale. Quella notte nasce la prima ricetta della baked potato di Gialle&Co., la Threecolore con stracciatella, soncino e pomodorini.

LE PROPOSTE Dai 7 agli 11 euro le proposte di Gialle&Co hanno nomi divertenti e ironici, come il concept del locale: si dividono in Fishytariane, per gli amanti del pesce, in Meatariane, per chi non può fare a meno della carne, in Veggytariane e Vegane per il popolo green. Dodici proposte classiche e altre tre stagionali che arricchiscono la scelta dei menu. I signature dishes di Gialle&Co sono senza dubbio la Controstream (con salmone, crème fraîche allo zenzero, aneto e anacardi); la Mortacci yours (con guanciale croccante,

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salsa carbonara e pecorino); la Ratatoma (con ratatouille di verdure al forno, toma, origano fresco) per finire la Molto Well (olio al basilico, crema melanzane, origano fresco e pomodorini confit).

IL DESIGN Il locale è caratterizzato dalla ricerca di pezzi vintage e dalla sperimentazione attraverso le contaminazioni di materiali antichi con altri ultramoderni. Ma la vera innovazione è la costruzione di una serra all’interno del ristorante: cucina e bar sono racchiusi all’interno di un artistico collage di vecchie vetrate vintage recuperate in tutta Italia, per trasmettere la sensazione di mangiare all’esterno pur essendo all’interno, in un gioco di dentro e fuori che trasporta in un mondo rurale, lontano dalla caotica Milano. Nella sala principale dalla fontana liberty da giardino recuperata da un’antica villa nobiliare, l’acqua potabile naturale e frizzante disseta gli amanti delle patate. I banconi ed i tavoli mostrano i segni del tempo e della natura: sono composti da antiche pietre vicentine del Gottardo rimaste all’aperto sotto le intemperie per anni. I muri sono decorati in un voluto unfinished mood, a testimoniare che la materia prima, da Gialle & Co. è la vera protagonista del locale, ancor prima di essere lavorata.

THAT’S SICILIA INGREDIENTI

g. 300 di patata calibrata, crema di melanzane, mousse di pomodorini, basilico, grana in scaglie. PREPARAZIONE

Cuocere la patata a 180°C condita con sale e poco olio d’oliva. Incidere per verticale la patata cotta, aggiungere sale e olio, amalgamare la polpa della patata con la mous-

se di pomodorini e, una volta che il composto è omogeneo e cremoso, impiattare la patata. Aggiungere crema

di melanzane a ricoprire la parte tagliata della patata, aggiungere scaglie di grana e infine tre o quattro foglie di basilico. Lucidare il tutto con un goccio d’olio.

GIALLE&CO

Via A. Volta, 12 - Milano - Tel. 333 8255507

www. gialleandco.com - info@gialleandco.com

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GOURMETFOOD

LA GRIGLIA DI VARRONE

UNA CERTEZZA PER CARNIVORI APPASSIONATI di

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Cristiana Lauro


A Milano c’è una vasta offerta di ristoranti specializzati nella cucina di carne con una qualità media più che decente. Non possiamo lamentarci, altrove va molto peggio. E’ comunque abbastanza difficile trovare ottima carne nei ristoranti italiani dove spesso incrociamo prodotti modesti sottoposti a cotture un po’ approssimative. Forse non siamo nemmeno abbastanza preparati per distinguere e posizionare su livelli differenti la qualità di alcuni cibi. Il risultato è che il mediocre ci appare sufficiente e finiamo per accontentarci. Un vero fuoriclasse a Milano è la Griglia di Varrone che lavora solo carni di altissima qualità e sulle cotture non sbaglia un colpo. Il locale è moderno, di ottimo design, ha sedute e spazi comodi e un servizio di sala attento, cordiale e veloce che Tony Melillo non perde mai di vista. Anche le sue scelte per la carta dei vini sono interessanti, nient’affatto banali e proposte, una volta tanto, senza ricarichi eccessivi.

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GOURMETFOOD

Massimo Minutelli è stata una figura leader nel settore dell’abbigliamento con una grande passione per la gastronomia che concretizzò con l’apertura de La Griglia di Varrone a Lucca nel 2006. Bell’idea, ma un po’ eccentrica a pensarci bene: l’intuito di chiunque avrebbe accostato più facilmente al contesto milanese che non alla città di Lucca la visione di un locale che mettesse insieme design e materia prima. Sta di fatto che il ristorante partì come un treno e nel 2014 sbarcò finalmente anche a Milano. Non si poteva fare diversamente, il format era perfetto per la città, quasi sartoriale, e Massimo aveva nel frattempo maturato la conoscenza e l’esperienza necessarie per affrontare un contesto completamente diverso. Da lì in poi il locale è cresciuto rapidamente fino a diventare il punto di riferimento forse più affidabile per la cucina di carne. Nient’altro che carne perché il menu non si muove su altro, a parte il buonissimo risotto F40 ispirato dall’amico Federico Quaranta - che è il classico risotto alla milanese col midollo - e diversi tipi di purè per accompagnare i piatti.

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Picanha (foto sotto), pluma di maiale iberico, prosciutti spagnoli, Wagyu e molto altro, si accompagnano a tacos decisamente originali che prendono spunto per la preparazione della “tortilla” dal “pongo” di Davide Scabin. Una versione tutta italiana che non teme rivali, con buona pace dello Stato Messicano. Se amate il Pastrami, quella di Varrone è fra le migliori versioni sul pianeta Terra. L’ultima novità da provare sul menu è la lingua di manzo (allevata da Martini, fra i migliori allevatori italiani) con salsa pearà al midollo, un classico della cucina veronese. E d’altra parte anche gli altri fornitori de La Griglia di Varrone sono nomi del calibro di Giraudi, Imanol di San Sebastian, José Gomez di Joselito.Gente che ha conquistato la credibilità sul campo lavorando seriamente sulla qualità e mantenendo le promesse nel tempo. In fondo non ci vuole tanto a consolidare la propria affidabilità, basta non raccontare bugie.

LA GRIGLIA DI VARRONE

Via Alessio di Tocqueville, 7 - Milano - Tel. 02 3679 8388 www.grigliavarrone.com

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GOURMETFOOD

ERNST KNAM IL RE DEL CIOCCOLATO di

Giulia Gavagnin Francesco Mion

foto di

È tedesco, nato nei pressi del Lago di Costanza, là dove la Germania incontra l’Austria e la Svizzera. Un’identità di frontiera insita nel DNA, che l’ha portato, per fortuna nostra, a stabilirsi a Milano, proprio a due passi dal primo ristorante del suo (e un po’ anche nostro) insuperato Maestro: Gualtiero Marchesi. En passant, è tra i pastry-chef più famosi d’Italia: è pasticcere, cuoco, personaggio televisivo, autore di moltissime pubblicazioni di fama ma. Soprattutto, è il “Re del Cioccolato”. Ernst Knam, occhiali rossi in testa e piglio deciso, deve il suo successo alla città di Milano che ha riconosciuto il suo genio innovativo, ma anche la città di Milano gli deve molto. E’ stato il primo a infrangere gli schemi nazionali della pasticceria moderna,

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introducendo spezie e sale di provenienza più disparata laddove nessuno se lo sarebbe aspettato. Ha importato dalla Germania il culto decorativo del dolce natalizio, rivoluzionando le austere tavole delle famiglie ambrosiane, fino ad allora abituate alle candele rosse e al panettone milanese basso: il suo Knamettone (il panettone creativo che cambia veste ogni anno: nel 2017, ad esempio, è stato arricchito con limone di Sorrento semicandito e cardamomo verde), l’albero di cioccolato Crispearls, l’albero creativo à-la Pollock, la Torta Albero ai tre cioccolati, la celebre Croquembouche, sono autentici oggetti d’arte che fanno fare la fila a centinaia di persone fuori dal negozio di via Anfossi 10. Knam, infine, ha trasformato il cioccolato in un ingrediente multiforme e universale: materia plasmabile di arditissime sculture edibili, elemento imprescindibile per gustose ricette salate, simbolo di piatti di gola a 360 gradi. Ho incontrato il Re del Cioccolato nel suo laboratorio per una chiacchierata sul passato, il presente e il futuro e sull’importanza culturale della città di Milano nel panorama gastronomico italiano. Con l’occasione, Ernst Knam ha voluto regalare in anteprima ai lettori de “La Madia Travelfood” due ricette tratte dal suo prossimo libro che uscirà a gennaio: la torta “pere e vino rosso” (qui a lato) e la torta “Alessandra” (ricetta a pagina 60) dedicata all’amata moglie.

L’INTERVISTA Caro Knam, ci spieghi perché sei venuto in Italia? Dopo l’apprendistato in Germania, ho lavorato in alcuni dei migliori hotel e ristoranti in tutta Europa. Volevo mettermi alla prova con un tre stelle Michelin e imparare l’italiano, così ho iniziato ad inviare cv in Italia e sono approdato nella cucina di Gualtiero Marchesi. E da quel momento non me ne sono più andato: Gualtiero mi ha dato “l’ultima limata” e nel 1992 ho deciso di aprire la mia attività in via Anfossi 10 a Milano. L’anno scorso abbiamo festeggiato il 25esimo e ogni anno cerchiamo di crescere sempre di più, nella qualità, nel livello di pasticceria e nelle proposte innovative. Hai il vantaggio di essere sia cuoco che pasticcere: una formazione completa. Ci vuoi spiegare quali sono le peculiarità del pasticcere rispetto al cuoco? Si dice che il pasticcere debba essere più rigoroso nella pesatura degli ingredienti, ma forse c’è dell’altro… Di solito un pasticcere è sempre un ottimo cuoco, ma non è sempre vero il contrario. La pesatura è senza dubbio un aspetto fondamentale, ma io penso che il pastry chef debba prima di tutto studiare approfonditamente le materie prime, così che sia in grado di bilanciarle al meglio nelle ricette, concepire nuove creazioni e anche commistioni tra dolce e salato. Lo studio è fondamentale, ancora più che per un cuoco: se si sbaglia un abbinamento è più difficile rimediare e aggiustare il piatto.

zione della Pietà Rondanini realizzata completamente in cioccolato bianco), è ottimo con il dolce e come dolce, ma ha tantissime potenzialità anche per il salato. Penso sia la materia prima ideale per una persona come me, sempre focalizzata sul prossimo traguardo. La tradizione natalizia nella pasticceria nella Germania del Sud è molto sentita. Pensi che questa sia stata per te un’influenza decisiva o ce ne sono altre di pari importanza? Nella pasticceria di Knam ci sono un po’ tutti i luoghi dove Knam è stato. Sicuramente

Perchè questo rapporto così speciale con il cioccolato? Perché è una materia multiforme, che può essere utilizzata e vissuta con tutti e cinque i sensi. Lo si può usare per torte, creme, cioccolatini, rifiniture, ma si possono creare anche delle vere e proprie sculture. È malleabile, ma anche solido (nel mio negozio di Milano è esposta una riprodu-

