La Madia Travelfood n° 333 - Dicembre 2018

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNO XXXIV Dicembre 2018 - N. 333 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

LE BOLLICINE DI DICEMBRE CHAMPAGNE, GARDA DOC, BISOL Le stelle a New York e a Berlino:

Eric Ripert, Max Strohe e Tim Raue

La cucina siciliana di Nino Graziano e Maurizio Urso

LA MADIA EDITORE




SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 333

GOURMETFOOD

di Jerry

Bortolan

VINARIA

di

Mario Federzoni

pag. 82

pag. 32 NINO GRAZIANO

LO CHAMPAGNE E LE DONNE

La Sicilia nel suo cuore, anche nel nuovo locale a Roma.

Le mogli e le vedove che ne determinarono il successo.

VINARIA

VINARIA

pag. 84

di

Gianluca Ricci

pag. 88

SPUMANTE GARDA DOC

BISOL

Una scommessa da venti milioni di bottiglie.

In nome del Prosecco.

di

Francesca Antonucci


La cultura del benessere

Eric Ripert a New York

E per finire quest’anno, smontiamo un po’ di bufale

di Flavia Tomaello............................................................ pag. 42

di Primo Vercilli................................................................ pag. 8

Max Strohe a Berlino

La scelta vegana

di Alessandra Meldolesi.................................................. pag. 50

Alimentazione 100% vegetale per bambini

Tim Raue a Berlino

di Silvia Bianco................................................................. pag. 10

di Alessandra Meldolesi.................................................. pag. 56

Il menu engineering

Giovani Talenti

Ultimamente non si fa altro che parlare di “qualità”

Enrico Brancato

di Lorenzo Ferrari............................................................ pag. 14

di Maria Chiara Zucchi..................................................... pag. 62

EVO - L’olio extravergine di oliva

Eventi

La cultura dell’olio: ecco perché è necessaria

Congresso Accademia Nazionale ItalCuochi

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 16

di Filippo Fabbri................................................................ pag. 72

Golavagando

Buone Nuove..................................................................... pag. 78

Ristorante Anna a Forlimpopoli

Vinaria

di Matteo Mambelli......................................................... pag. 20

Il focus di Alessandro Rossi

Cucina Bacilieri a Ferrara

L’eterogenesi dei vini

di Lisa Foletti.................................................................... pag. 22

di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 80

Il Vicolo a Roma............................................................... pag. 26

Lattina e bag in box

La Triglia ad Avellino

di Gianluca Ricci............................................................... pag. 92

di Teresa Cremona.......................................................... pag. 27

Rapporto qualità/prezzo?

Chef di Spirito

Io la penso così

Olive nolche

di Mario Federzoni........................................................... pag. 94

di Sonia Leo..................................................................... pag. 28

Assaggio di libri................................................................ pag. 96

GourmetFood Ristorante Eduardo a Siracusa di Teresa Cremona.......................................................... pag. 39



EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

DALLE COTTURE ALLE FATTURE Gent.mo Direttore, che piacere leggere il suo articolo “Si fa presto a dire gourmet”!. Devo ammettere che anche io spesso commetto qualcuno degli errori da lei analizzati. (...). Tuttavia il suo editoriale mi dà il la per parlare anche della fatturazione elettronica. Lei crede che di sabato sera, appena finito di sistemare la cucina, mi metto al computer ad inviare le fatture? I nostri errori, spesso non voluti, si sommano ora anche ad una burocrazia che ci mette i bastoni tra le ruote. Antonio Torino - Ristorante Mamma Rosa - San Polo d’Enza (RE) Già, le promesse di snellimento della burocrazia - passo fondamentale per favorire il rilancio della nostra economia - vengono vanificate da uno Stato che, incapace di contrastare l’evasione degli attuali oltre 35 miliardi di euro di IVA, fa lavorare la collettività al suo posto. Con costi di tempo e danaro davvero non trascurabili: occorre acquistare un programma specifico e procedere ad un’immissione dei dati ben più complessa rispetto a quella necessaria per una normale fattura da inviare via Pec. Ovvio che a pagare maggiormente il prezzo saranno le piccole imprese, costrette ad affidare questo compito a strutture esterne, con aumento del costo di gestione, già di per sé eccessivo. Il beneficio andrà solo a vantaggio del nostro oneroso apparato burocratico, e questa tracciabilità immediata non servirà certo a contrastare l’evasione perché ad assolvere agli obblighi saranno, o saremo, i soliti.

ME

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LACULTURADELBENESSERE

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

E PER FINIRE QUEST’ANNO

SMONTIAMO UN PO’ DI BUFALE! È finito un altro anno, ci avviciniamo ai festeggiamenti natalizi (vere delizie del palato e intensi drammi per la linea), ma questa volta non voglio parlarvi di quanto sarà difficile e drammatica la corsa al dimagrimento in questi giorni; piuttosto, in un anno in cui una delle parole più utilizzate non è stata dieta, ma “fake news”, voglio smontare 3 tra quelle più comuni (ovviamente parlo di fake news alimentari). In particolare le 3 fake news sono: 1) I carboidrati se consumati alla sera fanno aumentare di peso. 2) Il kamut è un cereale ottimo per chi è intollerante al glutine ed è un cosiddetto “grano antico”. 3) La frutta va assolutamente consumata lontano dai pasti. Con enorme soddisfazione vi dico che le 3 affermazioni sopra citate sono assolutamente false, senza possibilità di essere smentito. Per quanto riguarda la prima affermazione, questa è una delle più solide convinzioni diffusasi nella pubblica opinione, ma non solo: è anche uno dei capisaldi di molti nutrizionisti. Peccato che non ci siano evidenze scientifiche assolutamente univoche che provino questo assioma. Non si capisce neanche perché solo le calorie dei carboidrati (che sono 4 per ogni grammo di carboidrato) facciano fatica ad essere metabolizzate nelle ore notturne, mentre le calorie dei grassi (9 per ogni grammo di grasso) o quelle delle proteine (anche qui 4 calorie per ogni

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grammo di proteina) abbiano invece maggiore facilità metabolica. In tanti scomodano i livelli di glicemia, il ruolo dell’insulina, il ruolo dell’ormone GH, il ruolo del cortisolo (altro ormone), ma non c’è una sola evidenza scientifica (cioè una casistica seria e numericamente voluminosa) che possa giustificare questa affermazione. Per un’alimentazione equilibrata, è sicuramente importante non mangiare carboidrati in eccesso (e soprattutto carboidrati ad alto indice glicemico), ma sicuramente è assolutamente falso che un buon piatto di pasta sia dannoso se consumato a cena e invece sia ottimo se consumato a pranzo. C’è appunto l’opinione comune, diffusa soprattutto tra gli sportivi, che assumere carboidrati di sera faccia ingrassare. È bene sottolineare che il consumo energetico durante il sonno non è poi così diverso da quello di un’attività mattiniera sedentaria, come lo stare seduti ad una scrivania davanti a un computer. Anzi, per chi la notte ha difficoltà a dormire, una cena a base di carboidrati sembra possa favorire il riposo notturno, stimolando la produzione di serotonina (ormone del benessere) utile per andare a dormire più rilassati e sazi. Il kamut è un cereale antico e va bene per i celiaci. Kamut non è il nome di un cereale, ma un marchio registrato dalla società Kamut International come avviene per altri marchi pubblicitari. È una varietà di frumento che negli Stati Uniti è stata registrata con la sigla QK-77 e che viene coltivata e venduta in regime di monopolio in tutto il mondo, grazie ad una


LACULTURADELBENESSERE

riuscitissima operazione di marketing. Pensate: l’Italia è il primo paese consumatore al mondo di Kamut. È anche chiamato il “grano del faraone” grazie ad una storia inventata dalla Kamut International che racconta che i semi siano stati ritrovati in una tomba egizia a metà del secolo scorso e spediti nel Montana dove sono stati poi risvegliati e coltivati. Niente di tutto questo. In realtà il cereale che si acquista sotto il nome Kamut è la varietà Khorasan (Triticum turgidum ssp. turanicum), un tipo di frumento descritto per la prima volta in Iran, dove ancora oggi si coltiva. Oggi tutti possono coltivare il grano Khorasan, ma solo l’azienda proprietaria del marchio può vendere questo grano con il nome di Kamut. Una varietà di grano Khorasan, chiamata il Saragolla, la possiamo trovare anche in Italia tra Lucania, Sannio ed Abruzzo e rappresenta una validissima alternativa al grano di marchio Kamut. Ma quello che mi preme sottolineare è che il kamut non è assolutamente privo di glutine! Troppo spesso sento dire dai miei pazienti che, siccome sono intolleranti al glutine, consumano il kamut. È evidente che questi pazienti hanno solo un’intolleranza immaginaria al glutine, altrimenti con il kamut avrebbero esattamente gli stessi sintomi che hanno assumendo il frumento. Il Khorasan a marchio Kamut è categoricamente sconsigliato nell’alimentazione dei celiaci perché contiene glutine, in alcuni casi anche in misura superiore a quello di altri frumenti. Non vado a giudicare le qualità nutrizionali del grano Khorasan (che comunque sono ottime), ma attenzione a pensare che sia un’altra cosa rispetto al frumento: non può essere consigliato

a chi soffre di allergie al frumento né a chi soffre di intolleranza al glutine né tanto meno ai celiaci. E poi, attenzione: non è un grano antico! La frutta va mangiata lontano dai pasti. Sfatiamo questo mito: la frutta fa bene alla nostra salute in qualunque momento si mangi. È vero che ci sono alcune persone che riferiscono disturbi digestivi se associano la frutta al pasto, ma il più delle volte si tratta di persone che hanno una maggiore sensibilità intestinale: questa è quindi l’eccezione che conferma la regola. Escludendo casi (da verificare uno per uno) di irritazione intestinale, la frutta può tranquillamente essere consumata attaccata ai pasti, anzi molto spesso può portare anche numerosi benefici: a) la frutta alla fine del pasto, infatti, fa sì che gli zuccheri che contiene vengano rilasciati nel sangue più lentamente di quando si mangia la stessa frutta a digiuno; b) l’acidità della frutta e alcune vitamine al suo interno (vitamina C) possono facilitare l’assorbimento del ferro contenuto nelle verdure e negli alimenti di origine vegetale; c) grazie ai suoi componenti antiossidanti, accompagna il cibo nella digestione proteggendolo dai danni ossidativi; d) il suo sapore acidulo dà all’organismo il segnale di fine pasto. Quindi l’unica cosa da fare è verificare se si è tra quelle persone che soffrono di una certa forma di irritazione intestinale (in tal caso sarà importante non solo consumare la frutta isolatamente, ma anche selezionarla in virtù della presenza o meno di particolari zuccheri), ma in caso contrario, concedetevi tranquillamente la vostra frutta!

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LA SCELTA VEGANA

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

ALIMENTAZIONE 100% VEGETALE PER BAMBINI VIA LIBERA DALLA COMUNITÀ SCIENTIFICA

A meno di anno (novembre 2017) dalla pubblicazione delle linee guida italiane per l’alimentazione plantbased “VegPlate: a Mediterranean-based Food Guide for Italian Adult, Pregnant, and Lactating Vegetarians” che illustra il “PiattoVeg”, ovvero la guida pratica per elaborare diete a base vegetale per l’adulto e la donna in gravidanza e allattamento, il Journal dell’Academy of Nutrition and Dietetics - l’organo scientifico più influente a livello mondiale nel campo dell’alimentazione umana - ha approvato e pubblicato (agosto 2018) anche la versione per bambini, dall’infanzia all’adolescenza: Vegplate Junior, la guida pratica per ideare la dieta vegetale mediterranea ottimale ideata dalla Dottoressa Luciana Baroni, fondatrice e presidente di SSNV, Societa’ Scientifica Di Nutrizione Vegetariana. L’articolo ha come titolo “Planning well-balanced vegetarian diets in infants, children and adolescents: the VegPlate Junior” ed è una guida pratica per pianificare diete a base vegetale ottimali per bambini, dallo svezzamento all’adolescenza. La pubblicazione di questa guida da parte di un organo così importante come l’Academy of Nutrition and Dietetics, è la conferma scientifica che una dieta vegana ben pianificata è adatta in tutte le fasi della vita, anche nell’infanzia e soddisfa pienamente il fabbisogno di tutti i nutrienti necessari. La guida è stata redatta da tre ricercatori italiani, membri di Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana – SSNV: la Dr.ssa Luciana Baroni, medico specialista in Neurologia e Geriatria con

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un Master Internazionale in Nutrizione e Dietetica e presidente SSNV; il Prof. Maurizio Battino Professore Associato all’Università Politecnica delle Marche, per la quale è anche direttore del Master in Alimentazione e Dietetica Vegetariana, la Dr.Ssa Silvia Goggi medico specialista in Scienza dell’Alimentazione presso la casa di Cura San Pio X – Humanitas di Milano, dove è attivo l’ambulatorio Babygreen dedicato alle famiglie vegetariane. L’associazione SSNV è costantemente impegnata nella diffusione ed applicazione delle linee guida del PiattoVeg, sia come normale attività di divulgazione al pubblico, sia in ambito scientifico. In Italia ha istituito il Master Universitario di Dietetica e Nutrizione Vegetariana attivo presso l’Università Politecnica delle Marche, sempre su suolo italiano, promuove vari corsi di aggiornamento e formazione universitari, la diffusione dei libri della serie Il PiattoVeg ed il sito web dedicato (www.piattoveg. info). A livello internazionale, oltre agli articoli scientifici pubblicati dal Journal dell’Academy of Nutrition and Dietetics, ha tradotto il sito italiano del PiattoVeg in inglese (www.vegplate.info) ed ha pubblicato la traduzione del sopracitato Master universitario, non solo in inglese, ma anche in spagnolo e portoghese. La pubblicazione del metodo del PiattoVeg Junior su una rivista scientifica internazionale specializzata così attenta e prestigiosa come il Journal of Academy Nutrition and Dietetics (che a sua volta esegue meticolose valutazioni degli articoli proposti attraverso esperti del settore) garantisce l’attendibilità del metodo


LASCELTAVEGANA

non solo per gli adulti, ma per l’essere umano in generale a partire già dalla fase dello svezzamento dei bambini. Questa guida dimostra in maniera chiara che, consumando gli alimenti di tutti i gruppi vegetali (cereali, legumi e derivati, frutta secca e semi oleosi, verdure, frutta, oli), nelle quantità indicate per le diverse fasce d’età, è possibile raggiungere i fabbisogni di tutti i nutrienti come specificato dai LARN, i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione Italiana. La guida specifica che il calcolo delle quantità di alimenti necessarie per ogni età è stato effettuato considerando esclusivamente alimenti vegetali, pertanto uova e latticini sono considerati alimenti opzionali e non necessari. Per rendere la guida fruibile a tutti, il VegPlate Junior è stato raffigurato da un piatto diviso in sei spicchi corrispondenti ai sei gruppi alimentari vegetali: cereali, legumi e derivati, frutta secca e semi oleosi, verdure, frutta, oli. Il grafico del piatto per i bambini dai 6 a 12 mesi include un ulteriore spicchio, relativo al latte materno o, in sua assenza, in alternativa il latte di formula di soia o di riso, o eventualmente il latte artificiale vaccino, sebbene quest’ultimo venga sconsigliato prima dei 12 mesi a causa del suo alto contenuto proteico e basso contenuto di ferro. All’interno della guida è stata definita la porzione media per ogni gruppo e la sua composizione nutrizionale ed è stato stabilito il numero di porzioni per ciascuno spicchio in relazione ai diversi fabbisogni nutrizionali per ciascuna età, dimostrando che la

dieta vegana permette facilmente di raggiungere i livelli ottimali di proteine, ferro e calcio, sovvertendo le errate convinzioni che sino ad oggi danno la dieta 100% vegetale come carente di queste sostanze. Ad oggi il numero di persone che scelgono un’alimentazione vegetariana e vegana è in aumento, sia in Italia (il 7,1% della popolazione segue una dieta vegetariana, di cui il 6,2% una dieta lacto-ovo-vegetariana e 0,9% una dieta vegana), ma anche in Europa ed in molte altre parti del mondo. I genitori che optano per questa scelta sono spesso molto informati e consapevoli al riguardo, sono coscienti che la loro scelta è ottimale e realizzabile e per questo la estendono in maniera naturale ai propri figli. Tutte le famiglie fanno seguire i propri figli da un pediatra e tutte le donne in gravidanza sono seguite da un ginecologo, indipendentemente dalla loro dieta, vegetariana, vegana o onnivora che sia. Ancor oggi, però, molti dei professionisti mancano di adeguate competenze in nutrizione vegetale e nella peggiore delle situazioni si incontrano professionisti che hanno pregiudizi e quindi risultano poco aggiornati. Proprio per questo è importante che i genitori si affidino a figure professionali qualificate e preparate che possano fornire loro le giuste indicazioni per garantire una dieta vegetale bilanciata e corretta sin dallo svezzamento. A tal fine, i tre autori e specialisti di questa guida hanno lavorato in sinergia per sviluppare una serie di tabelle ad uso di pediatri e

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LA SCELTA VEGANA

professionisti per fornire gli strumenti necessari e la corretta informazione alla costruzione di un’alimentazione plant based ed è quindi fondamentale la sua diffusione a tutti i professionisti. Seguendo le indicazioni guida del PiattoVeg Junior, i vari professionisti del settore, pediatri, nutrizionisti e dietisti, possono creare un menu giornaliero o, a scelta, settimanale perfetto in base all’età del bambino o dell’adolescente. Gli alimenti scelti per la composizione del piatto sono derivati dalla tradizione mediterranea, tutti facilmente disponibili nel nostro territorio senza necessariamente ricorrere a prodotti esotici ed è pertanto anche un programma alimentare eco-sostenibile. Le linee guida suggeriscono di includere un’ampia varietà di alimenti vegetali, come cereali, legumi e derivati, frutta secca e semi, verdure e frutta e di scegliere grassi vegetali, consumando buone fonti di acidi grassi, come semi di lino e noci. La vitamina B12 è l’unico nutriente di cui si suggerisce l’assunzione sotto forma di integratore (da colture batteriche), sia nel caso di una dieta vegana che nel caso di una dieta latto-ovo-vegetariana. Ricordo che anche chi segue un’alimentazione onnivora assume la B12 sotto forma di integratori aggiunti ai mangimi degli animali. La B12 biologicamente attiva è prodotta ESCLUSIVAMENTE da microorganismi quali batteri del terreno, non viene sintetizzata da piante o dagli animali. Oggi viviamo in condizioni “innaturali” dove tutto ciò che ci circonda viene sanificato con detergenti, disinfettanti e antibiotici che distruggono questi batteri “buoni”. Attualmente le fonti dietetiche di B12 sono rappresentate da cibi animali da allevamento a cui vengono somministrati integratori e da cibi vegetali addizionati di B12. Il consiglio è quindi quello di assumere vitamina B12 tramite integratori (che si ottengono unicamente da sintesi batterica) e vale per tutti: vegani, vegetariani ed onnivori in qualunque fascia di età. Queste linee guida sono già conosciute ed utilizzate da tutti i medici che fanno parte della Rete Famiglia Veg, composta da medici nutrizionisti, biologi nutrizionisti, dietisti, pediatri, ostetrici-ginecologi, ostetrici con studi e ambulatori in varie province d’Italia, ma anche dai professionisti dell’ambulatorio Baby Green presso l’ospedale San Pio X – Humanitas di Milano per cui collabora anche la Dottoressa Silvia Goggi, una delle autrici del PiattoVeg Junior. Entrambi i progetti sono seguiti da professionisti competenti in nutrizione a base vegetale e sono ideati per seguire mamme e bambini in gravidanza, allattamento, svezzamento, infanzia e adolescenza. Il PiattoVeg Junior, così come Il PiattoVeg per adulti, è un metodo agevolante che consente di realizzare menu ottimali a base vegetale. La guida è un articolo open access ed è quindi disponibile gratuitamente da chiunque, professionisti e non. La trovate sul sito www.jandonline.org (in italiano sul sito www. piattoveg.info).

