La Madia Travelfood n. 335 - Marzo 2019

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNI

www.lamadia.com

ANNO XXXV Marzo 2019 - N. 335 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

...e le STELLE stiamo a guardare...

In Francia YANNICK HALLÉNO e THIERRY MARX

In Italia FABIO PISANI e ALESSANDRO NEGRINI

LA MADIA EDITORE

In Spagna CARME RUSCALLEDA

VITANTONIO LOMBARDO

VALENTINO PALMISANO




SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 335

GOURMETFOOD

di

Alessandra Meldolesi

pag. 60

GOURMETFOOD

THIERRY MARX

Come Yannick ha conquistato il mondo.

Una cucina “emozionalmente emotiva”.

di

Flavia Tomaello

pag. 74

Flavia Tomaello

pag. 68

LE ROI ALLÉNO

GOURMETFOOD

di

VINARIA

pag. 82

CARME RUSCALLEDA

NUOVE CRU BARDOLINO

Sette stelle Michelin per la sua cucina.

Tra le nuove sottozone: Rocca, Montebaldo e Sommacampagna.

di

Gianluca Ricci


La cultura del benessere

La Fucina di Vulcano

Dimagrimento facile:

Ristorante Vòce a Milano

alla ricerca della sostanza magica!

di Giorgia Giuliano e Maria Chiara Zucchi......................... pag. 34

di Primo Vercilli................................................................ pag. 8

Intervista a...

La scelta vegana

Vitantonio Lombardo

Riscaldamento globale:

di Lucy Gordan................................................................. pag. 42

2019, l’anno della svolta

Giovani Talenti

di Silvia Bianco................................................................. pag. 10

Valentino Palmisano

Il menu engineering

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 48

La classe media sparirà. E la ristorazione?

Vinaria

di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 13

Il focus di Alessandro Rossi

EVO - L’olio extravergine di oliva

Vino: è sempre la prima impressione quella che conta

L’olio extravergine di oliva nella ristorazione

di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 80

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 14

Chardonnay, ovvero raffinata freschezza

SicurezzAtavola

di Mario Federzoni........................................................... pag. 86

Soffocamento da cibo al ristorante:

Il vino agli albori della civilità

è grave ignorare il problema

di Mario Federzoni........................................................... pag. 88

di Mirko Damasco............................................................ pag. 16

Dom Pérignon inventore di Champagne?

Golavagando

di Mario Federzoni........................................................... pag. 90

Osteria del Ferrovecchio

Il Grande Libro del Rum

di Alessandro Rossi......................................................... pag. 20

di Gianni Di Lorenzo......................................................... pag. 92

Peck Citylife..................................................................... pag. 24

Whisky Jugs

L’Alta Valdera nel Pisano

di Alessandro Orzes......................................................... pag. 94

di Giorgia Giuliano............................................................ pag. 26

Il vino cambia se cambio bicchiere?

Chef di Spirito

di Mario Federzoni........................................................... pag. 95

Denis Lovatel

Enoteca Storica Faccioli a Bologna

di Sonia Leo..................................................................... pag. 30

di Giulia Gotelli................................................................. pag. 96



EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

CRISI DA ECCESSO DI SUCCESSO Il 2018 è stato un annus horribilis per la ristorazione non tanto per i fatturati che, in realtà, sono aumentati battendo ogni record, bensì per l’elevato numero di locali costretti a chiudere: oltre 25.000 a fronte di quasi 14.000 aperture. Fotografa il fenomeno con lucidità Lorenzo Ferrari in questo numero del giornale, ribadendo quello che da anni cerchiamo di spiegare e cioè che i lustrini di Masterchef sono fuorvianti perché chef non ci si improvvisa, ristoratori ancor meno. E i problemi sono tali da costringere alla chiusura entro 5 anni dall’apertura anche i più ottimisti neoimprenditori. Quali problemi in particolare? Innanzi tutto la fitta ed esosa rete di tasse e balzelli imposti dallo Stato, le esorbitanti spese di gestione tra utenze, personale, attrezzature, affitti, incidenza del costo delle derrate alimentari, forse la voce più incolpevole, nel quadro generale. Ma al vistoso turnover dei ristoranti contribuiscono oggi anche nuovi fattori, non ultima la concorrenza tra troppi esercizi, aperti proprio per eccessivo successo del settore. E se probabilmente, come spiegano i nostri esperti, la ristorazione un tempo frequentata dalla classe media è destinata pian piano a scomparire insieme alla classe media, mi permetto di pronosticare che non saranno solo il top e il low level a sopravvivere, ma anche: • trattorie e ristoranti di chiara e onesta matrice tradizionale con ineccepibile rapporto qualità/prezzo; • cucine di prodotto (salumi e formaggi locali eccellenti, ma anche pesci o carni con manipolazioni minime); • ambienti a storica conduzione familiare. Dunque, cucina credibile e saper fare tangibile: nessuna mezza misura, nessuno spazio per una creatività orecchiata o copiata dai famosi. Quello del cucinare per il pubblico è un lavoro duro che non lascia spazio all’improvvisazione e alla mistificazione, quindi, “ofelè fa el to mesté”. Tutti gli altri, prego, si astengano…

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LACULTURADELBENESSERE

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

DIMAGRIMENTO FACILE

ALLA RICERCA DELLA SOSTANZA MAGICA!

Ebbene iniziamo anche quest’anno il nostro sforzo per arrivare all’estate in gran forma. Cominciamo a leggere i giornali (“ci saranno novità quest’anno su qualche metodo miracoloso?”), ci iscriviamo in palestra (“perché già il primo passo è fatto, poi vedremo se andarci o no!”), ci informiamo su qual è il dietologo in voga in questo momento e via… siamo pronti alla nuova prova! Certo che quella prima domanda sull’esistenza o meno di un metodo miracoloso, ci tormenta continuamente: ma è mai possibile che nel 2019 ancora non si trovi nulla di talmente efficace da non far fatica nel dimagrire? Ci vengono in mente tanti e tanti prodotti (più o meno naturali) che in passato avevano solleticato la nostra curiosità! Purtroppo, amici, posso confermarvi che, ancora, nel 2019 non c’è assolutamente nulla che vi permetta di dimagrire assumendo la semplice pillolina. Ancora oggi possiamo con certezza affermare che l’unica possibilità per arrivare in forma all’estate (e possibilmente rimanere in forma!) è quella di seguire una sana alimentazione. Eppure non si fa altro che sentir parlare di tantissime sostanze naturali che aumentano il metabolismo! È incredibile perché normalmente ormai si specifica dappertutto che le sostanze sono naturali (come se sostanze naturali prese in modo sbagliato non potessero essere dannose) e poi si rimarca sempre che portino ad un aumento del metabolismo, tale per cui ci immaginiamo che il nostro corpo acquisisca (miracolosamente) chissà quali velocità metaboliche tanto da bruciare migliaia e migliaia di calorie. Mi dispiace illudervi: sono

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LACULTURADELBENESSERE

tutte incredibili esagerazioni. Qualsiasi cosa vi venga detto sui miracolosi effetti di curcumina, catechine, caffeina, capsaicina sono tutte incredibili manipolazioni comunicative. Vedete, il problema non è se o meno l’assunzione di queste sostanze aumenta il metabolismo, ma se l’effetto è clinicamente evidente e se la dose per ottenerlo è compatibile con la salute. Se in un certo studio si dimostra che una dose X di sostanza presa per 4 settimane provoca una riduzione di peso di 500 grammi, sicuramente non è un bugiardo chi dice che la sostanza aumenta il metabolismo, ma non si dovrebbe neanche tralasciare che un’entità tale di dimagrimento non è considerata minimamente clinicamente interessante. Ne volete qualche esempio? Prendiamo la capsaicina: è il principale componente che conferisce il sapore piccante al peperoncino. Ebbene una dose fino a 135 mg di capsaicina presa per 13 settimane (diciamo circa 40 grammi di peperoncino al giorno) ci permettono di aumentare la spesa energetica di circa 70 KCal; cioè ci basta mangiare una piccola fetta di pane in più per vanificare il tutto, ma soprattutto dobbiamo pensare che, siccome per perdere 1 Kg di peso dobbiamo bruciare 7000 KCal, allora vuol dire che dobbiamo mangiare peperoncino per 100 giorni consecutivi per perdere un kg! 4 kg di peperoncino per perdere 1 kg di peso! E che dire del tè verde? Ottimo alimento, ricchissimo di catechine, che sono sostanze antiossidanti a forte azione antitumorale, ma hanno anche una reale azione di inibizione della formazione di grasso e di aumento del metabolismo. Peccato che, per ottenere un certo risultato di dimagrimento (comunque sempre modesto e non clinicamente rilevante) dobbiate consumare una dose di catechine tale per cui si rischia il danno al fegato! Infatti è vero che una dose quotidiana di catechine tra i 583 e i 714 al giorno (per un tempo da 2 a 6 mesi), ma è anche vero che la dose massima tollerabile dal nostro fegato è 600 mg! Inoltre, per raggiungere una dose di quel genere, sareste costretti a bere anche 13 tazze di tè al giorno: non vorrei proprio trovarmi al vostro posto quando si tratterà di dormire! E che dire della curcumina? La curcumina è presente in una percentuale tra il 2 e l’8% nella curcuma (vuol dire che in 100 grammi di curcuma noi possiamo trovare dai 2 agli 8 grammi di curcumina). Ebbene, anche qui, è vero che la curcumina diminuisce l’accumulo di grassi e aumenta la spesa energetica, ma, per ottenere un certo risultato (anche qui comunque, non clinicamente rilevante) saremmo costretti ad assumere fino a 50 grammi di curcuma tutti i giorni. Bellissimo: per perdere 2 kg di peso in 3 mesi dobbiamo assumere 4,5 kg di curcuma! Non so voi, ma io, invece di perder tempo dietro a tutti questi famigerati calcoli ho deciso che, anche per quest’anno, proverò a stare attento con il cibo. Credo proprio che, se voglio arrivare in forma, mi convenga iniziare subito: sana alimentazione e attività fisica. Io sono pronto e voi?


LA SCELTA VEGANA

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

RISCALDAMENTO GLOBALE

2019, L’ANNO DELLA SVOLTA

SIAMO ANCORA IN TEMPO PER EVITARE L’IMPLOSIONE DEL PIANETA

Il 2019 è iniziato con sensazionali novità per la sostenibilità in campo alimentare correlato ad ambiente e salute. Durante la Oxford Farming Conference, ovvero la conferenza annuale degli agricoltori britannici, la deputata del partito dei Verdi britannici Caroline Lucas ha chiesto al parlamento di prendere in seria considerazione l’introduzione di una tassa sulla carne per diminuire il disastroso impatto ambientale e per finanziare opere che rendano l’industria agricola britannica il più possibile carbon free, supportando gli stessi allevatori ad affrontare una via di transizione che miri ad un approccio più sostenibile così come ad una generale diminuzione del numero di allevamenti, fornendo anche sussidi per cibo plant based con conseguente benefici per la popolazione intera. La proposta della parlamentare nasce anche grazie ad un recente studio dei ricercatori dell’Università di Oxford secondo cui una tassa sulla carne potrebbe ridurre le emissioni globali di gas serra di oltre 100 tonnellate di biossido di carbonio equivalente ed abbatterebbe vertiginosamente la lista dei decessi attribuibili ad un eccessivo consumo di carne rossa e lavorata pari a 222 mila, garantendo un risparmio fino a 41 miliardi di dollari in costi sanitari a livello mondiale.

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UNA QUESTIONE ROVENTE La “meat tax” sta infiammando gli animi e le discussioni sono ancora in atto, poiché coinvolge tutti (e quindi non solo l’Inghilterra) sia per i rischi sulla salute del consumo stesso della carne, sia per l’inquinamento ambientale ed il cambiamento climatico sia perché c’è da rivedere tutta l’economia basata su queste produzioni nefaste. Vegani o no, al di là di ogni discorso etico, la questione va presa seriamente. In una delle ultime proiezioni delle variabili chiave che riguarda popolazione, produzione e domanda di cibo a livello globale a livello globale redatto dalla Fao per il 2030-2050, si mostra come il consumo di carne individuale passi da 38.7Kg pro capite nel 2007 a 55.4 Kg pro capite nel 2080. La tendenza della produzione di carne sembrerebbe quindi continuare a crescere, specialmente nei Paesi emergenti a causa della massiccia industrializzazione della zootecnia. Un trend per nulla incoraggiante, visti i numerosi studi scientifici che denunciano e dimostrano l’insostenibilità dell’allevamento intensivo, soprattutto bovino e la relativa emissione di gas a effetto serra.


LASCELTAVEGANA

La carne di manzo è la prima imputata degli effetti sul clima, poiché è quella che più incide sulle emissioni, partecipando in prima linea al surriscaldamento globale: 1Kg di carne bovina equivale a 27 Kg di gas serra, 1Kg di agnello schizza addirittura a 39 Kg! La maggior parte di questi gas serra sono dovuti ai processi digestivi degli animali da allevamento intensivo che introducono cospicue quantità di metano nell’aria.