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GOURMETFOOD

c’è l’influsso tedesco, soprattutto nelle mie ricette natalizie: i biscotti speziati, la fragranza di cannella e degli altri profumi e sapori legati al Natale rimangono per me impareggiabili. Ma nella pasticceria di Knam, oltre ovviamente all’influenza italiana, ci sono anche molti tratti orientali, ho lavorato in Giappone, sono stato a Singapore, in Cina…ho preso quello che più mi ha colpito e l’ho aggiunto al mio bagaglio umano e professionale. Milano è molto cambiata negli ultimi vent’anni. Come è cambiato il tuo lavoro dai tempi della “Milano da bere” alla Milano del dopo- Expo? Oltre a Milano è cambiato molto Knam. Nei primi tempi mi concentravo soprattutto sulle mie torte simbolo, la mousse ai tre cioccolati, l’Afrika, l’Antica. Dopodichè ho iniziato a frequentare il mondo della moda, ho gestito i catering di alcune delle principali maison milanesi e internazionali. Ora mi concentro più su me stesso e su quello che mi piace: le mie signature cakes, ma anche progetti sempre nuovi, creazioni dagli abbinamenti anche azzardati. Il futuro lo vedo in continua evoluzione, sia per Milano che per me, non ci sono orizzonti ma un continuo crescere e innovarsi. Qual è l’eredità di Gualtiero Marchesi non solo per Ernst Knam ma per tutto il mondo della cucina e della pasticceria? Penso che Gualtiero Marchesi sia stato il più grande cuoco italiano, ha rinnovato profondamente la cucina e l’ha portata al livello successivo. Una delle lezioni che ho appreso da lui e che poi mi ha ispirato sempre di più nelle mie creazioni è “Togliere non aggiungere”: la ridondanza nelle decorazioni, nelle preparazioni, non è necessaria, anzi, molte volte trasforma o addirittura rovina il sapore delle materie prime. Oltre a essere un cuoco, aveva prima di tutto l’animo dell’artista. Prima ancora delle trasmissioni tv che hanno reso “glamour” questo mondo, lui è stato precursore di una filosofia di cucina raffinata, i cui principi base erano l’eleganza e l’armonia, i suoi piatti sembravano quadri. Non molti dopo di lui sono riusciti a raggiungere o anche solo ad avvicinarsi al suo livello. Quali sono i progetti legati alla città di Milano che ti hanno reso più orgoglioso? Milano ogni anno secondo me migliora, è l’unica città davvero europea in Italia, ma mantiene anche una sua anima artistica, fashion e culturale. Ho celebrato questa città che mi ha accolto e che ho fatto mia in tanti modi, tra cui nel 2015 con un cioccolatino speciale, ideato insieme a Lorenzo Palmeri, in occasione di Expo, per cui sono stato l’unico Pastry Ambassador: una pralina con l’inconfondibile sagoma del Duomo. Due anni fa invece ho realizzato il Teatro alla Scala completamente in cioccolato, una bella sfida che ho affrontato con grande piacere. Ma cerco di trasmettere il mio amore per questa città un po’ in tutti i dolci, mi soddisfa molto il pensiero che tanti milanesi festeggino compleanni, matrimoni e pranzi in famiglia con le mie torte. Non mancherò di stupirvi neanche in futuro!

KNAM

Via Augusto Anfossi, 10 - Milano

Tel. 02 5519 4448 www.eknam.com

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IL GRANDE AMORE, ALESSANDRA INGREDIENTI pasta frolla, confettura di ciliegie, morbidone, bagna alle amarene, inserimento di amarene, mousse al cioccolato bianco e vaniglia, crema chantilly alla vaniglia. Per la pasta frolla: g. 150 di burro, g. 150 di zucchero semolato, g. 50 di uova, g. 2 di sale, mezza stecca di vaniglia Tahiti, g. 6 di lievito in polvere, g. 300 di farina 00. Lavorare bene, a mano, eventualmente aiutandosi con una spatola, il burro tagliato a pezzetti insieme allo zucchero, quindi aggiungervi l’uovo, il sale e la polpa di vaniglia e impastare bene, fino ad ottenere un composto omogeneo. Unire il lievito e la farina, setacciati insieme, e lavorare bene il tutto fino a formare un impasto omogeneo e compatto. Formare una palla, avvolgerla nella pellicola trasparente e lasciarla riposare in frigorifero per almeno 2 ore prima di utilizzarla. Stenderla sottile (3 mm.) e coppare dei dischi di diametro 20 centimetri. Cuocerli in forno a 180°C per circa 18 minuti. Per la confettura di ciliegie: g. 120 di confettura di ciliegie. Per la bagna alle amarene: ml. 100 di acqua, g. 100 di zucchero, g. 100 di purea di amarene, ml. 20 di spremuta di limone. Far bollire tutto insieme e far raffreddare fino all’uso. Per la mousse cioccolato bianco e vaniglia: g. 125 di cioccolato bianco, g. 125 di panna semimontata, g. 25 di tuorlo, g. 3 di gelatina in foglie, 1 stecca di vaniglia Tahiti. Sciogliere il cioccolato a bagnomaria. Mettere la gelatina in acqua fredda e quando diventa morbida farla sciogliere con un po’


di latte in un pentolino o in microonde. Unire la gelatina sciolta insieme con i tuorli, la polpa del baccello di vaniglia e la panna semi montata, emulsionare il tutto con una frusta.

neve e il lievito in polvere. Con una spatola a gomito, spatolare la massa altezza circa 5 millimetri su un silpat e cuocere a 180°C per circa 16/18 minuti con valvola chiusa.

Per l’inserimento di amarene: g. 200 di amarene o griottes fresche denocciolate oppure congelate, g. 50 di zucchero semolato, ml. 125 di vino rosso secco, mezza stecca di cannella, g. 5 di gelatina in foglie. Mettere la gelatina in acqua fredda. Portare il vino rosso a bollore, unire le amarene, lo zucchero e la stecca di cannella. Farlo sobbollire per circa 5 minuti. Unire a gelatina morbida e versare il tutto nello stampo desiderato. Farla rapprendere in freezer oppure frigorifero.

Per la crema pasticcera: g. 250 di latte, g. 75 di tuorlo, g. 75 di zucchero semolato, g. 15 di amido di mais, g. 8 di amido di riso, mezza stecca di vaniglia Tahiti. Versare il latte in una casseruola, aggiungere la mezza stecca di vaniglia tagliata a metà in senso longitudinale, mescolare e mettete sul fuoco a scaldare. Intanto, mettere in una ciotola ampia gli amidi e aggiungervi i tuorli leggermente sbattuti con lo zucchero. Stemperare il composto con un po’ di latte caldo e lavorarlo con la frusta. Quando il latte bolle, eliminare la stecca di vaniglia e aggiungere il composto di uova e amidi. Fare cuocere per circa 3 minuti, continuando a mescolare bene con la frusta per evitare che si formino grumi. Infine, versare la crema pasticcera in un’apposita ciotola e spolverizzarla con un po’ di zucchero semolato, per evitare che si formi una pellicola sulla superficie.

Per il morbidone: ml. 300 di latte, g. 70 di burro, g. 100 di farina 00, g. 10 di cacao, 3 uova, 6 tuorli, scorza di 1 limone grattugiato, g. 5 di sale, g. 240 di albumi, g. 90 di zucchero semolato, g. 3 di lievito in polvere. Far bollire latte e burro. Incorporare la farina e il cacao mescolando con un cucchiaio di legno fino a che la pasta non si stacca dai bordi. Togliere dal fuoco e incorporare le uova e i tuorli pian piano. Aggiungere la scorza di limone e il sale. Passare l’impasto al setaccio. Montare a neve l’albume e lo zucchero. Incorporare la

Per la crema chantilly: g. 200 di crema pasticcera, g. 300 di panna semi montata, 1 stecca di vaniglia Tahiti, g. 5 di gelatina in

foglie. Mettere la gelatina in acqua fredda e quando diventata morbida farlo sciogliere nella crema pasticciera ancora calda. Farla raffreddare e poi unire la polpa di vaniglia e la panna semi montata con una frusta. Per la glassa rossa: g. 250 di acqua. g. 300 di zucchero, g. 200 di destrosio, g. 250 di latte condensato, g. 18 di colla di pesce, g. 140 di burro di cacao, colorante rosso q.b. Far bollire acqua, zucchero e destrosio a 103°C. Abbassare di temperatura e aggiungere il latte condensato. Riportare a bollore. A 50°C aggiungere la colla di pesce e a 36°C aggiungere il burro di cacao e il colorante rosso. Raffreddare a 32°C e glassare. ASSEMBLAGGIO Prendere un anello di diametro 20 centimetri, altezza 4 centimetri. Foderare il bordo con l’acetato. Mettere sul fondo il disco di pasta frolla. Inserire la confettura di ciliegie. Coppare il morbidone e metterlo sulla confettura di ciliegie. Disporre la composta e la mousse cioccolato bianco. Adagiare un altro disco di morbidone con la bagna e la composta di amarene. Finire con la Chantilly. Abbattere e poi glassare. Decorare con polvero in oro.

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GOURMETFOOD

ALLA PERIFERIA NORD-EST DI MILANO

RISTORANTE MANNA L’ALTA CUCINA “VOLGARE” DI MATTEO FRONDUTI di

Lisa Foletti

Questa l’epigrafe che compendia il pensiero dello chef Matteo Fronduti, patron del Ristorante “Manna”, alla (non memorabile) periferia nord-est di Milano, e più precisamente in Piazzale del Governo Provvisorio. Giocando sulle possibili alternative per il nome del locale, il toponimo non stonerebbe affatto: “Governo Provvisorio”, a ben guardare, calza piuttosto bene all’insegna del Fronduti. La manna, quella biblica, è invece protagonista di una piccola rivalsa dello scolaro Matteo nei confronti della professoressa di religione, all’epoca dei calzoncini corti, e dunque si è guadagnata di diritto un posto nel cuore dello chef. Per fugare ogni possibile (e finanche comprensibile) dubbio, è bene sottolineare che l’ignoranza cui si fa riferimento nell’incipit non corrisponde alla cifra culturale del suddetto. Fronduti, il cui nome suonerà familiare ai seguaci dei talent

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show culinari per la sua vittoria nella prima edizione di “Top Chef”, è un cuoco per amore, che ha scelto la strada della cucina dopo il liceo scientifico. A dispetto della sua figura imponente, ruvida, “poco raccomandabile” e delle sue maniere schiette, scarsamente affini alla diplomazia, nella conversazione il quarantenne meneghino rivela profondità d’animo, eloquio curato e una certa base intellettuale. Le sue origini popolari e il suo amore per la bellezza fatta di semplicità e sostanza lo hanno portato a elaborare un’idea di ristorazione qualitativamente alta ma “volgare”, pensata cioè per il volgo, per la gente comune. Così, un locale sobrio ed essenziale sulle tonalità del grigio, condotto in modo altrettanto semplice e non manierato dai ragazzi di sala, accoglie gli ospiti senza ansie da prestazione né rigurgiti gourmet.


Il menu, in totale assonanza con questo pensiero, è concepito per mettere a proprio agio il cliente: titoli come “Aldo Fabbbbrizi”, “Bistecchina???” e “Vai via dottore” strappano inevitabilmente un sorriso e bendispongono al pasto. La carta dei vini, in crescita, ha un centinaio di referenze per lo più italiane, eccezion fatta per gli Champagne, che hanno del tutto scalzato le bollicine italiane, forse in maniera un poco drastica. Comunque, bere un Trebbiano “1213” di Francesco Guccione è sempre una festa, per gli amanti del vino buono e vivo. Ancora in tema di coerenza, è facile indovinare perché non siano previsti menu degustazione, e si mangi soltanto à la carte. Se si vogliono assaggiare più cose, ci si accorda con i propri commensali e si scelgono piatti diversi, in perfetto stile popolare.

ZUPPA DI ORTICHE e briciole di Grana Padano INGREDIENTI per 4 persone

Per la zuppa: g. 1500 di ortiche fresche, g. 150 di cipolla bianca, g. 30 di olio extra vergine di oliva, g. 7 di sale fino.

Per le uova: 2 litri di acqua a bollore, 4 uova freschissime, g. 25 di aceto bianco, g. 8 di sale.

Per la guarnizione: g. 200 di grana padano grattugiato, g. 10 di pepe acerbo di Sarawak. PREPARAZIONE

Per la zuppa: mondare la cipolla e tagliarla molto sottilmente. Brasarla

in una casseruola con l’olio di oliva per almeno 30 minuti. Separare gli steli dalle foglie delle ortiche. Lessare in abbondante acqua gli steli fino a

quando non saranno ben cotti. Scolare e raffreddare in acqua e ghiaccio. Tuffare le foglie di ortica in acqua bollente per non più di dieci secondi. Scolare e raffreddare immediatamente in acqua e ghiaccio. Quando tutto sarà ben freddo, scolare e sciugare bene. Unire la cipolla brasata, frullare e passare al colino fine. Regolare di sale.

Per le uova: portare a bollore l’acqua salata e acidulata, rompere le uova

e posizionarle singolarmente in quattro tazzine da caffè. Con un cucchiaio,

creare un vortice nella casseruola con l’acqua, immergere ad una ad una le uova. Quando l’albume sarà sufficientemente stabile da trattenere il tuorlo liquido, togliere le uova dalla cottura con l’ausilio di una schiumarola. Lasciarle riposare sopra un panno.