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Ricetta dello chef Maurizio Urso Ristorante Eduardo - Hotel Parco delle Fontane - Siracusa

CHICCHE TRICOLORI su pesto di agrumi

INGREDIENTI per 4 persone

Per le chicche: g. 100 di purea di carote, g. 7 di amido di riso, g. 7 di fecola di patate, g. 7 di amido di mais.

g. 100 di purea di patate, g. 7 di amido di riso, g. 7 di fecola di patate, g. 7 di amido di mais.

g. 100 di purea di piselli, g. 7 di amido di riso, g. 7 di fecola di patate, g. 7 di amido di mais.

Per il pesto: 2 arance, 1 cucchiaino di capperi sotto sale, 2 foglie di basilico, 5 foglie di menta, scorza grattugiata di mezzo limone, g. 50 di pinoli, g. 30 di mandorle, olio extravergine d’oliva q.b., sale q.b. PROCEDIMENTO

Realizzare le 3 puree facendo cuocere in acqua e sale i ve-

getali, quindi unire gli amidi per ogni ortaggio; condizionare

sottovuoto (con una macchinetta da centro commerciale lo puoi fare) e appiattire realizzando una mattonella di cm. 1,5. Cuocere a vapore o immergendo il sacchetto per 15 minuti in acqua che sobolle.

Lasciare raffreddare, togliere dal sacchetto e tagliare a strisce e poi a quadratini ottenendo le chicche (gnocchetti di patate) pronte per essere padellate.

Per il pesto: pelare a vivo le arance. Frullare tutti gli ingre-

dienti quindi le arance pelate, i pinoli, le mandorle, il basilico,

i capperi, la menta, il limone grattugiato, e aggiungere l’olio a filo e un pizzico di sale. Assaggiare e regolate di sapidità.

Assiette: in una padella mettere un filo di olio extravergine

d’oliva, un po’ di brodo o acqua. Unire le chicche, far scaldare bene, porre sul fondo del piatto il pesto poi le chicche e finire con un filo di olio extravergine d’oliva agrumato.



IL MENU ENGINEERING

a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

ULTIMAMENTE NON SI FA ALTRO CHE PARLARE DI “QUALITÀ” Dagli chef più blasonati, passando per qualsivoglia gourmand vero o presunto che sia - sino al consumatore più o meno consapevole, tutti noi abbiamo in bocca la parola “qualità”. Ma siamo davvero sicuri di sapere esattamente cosa significhi questa parola? A giudicare da diversi esperimenti effettuati negli ultimi anni, sembrerebbe proprio di no. In particolare ci sono due elementi che, quando opportunamente usati, possono ingannare la nostra mente e farci percepire come “qualità” ciò che di qualità non è. Vediamoli. “Si scrive qualità, ma si legge prezzo.” In un articolo dal titolo piuttosto provocatorio (“Ha senso acquistare del vino costoso?”) lo psicologo Richard Wiseman racconta i risultati raccolti durante un suo studio riguardante il vino. Durante l’esperimento il nostro Wiseman acquistò un’ampia varietà di bottiglia al supermercato locale: dal Bordeaux da 5$ a bottiglia sino allo Champagne da 50$ a bottiglia, e chiese ad alcune persone di individuare quale fosse quello più costoso tra quelli. Per garantire la veridicità del test, tutti gli esperimenti furono condotti in doppio cieco, in modo che sia chi organizzava la de-

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gustazione che chi degustava fossero all’oscuro dei prezzi delle bottiglie. I risultati hanno scandalizzato qualunque eno-snob esistente al mondo: tra i 600 partecipanti solamente il 53% è riuscito ad individuare il vino più costoso. Avrebbero raggiunto gli stessi – identici – risultati lanciando una moneta in aria e lasciando a lei l’onere della scelta. Risultati più interessanti si sono ottenuti osservando i partecipanti al test sotto l’influenza del prezzo delle bottiglie. Infatti, gli intervistati, quando gli si chiedeva di scegliere quale fosse il vino più di qualità tra una bottiglia di 9$ e una di 90$, inevitabilmente sceglievano quella da 90$. Ciò che non sapevano, tuttavia, è che gli organizzatori del test avevano scambiato le etichette del prezzo delle due bottiglie: la più costosa era in realtà la più economica, e viceversa. Insomma, nella stragrande maggioranza dei casi si scrive qualità, ma si legge prezzo. Purtroppo, aggiunge chi scrive. “Si scrive qualità, ma si legge brand.” La nostra percezione della qualità non è solamente influenzata e manipolata dal prezzo, alto o basso che sia. Ma è un fattore influenzato anche dal brand a cui viene associato un dato prodotto.


ILMENUENGINEERING

Del resto, se andassimo in strada e chiedessimo ad un campione di persone se McDonald’s faccia qualità o meno, la maggioranza degli intervistati risponderebbe: “No, certo che no, McDonald’s NON fa qualità!” Il nome lo precede, e al nome di McDonald’s non è certo associata una percezione positiva quando si parla di qualità. Ma come sarebbe se proponessimo il cibo di McDonald’s senza il brand della catena? Come sarebbe se valutassimo il cibo di McDonalds’ per quello che realmente è, e non per ciò che pensiamo che sia? La risposta è in un test effettuato da alcuni ragazzi di Berlino, nel quale, dopo aver acquistato cibo di McDonald’s, lo hanno rivenduto come biologico ad una fiera di settore. La reazione è stata sconvolgente. Gli “assaggiatori”, rimasti entusiasti del prodotto proposto dai due ragazzi, sostenevano: “È davvero buono. Il paragone con McDonald’s? Questo ha un sapore migliore, si sente che è cibo ‘puro’“. Uno dei commenti più frequenti a conferma che il “McBluff” è stato servito alla perfezione. Di fronte all’esempio di cui sopra potremmo ribadire che noi italiani non ci saremmo mai cascati. Dopotutto noi siamo diversi, più informati, più abituati alla qualità. Purtroppo, però, anche l’ultimo baluardo italico a difesa della qualità è caduto quando è stato realizzato un esperimento molto simile, in Italia, che ha dato risultati del tutto analoghi.

Infatti il 9 aprile del 2016, a Milano, aprì una nuova hamburgeria: il Single Burger. Il locale, “certificato” dalla presenza di due ex concorrenti di Masterchef, si è presentato come un’alternativa hipster e gourmet (l’ennesima!) al classico mondo del fast food. In realtà, dietro l’insegna della paninoteca si nascondeva il sorriso beffardo del clown di McDonald’s, pronto a far ricredere i milanesi sulla presunta non-qualità dei suoi prodotti. Per due giorni, infatti, il ristorante ha servito ai clienti entusiasti prodotti McDonald’s, preparati da dipendenti McDonald’s, con attrezzature McDonald’s, ma con un brand e un servizio differenti. Purtroppo, praticamente chiunque cadde in pieno nella trappola. Infatti, una volta caduta l’insegna e svelata quella reale, gli sguardi attoniti, i ripensamenti e le post-giustificazioni si sono sprecate. Ma il commento del direttore marketing di McDonald’s a riguardo riassunse bene quanto successe: “È stato sufficiente nascondere il marchio e mostrarci con un nuovo vestito per far parlare solo il gusto e la qualità degli ingredienti, lasciando in secondo piano i pregiudizi.” Insomma, la prossima volta che parliamo di qualità, rapiti da ciò che crediamo di percepire, ricordiamoci di non spezzare una lancia solamente in favore del cuoco e della brigata di cucina, ma anche dell’ufficio marketing…


a cura di Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini

LA CULTURA DELL’OLIO: ECCO PERCHÉ È NECESSARIA L’Oro Verde: l’olio extravergine di oliva è uno dei principali e più importanti prodotti d’eccellenza del nostro territorio. Considerato dagli esperti come il grasso più adatto, il migliore, per l’alimentazione umana è uno dei prodotti cardine della dieta mediterranea, meraviglioso ed equilibrato modello nutrizionale rimasto costante nei secoli, che unisce qualità del cibo, benessere psico-fisico,

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sostenibilità ambientale e cultura delle tradizioni, come certificato anche dall’UNESCO che, nel 2010, l’ha dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità. Negli ultimi anni la sensibilità di noi italiani a tavola è cresciuta, siamo divenuti “consumatori avveduti”, persone esigenti che privilegiano sempre di più gli alimenti sani e qualitativamente migliori, anche se troppo spesso “trascuriamo” la cultura sottesa a prodotto unico e straordinario che è l’olio extravergine di oliva. Si parla molto di cultura dell’alimentazione, ma non si fa! Se ne parla, spesso confondendola con lo spettacolo, nei media, sui social, nei corsi di assaggio, negli incontri, nei dibattiti, nelle degustazioni guidate da esperti e negli show cooking. Ma questo non basta, la “cultura dell’olio” per il consumatore dovrebbe essere un passaggio fondamentale: deve imparare a riconoscere un extravergine di qualità, con i suoi profumi e aromi, le sue caratteristiche piacevoli di amaro e piccante, il gusto unico. La differenza fra un olio buono e uno di bassa qualità è netta e immediata. Molto spesso la qualità e l’eccellenza faticano ad emergere nel mercato attuale. Questo perché, quando ci si approccia all’olio, mancano gli strumenti per valutare il reale rapporto prezzo e qualità. Non ci si rende conto dell’investimento di risorse umane ed economiche che necessita la produzione dell’olio, e soprattutto del piacere e del gusto che un olio di qualità può conferire ad un piatto, anche se questa scelta comporta una spesa maggiore. L’Italia vanta il maggior numero di cultivar al mondo, più di 500 (il 42% delle cultivar mondiali), divise per regione e tipo di olive da olio o da mensa, un primato di qualità difficilmente uguagliabile. Sempre imitato, spesso contraffatto, qualche volta compromesso persino dai suoi connazionali che lo rendono protagonista di scandali e dibattiti imbarazzanti, il nostro Olio ci regala punte di eccellenza che vale la pena di conoscere e valorizzare. Solo conoscendo l’alta qualità, infatti, siamo in grado di riconoscere ed evitare le sue goffe falsificazioni: a questa eccellenza, abbiamo dunque deciso di dedicare ancora una volta (e fummo i primi già 30 anni fa)un’intera rubrica. Scopriremo insieme i composti chimici e antiossidanti, le caratteristiche organolettiche, impareremo ad assaggiarlo e a riconosce l’importanza della coltivazione, della raccolta, della lavorazione delle olive, di una filiera di valore. Sveleremo i falsi miti che aleggiano intorno a questo elisir unico e irresistibile, e che talvolta, ingiustamente, guidano i nostri acquisti. Perché conoscere questo prodotto significa saperlo scegliere e saperlo proteggere dagli agenti che ne minano l’integrità, dallo scaffale del supermercato fin dentro casa, sulla nostra tavola.




GOLAVAGANDO

RISTORANTE ANNA CINQUANTA ANNI DI STORIA A FORLIMPOPOLI di

Matteo Mambelli

Nel cuore della Romagna, più precisamente a Forlimpopoli, la città natale di Pellegrino Artusi, nel 1968 nasce il ristorante Anna. Il ristorante si trova sulla vecchia via Emilia e per questo, fin dalla sua nascita, è frequentato da commessi viaggiatori, rappresentanti oltre che da amanti della buona tavola, diventando una sosta imprescindibile per chi ama un ambiente familiare che rispecchi la tradizione romagnola e la genuinità dei prodotti del territorio. Il timone del ristorante, oggi, è in mano alla quarta generazione. In cucina troviamo una brigata che ha in Massimiliano e nella mamma Verdiana i suoi pilastri. Il primo si occupa dei secondi piatti, la seconda è addetta ai primi a partire dalla preparazione delle paste fresche tutte “tirate” rigorosamente al mattarello. Per citare il più illustre cittadino di Forlimpopoli, la signora Verdiana potrebbe essere definita “la Marietta” (cuoca e governante dell’Artusi) o, come si dice da queste parti, l’Arzdora, cioè il pilastro nella tradizione di famiglia. In sala, invece, troviamo il figlio Stefano e il papà Mauro che sovrintendono al servizio coadiuvati da due camerieri. Il locale è stato ristrutturato da qualche anno e presenta un arredamento minimalista dove prevalgono i toni chiari contrastati dai colori scuri dei grandi quadri affissi alle pareti. All’ingresso vi è il bancone del bar dove trovano posto oltre 50 etichette tra distillati, rum e whisky, insieme a due vetrinette frigo per il mantenimento, in atmosfera modificata, delle bottiglie di vino per il servizio al

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RISTORANTEANNA

calice. Il ristorante Anna possiede una cantina di oltre 400 etichette ed è stato fra i primi in Romagna ad utilizzare questo sistema per offrire la possibilità ai propri clienti di degustare etichette prestigiose ad un prezzo accessibile. La cantina è stata organizzata dal figlio Federico che, fino a qualche anno fa, faceva parte della squadra di sala e offre etichette nazionali di prestigio (con qualche sforamento oltralpe) con un focus dedicato ai vini del territorio. Tornando al cuore del Ristorante Anna e quindi alla sua cucina, tra le proposte troviamo i classici primi piatti come paglia e fieno ai funghi; le tagliatelle, asparagi e salsiccia; i tagliolini prosciutto e piselli e le classiche tagliatelle al ragù. Tra le paste ripiene sono da segnalare i tortelli di patate al formaggio di fossa; i tortelloni panna e prosciutto e i classici cappelletti sia nella versione in brodo che al ragù. In autunno, a seconda della disponibilità, troviamo abbinamenti con il tartufo e con i funghi come i cappelletti in brodo e tartufo o le tagliatelle ai porcini. Tra i secondi non possono mancare i grandi classici come il coniglio al forno; l’agnello ai ferri; il piccione arrosto, il carpaccio al forno, grana e rucola; il roast beef; la tagliata al sale grosso di Cervia e rosmarino e, saltuariamente, la trippa. Come per i primi piatti, anche per i secondi, quando la stagione lo permette, vengono proposti abbinamenti con tartufo e funghi come la tartare di Fassona con tartufo o il carpaccio al forno con pomodorini e funghi porcini. Terminiamo con la carta dei dolci, preparati dal figlio Stefano, che presenta un’ampia offerta a partire dal mascarpone, il tiramisù, la zuppa inglese, il crème caramel con amaretti e diverse crostate. Il tutto fatto in casa. Inoltre, ogni giorno, sulla lavagna presente in sala, vengono presentate ulteriori proposte dello chef che vanno ad aggiungersi al già ricco menu.

Non da ultimo è da segnalare il servizio da asporto che, nonostante il susseguirsi delle generazioni, resta fedele alla identità del ristorante. La qualità delle materie prime utilizzate, l’ampia proposta del menu ed il servizio attento e premuroso hanno fatto sì che il ristorante Anna ricevesse il Premio di Locale dell’anno 2018 conferito nell’ambito del Gran premio della Ristorazione, diventando un riferimento nello scenario della ristorazione emiliano romagnola. Inoltre, con il recente ingresso nella brigata di cucina dei due figli rispettivamente di Massimiliano e Stefano, siamo alla quinta generazione e questo fa ben sperare nel prosieguo della tradizione di famiglia. RISTORANTE ANNA

Viale Matteotti, 13 - Forlimpopoli (FC) - Tel. 0543 741330 www.ristoranteanna.it - info@ristoranteanna.net

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GOLAVAGANDO

A FERRARA

CUCINA BACILIERI E LA TRADIZIONE DI OGGI di

Lisa Foletti

La monumentalità discreta del Castello Estense, i vicoli e le biciclette, la “elle” velarizzata, i cappellacci e il pasticcio, la salama e la coppia, la nebbia, il lambrusco e il fortana, l’economia che langue, la gioventù pure. Ferrara è Emilia, ma un po’ meno esuberante, un po’ meno ricca. Moderna e progressista nel Rinascimento, è inciampata poi nella storia, finendo per chiudersi in un rassicurante e fiero immobilismo, tra i suoi 9 chilometri di mura medievali. E se tutta l’Emilia-Romagna vive sotto il giogo gastronomico della tradizione, a Ferrara non c’è proprio scampo. O quasi. Cucina Bacilieri, nel centro storico della città, propone con entusiasmo e dedizione un’idea di ristorazione che ammicca al fantomatico “territorio” senza nascondere una sana apertura verso il mondo e verso la contemporaneità. Michele Bacilieri, chef e titolare, è un quarantottenne garbato e schivo, di quelli che non fanno rumore; dopo la scuola alberghiera e le molteplici esperienze in brigate anche importanti, nel 2006 è approdato a La Mezzaluna di Ferrara in qualità di capocuoco, e nel 2016 ha scelto di prenderne le redini, trasformandola nell’odierna (e moderna) Cucina Bacilieri. 10 tavoli e una piccola cucina a vista, un ambiente raccolto dal taglio classico ma attuale.

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CUCINABACILIERI

Si viene accolti dalla frangetta berlinese e dal sorriso luminoso di Elisa Fusi, responsabile di sala e sommelier, la cui storia personale parla di rivoluzioni e passioni. Un menu piuttosto ampio e variegato, limpidamente focalizzato sulla materia prima e, per i più curiosi, gli immancabili percorsi “terra”, “mare” e “a mano libera”, rispettivamente di 6, 6 e 9 portate. Una cucina rotonda, avvolgente, non ostica, che penetra il mondo animale e quello vegetale in un fluire armonico, senza larsen. Chi cerca la semplicità e il comfort qui trova piatti ben eseguiti, gustosi, con qualche richiamo alle tipicità locali ma senza strascichi nostalgici né superflue opulenze. Chi invece desidera giocare e sperimentare liberandosi dai diktat della tradizione, può trovare piatti moderatamente creativi e ben ragionati. A sorprendere, in una precedente visita, furono il guacamole di riccio di mare alla liquirizia con molluschi e crostacei crudi, e la scaloppa di foie gras con scampi e ricci di mare.

L’ultima volta, invece, a conquistare la mente e il palato è stato il falso risotto con vongole veraci e germogli di ravanello: finti chicchi di riso realizzati con ritagli di polpa di rombo, quella attaccata alla lisca centrale, più soda e grassa; intuizione, forma e sostanza che si combinano in un boccone di puro piacere. Divertente e spiazzante anche il ricordo del pasticcio ferrarese, mitica ricetta dolce-salata qui ricreata con una base di torta sbrisolona, baccalà mantecato e scaglie di tartufo nero. Il menu degustazione “a mano libera” è un viaggio di sicura soddisfazione, dove le idee non sono sempre inedite ma il risultato è piacevole a ogni portata: chiaro l’omaggio a Davide Scabin e alla sua “ostrica virtuale” nella “finta ostrica” di inizio pasto (un cubetto di anguria sormontato da scaglie di mandorla e foglia d’ostrica, che al gusto richiama il sapore del mollusco), ancor più evidente se si pensa che Giuseppe Rambaldi, ex braccio destro di Scabin al Combal.Zero, è originario proprio di Ferrara; riproposto da molti chef, nelle sue diverse interpretazioni, il battuto di mazzancolle con gocce di pomodoro e burrata, a ricordare una pizza napoletana, delizioso al palato e alla vista; accostamento classico quello del foie gras con le nocciole, qui impreziosito da

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GOLAVAGANDO

TERRINA DI ANGUILLA INGREDIENTI

2 anguille di g. 600/700, g. 100 di cipolla, g. 100/150 di foie gras, 4/5 foglie di verza (dipende dalle dimensioni), sale pepe q.b., l. 1,5 di brodo per brasare la

cipolla, g. 200 circa di trucioli, 2 foglie di alloro, 4/5 rametti di timo, 3/4 foglie di salvia, 1 ramo di rosmarino, 1 spicchio d aglio di Voghera in camicia. PROCEDIMENTO

Cuocere l’anguilla alla griglia affumicandola con trucioli di legno e erbe aromatiche (Il grado di affumicatura deve essere leggero.

Dunque fare fumare i trucioli e le erbe, unire le anguille, spegnere il fuoco sotto la pentola e lasciare per 10 minuti.