IL GIOCO NON VALE LA CANDELA Ciò che dovrebbe far riflettere tutti a cambiare direzione è semplicemente che tra i costi sostenuti per lo sfruttamento dei terreni e le produzioni di mangimi e l’impatto (ambientale, climatico e sulla nostra salute) delle ingenti quantità di emissioni di carbonio degli allevamenti (tutti non solo intensivi), sono nettamente maggiori rispetto a quello che è la resa. Di fatto un’altra ricerca della Oxford University pubblicata sul journal “Science” nel Giugno 2018, dimostra che la percentuale di proteine fornita dalla carne a parità di peso con uova e latticini, ma con costi ed impatto nettamente maggiori, è decisamente inferiore rispetto a quest’ultimi; al contempo utilizzare il più sostenibile dei metodi di produzione di alimenti di origine animale non va a bilanciare l’effettivo minore impatto dato da quelli vegetali: “Ad esempio, un litro di latte vaccino prodotto con metodiche “sostenibili” utilizza in media quasi due volte più terra e genera quasi il doppio delle emissioni di un litro di latte di soia”. “Diete prive di prodotti animali, offrono maggiori benefici ambientali rispetto all’acquisto di carne o prodotti caseari sostenibili”. E’ questa la conclusione dei ricercatori di Oxford, che dati alla mano, dimostrano come le diete a base vegetale riducono le emissioni da cibo sino al 73%. Questa riduzione è relativa alle emisssioni di gas serra, ma anche alle emissioni da acidificazione degli oceani ed eutrofizzazione che degradano l’ecosistema terrestre ed acquatico.

IL BENESSERE ANIMALE PASSA DALLE AUTORITÀ E ANCHE DA OGNUNO DI NOI Certo è che negli ultimi anni stiamo assistendo ad un cambiamento nella dieta globale sia per concorrere alla lotta contro il surriscaldamento del globo, sia per la salvaguardia del regno animale. Dopo il grande scandalo sollevato nel 2016 da un’indagine condotta da Essere Animali in collaborazione con il programma tv Report che rivelava le condizioni pessime ed i maltrattamenti di maiali e polli negli allevamenti di Amadori, a Gennaio l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha dichiarato che le

pubblicità dei polli Amadori sono ingannevoli, grazie a un procedimento aperto da Enpa contro la Società Cooperativa Agricola Gesco (azienda del Gruppo Amadori che produce e commercializza carni avicole e suine. Di conseguenza Amadori ha iniziato a modificare le informazioni sull’allevamento e sul benessere animale che appaiono sul loro sito web e sulle brochure. Di fatto l’azienda pubblicizzava il proprio impegno a tutela del benessere animale, mostrando polli felici e spensierati in tutti i loro allevamenti. Secondo l’Autorità, si riferiva esclusivamente a soli due prodotti esclusivi, conseguentemente, tale pubblicità non poteva essere estesa all’intera filiera. In caso di inadempimento totale o parziale, l’azienda potrebbe tornare davanti all’Autorità e subire una sanzione amministrativa pecuniaria e/o una sospensione dell’attività d’impresa per 30 giorni. Possiamo considerarlo un altro piccolo passo dei migliaia che mancano verso un mondo verosimilmente più “giusto” del concetto di benessere animale che molte aziende oggi utilizzano per incrementare i propri guadagni, quando di fatto compiono azioni contrarie e lontane a ciò che mostrano nei loro slogan pubblicitari. Fatto sta che se vogliamo parlare di vero benessere animale, l’unica cosa sarebbe non mangiarli e le opportunità che abbiamo oggi per condurre una vita con un’alimentazione a base vegetale, cercando di avere il minor impatto climatico sono davvero infinite. Come confermato anche da uno studio pubblicato sulla rivista National Academy of Sciences degli Stati Uniti, i primi a risentire delle conseguenze del riscaldamento globale sono i poveri, i più vulnerabili, ma che secondo lo stesso studio, sono proprio coloro che hanno un reddito inferiore ad essere più propensi a preoccuparsi dei cambiamenti climatici perché le comunità povere hanno maggiori probabilità di vivere più vicine ad aree colpite dall’inquinamento atmosferico, proveniente anche da allevamenti industriali, che possono portare a seri problemi di salute a lungo termine. L’essere umano è dotato di tante abilità, conoscenze, è ingegnoso e sebbene oggi stiamo vivendo una situazione drammatica che ci sta portando ad una graduale implosione (prosciugamento dei bacini idrici, estinzione delle specie di terra e di mare, deforestazioni, scioglimento dei ghiacciai ed innalzamento del livello del mare, inquinamento, etc) proprio a causa dell’uomo, è giunto il momento di utilizzare le proprie capacità per bloccare questo processo. Siamo ancora in tempo!

LE SOLUZIONI CHE POSSIAMO INTRAPRENDERE OGGI STESSO Ne parlavo già nel numero 310 di Settembre 2016. Il mondo della ricerca scientifica, attraverso biotecnologie e supportato da grandi imprenditori stanno lavorando affinché il mangiare carne

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LA SCELTA VEGANA

non sia più una consuetudine per tutti e a giudicare dalla velocità di sviluppo delle aziende coinvolte in questa rivoluzione alimentare restiamo fiduciosi che sia possibile molto presto. Per coloro che non hanno ancora adottato uno stile di vita plant-based, o che comunque, non sono intenzionati a cambiare le loro abitudini e quindi non vogliono rinunciare alla carne, le americane Modern Meadow e Memphis Meat e l’europea Mosa Meat utilizzano le biotecnologie per produrre carne coltivata in vitro non solo ad uso esclusivo alimentare ma anche abbigliamento per realizzare capi in pelle da laboratorio. Non si tratta di un sostituto della carne, ma è proprio carne vera realizzata prelevando le cellule staminali dal muscolo di un animale ed inserendole all’interno di bioreattori contenenti sostanze nutritive e fattori di crescita già presenti in natura, in modo tale da proliferare proprio come farebbero all’interno di un animale costruendo dei nuovi muscoli. “Clean meat” non è carne geneticamente modificata, poiché le cellule staminali svolgono semplicemente l’azione che farebbero all’interno dell’animale. Si stima che le aziende saranno pronte per immettersi sul mercato entro il 2021. Da sottolineare che la stessa Mosa Meat ammette che c’è maggiore sostenibilità nella produzione di sostituti a base vegetale, rispetto alla produzione di carne coltivata, ma sicuramente quest’ultima è già un grande passo per la risoluzione globale. Per chi invece è già vegano, vegetariano o ha intenzione di eliminare la carne ed ogni suo derivato dalla propria alimentazione, ci sono molte soluzioni già presenti sugli scaffali dei nostri supermercati. Alcune, le più innovative non sono ancora state inserite nei canali della grande distribuzione, ma presto lo saranno. Beyond Meat ha progettato il burger a base 100% vegetale con proteine della soia, proteine isolate dei piselli ed altri ingredienti vegetali e replica la consistenza fibrosa ed il sapore del burger di manzo ed è già disponibile nei negozi di alimentari degli Stati Uniti ed Inghilterra, ma lo troviamo anche nel menù delle catene Honest Burger di Londra, Bareburger negli Stati Uniti e Dubai e Well Done in Italia. Pare anche che Esselunga sia in trattative per distribuire Beyond Meat sui propri scaffali proprio nel 2019. Impossible Foods, è l’azienda a cui va il merito di una importante scoperta, ovvero aver trovato una molecola presente nella carne rossa ed anche nelle radici delle piante di legumi come la soia, che conferisce il tipico colore e sapore “ferroso” della carne rossa. L’eme è il complesso chimico che contiene un atomo di ferro, parte integrante dell’emoglobina, responsabile di portare l’ossigeno attraverso il sistema circolatorio animale e di far funzionare il sistema linfatico vegetale. E’ presente anche in molti vegetali ed è proprio da essi che Impossible Foods la estrae e negli ultimi tempi ha iniziato a

Silvia e gli esperti rispondono...

coltivarla direttamente tramite i lieviti. Recentemente è stata presentata la nuova versione: “Impossible Burger 2.0” che è senza glutine, senza colesterolo, con più ferro e proteine e con un apporto di 240 Kcal. Per simulare il grasso del manzo, e riprodurre il sapore e la sensazione di un burger di carne, Impossible Burger contiene anche olio di cocco e di girasole, mentre impiega le proteine delle patate per ricreare la tipica crosticina della carne scottata. Interessante scoperta che sta a metà tra la carne coltivata e la carne sintetica di Impossible Burger o Beyond Meat è la carne vegetale stampata in 3D. Invenzione dell’ingegnere e biomedico italiano, Giuseppe Scionti, che lavora ed insegna all’Università Politecnica della Catalogna. La sua start up Novameat sta raccogliendo interesse da tutto il mondo anche dalle maggiori aziende di trasformazione e commercializzazione di carni e cereali. Scionti ha già presentato il “petto di pollo” e la “bistecca di manzo” in 3D che vengono realizzate con molecole di derivazione vegetale ed hanno la stessa consistenza della carne che riproducono, con costi decisamente bassi - promette Scionti. Al momento non è ancora dato sapere quando la carne sintetica in 3D sarà pronta per il mercato, ma il team di Scionti è molto positivo al riguardo.

Inviate le vostre domande a: lamadia@lamadia.com

Non è un controsenso per un vegano mangiare prodotti vegetali che imitano la carne? Rebecca, Torino Generalmente chi sceglie di rinunciare alla carne e derivati, lo fa per salvaguardare gli animali e non perché non gli piace il gusto. Se si adora il sapore delle polpette fatte dalla nonna, ma si decide di non mangiare più carne, non c’è nulla di male nel ricreare un prodotto dal gusto e consistenza simili e che al contempo rispetti i propri valori etici come il benessere animale e la salvaguardia del pianeta. C’è anche da dire che una polpetta, burger o salsiccia di carne non nascono in tale forma, sono un surrogato della materia prima. Il nome di polpette o salsicce vegetali viene dato per convenzione, per facilità ed immediatezza nel concetto del prodotto. Nel mercato internazionale ci sono innumerevoli prodotti che cercano di imitare la carne, ma contrariamente a ciò che si possa pensare, questo filone non è specificatamente rivolto a vegani. Molti vegani preferiscono non mangiare proprio più nulla che ricordi, in termini di gusto e forma, la carne. I prodotti sostitutivi puntano più ad un consumo di massa, perché generalmente più sani e più ecosostenibili.

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IL MENU ENGINEERING

a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

LA CLASSE MEDIA SPARIRÀ E LA RISTORAZIONE?

Secondo il Movimprese (un’analisi statistica trimestrale della nati-mortalità delle imprese condotta da InfoCamere, basata sugli archivi di tutte le Camere di Commercio italiane, quindi una fonte estremamente affidabile) nel 2018 hanno cessato l’attività 19.150 attività nel campo della ristorazione. E questi sono i dati relativi solamente ai PRIMI TRE trimestri del 2018. Ne manca ancora uno, l’ultimo. E di solito è uno dei più “mortiferi” per quanto riguarda le attività nel campo della ristorazione. Se contiamo che nel 2018 si sono iscritte alla camera di commercio solamente 10.616 nuove attività nel campo della ristorazione, otteniamo un saldo negativo di 8.534 attività. Chi scrive non vuole di certo passare per catastrofista, ma questo non è un semplice numero. Dietro 8.534 passa attività chiuse, ci sono altrettante famiglie italiane in seria difficoltà. Ci sono imprenditori demotivati e sconfitti. Ci sono drammi umani che sono reali e tangibili. Questi dati fanno sempre riflettere. E la domanda che viene da porsi è la seguente: “perché?” Perché, nonostante l’anno scorso la spesa per consumi alimentari fuori casa abbia battuto ogni record (stiamo parlando di 85 miliardi di euro che gli italiani hanno speso in attività di ristorazione) più di 19mila tra ristoranti, osterie, trattorie, pizzerie e altro hanno chiuso i battenti per sempre? La risposta è semplicemente impossibile da riassumere nelle poche righe che il mezzo cartaceo ci mettono a disposizione, visto che le cause sono tante, concatenate tra loro e dipendono da troppe variabili. Tuttavia, un indizio può essere fornito da un’interessante analisi effettuato da Oxfam, condivisa al World Economic Forum di Davos, che stabilisce come nel 2018 le fortune dei più ricchi al mondo siano aumentate del 12%, al ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso anno, 3,8 miliardi di persone, che costituiscono la metà più povera dell’umanità, hanno visto diminuire quello che avevano dell’11%. Insomma, l’anno scorso, da soli, 26 ultramiliardari hanno posseduto l’equivalente ricchezza della metà più povera del pianeta. Nel 2017 erano 43. In Italia, invece, il 20% più ricco degli italiani ha posseduto circa il 72%

dell’intera ricchezza nazionale. E ancora, il 5% dei più fortunati ha detenuto la stessa ricchezza del 90% più povero. Cosa significa? Che la classe media sta, lentamente ma inesorabilmente, sparendo. I ricchi saranno (sono) sempre di più e sempre più ricchi e i poveri saranno (sono) sempre di più e sempre più poveri. Si sta formando sempre più una disparità di consumi, con questi concentrati sempre più nella categoria super-economico o super-lusso. Questo, traslato nel nostro settore, ci porta ad un’amarissima conclusione: tutti i ristoratori che offrono prodotti di “medio prezzo” e di “media qualità” saranno destinati ad un futuro di decrescita, problemi e difficoltà, perché il target a cui si rivolgono è sempre meno presente nel mercato. Chi scrive ha buone ragioni di credere che buona parte dei facenti parte delle 19.150 attività chiuse nel 2018 facessero parte di quella categoria, ieri necessaria e in crescita, oggi satura, che si rivolgeva ai clienti mediospendenti. Non hO sufficienti competenze per fornire una soluzione valida per chiunque e per tutte le cause, ma sa in che la soluzione universale passa per l’acquisizione di una consapevolezza ormai perduta. “Avere consapevolezza” significa prendere coscienza di ciò che è accaduto nel nostro settore negli ultimi anni, di ciò che sta accadendo e di ciò che, presumibilmente, accadrà nei prossimi. È necessario constatare che i tempi sono mutati ad una velocità mai vista prima nella storia dell’umanità, e che il mondo è realmente differente rispetto a qualche anno fa. Problemi differenti, come sempre da quando l’uomo è sulla terra, necessitano di soluzioni diverse, che esulano dal connubio “sala e cucina” che è stato sufficiente per tanto tempo. Quindi, oggi, un’attività della ristorazione che vuole puntare a competere e prosperare deve acquisire una nuova serie di competenze di marketing, di gestione finanziaria e di gestione delle risorse umane che ieri erano ad appannaggio solo delle grandi aziende. La ristorazione è pronta per questa sfida epocale? Mi auguro che sia così.