FINITURA: cospargere uniformemente con il grana la superficie di una teglia da forno antiaderente, cuocere a 180°C per 6 minuti. Lasciar raffreddare e rompere grossolanamente il croccante ottenuto.

IMPIATTAMENTO: in una fondina, al centro del piatto piazzare l’uovo,

versare tutt’intorno la zuppa, aggiungere in maniera disordinata le briciole di grana e il pepe rotto al mortaio.

“Chiang Mai” è un risotto mantecato con arachidi, pesto di coriandolo piccante e scampi crudi, un piatto per chi ricusa i sapori sussurrati, dove acidità e piccantezza svettano violente, accompagnate dalla grassa voluttuosità di un risotto eseguito a regola d’arte. “Aldo Fabbbbrizi” attinge alla cucina romana con spaghetti Monograno Felicetti, cacio, pepe e fegato di abbacchio, senza risparmiarsi nella pungenza del pepe macinato grossolanamente e profuso con generosità, nella golosa sapidità del cacio e nelle ferrose seppur flebili note degli straccetti di fegato, che vanno a condire una pasta adagiata disordinatamente sul piatto. Dal menu autunnale: Fortunato, uovo affogato, purea di patate ratte 1:1 e vino rosso; A Mezzanotte Torna è zucca gialla, gamberi rossi crudi, mandorle e “mostarda” di zuc-

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GOURMETFOOD

RISO MANTECATO

stracciatella leggermente affumicata e ‘Nduja INGREDIENTI per 4 persone

Per il riso: g. 280 di riso Carnaroli “acquarello” di Rondolino, g. 90 di burro fresco, g. 80 di grana padano grattugiato, g. 50 di ‘Nduja di Spilinga, g. 30 di burro acido, g. 7 di sale fino, 2 litri di acqua a bollore.

Per la guarnizione: g. 100 di stracciatella freschissima. PREPARAZIONE

Per il riso: porre il riso con il sale in una casseruola sul fuoco. Tostare fino a quando i chicchi saranno ben caldi, bagnare quindi con acqua bollente a coprire. Continuare la cottura aggiungendo liquido al bisogno. Mantenere il riso al dente. FINITURA

Separare la parte più liquida della stracciatella dalla parte

solida, la pasta filata. Incendiare alcuni trucioli di legno di

ciliegio, spegnerli e lasciarli fumare. Introdurre i trucioli in una

placca, sovrapporre una griglia con sopra distesa la stracciatella asciugata e incoperchiare. Lasciar affumicare per 6 minuti.

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CREMA DI FORMAGGIO FRESCO fragole, meringa e basilico INGREDIENTI per 4 persone

Tagliare in quarti le fragole rimanenti e

scarpone, g. 50 di panna fresca, g. 25 di

temente ottenuto, ben fredda.

Per la crema di formaggio: g. 50 di mazucchero semolato.

Per le fragole: g. 500 di brodo di fragole fresche, g. 10 di zucchero.

Per il pesto dolce: g. 10 di foglie di basilico pulite, g. 2 di pinoli, g. 5 di sciroppo 1/5.

Per la guarnizione: 4 meringhe croccanti.

condirli con la salsa di fragole, precedenPer il pesto: tuffare in acqua bollente,

solo per alcuni secondi, le foglie pulite di basilico. Raffreddare immediatamente in

acqua e ghiaccio. Una volta ben fredde,

scolare ed asciugare il basilico. Frullare in

un blender a bicchiere, con i pinoli, unendo a filo lo sciroppo.

PREPARAZIONE

IMPIATTAMENTO

montare con la frusta il mascarpone con la

chio di acciaio, posizionare la crema di

Per la crema: in una bastardella ampia, panna e lo zucchero.

Per le fragole: in una casseruola mettere

a freddo 100 grammi di fragole e lo zucchero. Portare a cottura, frullare e passare al colino fine.

ca; Quasi Borsch, cefalo affumicato, brodo di barbabietola, rafano, aneto e yogurt; Batticuore, battuta di cuore di bue, nocciole, erba ostrica e senape. Spostandoci ai primi, Eleganza offre una gustosa pasta con fagioli, cozze crude, cozze cotte e cotenna, mentre Ajo e Ojo è composto da spaghettoni, aglio, olio, peperoncino, scampo crudo e limone. L’eccentrico Pani Ca’ Meusa offre riso mantecato, caciocavallo, milza, Marsala e pane tostato. Infine Plin porta in tavola ravioli del plin accompagnati sapientemente da bagoss, porcini e pera. Proseguendo con i secondi, il succulento Riassunto di Bistecca è composto da tartare, carne salada, trancio arrosto e brasato. In Porchetta, invece, seppia nera, sugo d’arrosto, finocchietto, alloro e lattughe cotte sono sapientemente calibrati e combinati.

In un piatto fondo, con l’ausilio di un cer-

mascarpone, adagiarvi sopra le fragole

condite e sporcare con ciuffi di pesto dol-

ce. Rompere grossolanamente le meringhe e utilizzare le briciole più grandi per finire il piatto.

Meritevole anche il nuovo Frittofrittofritto, coscia di anatra, funghi, fegato grasso e fichi, mentre gli stomaci più “calienti” apprezzeranno Tropical Belly, pancia di tonno, mango, frutto della passione e pesto di coriandolo molto piccante. Infine, tra i dessert, l’evergreen Vai Via Dottore, tarte tatin e gelato alla vaniglia, assieme a Loacker, wafer di cioccolato e frutta secca, con caramello salato e assieme a Caco, gelato di torrone, cachi e pepe di sichuan. Per concludere, Un Margarita, tequila ghiacciata, succo di lime e agrumi freschi. Al Manna si viene per godere di una cucina a pennellate cariche e dense, fatta di buoni ingredienti e di un interessante mélange fra concretezza e curiosità. Ma si viene anche per una chiacchierata con l’omone baffuto, qualora lui decidesse di concedersi.

MANNA

Piazzale Governo Provvisorio, 6 20127 Milano

Tel. 02 26809153

www.mannamilano.it

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GOURMETFOOD

LA LOCANDIERA E IL CUOCO DEL

PONT DE FERR L’OSTERIA DELL’ANIMA SUI NAVIGLI di

Giulia Gavagnin Alessandra Tinozzi

foto di

Erano i primi del Novecento quando Hans Barth, giornalista tedesco colto e crapulone, scrisse “Osteria”, irrinunciabile guida spirituale ai luoghi dell’anima. Un viaggio lungo lo Stivale, tra osti corpulenti e santi bevitori, gratificati dagli effetti taumaturgici di calicini e caraffe, di vini limpidi e generosi. Al teutonico estimatore di Dioniso, tuttavia, Milano appariva come l’ecatombe del culto delle baccanti. Convertita alla birra al punto da essere definita la “Monaco d’Italia”, strappò al giornalista parole di grande scoramento: “Scovare a Milano un bicchiere di vino da galantuomo è più difficile che incontrare una persona devota a Roma”. Ci è voluto quasi un secolo perché Milano, nella sua Rive Gauche (i Navigli, bien sur) trovasse l’ostessa perfetta, che Barth avrebbe lodato come “gran maestra cerimoniera di luogo dove si incontrano osteria

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e santuario!”. Maida Mercuri, rossa di fuoco nelle labbra e nell’animo, è il prototipo perfetto, ad oggi insuperato, di locandiera moderna, che proprio Barth aveva sommariamente tratteggiato in Sora Nanna, quella “con un passato da modella”. Ancora meglio il più grande di tutti, il sommo Gino Veronelli, che alla fine degli anni Ottanta proprio addosso alla Mercuri cuciva la definizione di patronne e sommelier “elettiv’erettiva”, signora e padrona della mescita sulla sponda sinistra del Naviglio. Folgorata sulla strada del vino dopo una congrua dose di Chianti Gallo Nero, è stata la prima donna a frequentare il corso per sommelier a Milano, tra gli sguardi sospettosi di chi sentiva minacciosa e indomabile concorrenza. Aveva diciotto anni e dopo qualche tempo si sarebbe insediata dove oggi ancora domina, ai piedi di un ponticello di ferro al numero 55 di Ripa di Porta Ticinese. Inizia alla fine del 1986 con l’amato socio Licio Mannucci, oggi scomparso, e somministra agli avventori salumi robusti e vini allora ancora sconosciuti. Lentamente, la metamorfosi. Restano i tavoli e le sedie di legno, i muri rusticamente intonacati, l’atmosfera da locale con mescita, ma si arricchisce di una cucina di pregio a vocazione animista. Prima con Juan Lema Pena, uruguagio, oggi al timone di Mirta, una delle trattorie migliori di Milano. Poi, il cambio di passo con un altro uruguagio, Matias Perdomo, che fa guadagnare la stella Michelin a un locale che (dicunt) “ha ancora il wc esterno”. I primi anni di Perdomo sono di creatività assoluta, con zucchero soffiato, contrasti accesi tra dolce e salato, cromatismi fino ad allora inediti. Inizia un via-vai di vecchi, giovani, gourmet, famiglie, in una Babele di lingue e casacche, sandali e scarpe di alto artigianato, t-shirt e abiti

DALLA TESTA AI PIEDI INGREDIENTI per 4 persone

piedino ancora caldo e morbido. Trasferire

1 piedino di maiale

raffreddare e compattare.

4 etti di testina di vitello spumante Alta Langa

g. 300 di farina tipo “0” macinata a pietra g. 250 di tuorlo di uova bio olio evo

polvere di barbabietola liofilizzata zenzero marinato 1 uovo intero farina di riso panko

olio di girasole alto oleico per friggere PREPARAZIONE

Ridurre lo spumante della metà facendolo bollire e poi raffreddare in abbattitore.

Condizionare la testina s/v con il vino ridotto ed il piedino “a secco”.

Cuocere entrambi a 85°C per 12 ore.

Terminata la cottura, raffreddare in abbattitore la testina e disossare accuratamente il

in una teglietta e mettere “sotto peso”. Far

Passare la testina al tritacarne. Mantecarla

con parmigiano reggiano e aggiustare di sale. Preparare la sfoglia mischiando farina,

tuorlo, polvere di barbabietola ed un filo d’olio evo.

Confezionare i ravioli a fagottino unendo i 4 angoli.

Tagliare a cubi di un centimetro di lato i piedini di maiale ormai compattati.

Cuocere i fagottini per 3 minuti in acqua bollente salata e passarli in padella con

un filo d’olio evo. Nel frattempo passare i cubetti di piedino nella farina di riso, poi

nell’uovo sbattuto ed infine nel Panko. Friggere in olio a 160°C fino a doratura.

Impiattare alternando i fagottini e i cubetti di piedini fritti.

Terminare il piatto con alcune fettine di zenzero marinato.

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GOURMETFOOD

TRA CAPRA E PECORA INGREDIENTI per 4 persone

filo d’olio. In una pentola dal bordo alto far

Gerardo di Nola

Aggiungere alle verdure la carne rosolata,

g. 320 di fusilloni al ferretto

g. 300 di spalla di capra macinata grossa ml. 100 di fondo di capra

g. 100 di sugo di pomodoro g. 80 di pecorino di Filiano sedano carota

scalogno

rosmarino

salsa Champonzu olio evo sale

PREPARAZIONE

In una padella di ferro rosolare molto bene a fiamma vivace la carne di capra con un

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sudare il trito di verdure.

il fondo di capra e la salsa di pomodoro, dopodiché amalgamare il tutto. Aggiustare

di sale, trasferirlo in una teglia e raffreddar-

lo in abbattitore. Una volta freddo, condizionare s/v aggiungendo due rametti di rosmarino.

Cuocere a 85°C per 3 ore.

Cuocere i fusilli in abbondante acqua salata per 18 minuti. Trascorso il tempo indicato, scolarli e trasferirli in una padella con il sugo di capra e proseguire la cottura per altri

4 minuti. Aggiungere due cucchiai di salsa champonzu e mantecare fuori dal fuoco.