Togliere la pelle delle anguille (da caldo) scottare la verza in acqua acidulata,

raffreddarla con ghiaccio per mantenere il colore, realizzare un patè di foie gras d’anatra e brasare la cipolla con il brodo di pesce.

Foderare con le foglie di verza un contenitore per terrina e mettere l’anguilla

privata della pelle, la cipolla brasata e il patè, sale e pepe e un altro filetto di anguilla. Chiudere con la verza e mettere in pressione in frigo per 3 ore. Porzionare e poi rigenerare, servire mantenendo colore e profumi.

una fetta di pesca leggermente sciroppata, dal risultato goloso e avvolgente; un evergreen rinfrescante ed equilibrato, in chiusura di pasto, la zuppetta di sedano e frutta fresca. Menzione speciale per la cottura delle carni, che rivela tecnica, manualità, conoscenza e perizia: impeccabili il piccione (petto, coscia e ciliegia del suo fegato) e la pancia di maialino. La carta dei vini è assai ridotta ma interessante, e tradisce passione enoica; in essa svettano le assenze (illustri) più ancora delle presenze, e non è affatto un male: per i meno esperti, è un’ottima occasione per affidarsi alla brava sommelier ed esplorare nuovi territori. Esperienza complessiva di sicuro valore, in questa Ferrara intorpidita di inizio millennio.

CUCINA BACILIERI

Via Terranuova, 60 - 44121 Ferrara Tel. 0532 243206

Orari: pranzo 12:00 – 15:00 / cena 19.30 – 22.30 CHIUSO domenica sera e tutto il martedì

www.cucinabacilieri.it - info@cucinabacilieri.it

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GOLAVAGANDO

A ROMA

IL VICOLO È UN NUOVO FASCINOSO SALOTTO NEL CENTRO STORICO Una nuova realtà, immersa nella storia di Roma e dedicata alle eccellenze del panorama gastronomico italiano: è Il Vicolo, il nuovo locale di Fabio Bongianni, a Palazzo Scanderbeg, affacciato su una delle piazze più suggestive del centro di Roma. Gli ospiti che soggiornano nel Palazzo, così come i romani e i turisti che passeggiano per i vicoli di Fontana di Trevi, possono godere di un nuovo spazio raffinato dove conoscere, assaggiare ed acquistare i prodotti migliori del panorama gastronomico italiano. Un vero e proprio salotto su strada, luminoso ed elegante, immerso nella quiete di Piazza Scanderbeg, dai colori caldi ed arredi di design moderno, che ben si sposano con la storia del palazzo, dove il fascino del soffitto con le travi a vista rende l’ambiente ancor più accogliente e rilassante. Protagonisti del Vicolo sono i produttori, che si alternano in un percorso di presentazioni e degustazioni stagionali, per offrire un’esperienza gastronomica a tutto tondo.

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GOLAVAGANDO

LA TRIGLIA TRATTORIA DI MARE AD AVELLINO di

Teresa Cremona

Giovane lo chef, giovane la brigata, giovane il cameriere in sala, giovane l’immagine del locale. La Triglia - trattoria di Mare, è un posto accogliente che offre cucina di mare in una città dove il mare non c’è. La materia prima è freschissima, la cucina è a vista, subito appena si entra; gli arredi sono freschi, chiari, moderni… giusti. In una giornata di normale settimana lavorativa, il locale a pranzo è pieno. La proprietà è di Franco Giulivo, imprenditore; Mirko Balzano viene da una recente esperienza in Calabria e ha collaboratori giovani: Salvatore Tarantino, irpino di 25 anni è il responsabile della cucina. In sala bravo, infaticabile, la gentilezza di Gerardo Ferrari. Produttori d’eccellenza, con le loro storie che diventano protagoniste dei menu per cene ad hoc. Ma il Vicolo, associazione culturale, è anche un luogo di sperimentazione dove parlare delle nuove tendenze e per capire quanto in là si può spingere il palato nella ricerca del gusto. Il tour gastronomico disegnato da uno chef e il viaggio culinario tra le bellezze di Roma sono solo alcune delle esperienze che Il Vicolo - aperto tutti i giorni tranne la domenica - propone agli ospiti, insieme alla possibilità di degustazioni enogastronomiche dalle 10 di mattina alle 22.

TRIGLIA TRATTORIA DI MARE

Via Cristoforo Colombo, 33 - 83100 Avellino Tel. 0825 702123

IL VICOLO PALAZZO SCANDERBEG

Piazza Scanderbeg 117 - 00187 Roma - Tel. +39 06.8952 9001 www.palazzoscanderbeg.com - info@palazzoscanderbeg.com

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GOURMETFOOD

LA SICILIA NEL CUORE DI

NINO GRAZIANO ANCHE NEL NUOVO LOCALE A ROMA di Jerry foto di

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Bortolan Giovanna Di Lisciandro


NINOGRAZIANO

Un gigante, un intellettuale della nostra cucina, quella vera e solida, quella dei profumi e dei sapori forti che esprimono la sua terra: la Sicilia. Nino Graziano ha esportato in Russia il suo cuore e la sua eccezionale esperienza di grande cuoco a Mosca e lo ha fatto quando ancora le porte del pianeta Russia erano semiaperte per i turisti stranieri: figuriamoci per quelli che volevano lavorarci… Corrono gli anni 2000 quando alcuni imprenditori di Mosca entrano nel suo storico “Mulinazzo”, a Palermo - l’unico ristorante con due stelle Michelin della Sicilia e, gli unici due super stellati del Sud insieme a “Don Alfonso “, a Santagata dei due Golfi, in Campania - per proporgli l’apertura di un ristorante con il suo nome nel centro di Mosca, à coté

della Piazza Rossa, all’ombra delle cupole e del potere del Cremlino. Un’avventura, più di un’avventura lasciare il suo ristorante stellato per un’incognita. Ma una sfida fatta a un uomo della Sicilia, costi quel che costi, può essere solo accettata e, ca va sans dire, le sfide sono state tante e le ha vinte tutte. Così, da molto tempo, Il Mulinazzo è, per la sua cucina, il punto di riferimento degli oligarchi e della nomenclatura di Mosca ai quali oggi si aggiunge una nuova generazione di gourmet, cresciuta con l’avvento della movida enogastronomica mondiale. Abbiamo rincontrato Nino, dopo 20 anni, nel suo nuovo e piacevole ristorante che ha chiamato “Osteria siciliana”, a Roma, per farci raccontare la sua bella storia

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GOURMETFOOD

SARDE A BECCAFICO INGREDIENTI per 4 persone g. 800 di sarde intere

g. 150 di mollica di pane fresco g. 30 di ragusano

g. 20 di parmigiano g. 50 di uvetta g. 50 di pinoli

prezzemolo tritato

g. 25 cipolla tritata

scorzetta di limone grattugiata

scorzetta di arancia grattugiata 1 arancia spremuta

g. 25 di salsa pomodoro

sale pepe foglie di alloro olio extravergine d’oliva PROCEDIMENTO

Pulire accuratamente le sarde, aprirle a libro eliminando lische e teste. Mettere

tutti gli altri ingredienti in una boule e mischiare a mano. Farcire le sarde con questo composto. Disporre le sarde in una teglia e fra di loro mettere una foglia di alloro e una mezza fetta di arancia. In forno a 200°C per 10 minuti.

davanti a una “Sarda a Beccafico”, un piatto della tradizione palermitana che integra i sapori del ripieno di pangrattato, pinoli, aglio, persica, e uvetta, e i super gamberi rossi di Mazara panati, con origano. “A Mosca - racconta - la cucina italiana spopolava per la sua capacità di esaltazione dei sapori, per il gusto dei nostri piatti: eravamo i primi. Ora, “grazie a noi” non lo siamo più. Perché sono stato io a far sviluppare una cucina russa che prima non esisteva, insegnando come trattare gli alimenti con le nostre tecniche e abbinamenti creativi a tanti ragazzi che abbiamo preparato per 10/12 anni, facendoli diventare bravi chef. E così tutti si sono buttati sugli alimenti della loro terra, riproponendo piatti della tradizione russa. Negli ultimi 4-5

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NINOGRAZIANO

anni hanno aperto solo ristoranti dove, oltre al solito “caviale &vodka”, si trovano piatti della tradizione russa, fuori dagli stereotipi del merluzzo, malto e farro con panne acide. Un esempio di questa nuova tendenza è lo chef Boris Zarkov che nel suo ristorante “White Rabbit” scava nella storia gastronomica alla ricerca di antiche ricette. Poi - osserva Nino - per colpa dell’embargo, il fenomeno ha subito un’accelerazione negativa per noi. Non si aprono più ristoranti italiani. L’ultimo, importante, ad aprire è stato il «Logo» di Cracco, in un hotel, ma con un successo limitato. Oggi, il trend è cucina russa, giorgiana, cinese o giapponese. La parte europea è chiusa e non ci sono più importazioni di pesce e di altri nostri prodotti. Io, che sono lì da molti anni con la mia clientela conquistata nel tempo, posso lavorare benissimo con i prodotti

MINESTRA

di gamberoni rossi di Mazara con pasta spezzata INGREDIENTI per 6 persone

PROCEDIMENTO

g. 180 di spaghetti spezzati

molo e farli rosolare con poco olio.

g. 500 di gamberoni rossi di Mazara g. 20 di cipolla dorata 1 spicchio d’aglio

g. 5 di prezzemolo tritato l. 1 di fumetto di pesce

g. 250 di pomodori maturi sbucciati e tagliati a dadini

olio extravergine d’oliva g. 50 di mandorle

g. 25 di pistacchio

g. 5 di peperoncini in polvere

Tritare finemente aglio cipolla e prezzeStaccare le teste dei gamberoni e svuotare l’interno conservando tutto il liquido. Sgusciare le code ed eliminare il filo intestinale, poi tagliarle a pezzettini. Unire le code

e il liquido delle teste al trito aromatico, alzando la fiamma per 2 minuti.

Aggiungere il pomodoro e fare cuocere

ancora per 1 minuto. Unire il fumetto di pesce, portare ad ebollizione e aggiustare di sale. Cuocere la pasta nella minestra

avendo cura che rimanga al dente. Al mo-

mento di servire, legare la minestra con mandorle, pistacchio, aglio e prezzemolo e un bel pizzico di peperoncino.

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GOURMETFOOD

che vengono dal Giappone o dalla Nuova Zelanda perché, tecnicamente, noi siamo bravi. Però, dire che oggi faccio una cucina italiana al cento per cento è un po’ complicato: le paste si possono fare a mano, però mancano altri ingredienti. Si fanno anche le burrate, la mozzarella, ma è ovvio che non sono mai come quelle italiane : i nostri sapori non ci sono.” Senti Nino, perché Roma e non la tua Palermo? Sei alle spalle di Palazzo Fendi che, guarda caso, è di proprietà di una multinazionale come Zuma. Perché Roma? “La scelta di Roma è stata abbastanza casuale. Non è legata a qualcosa di gastronomico o di importante. Nei miei viaggi da Mosca scendevo all’aeroporto di Roma che era anche sul mio tragitto dalla Sicilia. Siccome mia moglie voleva assolutamente aprire un ristorantino, le ho proposto di farlo a Roma. E così è nata l’Osteria siciliana, ma solo con l’idea di fare sette, otto, dieci piatti di antica tradizione da “non dimenticare”. Come la caponata di verdure in agrodolce, il timballo di aneletti dei giorni di festa, e gli involtini di pesce spada - ammuddicati - con cipolla e alloro, o le panelle con baccalà alla messinese. Poi, qualche piattino creativo, c’è, ma fatto con il mio concetto che è: sapore, sapore, sapore,

BIANCOMANGIARE INGREDIENTI per 6 persone

PROCEDIMENTO

g. 150 di latte intero

ruola sul fuoco e raggiungere una tempe-

g. 475 di latte di mandorle g. 80 di zucchero

g. 5 di gelatine colla di pesce g. 2 di agar agar g. 1 di cannella

g. 1 di vaniglia semi

Mettere tutti gli ingredienti in una casseratura di 70°C, mescolando lentamente. Dividere negli stampini e mettere in frigo

per 4 a 5 ore. Sformare e decorare con frutta di bosco e mandorle grattugiate.

come il maialino nero con salsa al cacao amaro e sparaceddi”. Questo è Nino Graziano, un purista della gastronomia che entra a gamba tesa nella storia della cucina - quella regionale che solo apparentemente sembra semplice - con una creatività super nell’integrazione degli alimenti, principalmente a base di pesce, verdure, spezie. Tutti prodotti che si fa arrivare dalla sua terra. La “minestra di Nino Graziano” con gamberi rossi, per esempio, è la dimostrazione del massimo piacere del gusto concentrato in un piatto, così come il “biancomangiare alle mandorle e frutta di bosco”, un pudding straordinario con il profumo di menta. Non si possono raccontare le emozioni del palato. Si provano e basta...

OSTERIA SICILIANA

Via del Leoncino, 28 – Roma - Tel. 06 68805283 www.osteriasiciliana.it - info@osteriasiciliana.it

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GOURMETFOOD

RISTORANTE

EDUARDO

A SIRACUSA LO CHEF MAURIZIO URSO FA LA DIFFERENZA CON LA SUA CUCINA SOLARE di

Teresa Cremona

Siracusa, per una volta non Ortigia, ma il moderno quartiere di Scala Greca. Fra le costruzioni di nuova edilizia, una casa d’epoca di stile vagamente liberty, immersa in un parco di piante esotiche, con piscina, bar per gli ospiti, angoli di relax nel verde, e un piacevolissimo dehors per il ristorante open air, prolungamento estivo, della sala interna. Complessivamente una fresca, riposante atmosfera. La casa costruita per essere un’abitazione privata, è stata, pochi anni fa, trasformata in albergo di 50 camere, con una zona congressuale e ampi saloni nelle parti comuni. Il punto di forza dell’hotel Parco delle Fontane è il rigoglioso giardino esterno di oltre un ettaro, dichiarato riserva naturale. Il Ristorante Eduardo e tutti i servizi di ristorazione dell’albergo, dalle prime colazioni, al servizio bar in piscina, ai banchetti e ai congressi, sono sotto la direzione di Maurizio Urso. Chef con un percorso professionale importante, che ha lavorato con Gualtiero Marchesi, Sergio Mei, Giorgio Nardelli, fino alla lunga e assidua collaborazione con Gianfranco Vissani. Da qualche anno Maurizio è tornato a Siracusa, città dove è nato. Le sue preparazioni testimoniano tecnica ed eleganza, ma anche temperamento e carattere. Assente il desiderio di stupire, c’è la volontà di fare una cucina solare che soddisfi l’ospite.I suoi piatti sono espressione di territorio, non per moda, ma per sentire, moderni nella concezione, antichi nel riferimento alle ricette che li hanno ispirati. Composti di pochi elementi, sono complessi nella preparazione, ricchi di profumi essenziali, agrumi, nepitella, maggiorana, erbe dell’orto, che esaltano il decalage dei sapori. I prodotti sia di mare che di terra sono di eccellente provenienza, risultato di confronto e di ricerca con e sul territorio: farine di grani antichi, minusculi pomodori di giovani agricoltori, pescato locale, carni dei maiali dei Nebrodi, tutto è frutto di sinergie con la sua terra. Nella prima colazione del mattino, tranne i croissant, tutto è preparato nella cucina del ristorante, e c’è il tavolo ‘siciliano’ che propone dalla granita con brioche, alla cassata, ai cannoli, ai biscotti di mandorle e nel salato, ricotta di pecora, formaggi del ragusano. Ogni cosa è spiegata, per aiutare il turista a capire e ad assaggiare.

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GOURMETFOOD

BACCALÀ

scottato in infuso di zenzero e limone siracusano Igp su insalata di ciliegino Pachino, ciliegino lemon, datterino arancione con origano e basilico INGREDIENTI per 4 persone

cia di limone, foglie di alloro, pepe

di zenzero, g. 70 di finocchietto selvati-

d’oliva q.b.

4 filetti di baccalà Morro di g. 120, g. 70 co, g. 20 di timo selvatico, g. 70 di buccia di limone siracusano Igp, 1 foglia di

alloro, 1 spicchietto di aglio, pepe q.b., olio extravergine di oliva.

Per l’insalata: g. 100 di ciliegino Pa-

chino, g. 100 di ciliegino lemon, g. 100 di datterino arancione, 12 di origano, 8 foglie di basilico, sale, pepe, olio extra-

bianco un pizzico, e olio extravergine

Condizionare 100% sottovuoto quindi cuocere a vapore a 60°C per 15 minuti.

Nel frattempo lavare bene i pomodori-

ni, togliere la parte legnosa e dividere in 2; porre su una ciotola, aggiungere origano, basilico, spicchietto di aglio in camicia, sale, pepe e olio EVO. Mescolare bene e lasciare riposare.

vergine d’oliva q.b.

Assiette del piatto

PROCEDIMENTO

modorini, poggiare sopra il filetto di

Porre dentro un sacchetto i 4 filetti di Morro, quindi aggiungere zenzero, fi-

nocchietto, timo, aglio in camicia, buc-

Su di un piatto porre l’insalata dei poMorro ben sgocciolato e servire con con un rametto di erbe aromatiche o fiori eduli.

BAVARESE ALLE MANDORLE con cuore di frutti rossi e salsa inglese agrumata INGREDIENTI per 10 persone

g. 370 di latte di mandorla, g. 70 di crema

di latte, g. 30 di tuorli d’uovo, g. 37 di zucchero, g. 125 di crema di latte, g. 60 di pasta di mandorla.

Per il cuore di frutti rossi

g. 100 di acqua, g. 40 di zucchero, g. 5 di cannella, g. 5 di finocchietto selvatico, g. 10 di buccia di limone, g. 10 di buccia

arancia, 1 foglia di alloro, 2 semi di cardamomo, 1 anice stellato, g. 70 di frutti rossi, salsa inglese agrumata, g. 70 di latte, g. 70 di crema di latte, g. 37 di zucchero, g. 30 di tuorli d’uovo, buccia di arancia e limone. PROCEDIMENTO

Bollire il latte di mandorla con 70 grammi

di crema di latte, versare nei rossi montati con lo zucchero, mettere in un pentolino e portare a 85°C. Unire la colla di pesce già

ammorbidita e lasciare raffreddare a circa 60°C; aggiungere il resto della crema di

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RISTORANTEEDUARDO

In cucina c’è una brigata giovanissima, in sala un servizio esperto, cortese, professionale guidato dal maitre Antonio Mancarella e del sommelier Marco Campisi. Direttore dell’Albergo è Sebastiano Urso, omonimo ma non parente. Un team affiatato e sperimentato che da anni lavora insieme. Una continuità che è un’ulteriore garanzia di successo. RISTORANTE EDUARDO

Viale Scala Greca, 325 - 96100 Siracusa - Tel. 0931 756914 www.ristoranteeduardo.it

latte montata (125 grammi) e la pasta di mandorla. Riempire uno stampo al 50%,

mettere il cuore di frutti rossi e finire con il

resto della bavarese. Abbattere o lasciare in frigo.

Per il cuore ai frutti rossi: mettere tutti gli ingredienti (esclusi i frutti rossi) in un

pentolino, far bollire e ridurre della metà;

passare al colino cinese, lasciare raffreddare, unire i frutti rossi. Con un immersore

mixare il tutto, ripassare al chinoise e porre in formine di cm. 1x1, quindi porre in abbattitore.

Per la salsa inglese: in un pentolino bollire il latte, la crema di latte, le bucce degli

agrumi. Filtrare e versare nei rossi montati

con lo zucchero, mettere in un pentolino e portare a 85°C, e subito dopo abbattere in positivo.

Composizione

Porre alla base del piatto la salsa inglese, sformare la bavarese, finire a piacimento.

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GOURMETFOOD

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XXXXX ERIC RIPERT XXXXX di

A NEW YORK

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FA DEL PESCE LA VERA STAR DEL MENU di

Flavia Tomaello

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Premiato dalle Guide più prestigiose e ormai stabile nella classifica dei 50 migliori ristoranti al mondo, Le Bernardin ha saputo costruire la sua storia sempre controcorrente in una Manhattan esigente e competitiva.