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a cura di Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini

L’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA NELLA RISTORAZIONE Negli ultimi anni tante cose sono cambiate in meglio nella ristorazione italiana. Un tempo, la carta dei vini era rara, i menu erano enunciati a voce, non vi era cura e attenzione per stoviglie e tovagliato e i servizi erano quanto meno raffazzonati. La sensibilità degli Italiani a tavola è cresciuta, siamo divenuti “consumatori avveduti”, persone esigenti che privilegiano sempre più alimenti sani e qualitativamente migliori. In questo mutato orario, l’oliera è sempre stata presente sulle tavole dei ristoranti, anche se nessuno si preoccupava della qualità dell’olio e del suo stato di conservazione. Se è vero che ancora troppo spesso il cliente non solo non è in grado di distinguere un olio buono da uno di qualità mediocre, ma non sa nemmeno usarlo, è vero anche che il mondo della ristorazione è stato colto di sorpresa dalla rivoluzione culturale che vede una sempre crescente curiosità ed attenzione della clientela verso l’olio extravergine di oliva. Diventa di conseguenza fondamentale fare del ristorante anche un luogo di cultura e di formazione diretta e indiretta. Le sollecitazioni non possono mai mancare, devono essere stimolati gli addetti ai lavori, per suscitare la curiosità e il desiderio di emulazione del cliente in ambito domestico, per il piacere della scoperta di preparazioni che valorizzino i differenti e unici tratti organolettici peculiari degli oli di alta qualità. Una delle forme per riconoscere la qualità dell’olio extra vergine di oliva passa attraverso la ristorazione; purtroppo molti operatori del settore ignorano il valore di una materia prima importante, qual è l’EVO e in alcuni casi non sono nemmeno in grado di individuarne e distinguerne la qualità. Spesso al ristorante vengono utilizzati oli di bassa qualità, non tanto per una questione di prezzo, quanto per mancanza di cultura. È indispensabile e necessario un lavoro di formazione su chef, personale di sala e titolari di pubblici esercizi, perché possano esserci consumatori in grado di apprezzare e utilizzare l’alta qualità. Nessuno al ristorante accetterebbe che gli fosse servita una bottiglia di vino aperta da giorni, magari spostata da un tavolo all’altro, e con ancora più sconcerto rifiuterebbe di bere dell’acqua sgasata da una bottiglia parzialmente svuotata; oggi anche nel mondo dell’olio è iniziato un percorso, seppur lento, verso la qualità, ed ora sulle tavole di alcuni ristoranti è possibile trovare buoni, se non ottimi oli, anche se purtroppo, in numerosi casi, l’olio è conservato in modo inappropriato. La maggioranza dei ristoratori non dà ancora importanza alla qualità dell’olio in tavola: bottiglie aperte o richiuse malamente, oli conservati nel frigorifero del vino, oli in bottigliette di plastica, bottiglie senza etichetta alcuna, tappi anti-rabbocco rotti o comunque non conformi alla relativa legge comunitaria. Mettere a

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tavola un buon olio EVO non basta: bisogna anche conservarlo bene. In una bottiglia aperta o non chiusa appropriatamente, l’ossigeno dopo poco tempo scatena una ossidazione che altera la struttura chimica dell’olio, con la formazione di composti volatili dall’odore e sapore decisamente sgradevoli e - un difetto grave per l’olio - il rancido. Anche un buon olio, dopo aver subito un simile trattamento, non può che essere potenzialmente deleterio per l’organismo umano, riuscendo, se usato per condire, a rovinare completamente il gusto di qualsiasi cosa. Cultura significa, anche, comprendere che non è corretto parlare di olio al singolare, considerata la ricchezza di tipologie e le qualità differenti, esattamente come accade nel mondo del vino. Una più ampia “adozione” di oli, da parte della ristorazione, darebbe un’idea utile della complessità che li caratterizza. L’olio extravergine è un elemento importantissimo per la gestione dei sapori: non c’è nulla di meglio dell’olio extravergine in cottura e a crudo. Occorrono almeno 3 oli per cucinare, a crudo il numero aumenta notevolmente; se si sanno scegliere gli oli giusti si possono creare sinfonie di sapori uniche. Questa è la direzione in cui devono andare gli Chef. Ognuno ha diverse preferenze gustative, ma sappiamo con certezza che il gusto si educa. Le persone che scelgono di mangiare fuori casa - e in particolare al ristorante - desiderano vivere un’emozione associata al cibo, un’esperienza da ricordare. Aggiungere un buon olio, naturalmente quando il piatto è giunto a tavola, significa donare, a chi è in attesa di mangiare, uno straordinario viaggio di immaginazione che, attraverso la successione di note odorose che si liberano per contatto con gli ingredienti tiepidi o caldi, fondendosi e armonizzandosi con gli altri elementi, preannuncia il gusto e la gratificazione che deriveranno dal successivo assaggio. Da parte loro gli Chef, fatta salva l’alta ristorazione che, in alcuni casi, ha sviluppato un corretto rapporto con l’olio, pur condividendo ed ammettendo la necessità di lavorare su cultura e informazione, hanno fatto la scelta di non mettere a disposizione l’olio a tavola, se non quando è espressamente richiesto, per impedire al cliente di falsare la degustazione dei piatti con l’aggiunta di ulteriore olio che potrebbe facilmente squilibrare sapori e consistenze. La ristorazione, canale privilegiato per coniugare sapori e qualità delle materie prime utilizzate, non solo può, ma deve, diffondere il consumo e la valorizzazione dell’olio extra vergine di oliva. Sono molte le cose da fare, da apprendere e da trasmettere; al consumatore devono essere offerti esempi positivi cui fare riferimento, sensibilizzarlo, renderlo partecipe della scelta. La chiave di volta passa sicuramente attraverso il coinvolgimento dei fruitori professionali del prodotto; sono loro, più che i libri, i giornali, o le trasmissioni televisive, che possono comunicare efficacemente la cultura e il sapere di quel prodotto unico e straordinario che è l’EVO.


SOFFOCAMENTO DA CIBO AL RISTORANTE È GRAVE IGNORARE IL PROBLEMA di

Mirko Damasco

Il 2018 si è chiuso, in Italia, con un bilancio amaro per quanto riguarda le vittime di ostruzione da corpi estranei. Secondo quanto riportato dal sito Susy Safe (Surveillance System on Foreign Body Injuries in Children – www.susysafe.org ) che mantiene aggiornato, su base internazionale, un registro di controllo per le lesioni causate da ingestione, aspirazione, inalazione o inserimento di corpi estranei, i casi segnalati nel 2018 evidenziano purtroppo un andamento in controtendenza rispetto al passato. I dati sono basati sulle segnalazioni ricevute e che vengono comprovate dalle autorità sanitarie in maniera sempre più precisa rispetto al passato. Purtroppo, ancora oggi il soffocamento causato da corpi estranei resta una delle cause principali di morte nei bambini sotto i 3 anni, restando un fattore significativo anche nella fascia di età fino ai 14 anni.

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Annualmente in Europa si stimano circa 50.000 casi (di cui 10.000 legati ad oggetti, quali monete, giocattoli, pezzi di plastica o di metallo): di questi, 500 circa, vale a dire l’uno per cento, hanno esito fatale. Ci sono casi anche in età maggiore a quella considerata a rischio (tra 0 e 3 anni), con riscontri significativi nella fascia fino ai 14 anni. Nel nostro Paese negli ultimi 10 anni si è notata una sostanziale stabilizzazione degli incidenti, conteggiando ogni anno circa 1.000 ospedalizzazioni. Gli alimenti restano la causa principale di soffocamento in età pediatrica, rappresentando una quota compresa tra il 60% e l’80% degli episodi rilevati. Si rileva inoltre una correlazione tra la gravità degli incidenti e le caratteristiche di forma, consistenza e dimensioni dell’alimento: dati di una ricerca operata negli ospedali canadesi e statunitensi associa i wurstel ai maggiori incidenti e più̀ spesso agli episodi fatali. Se a questo si aggiunge che la metà degli incidenti da corpo estraneo è avvenuto sotto la supervisione di un adulto, tutto quanto fa presagire come vi sia ancora una scarsa conoscenza dei rischi legati al soffocamento da cibo. Manca ancora una capillare attività di prevenzione e formazione, nonostante i programmi finora messi in atto a livello nazionale e questo si riscontra facilmente laddove si approcciano categorie professionali dove il rischio è elevato, ad esempio gli educatori e gli insegnanti, ma la sua percezione è drammaticamente sottovalutata, sia dagli operatori stessi, che dalle famiglie e dalle istituzioni. Il 2018 ha visto una recrudescenza dei casi fatali, soprattutto


SICUREZZATAVOLA

nei bambini con meno di tre anni. In Puglia, a distanza di poche settimane uno dall’altro, si sono registrati due eventi a carico di bambini sotto i 3 anni, soffocati in entrambi i casi da un chicco d’uva. Di poche settimane fa, invece, la notizia della morte di un adulto, l’artista torinese Alessandro Caligaris, soffocato mentre mangiava in un ristorante di Torino: purtroppo l’assenza di personale formato sulle manovre di emergenza ha trasformato un semplice incidente in un evento fatale. Sicuramente questo è uno spunto per riflettere sull’importanza della formazione nell’ambito delle emergenze per chi opera nella ristorazione. Se per gli adulti la problematica è fondamentalmente legata alla mancanza di formazione da parte della cittadinanza e degli operatori della ristorazione, nel caso dei bambini si può fare una riflessione più ampia. Nel caso della fascia a rischio che va da 0 a 4 anni vi sono vari fattori che concorrono insieme ad aumentare il rischio di inalazione: • Fisiologicamente il diametro delle vie aeree è più piccolo e la trachea ha una forma conica fino alla pubertà • Vi è una scarsa coordinazione tra la masticazione e la deglutizione nel passaggio dalla dieta prettamente liquida ai cibi solidi • La dentizione risulta essere ancora incompleta (i molari iniziano a crescere intorno ai 30 mesi e la dentizione definitiva si completa nella pubertà). • I bambini a tavola tendono a svolgere più attività contemporaneamente, distraendosi facilmente di fronte alla TV o ad un tablet. A questo bisogna aggiungere il fatto che vi sono alimenti potenzialmente pericolosi che condividono caratteristiche simili che li rendono tali: • Per dimensione: sono gli alimenti piccoli e duri (es. noccioline, semi) o quelli troppo grandi (es. grossi pezzi di frutta, verdura), perché possono essere pericolosi in quanto i primi rischiano di finire nelle vie respiratorie prima che il bambino riesca a morderli, gli altri di difficile gestione durante la masticazione; • Per consistenza: sono gli alimenti appiccicosi o filamentosi (es. il sedano), in quanto difficili da masticare e da deglutire e quindi possono molto facilmente scivolare nelle vie aeree. • Per forma: sono tipicamente gli alimenti di forma sferica (es. ciliegie, uva) o cilindrica (es. wurstel, carote), considerati dalla American Academy of Pediatrics quelli più pericolosi in quanto capaci di ostruire completamente l’ipofaringe, chiudendo ogni minimo passaggio d’aria.

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di

Alessandro Rossi

GOLAVAGANDO

L’ARTE DELLA CUCINA DI CARNE

UN ALBANESE A FORLÌ SI RACCONTA

“LA CARNE MIGLIORE? QUELLA CHE PIACE DI PIÙ: LA PERFEZIONE NON ESISTE”. Cos’è un macellaio? In origine è il professionista, l’addetto all’abbattimento, il sezionatore e il preparatore delle carni. Un mestiere non facile dove la robustezza fisica e la professionalità sono caratteristiche indispensabili per svolgere al meglio il lavoro. Dopo la macellazione, il macellaio si dedica alla disossatura e alla preparazione dei tagli primari e secondari delle carni destinate al consumo. In parole povere, seleziona la carne in maniera tale che possa essere cucinata e servita correttamente rimuovendo grasso in eccesso, tendini e altre parti indesiderate.