Impiattare a nido e spolverare di pecorino di Filiano.

sartoriali, e il Pont de Ferr diventa il punto di incontro tra la bohème sforzesca e la laccata contemporaneità di una città in fermento con ambizioni internazionali. Perdomo, a un certo punto, lascia la nave per iniziare la sua nuova avventura al Contraste. “Un cambiamento fisiologico”, dice la Mercuri, che regge l’impatto del matricidio e della perdita della stella Michelin dovuta all’abbandono del luogotenente. Un breve passaggio nelle cucine di Vittorio Fusari alla ricerca della restaurazione e, infine, il nuovo matrimonio con Ivan Milani, torinese sceso da Piano 35, avveniristico spazio ospitato nel grattacielo di Intesa Sanpaolo, per approdare nell’osteria dell’anima per eccellenza. Un salto notevole, non solo metaforico. Ivan Milani è oggi l’interprete delle due anime del Pont: la tradizione, oggi arricchita dalla matrice piemontese che accosta un vitello tonnato da manuale al solito dittico “alla Gianni Brera” risotto+cotoletta, e la verve creativa di un autodidatta che riscrive la tradizione attraverso i propri occhi e le imprescindibili contaminazioni alloctone. C’è ancora Perdomo in “Messico e Nuvole”, un peperoncino chili di zucchero soffiato ripieno di guacamole, un divertissement che segue un breve aperitivo di cialdine, noccioline e chicche di wasabi. Milani si intravede nella ciliegia di piccione, un altro gioco illusorio dove “quel che sembra non è”, e si rivela nell’ormai best-seller midollo di bue gratinato al forno e ricci di mare, ovvero un piccolo manuale dei sapori intensi. Intensità e contrasto inseriti nella tradizione sono forse la caratteristica principale del nuovo corso del Pont della già premiata ditta Mercuri-Milani: capasanta, salicornia in tempura e crema di ostrica allo zafferano aggiunge sensazioni iodate alla in-


trinseca dolcezza della capasanta, le animelle d’agnello glassate sono arricchite dai porri fermentati a conferire acidità e lunghezza al palato. E’ un omaggio a Marchesi il tempo delle uova d’oro, cotto bt e sormontato da caviale e l’immancabile foglia d’oro. risotto all’astice e aglio nero fermentato conferisce tono a un classico della nostra cucina di mare. Cervo, miso e melanzana stempera leggermente una selvaggina cotta in modo esemplare, con note dolci ed esotiche mai invadenti. Il menu cambia frequentemente, in base alla stagionalità ma soprattutto all’ispirazione dello chef, che ha incontrato una felice fase creativa: “Sono innamorato di questo progetto”, dice. “Sono orgoglioso delle mie radici piemontesi e della possibilità di reinventare anche la tradizione lombarda con ingredienti e accorgimenti che provengono da culture diverse”. Maida Mercuri si conferma talentscout di chef, sommelier di inarrivabile esperienza e, soprattutto, patronne dell’Osteria 2.0., luogo dell’anima dove convergono sapienza enoica, tradizione, cucina contemporanea e la sensazione di sentirsi tra le mura domestiche. Il segreto di questa alchimia? Probabilmente la capacità di non fermarsi mai. Del resto, dice Maida, “se c’è qualcosa che può tenermi ferma, quella è solo la mano di Dio”.

SOTTOBOSCO INGREDIENTI per 4 persone

Aggiustare di sale, aggiungere il succo di

succo di yuzu

Conservare in caldo. Pulire gli shijtake.

ml. 200 di sangue di maiale fresco succo di chinotto

4 funghi orecchie di Giuda secchi 12 funghi shijtake freschi g. 10 di the Bancha 8 lamponi freschi aglio timo

grasso d’oca

fondo di vitello burro salato sale

AL PONT DE FERR

Ripa di Porta Ticinese, 55 - Milano Tel. 02 8940 6277

www.pontdeferr.it

pontdeferr@gmail.com

PREPARAZIONE

Preparare un the concentrato con il Bancha e farlo raffreddare. Ammollare le orecchie di Giuda nel the.

Cuocere il sangue di maiale per 18 minuti a 85°C nel thermomix.

yuzu e di chinotto e amalgamare.

Staccare le 4 teste più belle e condizionarle s/v con un cucchiaino di grasso d’oca.

Cuocerle per un’ora a 60°C e raffreddarle in abbattitore.

Tagliare a lamelle sottili i restanti funghi.

Scaldare un filo di olio evo in una padella

con uno spicchio d’aglio e un rametto di timo fresco. Saltare velocemente gli shijta-

ke, abbassare la fiamma ed aggiungere il burro ed il fondo di vitello. Terminare la

cottura. In una padella di ferro ben calda piastrare le teste di shijtake e le orecchie di Giuda.

Versare a specchio sul fondo del piatto la salsa di sangue.

Appoggiare sulla salsa, i funghi piastrati e

quelli passati in padella. Chiudere il piatto con 2 o 3 lamponi freschi.

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INTERVISTA A... di

Giulio De Ambrosis Vigna

IL SISTEMA

STUMPO

NEI LOCALI MAMMA ROSA, LA TAVERNA DEI GOLOSI E OSTERIA ITALIANA Ci sono molte ragioni per le quali vale la pena fare il nostro lavoro, una di queste è incontrare persone che nel 2018 ti possano ancora stupire ed insegnare. In questo caso, La Madia incontra Valerio Stumpo, Chef e proprietario di vari ristoranti a Milano, che in un paio di ore ci dà una lezione di vita, partendo dalla cucina, facendoci vivere un’esperienza formativa e poli-sensoriale. Lo incontriamo nel suo regno, il Ristorante Mamma Rosa di piazza Cincinnato a Milano, una vera oasi per nutrire stomaco e mente; siamo accolti da un lungo espositore dove i mille colori della frutta e della verdura fresca di stagione sovrastano un buffet, un vero e proprio elisir per la mente, che ci fa presto dimenticare lo sferragliare dei tram sui binari ed il caos dell’ora di pranzo.

L’INTERVISTA Valerio che cos’è per lei la cucina e a quale si è ispirato? La mia idea di cucina è semplice: decisi molto tempo fa (più di trent’anni) che dar da mangiare alle persone sarebbe stata la mia missione; da 31 anni gestisco ristoranti in proprio e quello dove siamo ora da 27; da sempre preparo i piatti lavorando con gli ingredienti di stagione, siano essi frutta e verdura oppure pesce. Naturalmente quando si parla di pesce o più in generale di prodotti del mare, i branzini, le orate, i rombi e le rane pescatrici li troviamo tutto l’anno, ma noi proponiamo anche calamaretti spillo e moeche che sono più stagionali; d’estate le ostriche le lavoriamo meno, perché - forse non tutti lo sanno - ma in quel periodo sono leggermente più grasse; per questo motivo non le consigliamo oppure proponiamo una suggestione che prevede di farle fritte perché nella cottura si “sgrassino un pochettino”. Un’altra nostra passione sono, in aprile e maggio, i gamberi viola di Sanremo, che mi piace proporre come carpaccio, perché si riesce ad ottenere il massimo dal prodotto. Cerchiamo di avere sempre una marcia in più, insomma.

na; al mercato si vanno a vedere e a comprare i prodotti, ma frequentarlo ti apre la mente e ti fa migliorare; ammetto di non riuscire ad andare tutti i giorni, ma a giorni alterni vado a comprare sia il pesce che la frutta e la verdura. Va detto che siamo anche fortunati perché il mercato del pesce di Milano è imbattibile, davvero uno spettacolo! Chef, la sua passione l’ha aiutata certamente, ma il suo successo è anche frutto di preparazione di base e gavetta? Da ragazzo mi piaceva troppo cucinare e dopo la scuola

È necessaria quindi un’assidua frequentazione del mercato? Questa attività è alla base di tutto; tutti gli chef lo dicono, ma non tutti lo fanno. Il cuoco deve andare al mercato perché solo lì può trovare il prodotto che lo ispira e lo emozio-

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INTERVISTA A...

alberghiera ho fatto molte stagioni per cercare di imparare, per vedere e capire bene cosa succedesse stando in cucina; è questo che devono fare i giovani ancora oggi. Poi avevo uno zio che faceva il cuoco a Milano e trasferirmi è stato naturale. C’è qualcuno che l’ha ispirata più di altri? Parlando di carne mi influenzarono molto il titolare del Ristorante Ribot di Milano e lo chef che ci lavorava (ora c’è il figlio che è molto bravo e continua nella tradizione); per il mare l’ispirazione me la diede invece una donna, che fece la differenza; era una cuoca “casalinga” del ristorante Arrow’s di Milano; fu in quel periodo che imparai molte cose relative all’arte culinaria ma anche la disciplina per l’ordine e la pulizia della cucina stessa, che è fondamentale e fa fare veramente la differenza. Nella mia cucina, nelle mie cucine, cerchiamo di utilizzare solo il top; i nostri piani cottura e frigo sono Zanussi, perché sono funzionali per uno chef per innumerevoli motivi oltre a funzionare bene; il forno è Rational, ed è uno strumento assolutamente indispensabile; poi ci sono gli abbattitori di temperatura che sono alla base della conservazione dei nostri prodotti. Usiamo padelle di alluminio e anche di rame e ci serviamo da Modigliani che propone molti modelli che furono pensati e disegnati da Gualtiero Marchesi.

Quali sono i suoi piatti preferiti, quelli di carne o di pesce? Non ho preferenze. Una cosa è certa, la cosa più difficile è cucinare la carne: fare un eccellente brasato non è da tutti! Per non parlare delle costolette d’agnello alla griglia, solo apparentemente facili; infine si pensa comunemente che cucinare un filetto alla griglia sia per tutti, mentre invece per prepararlo alla grande, prima bisogna grigliarlo, poi farlo riposare e infine passarlo nel forno perché si “sfibri” e diventi eccellente. Con dei piccoli tocchi una ricetta di terra si può esaltare: l’ha mai assaggiata una bistecca americana sulla griglia unta col burro, passata poi in forno? Ci sta facendo venire l’acquolina, solo con il racconto dei suoi piatti, ma lei racconta i piatti ai suoi ospiti? Quando c’è il servizio, io sto rintanato in cucina; le chiacchiere servono a poco, semmai a fine servizio vado a salutare velocemente i clienti perché poi ritorno

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a controllare come sistemiamo la cucina e poi pensiamo agli ordine del giorno dopo. Tu hai vinto quando il tuo cliente ha svuotato il piatto, non quando gli fai perdere tempo con le chiacchiere. Ci sono cose fondamentali che hanno la precedenza sull’apparire e che ti fanno avere successo in questo mestiere. I miei locali sono e sono stati locali di successo anche nei momenti difficili degli scorsi anni e questo grazie soprattutto alla mia squadra! Avere un gruppo di persone affiatate e motivate fa la differenza; si devono volere bene tra loro e giocare bene insieme, come in una squadra di calcio. C’è una sola differenza: nella partita di calcio, se giochi male e

perdi, non prendi i tre punti e lo vedi subito; in una cucina invece, se due persone su 11 non lavorano bene, te ne accorgi 6 mesi dopo, e nel frattempo il locale perde. Quali sono i piatti che fanno la differenza? I piatti che fanno la differenza sono quelli fatti bene, sembrerà banale ma è così!! Vanno studiati, imparati e fatti con attenzione e cura, anche quelli all’apparenza facili. Parliamo di un pacchero all’Amatriciana, un semplice


fiore di zucchina fritto: dovrà essere cotto al punto giusto, non essere unto e infine servito velocemente. Poi possiamo anche alzare il livello, per esempio con l’uso delle gelatine. Una gelatina di Schweppes che impreziosisce un carpaccio di pesce o con una tartare di tonno; una chip di patata viola serve per far vedere al Cliente che tu le cose le sai fare, che hai una marcia in più, ma non è quello che fa la differenza; quello che fa la differenza è quando si sa far bene un branzino alla ligure con i pinoli, le olive taggiasche e le patate viola, che poi impreziosisci con una chip, non viceversa! Cos’è cambiato da dieci anni a questa parte? La clientela si è modificata, ha cambiato le sue abitudini. Oggi la clientela viene da Mamma Rosa non deve necessariamente spendere 50 o 60€, ma può anche fermarsi per assaggiare i nostri paccheri all’Amatriciana e godersi un calice di vino con una cifra contenuta. Abbiamo sposato l’idea di democraticità nel proporre i nostri piatti. Il cliente è sempre benvenuto e noi trattiamo tutti allo stesso modo: bene! Noi abbiamo rispetto per tutti i clienti, per quelli che spendono tanto ma anche per quelli che spendono meno; quando un mio cliente ordina solo dei paccheri invece che un’aragosta alla catalana, io sono comunque contento perché so che una persona è venuta per mangiarsi i MIEI paccheri all’Amatriciana. Per me quello che è importante è che le sedie del mio ristorante siano piene. C’è una cosa che mi riempie di orgoglio: quando nel mio locale vengono le famiglie! Se vengono le famiglie è perché il locale è sano. Io sono orgoglioso di aver dato da mangiare a bambini che ora sono diventati uomini e che continuano a venire da me perché mangiano bene e si trovano ancora meglio.