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Esistono storie tristi che, tuttavia, preludono a un percorso verso un destino prestabilito. Quando nasce a Parigi nel 1972, grazie all’opera dei due fratelli Maguy e Gilbert Le Coze, Le Bernardin offre solo pesce: fresco, semplice e preparato con amore. Dopo aver ottenuto la prima stella Michelin nel 1976 e la seconda nel 1980, i Le Coze decidono di aprire Le Bernardin nella città di New York nel 1986. Nel 1994 però Gilbert muore improvvistamente. Da quel momento Maguy comincia a lavorare a stretto contatto con lo chef Eric Ripert, alunno e amico di Gilbert, e diventa responsabile della cucina così da continuare a preparare il pesce fresco con la semplice filosofia che fa del pesce la star del menu. Le Bernardin ottiene quattro stelle dal The New York Times dopo solo tre mesi dall’apertura, ma soprattutto


ERICRIPERT

non ne perde nessuna nei successivi cinque controlli e si conferma così come l’unico ristorante a mantenere questa votazione per un lungo periodo. Nel settembre 2011, Le Coze e Ripert svelano il capitolo successivo della storia del ristorante: un’importante riqualificazione da parte di Bentel & Bentel. La nuova proposta per il locale consiste in un salone con differenti menu a disposizione del pubblico. Il ristorante riceve subito il premio James Beard come “Miglior disegno d’interni di ristoranti”; l’onorificienza “Restauratore d’eccellenza” è andata nel 2013 invece proprio a Le Coze che diventa così la prima donna a ricevere tale premio in questa categoria. Le Bernardin ha ricevuto più premi James Beard di qualsiasi altro ristorante di New York. La Guida Michelin, che ha esordito a New York nel 2005, ha premiato nello stesso anno lo chef Ripert e Le Bernardin con la votazione più alta di

tre stelle che da allora ha continuato a mantenere ogni anno. Il ristorante si trova al 26° posto tra i 50 migliori ristoranti del mondo. E i premi continuano ad aggiungersi in una lista infinita.

ODE ALLA SEMPLICITÀ “Per me la cucina è fatta di ricordi, sentimenti, emozioni e questa è l’essenza di Le Bernardin, che non è solo un ristorante”. Ripert è convinto che anche nel palato ci sia sentimento. Come quello scaturito dall’esplosione leggera dell’aglio, dal lime e melograno che fanno contrasto con la carne morbida e croccante del branzino; o quando si vede arrossire l’halibut al vapore nella sua salsa di rape; o il contrasto aromatico di un piatto di gnocchi che accoglie la manciata di ricci di mare che a loro volta nascondono un cuscino di caviale. Per un ristorante così determinato a restare in vetta, conservare un repertorio del tutto soddisfacente e saperlo rinnovare con frequenza, è davvero una sfida. Tuttavia, grazie alla determinazione e alla conoscenza profonda di una filosofia ispiratrice, si è potuto dar vita ad un’eccellenza sostenibile. Sotto l’implacabile guida di Ripert e Maguy LeCoze, Le Bernardin continua la sua avanzata inesorabile. “Devi sempre evolvere. Se il ristorante fosse ancora com’era il giorno in cui lo abbiamo aperto, adesso sarebbe già vecchio. Devi sempre cambiare, ma bisogna farlo con arguzia”, sostiene Maguy Le Coze. Da adolescente era già lì a lavorare nel salone dell’Hotel de Rhuys, mentre suo fratello Gilbert imparava in cucina. I due fratelli erano riusciti a impressionare così tanto il padre da farsi affidare la sorte del La Biscorne, una discoteca

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GOURMETFOOD

SALMONE FRESCO

e pane tostato con impasto fermentato INGREDIENTI per 2 persone

1 bottiglia di vino bianco secco 2 cucchiai di scalogno tritato

kg. 1 di salmone fresco tagliato a dadi di cm. 2 circa

PROCEDIMENTO

2 cucchiai di cipolla fresca tagliata a fette

e un cucchiaino di sale in una

g. 170 di salmone affumicato, tagliato a dadini 1/4 di tazza di succo di limone fresco 1 tazza di maionese

sale marino fine, pepe bianco appena macinato, a piacere

bruschette di pane o baguette, per accompagnare il piatto

Versare il vino, lo scalogno

grande pentola e portare a ebol-

lizione. Aggiungere il salmone fre-

sco per circa 40 secondi. Scolare con

un colapasta e lasciar scorrere sotto

l’acqua fredda per bloccare la cottura.

Scolare ancora per bene e mettere in fri-

go per farlo raffreddare. Buttare il liquido ottenuto.

Mettere il salmone affumicato in un bowle

grande e aggiungere le cipolle. Aggiungere il salmone cotto. Usare un cucchiaio

di legno per triturare il salmone e mesco-

larlo allo stesso tempo. Aggiungere il suc-

co del limone, la maionese e il pepe. Salare a piacere. Mettere in frigo fino a che

non sia pronto per essere servito. Servire con bruschette di pane tostato o baguette.

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ERICRIPERT

estiva, lasciata proprio alla loro completa gestione. Durante la stagione invernale i due si recavano spesso sulle Alpi francesi per lavorare nei club e nei ristoranti delle stazioni sciistiche. Nel 1972, quando Maguy e Gilbert avevano ventiquattro anni, si sono trasferiti a Parigi e hanno aperto un piccolo ristorante, Le Bernardin appunto, in omaggio all’ordine dei frati minori “bernardini”, propensi al consumo di vino e buon cibo. Maguy e Gilbert avevano preso in prestito ricette di famigliari che vivevano in Bretagna, mentre il padre raccoglieva prodotti freschi, da mandar loro a Parigi in treno. Le Bernardin era diventato così uno dei migliori ristoranti di Parigi. Nel 1981 il ristorante si trasferisce in un locale più grande e un anno dopo riceve due stelle Michelin. Sulla scia del successo parigino, Gilbert e Maguy aprono uno secondo locale nella città di New York nel 1986. Nel 1998 esce il primo libro di cucina del ristorante, dal titolo “Le Bernardin-Four Star Simplicity”. Eric Ripert pubblica anche le proprie memorie, un libro che diventa subito un best seller per il New York Times, dal titolo “32 Yolks” a cui seguono altri quattro libri di cucina: “My Best: Eric Ripert”, “Avec Eric”, “On the Line” e “A Return to Cooking”. Nel settembre 2014, Ripert e Le Coze aprono l’Aldo Sohm Wine Bar, in omaggio al famoso Aldo Sohm. A pochi passi da Le Bernardin, questo bar di vini offre un menu a base di formaggi, sottaceti e piatti semplici che si combinano con la lista dei vini curata dal somellier, all’interno di un ambiente informale e gradevole. Fin da subito, quasi nello stesso mese dell’apertura, i due ampliano le offerte di piatti gourmet con Le Bernardin Privé, uno spazio dinamico che si trova proprio sopra l’Aldo Sohm Wine Bar e dove si organizzano eventi come nozze, cocktail e pranzi aziendali.

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GOURMETFOOD

PARGO ROSSO AL FORNO INGREDIENTI per 2/4 persone

con la pellicola trasparente, di modo che non si secchi; nel caso

fresco tritato (foglie e gambo tritati), più 5 rametti, 2 1/2 tazze, più

golo di impasto di 40 per 30 centimetri, di circa 4/5 millimetri

kg. 2 di farina, 3/4 di tazza di rosmarino tritato, 1/2 tazza di timo ½ tazza di sale marino grosso per la crosta del pargo, 5 ¼ tazza (circa 42) chiare d’uovo, 6 cuccchiaiate di burro senza sale, tagliato

a pezzetti di cm. 1,5, 1 limone tagliato a fette sottili, pargo rosso intero di kg. 2 circa, senza testa né squame e pulito, pepe bianco

appena macinato a piacere, 3 tuorli d’uovo, 2-3 denti d’aglio, pelati, 1 ½ cucchiai di burro. PROCEDIMENTO

Preparare l’impasto per il pargo cotto. Iniziare prendendo la metà del sale grosso, il rosmarino tritato e il timo per poi triturarli in

un processore per alimenti, fino a mescolarli bene, per circa 30

secondi. Aggiungere poi la farina e il sale macinato. Aggiungere gradualmente le chiare d’uovo, mescolando a mano, fino a quando la miscela non forma un impasto blando ma non appiccicoso.

Usando della farina in aggiunta (la quantità che sia necessaria), porre l’impasto sopra un piano di lavoro e impastare fino a renderla soffice. Avvolgere l’impasto in una pellicola trasparente e lasciar riposare per almeno 2 ore a temperatura ambiente o per un giorno intero in frigo.

Per cuocere al forno il pargo, disporre il burro, i denti d’aglio, i rametti di rosmarino e di timo e il limone dentro la pancia del pesce. Cospargere generosamente l’interno del pesce e entrambi i lati esterni con del pepe.

Cospargere della farina su un piano di lavoro sufficientemente

grande. Mettere da parte metà dell’impasto, e ricoprire il resto

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sia necessario si dovrà usare dell’altra farina. Formare un rettandi spessore. Coprire una leccarda grande con carta da forno e collocarvi l’impasto. Mettere il pesce, in diagonale se necessario,

in modo che sia ben posto nel vassoio. Con l’impasto restante, impastare un rettangolo di 60 per 40 centimetri e coprire il pesce.

Far pressione sulla pasta intorno al pesce in modo da sigillarlo per

bene. Ritagliare la pasta in eccesso dalla parte superiore dell’im-

pasto, lasciando 5 centimetri di bordo; non ritagliare la pasta del rettangolo alla base. Se necessario aggiungere dei ritagli di

pasta nelle zone dove la pasta risulti più fina. Non è un problema

se la coda del pesce o un po’ di impasto fuoriescono dal bordo:

l’importante è che il resto del pesce risulti ben sigillato. Sbattere i tuorli con 3 cucchiaiate d’acqua; spennellare sopra l’impasto in

modo ben uniforme. Cospargere la mezza tazza del sale restante sopra il pesce e cospargere ancora dell’uovo sopra il sale. (Questa

ricetta si può preparare fino a questo punto, almeno fino a un’ora prima di metterla in forno, 2 ore prima di servire).

Riscaldare il forno. Cuocere il pargo per circa 25 minuti. Ritirare e

lasciar riposare per 20 minuti. Far scivolare il pesce (insieme con la pasta) su un tagliere grande. Ritagliare il bordo inferiore in modo uniforme rispetto alla parte superiore e collocare in un grande

piatto da portata. Tagliare il pargo facendo passare un coltello da sotto il filetto in modo da separare la carne dalla spina. Servire

ogni porzione in un piatto e cospargere di pepe. Solo dopo aver servito i filetti superiori, alzare la spina centrale del pesce e tagliare il filetto inferiore allo stesso modo.


ERICRIPERT

LO CHEF DEL PESCE Ripert è entrato a contatto fin da giovane con questo mondo grazie principalmente a due stili di cucina: quello proveniente da Antibes, Francia, dove è nato, e quello di Andorra, dove si è trasferito ancora bambino. La sua famiglia gli ha trasmesso la passione per il cibo tanto che all’età di 15 anni se ne va di casa per iscriversi alla scuola di cucina a Perpignan. A 17 anni si trasferisce a Parigi e cucina per il leggendario La Tour D’Argent giusto prima di ottenere un lavoro presso il Jamin, ristorante con tre stelle Michelin. Dopo aver compiuto il servizio militare, Ripert ritorna a lavorare al Jamin con Joel Robuchon. Nel 1989, ha l’occasione di lavorare con Jean-Louis Palladin, in qualità di secondo chef presso il Jean Louis, nel Watergate Hotel a Washington, DC. Ripert si trasferisce così a New York nel 1991, e riesce a lavorare brevemente come secondo chef di David Bouley prima di esserlo per Maguy e Gilbert. I due lo reclutano come chef per Le Bernardin.

Da allora Ripert si è solidamente dimostrato come uno dei migliori chef di New York e del mondo. Quando gli si chiede di fare previsioni e di indicare verso dove si sta dirigendo la cucina internazionale, Ripert risponde così: “Si tratterà di creare una maggiore coscienza e attenzione nella ricerca e nella sostenibiltà degli ingredienti, specialmente con il pesce. Oggi è diventato relativamente facile comprare frutta e verdura coltivate biologicamente, e animali allevati a terra e non maltrattati; tuttavia quando si tratta di identificare il pesce in forma sostenibile e non in pericolo di estinzione, il processo continua ad essere ancora molto difficile. Ci sono molte organizzazioni che cercano di offrire orientamento e informazione in merito alla sostenibilità della vita marina, anche se non sempre sono d’ccordo tra loro. Per creare il nostro menu a Le Bernardin, mi trovo spesso a incrociare dati con svariate istituzioni alla ricerca di risposte a domande comuni. La mia esperienza mi dice che altri chef, ristoranti e consumatori cercano pesci che non sono in via di estizione, che vengono alimentati naturalmente e che ricevono un trattamento umano. Quando richiediamo questa qualità, non solamente stiamo appoggiando e sosteniamo i pescatori e gli allevatori, ma stiamo anche cercando, come collettività, di creare un impatto positivo nel futuro dei nostri oceani“. La sfida più grade per il successo di un ristorante del calibro di Le Bernardin, risiede, secondo il suo chef, nella consistenza. “Ogni sera dobbiamo assicurarci che gli ospiti ad ogni tavolo facciano la miglior esperienza possibile. Gli ospiti si riuniscono spesso presso di noi per i più svariati motivi: pranzi d’affari, occasioni di festa, occasioni uniche tali che la nostra squadra possa gestire in sintonia tra sala e cucina per offrire eccellenza nel servizio e nella preparazione dei cibi. La chiave per arrivare a questo obiettivo è proprio la comunicazione tra la sala e la cucina, tra il maître, i camerieri i somellier e qualsiasi altra persona che “tocchi” il tavolo. Il lavoro di squadra, l’organizzazione e il rispetto per gli altri sono regole essenziali”. In Le Bernardin vige una regola-mantra per ogni piatto: “Il pesce è la star”, e questo refrain ci ricorda come ogni ingredente si trova lì proprio per esaltarne il componente principale. E deve essere sottile, raffinato, semplice, elegante, fresco, di stagione, preciso, delicato, deciso, di lusso.

LE BERNARDIN

155 W 51st - New York, NY 10019 - Tel. +1 212 554 1515 www.le-bernardin.com

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GOURMETFOOD

A BERLINO

MAX STROHE

CENTRA LE RADICI DEL GUSTO TEDESCO IN UN LIBERO GIOCO DI RISPECCHIAMENTI di

Alessandra Meldolesi

Berlino è la città che diviene, anche a tavola: tra i nuovi indirizzi di riferimento il Tulus Lotrek “Berlino è condannata a questo: divenire sempre e non essere mai”. Lo scriveva già il critico d’arte Karl Scheffler, ma oggi è vero più che mai, nel brulicare dei cantieri che punzecchiano il tessuto vivo della metropoli. Un patchwork di isole neoclassiche e parchi, quartieri high-tech e oasi hipster densamente graffitate, etnie e culture sotto cui suppura la vecchia cicatrice del muro. Che siano facciate di castelli, grattacieli o nuove linee della metropolitana, il cambiamento è la regola. Anche a

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TULUSLOTREK

tavola, dove nel vuoto pneumatico di tradizioni (difficile identificare una sola specialità autenticamente berlinese), ogni chef avanza la sua ipotesi culinaria. Dopo il fenomeno Tim Raue, celebrity chef dedito a eleganti alchimie panasiatiche, è il momento di due giovani stelle: il ventiquattrenne Dylan Watsan-Brawn, che da Ernst miscela influenze giapponesi di marca Ryugin con motivi scandinavi, esplorando la prossimità, e Max Strohe, solista del Tulus Lotrek, autore di una cucina che è quanto mai arduo concettualizzare. Archiviata la vecchia guardia gallicizzante, i due interpretano diversamente l’istanza fusion avanzata dal cosmopolitismo (perché è il mondo il vero terroir delle metropoli contemporanee); come pure il rovello su un paradigma gustativo tedesco, che si lascia a tratti identificare, per quanto in via indiretta,

per un comprensibile pudore nell’approcciare il tema “nazione”. Ed è di fatto una cucina che depone il vessillo “Blut und Boden”, ovvero sangue e patria, come è stato autorevolmente scritto, quella di Strohe, che recupera il territorio mediante un astuto gioco di rispecchiamenti, attraverso riferimenti classici e analogie orientali. Restia a seguire la moda nordeuropea, ritenuta un po’ ideologica, ingessata, autoritaria. La libertà, cifra del ristorante, germoglia dalla biografia di uno chef autodidatta, fra le virgolette di un lungo apprendistato sotto tetti non necessariamente glamour. Dopo la scuola e il tirocinio, ci sono stati prima il ristorante dell’hotel Hohenzollern a Bad Neuenahr-Ahrweiler, poi, dopo il trasferimento a Berlino, The Grand, Frau Mittenmang e Parkstern, tutti senza

stelle. Finché Strohe non ha deciso di aprire il suo Tulus Lotrek con l’incoscienza dei predestinati nel novembre 2015. I soldi erano pochi, la fame tanta, lo stile ancora in progress, per tentativi fino alla maturità attuale, che non sembra tuttavia definitiva. E i riconoscimenti non hanno tardato: il 2016 è stato un anno magico, grazie al titolo di Berlin Master Chef, seguito a ruota dalla stella Michelin. Il locale, un ristorantino dall’atmosfera Be.Bo. (berlinese bohèmienne), si annida in un angolo stranamente pacificato e residenziale del quartiere di Kreuzberg, formicaio multietnico di esercizi colorati. Situato al piano terra, conserva un’atmosfera familiare più che bistronomica, sulla parete un trompe-l’oeil di foresta punteggiato di edibilia surreali, quali tentacoli di polpo e conchiglie Saint-Jacques avvin-

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GOURMETFOOD

CAPASANTA

con sedano, camomilla e dashi INGREDIENTI

Rosolare 200 grammi di carne di capa-

Per la crema di sedano

Aprire due capesante per persona, se-

carote e sedano, aggiungere cipolle e

g. 100 di panna, 32% di sale grasso.

Per la capasanta

parare la barba. Rimuovere il muscolo dalla carne, risciacquare con acqua fred-

da, asciugare e conservarle coperte con ghiaccio in un luogo freddo. Per le uova di pesce (roe)

Passare la capasanta in una miscela di 100 grammi di sale marino e 50 grammi di zucchero per 15 minuti.

Lavare, tamponare a secco e asciugare nell’Excalibur a 68°C per 12 ore fino a quando non sarà più duro e potrà essere grattugiato come un formaggio. Per il dashi

g. 200 di cipolla, pelata e tagliata a dadini, g. 100 di sedano, pelato e tagliato a

dadini, g. 200 di carota, pelata e tagliata a dadini, g. 60 di concentrato di pomodoro, g. 200 di vino bianco, g. 100 di Noilly Prat,

ml. 400 di brodo di pesce, g. 60 di fiocchi di tonno.

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santa (carne di muscoli e le barbe) con brasare tutto. Aggiungere il concentrato

g. 500 di sedano rapa, g. 200 di burro,

di pomodoro, caramellarlo, sverniciare

Sbucciare e tagliare a dadini il sedano e

tutto. Ripetere il processo e aggiungere il

le radici si ammorbidiscono, aggiungere

con ml. 100 di vino bianco e ridurre il brodo di pesce e Noilly Prat alla miscela.

Cuocere a fuoco lento per un’ora, poi passare tutto.

Aggiungere a questo brodo caldo i fioc-

chi di tonno e lasciare cuocere per un’ora a calore moderato.

Passare tutto e lasciare raffreddare il bro-

brasarlo in 200 grammi di burro. Quando la panna e cuocere tutto (prima purea in un miscelatore senza liquido).

Aggiungere gradualmente la crema di burro alla camomilla fino a raggiungere la

consistenza cremosa desiderata. Condire con sale.

do. Macinare la carne di capesante e me-

Finitura del piatto: tagliare le capesante

uova e cubetti di ghiaccio. Aggiunge-

biente. Riscaldare la crema di sedano e

scolarla con l’albume d’uovo di quattro

re questa miscela al brodo e portare ad ebollizione a fuoco basso.