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OSTERIADELFERROVECCHIO

Questo, in parole povere, è quello che ci si aspetta da un macellaio. Ma non nel caso di Endri Cuni. Endri nasce a Tirana il 31 maggio del 1979 e la carne non è neanche così presente sulla sua tavola. A quattordici anni abbandona l’Albania e si trasferisce in Grecia e proprio qui, durante gli studi, incontra per la prima volta la carne. Il suo percorso è molto lungo e avventuroso; vive in Grecia per sei anni, rientra in Albania e poi riparte: Turchia, Marocco, Spagna, Thailandia, Laos e tante altre esperienze. Antinomicamente si appassiona allo studio del pesce laureandosi in acquacoltura e ittiopatologia. Anzi, si specializza in alimentazione e costruzione di impianti per l’allevamento del pesce, poi rientra a Tirana e proprio qui ricomincia a parlare il verbo della carne, questa volta per sempre. Lavora al Gallo, uno dei locali storici specializzati in carne di Tirana dove, in mezzo alla sala, c’è un camino circolare alla brace con griglie e 4 spiedi. Qui Endri si specializza nelle cotture oltre a selezionare gli animali personalmente negli allevamenti più importanti, portarli al macello e trasformarli in tagli corretti. Racconta Endri: ”La cottura mi è stata insegnata in Grecia nelle bracerie. Sono molto professionali e si avvalgono di tecniche antiche. I Balcani sono da sempre specializzati in questo tipo di preparazioni”. Successivamente matura esperienze in importanti steak house dove apprende la tecnica della frollatura - come sostiene lui, fondamentale -, che manca completamente nella cultura Balcanica. Sempre in Albania inizia a collaborare con l’Hotel Rogner di Tirana e qui affina ulteriormente la sua tecnica perché alle griglie incontra un austriaco di scuola americana. Questi si rivelerà una persona molto importante per la sua crescita professiona-

le. Sarà lui, infatti, che gli farà scoprire le celle frigorifere per la frollatura (siamo nel 2004). Sei anni fa Endri decide di cambiare vita per l’ennesima volta e trasferirsi in Italia, un po’ per amore, un po’ per completare un percorso professionale ricchissimo di esperienze. L’Italia ha una storia importante se parliamo di carni, sia sulle razze allevate al pascolo sia sulla tecnica macellaria. Anche nel Bel Paese inizia un lungo percorso di crescita senza abbandonare mai le griglie. Proprio a Forlì, insieme alla compagna Alda (foto a lato) - la donna che con lui condivide vita privata e professionale - decide di piantare le tende e mettersi in proprio. Prima inaugurano (paradossalmente!)lo Zio Bio sempre a Forlì - ristorante vegetariano/vegano - poi l’Osteria del FerroVecchio, un ristorante interamente dedicato alla cultura della carne e della tradizione romagnola.

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GOLAVAGANDO

L’INTERVISTA Endri, quale è la tua razza preferita? “Non parlo mai di razze perché ognuna di loro ha particolari caratteristiche; sono molto più attento al pascolo e all’alimentazione degli animali. Il pascolo - altitudine, terreno, tipo di erba, clima e ambiente - e l’allevamento sono fondamentali per determinare la marmorizzatura, il giusto livello di grasso ed il punto di maturazione della carne. Non tutte le razze sono adatte a tutti gli ambienti. Ognuno di noi ha un palato e delle esigenze: c’è chi vuole una carne magra, chi più leggera, chi vuole una carne più grassa e saporita, più intensa; con ognuna di queste caratteristiche nascono razze ben precise. Tutte le razze sono mediamente buone, poi incide l’essere umano che si prende cura di loro allevandole educatamente ed esaltandone le caratteristiche fondamentali.

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OSTERIADELFERROVECCHIO

Per esempio il Kobe, oggi tanto di moda, è una buona carne? È buona se ti piace, ma non è detto che a tutti piaccia. Ho incontrato sotto i miei coltelli razze e carni meno preziose, allevate ad alta quota o sulle isole greche. Alcune di queste si idratavano solo ed esclusivamente attraverso l’acqua della rugiada che si posava sulle piante grasse presenti nell’isola; erano razze fantastiche, ma sconosciute perché allevate in pochissimi esemplari. Anche gli incroci danno ottime carni, perché la razza pura non è scritto sia per forza la migliore. Lo scopo è prendere il meglio da tutte e farle adattare perfettamente all’ambiente. Ed il taglio? L’arte del taglio è di assoluta importanza! Non esiste niente di meccanico, ci sono regole ben precise e sono fondamentali. Qui entra in gioco la sperimentazione, ma anche la creatività è rilevante in quanto ognuno deve sviluppare il proprio stile personale. Per sviluppare un proprio stile è necessario comprare animali interi e sperimentare le tecniche su di loro fisicamente, in quanto il taglio perfetto

OSTERIA DEL FERROVECCHIO P.zza Dante, 22 - Forlì (FC) Tel. 339 6849035

ZIO BIO 100% NATURA Ristorantino Vegetariano e Vegano P.zza Dante, 15 - Forlì (FC) Tel. 339 6849035

non lo si studia sui libri. In Italia ci sono molti obblighi sul taglio che in altre nazioni non esistono. Per esempio, il dorso lombare in Italia si taglia in quattro parti: la costata, la fiorentina, il filetto e la lonza. Nelle macellerie-boutique francesi, dalla stessa parte dell’animale si ricavano dai 20 ai 25 tagli diversi.

Come giudichi l’arte macellaria italiana? È un’ottima scuola, ma sta perdendo la cultura della tradizione del taglio povero come ad esempio le code del bovino, le parti meno pregiate come il diaframma; anche la parte della costola non si utilizza più. Mi piacerebbe che il consumatore di carne riscoprisse tagli oramai dimenticati perché sono più saporiti e gustosi rispetto alle parti considerate più pregiate. Dobbiamo tornare agli antichi sapori, ricominciare ad avvicinarci a parti come le interiora, il budello, il fegato, la milza, il rognone, la lingua, l’ossobuco, la guancia. Il segreto per un’ottima cottura della carne? Una cottura veloce a fiamma non molto aggressiva. La “sigillatura” è molto importante perché racchiude dentro un pezzo di carne tutti i succhi senza disperderli.

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PECK CITYLIFE

IL NUOVO CAPITOLO DI UNA LUNGA STORIA D’AMORE PER IL CIBO foto di

Santi Caleca - photo courtesy Peck

Peck rinnova e amplia la propria relazione con il pubblico milanese, inaugurando il nuovo spazio in CityLife: gastronomia, ristorante, enoteca, cocktail bar. Il tempio dell’alta gastronomia, a Milano dal 1883, porta nella nuova città verticale - sotto le torri progettate dalle archistar internazionali - tutti i sapori, i profumi e il savoir faire che ne fanno il riferimento per i cibi di alta qualità. Per la prima volta Peck esce dalla Milano storica per arrivare in CityLife Shopping District, il più grande distretto commerciale urbano d’Italia, facendosi ponte verso la città che sale. Il nuovo Peck sorge in un padiglione di 300 mq dalle forme organiche, posto in Piazza Tre Torri. Progettato dallo studio Vudafieri-Saverino Partners, Peck CityLife inaugura anche una nuova formula di ristorazione che ha come tema il mangiare in gastronomia. Il nuovo ristorante - 50 coperti, con due carte diverse per pranzo e cena - propone una serie disignature dishes come la costata di manzo, il risotto giallo con ossobuco, la costoletta alla milanese, e piatti speciali come il lesso, la cassoeula, le carni allo spiedo o il marbré.

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Merita una menzione speciale la formula degli antipasti: concepiti per la condivisione, consentono di esplorare i must della gastronomia di Peck, come l’insalata russa, il paté, i gamberi in salsa cocktail, il vitello tonnato. Il ristorante in gastronomia permette inoltre all’ospite di ordinare fuori carta tutto ciò che è esposto al grande bancone di ingresso. L’enoteca mette in scena una collezione di 150 etichette tra vini e distillati, disposti teatralmente su un’importante parete. La punta dell’iceberg rispetto alle oltre 3 mila etichette - sempre disponibili su ordinazione - che hanno reso il negozio di Via Spadari la migliore enoteca d’Italia. Nelle parole di Leone Marzotto - la cui famiglia ha rilevato il marchio nel 2013 e che dal 2016 è AD - Peck è tante cose: “Un’istituzione milanese, un negozio storico che si sta diffondendo a Milano con l’apertura di negozi-figli, un’autorità in fatto di conoscenza del prodotto, un insieme di persone accomunate da competenze, valori e dalla passione per quello che fanno. L’apertura di Peck in CityLife Shopping District è doppiamente storica: non solo

PECK CITYLIFE

Piazza Tre Torri - 20145 Milano Tel 02 3664 2660

www.peck.it - peck.citylife@peck.it

è la prima volta che Peck apre a Milano fuori dal proprio quartiere, ma questo negozio è anche il primo dei nuovi Peck. La sfida è portare la nostra altissima idea di qualità, di servizio e la nostra passione a contatto con pubblici nuovi: con innovazioni destinate a durare nel tempo, e senza inseguire trend o mode passeggere.” L’enoteca sarà anche teatro di incontri. L’ultima sorpresa di questa nuova apertura è il banco della cocktail station. Decorato da piastrelle dipinte a mano con un disegno ricavato da una fotografia storica del Peck anni ‘50, propone una carta di cocktail che interpretano sia la storia di Peck sia la contemporaneità.

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GOLAVAGANDO

NEL PISANO

L’ALTA VALDERA PROPONE UN PANIERE RICCO DI PROFUMI E SAPORI D’ANTAN di

Giorgia Giuliano

L’Alta Valdera è quella porzione di Toscana che va servita calda e abbondante, tonda come un cucchiaio da minestra e carica di colore come una cesta di verdure. Tra gli alberi e le colline ci si sente già come a tavola perché all’aperto c’è un sapore così buono che mancherebbe solo un piatto da riempire. Il paesaggio dell’Alta Valdera è il tessuto di una tovaglia stesa per tutti quei prodotti che nascono semplici e che sono più genuini quando escono da una cucina: nei ristoranti del posto c’è compostezza e cura ma nessuna caccia all’abbinamento perfetto poiché questa è una cucina che esprime, non ostenta. A Lajatico, Chianni e Peccioli viene servito il gusto puro delle verdure appena raccolte o della carne di una Chianina ben nutrita. Comuni di cui non si parla spesso, ma vicini alle città più chiacchierate: a 25 Km da Pisa, non lontani da Firenze e nemmeno da Siena si trovano tre piccoli paesini ricchi di natura e di risorse, di gente che lascia raccontare alle proprie mani la Toscana che nessuno si aspetta di trovare. E provare.

OFFICINE BOCELLI FOOD COURT

Strada Provinciale per Lajatico, 45 Traversa A, 10 - 56030 La Sterza (PI) La portata principale del ristorante Officine Bocelli è l’arte servita al piatto, versata al calice e diffusa come musica di sottofondo a un pasto: Lajatico è infatti la città natale del cantante Andrea Bocelli e a gestire il ristorante è la sua famiglia che - peraltro - produce vino da ben 6 generazioni vantando un notevole numero di etichette tra i corposi rossi toscani e i delicati bianchi e rosé. Tra i migliori spicca il Poggioncino rosso di Toscana IGT - blend di più uve tra cui Sangiovese e Cabernet Sauvignon, perfetto con i piatti più determinati e con quelli a base di funghi. A distinguersi tra i bianchi è il Vermentino di Toscana IGT, un sorso fresco da alternare alla carnosità del

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VALDERA

tonno. O del polpo: Officine Bocelli ha il suo affaccio sul mare grazie a un menu diversificato dove c’è spazio anche per qualche onda, come i più classici spaghetti di mare al polpo laccato al miele con cipollotti e melograno. L’eleganza di non eccedere è propria dello chef Matteo Cristiani, professionista dal tocco moderno, abile nel rendere nuovi i sapori più tradizionali, cocciuti, dal carattere forte: la battuta di carne toscana con le scaglie di tartufo e la famosa tagliata con le patate al timo che arriva a tavola come un attore in scena, mentre ancora cuoce e fuma di autentico. La mise en place è elegante ed essenziale perché qui la sostanza sta tutta nei taglieri di salumi, formaggi, mostarde e verdure stagionali: è la Toscana dei boschi, dei terreni fertili e dei dettagli goderecci. Un menu deciso ma che genera indecisione perché quando arriva il momento di ordinare si vorrebbe provare ogni piatto in carta. Il ristorante Officine Bocelli suona insomma la sua musica e compone la sua melodia, ma è una melodia senza note, fatta piuttosto di materie prime locali e di qualità elevata.

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LE VECCHIE CANTINE Via Farini, 14 56034 Chianni (PI)

C’era una volta, a Chianni, un vecchio granaio che custodiva cereali e vino. Ad oggi nello stesso posto si cerca di custodire il gesto più semplice di tutti: quello di spalmare un formaggio morbido su una fetta di pane fatto in casa. Il ristorante Le Vecchie Cantine rappresenta un salto indietro nel tempo e un passo in avanti verso il buon gusto: la location è rustica con il soffitto a volte e i mattoni antichi, gli spazi ampi, i tavoli conviviali già solo a guardarli. È consigliabile iniziare con uno dei crostoni in carta tra confetture di fichi, funghi porcini e lardo di Colonnata: a ognuno il suo, ma anche tutti, purché condivisi. Da Le Vecchie Cantine c’è la Toscana dei pici (zafferano e pecorino), del ragù di cinta senese, delle pappardelle al cinghiale, del tartufo nero e delle zuppe (la ribollita). Dietro ogni piatto ci sono la ricetta di una volta e i segreti per prepararla al meglio. La scelta delle ceramiche e dei taglieri in legno supporta la semplicità delle pietanze che dalla cucina arrivano in sala abbondanti e generose, creando una sorta di rapporto fiducioso tra gli ospiti seduti a tavola e il ristorante stesso.

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VALDERA

Se il posto vale una visita, la carne qui vale almeno un ordine, specie se accompagnata da un tocco di tartufo: è il caso della tartara di Chianina o del filetto o della fiorentina. La Toscana qui si riconosce anche senza esserci mai stati prima perché è proprio la Toscana che tutti raccontano, quella della cucina sincera e dei piatti tipici che avranno sempre lo stesso sapore identitario. Quasi una trattoria, Le Vecchie Cantine è più che mai il ristorante dei legumi, degli ortaggi, dei salumi e della pasta fresca. È il posto dove anche una fetta di crostata fatta in casa è capace di consentire un nostalgico salto indietro nel tempo.