Che cosa la rende più orgoglioso? Abbiamo creato un team che dura da anni; abbiamo collaboratori che sono con noi anche da 26 anni e di questo vado fiero. Gli altri locali che possiedo a Milano sono La Taverna dei Golosi in zona Sempione e L’Osteria italiana in zona Stazione Centrale che sono realtà un po’ diverse da Mamma Rosa, ma sempre format creati dal sottoscritto seguendo la stessa filosofia; sono diretti da persone che sono stati i miei allievi di ieri. Siamo 75 persone e quindi ho una grande responsabilità, che fa sì che a volte io sia stanco ma certamente molto orgoglioso e fiero di quello che abbiamo fatto. È anche contento? Sì (e ce lo dice con la luce negli occhi). Io nella vita lavorativa non mi aspettavo tutto questo e quindi sono molto contento e soddisfatto. Cerco anche di insegnare alle persone che credo se lo meritino; quando mi capita davanti un ragazzo che capisco che ha le capacità e la voglia, veramente lo stimolo a far bene e ad impegnarsi. Ho ricevuto molte soddisfazioni che mi hanno reso contento, perché più di uno dei miei ragazzi ha fatto strada! E poi mi piacerebbe sottolineare un altro aspetto, a tale proposito: io stesso ho sempre bisogno di imparare e migliorarmi. Nel mio locale ho fatto venire anche degli chef stellati a lavorare, molto più giovani di me, per imparare io da loro. Ho chiesto loro di venire in cucina ed insegnarci qualcosa per alzare il nostro livello: “Fai quello che vuoi e dicci dove possiamo migliorare”. Mi sono accorto che quell’anno in cui l’ho fatto, i risultati ne hanno risentito poritivamente, perché è vero che prediligo la cucina tradizionale e semplice, ma è anche vero che bisogna vedere anche altro e sperimentare per migliorarsi.

Una persona che ha avuto e che ha successo come lei, che cosa potrebbe volere di più? Mi piacerebbe fare un restyling del locale che dopo 27 anni di onorato servizio e qualche ritocco parziale nel corso degli anni, ha bisogno di cambiare per migliorare ulteriormente. Ma questa cosa va impostata bene perché questo tocca i miei clienti, soprattutto quelli abituali.. “Lei lo sa che in questo palazzo sono tutti clienti miei? Questa è una cosa bellissima!” Mi piacerebbe poi creare qualche piatto nuovo e divertirmi, continuare a divertirmi! Più del pieno non posso fare e questo è un risultato che ho costruito nel corso degli anni con tutta la mia Squadra.

OSTERIA MAMMA ROSA

Piazza Cincinnato, 4 - Milano Tel. 02 2952 2076

www.osteriamammarosa.it info@osteriamammarosa.it

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GOURMETFOOD

TRUSSARDI ALLA SCALA L’OPEROSITÀ E IL TOCCO ARISTOCRATICO DI ROBERTO CONTI di

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Giulia Gavagnin


Ci ha messo un po’ di tempo Roberto Conti a conquistare la fiducia della critica specializzata, abituata troppo bene dalle parti di Piazza della Scala. Andrea Berton prima e Luigi Taglienti poi, due tra i migliori interpreti di una cucina neoclassica che sembrava cucita addosso alle pelli e alle sete del marchio Trussardi, così affini allo spirito della città di Milano: rigorosa, infaticabile, eppure scintillante. Tuttavia, Conti ha saputo avere pazienza, anche grazie ai numeri potati alla maison di alta moda: un sold-out quasi permanente, un risultato persino superiore a quello ottenuto dai suoi ingombranti predecessori. Il segreto? E’ difficile decifrarlo, come in ogni enigma che si rispetti. Probabilmente un’innata leggerezza nell’incontrare i gusti di una clientela internazionale, unita a un lavoro incessante: Conti è al tempo stesso chef operaio e aristocratico, infaticabile uomo dei fornelli e artigiano di cucina cesellata e nobile. I suoi piatti freschi e profumati di ispirazione italo-francese sono stati premiati lo scorso anno dalla Michelin con l’ambita stella. Le origini sono pavesi, con sogni di calcio professionistico infranti da un infortunio: episodio decisivo che l’ha portato nella cucina del ristorante Maria a Vigevano, tavola notissima nel territorio. “Ho sempre lavorato tantissimo”, dice. “Deve essere un’eredità familiare, qualcosa che ho nel DNA. Non mi sono mai accontentato di condurre una vita modesta: a 22 anni ero chef di un ristorante sempre pieno e circolavo con la più bella automobile del quartiere!”. E’ stato in quel momento che Conti ha capito che la sua vocazione calvinista al lavoro sarebbe stata lo strumento decisivo per iniziare un’importante evoluzio-

ne. “Mi stavo appassionando all’alta cucina e, in quanto sportivo, mangiavo moltissime insalate anche sembra buffo dirlo. Pertanto, interessato al mondo vegetale, chiesi a Pietro Leeman di entrare a far parte della sua brigata al Joia. Ci sono rimasto per un bel po’ di tempo e l’ho trovata un’esperienza fondamentale perché da un

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GOURMETFOOD

SPAGHETTO

cacio, pepe e ricci di mare INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

pepe suddivisi in parti uguali tra nero di

vati ad ebollizione, legarli con i restanti 100 grammi nei quali avremo disciolto la Maizena.

g. 320 di spaghetti di Gragnano, g. 8 di Sarawak, Sichuan, giamaicano, e bianco di penja, dl. 2 di brodo di pollo (ricetta clas-

sica), g. 150 di pecorino romano, g. 150 di pecorino toscano semistagionato, g. 500

di latte di pecora, g. 15 di Maizena, 16 ricci di mare, 4 foglie di basilico, 1 spicchio d’aglio, dl. 2 di salsa di pomodoro (ricetta classica), dl. 2 di olio evo, sale q.b.

Prendere una casseruola e metterla sul fuoco, inserire 400 grammi di latte e, una volta arriUna volta fuori dal fuoco, inserire il pecorino romano grattugiato e lasciare in infusione per circa 10 minuti. Frullare mediante l’ausilio di un frullatore ad immersione e tenere in caldo.

Pulire i ricci di mare, aprirli e stemperarli lievemente in casseruola con uno spicchio d’a-

glio, 4 foglie di basilico e la salsa di pomodoro; spostarli dal fuoco, pellicolare la pentola e lasciar riposare.

Nel frattempo portare ad ebollizione l’acqua per la cottura della pasta e salarla legger-

mante. Prendere un’altra casseruola, metterla sul fuoco a fiamma dolce, inserire il brodo di pollo e il pepe (4 tipi) in infusione.

Cuocere la pasta e, una volta ultimata la sua cottura (rigorosamente al dente), scolarla e

versarla nella casseruola col brodo (ovviamente avendo prima filtrato il pepe). Aggiunge-

re la fonduta di pecorino e saltare bene gli spaghetti, e adagiarli nel piatto con sopra un cucchiaio di ragù di ricci.

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lato mi ha sprovincializzato, dall’altro mi ha posto a contatto con uno chef di grandissimo rigore e tecnica”. Lo step successivo è stato proprio al Trussardi, alla corte di Andrea Berton, che inizialmente lo ha collocato al bar a fare i panini. “Un’esperienza fondamentale” dice sorridendo. “E’ come quando agli allenamenti di calcio ogni tanto mi mettevano a fare il portiere. Vedi le cose da un’altra prospettiva”. Il passaggio al bar è stato però ben presto sostituito dall’ascesa al primo piano del Trussardi, quando Berton l’ha nominato sous-chef, titolo che ha mantenuto anche con l’arrivo di Luigi Taglienti come executive chef. Tuttavia, se oggi Roberto Conti è il capo assoluto della brigata, il merito è di Carlo Cracco il quale, chiamato come consulente dopo l’addio di Taglienti ha chiesto al giovane sous-chef di disegnare un menu completo per testarne le qualità. E’ bastato pochissimo perché lo definisse “abile e arruolato”. “E’ stata una sfida importante, perché sono stato nominato executive chef a soli 32 anni. Fin da subito, però, ho deciso che sarei stato me stesso, consapevole dello spessore di chi mi ha preceduto. Sapevo di avere dalla mia parte una buona esperienza e una capacità di sopportare il lavoro probabilmente superiore alla media: in sei anni non ero mai stato assente un giorno. Inoltre, non avevo l’ambizione di essere uno chef-star, ma solo un cuoco che rende felice il cliente. I numeri mi hanno dato ragione, poi è arrivata anche la stella che è un riconoscimento che ha fatto bene a me e all’immagine di questo ristorante, che in passato di stelle ne ha avute anche due (nel periodo di Berton – ndr). Quando Conti ha preso i comandi dei fornelli del Trussardi si è subito parlato di un piatto, che pur non essendo sempre in carta, è disponibile tutto l’anno

ASTICE BRETONE AL BARBECUE Beurre Blanc e patata viola

(Dedicato a Lady Gava)

INGREDIENTI per 4 persone 4 astici blu bretoni di g. 750

Per il court-bouillon: 1 carota, 1 cipolla bianca, 1 costa di sedano, 2 gambi di prez-

zemolo, l. 2 di acqua, ml. 200 di vino bianco secco, 1 pizzico di pepe nero in grani, 1 chiodo di garofano, g. 5 di sale grosso, 1 scalogno.

Per la salsa Beurre Blanc: 1 scalogno, ml. 300 di vino bianco, ml. 300 di aceto bianco, g. 400 di burro giallo, ml. 150 di brodo di pollo (nella mia ricetta).

Per le patate viola: kg. 1 di patate viola (Vitellote), g. 100 di aceto rosso. PROCEDIMENTO

Sezionare gli astici, dividendo le chele dal corpo, e sbollentare all’interno del courtbouillon i corpi per 5 minuti, le chele per 6 minuti.

Preparare il Beurre Blanc mettendo in una casseruola il vino, l’aceto e lo scalogno, far ridurre del 50%, aggiungere il brodo di pollo e il burro, far ridurre nuovamente del 50% ed emulsionare fino ad ottenere una salsa montata.

Prendere poi una pentola di acqua leggermente salata, farvi bollire tutte le patate tranne 2; una volta cotte, sbucciarle e passarle ad un setaccio medio, infine condirle con olio sale e aceto rosso. Tenere da parte.

Prendere le altre 2 patate, lavarle bene e, mediante un’affettatrice o una mandolina, affettarle finemente. Lasciarle sotto acqua corrente per circa 1 ora ed infine friggerle lentamente in olio di semi di mais a 160°C fino ad ottenere una chips croccante. IMPIATTAMENTO

Prendere gli astici, passarli ad un BBq, scaldare la salsa Beurre, mettere la patata viola alla base, posizionarvi dentro le chisp, adagiarvi accanto l’astice e versare sopra la salsa.