Filtrare con cautela attraverso un panno.

Quindi ridurre e condire il brodo a piacere con salsa di soia a ridotto contenuto di sale.

a fette sottili e lasciarle a temperatura ammetterne un cucchiaio generoso al centro di un piatto profondo.

Coprire la crema con le fette di capasanta

a forma circolare. Scaldare il dashi e far bollire e metterne due cucchiai da tavola al centro delle fette di capasanta.


TULUSLOTREK

ghiate alle liane. La stessa fantasia verde è sulla divisa di Ilona Scholl (foto a lato), premiata dal canto suo come “Berlin Hostess of the year 2017”, laureata in letteratura, musica e media alla Humboldt University mentre raggranellava mance in qualche pub, poi folgorata da Max (a lato) al punto da cambiare vita. La sua carta dei vini segue la cucina: c’è la Germania insieme al resto del mondo, ma il piatto deve sempre restare protagonista. E così spiega il nome sull’insegna: “Da un punto di vista stilistico abbiamo un debole per Toulouse-Lautrec, che non sarebbe mai uscito in cerca dei timidi giochi aromatici della cucina leggera di verdure, attualmente in auge; serviamo filetti, tagli nobili e gourmet con salse intense e siamo amici delle magie del burro. Si tratta di immersioni subacquee e salti di intensità, quindi lasciamo sempre a casa i contorni neutri, la cui ratio va tutt’al più ricondotta al bisogno di saziarsi di un certo tipo di clientela. In caso di necessità, meglio ordinare altri due piatti e stappare la prossima bottiglia!”. Oltre che rinomato artista della Belle Epoque, Toulouse-Lautrec è stato infatti un gourmet insaziabile (ma la grafia è volutamente scorretta per evitare sovrapposizioni con la cucina classica francese). “Dirty, pretty, flavourblending” è stata definita questa quarta via, alternativa alla tradizione come alla fusion e agli scimmiottamenti iperborei, che passando per ricorrenti suggestioni asiatiche infila la porta di Brandeburgo dell’identità e del piacere. Il menu cambia spesso: non esistono si-gnature, sinonimo di noia, piuttosto nuovi piatti sono sempre allo studio. “A mio parere oggi ci sono due forti tendenze nella nostra cucina gourmet”, commenta Strohe. “In primo luogo un approccio molto artigianale con radici classiche, in secondo luogo un nuovo regionali-

smo derivato dalla scuola scandinava. In entrambi gli stili grande importanza è conferita alla differenziazione degli elementi, compresi i più minuti. L’approccio è talvolta quasi intellettuale. Io cucino in modo diverso, più emotivo e personale. I miei piatti sono fondamentalmente di pancia. Quando riescono a spegnere l’interruttore nella testa degli ospiti, in modo che siano i loro sensi a prendere il sopravvento, sento di aver raggiunto il mio scopo. Si tratta quindi di ‘Napfgericht’, cioè leghe, misture di sapori da mangiare al cucchiaio e in fondina. Cucinare per me significa cercare di sviluppare nuove immagini di gusto: è da lì che parte la creazione. Poi procedo per tentativi finché non ho centrato la sensazione immaginata”.

Le materie prime arrivano in gran parte da fornitori regionali del Brandeburgo, senza preclusioni. Alle carenze del territorio supplisce la distribuzione specializzata. “Ci sono alcuni prodotti tipici tedeschi, come le verdure a radice e le patate. Ma per quanto riguarda l’immagine gustativa, il discorso si fa più complesso. Soprattutto nelle regioni meridionali della Germania esistono tipicità riconosciute, ma l’identità nazionale non è netta come in Italia. Credo che la nostra debolezza e la nostra forza stiano proprio in questa mancanza. Per molti decenni la cucina francese ha rappresentato lo standard vincolante ad alto livello, ma questo non vale più per noi giovani cuochi. Poiché nessuno nutre più aspettative

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GOURMETFOOD

preconfezionate, possiamo reinventare noi stessi la cucina tedesca. Ed è una libertà che mi piace”. Le tecniche seguono: “Uso quelle di cui ho bisogno per ottenere un determinato risultato, non il contrario. Questo significa che quando lavoro su una certa immagine di gusto, penso a come realizzarla e cerco quanto può essere d’aiuto. Senza dogmi. Utilizzo tecniche classiche come la tostatura, la brasatura, la cottura alla griglia e la stufatura, così come tecniche tornate ultimamente di moda, quali l’affumicatura, la fermentazione e la messa in conserva. Né mancano il sottovuoto e la cottura a bassa temperatura. È più raro che io faccia ricorso ai metodi della cucina molecolare, ma anche questo talvolta può accadere”. Banditi i signature, non è andata meglio alla carta. I degustazione sono due, uno dei quali vegetariano. È possibile estrapolarne un percorso a scelta, composto di 5, 6 o 7 corse, rispettivamente a 99, 109 e 119 euro, con formule di abbinamento composte di altrettanti calici a 47, 56 o 63 euro. Fra i piatti emblematici le capesante scozzesi, che arrivano in Germania vive, in un serbatoio di acqua salata. Strohe le serve con un dashi sempre a base di capesante (le barbe), purea di sedano rapa per l’effetto mari e monti, burro di camomilla per la dolcezza e uova di lompo a spingere la sapidità, in un gioco armonioso di complementi, più che di contrasti. Ma diverte anche la tartare di manzo dell’Aubrac, emulsionata classicamente con cerfoglio, scorza di lime, passata di pomodoro, tuorlo d’uovo, senape e olio d’oliva. Viene deposta alla base di un osso da midollo cavo e ricoperta con crema di midollo alla panna e noce moscata. A ripulire il palato c’è a fianco un brodo aromatizzato con salsa di soia e funghi fermentati, il bollito sfilacciato con aglio nero, miele e bacche di pepe thailandese. Ottimo

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ANATRA DI CHALLANS, OLIO & SUGO Pulire i petti d’anatra, metterli sottovuoto assieme a burro e ramoscelli di timo e cuocerli in un bagno d’acqua a 58°C per 25 minuti. Toglierli dal sacchetto, tamponarli e

friggerl in padella a fuoco moderato sul lato della pelle. Girarli e friggerli brevemente sul lato della carne. Asciugare il lato della pelle con un’asciugatrice ad aria calda.

Smaltare il petto d’anatra con sciroppo di barbabietola da zucchero. Cospargere con

una miscela di semi di coriandolo tostati, fiori di lavanda, scaglie di peperoncino e pepe di Szechuan.

Finitura del piatto: procurarsi olio di pistacchio, salsa di mirtilli e sugo al curry viola.

Mettere un cucchiaino d’olio di pistacchio al centro di un piatto. Aggiungere poi il sugo al curry e la salsa di mirtilli. Aggiungere il petto d’anatra e servire.

poi il cervo di Brandeburgo, rosolato in padella e poi grigliato, servito con crema di funghi shiitake fermentati, gel e scorza sottaceto di pompelmo, olio di arancia rossa, spezie e peperoncino habanero, grano saraceno soffiato, vegetali e menta al cioccolato, un piatto equilibrato e complesso, generoso e dinamico, nella cui filigrana si leggono i riferimenti classici sul tema. Ma c’è anche un po’ d’Italia: vedi il tiramisù ai funghi porcini del Brandeburgo, tostati, cotti con la panna, ridotti in purea e infine sifonati tiepidi su un gelato di mascarpone, più noci di macadamia tostate, un mix di sale, funghi porcini e cacao in polvere a rifinire. L’abbinamento è un ottimo Pedro Ximénez Gran Reserva Bodegas Toro Albalà 1982.

TULUS LOTREK

Fichtestraße 24, 10967 Berlin - Germania - Tel. +49 30 41956687 www.tuluslotrek.de



GOURMETFOOD

GIOIA DI VIVERE NEI PIATTI DI

TIM RAUE IL COLIBRÌ DI BERLINO di

Alessandra Meldolesi

Rudi-Dutschke-Strasse è una delle strade più elettriche di Kreuzberg, nel via vai di turisti con il kebab in mano che sfilano fra le guardie al Checkpoint Charlie, per poi tuffarsi in qualche aperitivo dentro mille localini hipster. Uno scenario inconsueto per l’eccellenza gastronomica, dove nel settembre 2010 Tim Raue e la partner in business Marie-Anne hanno aperto il loro ristorante, oggi unanimemente considerato il primo della capitale tedesca (se non della Germania) grazie a due stelle Michelin (nessuno ne vanta tre nei paraggi), all’ottimo ranking ai 50 Best e al doppio titolo di Chef of the Year, conferito da Gault & Millau nel 2007 e Der Feinschmecker nel 2011, senza dimenticare la recente consacrazione su Netflix. Sul logo un colibrì, simbolo di creatività, unicità, libertà: la cifra della cucina, sempre leggera e capricciosamente svolazzante.

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TIMRAUE

Il suo volo nel cielo di Wim Wenders, fra la corona dorata della Siegessäule e il pinnacolo vintage della Fernsehturm, era del resto iniziato proprio qui: a Kreuzberg, dove Raue è nato nel 1974 da una famiglia modesta. Ed era proseguito in Germania, dove si sono svolte integralmente formazione e carriera dello chef: prima gli studi e l’apprendistato di rito, poi le prime esperienze al ristorante Quadriga dell’hotel Brandenburger Hof, al Bamberger Reiter e allo Schloss Glienicke; la toque da chef al Rosenbaum e al Kaiserstuben, con il riconoscimento di “Newcomer of the Year” da parte sempre di Feinschmecker; l’arrivo all’E.T.A. Hoffmann del Riehmers Hofgarten Hotel, valevole del titolo di “Berliner Meisterkoch”, e al Restaurant 44 dello Swisshotel, premiato con la stella Michelin. Dopo l’Adlon e il Mâ, la scalata a chef patron presso il ristorante omonimo, stellato dal 2011, bistellato già un anno dopo, in futuro chissà. Ma il mal d’Asia è cronico dal 2003, quando Raue è diventato Global Culinary Advisor per Swisshotel e ha iniziato a esplorare il continente con regolarità, viaggiando, assaggiando, studiando con gli occhiali inforcati e la forchetta in mano (i cuochi della sua brigata restano principalmente europei, in maggioranza tedeschi o austriaci). Con lui Marie-Anne (foto a lato), direttrice e sommelier da un indirizzo all’altro (oggi supportata dal restaurant manager André Macionga) (foto a lato), protagonista di una gavetta parallela, tanto paziente quanto instancabile. Ma nel presente di Raue ci sono anche il ristorante Sra Bua del Kempinski Hotel Adlon di Berlino, con una proposta più informale sulla stessa linea della casa madre; tre brasserie Tim Raue a Berlino, Monaco e Costanza con Tertianum Premium Residences, brand di case di riposo deluxe; l’Hanami sulla nave da crociera Tui e Spices a Sylt, pittoresca

isola del Mare del Nord. Più varie ed eventuali in agenda, per esempio il ripescaggio del concept tedesco della Soupe Populaire, recentemente chiusa a Berlino. Spin-off che non allontanano Raue dall’amata Kreuzberg, di cui il locale conserva le atmosfere, in contrasto con una diversa ricercatezza: sui pavimenti in cemento gli arredi classici e sobri ricordano la vecchia Galleria Crone, che qui aveva sede; li impreziosiscono i tovagliati Kvadrat e le ceramiche Asa. Ma gli ambienti sono diversi: c’è la Krug Table, massiccia tavola in quercia e intarsi di metallo, con vista sulla cucina per piccoli gruppi e menu ispirati allo Champagne. Poi c’è la scala in noce che conduce al piano inferiore, dove un soffitto di 300 lampadine evoca il cielo lampeggiante di Hong Kong. Sotto di esso possono sedersi fino a 30 ospiti

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GOURMETFOOD

ANATRA alla pechinese

Per il petto d’anatra: 5 petti d’anatra, ml. 45 di sciroppo di maltosio, grasso per friggere, sale marino della Cornovaglia. Eliminare i tendini dai petti. Spazzolare la pelle con l’acqua calda in modo che si gonfi e diventi brillante. Scaldare il maltosio e coprirne i petti. Fare asciugare di fronte al ventilatore per 4 ore. Rosolare su entrambi i lati, poi cuocere in forno per 3 minuti a 180°C. Mantenere per 1 ora a 69°C. Friggere la pelle finché non diventa croccante su una piastra. Salare.

per piccoli eventi privati. È da qui che il colibrì intraprende la sua migrazione verso est, in chiave panasiatica: la cucina di Raue opera infatti una coalescenza di rigore sul prodotto giapponese, tessiture aromatiche thai e filosofia culinaria cinese. Senza alcuna tentazione fusion né contaminazioni alla Massimo Bottura, uno che in cucina usa il dashi, ma di Parmigiano. È dentro i confini di un solo continente che si staglia il ring della creatività, con qualche sporadica eccezione di natura squisitamente tecnica. Ogni piatto è pensato per massimizzare energia e joie de vivre, senza stressare il corpo, quindi i carboidrati, compresi pane, pasta e riso, gli zuccheri semplici e i latticini contenenti lattosio sono banditi. Non mancano i signature, depositati lungo la parabola ascendente. Per esempio scampi e wasabi alla maniera cantonese, piatto ispirato ai gamberi gustati 15 anni prima al Jade restaurant dell’hotel Fullerton di Singapore, un classico moderno firmato Sam Leong. “Il piatto era sorprendente: caldi crostacei croccanti, cotti al wok, con una salsa piccante cremosa e ricca, un mix di tecniche di cucina cinese e prodotti giapponesi. Su queste basi ho creato la mia versione, sostituendo i gamberi con scampi più dolci e succosi, spingendo il croccante con riso verde soffiato e il gusto con una vinaigrette thai speziata ma freschissima di mango e carota. Qualcosa di più complesso e personale”. Oppure il maialino da latte, dove fa capolino un po’ di Germania insieme alle consuete tecniche cinesi. Gli stinchi, croccanti fuori e succulenti dentro, sono trinciati e disossati in sala, per essere impiattati elegantemente con una crema di senape giapponese, giovane zenzero marinato e gelatina di dashi. Soprattutto la celeberrima anatra alla pechinese interpretazione TR, vera icona del ristorante, una preparazione straordinariamente lunga e complessa, dove la carne alla fine è impiattata in tre servizi: il petto con cialda ripiena di composta di mele e cipolle piccante; la mousse di fegato con porro, zenzero, cetriolo e pelle croccante; i cuori fritti con lingua e stomaco in brodo al melone.

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Per la salsa di zampe d’anatra: kg. 1 di zampe d’anatra leggermente arrostite in forno a 200°C, g. 400 di zampe d’anatra pulite e fritte, ml. 250 di sakè, g. 175 di salsa Lee Kum Kee Char Siu, g. 175 di salsa Lee Kum Kee per anatra alla pechinese, ml. 200 di salsa mushi, g. 200 di zucchero muscovado, ml. 200 di salsa di chili verde, ml. 15 di salsa di tabasco verde, g. 100 di carote mondate a cubetti, g. 100 di sedano a cubetti, g. 50 di cipolla mondata a cubetti, fecola di patate. Riunire in una pentola tutti gli ingredienti, tranne la fecola; portare a ebollizione e lasciare sobbollire per 1 ora. Passare al colino cinese e addensare con la fecola. Per la pelle croccante d’anatra: g. 375 di pelle d’anatra, ml. 500 di sakè, g. 40 di sale marino della Cornovaglia, l. 2 di acqua, g. 225 di farina di tapioca, g. 250 di tapioca soffiata, g. 300 di zucchero a velo, g. 100 di miscela cinque spezie, grasso per friggere. Riunire in una pentola la pelle, il sakè, il sale e l’acqua, portare a ebollizione. Fare sobbollire per 5 ore, unendo ml. 250 di acqua ogni ora. Mettere in un Thermomix la pelle, ml. 750 di brodo e la farina di tapioca, fare andare a velocità 10 per 5 minuti fino a ottenere un composto liscio. Regolare il Thermomix a 100°C e fare andare per altri 12 minuti a velocità 3. Filtrare e stendere su Silpat. Distribuire sopra la quinoa, poi essiccare per 45 minuti a 80°C. Tagliare a rettangoli da 1,5 x 2,5 centimetri. Miscelare le spezie con lo zucchero. Friggere brevemente i rettangoli di pelle di anatra nel grasso scaldato a 180°C, adagiare su carta assorbente e asciugare. Spolverizzare con la miscela e fare


caramellare sotto la salamandra. Conservare in luogo asciutto.

TIMRAUE

Per gli involtini di porro e mela: g. 55 di porro sminuzzato e saltato al wok con poco olio all’aglio, ml. 50 di salsa di mela, 10 fettine di porro tagliato per il lungo (cm. 6x7) e sbianchito. Mescolare il porro saltato con la salsa di mela. Distribuire sul lato lungo dei rettangoli di porro, poi arrotolare. Per il brodo e rigaglie di anatra: 5 cuori d’anatra mondati e tagliati in 4 parti, grasso per saltare, 10 lingue d’anatra, 10 ventrigli di anatra puliti, olio vegetale, ml. 300 di olio vegetale, sale marino della Cornovaglia, ml. 90 di salsa di prugne per anatra alla pechinese. Saltare i cuori brevemente nel wok. Mettere sottovuoto le lingue e cuocere per 3 ore a 82°C, poi eliminare a caldo la cartilagine. Condire i ventrigli col sale e cuocere per 3 ore nell’olio scaldato a 90°C. Marinare tutte le rigaglie nella salsa di prugne e tenere in caldo per 15 minuti a 69°C. Per la guarnizione della zuppa: g. 300 di melone invernale mondato, ml. 100 di brodo di anatra, 5 funghi di bambù, g. 200 di sedano sminuzzato, l. 1 di brodo d’anatra. Mettere sottovuoto il melone con il brodo e cuocere nel forno a vapore per 20 minuti a 82°C. Fare raffreddare, poi cubettare finemente. Ammollare i funghi per 1 ora in acqua tiepida, poi scolare e affettare. Mescolare gli elementi della guarnizione e suddividerli nelle ciotole. Coprire con il brodo caldo. Per la mousse di fegato di anatra: g. 350 di fegato di anatra, g. 150 di panna intera, ml. 60 di salsa di prugne per anatra alla pechinese, 5 fogli di gelatina ammollata, sale marino della Cornovaglia, g. 170 di panna montata. Scaldare in un tegame il fegato con la panna e la salsa finché non si scioglie. Scaldare la gelatina per farla sciogliere e incorporarla. Salare, togliere dal fuoco e fare raffreddare a temperatura ambiente. Incorporare la panna montata e suddividere in stampini a semisfera del diametro di 5 centimetri. Fare rassodare al fresco per 3 ore. Guarnizione per ogni persona: 3 punti di purè di porro e zenzero, 3 punti di salsa di prugne per anatra alla pechinese, 3 palline di cetriolo marinato in aceto di riso, 3 rametti di aneto.

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GOURMETFOOD

L’INTERVISTA La tua carriera è stata umile e graduale, del tutto peculiare a questi livelli. Il risultato potrebbe essere l’assenza di modelli, il colpo d’ala del colibrì. Ho tentato di lavorare per 2 o 3 celebrity chef, in modo da farmi le ossa, ma sfortunatamente (o forse no) ho scalato l’organigramma così in fretta, che ad appena 23 anni, in grande anticipo sul cronoprogramma, ero già head chef. Da quel momento in avanti ho percorso la mia strada da solo, lentamente ma con determinazione. E questo forse ha propiziato una certa libertà. Un’altra peculiarità che salta agli occhi, considerata la tua cucina attuale, è che hai sempre lavorato in Germania. Cosa rimane di locale nei tuoi piatti? Usi e sei ispirato dai prodotti tedeschi? Diversi cuochi della tua generazione ne hanno fatto una bandiera, teorizzando una Neue Deutsche Küche che non sembra sfiorarti. Ho imparato che si sviscera meglio una cucina, mangiando un intero piatto in sala da pranzo che pelando cipolle in qualche angolo buio. In passato ho creato un concept di ristorante tedesco, dove usiamo e siamo ispirati da prodotti tedeschi. Ma presso il ristorante Tim Raue il focus sono gli ingredienti asiatici. La nostra non vuole essere una cucina fusion o contaminata, come quella che si pratica in tanti altri ristoranti blasonati.