PASTICCERIA FERRETTI Via Carraia, 1 - 56037 Peccioli (PI)

Nelle ricette di un dolce c’è quasi sempre un pizzico di sale. Ed è forse in virtù di questo che esiste a Peccioli una pasticceria il cui bancone di frolle, pasta choux e pan di spagna evolve in un ristorante. Un percorso bigusto, una specie di sollievo perché questa è l’occasione giusta per fermarsi più a lungo e per potersi incuriosire. Un menu che gioca sul sale, che sa di mare, di aperta campagna ma anche di posti veramente tanto lontani. Da Pasticceria Ferretti, Lorella e Andrea Donati il sushi toscano non lo servono mica con le bacchette: paradossalmente, in questo piatto l’identità del territorio è forte più che in tutte le altre proposte locali. I maki di zucchina abbracciano i tre pilastri della cucina toscana che, rivisitati, diventano un ripieno che esplode di gusto e tradizione: ribollita, pappa al pomodoro e variante al formaggio. Tre versioni nipponiche della Toscana che un tempo si serviva povera e in una ciotola capiente.

Dietro i piatti di Pasticceria Ferretti ci sono le mani eclettiche di un cuoco e pasticcere che è un po’ anche scenografo, data la cura e i perfetti incastri di ogni impiattamento: i sassi di fiume diventano base d’appoggio per due vol au vent di sfoglia il cui cuore allo stracchino è un vero conforto, mantenuto tiepido grazie alla pietra calda. Al centro, una tartare di carne bovina con formaggio e pere. È così che si presenta l’antipasto Sassi d’Era, un inizio da contemplare come anche il Bosco delle Serre: spuma di patate, porcini e tartufo rappresentano quel pezzo di natura che si può mangiare ed esperire proprio come si stesse facendo una passeggiata tra i sentieri. Le proposte in carta divertono e la fantasia di chi è seduto a tavola diven-

ta parte - o meglio ancora - ingrediente del piatto: le ricciarelle al ragù di Chianina arrivano come fossero latte e biscotti perché il ragù è in tazza e la pasta è disposta accanto pronta a essere condita. Lo spaghetto alle chiocciole di Valdera è invece una pietanza fortemente identitaria e non è forse un caso che questo primo piatto di terra sappia innanzitutto di territorio. Tra i secondi Pasticceria Ferretti propone il filetto di maiale con i gamberi e il cavolo nero; il manzo in tre vesti - tagliata, filetto o bistecca, una golosissima negazione che prende il nome di Fritto non fritto o il polpo adagiato su uno scoglio. La rarità di posti come Pasticceria Ferretti la si comprende con creazioni esemplari come il tonno del Chianti: camouflage gastronomico. I filetti di maiale sono lavorati in modo da risultare tenerissimi e vengono poi lasciati riposare sotto l’olio extravergine di oliva. Alla vista sembra tonno, ma nei fatti è carne di suino da servire fredda o tiepida, ancora più gustosa se accompagnata da un purè di legumi. Da Pasticceria Ferretti i dolci sono di casa e sono tutti impeccabili, dai semifreddi ai cantucci classici o colorati con l’Alchermes, il cui colore s’intona al gelato al melograno di produzione propria. Frutta fresca e secca valgono come pietre preziose all’interno della vasta selezione di biscotti e mignon preparati con grande tecnica ed esperienza. È questa insomma la Valdera dell’alta qualità. Alta più delle sue colline.

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LA FUCINA DI VULCANO

ARTE, CULTURA E CIBO: A MILANO ARRIVA

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IL RISTORANTE-CAFFETTERIA-LIBRERIA ALL’INTERNO DEL MUSEO DI INTESA SAN PAOLO Giorgia Giuliano Maria Chiara Zucchi

di e

IL FORMAT Duettano sulla Piazza del Teatro alla Scala il Museo Gallerie d’Italia e la terza insegna di Aimo e Nadia, dopo Il Luogo e BistRo: VÒCE è aperto tutti i giorni già a partire da quando Milano si sveglia, con la caffetteria che celebra la colazione all’italiana e i pranzi veloci a base di insalate, piatti stagionali, focacce e panini farciti con mate-

LA CULTURA DEL CIBO Nella foto, da sinistra, Fabio Pisani, Stefania Moroni e Alessandro Negrini. Dichiara Stefania, figlia di Aimo e Nadia Moroni: “Siamo entusiasti e orgogliosi di essere parte integrante di un progetto unico e ambizioso in cui cibo, cultura e arte si intrecciano tra di loro. A conferma della forte sensibilità al mondo dell’arte che ci contradistingue da sempre”.

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VÒCE

UNA STORIA NELLA STORIA Aimo e Nadia Moroni, un duo storico diventato, in oltre 50 anni, sinonimo di una proposta culinaria unica basata su una visione della cucina italiana contemporanea che è, a oggi, un metodo e che prosegue con Alessandro Negrini e Fabio Pisani, chef e patron dell’attività insieme a Stefania Moroni. Un esempio del saper fare impresa italiano nell’ambito della ristorazione e dell’accoglienza. Il nome “Aimo e Nadia” non è associato unicamente a Il Luogo ma, più in generale, alla capacità di declinare i propri principi e valori in offerte culinarie differenziate. Due le insegne a Milano, diverse per proposta gastronomica e tipologia di servizio - il BistRo, inaugurato ad aprile 2018, e VÒCE - oltre ad un’attività di catering e servizi dedicati, sempre nel solco dell’italianità e della qualità.

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LA FUCINA DI VULCANO

rie prime scelte e di qualità. L’idea degli chef Alessandro Negrini e Fabio Pisani – simili a due gemelli eterozigoti tanto è forte la loro intesa nelle parole e nei gusti – è di recuperare la vecchia e saporita tavola fredda milanese, quella dell’uovo alla coque con il pane in cassetta: in un momento gastronomico fatto principalmente di sorpassi, il vero progresso sta nel fare un passo indietro. Valorizzazione del territorio e cura dei rapporti con i fornitori sono l’acqua e la farina: ingredienti indispensabili, gli stessi utilizzati nelle cucine de Il Luogo di Aimo e Nadia; la figlia Stefania Moroni rappresenta oggi la continuità di un progetto e di un sogno che i suoi genitori hanno iniziato 50 anni fa e che ora qui amalgama cibo, arte e cultura. Il nuovo spazio concepito dal famoso architetto Michele De Lucchi è l’habitat di un patrimonio di oltre 30.000 opere di proprietà Banca Intesa San Paolo: grazie a VÒCE queste adesso hanno anche profumo e sapore in quanto l’area ristorante riserverà ogni volta un menu dedicato

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VÒCE

RISOTTO (GRAN RISERVA CARNAROLI) barbabietola, burrata, limone di Amalfi

Si tratta di un risotto a base di olio extravergine di oliva, senza l’impiego di burro. Il piatto, dal gusto tipicamente italiano, è adatto anche per coloro che seguono una dieta vegetariana. INGREDIENTI

PROCEDIMENTO

burrata

capperi e limone della Costie-

riso Gran Riserva Carnaroli limone di Amalfi capperi

barbabietola

olio extravergine d’oliva sale

Mantecare il riso con burrata, ra Amalfitana. Aggiungere poi la barbabietola cotta e disidrata in

forno così da dare impatto visivo al piatto.

alle mostre ospitate a Gallerie d’Italia, in affiancamento alle proposte del Menu VÒCE, esso stesso una galleria d’arte gastronomica, che valorizza materie prime eccellenti, territorio, italianità e stagionalità. Piccoli e grandi produttori della Penisola rendono interessante anche la Carta dei Vini. Caffetteria, Ristorante e Libreria sono dunque una VÒCE polifunzionale perfettamente integrata al Museo, su cui affacciano scenograficamente, quasi fosse una quinta teatrale, le ampie vetrate della sala da pranzo: spettacolo artistico e spettacolo gastronomico in sincronica interazione.

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LA FUCINA DI VULCANO

L’OFFERTA GASTRONOMICA Quali sono i tratti distintivi della cucina di Vòce? Pisani: L’offerta gastronomica di Vòce è un’estensione dell’eccellenza culturale e artistica presente nel Museo; un dialogo continuo tra noi e l’area museale per offrire esperienze di valore legate alla grandezza della cucina italiana. I nostri sono quindi piatti riconoscibili, spesso con una forte identità milanese. La filosofia di cucina parte dalle materie prime di cui recuperiamo storia, profumi e sapori, filtrati attraverso la nostra esperienza di lavoro. Come si traduce l’interazione visiva con il cliente? Cosa può percepire della vostra cucina stando a tavola? Pisani: La nostra cucina ha un’anima e il nostro cliente la percepisce nella presentazione e nel gusto, in cui può ritrovare quella ricerca minuziosa che ci contraddistingue. Negrini: Arrivare in una piazza così prestigiosa come quella della Scala rappresenta per noi un posizionamento culturale che sublima il tipo di rapporto che Aimo ha sempre avuto con il cibo. Non dimentichiamo che chi esce dalla visita a quello straordinario complesso museale che è Gallerie d’Italia in cui siamo inseriti, lo fa attraversando materialmente

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la caffetteria. Il nostro, quindi, non è un turista qualunque, ma una persona già sensibile al bello e al buono che noi possiamo proporre. Voi vi collocate, dal punto di vista toponomastico, in una zona della città che ospita alcune eccellenze nel panorama dell’alta ristorazione. Come vi rapportate con questa realtà? Negrini: La forza gastronomica di una città sta proprio in questo; impariamo dalla moda che ci rappresenta nel mondo: marchi prestigiosi convivono con altri marchi prestigiosi perché l’unione fa la forza. Quando un’insegna come quella di Aimo e Nadia - con tutto il suo carattere identitario - si affianca ad altre realtà importanti, non può far altro che rafforzarle e rafforzarsi. In ogni caso...


VÒCE

LA CUCINA SU MISURA

foto di

Pasquale Spinelli

Quali sono i punti di forza di questo impianto tecnologico? Negrini: Lavorare all’interno di questa sorta di acquario - come l’ha definito l’architetto De Lucchi - garantisce la trasparenza del nostro progetto. Noi vediamo il cliente e possiamo valutare le sue reazioni, lui vede noi fin dall’arrivo in cucina della sua stessa comanda: definirei la nostra come una cabina di controllo e di operatività a tutto tondo, con postazioni di lavoro ergonomiche, per ottimizzare i tempi di lavoro. Le cucine, un tempo standard, vengono oggi modulate in base alle esigenze dello chef e del suo progetto gastronomico. Voi in base a quali parametri avete impostato la cucina di Vòce? Pisani: Volevamo una cucina funzionale che esprimesse il nostro modo di cucinare, ma l’ambiente importante in cui comunque ci collocavamo imponeva alcuni limiti nelle scelte stesse. Ecco dunque che il lavoro di squadra tra l’architetto e i professionisti di Electrolux che ci hanno affiancato in ogni fase, ha risolto brillantemente i problemi fornendo soluzioni ottimali. L’impianto di aspirazione, per esempio, poteva risultare invasivo in un palazzo del ‘400, come questo. I tecnici l’hanno risolto creando una sorta di nuvola staccata dal soffitto e sospesa sulla Molteni dove contemporaneamente lavorano più cuochi: i fumi vengono aspirati perfettamente da ogni zona così che in sala non si sentano odori; i vetri che ci separano dai clienti non sono mai appannati. La tecnologia ci ha permesso di avere la migliore cucina al servizio del nostro pensiero e del nostro modo di operare. Una cucina cucita addosso a noi.

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FUCINA DI VULCANO

LE CARATTERISTICHE TECNICHE Isola di cottura Molteni Caractère, l’ultimo gioiello di quello che è diventato il simbolo indiscusso della tradizione culinaria più ricercata: Molteni. Il top e i fianchi dei lati corti non sono in acciaio ma in DECOR, un materiale che nasce dalla tecnologia e che riproduce quello che la natura crea in un lunghissimo tempo. Il materiale moderno, consente molteplici finiture e mantiene la bellezza estetica della pietra naturale. Caractère si è appena aggiudicata il GOOD DESIGN® Awards, uno dei più prestigiosi e riconosciuti premi di design a livello internazionale, assegnato annualmente dal Chicago Athenaeum Museum di Architecture and Design. Colonna Cook&Chill di Electrolux Grand Cuisine: una gamma extra lusso, il primo sistema di cottura professionale riservato ai progetti più esclusivi. Per il suo design e prestazioni risulta essere perfetto per ristoranti con pochi coperti e con cucina a vista, dove l’apparecchiatura non è solo strumento di lavoro ma anche complemento d’arredo. Tutta la zona preparazione è stata realizzata su misura assecondando le richieste del cliente. Piani unici con top in acciaio dall’elevato spessore con finitura Wirbel steel superiormente e lucida sui bordi. Il tutto coordinato nell’estetica con il blocco cottura Caractère (i pomelli quadrati della Caractère li ritroviamo anche sugli sportelli/cassetti della preparazione). Soffitto aspirante con illuminazione a led altamente efficiente e potente, incredibilmente silenzioso e dai bassi consumi energetici.