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GOURMETFOOD

a richiesta: gli spaghetti cacio e pepe con i ricci di mare (ricetta a pag.74). Una ricetta tradizionale con un’essenza iodata che rappresenta bene la prima fase di Conti da Executive chef, ben attento che la materia prima fosse impeccabile e i sapori finali del piatto di facile comprensione. E, infatti, con questa versione rivisitata della celebre specialità romana, ha colpito nel segno. E’ un piatto di grande carattere, impreziosito dalla fonduta di pecorino stemperata nel latte di pecora e dalla cottura degli spaghetti in brodo di pollo speziato con pepi di quattro tipologie diverse. Piccoli dettagli che fanno la differenza. Successivamente, la cucina di Conti si è resa più caratteriale, con accostamenti mai troppo stravaganti ma dai contrasti decisi. E’ soprattutto emersa la grande passione per la tradizione francese, oggi celebrata con la lepre alla royale, che resterà sempre in carta nei mesi invernali. Questa ricetta non ha certo bisogno di presentazioni: concepita dal “cuoco dei cuochi” Marie-Antoine Careme nella seconda metà del settecento, è considerata dai transalpini la prova del nove per capire davvero la bravura di uno chef. “Ne ho mangiate cento prima di arrivare alla mia versione” dice Conti. “La lepre deve essere rigorosamente cacciata, la preparazione dura due giorni. Il primo è di marinatura e di preparazione del torchon di foie-gras e della salsa, il secondo di farcitura e cottura sottovuoto e di finitura della salsa con aggiunta di cioccolato. Il mio asso nella manica è un Marc de Bourgogne del ‘95”. Quando le lepri non sono all’altezza, è il piccione a essere cucinato alla royale, farciti con i petti e le frattaglie. Se la cacio e pepe ai ricci è l’alfa e la lepre alla royale l’omega, nel mezzo c’è un mondo. Il pesce proviene quasi tutto da un primario fornitore ligure e viene lavorato il meno possibile, imprezio-

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sito per lo più da guarniture e salse. La carne è invece l’autentica passione dello chef, che la trasforma aggiungendo il proprio estro a cotture rigorose. “E’ dalla carne che si misura la passione di un cuoco, il pesce va rispettato di più nella sua essenza”. La carne wagyu, presentata nella sua versione tradizionale al barbecue, finisce persino a impreziosire il risotto alla milanese in luogo del midollo. E’ intensa la pancia di maiale in agrodolce e patata affumicata, ed è quasi eterea la panatura della costoletta alla milanese con patate cristallo, quasi sempre disponibile anche in cubi alla maniera di Gualtiero Marchesi. Pesci e crostacei attingono al repertorio internazionale, dalla Francia al Giappone: una personale interpretazione dell’abalone, scampo crudo e caviale; astice bretone in beurre blanc e patata viola; merluzzo nero al miso su insalata di alghe e rombo in assoluto di trombetta. Probabilmente con Roberto Conti, la maison Trussardi ha fatto la quadratura del cerchio. Radici lombarde profondo, stile sobrio e apertura internazionale. L’ex sous chef dei grandi è diventato grande anch’egli.

RISTORANTE TRUSSARDI ALLA SCALA

Piazza della Scala, 5 - Milano - Tel. 02 8068 8201

www.trussardiallascala.com - ristorante@trussardiallascala.com


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GOURMETFOOD

PESCHERIA

PESCE VIVO IL MARE A MILANO di

Antonietta Mazzeo

Se esiste un cibo collettivamente eclettico e popolare, questo è, con molta probabilità, il pesce. Dalla ricchezza delle ostriche alle portate a base di “pesce povero”, meno nobile, ma dalla freschezza, potenzialità organolettica e fragranza uniche, passa tutta la tradizione di un “popolo di marinai” ricca di innumerevoli preparazioni per cucinare il pesce, che dà ragione della nostra tipicità mediterranea. Pesce Vivo è una delle pescherie più rilevanti d’Italia, dal 1946 un punto di riferimento per gli amanti del pesce a Milano, dove si incontrano tradizione, storia e passione per il commercio del pesce: qui le promesse di tracciabilità, freschezza e qualità, vengono rigorosamente mantenute. L’indiscutibile e riconosciuto valore della proposta del pescato, pesce fresco e crostacei, dalla genuinità certificata, la cui

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origine è sempre accuratamente verificata e controllata, è unica nel suo genere, per sapore e freschezza. L’attenzione per i dettagli e la cortesia dello staff di Pesce Vivo, sono da sempre la prerogativa che ha consentito, nel corso degli anni, di acquisire quel valore essenziale, assoluto ed indubitabile, che è la soddisfazione del cliente. Ad accompagnare le eccellenze ittiche di Pesce Vivo, l’offerta di prodotti gastronomici ed enologici di elevata qualità, frutto della creatività e dell’impegno di grandi e piccoli produttori. Prodotti esclusivi, simboli della cultura, della tradizione e dell’arte culinaria nazionale, come le olive, le alici marinate, gli oli extravergini di oliva, i sott’oli e le conserve, i legumi, la pasta artigianale e il riso carnaroli. La “cantina” offre un’interessante proposta di etichette nazionali di riferimento, e un “tocco” di Francia. Piccole scoperte locali e sorprese enologiche da cui è difficile non lasciarsi

tentare, consentono di scegliere tra spumanti, champagne, vini bianchi, vini rosati e qualche rosso abbinabile alle preparazioni di pesce. La pescheria Pesce Vivo offre ai propri clienti un’ampia gamma di servizi, come piatti freschi, già preparati dallo staff e pronti da cuocere, la selezione dei carpacci, le tartare e le crudités, già pronte per essere servite in tavola, l’abbattimento di qualsiasi prodotto, previa richiesta anticipata; il processo di abbattimento è necessario ai fini del consumo di pesce crudo e consiste nel portare il prodotto scelto alla temperatura di -40°C in 4 ore, affinché i batteri e parassiti possibilmente presenti vengano eliminati) e il servizio gratuito di consegna a domicilio. Il servizio è attivo durante gli orari lavorativi e si estende su tutto il comune di Milano, in base ad orario e disponibilità.

PESCHERIA PESCE VIVO Via G. B. Sammartini 68 Milano

Tel. 02 6707 1168

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INTERVISTA A...

IL JUSTIN BIEBER DEL CIBO:

FLYNN McGARRY UNO CHEF PRODIGIO A NEW YORK di

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Lucy Gordan


FLYNNMCGARRY

Un ragazzo longilineo, magro, con lentiggini e un ciuffo di capelli biondo ramato, tagliato stile Elvis Presley senza brillantina: Flynn McGarry è nato a Malibu, in California, il 25 novembre 1999. Fin dall’età di 10 anni ha avuto ben chiaro in (quella!) testa di voler diventare top chef. Così solo due anni più tardi apriva “Eureka!”, un locale in casa dei genitori che offiriva un menu di dieci degustazioni al costo di 150 dollari (preparava le cene in una cucina all’avaguardia installata nella sua camera da letto). La sua specialità si chiamava “McGarry Beet Wellington”. La sua celebrità fu istantanea. Ad appena 13 anni il New Yorker pubblica una sua biografia intitolata “Prodigy”. Nel marzo 2014 il New York Times gli dedica il servizio speciale “Lo Chef a 15 anni”, paragonandolo ad altri chef di fama mondiale come René Redzepi che avevano iniziato le loro carriere molto giovani. Lo stesso anno la rivista americana Time lo dichiara uno dei 25 adolescenti più influenti al mondo. Nel 2016 anche Vogue gli dedica il servizio speciale: “Un incontro con il Justin Bieber del cibo: lo Chef Flynn McGarry di 16 anni.” Il 1° marzo 2018, dopo diversi stages e impieghi brevi in ristoranti americani ed europei (la maggior parte dei quali premiati

con tre stelle Michelin), apre il suo primo ristorante permanente di nome “Gem”, al 116 Forsyth Street nell’East Village di New York, anche se è ancora troppo giovane per intestarsi una licenza per la somministrazione di alcolici. Lo spazio è diviso in due sale: una sala da pranzo e un salone per gli aperitivi e i dolci, caffè e digestivi. L’arredamento è un miscuglio di mobili scandinavi, bohemienne e casual californiani. Questo il menu che chi scrive ha provato: una ceviche di gamberi in succo di rabarbaro con peperoni grigliati e panna fresca; piselli con tofu fresco e uova di trota affumicate in brodo di funghi refrigerato; carne alla tartara con salsa tonnata, fave e portulaca; crema di asparagi con frutta secca; asparagi bianchi con aghi di pino; tortellini con pane fritto in brodo di parmigiano e cipolla caramellata; cetriolo grigliato e “celtuce” in yogurt con chili, foglie di acero affumicate e tuorlo d’uova; rapa rossa con sugo di cime di rapa e bordelaise; “la festa di aragosta”: diversi pezzi di aragosta grigliati e speziati con frutta. Abbiamo ordinato una bottiglia di Sant’Isodoro Verdicchio di Matelica Pié del Colle, l’unico vino italiano sulla lista. Qui di seguito l’intervista esclusiva per La Madia Travelfood.

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INTERVISTA A...

L’INTERVISTA I nostri gusti per il cibo sono strettamente collegati all’infanzia; le tue prime memorie sul cibo? Sono cresciuto vicino alla spaggia di Malibu in California, perciò amo il pesce. In più, avevamo un vicino di casa che pescava il tonno e che ci regalava sempre una parte del suo pescato. Avevo circa 5 anni all’epoca. I suoi tonni sono i miei primi ricordi di un prodotto alimentare prima che fosse cotto o preparato. Quando e perché è nato il tuo amore per cucinare? A circa 10 anni. Ambedue I miei genitori erano dei “foodies” ed amavano cucinare soprattutto piatti semplici, per esempio, il pollo arrosto. Purtroppo cucinavano le solite cose e io ero stanco di mangiare sempre gli stessi piatti o del take-out, dopo la loro separazione. La soluzione: ho iniziato a cucinare. Ma non cucinavo la cena e basta.

In poco tempo sono diventato ossessionato dall’idea di diventare un top chef a tutti i costi. Nei successivi due anni ho imparato le basi. Per il mio undicesimo compleanno i miei mi hanno regalato una copia del “French Laundry Cookbook” e in poco tempo mi sono impadronito di tutte le ricette più complicate.

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Guardavo anche senza sosta tutti i video riguardanti la cucina trasmessi su YouTube. Non andavo a scuola. Studiavo a casa seguendo un programma online, così da potermi concentrare sul cucinare. Appena ho ritenuto che la mia abilità avesse raggiunto un buon livello, mi sono messo alla prova chiedendo a mia madre di invitare qualche amica a cena: preparavo io. Il numero degli partecipanti continuava sempre a crescere finché a 13 anni ho aperto un mio ristorante (pop-up “Eureka!”) a casa mia. Preparavo un menu di 10 degustazioni, che costava 150 dollari a persona.


FLYNNMCGARRY

La tua gavetta? Ho iniziato al “Ray’s and Stark Bar”, un locale disegnato da Renzo Piano nel museo d’arte della contea di Los Angeles. Poi ho fatto brevi stages con Daniel Humm a “Eleven Madison Park” qui a New York, con Grant Achatz ad “Alinea” e “Next” a Chicago, e con Nathan Myhrvold al “Modernist Cuisine” a Seattle prima di lavorare per tre anni, tra i 14 e i 16 anni, con Ari Taymor ad “Alma”, in West Hollywood (locale che oggi non non esiste più). Mi sono quindi trasferito in Europa, prima ad Oslo, dove ho lavorato a “Maaemo”, e poi a “Geranium”. Tornato a New York ho fatto un paio di pop-ups, ciascuno di sei mesi, per poter continuare a viaggiare in Europa. Prima di aprire “Gem” sono venuto in Italia (purtroppo per troppo poco tempo), in Calabria, dove ho lavorato come contadino in una fattoria a Sant’Agata del Bianco, dove avevo degli amici. Da lì mi sono traferito a Modena, Bologna, e Parma: volevo imparare a fare la pasta fatta in casa. Adoro l’Italia e quando torno vado in Sicilia, a Catania. Credo che gli chef tre-stelle in Italia siano formidabili, ma l’aspetto che mi affascina

del cibo e dei piatti è la semplicità e genuinità della cucina tradizionale. Chi sono i tuoi mentori? Cosa hai imparato da loro? Sono autodidatta. Ho voluto capire la molteplicità delle tendenze culinarie senza essere influenzato da una sola persona. Ho assorbito stili e tecniche culinarie da ristoratori diversi tra di loro. Ma, per esempio, ho imparato ad amministrare un ristorante da Humm. Come definiresti la tua cucina? Moderna e americana, focalizzata sulle verdure. Cerco gli ingredienti migliori al momento sul mercato e li preparo nell’originale stile McGarry. Le qualità essenziali per diventare top chef? La creatività, l’attenzione inesorabile ai dettagli, per ogni cosa, anche quella meno importante sia al ristorante, sia nella tua vita privata. Devi prestare la massima attenzione per non trascurare niente; devi mirare alla perfezione; devi cercare di migliorare

tutto tutti i giorni. Io amo lavorare sotto stress. Nessuno chef famoso che conosco si siede sui propri allori. Molte persone non capiscono che un top chef deve essere un uomo d’affari esperto. Diverse critiche ti dipingono come presuntuoso, viziato. E ricco. Allora perché hai successo? Queste critiche sono al cento per cento sleali. I miei genitori non sono miliardari, fanno parte del ceto medio. Mio padre fa il fotografo e mia madre la sceneggiatrice. Ambedue sono persone creative, ma non sono famose. Devo il mio sucesso al mio impegno costante, alla mia determinazione, alla mia ambizione, ma anche al sostegno ricevuto dalla mia famiglia e da tutti gli chef con cui ho collaborato. Sì, è vero che ho soltanto 19 anni, ma svolgo le stesse mansioni di uno chef di 34 o 44 anni, perciò nessuno dovrebbe sputtannarmi solo perché sono giovane. Uno chef italiano che ammiri? Massimo Bottura sia per la sua bravura in cucina, sia per il suo impegno sociale.