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TIMRAUE

La cucina asiatica è estremamente complessa e varia. Perché ti attrae così tanto, in relazione alla tua identità? Tutto è nato dai profumi della cucina thai e cinese e dall’ossessione giapponese per il migliore prodotto. Descrivi infatti il tuo stile come “un blend di perfezione del prodotto giapponese, aromaticità thai e filosofia culinaria cinese”. Potresti spiegarlo meglio, facendo l’esempio di un tuo piatto? Certo. Prendiamo il Lucioperca al vapore con salsa di soia Kamebishi, porro e zenzero. In origine si trattava di un piatto cantonese, ma la salsa è preparata con una soia giapponese invecchiata per 10 anni nel legno, il pesce è tagliato e cotto al vapore alla francese, i contorni sono cucinati a modo mio con marmellata di limone, giovane zenzero marinato e peperoncino verde thai quali spezie per insaporire. Quindi le tecniche di cucina sono eclettiche. Sì, adoperiamo perlopiù procedure cantonesi e francesi, ma nel corso di un decennio sono arrivato a creare un modo unico di fare. Qualcosa di mio. Come sposi la tua cucina al vino ed eventualmente ad altre bevande? Cerchiamo semplicemente il match fra profumi. Di solito abbiniamo vini forti e potenti a piatti che hanno la stessa intensità, come Bordeaux, bottiglie californiane o del Rodano. Mentre per i piatti leggeri ed eleganti privilegiamo sakè, Borgogna e rinfrescanti vini bianchi tedeschi. RESTAURANT TIM RAUE

Rudi-Dutschke-Straße 26, Berlin, Germania Tel. +49 30 25937930 www.tim-raue.com

SCAMPI AL WASABI Per gli scampi: 10 code di scampi, ml. 100 di farina da tempura miscelata ad acqua, grasso per friggere. Eliminare il budellino dalle code, passare nella pastella e cuocere per 4 minuti nel grasso scaldato a 185°C. Per il riso verde soffiato: g. 30 di riso soffiato verde, grasso per friggere, sale marino della Cornovaglia.

Friggere per qualche secondo il riso soffiato nel grasso scaldato a 185°C. Fare asciugare su carta assorbente e salare immediatamente. Per il gel di mango: ml. 150 ml di purea di mango Nam Dok Mai, ml. 150 di purea di frutto della passione, g. 3 di agaragar. Portare a ebollizione le due puree, unire l’agar-agar e fare sobbollire per 3 minuti. Riporre nel Thermomix e lasciare raffreddare, poi ridurre in gel liscio. Versare nel sifone. Per la vinaigrette: ml. 200 di salsa mushi filtrata, ml. 150 di Rose’s Lime Cordial, ml.

150 di aceto di riso, ml. 50 di succo di lime, gomma Xantana, g. 150 di carote mondate a cubetti, g. 150 di mango acerbo tailandese mondato a

cubetti, g. 70 di zenzero mondato a cubetti, g. 15 di coriandolo sminuzzato. Miscelare i liquidi e addensare leggermente con la Xantana. Incorporare gli altri ingredienti nella vinaigrette. Guarnizione per ogni persona: 4 ghoa cress, ml. 30 di maionese al wasabi.

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Giovani talenti

ENRICO BRANCATO LA SUA SOLARE PASTICCERIA NEL CUORE DI PARMA di

Maria Chiara Zucchi foto di Niko Boi

La Parma che fu è immortalata nelle immagini in bianco e nero che decorano il locale, ma è ancor più tangibile nelle pareti dove i vecchi mattoni descrivono un arco chiuso, un pilastro storico, una fessurazione anomala, l’errore di un pertugio nel tempo scomparso. Il ristorante è ricavato infatti dalle mura di un palazzo nobiliare tra i più belli del centro storico, a pochi passi dal Duomo e dal Battistero. La Forchetta da cui la struttura mutua il nome, affonda i suoi rebbi in una cucina di stampo neotradizionale con frequenti digressioni sul pesce, gestita abilmente dallo chef patron siciliano Angelo Cammarata e ad una brigata di cinque ele-

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ENRICOBRANCATO

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Giovani talenti

SFORMATINO DI POLENTA al tartufo nero di Fragno e salsa al gorgonzola INGREDIENTI

sta, e riportare ad ebollizione. Cuocere la polenta per circa 35 minuti

g. 90 di burro, dl. 3 di latte, dl. 4 di acqua, g. 60 di parmigiano reggia-

A cottura ultimata, la polenta dovrà risultare morbida ma non molle.

Per lo sformatino: g. 180 di farina di mais integrale macinata a pietra, no, buccia di tre tartufi.

Per la salsa al gorgonzola: g. 250 di gorgonzola dolce, ml. 90 di latte, ml. 60 di panna, g. 30 di fecola di patate, g. 30 di burro. PROCEDIMENTO

Per il tortino: imburrare 6 stampini di alluminio. In un tegame portare

ad ebollizione il latte insieme all’acqua; salare e versare a pioggia la farina e la buccia del tartufo tritata finemente, mescolando con una fru-

a fuoco dolce, mescolando quasi continuamente.

Togliere dal fuoco e incorporare il parmigiano e il burro, riempire gli stampini. Far riposare in frigo.

Riscaldare in forno prima di servire.

Per la salsa al gorgonzola: in un tegame fare sciogliere il burro a

fuoco dolce e incorporare la fecola setacciata, il latte e la panna;

mescolare fino a quando il composto non risulti ben amalgamato. Tagliare a pezzetti il gorgonzola aggiungendolo alla preparazione con l’aiuto di un minipimer. Glassare il tortino.

menti; a sparigliare le carte di un menu rassicurante fatto di tortelli d’erbetta, di vitello al forno con patate, di tagliolini all’astice, di cruditees di pesce, arrivano a sorpresa i dolci creativi di Enrico Brancato, giovane anche lui siciliano con la pasticceria nel sangue. Il suo percorso professionale lo ha visto al fianco di Alberico Penati e di Christophe Felder a Parigi, e poi, rientrato sulla sua isola, alla Locanda Don Serafino. Alla sua raffinata professionalità Surgital ha affidato un’interpretazione ardita e pienamente riuscita: quella della pasta Divine Creazioni declinata in versione dolce. LA FORCHETTA

Borgo S. Biagio, 6D - 43121 Parma - Tel. 0521 208812 www.laforchettaparma.it

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ENRICOBRANCATO

ENRICO BRANCATO la pasta si fa... dolce MACARON DI VIOLETTE

crema chantilly alla violetta di Parma, gel ai frutti di bosco, Violetta crispy INGREDIENTI per 4 persone

12 Violette Divine Creazioni Surgital Per la crema chantilly alla violetta di Parma

l. 1 di panna, g. 300 di cioccolato bianco 32%, g. 100 di mascarpone, aroma di violetta bio q.b.

Bollire la panna e versarla sul cioccolato e mascarpone, creando un’emulsione. Coprire con la pellicola e lasciare riposare 24 ore in frigorifero. Al momento dell’utilizzo montarla in planetaria. Per il gel ai frutti di bosco

g. 500 di frutti di bosco, g. 20 di aceto balsamico, g. 60 di acqua, g. 100 di zucchero, g. 50 di miele, g. 5 di Xantana

Unire in una casseruola i frutti di bosco, l’aceto balsamico, lo zucchero, il miele e l’acqua; portare ad ebollizione per circa 1 minuto, frullare e setacciare. Appena raffreddato il composto, aggiungere lo Xantana con un minipimer.

Cuocere le Violette in acqua bollente salata, scolarla e farcirla come nella foto, aggiungendo il gel ai frutti di bosco sul macaron stesso o sul piatto. Questo macaron può essere farcito anche con una ganache salata.

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Giovani talenti

RAVIOLOTTI CON POLENTA E MONTASIO D.O.P. carpaccio di lamponi, ganache montana ai frutti di bosco, aria alle rose INGREDIENTI per 4 persone

12 Raviolotti con polenta e Montasio D.o.p. Divine Creazioni Surgital Per il carpaccio di lamponi g. 250 di lamponi freschi

Stendere i lamponi tra due fogli di carta da forno con un mattarello e congelare. Per la ganache montata ai frutti rossi

g. 200 di cioccolato bianco, g. 400 di panna, g. 70 di pasta al 90% frutti di bosco. Fondere il cioccolato e unire a 100 grammi di panna precedentemente riscaldata e aggiungere la pasta di frutta.

Dopo aver fatto raffreddare il composto, aggiungere 300 grammi di panna liquida e farlo riposare per una notte.

Montare in planetaria e usare beccuccio Saint HonorÊ per stenderlo. Per l’aria alle rose

g. 250 di acqua, g. 50 di acqua di rose bio, g. 20 di zucchero semolato, g. 2 di lecitina di soia. Unire tutti gli ingredienti e schiumare con minipimer.

Cuocere i Raviolotti in acqua bollente salata, scolarli e disporli sul carpaccio di lamponi, decorandoli con aria alle rore. Stendere di fianco la ganache montata ai frutti rossi e consumare il piatto unendo tutti gli elementi.

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Giovani talenti per

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Giovani talenti

BAULETTI® CON RICOTTA DI PECORA E PISTACCHI DI SICILIA

gel al Marsala “Baglio Florio” aromatizzato all’arancia e pepe di Sichuan, minisfere al passion fruit, zenzero candito

INGREDIENTI per 4 persone

16 Bauletti® con ricotta di pecora e pistacchi di Sicilia Divine Creazioni Surgital Per il gel al Marsala g. 400 di Marsala zeste di 2 arance

g. 90 di zucchero g. 100 di acqua

pepe di Sichuan q.b.

g. 20 di fecola di patate g. 5 di Xantana

Mettere in infusione il Marsala con le zesta delle arance e il pepe di Sichuan tutto a freddo per 24 ore.

Filtrare ed aggiungere l’acqua, lo zucchero e la fecola di patate, quindi cuocere. Appena raffreddato, con un minipimer mixare aggiungendo lo Xantana. Per le minisfere al passion fruit

g. 600 di cioccolato Inspiration Passion Valrhona g. 450 di cioccolato bianco 32%

g. 100 di succo di frutto della passione 4 tuorli

g. 100 di zucchero

g. 10 di gelatina in fogli g. 700 di panna g. 260 di latte

Sciogliere i due cioccolati; nel frattempo preparare la crema inglese portando ad 82°C i tuorli con lo zucchero, il latte, 300 grammi di panna e la vaniglia.

Far scendere la temperatura del composto a 40°C e aggiungere la gelatina. Unire la crema inglese al cioccolato fuso e il restante della panna liquida e riempire gli stampi a sfera. Abbatterli.

Cuocere i Bauletti® in acqua bollente salata, scolarli, disporli sul gel al Marsala,

aggiungere le minisfere e alcuni croccantini di noci. Aggiungere lo zenzero candito.

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RAVIOLOTTI AL PECORINO DI PIENZA E PINOLI consommé di zafferano, vaniglia di Tahiti e agrumi, gel al mango e sfera di creme onctuese al cioccolato bianco

INGREDIENTI per 4 persone

16 Panciotti al pecorino di Pienza e pinoli

stenderlo su una teglia, raffreddarlo e copparlo.

Divine Creazioni Surgital

Per il gel al mango

Per il consommé

del frutto della passione, g. 5 di Xantana.

g. 500 di acqua, g. 0,25 di zafferano,

g. 500 di polpa di mango, g. 70 di succo

1 bacca di vaniglia, zeste di limone e

Unire a freddo tutti gli ingredienti insieme

gellan.

Far riposare in frigo.

arancia, g. 90 di zucchero, g. 10 di goma

allo Xantana mixando con un minipimer.

Sciogliere il cioccolato e intanto preparare la crema inglese portando ad 82°C i tuorli

con lo zucchero, il latte, 300 grammi di

panna e la vaniglia. Far scendere la tempe-

ratura del composto a 40°C e aggiungere la gelatina.

Unire la crema inglese al cioccolato fuso e il restante della panna liquida (700 gram-

mi). Riempire gli stampi a sfera e abbatterli.

Unire tutti gli ingredienti tranne il goma

Per la sfera di creme onctuese al ciocco-

Cuocere i Raviolotti in acqua bollente sa-

lizione per 2 minuti circa. Lasciare in infu-

kg. 1 di cioccolato bianco 32%, 4 tuorli, g.

doli con il consommé rappreso e collocan-

gellan in una casseruola e portare ad ebolsione per almeno 12 ore.

Passare il composto al chinoise, aggiun-

gere il goma gellan a portarlo a 80°C;

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lato bianco e vaniglia

100 di zucchero, g. 10 di gelatina in fogli,

1 bacca di vaniglia, l. 1 di panna, g. 260 di latte.

lata, scolarli, disporli su un piatto decorando la sfera di creme onctuese al centro.

Unire il gel al mango, una puntinatura di gel al basilico e una pioggia di pistacchi.


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QUADRELLI DI CACAO CON SCORZA D’ARANCIA spuma di ricotta, polvere di cannolo, mandarino candito, pistacchio, ciliegie, meringhette, grue di cacao e gel al cachi e vaniglia di Tahiti

INGREDIENTI per 4 persone

Per il gel ai cachi

Cuocere i Quadrelli in acqua bollente sa-

con scorza d’arancia

g. 5 di Xantana.

decorazione di gel ai cachi e pistacchi.

12 Quadrelli di cacao

Divine Creazioni Surgital Per la spuma di ricotta

g. 600 di ricotta di pecora, g. 200 di zucchero semolato, g. 150 di panna, g. 100 di latte intero.

4 cachi maturi, 1 bacca di vaniglia di Tahiti,

Frullare i cachi e la vaniglia e passare

tutto a chinoise; aggiungere lo Xantana mixando con un minipimer. Far riposare in frigo.

lata, scolarli e disposrli sul piatto con una

Posizionare accanto ai Quadrelli la spuma

di ricotta decorata con meringhe e polvere di cannolo.

Aggiungere a piacere una dadolata di cachi e pistacchi tritati

Mixare con un minipimer tutti gli ingredienti e riempire il sifone con due cariche di gas.

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EVENTI

CONGRESSO NAZIONALE

ITALCUOCHI

PROFESSIONISTI DELLA RISTORAZIONE A CONFRONTO di

Filippo Fabbri Pasquale Spinelli

foto di

Sono arrivati da tutta Italia gli chef dell’Accademia Nazionale ItalCuochi all’Hotel Corallo di Riccione nello scorso ottobre insieme ai professionisti della ristorazione, per due giorni a confronto su progetti futuri e sulle problematiche della cucina di oggi. Italcuochi è uno dei sodalizi professionali più “antichi” nel nostro Paese: nato nel 1995, presieduto per tanti anni da uno dei maestri della cucina italiana, Gianfranco Vissani, l’Accademia è composta da chef qualificati, affermati operatori della ristorazione, pasticceri, sommelier, insomma il meglio del food&wine del made in Italy.

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ACCADEMIANAZIONALEITALCUOCHI

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EVENTI

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Obiettivo: promuovere l’eccellenza della cucina italiana attraverso manifestazioni nazionali e internazionali, nonché svolgere attività di organizzazione di eventi, consulenza e servizio enogastronomico in tutte le regioni italiane. ItalCuochi dunque, attraverso i suoi direttivi regionali, intende rafforzare la propria immagine e il compito che si è preposta e lo ha fatto appunto insieme ad una serie di aziende che da sempre costituiscono uno dei punti di riferimento e di forza dell’Accademia. A cominciare dalla pagina precedente, Greci Spa con il piatto realizzato per la cena di gala, ossia insalata di mare con macedonia di verdure ed erbe aromatiche realizzata dagli chef Nicola Bindini e Cristian Baiocchi; S.T.E. Live Seafood con i suoi king crab in catalana (foto 1 e 2) cucinati dallo chef Mirco Del Vecchio; Surgital Spa con Scrigni con burrata di Puglia Divine Creazioni, zucca candita e maionese

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ACCADEMIANAZIONALEITALCUOCHI

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alle acciughe dello chef Fabio Lorenzoni (foto 3-4-5); Spirito Contadino e la sua purea di fave bianche, cicoriella selvatica di campo con cubatura di tonno rosso in crosta d’avena con pistacchi e uova di pesce dello chef Stefano Faccini (foto 6-7-8); i registratori di cassa Labware by Metox (foto 9); Galvanina Spa per le bibite bio e l’acqua consumate nella rassegna (foto 10); Bobo Recharge per la ricarica dei cellulari al tavolo dei ristoranti (foto 11).

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EVENTI 14

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Presenti all’evento anche Arte del Libro con le sue pergamene e i pellami pregiati per la realizzazione di carte menu e libri delle firme (foto 12); gli ottimi prodotti di Olio Venturi (foto 13); le famose Pentole Agnelli (foto 14); la presentazione in anteprima nazionale di Sale Ideale, sale liquido e solido con il 75% in meno di sodio (foto 15-16), con il cioccolato di Modica prodotto dallo chef ItalCuochi Maurizio Urso proprio utilizzando Sale Ideale e zucchero nel concaggio del cacao (foto 17); per finire, Partesa (foto 18) e Luretta (foto 19), ciascuno con le proprie bollicine.


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Buone Nuove

le novità del mese

FRUTTA E VERDURA... BALSAMICA

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Si arricchisce anche con le declinazioni ciliegia (di Vignola), pera, pomodoro, sedano la gamma delle composte che l’Azienda Villa Bisini Gambetti propone per i più suggestivvi abbinamenti con formaggi, gelato, pesce e carni.

www.bg-aceto.com

RIEMPI IL TUO NATALE DI SORRISI E DI... SOLIDARIETÀ!

BN

Natale più dolce con il panettone solidale che nella speciale latta racchiude la bontà del tradizionale dolce natalizio insieme al quella del prezioso gesto di solidarietà. Dottor Sorriso ONLUS nasce nel 1995 con la missione di rasserenare la degenza dei pazienti più piccoli in ospedale attraverso la clownterapia. Il panettone in formato da 750 grammi con donazione minima di 15 euro.

info@dottorsorriso.it Tel. 02 93796488 / 328 7939735, dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 18

SPAZIALE PER DAVVERO

BN

Il panettone “Spaziale” Vincitore del Tenzone del Panettone 2017, la più importante competizione italiana dedicata ai maestri del dolce natalizio per eccellenza, non deve il nome all’estasi gustativa assicurata da una farina integrale con superbe caratteristiche e un lievito madre unico, abbinati con l’eccezionale uva Zibibbo cilena e i particolari canditi fatti con arancio, cedro e albicocca, ma si chiama così perché un giorno, un Maestro con la M maiuscola assaggiandolo esclamò “Ma è Spaziale!”. Poi Michelangelo Antonioni lo assaggiò, regalatogli da un amico comune e al telefono disse “ma lei lo sa che fa un panettone davvero Spaziale? … dd è così che non può chiamarsi diversamente, grazie alla glassa con mandorle intere e granella di zucchero che abbraccia un impasto color giallo dorato antico corposo e compatto, punteggiato da uvetta e canditi, con alveoli molto allungati, spinti da una lievitazione naturale fatta a regola d’arte. A.M.