Un sogno che diventa realtà. www.molteni.com Tel. 3440641987

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VÒCE

Piazza della Scala, 6 20121 Milano

Tel. 02 4070 1935

www.aimoenadia.com info@aimoenadia.com

Avete scelto una Molteni Caractère e non una Molteni tradizionale. Perché? Pisani: Perché noi siamo contemporanei e innovativi, quindi la Molteni Caractère, forte di una storia prestigiosa, ma più attuale - rappresenta per noi quel glorioso passato, ma anche il presente e il futuro. Noi vogliamo essere proprio questo: il nostro passato culturale, la rappresentazione del presente e la proiezione sul futuro.



INTERVISTA A...

VITANTONIO

LOMBARDO IL PRIMO CHEF STELLATO A MATERA di

Lucy Gordan Marco Varoli

foto di

Una novità per Matera - la città dei “sassi” e la capitale europea della cultura 2019 - quest’anno è l’assegnazione della sua prima stella Michelin al Ristorante Vitantonio Lombardo, aperto soltanto nel giugno 2018. Durante una visita in Basilicata grazie all’ufficio ENIT newyorkese e APT della Basilicata, la nostra inviata Lucy Gordan ha contattato lo chef/proprietario omonimo.

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VITANTONIOLOMBARDO

Da cosa trae origine e come si è sviluppato il suo amore per la cucina? Come tanti che scelgono questo lavoro, sono partito facendo l’alberghiero e poi le prime esperienze professionali. Ricordo la mia prima volta in cucina: avevo 17 anni e chiesi se era possibile fare degli extra per imparare. Mi misero a lavare le padelle. Da lì tanti ristoranti per poi finire alla corte di grandi maestri quali Silver Succi, Paolo Teverini, Fabio Barbaglini, Gianfranco Vissani e Davide Scabin. E viaggi all’estero (Francia, Spagna e America) per conoscerne altri. Per crescere bisogna anche “evadere” e nel mio percorso l’ho fatto più volte per avere un raggio più ampio di vedute. Silver Succi, Paolo Teverini, Gianfranco Vissani, Fabio Barbaglini e Davide Scabin. Che cosa ha imparato da ciascuno di loro? Da Silver Succi il rispetto della materia prima; da Gianfranco Vissani, la conoscenza del territorio; da Fabio Barbagliani le tecniche di cottura e da Davide Scabin la creatività. Cosa conserva del suo amico “Frank” Rizzuti, il primo chef stellato lucano premiato per il suo ristorante a Potenza, ma scomparso pochi mesi dopo l’assegnazione? L’insegnamento che mi ha lasciato l’amico “Frank” è un monito che vale per tutti: in ogni momento della vita e fino all’ultimo giorno non bisogna mai smettere di credere nei propri sogni, perché vederli realizzare ripagherà per sempre te e chi crede in te. Le qualità essenziali per essere top chef? A tutti passerei il mio motto: cuore, testa, pancia. Come si chiamava il suo primo ristorante stellato e com’era diverso da “Vitantonio Lombardo”? Era la Locanda Severino: ho aspettato il giusto momento per aprire il mio “Vitanto-

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INTERVISTA A...

GUANCIA DI MANZO AL CUCCHIAIO in salsa d’amaro Lucano con zucca, cruschi e caldarroste INGREDIENTI per 4 persone

PREPARAZIONE

grammi cadauno, mettendo da parte gli

2 guance di circa g. 300 cadauna

almeno un’ora, quindi cuocerle dopo

Cuocere la zucca a fette in forno a 180°C

Per la guancia

ml. 300 di vino rosso g. 100 di carote

g. 100 di sedano g. 50 di cipolla

1 rametto di rosmarino 2 foglie di salvia

1 foglia di alloro

ml. 300 di brodo vegetale ml. 100 di amaro lucano sale e pepe q.b. Per la zucca

g. 400 di zucca g. 70 di burro

g. 10 di salvia

sale e pepe q.b. Per la finitura

g. 30 di peperoni cruschi 4 caldarroste

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Salare le guance e lasciarle marinare per averle messe sottovuoto con il vino Aglia-

nico per 36 ore nel Roner a 82°C. Quando le guance saranno pronte, preparare con sedano, carote e cipolle una mirepois e soffriggerla nell’olio con le spezie.

Aprire le buste delle guance e sfumare

la mirepois con la salsa ottenuta dalle guance.

Aggiungere il brodo vegetale e far cuocere per circa 35 minuti.

Filtrare, aggiungere l’amaro Lucano e legare. Aggiustare di sale e pepe. Intanto

ricavare dalle guance dei cubi di circa 70

scarti per altre preparazioni.

per 30 minuti; intanto soffriggere nel burro la salvia.

Togliere la zucca dal forno, spolparla e

aggiungere al fondo precedentemente preparato dopo aver tolto le foglie di

salvia. Cuocere per altri 20 minuti ed aggiustare di sale e pepe.

Passare il tutto nel cutter ad almeno 3000

giri. Rigenerare le guance nella salsa ottenuta, stando attenti a non superare i

70°C; accompagnare con la zucca, le caldarroste e i cruschi.

Servire con il cucchiaio.


VITANTONIOLOMBARDO

nio Lombardo Ristorante”. Rappresenta la mia terra, la mia cucina, senza se e senza ma. L’aspetto del suo lavoro che ama di più? La diversità vissuta in ogni istante, dovuta al mutare delle stagioni e dei prodotti, al contatto con la gente... è una sfida continua che ti sprona a fare sempre meglio.

Altri chef che ammira? Sono tanti gli chef che ammiro, ma sicuramente non dimenticherò mai il mio pranzo da Pierre Gagnaire… un mito! Da dove deriva il suo nome composto? Da noi al sud si tiene ancora tanto alle tradizioni e il mio nome è nient’altro che l’unione dei nomi dei miei nonni Vito ed Antonio, tutto attaccato per non creare preferenze!

Di meno? Il poco tempo che riesco a dedicare alla mia famiglia.

Quali sono i suoi piatti preferiti? La pasta al pomodoro.

Come definerebbe la sua cucina? MIA!!!

I suoi vini preferiti? Le bollicine.

Le sue specialtà? Non voglio avere delle specialità, perché significherebbe attribuire minor valore ad alcuni piatti rispetto ad altri; cerchiamo di dare il massimo in tutto quello che facciamo. Poi, ovviamente, sono i clienti a sposare un gusto invece che un altro.

Un piatto che non le piace? Il sanguinaccio…purtroppo!!! Un suo sogno nel cassetto? Prendere la seconda stella ed entrare nella Fifty Best. Se dobbiamo sognare, facciamolo bene!!!

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INTERVISTA A...

MURGIA VISTA DRONE fave, cicoria, ostrica e mela verde INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

g. di fave decorticate, 1 spicchio d’aglio,

con l’olio, lo spicchio d’aglio in camicia, l’alloro ed il lardo. Togliere l’aglio, aggiungere le

Per le fave

g. 30 di lardo, g. 30 di olio EVO, acqua a copertura, 1 foglia di alloro, sale e pepe bianco q.b.

Per la cicoria

g. 200 di cicoria selvatica, g. 30 di olio EVO, sale e pepe bianco q.b.

Per la granita di mela verde

g. 100 di purea di mela verde, g. 100 di

Per le fave: mettere a bagno le fave la sera prima. Preparare il fondo partendo a freddo

fave, coprire con acqua e portare in cottura. Cuocere per 30 minuti. Passare al blender ed aggiustare di sale e pepe.

Per la cicoria: pulire la cicoria, sbollentarla per 7 minuti e raffreddarla in acqua e ghiaccio. Ripassare in padella con olio e aggiustare di sale e pepe.

Per la granita di mela verde: mischiare tutti gli ingredienti in una placca e congelare a -18°C per 3 ore. Raschiare e tenere da parte.

Per l’ostrica: pulire le ostriche e metterle da parte. Mescolare la manitoba con l’acqua a 3°C, ottenendo una pastella. Ripassare le ostriche nella pastella e friggere a 170°C per 1 minuto.

acqua oligominerale, g. 20 di limone.

COMPOSIZIONE DEL PIATTO

Per l’ostrica

ed ultimare con la granita di mela verde.

4 ostriche Regal (Irlanda), g. 100 di acqua

Disporre alla base la purea di fave, al centro la cicoria ripassata, su di essa l’ostrica fritta

oligominerale, g. 50 di farina Manitoba, l. 0,5 di olio di arachidi per friggere.

VITANTONIO LOMBARDO RISTORANTE

Via Madonna delle Virtù, 13/14 75100 Matera

Tel. +39 0835 335475 www.vlristorante.it info@vlristorante.it

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Giovani talenti

VALENTINO

PALMISANO

UNA STELLA E UN CUORE NAPOLETANO IN UMBRIA di

Antonietta Mazzeo foto di Niko Boi

Son passati poco più di due anni da quando Palazzo Seneca ha riaperto per primo le porte, sfidando le enormi difficoltà provocate dagli eventi sismici che hanno coinvolto il centro Italia a partire dal 30 ottobre 2016. Nel cuore artistico di Norcia, a pochi passi dalla piazza principale di San Benedetto, tra il Castello del Vignola e il convento di San Francesco, si erge un palazzo nobile del 1500, strutture tra le più esclusive e prestigiose dell’Umbria: è il Relais & Châteaux Palazzo Seneca, incoronato dal Telegraph inglese fra le dieci migliori mete d’Europa. L’abile restauro, la ricerca di materiali ed oggetti unici, insieme alle mani dei più noti artigiani umbri, fanno di Palazzo Seneca una destinazione affascinante ed unica. Considerata altamente sicura sotto il profilo antisismico, la struttura ha superato tutti i controlli effettuati dai tecnici della Protezione civile e da un team specializzato di ingegneri e periti tecnici. Splendida testimonianza di una storia imprenditoriale capace di narrare il legame fra cultura e onore per le proprie radici, simbolo della ripartenza post-sisma, Palazzo Seneca raffigura l’anima di una terra che non si piega e che guarda lontano. La fusione tra design e tradizione, semplicità e qualità, sono il segreto di questo elegante progetto voluto e realizzato da Vincenzo e Federico Bianconi, l’ultima generazione di una famiglia che fa ospitalità e ristorazione in Italia dal 1850.

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VALENTINOPALMISANO

MAIALINO UMBRO glassato e croccante

Vespasia il ristorante di Palazzo Seneca - insignito della prestigiosa Stella Michelin, tributo a questa terra ed alle sue immense ricchezze gastronomiche - racconta di tradizioni e saperi antichi, oggi arricchiti con stile contemporaneo dalla sensibilità dello chef Valentino Palmisano. A lui, classe 1980, da Pianura, prima periferia di Napoli, è stata affidata la guida del “risorto” ristorante Vespaia. A lui il compito di confermarlo come l’unica (assieme a Casa Vissani) eccellenza assoluta nel panorama gourmet umbro. Cresciuto professionalmente tra Sant’Agata sui due Golfi, Ravello e Capri, inizia giovanissimo a fare il lavapiatti nel ristorante La Sagrestia di Napoli, mentre contemporaneamente conclude gli studi all’istituto alberghiero. Da quel momento realizza un percorso che lo porta tra il Don Alfonso, il Rossellini’s e l’Olivo del Capri Palace al fianco di maestri come Alfonso Iaccarino, Pino Lavarra, Oliver Glowig. La sua conoscenza della cucina italiana si completa da nord a sud con le esperienze al Castello del Nero a Tavernella Val di Pesa, in Toscana, e presso l’Arquade a San Pietro in Cariano in provincia di Verona con Bruno Barbieri. Trasferitosi in Asia per amore quando la moglie, che studiava cinese a Napoli, riceve una proposta di lavoro a Shangai, qui Valentino trova la sua strada, tanto da approdare al Ritz Carlton di Kyoto, una delle strutture alberghiere più esclusive del Giappone. Talento e passione senza compromessi: i suoi principi si basano sulla semplicità nel piatto e sulla stagionalità, all’insegna della genuinità e del gusto. Il prodotto è selezionato in funzione dell’obiet tivo, il valore dell’ingrediente è di conseguenza funzionale alla suggestione che il piatto deve emanare. I prodotti sono perciò a “chilometro vero”, selezio-

INGREDIENTI

spalle; cuocere insieme alle pance per lo

Per la purea di mele: mele Annurche,

Per la purea di mele: privare le mele del-

maialino, salamoia o sale marino. aceto di mele, zucchero, acqua.

Per lo scalogno caramellato: scalogno,

acqua, aceto di mele, zucchero, cannella, alloro, chiodi di garofano.

Per la salsa al sagrantino: sagrantino passito, fondo di maiale, limone, citronella, alga Kombu, zenzero, maggiorana. PROCEDIMENTO

Per il maialino glassato: separare le spalle, le cosce e la pancia; disossare tutte le

componenti e salarle con salamoia o sale marino. Avvolgere la pancia del maialino

cercando di formare una porchetta; metterla sottovuoto e cuocerla per 26 ore a 68°C nel Roner. Rosolare le ossa del maialino in forno fino ad ottenere un colore

bruno nelle parti dove saranno rimasti dei residui di carne. Spostare le ossa in

un tegame e aggiungere acqua a coprire; far sobbollire fino a quando i liquidi si saranno ridotti del 70%; filtrare e tenere da

parte. In un tegame mettere il sagrantino e la buccia dei limoni con l’alga Kombu,

la citronella, lo zenzero, la maggiorana e far ridurre fino all’80%, poi aggiungere il fondo di maiale e ridurre ancora del 30%;

filtrare. Dividere la metà della salsa nei sacchetti dove metteremo le cosce e le

stesso tempo e alla stessa temperatura.

la buccia e dei semi e mescolare insieme

a tutti gli altri ingredienti. Cuocere fino a

quando tutta la parte liquida non si sarà esaurita. Frullare il composto e ripassarlo

in pentola fino a quando la purea non avrà acquisito un colore brunito.