IL PANE DI PATATE DOLCI INGREDIENTI

2 patate dolci grandi, 1/4 di bicchiere di latte, 2 uova, 3/4 di bicchiere di olio di semi, 1 cuc-

chiaio di vaniglia, 1,5 bicchieri di zucchero di canna, 1 e ¾ bicchiere di farina 00, 1/2 cucchiaio di sale, 1 cucchiaio di bicarbonato di sodio, semi di zucca a piacere. PROCEDIMENTO

Arrostire nel forno a 180°C le patate dolci av-

volte in carta alluminio per un’ora fino a quando

non diventano morbide. Svuotare le patate e mischiarle con il latte, le uova, la vaniglia e unire a tutti gli altri ingredienti. Aggiungere i semi di zucca. Infornare a 165°C per 60-75 minuti.

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INTERVISTA A...

RITZ CRACKERS

al burro di arachidi con pâté di fegato e composta di ciliegie INGREDIENTI Per il pâté

Impastare tutti gli ingredienti e stender-

di zucchero, 1/2 cucchiaino di pepe bianco, 3 cucchiaini di Cognac.

1,3 centimetri. Tagliare l’impasto con un

kg. 1 di fegato, 1 cucchiaio di sale kasher, 1/2 cucchiaino di sale grosso rosa, 1 cucchiaino In un recipiente grande condire il fegato con i sali, il pepe e lo zucchero, dopo averlo pri-

vato delle sue venature. Aggiungere il Cognac. Mettere il fegato sottovuoto e nel frigo-

rifero per 24 ore. Toglierlo dal frigo e riscaldarlo in acqua tiepida a 60°C per 5-6 minuti. Passarlo al setaccio e raffreddarlo per poterlo modellare.

Mettere il fegato tra due fogli di carta da cucina e stenderlo con il mattarello fino all’altez-

li con il mattarello fino ad un’altezza di

coppapasta di 3 centimetri di diametro. Mettere i cerchietti in forno (170°C) per 8

minuti fino a quando non diventano dorati. Raffreddarli.

za di 1,3 centimetri. Porlo in frigo per solidificarlo.

Per la composta si può usare la marmella-

Per i “Ritz Crackers”

Spalmare prima il pâté su un cracker do-

2 bicchieri di farina 00, 3 cucchiaini di bicarbonato di sodio, 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaio di sale, 6 cucchiai di burro di arachidi, 1/3 di bicchiere d’acqua.

I tuoi ristoranti preferiti in Italia? “Da Danilo” a Modena e “Ristorante Cocchi” in Parma. Tu sei consapevole che, anche se non ha mai lavorato con René Redzepi, i piatti che ho mangiato qui assomigliano ai suoi? Che onore! Sì, e amiamo ambedue cucinare le verdure e i prodotti a Km. 0.

Anche tua sorella lavora con te, vero? Sì, Paris è il mio manager. Io sono troppo giovane per avere una licenza per alcolici. A New York bisogna avere 21 anni e io ne ho soltanto 19. Lei ne ha 21. Di giorno siamo soltanto in tre a lavorare; la sera siamo in 11. “Gem” ha 18 posti. Perché New York e non Chicago o Los Angeles? Ho sempre preferito New York, ho sempre voluto abitare qui. Credo che New York sia la città più adatta per “Gem”.

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Perché? Perché i newyorkesi capiscono meglio degli altri americani il concetto, il significato del ristorante e l’esperienza, il piacere di mangiare fuori casa. Gil altri americani giudicano l’esperienza in segmenti: l’ambiente, il servizio, e il cibo. Per esempio, a Los Angeles o a San Francisco si trovano tanti ristoranti rinomati soltanto per il loro cibo, ma l’ambiente o il servizio sono deludenti, non degni del loro cibo. Invece i newyorkesi giudicano un ristorante per l’esperienza totale. Dicono: “Usciamo a cena, è un evento, un avvenimento, una celebrazione.”

ta di ciliegie con dentro i pezzettini.

rato e poi, sopra, prima la composta e poi un altro cracker.

ho imparato a conoscere quando stavo in Danimarca. Si abbinano bene con la mia cucina, meglio dei vini classici. I vini classici hanno sempre la stessa consistenza e lo stesso gusto, non rispecchiano i miei piatti. Hai un sogno nel cassetto? Come ho già detto, io miro sempre in alto. Non sono mai soddisfatto, non mi fermo sui risultati ottenuti. Vorrei sempre migliorare. Ma se “Gem” è pieno, i posti esauriti tutte le sere e i clienti sono contenti, sono contento. Ma non mi dispiacerebbe ricevere riconoscimenti o premi professionali...

Oltre alla tua cucina e a quella italiana, quale cucina ami? Quella giapponese. I tuoi vini preferiti? I vini siciliani dell’Etna del produttore Frank Cornelissen. Poi mi piacciono i vini bianchi dell’Austria, per esempio il Grüner Vertliner e i vini naturali che

GEM

116 Forsyth St, New York NY 10002, Stati Uniti www.gem-nyc.com info@gem-nyc.com



ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”

LA MINERALITÀ NEL VINO È UNA PERCEZIONE TATTILE MA ESISTE? E CHI SE NE IMPORTA!

Il carattere minerale oggi è ricercatissimo ed è un descrittore da pochi anni apparso nel mondo del vino. La mineralità nel vino benché sia un termine ormai abusato e riconosciuto tra i principali sentori moderni della degustazione non trova un riscontro scientifico concreto tale da spiegarne l’origine. Nessuno in passato ha mai utilizzato questo descrittore. Se consultiamo i grandi libri scritti da mostri sacri come Emile Peynaud oppure Jancis Robinson o di altri tornando ancora più indietro

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nel tempo, non troviamo un minimo riferimento al termine “gusto minerale del vino“. Dobbiamo anche riconoscere che questo temine è utilizzato soprattutto in Italia; nelle scuole del vino anglosassoni, invece, è un termine che per ora (e forse anche in futuro) non si usa. Il suolo è tutto nel vino, ma non conferisce qualità organolettiche come la mineralità nonostante lo stretto scambio con il terreno e con tutti gli elementi presenti nel suo metabolismo. La geologia unita alle condizioni ambientali e all’adattamento del-


ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

la vite in un territorio a lei idoneo, consentono a questa pianta di esprimersi in maniera differente. Differenze che a volte dipendono appunto dall’amalgama del terreno e dall’assorbimento o meno di minerali e sostanze nutrienti dal suolo, così come dall’approvvigionamento d’acqua. Spesso questa sensazione, chiamata “minerale”, si percepisce in vini prodotti da uve di vigneti coltivati in terreni particolari, come quelli vulcanici, per esempio. Eppure nel vino le componenti minerali non sono così presenti. Come già scritto sopra, le sostanze minerali non possono influire sul descrittore organolettico. Se è vero che una parte degli elementi minerali assorbiti dal suolo può arrivare all’acino, è anche vero che la quantità che si ritrova nel vino è decisamente trascurabile ai fini della percezione sensoriale. Ma cos’è la mineralità in un vino? In teoria è una sensazione olfattiva riconducibile ad alcune pietre o ad alcuni minerali, anche se la maggior parte dei minerali sono considerati inodore. La mineralità nel vino è da considerarsi una percezione tattile, difficile da codificare, assomiglia molto di più ad una sensazione sapida unita a freschezza e acidità piuttosto che salina e non va confusa assolutamente. Molti studi presumono sia prodotta da certi composti solforati che si sviluppano in funzione della varietà e della sua maturazione. Quindi la mineralità non ha alcun legame con il suolo? Sembra proprio di no. La composizione del suolo, unitamente alle condizioni ambientali e climatiche, influisce direttamente sulle caratteristiche organolettiche, ma non sulla mineralità. La mineralità si gusta in fondo. Partiamo da una considerazione:

il vino è composto per circa l’80% da acqua e le acque, è risaputo, hanno una diversa mineralità che le caratterizza. Se percepiamo questa mineralità, perché non dovremmo percepirla anche nel vino? E’ un concetto che ci porta molto vicino alla salinità; più o meno sale nell’acqua lo si sente. Punto. Siamo ancora in alto mare, ma devo ammettere onestamente che non sono così curioso di sapere se questo sentore può esistere nella realtà oppure è una suggestione. Ma in fondo cosa cambia? Mediare la scienza con la nostra sensibilità è il punto di partenza, non di arrivo. Personalmente la penso come il professore Alex Maltman dell’università di Cardiff che sostiene: “L’idea che la geologia del vigneto possa essere letteralmente assaggiata in un bicchiere è meccanicamente impossibile”. Trovo questo concetto così poetico …


VINARIA

PERCORSI TRA I

VINI D’ABRUZZO di

Giulia Gavagnin

Una regione affascinante e ancora relativamente poco conosciuta ai più ha deciso di farsi scoprire attraverso un progetto e una piattaforma online che piacerà non poco ai buongustai di tutto il mondo. Si chiama Percorsi. L’Abruzzo del vino e della cultura” e nasce per festeggiare i 50 anni della doc Montepulciano d’Abruzzo. Secondo il presidente del Consorzio di tutela dei vini d’Abruzzo, Valentino di Campli, Percorsi diventerà il punto di riferimento per operatori, privati e appassionati che intendono approfondire la conoscenza di una regione che offre attrattive enogastronomiche e culturali di livello elevato. Dieci itinerari per scoprire l’Abruzzo (altri ne verranno aggiunti), terra del Montepulciano: una denominazione in ascesa, che nel 2017 ha registrato un incremento nelle vendite del 13% rispetto all’anno precedente. Ma l’Abruzzo non è solo Montepulciano. Lo si scopre agevolmente attraverso il percorso Guardando la Majella, uno tra i più intensi del progetto. L’incipit è presso la

I vini della Cantina Tollo

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Cantina Tollo, realtà assai conosciuta in tutto il mondo per la varietà e la qualità della produzione. Sorge nei pressi dell’omonima cittadina, di antichissima tradizione viticola: nelle sue contrade sono stati rinvenuti i dolia, celle vinarie in terracotta di epoca romana, oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Chieti. La Cantina Tollo perpetua la millenaria tradizione coltivando i vitigni più vocati del teatino: oltre al Montepulciano (vinificato anche in bianco per ottenere il Cerasuolo), il Trebbiano, la Passerina, il Pecorino e l’autoctona Cococciola. Grande attenzione viene prestata al biologico e alla produzione vegan: 50 viticoltori impegnati nelle coltivazioni bio per 237 ettari vitati complessivi, di cui 123 per le sole uve Montepulciano. Tra i vini più interessanti il Mo, Montepulciano riserva, maturato in botti di rovere dalle note spiccate di amarena, frutti di bosco e caffè, e il rosato Hedòs, Cerasuolo d’Abruzzo dalle note floreali, di fragoline di bosco e spezie giovani.