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PASTA BIOLOGICA E SENZA GLUTINE

BN

Dal sorgo e dal mais nasce una linea di pasta salutare e nutriente, naturalmente senza glutine, altamente digeribile e con un elevato contenuto di antiossidanti. La pasta Nutracentis con curcuma e pepe ha proprietà antinfiammatorie e antidolorifiche, quella con barbabietola apporta ferro (il sorgo ne contiene già il 55% del fabbisogno quotidiano) ed è fonte di vitamina B1 e B3.

www.nutracentis.com


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ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”

L’ETEROGENESI DEI VINI

CONSEGUENZE NON INTENZIONALI DI UNA POLVEROSA COMUNICAZIONE DI SETTORE L’eterogenesi dei fini è un principio formulato da Wundt - psicologo e filosofo tedesco - secondo il quale le azioni umane possono produrre a scopi diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione; in particolare, ciò avverrebbe per l’insieme delle conseguenze e degli effetti successivi dell’agire, che in qualche modo modificherebbe gli intenti originari, o farebbe nascere nuove motivazioni, appunto di carattere non intenzionale. Ovvero sintetizzando conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali. Nel mondo del vino questo capita sovente. Tale principio, spesso, genera problemi di comunicazione non indifferenti nel nostro settore. La comunicazione all’interno dello spazio vino in Italia è ancora da codificare.

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Ci affidiamo a chi ci piace di più, a chi in fondo è più simpatico di altri e, a volte, nostro amico o conoscente; un opinion leader, un degustatore, una guida, un movimento, un’associazione. Ciò a sua volta genera un processo contaminato dal passaparola che, come spesso accade, è travisato, storpiato e replicato in maniera errata. Ancora oggi la trasmissione orale è il principale sistema di comunicazione di questo settore. È un sistema di trasmissione privilegiato, anche perché in epoche remote era il mezzo di comunicazione più applicato e diffuso. Si addice al mondo del vino perché la gestualità, le tecniche e i comportamenti sono perfetti per questa trasmissione. Questo non è un mondo costruito solo sull’intuizione e l’applicabilità da parte dei


ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

professionisti, senza dubbio fondamentali a chi si avvicina al vino per la prima volta, ma è necessario un completamento. Può accadere che questo metodo possa essere considerato non del tutto completo perché, essendo il vino soggettivo, è per lo più soggetto a una costante rielaborazione del concetto e del pensiero. Da qui un’errata interpretazione del pensiero che porta ad abbracciare il principio formulato da Wundt. Dove la comunicazione manca in questo settore? Dove peccano sostanzialmente i grandi comunicatori del nostro tempo? Impossibile decifrare l’errore, se di errore si parla, ma in questo momento tutto è troppo frastagliato e arbitrario. Troppi stili di pensiero e troppe Parrocchie. Non esistono correnti ben precise e delineate. Spesso ci affidiamo più che ai contenuti, alle persone, soprattutto a quelle che sono più vicine al nostro pensiero e che più ci stimolano dandoci sicurezza quando abbiamo un bicchiere di vino in mano. Servirebbe un nuovo linguaggio comune, un linguaggio che avesse per tutti lo stesso fondamento, la stessa pietra miliare. La parola d’ordine oggi è Pop, ovvero “popolare”, un termine coniato per indicare processi musicali in passato che accoglievano nuove melodie, musiche per le giovani correnti d’ascolto. Oggi si utilizza il termine Pop in qualsiasi settore e sta a indicare una cultura di massa, ossia una cultura popolare. Il vino non è Pop, il vino “è” del popolo perché nasce come un

alimento e sostentamento per le fatiche dei campi, ma questo è solo un personale punto di vista. “Allentiamo la presa tecnica quando parliamo di vino e diamo a tutti la possibilità di capire cosa stiamo raccontando”: questo è il messaggio che mi sta rimbalzando un po’ da tutti i comunicatori del vino. Credo possa essere più utile manipolare aspetti tecnici del vino rendendoli maggiormente adatti alla comprensione di questo prodotto, traducendoli in un nuovo linguaggio che possa far comprendere la parte tecnica con estrema facilità. La parte tecnica è fondamentale per comprendere il vino: non va trascurata. Siamo passati dai profumi del vino alle acidità, alle volatili, alle riduzioni, alla solforosa e chi più ne ha più ne metta. Ci lamentiamo del linguaggio arcaico della vecchia sommellerie? Lo storytelling aziendale non è più sufficiente? Non rimane altro che la semplificazione della parte tecnica che corrisponde alla verità più assoluta di un vino. Non bisogna spaventare l’interlocutore, ma è necessario omologare i contenuti in un linguaggio condiviso non più tramandato oralmente, bensì scritto di comune accordo, attirando l’attenzione e la curiosità verso un nuovo verbo. Diffusione e semplicità sono i due pilastri della comunicazione del vino. Facciamo sì che il principio dell’eterogenesi dei fini possa, nel suo concetto principale, non essere applicato al vino. Conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali.


di

Mario Federzoni

VINARIA

LO CHAMPAGNE E LE DONNE

LE MOGLI E LE VEDOVE CHE NE DETERMINARONO IL SUCCESSO Lo Champagne era l’unico vino che le donne potevano condividere con gli uomini, ed è forse per questo che oggi, tre secoli dopo l’esplosione delle prime bollicine, le donne continuano a decretarne il successo ; lo Champagne è, ancor oggi, il loro vino preferito, quello che le mette di buon umore e stravolge i loro sensi. Ogni anno si vendono più di 330 milioni di bottiglie, di cui quasi il 65% è acquistato da donne. Fin dal XVIII sec., le Signore partecipano alla produzione di questo vino che, con il loro aiuto, si trasforma in una sinfonia di aromi e sapori, infatti molto del suo successo lo deve proprio alle donne che, da sempre, hanno per prime apprezzato la finezza delle bollicine, hanno dato il loro seno (la leggenda vuole sia stata Madame Pompadour) per fissare la forma del calice perfetto, sono anche intervenute direttamente nella produzione, soprattutto... le vedove! Barbara Nicoletta Ponsardin nel 1799 sposa Francois Clicquot, proprietario di vigneti e banchiere. Ma nel 1805 Madame è già vedova e, nonostante le varie sollecitazioni esterne, è coraggiosa e non vende l’azienda; non solo, ma riesce anche ad incrementarne gli affari, superando con coraggio anche i saccheggi seguiti alla disfatta di Waterloo. Quando le truppe alleate vittoriose contro Napoleone fanno razzia nelle sue cantine, ella imperturbabile

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CHAMPAGNEEDONNE

dichiara: “Lasciate pure che bevano, capiranno quanto è buono e mi pagheranno più care le prossime bottiglie!” E’ stata la prima ad inventare un vino rosè, mischiando vino bianco a vino rosso, la prima a creare uno Champagne millesimato, la prima a provare a spedire bottiglie di Champagne a San Pietroburgo. Di 10.000 bottiglie ne rimarranno solo la metà (le altre si rompono o vedono saltare i tappi), ma il resto arriverà a destinazione alla Corte dello Zar, in quel momento la più importante d’Europa. Il successo del vino di madame fu eclatante, lo Champagne entrò nei menu ufficiali e da quel momento in poi si affermò anche in tutti le altre corti d’Europa. La Grande Dame (così chiamata perchè divenuta assai corpulenta e sempre vestita di nero), dirigerà l’Azienda fino all’età di 88 anni (1866). Ma un’altra vedova intanto divenne ancora più celebre: Louise Mellin sposò nel 1836 Louis Pommery, proprietario di una piccola azienda vinicola di champenoise. Qualche anno dopo, anche lei rimasta vedova e, fino ad allora, lontana dagli affari, decise di dedicare la propria vita all’Azienda, rivelando subito un fiuto formidabile. Ella, in particolare, avvertì una nuova esigenza che si andava sempre più manifestando: lo Champagne era vino che alle Corti europee si desiderava bere sempre di più a tutto pasto, ma il gusto dolce di quei tempi mal si abbinava alle pietanze salate. Ciò avveniva in parte perché la tecnologia del tempo non permetteva un compiuto controllo della fermentazione alcolica, in parte perché il gusto dei consumatori tendeva ad una maggiore morbidezza, rispetto all’aggressività del gusto secco. Ma andiamo con ordine: i nonni (o anche i bisnonni) dei ‘viveurs’ parigini della fine ottocento, nelle notti trascor-

se al Moulin Rouge, certamente applaudivano il nuovo ballo dell’epoca, il Can Can, brindando con Champagne dolce, infatti a quel tempo era in voga il metodo di aggiungere molto altro zucchero alle bottiglie, dopo l’espulsione dei sedimenti della seconda fermentazione. Furono i commercianti di vino inglesi ad iniziare a richiedere alle case produttrici di Champagne un vino più secco, che potesse essere bevuto a pasto ed in diverse altre occasioni. La prima casa vinicola a spedire in Inghilterra una partita di Champagne secco fu la Perier-Jouet, che nel 1848 inviò a Londra un piccolo quantitativo di tale vino, che però non ebbe immediato successo, tanto che la Maison ne dismise la produzione e proseguì a fornire Champagne dolce. Fu dunque M.me Melin ved. Pomery, nel 1874, a lanciare un nuovo Champagne dal gusto dry (secco), che in breve tempo venne chiamato “brut”, in quanto ricordava lo “stato bruto” dei vini giacenti in cantina prima di essere fissati dal liqueur d’expedition. Ella iniziò a proporre tale gusto prima alla Francia, poi ai principali Paesi importatori di Champagne (Inghilterra e Stati Uniti) avvalendosi di una mossa di marketing straordinaria: chiamò il suo Champagne dal ‘Gout Americain’, richiamando così alla memoria il sogno americano in voga a quei tempi. Il successo fu improvviso e definitivo, tanto enorme che, per alloggiare la quantità crescente di bottiglie da immagazzinare, la Vedova perforò la collina di Reims creando diciotto chilometri di cantine dalle bellissime strutture in stile gotico, sopra le quali fece approntare un magnifico parco: da questa sua nuova e grande residenza non si dovevano vedere che alberi, solo in un tratto il bosco si apriva, in un piccolo varco, per inquadrare la Cattedrale di Reims. Da allora il gusto dello Champagne si diresse verso il secco e tutti i produttori

si adeguarono via via a tale novità: oggi infatti trovare in commercio Champagne dolce è assai raro. Nel 1837 viene fondata da Henry Marc De Venoge la omonima Maison; al decesso del nipote Gaetan De Venoge nel 1898 subentra nella conduzione aziendale la sua vedova Marie Papelart, coadiuvata dal genero, il Marchese Adrien De Mun. Quest’ultimo, uomo di grande fascino e di nobile retaggio, lancia il marchio De Venoge nell’alta società Parigina ed annovera tra i clienti fissi Sarah Bernhardt, la Contessa De Sègur, la Principessa di Ligne ecc. L’innovativa tradizione aziendale di apporre sulle bottiglie etichette colorate, venne continuata ed arricchita dal un gusto tipicamente femminile di Marie; Ella fa nascere così, anche in questo caso con primato assoluto, in abbinamento ai fantasiosi disegni delle etichette, i nomi delle varie cuvèe, alcune delle quali sono ancor oggi famose. La Maison De Venoge, grazie al lavoro di Marie e di Adrien, diventa una delle più esclusive e ricercate marche, facendo parte di quel ristrettissimo numero di Negociant che potevano vantarsi di vendere oltre un milione di bottiglie all’anno. Anche “Lili” Bollinger, vedova di Jaques, regge l’azienda dal 1941 al ‘71; di lei si narra che durante l’occupazione nazista, rivolgendosi ai Tedeschi che requisivano le sue bottiglie, disse: “Se bevete tutto ora, con cosa festeggerete poi la vittoria?”... e ancora alla domanda: “Ma quando madame, secondo lei, si dovrebbe bere lo Champagne?” Rispondeva: “Io lo bevo quando sono contenta, o quando sono triste ; talvolta quando mi sento sola... quando ho compagnia lo considero obbligatorio. Lo sorseggio quando non ho fame e lo bevo quando ne ho... altrimenti non lo tocco, a meno che non abbia sete!”

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VINARIA

SPUMANTE

GARDA DOC di

Gianluca Ricci

L’acqua cristallina del lago evidentemente non era più un testimonial sufficiente a promuovere la bellezza e l’opulenza del Garda, e nemmeno il vino che si produce sulle pendici dei colli che gli fanno da corona: la sfida oggi si chiama infatti spumante, una scommessa da 20 milioni di bottiglie, sottoscritta dai produttori delle dieci denominazioni che si sono riunite nell’ambizioso progetto.

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SPUMANTEGARDADOC

Nuove bollicine italiane sono pronte ad affrontare le sfide del mercato e ad affiancare l’inarrivabile Prosecco nella conquista delle tavole di tutto il mondo. L’impresa è di quelle davvero ardue, ma proprio per questo sicuramente affascinante. Se è vero infatti che lo spumante trevigiano può contare su un brand ampiamente consolidato per qualità e notorietà, altrettanto vero è che il lago di Garda è una delle destinazioni turistiche più gettonate del nostro Paese, capace di attirare sulle sue sponde almeno 25 milioni di visitatori ogni anno, un patrimonio umano sul quale i produttori di vino di quelle parti hanno deciso di investire. “Sarebbe sufficiente che ogni turista in visita sul lago acquistasse almeno una bottiglia del nostro spumante – ha dichiarato fra il serio e il faceto Luciano Piona, presidente del Consorzio Garda Doc – e avremmo risolto in un batter d’occhio tutti i nostri problemi”. Ma non è così facile: non si può dimenticare infatti che negli ultimi anni non tutti i territori a vocazione vitivinicola che hanno provato il rilancio buttandosi nella spumantizzazione sono riusciti nel loro intento. Che ci sia una sorta di inflazione di bollicine

è noto ormai da tempo: in una situazione del genere è difficile emergere con prodotti nuovi, anche se le strategie di marketing puntano ad abbinamenti dal sicuro fascino turistico. Ma non tutti i turisti hanno una cultura e una curiosità enologiche tali da garantire sicuro successo all’equazione prospettata dal presidente Piona. Il quale però ostenta sicurezza: “Sappiamo – ha detto infatti – che da qualche tempo il Prosecco ha raggiunto un livello di vendite ormai stabile, anche a causa di una certa sofferenza dovuta all’aumento quantitativo dell’offerta e di una difficoltà sempre maggiore a conservare lo stesso prezzo di vendita. Garda Doc ambirebbe dunque a collocarsi sul mercato come prodotto simile al Prosecco, per genesi e provenienza, ma in un ambito più di nicchia: la nostra base produttiva è un decimo di quella trevigiana, ma i nostri produttori sono capaci di produrre ottimi vini. La maggior parte dello spumante Garda Doc sarebbe prodotto col metodo Charmat, ma il disciplinare garantisce ai vignaioli più spregiudicati anche la possibilità di lavorare col metodo classico, una versatilità che lascia maggiore libertà d’azione per raggiungere,

si spera, elevate vette qualitative”. Va detto che lo spumante, sul lago di Garda, non è una novità: da molti anni le cantine che producono le denominazioni raccolte nel consorzio gardesano (Valtenesi, San Martino della Battaglia, Lugana, Colli mantovani, Custoza, Bardolino, Valpolicella, Valdadige, Durello e Soave) producono privatamente bollicine, seppure in quantità ancora poco significative. Una massa che non è mai riuscita a diventare critica, probabilmente anche a causa di strategie di comunicazione poco efficaci. Con l’operazione Garda Doc si è cercato di rimediare agli errori del passato, approfittando dell’innegabile successo internazionale di questa tipologia di vino e della notorietà di un nome, Garda, che oggi si vorrebbe identificare anche con un grande spumante. “Ciò a cui abbiamo puntato – ha dichiarato Piona, uno degli alfieri del Bianco di Custoza veronese – è la necessità di dare alle nostre bollicine, già da tempo presenti sul mercato ma in ordine sparso, una precisa identità e un’adeguata collocazione. Garda Doc dovrà diventare un altro sinonimo di spumante, proprio come è accaduto con il Prosecco”. Le premesse, d’altronde, ci sono tutte: gli ettari

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VINARIA

di produzione superano i 30mila, il 90% dei quali situati nella provincia di Verona, mentre il restante 10 se lo spartiscono quella di Brescia e quella di Mantova. Un territorio naturalmente vocato alla produzione di ottime uve e dotato di strutture che nel corso dei decenni sono riuscite a conferire un valore aggiunto ai vini del nostro Paese: evidentemente era giunto il momento del salto di qualità. Per questo sul Garda hanno voluto fare le cose in grande, legando il nuovo spumante alla presentazione di grandi eventi del territorio e costruendo un marchio che possa piano piano diventare immediatamente riconoscibile per i consumatori: l’onda stilizzata graficamente che campeggia su tutte le bottiglie dello spumante gardesano è frutto di un concorso di idee e la dice lunga sulle intenzioni commerciali del nuovo brand. Le innovazioni portate nella denominazione hanno fatto il resto, imponendo alle etichette poste sulle bollicine lacustri la sola

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dicitura Garda, proprio per evitare di confondere il consumatore e per invitarlo a legare i bei ricordi delle vacanze trascorse sulle spiagge benacensi al piacere del flut. La sfida è dunque lanciata, ma, come sanno bene coloro che già hanno

tentato inutilmente simili operazioni, il rischio di insuccesso è alto: quando si decide di costruire a freddo una nuova passione, bisogna spesso fare i conti non con la testa del consumatore, ma con il suo cuore, al quale, come recita un vecchio adagio popolare, si sa che non si può comandare. Ma Carlo Alberto Panont, direttore del Consorzio Garda Doc, è di tutt’altro avviso: “La scelta che abbiamo fatto, e che reputiamo vincente, è stata quella di valorizzare un brand già affermato, Garda appunto, trasformandolo in un vino di successo e individuando nella tipologia spumante, oggi una delle più apprezzate, quella in grado di aggiungere un ulteriore valore economico e commerciale ai prodotti tradizionali delle dieci denominazioni del Consorzio, che da sole vantano un parco clienti di tutto rispetto”. Si tratta di scoprire ora se e fino a che punto gli appassionati sapranno cogliere l’ambiziosa proposta.



VINARIA

BISOL

IN NOME DEL PROSECCO di

Francesca Antonucci Mattia Mionetto

foto di

Bisol 1542 ha partecipato alla creazione della tradizione del Prosecco Superiore DOCG delle Colline di Conegliano Valdobbiadene. Ci racconta questa storia di passione e di famiglia Gianluca Bisol. Io, la mia famiglia e la nostra cantina viviamo e cresciamo nella stessa casa da molto tempo. Le nostre origini come viticoltori sulla collina del Cartizze sono state censite nel 1542 in un documento della Repubblica Veneta. Già allora la mia famiglia nel “Chartice” - questa l’antica denominazione dell’area - coltivava la vite in 40 campi, ossia 20 ettari. L’attività è continuata ininterrottamente fino alla prima guerra mondiale. La Valdobbiadene, purtroppo, ha pagato duramente quegli anni e la mia famiglia anche. Finita la guerra è stato mio nonno, Desiderio, a riprendere il lavoro e a impegnarsi con passione, lungimiranza, e anche coraggio, nell’acquisto di nuovi poderi per piantare le sue viti. Nonno Desiderio ha preferito terre di collina, che per la particolare ripidità erano difficili da coltivare. La sua scelta è stata il primo passo per sviluppare la Bisol 1542 di oggi. Della stessa lungimiranza e intuizione erano i suoi figli, che nel secondo dopoguerra hanno annesso nuovi poderi e vigneti. Gianluca Bisol

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L’INTERVISTA Tutto, quindi, ha inizio in un piccolo appezzamento nella prestigiosa collina del Cartizze, nome che ancora oggi evoca la massima espressione ed eccellenza del Prosecco. Esattamente, il Cartizze è una bollicina di eccellenza grazie all’unicità dei suoi sapori e profumi. La glera è un vitigno dalle note delicate che cambia espressione al variare del suolo: su terreni argillosi, morenici o calcarei si esprime in modo diverso in tutte le sue caratteristiche. La collina del Cartizze è, per diversi aspetti, unica nel suo genere e unico è il vino che restituisce. È la più alta della Valdobbiadene, lunga un solo chilometro. Il suolo è roccioso in profondità e sabbioso in superficie. La ricchezza del terreno in termini di minerali e la sua esposizione consentono di lasciare l’uva sulle piante anche due o tre settimane in più. La maturazione, che avviene senza perdita di acidità, regala la speciale aromaticità che amplifica gli aromi varietali. Bisol 1542 raccoglie il meglio dei poderi distribuiti in diverse aree delle colline della Valdobbiadene, dunque. Coltiviamo e raccogliamo la glera dalla collina del Cartizze, dalle Rive, dalle aree a suolo argilloso e dalle colline a sviluppo tipicamente morenico. L’opportunità di coltivare il vitigno su suoli diversi ci consente di fare ricerca e selezione sui diversi terroir. La nostra è una vendemmia differenziata: raccogliamo in base al grado di maturazione. Sullo stesso vigneto possiamo effettuare anche due o tre passaggi per raccogliere ogni grappolo al punto di maturazione desiderato. In cantina si separano i raspi dagli acini e si lascia l’uva per 14 ore alla temperatura di 8°C: questa prima fase assicura l’estrazione della componente aromatica.