Per lo scalogno caramellato: pulire gli

scalogni lasciandoli comunque intatti; unire tutti gli ingredienti e cuocerli insieme a fiamma bassa fino a quando gli scalogni

non saranno caramellati. Per completare il maialino, una volta eseguita la prima cottura di 26 ore, andrà tolto dai sacchetti sottovuoto, conservando solo il liquido

derivato dalla cottura delle cosce e delle spalle. Far raffreddare le cosce, le spalle

e le pance separatamente. Far raffreddare anche il liquido di cottura del maiale e, una

volta freddo, separare il grasso dal liquido. Quando tutti gli ingredienti saranno pron-

ti, tagliarli nel peso desiderato. Inserire le cosce e le spalle in una vaporiera e riscal-

darle a vapore usando il liquido di cottura;

una volta calde, rimuoverle dalla vaporiera e glassarle con la salsa al sagrantino. Cuocere la pancia in forno a 200°C per circa 20/30 minuti. Una volta sfornato il tutto, comporre il piatto aggiungendo qualche verdura di stagione a piacere.

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Giovani talenti

ANGUILLA

laccata alla saba con cavolfiore e polvere di liquirizia INGREDIENTI

anguilla, olio di semi d’uva.

Per la purea di cavolfiore: cavolfiore, patate, panna, latte, burro, alloro, aneto, saba, aceto di barolo, sale marino. PROCEDIMENTO

Per l’anguilla glassata: rimuovere la pelle e le spine dell’anguilla, avvolgerla con

dello spago e metterla sottovuoto con l’olio; cuocere a 86°C per 45 minuti. Raffred-

dare l’anguilla; in un tegame mettere la saba, l’aceto e il sale; cuocere fino a ridurre

del 70%. Tagliare l’anguilla alla misura desiderata e glassarla con la salsa ottenuta dalla saba e aceto sotto una fonte di calore leggera come una salamandra.

Per la purea di cavolfiore: in un tegame mettere il latte e la panna a bollire con il cavolfiore e le patate; aggiustare di sale. Una volta cotti le patate e il cavolfiore, se-

pararli dal latte e dalla panna e frullare con il burro. Tagliare il cavolfiore rimanente

con una mandolina per creare delle lamelle e anche con un coltellino per alcune cimette che saranno poi arrostite in padella. Spolverare l’anguilla con la liquirizia e

disporre nel piatto con accanto la purea e i due tagli di cavolfiore. Finire il tutto con qualche fogliolina di aneto.

nati personalmente da Valentino tra i diversi produttori del territorio, toccando con mano gli ingredienti che entrano in cucina, dal prosciutto di Ansuini allo zafferano umbro, fino alla pasta realizzata con un monograno dei Monti Sibillini coltivato a 600 metri d’altitudine. Le preparazioni palesando una mirabile chiarezza di idee, sapori intensi e definiti, che riflettono la sua esperienza e la sua eccellente tecnica al servizio del territorio, in tal modo rappresentato e celebrato con sincerità. Il Relais & Châteaux Palazzo Seneca e il ristorante Vespasia, rappresentano dunque un atto di amore per il territorio, un gesto di coraggio, la voglia di riscatto della famiglia Bianconi, e la rinascita di una terra che ha molto da offrire.

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VALENTINOPALMISANO

MOUSSE al tartufo nero e gelato all’olio d’oliva INGREDIENTI

PROCEDIMENTO

to. Con una spatola stendere il composto

copertura 55%, g. 325 di meringa all’Italia-

licatamente la pasta di nocciola con la pate

20 minuti; far raffredare e successivamente

Per la mousse al tartufo nero: g. 500 di

na, kg. 1 di panna semimontata, g. 250 di tartufo nero.

Per la meringa all’Italiana: g. 60 di acqua, g. 200 di zucchero semolato, g. 125 di albume, g. 50 di zucchero semolato.

Cuocere sul fuoco a 121°C l’acqua e la prima parte di zucchero; arrivati a 115°C

iniziare a montare gli albumi e aggiungere

lo zucchero a poggia, quindi lo sciroppo fino a raffreddare.

Per la pate à bombe: g. 75 di acqua, g. 250 di zucchero semolato, g. 300 di tuorli.

Cuocere lo zucchero e l’acqua a 121°C e aggiungerli a filo sui tuorli, quindi raffreddare.

Per la mousse alla nocciola: g. 450 di panna semimontata, g. 125 di pasta di

nocciola, g. 250 di pate à bombe, g. 400 di cioccolato 55%.

Per il sable salato: g. 185 di burro, g. 75 di zucchero a velo, g. 5 di sale Maldon,

Per la mousse di nocciola: mescolare deà bombe e successivamente incorporare la panna con una spatolina fino ad ottenere un composto cremoso e omogeneo; di-

sporre la mousse negli appositi stampini a forma di perla e congelarli.

Per la mousse al cioccolato: tritare il tartufo nero, sciogliere il cioccolato a bagnomaria e incorporare il tartufo tritato; porta-

re il cioccolato a 24°C e incorporare prima la meringa e poi la panna semimontata.

Per la pepita di tartufo: sciogliere il restante cioccolato a bagnomaria e portar-

lo alla temperatura di 42°C; riempire gli stampi a forma di tartufo (o di qualunque

altro tipo) e colare il cioccolato in eccesso. Far raffreddare e riempire con la mousse

di tartufo e solo verso la fine inserire le

perle congelate di mousse alla nocciola, tenere in abbattitore (congelatore) finché non sarà dura e conservare in frigo.

Per il sablè: sciogliere il cioccolato e mescolarlo a tutti gli altri ingredienti fino ad

su un silpat e cuocere in forno a 180°C per sbriciolarlo con le mani fino ad ottenere una sorta di terriccio.

Per la frolla: mescolare tutti gli ingredien-

ti seguendo l’ordine delle linee nere, lavorando poco il composto fino ad ottenere

un impasto liscio; lasciar riposare in frigo almeno 24 ore. Successivamente stenderlo a 2 millimetri e tagliarlo a forma di

anello. Cuocere in forno a 170°C per circa 20 minuti.

Per il gelato: portare ad ebollizione il latte

e la panna e sciogliere gli zuccheri. Mediante l’aiuto di una bacinella con ghiaccio

raffreddare il composto e aggiungere l’olio mescolando costantemente finché il com-

posto non sarà freddo e avrà incorporato

tutto l’olio; passarlo nella mantecatrice e

conservarlo in congelatore. Una volta che tutti gli ingredienti saranno pronti, disporre

l’anello di frolla sul piatto con il sablè, una quenelle di gelato e la pepita di tartufo.

ottenere un composto morbido ma compat-

g. 75 di farina di mandorle, g. 30 di tuorli, g. 165 di farina, g. 100 di cioccolato 55%. Per il gelato all’olio d’oliva: g. 765 di latte Intero, g. 50 di latte in polvere, g. 15 di destrosio, g. 5 di neutro, g. 100 di olio Moraiolo.

Per la pasta frolla: kg. 1 di

RISTORANTE VESPASIA

g. 335 di zucchero a velo,

Via Cesare Battisti, 10 - Norcia (PG)

burro, g. 265 di zucchero,

buccia di arancia e limone

(5-5), g. 140 di tuorli, g. 100 di

uova intere, g. 2,25 di sale, kg. 1,5 di farina.

Palazzo Seneca

Tel. 0743 817434

www.vespasianorcia.com info@vespasianorcia.com

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Giovani talenti

VALENTINO PALMISANO INTERPRETA

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Giovani talenti per

MAMMOLI

al tartufo nero di Norcia INGREDIENTI per 4 persone

g. 220 di Mammoli

Divine Creazioni Surgital

g. 120 di tarufo nero di Norcia

lamelle di tartufo nero q.b. Per la salsa di salvia

g. 100 di vino bianco

g. 30 di scalogno g. 80 di salvia

g. 150 di panna liquida g. 1 di zafferano

PROCEDIMENTO

Per la salsa: ridurre il vino bianco con lo scalogno, la salvia e lo zafferano; quando il vino sarà evaporato completamente, aggiungere la panna e ridurre fino al 50%. Filtrare e tenere in caldo.

Per i Mammoli: tritare il tarufo finemente e metterlo in infusione in una padella con olio e uno spicchio d’aglio. Cuocere i Mammoli in abbondante acqua salata, scolarli e mantecarli con il tar-

tufo lontano dalla fiamma. Su un piatto disporre la salsa formando un cerchio sottile e adagiare i Mammoli un po’ distanti l’uno dall’altro. Completare il piatto con lamelle di tartufo nero.

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Giovani talenti

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Giovani talenti per

SCRIGNI CON BURRATA DI PUGLIA e canocchie

INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

Divine Creazioni

canocchie in acqua bollente per 2 minuti

g. 250 di Scrigni con burrata di Puglia g. 125 di brodo di canocchie 15 canocchie

g. 5 di succo di limone

olio extravergine d’oliva q.b. sale q.b.

Per il brodo di canocchie 1 cipolla

g. 30 di sedano g. 15 di aglio

g. 30 di gambi di prezzemolo kg. 1 di canocchie g. 2,5 di zafferano

g. 150 di vino bianco

g. 50 di Martini secco

g. 20 di concentrato di pomodoro

l. 2 di acqua di cottura delle canocchie

Per il brodo di canocchie: sbollentare le e raffreddarle in acqua fredda, filtriare l’acqua e metterla da parte.

Pulire le canocchie delicatamente senza romperle e mettere da parte tutte le loro parature che serviranno per il brodo.

Rosolare le verdure con le puliture delle

canocchie e sfumare con vino bianco e Martini secco. Una volta evaporato il vi-

no, aggiungere l’acqua di cottura dove avevamo sbollentato le canocchie; lasciare cuocere a fuoco lento per alme-

no 2 ore. Passate le 2 ore, filtrare il tutto.

Cuocere gli Scrigni con Burrata di Puglia

in abbondante acqua salata, scolarli e fi-

nire la cottura con il brodo di canocchie; aggiungere il succo di limone. Disporre gli

Scrigni distanti l’uno dall’altro adagiando le canocchie precedentemente sbollentate

e condite con olio extravergine d’oliva, sale e prezzemolo. Servire il tutto ben caldo.

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Giovani talenti

PANCIOTTI CON MELANZANA E SCAMORZA con acqua al pomodoro, pane profumato e yogurt INGREDIENTI per 4 persone

Per l’acqua di pomodoro

Per il pane profumato

e Scamorza Divine Creazioni Surgital

g. 60 di gambi di basilico

g. 10 di timo

12 Panciotti con Melanzana

g. 120 di acqua al pomodoro g. 30 di pane profumato g. 50 di yogurt bianco

olio extravergine d’oliva sale

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g. 400 di pomodori tondi g. 30 di sedano g. 20 di carote

1 spicchio d’aglio g. 400 di acqua

g. 200 di pane di almeno 3 giorni g. 10 di salvia

g. 2 di pepe nero

1 spicchio d’aglio

g. 80 di olio extravergine d’oliva


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Giovani talenti per

PROCEDIMENTO

Per l’acqua al pomodoro: tagliare tutti gli ingredienti e metterli in una pentola con l’acqua; portarli ad ebollizione, spegnere e filtrare l’acqua che verrà utilizzata per il piatto.

Per il pane aromatico: frullare tutti gli ingredienti tranne l’olio, setacciarli con un setaccio a maglia fine e rosolare la polvere di pane con l’olio in padella fino ad ottenere un colore dorato. Cuocere i Panciotti per 2 minuti e finire la cottura con l’acqua al pomodoro, aggiumgendo olio e sale; ridurre la salsa da usare come decorazione. Separare i Panciotti dalla salsa e aggiungere lo yogurt asciugato una notte in frigo e il pane profumato alle erbe. Impiattare e finire il piatto con la salsina precedentemente preparata.

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GOURMETFOOD

P RIGI val bene DUE messe! da YANNICK HALLÉNO

e da THIERRY MARX

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© Philippe Vaurès

GOURMETFOOD

LE ROI ALLÉNO

COME YANNICK HA CONQUISTATO IL MONDO di

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Alessandra Meldolesi


YANNICKHALLÉNO © Sebastien Veronese

È lo chef del momento: terzo francese ai 50 BEST (per la precisione, ventinovesimo), doppiamente tristellato a Parigi e a Courchevel, volteggia elegante per le passerelle del suo Pavillon Ledoyen, sancta sanctorum della cucina classica, improvvisamente sbalzato nel terzo millennio. Il vento in poppa al suo grembiule immacolato, gonfio come la vela di una lunga crociera, non meno arioso di una salsa al burro emulsionata a dovere. È lui, il nuovo re della gastronomia, alla testa di un impero di 16 ristoranti che spazia dal Marocco a Dubai, fino a Taipei e Hong Kong. Non era facile sbloccare la cucina francese da un arresto annoso, dovuto a una sequenza di errori e tentativi di manomissione. Alléno ci è riuscito con un PIN tutto suo, sintetico ed esatto. Le lettere sono quelle di un linguaggio codificato, padroneggiato come può riuscire solo a un madrelingua, figlio putativo e non solo di cuisiniers (i genitori che l’hanno cresciuto nei bistrot di famiglia, i professionisti presso i quali si è formato, in un mix anomalo di background popolare e catechesi presso i sacerdoti più devoti al verbo). La cifra, una ricerca tecnica instancabile, volta a perfezionare e a rendere contemporaneo il patrimonio tramandato, a conseguire il gusto puro e la quintessenza. Alléno avanza su due gambe: l’adesione ai codici e la loro trasfigurazione; la conoscenza e l’inquietudine creativa, sincronizzate nel loro scarto. Perché ogni unisono è caduta. Dal 2014 officia al Pavillon Ledoyen, dopo lunghe esperienze allo Scribe e al Meurice, sotto il vessillo della Cucina Moderna. L’ha codificata in un manifesto di 18 punti, che spaziano dalla stagionalità al fresco, dagli ingredienti di raccolta al vegetale e al formaggio. C’ è posto anche per le tecniche, su cui i comandamenti recitano: “Utensili di cottura rivoluzionari, tu utilizzerai”, ”Estrazioni per fare jus, tu metterai a

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GOURMETFOOD

FINE GELATINA DI PROSCIUTTO IBERICO mousse fermentata di pane di segale alle scaglie di olive INGREDIENTI per 4 persone

Per la mousse di pane di segale 1 pane di segale 1 l di panna

1 cartuccia di gas Olive Kalamata

Per la vinaigrette: mescolare gli ingredienti.