VINID’ABRUZZO

La grande tradizione enologica è comprovata dagli antichi reperti dell’Enomuseo di Tollo, inaugurato nel 2015, che conserva anche botti, damigiane e bottiglie di tradizione contadina donati direttamente dai cittadini. Il percorso prosegue con la visita del Castello ducale di Crecchio, noto anche come castello De Riseis-D’Aragona: edificato in epoca medievale per scopi difensivi (in particolare, per monitorare gli sbarchi dei nemici dal mare), e trasformato nei secoli successivi in dimora abitativa, ospita oggi il Museo dell’Abruzzo Bizantino e dell’Arte Medievale. Dopo la sosta culturale, c’è ancora vino. A Orsogna, con vista sulla Majella innevata, si erge la splendida tenuta della famiglia italo-venezuelana Lamaletto della Cantina Il Feuduccio. Il patriarca Gaetano, quando lasciò l’Italia per il Sudamerica, decise che un giorno sarebbe tornato nella sua terra per realizzare il sogno di avere una tenuta propria. Oggi il sogno di Gaetano è portato avanti dal figlio Camillo e dal nipote Gaetanino, che hanno saputo coniugare la tradizione a un’agricoltura moderna, con filari coltivati a cordone speronato e vendemmie effettuate manualmente. Oltre alla coltivazione dei vitigni territoriali (Montepulciano, Passerina, Pecorino, Trebbiano), l’azienda produce olio di elevata qualità. Prima di approdare al fiore all’occhiello del percorso, la cittadina medievale di Guardiagrele, è d’obbligo un passaggio a Villamagna, presso Cascina del Colle, una realtà piuttosto giovane, che si snoda su venti ettari vitati, con una vasta produzione di etichette fantasiosamente dedicate a personaggi illustri del territorio (su tutti, Gabriele D’Annunzio). Infine, si giunge a Guardiagrele, uno dei borghi più belli d’Italia, noto per la produzione orafa e le specialità gastronomiche. Oltre a una straordinaria concentrazione di ristoranti di cucina tradizionale, le cui specialità variano dagli spaghetti alla chitarra alla pecora alla cottora, si distingue la pasticceria di Emo Lullo, che mantiene

I vini della Cantina Il Feuduccio

intatta la tradizione delle Sise delle monache (dette anche “tre monti”), un dolce di soffice pan di spagna ripieno di crema pasticcera che celebra un’antica credenza popolare, quella secondo cui le suore inserissero una protuberanza tra i seni per smorzarne l’effetto seduttivo. La piccola pasticceria, dal fascino retro e traboccante di credenze e cassettini di legno, produce altre specialità locali: la pasta reale e il torrone di Guardiagrele, un croccante di mandorle, frutta candita e cannella. Dulcis in fundo, il percorso si conclude presso un indirizzo di altissimo livello, fiore all’occhiello della ristorazione non solo abruzzese, ma nazionale. Villa Majella mantiene una stella Michelin da anni, ma con il ricambio generazionale ha acquistato una marcia in più. Lo chef Arcangelo Tinari ha trascorso un lungo periodo dai Bras a Laguiole, il fratello Pascal è stato indirizzato verso la sala nientemeno che da Antonio Santini. Due signore scuole che si sentono: la cucina ha leggeri tocchi francesi innestati sulla materia prima del territorio a km. 0, con maiali neri allevati dagli stessi Tinari che si confermano ai vertici della produzione nazionale. La sala è gestita con garbo e discrezione, e la

carta dei vini è costruita con intelligenza, sospesa tra un territorio da valorizzare e grandi etichette transalpine. Prezzi imbattibili, il che non guasta: due menu a 55 e a 75 euro. Degna conclusione di un percorso da scoprire. https://percorsi.vinidabruzzo.it

I vini della Cantina Cascina del Colle

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VINARIA

I CRÉMANT

COSA SI INTENDE CON QUESTO NOME?

di

Mario Federzoni

Sino al 31 agosto 1994 questo termine stava ad indicare gli champagne elaborati in modo da sviluppare minore anidride carbonica, con una spuma più delicata e appunto più “cremosa”, rispetto a quelli tradizionali (aggiunta di minor quantità di zuccheri nella fase di tiraggio). Le bottiglie quindi sopportavano una minore pressione, variabile tra 3,5/4,5 atm., contro le 6 atm. degli champagne tradizionali. Il nome Crémant è stato poi via via definitivamente abbandonato dai produttori di champenoise e, se così si può dire, “regalato” ai vini prodotti con metodo classico di fuori regione, anche, e soprattutto, perché l’Institut National de l’Origine et de la Qualité (INAO) scelse proprio questo nome, sin dalla fine del 1974 per designare i mousseux metodo Classico Francesi. Da allora essi vedono vendite in crescita regolare che ormai durano da una ventina d’anni e che non erano venute meno anche nell’annus horribilis 2009. I dati statistici parlano di una percentuale del 45% riferita ai Crémant d’Alsace, del 24% per i Crémants de Bourgogne, del 18% per quelli de Loire, del 6% e 5% per Limoux e Jura e cifre inferiori per quelli di Bordeaux e Die. Tanto per dare un’idea dei numeri prodotti, sono circa 33 milioni le bottiglie vendute in un anno dei Crémant d’Alsace, oltre 18 milioni quelle dei Crémant de Bourgogne, che da soli totalizzano 51 dei 65 milioni di bottiglie prodotte. Trovo che sia veramente molto serio quanto sta avvenendo in Borgogna (e sin dal 2008) mediante il meccanismo della “affectation parcellaire“, in quanto si è fatto in modo che le varie aziende produttrici debbano obbligatoriamente scegliere quali vigneti destinare alla produzione del Crémant e dichiararlo prima del 31 marzo di ogni anno. Dico questo perché, e non solo a mio avviso, non esiste una vera identità prestabilita che accomuni i Crémant delle varie zone di produzione, perciò quella Borgognona è un’ottima iniziativa

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che va a tutelare ed a qualificare maggiormente, rispetto ad altre zone, il loro prodotto.

I CRÉMANT •­‐ Crémant d’Alsace a.o.p. dal 1976 uve Pinot blanc, noir, gris, Riesling, Sylvaner •­‐Crémant de Bordeux a.o.p. dal 1990 uve Semillon, Muscadelle •­‐Crémant de Bourgogne a.o.p. dal 1974 uve Pinot noir, Chardonnay, Aligotè • Crémant de Die a.o.p. dal 1993 uve Clairette •­Crémant de Jura a.o.p. dal 1995 uve Sauvignon e Pinot noir •‐Crémant de Limoux a.o.p. dal 1990 uve Mauzac, Chardonnay, Chenin blanc •­‐Crémant de Loire a.o.p. dal 1997 uve Chenin blanc, Sauvignon blanc, Melon de Bourgogne •­‐Crémant de Savoie a.o.p. dal 2014 uve Chardonnay, Aligotè, Chasselas, Altesse, Jaquere

Ci sarebbe poi inoltre il Crémant de Louxembourg, che è prodotto, come recita il nome stesso, fuori dai confini francesi, a.o.p. dal 1991 da uve Pinot blanc, noir, gris, Riesling, Chardonnay. I Cremant possono essere bianchi o rosati e la sovrapressione finale nella bottiglia può variare da min. 3,5 a max 4,5 atmosfere. Come si può intuire data la varietà delle uve utilizzate e dei differenti territori di provenienza questi spumanti metodo classico sono assai diversi tra di loro ed hanno pure normative di produzione assai difformi.




VINARIA

NEL RIMINESE

PODERE DELL’ANGELO UNA FAMIGLIA DI VITICOLTORI DAL 1923 A VERGIANO di

Una storia fatta di fatica e di passione, quella delle famiglie Bianchi e Falcioni, della cantina “Mazaset” e del Podere dell’Angelo; situato in quel di Vergiano, nell’entroterra Riminiese, tra le tortuose curve delle “Coste di Sgrigna” e la splendida Valmarecchia. Dal 1923 la famiglia Bianchi è dedita alla coltivazione della terra e, in particolare, della vite. In un’epoca in cui i contadini abbandonavano le campagne, la dedizione agricola di questa famiglia li ha visti rimanere ben saldi alle loro adorate colline. Così è iniziata la ricerca di terreni vocati per l’impianto di vigneti, dove produrre un “succo” che ogni volta regala vera gioia. “… Portare in tavola un prodotto sublime significa vivere più intensamente, essere costantemente ispirati e ci aiuta ad accorgerci, quando tutti i giorni diventano uguali, che le cose più belle della nostra vita sono sedute lì, accanto a noi …” Oggi sono Angelo e Milena a gestire l’azienda in società, ma sono tre le generazioni schierate in campo, che apportano esperienza, forza di volontà e competenza, ma anche curiosità ed ingegno, animati dalla stessa determinazione. Nonno, padre e figlio, tra le vigne hanno un solo obbiettivo: produrre vini artigianali con passione e che, come una cartolina ,siano testimonianza del territorio e della sua cultura, attraverso l’ambiente e la sua struttura, il sole cocente che splende d’estate o la brezza marina che sovente

Antonietta Mazzeo © ph Deborah Crudi

viene a fare visita all’entroterra. Il Podere si estende su una superficie di circa 15 ettari coltivati principalmente a vigneto, ma ci sono anche, a testimonianza della dedizione agricola familiare, un piccolo frutteto, un orto, qualche seminativo e un oliveto, da cui si produce un olio di oliva extravergine di ottima qualità. Il terreno è striato e disomogeneo, com’è tipico in collina, la distinzione che caratterizza le uve risiede nel sottile equilibrio tra calcare ed argilla. L’azienda opera in conformità ai disciplinari di lotta integrata, per aumentare la biodiversità del vigneto: vengono impiegate alcune delle comuni pratiche di agricoltura biologica e biodinamica. La produzione è caratterizzata da diverse etichette, frutti di vitigni prevalentemente autoctoni di Romagna che, con la loro impronta, caratterizzano lo stile e l’interpretazione di Podere dell’Angelo. Risalta un’ottima vocazione alla produzione dei vini rossi che, con il Sangiovese, rappresentano la parte più cospicua della produzione, ma al tempo stesso si è sviluppata, con la Rebola, una buona attitudine alla creazione dei vini bianchi.

PODERE DELL’ANGELO

Via Rodella, 38R - 47923 Vergiano (RN) - Tel. 0541 727332 www.vinidellangelo.it - info@vinipoderedellangelo.it

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EDITORE La Madia srl Sede legale: Via E. De Amicis, 53 - 20123 Milano (MI) Sede operativa: Via Pacchioni, 365 - 47521 Cesena (FC) Tel. 0547 23821 - Fax 0547 25809 Internet: www.lamadia.com - E-mail: lamadia@lamadia.com

CONFEDERATION EUROPEENNE

DES GOURMETS La famiglia dei Gourmets europei si è data una nuova dimensione per valorizzare

il piacere

della convivialità e della cultura

enogastronomica italiana

Direttore responsabile: Elsa Mazzolini La Madia srl è parte del Gruppo Cose Belle d’Italia www.cosebelleditalia.com

REDAZIONE Caporedattore: Maria Chiara Zucchi Impaginazione: Andrea Amadori Stampa: D’Auria Printing SPA - (AP) Web e Social: Giorgia Zucchi - Alessandro Sandini Redazione e centro di distribuzione in Gran Bretagna: ALIVINI Company Limited - London - Tel. +44 20 8880 2525

COLLABORATORI Domenico Acconci, Giovanni Angelucci, Silvia Bianco, Daniele Briani, Teresa Cremona, Giulia Gavagnin, Giuseppe De Girolamo, Maurizio Di Dio, Gianni Di Lorenzo, Fabio Ferrantino, Lorenzo Ferrari, Luigi Filippi, Lisa Foletti, Lucy Gordan, Verdiana Gordini, Cristiana Lauro, Giuseppe Lo Russo, Furio Lottatori, Giovanni Mastropasqua, Antonietta Mazzeo, Alessandra Meldolesi, Claudio Mollo, Alessia Pellegrini, Giacomo Pilati, Alessandro Ricci, Gianluca Ricci, Alessandro Rossi, Simone Rosti, Flavia Tomaello, Marco Tonelli, Primo Vercilli. Fotografi: Nikoboi, Pasquale Spinelli, StudioGraf, Lido Vannucchi Illustratori: Patrizia Zavatti

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CONTATTI: Romano Lambri - Presidente Cell. 393.9815078 Mauro Marelli - Console della Stampa Cell. 392.3591439 www.cegourmet.eu - info@cegourmet.eu

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