BISOL

A fare la differenza nella cantina Bisol 1542 è la fermentazione differenziata a cui vengono avviati i nostri mosti: - la classica a 18° C con travaso settimanale; - con batonage continuo in recipienti di acciaio; - una terza tipologia in cui si riproducono le condizioni di vinificazione di 50-60 anni fa, quando si lavoravano le uve ai primi di novembre con un clima più freddo; - e in barrique con batonage continuo. È dal sapiente dosaggio dei prodotti di queste diverse fermentazioni che nascono i nostri cru. Il Prosecco è sempre più apprezzato anche sul mercato estero. Oggi il primo mercato è il Regno Unito. Tuttavia, quando diversi anni fa ho approcciato quel territorio, tutti gli importatori contattati avevano manifestato poco interesse. Tre ristoranti italiani, invece, mi diedero ascolto e inserirono la nostra etichetta nella carta dei vini. Dopo 6 mesi gli stessi importatori che mi avevano negato la collaborazione mi cercarono. Questi fatti risalgono a quasi 30 anni fa, quando le prime bollicine in tavola erano quelle dello champagne: oggi il prosecco ha volumi 5 volte superiori. Tra le vostre eccellenze c’è Jeio, una selezione di 3 spumanti a base prosecco realizzati con il metodo charmat. La linea Jejo è nata nel 1996 in onore di nonno Desiderio, soprannominato Jeio. Oltre ai nostri cru abbiamo selezionato alcune uve che ci hanno aiutato a differenziare questa linea, oggi declinata in 3 prodotti distinti per il sapiente dosaggio del Verdiso e del Pinot bianco.

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VINARIA

Cibo e vino sono un connubio oggi quasi inscindibile: l’uno e l’altro si possono esaltare a vicenda. Collaborate con chef o scuole di cucina? Il Prosecco Superiore della Valdobbiadene è per sua stessa natura una bollicina adatta alla ristorazione. L’apprezzamento degli chef è stato l’occasione di sperimentare abbinamenti nuovi e interessanti che teniamo in grande considerazione.

BISOL

Via Follo 33

Santo Stefano di Valdobbiadene - Treviso

Tel. +390423900138

www.bisol.it - info@bisol.it

L’interesse del consumatore è rivolto anche alla sostenibilità dei prodotti. Come Bisol 1542 raccoglie questa sfida? Nel nostro DNA ci sono il rispetto del terreno e del vitigno. Lavorano in campo agronomi, entomologi e biologi, a garanzia della massima biodiversità. I vitigni devono essere ricchi di erba, fiori e mostrare grande vitalità sotto le piante: è essenziale, per avere uve ricche di gusto

e profumi. La vite assorbe sostanze organiche e minerali dalla terra e li esprime nel vino che da essa si ricava. In un contesto in cui il cliente chiede di visitare e “toccare con mano” ciò che poi acquista, la famiglia Bisol è stata all’avanguardia. Già 15 anni fa siamo stati promotori della Wine Experience nella nostra cantina. Portiamo con soddisfazione clienti e wine lover anche a Venezia sull’isola di Mazzorbo dove siamo impegnati al rilancio

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della produzione vitivinicola in laguna e sui colli Euganei nell’azienda Maeli, parte del nostro gruppo. La sfida oggi è anche la buona comunicazione del vino. Assolutamente, e nel caso del Prosecco questo, se possibile, è ancora più vero. È una bollicina famosa che si presenta al consumatore con nomi diversi: serve comunicare e informare sulle differenze tra la DOCG delle colline di Conegliano Valdobbiadene e la DOC di pianura. Abbiamo il dovere di trasferire la cultura del nostro vino, le sue caratteristiche e la storia che lo rende unico.



VINARIA

OLTRE I PREGIUDIZI

LATTINA E BAG IN BOX SARANNO QUESTI I CONTENITORI DEL FUTURO PER IL VINO, ANCHE DI QUALITÀ? di

Gianluca Ricci

Se nel Vecchio Continente gli sforzi dei vignaioli continuano a concentrarsi sul perfezionamento delle tecniche di coltivazione e sulla modernizzazione metodologica in cantina, con l’obiettivo di produrre vini sempre più in sintonia con i gusti e le passioni dei consumatori, dalle altre parti del mondo l’impegno che si profonde è a tutto tondo e coinvolge anche, e soprattutto, il packaging e le modalità di confezionamento. Forse perché meno rispettosi dei dogmi della tradizione, i produttori americani e australiani non si fermano davanti alle rigidità delle consuetudini e mostrano indubbi segni di vitalità commerciale anche là dove dalle nostre parti il terreno inizia a farsi minato. Nessuno in Europa si sognerebbe di ipotizzare la vendita dei propri vini di qualità in contenitori che non siano bottiglie di vetro: certo, qualche concessione ai capricci del design ogni tanto fa la sua comparsa, ma il tutto si limita alla morfologia e all’etichetta. Oltre Atlantico invece si sta da tempo mettendo in atto una sorta di vera e propria rivoluzione silenziosa in cui la cara, vecchia bottiglia sta venendo affiancata sugli scaffali di supermercati ed enoteche da cartoni e lattine. Nessuna differenza, nessuna gerarchia, ma soprattutto nessun timore reverenziale: plastica e alluminio stanno diventando semplicemente vettori alternativi (e per certi versi economicamente più convenienti) nella commercializzazione di qualsiasi tipologia di vino. D’altronde si immagina lo scandalo che nel 1935 suscitò la comparsa della prima birra in lattina della storia: ma oggi nessuno si interroga sull’effettiva qualità del contenuto quando mette nel carrello bottiglie e lattine. La consuetudine ha permesso di oltrepassare qualsiasi blocco psicologico e di limitare le scelte alle reali necessità pratiche del consumatore. E lo stesso sta accadendo soprattutto in America, dove la platea degli appassionati si sta ampliando anche ai nuovi adulti, abituati da tempo al contatto con bevande contenute ovunque tranne che nel vetro. Il primo esperimento, in realtà, fu made in Australia, quando nel 1994 la storica cantina Barokes confezionò nell’alluminio il suo Chardonnay: i puristi, al solito, gridarono allo scandalo, ma i consumatori premiarono l’azzardo decretando un successo che negli anni si è andato misurando in milioni di dollari. A credere fermamente nella lattina è stata successivamente la cantina del regista statunitense Francis Ford Coppola che porta il suo

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VINOINLATTINA

nome: il Blanc de blancs Sofia fu confezionato quasi per scommessa e messo in vendita con tanto di cannuccia annessa, ma oggi il suo Chardonnay, il suo Pinot grigio e il suo Sauvignon, tutti rigorosamente “inlattinati”, si attestano quasi sui 300 ettolitri. Coppola è stato l’apripista e sulla scia del suo successo si sono gettati poi molti altri produttori americani, che hanno aumentato vertiginosamente le quote di mercato destinate ai vini in lattina, al punto che nel 2016 l’aumento delle vendite rispetto all’anno precedente si è attestato sul 125% e nel 2017 è stato tale da imporre a testate del settore del calibro di Forbes e Money di occuparsi di un fenomeno definito senza timore di smentita come il trend di maggior crescita dell’intero settore. L’alluminio non altera il sapore, è assai più pratico sia nella conservazione che nell’uso, non necessita di apribottiglie, non pretende la presenza di contenitori supplementari come per esempio i bicchieri, è assai più leggero del vetro e permette quindi di abbassare notevolmente i costi del trasporto, per non parlare della maggiore sostenibilità a livello ambientale, visto che dallo smaltimento di una lattina si può produrre un’altra lattina, mentre lo smaltimento di una bottiglia presuppone la produzione di oggetti differenti. Insomma, non sembra esserci alcuna controindicazione nemmeno alle nostre latitudini se non quella della tradizione: e nonostante qualcuno, sia in Italia che in Francia, abbia provato a sfondare

il muro di diffidenza, i risultati ad oggi rimangono poco incoraggianti. Per i produttori sarà forse utile sapere, però, che negli Stati Uniti l’incremento di vendita più consistente in termini percentuali è proprio quello relativo al nuovo packaging. Discorso analogo vale anche per il tanto vituperato bag in box, confinato nel reparto discount della nostra mente senza che si considerino gli straordinari vantaggi che porta in dote con sé. Il vino sfuso è un altro di quei settori di cui meno si parla e meglio è: nessuno infatti mette in dubbio che i margini di guadagno per un produttore sono assai più elevati quando vende il suo vino in bottiglia, così come pochi mettono in dubbio (erroneamente) che la qualità di un prodotto sotto vetro sia decisamente maggiore rispetto a quella di vini che finiscono incapsulati e confezionati in un cubo di cartone. Eppure alcune cantine stanno prendendo in considerazione l’idea di destinare ad entrambi i contenitori i medesimi vini, non fosse altro perché gli Stati Uniti importano vino nel bag in box per 135mila ettolitri ogni anno, detenendo il record della quota di acquisto di questa particolare tipologia col 20% su scala mondiale. Un mercato che per snobismo si può far finta di ignorare, ma che in realtà sta facendo gola ad un numero sempre più ampio di produttori. Non è un caso che dall’inizio dello scorso anno il vino contenuto nel bag in box abbia acquisito un codice doganale autonomo, in grado quindi di rendere tracciabile ogni passaggio di mano: un atto burocratico che in realtà fotografa un evento commerciale ben preciso, visto che oggi è possibile quantificare nel 10% del venduto attraverso contenitori di capacità superiore ai due litri il vino commercializzato nella scatolina magica. Inutile accennare ai vantaggi sia economici che logistici di una simile strategia di vendita: il problema è che la diffidenza nei confronti di uno strumento “povero” fatica ad essere diradata, anche se qualche produttore di grido ha già provato a sdoganarlo nell’indifferenza di un mondo che si mantiene solidamente aggrappato alle sue tradizionali certezze. Eppure con la crescita esponenziale dei locali in cui il servizio al calice si sta sostituendo a quello assai più oneroso della bottiglia, visto che ciò permette abbinamenti più mirati e soddisfacenti con le pietanze, il bag in box potrebbe rappresentare la soluzione ideale per contenere i costi e per mantenere inalterata la qualità del vino anche dopo qualche giorno dalla prima sboccatura. E se anche l’occhio vuole la sua parte, ecco pronta la soluzione: il bag in barrell, ovvero lo stoccaggio della sacca di plastica non più all’interno di un banale cartone, peraltro necessario per prevenire eventuali forature, ma di una più scenografica botticella in legno. Alla fin fine si tratterebbe solo di una banale rieducazione sentimentale.

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di

Mario Federzoni

VINARIA

RAPPORTO

QUALITÀ/PREZZO? IO LA PENSO COSÌ

Quando mi si dice: “È un buon vino, perché ha un ottimo rapporto qualità prezzo” mi viene la pelle d’oca! Allora dovrebbe essere che un vino da 1 euro che fosse “potabile”, è buono, o anzi ottimo? Partendo dal presupposto che per chiunque è buono il vino che piace di più, ho seri dubbi che un vino da 1 euro possa piacere più di tanto; che uno si possa accontentare passi, ma da qui a parlare di bontà ce ne corre. Il rapporto qualità prezzo potrebbe valere, a mio avviso, sicuramente per i vini mediocri, frutto di vendemmie intensive e di lavorazioni standardizzate e veloci, o per vini d’annata. Per avere un grande vino il prezzo sarà sempre una componente secondaria che, addirittura, parecchie volte non riuscirà nemmeno a coprire gli investimenti fatti dal produttore per ottenerlo. Il prezzo, per certi capolavori dell’enologia mondiale, è l’ultima cosa che si deve considerare. Un appunto a parte potrebbe riguardare il marketing o la notorietà della marca, ma anche queste componenti sono frutto di un lavoro protratto nel tempo e che ha sopportato costi enormi (ci sono pochi casi di exploit improvvisi - ma sarebbero l’eccezione che conferma la regola). Lo so, mi direte che questi ultimi sono vini per poche tasche, e

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forse, anzi senza forse, è in molti casi purtroppo vero, ma come mai la frase incriminata non si addice, ad esempio, per un abito di Brioni, per una lavatrice ultimo modello, o per un mobile intarsiato a mano… anche queste ultime cose, se volete che durino e che siano ben fatte, prescindono dal prezzo. Un prodotto artigianale, fatto con amorevole cura e sapienza, non potrà mai a poi mai avere “un buon rapporto qualità prezzo”, a meno ché non si riesca a dare un valore venale, oltre che agli elementi concreti, a tutti gli “asset intangibili” che fanno parte di queste produzioni di pregio (es. terroir, know how, competenza, tradizione, evoluzione tecnica, notorietà mondiale, palato del wine maker,ecc..). Un esempio per tutti: in Bordeaux, zona st. Emilion, per ottenere la massima quotazione (Grand Cru Classè A) bisogna avere non solo un ottimo prodotto, vigneti eccezionali e ben tenuti, ma anche grande notorietà internazionale e, non da ultimo, essere anche in grado di dare un’accoglienza di prim’ordine ai visitatori: quindi bellissime e ordinate cantine di affinamento, stabilimenti efficienti, sale degustazione eleganti ecc.. Se vi capitasse, ad esempio, di andare a visitare lo Chateau Angelus, in quanto italiani sareste accolti dall’inno di Mameli suonato dal castello di campane posto all’ingresso della Maison!


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ASSAGGIO DI

LIBRI a cura di Giorgia Zucchi

L’INGREDIENTE SEGRETO

LA CUCINA DEL SENZA

FRUTTA A GUSCIO E FRUTTA SECCA

MANGIARE CON GUSTO E VIVERE 100 ANNI

40 ricette creative, dall’antipasto al dessert, che utilizzano i principali tipi di frutta secca e frutta a guscio attraverso abbinamenti e tecniche innovative. Lo chef e autore, Terry Giacomello, mostra tutta la straordinaria versatilità di questi preziosi frutti, importanti fonti di vitamine ed energia, trasformandoli da antichi ingredienti della sopravvivenza a protagonisti di pregio di una nuova grammatica di sapori anche all’interno della ristorazione.

Coniugare i piaceri della tavola con la salute. Nasce così la Cucina del Senza, un libro che insegna a mangiare bene e con gusto attraverso una cucina semplice, senza sale, grassi e zucchero aggiunti. Ben 80 ingredienti salvavita e oltre 70 semplici ricette che, se ruotate settimanalmente, portano a seguire una linea alimentare equilibrata: piatti gustosi e saporiti, capaci di riequilibrare il metabolismo, disinfiammare l’organismo e dimagrire eliminando naturalmente i grassi in eccesso.

di Terry Giacomello - Editore Bibliotheca Culinaria 96 pagine - Euro 22,50

IL GRANDE LIBRO DELLA CARNE TUTTE LE RAZZE, LE PROVENIENZE, I TAGLI E LE TECNICHE DI COTTURA Dimenticate tutto quello che sapete sulla carne. Dalla penna felice di un grande divulgatore, ecco rivelati i segreti di allevatori e macellai per conoscere la carne e cucinarla al top. Attuale e aggiornato, corredato da splendide illustrazioni, questo volume risponderà in modo chiaro, una volta per tutte, alle vostre domande sull’argomento. Titolo originale: “Le Manuel du garçon boucher. Honorer l’animal, cuisiner sa viande” (2017). di Arthur Le Caisne - Giunti Editore - 240 pagine - Euro 25,00

di Lucia e Marcello Coronini - Editore Gribaudo 160 pagine - Euro 14,90

L’ANIMA DELLE SPEZIE La gastronomia orientale, per l’autrice, non è mai stata una moda: è la sua storia. Questo libro è un racconto delicato e appassionato, un viaggio culinario alla scoperta delle spezie e della loro anima. Preziose, ambite e misteriose, June Bellamy ha scelto quelle che da sempre fanno parte della sua vita e ne ha raccolto le ricette più importanti, contemporanee e della tradizione, offrendo un repertorio di piatti al tempo stesso antichi e attualissimi per far assaporare tutto il gusto di questi antichi ingredienti.

di June Bellamy - Giunti Editore - 192 pagine - Euro 22,00

CROSTATE RUSTICHE DOLCI E SALATE Con le pere, con le arance e le mandorle, con le noci, ma anche con albicocche e rosmarino, con susine e cardamomo, con zucca e pancetta affumicata, con funghi e caprino... Sono tante le ricette dolci e salate che un “contenitore” come quello delle crostate può esaltare. Ricette facili e gustose per tutte le occasioni.

di Émilie Franzo - Bicliotheca Culinaria Editore - 72 pagine - Euro 11,90

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SWEET

MEZCAL

Insieme a Helen Goh, sua collaboratrice di lungo corso, Yotam Ottolenghi porta il proprio marchio di fabbrica - fatto di ingredienti freschi, spezie e abbinamenti sorprendenti - nel mondo dei dolci: fichi, petali di rosa, zafferano, anice, fiori d’arancio, pistacchio e cardamomo arricchiscono torte, biscotti, crostate, budini, cheescake e gelati. “Sweet” include più di 110 ricette innovative e golose, come i dolcetti di mandorle alle more e anice stellato, la Persian love cake, il tronchetto al pistacchio con lamponi e cioccolato bianco, la cheesecake al frutto della passione con ananas speziato e la pavlova alla cannella, mandorle e fichi freschi. Dalle torte e ai biscotti che i genitori possono cucinare insieme ai bambini fino alle scenografiche torte a strati che sapranno accendere l’immaginazione anche dei pasticceri più esperti, ognuno troverà una ricetta per deliziare il proprio palato.

LA GUIDA COMPLETA PER VIVERE L’ESPERIENZA DI UN DISTILLATO UNICO AL MONDO Un viaggio ad alta gradazione per conoscere il Mezcal e i distillati d’agave. Le sue origini mistiche, l’esistenza a volte clandestina, il valore che ha assunto di recente questo distillato e rende orgogliosi i produttori, ne fanno un prodotto mitico. Con la sua scrittura vivace e picaresca, Tom Bullock ci catapulta nelle piccole distillerie casalinghe, nelle mezcalerias tutte da vivere, in mezzo a bottiglie assolutamente da provare e a storie sensazionali.

di Yotam Ottolenghi e Helen Goh - Editore Bompiani 364 pagine - Euro 35,00

di Tom Bullock - Giunti Editore 224 pagine - Euro 25,00

ENCOMIO DEL VINO Una piccola perla - a distanza di un millennio da quando l’autore, un intellettuale di Costantinopoli, lo scrisse - che ci riporta intatto il gusto e il piacere legato al vino, alla sua storia atavica e persino alle sue proprietà terapeutiche. Un piacevole concentrato di lodi riservate al primo dono che Dio fece agli uomini dopo il diluvio.

di June Bellamy - Giunti Editore - 192 pagine - Euro 22,00

IL GRANDE LIBRO DEI RUM È stata definita “l’enciclopedia del rum” per la mole di informazioni, foto, schede relative a questo pregiato distillato. 900 le etichette recensite, con notizie dettagliate sulle zone di origine, le aziende produttrici, la storia che le caratterizza. Frutto di anni di lavoro, il volume è fondamentale per tutti gli appassionati del rum e per i professionisti dell’ho.re.ca.

di Davide Staffa - 2ª edizione - La Madia Editore - stampa a cura della Tipografia Valgimigli di Faenza - 686 pagine - cm. 21x28 - Euro 59,00 - www.lamadia.com

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