Per il toast: tagliare il pane a fette spesse mm. 1,5 con un’affettatrice. Disporle fra 2

placche unte di olio di oliva e cuocere a 180°C per 4 minuti.

Per la vinaigrette all’anice stellato

Per la finitura: miscelare le estrazioni e

cl. 20 di olio di oliva

30 grammi di composto per piatto e fare

cl. 20 di estratto di anice stellato cl. 20 di estratto di oliva Per il Toast Melba

1/2 pane casereccio raffermo olio di oliva

Per la finitura

cl. 18 di estratto di maiale

cl. 15 di estratto di prosciutto Jabugo

2 fogli di colla di pesce

prosciutto Jabugo PROCEDIMENTO

Per la mousse: ta-

gliare il pane a cubi

del lato di 3 centime-

tri. Metterli in infusio-

ne nella panna per 1

ora. Frullare al Thermo-

mix, passare al cinese

stamina. Versare nel sifo-

ne e caricare con 1 cartuccia. Riporre al fresco.

Disidratare le olive denocciolate

nel forno scaldato a 70°C per 3 ore. Riporle in luogo asciutto.

© Philippe Vaurès

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incorporare la gelatina ammollata. Versare rapprendere in frigorifero. Al momento del servizio estrarre i piatti 10 minuti pri-

ma, poi disporre la mousse, unire le olive e i toast. Completare con il prosciutto e la vinaigrette all’anice stellato.


YANNICKALLÉNO

© Philippe Vaurès

punto”, “Anziché fare evaporare, tu concentrerai”. Ma anche “Fermenterai, frollerai, marinerai quando sarà necessario”. Sintetizzano un opera di restauro dei pilastri della cucina francese, che li ha resi sempre più solidi e duraturi. A cominciare dalla salsa, che lo chef definisce “il verbo del piatto, senza cui il senso viene a cadere, in quanto elemento che lega le diverse componenti, conferendo loro coerenza e armonia”. A rinvigorirla è la tecnica brevettata dell’Estrazione® (da citare con il simbolo del marchio registrato), creata nel 2013: propizia il tanto atteso riscatto dopo un lungo periodo di disinteresse e di oblio, attraverso un’opera di rinnovamento che oltre al gusto considera le proprietà dietetiche e nutrizionali. Il procedimento è stato messo a punto con Bruno Goussault, direttore scientifico del Centro di Ricerca e Studio Alimentazione (CREA), in modo da concentrare e sublimare il gusto, massimizzando testura, persistenza e mineralità. Non si tratta più come in passato di evaporazione attraverso il calore, ma di elaborazioni svolte lontano dal “fuoco distruttore”, che consentono agli ingredienti di sviluppare il loro gusto puro, senza aggiunta di materia grassa. I liquidi ottenuti dal sottovuoto o da juicer vengono abbattuti, ridotti in granita e centrifugati, fino a separazione dal ghiaccio, all’occorrenza più volte. E se l’Estrazione® è il frutto della giusta cottura, seguita dalla crioconcentrazione, la salsa moderna è il derivato dell’unione di diverse Estrazioni®. Il lavoro del cuoco conquista così, a detta di Alléno, un’altra dimensione, inaugurando infinite possibilità e una nuova libertà creativa, come illustra il libro Sauces, réflexions d’un cuisinier. Il secondo pilastro oggetto di restauro è quello della fermentazione, che per Alléno è l’unica, vera voce del terroir, non più ridotto a geolocalizzazione, ma ricondotto

all’impatto del suolo e alla sua microfauna. Perché se è vero che i prodotti fermentati in cucina sono ubiqui, dal cioccolato al vino, senza essere sempre riconosciuti come tali, la fermentazione viene di solito considerata solo in virtù della conservazione. Mentre il suo spettro consente una rivelazione ulteriore, apporta energia e lunghezza d’onda, specie in sinergia con l’Estrazione®, che rivela la verità del prodotto in modo da ottenere un gusto unico e potente, rappresentativo del terroir come accade nel vino. Previo soggiorno dentro il classico vasetto di acqua e sale, si può così dimostrare che un sedano rapa raccolto nella regione parigina non ha lo stesso gusto di uno proveniente dalla Normandia. È questo il viatico verso la piena “gastronomizzazione del territorio”, secondo un altro libro, intitolato Terroirs, réflexions d’un cuisinier.

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GOURMETFOOD

© Sebastien Veronese

L’INTERVISTA I tuoi genitori gestivano bistrot nella banlieu parigina. Quanto conta questo radicamento popolare nella tua cucina? Sono cresciuto in questi locali. Vi ho contratto la passione per la cucina, e in particolare il gusto per la gastronomia francese, che è al centro del nostro lavoro sulla Cucina Moderna. Il nostro intento è infatti quello di modernizzare questo patrimonio culinario, cominciando dalle salse attraverso il processo di Estrazione®, che permette di concentrare i sapori e conferire loro testura e persistenza in bocca, per meglio sublimarli. Credo soprattutto di aver conservato l’essenza dell’ambiente generoso e conviviale dei bistrot in cui sono cresciuto , ovvero l’idea che la cucina e la ristorazione sono innanzitutto mestieri fatti di generosità e condivisione. Da dove venivano e che cucina facevano i tuoi genitori? Mio padre era originario della Bretagna e mia madre di Lozère, ma sono arrivati presto a Parigi. Nella suddivisione dei compiti, papà era al bancone e mamma ai fornelli, per preparare il piatto del giorno. La sua cucina era quella di un bistrot, locale e tradizionale; una cucina di terroir fatta di ricette semplici ma saporite, cui resto molto attaccato. La gastronomia parigina è straordinariamente ricca ed è per questo che sono fiero di aver lanciato nel 2006 l’iniziativa Terroir Parisien, impegnativo lavoro di codificazione delle ricette tradizionali e censimento dei prodotti locali dell’Île-de-France. Penso in particolare ai piccoli produttori con cui abbiamo la fortuna di lavorare al Pavillon Ledoyen, come la famiglia Berrurier che lavora con grani antichi riprodotti in prima persona, al fine di conservare le varietà autentiche, e che ci fornisce verdure straordinarie.

La tua formazione mi sembra atipica: si è svolta al fianco di grandi professionisti della cucina francese, ma al di fuori delle genealogie più conosciute. Più che grandi autori, sembrano custodi di un patrimonio collettivo. Ho avuto la fortuna di compiere il mio apprendistato al fianco

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YANNICKALLÉNO © Philippe Vaurès

SCAMPI COTTI AL NATURALE

brodo di estrazioni alla fragola e al ciliegino, petrolio di prezzemolo, julienne di asparago crudo INGREDIENTI per 10 persone

Lavare i ciliegini e frullarli. Portare a ebolli-

di olio di oliva e condire con fiore di sale.

30 scampi 10/15

Tork e mettere da parte.

Disporre in una ciotola di ghiaccio pilé

Per gli scampi

zione rapidamente, poi passare con carta

Per l’estrazione di scampi

Lavare il prezzemolo e passarlo nel Ther-

acqua 60%

olio di vinaccioli. Passare al cinese e filtrare

chele di scampi Xanthana

Per l’estrazione di fragola kg. 1 di fragile

momix per 10 minuti a 70°C. Montare con con carta Tork.

Mondare gli asparagi e realizzare una ju-

lienne da 6 centimetri con i cuori. Coprire

Fare marinare anche le punte.

oliato 2 chele, condire con olio e sale fino. Guarnire con uno spicchio di limone.

Disporre in un’altra ciotola la julienne e le

punte degli asparagi marinati, poi impiat-

tare l’emulsione di scampi. Completare con estrazione di fragola, sedano rapa, acqua di pomodoro e olio di prezzemolo.

100 g di zucchero Per l’estrazione di sedano rapa kg. 1 di sedano rapa g. 600 di acqua

Per l’acqua di pomodoro kg. 1 di pomodorini

Per l’estrazione di olio di prezzemolo kg. 1 di prezzemolo

l. 3 di olio di vinaccioli 5 asparagi verdi olio di oliva

fiore di sale sale fino 2 limoni

PROCEDIMENTO

Sgusciare gli scampi e privarli del budellino. Metterli da parte su una placca.

Spezzettare le chele e unire il 60% di ac-

qua. Cuocere sottovuoto a 83 °C per 2 ore, poi passare al cinese e filtrare con carta Tork. Legare leggermente a freddo con la Xanthana. Mondare le fragole e unire lo

zucchero. Cuocere sottovuoto a 83 °C per

2 ore, Passare al cinese e filtrare con carta Tork. Mondare il sedano rapa, spezzettarlo

e unire il 60% di acqua. Cuocere sottovuoto a 83°C per 12 ore. Passare al cinese e filtrare con carta Tork.

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GOURMETFOOD

di chef straordinari: Manuel Martinez, Jacky Fréon, Gabriel Biscay, Roland Durand, Martial Enguehard e Louis Grondard. Erano tutti MOF (Meilleurs Ouviers de France), quindi la cucina francese classica, l’eccellenza e il rigore hanno dominato i primi 25 anni della mia carriera. Ognuno di questi chef aveva il proprio stile, ma erano tutti particolarmente esigenti sul gusto, condividevano un patrimonio di conoscenze incredibili e la volontà reale di trasmettere il proprio sapere. Ho un debito enorme nei loro confronti, e non stupisce che oggi mi interessi così tanto alle salse: erano anche grandi maîtres saucier! Nella tua azione di rinnovamento della cucina francese, qual è a tuo giudizio il suo posto nella gastronomia mondiale odierna? La gastronomia francese ha una ricchezza invidiabile: pur vantando tradizioni e un patrimonio straordinari, resta ambiziosa e creativa. Abbiamo la fortuna di avere una storia, terroir e prodotti straordinari, ma anche chef estremamente talentuosi. Ieri La Varenne o Escoffier, che hanno rivoluzionato la gastronomia; domani giovani cuochi brillanti, moderni e consapevoli del mondo in cui operano. D’altronde bisogna ben conoscere il proprio passato, per prevedere il proprio futuro. Il mio stesso lavoro sulla Cucina Moderna si ispira al nostro patrimonio culinario, al fine di proporne una versione adatta alle voglie attuali. Per concludere, sono fermamente convinto che la Francia abbia tutti gli atout per posizionarsi ancora al vertice della gastronomia mondiale.

mente inesauribile, perché si tratta di un lavoro al tempo stesso sul gusto e la testura. E se si aggiunge la fermentazione, vera espressione del terroir, allora le possibilità diventano infinite. Abbiamo inoltre molti nuovi progetti. In aprile abbiamo rinnovato totalmente la cucina, che è stata disegnata da DS Automobiles; vi abbiamo installato “Inside”, la nostra chef table cofirmata da Moët & Chandon, nel cuore del Pavillon Ledoyen. In giugno abbiamo inaugurato l’Abysse, bancone moderno per il sushi tradizionale: una vera esperienza giapponese nel cuore degli Champs-Elysées. In settembre inizieremo corsi di cucina con Mauviel1830: un modo per aprire sempre di più la nostra maison ai parigini, che potranno condividere un momento di gastronomia. La nostra energia e la nostra passione sono tutte tese alla creazione e all’avanzamento di nuovi progetti!

GUSCIO DI COCCO

meringato in sorpresa

INGREDIENTI per 10 persone

Per la meringa francese stampata al cioccolato: g. 200 di albumi, g. 200 di di zucchero semolato, g. 150 di

zucchero a velo, g. 30 di copertura fondente Caraïbe con il 66% di cacao.

Per il sorbetto di cocco alla vaniglia: g. 625 di acqua, g. 190 di zuc-

chero semolato, g. 10 di baccelli di vaniglia, g. 100 di zucchero invertito, g. 30 di glucosio atomizzato, g. 8 di

stabilizzatore, kg. 1 di purea di polpa di cocco, g. 25 di succo di limone.

Per il sablés alla noce di cocco: g. 110 di burro, g. 110 di zucchero invertito,

Qual è il tuo piatto firma e perché? Cerco di non avere piatti firma, in modo che la carta possa cambiare con regolarità. Questo mi permette di essere più libero e poter proporre sempre nuove creazioni ai clienti. Il mio signature sarebbe piuttosto la Cucina Moderna e tutto il lavoro sulla salsa, che consente di preparare nuovi piatti generosi, saporiti e salutari.

g. 50 di uova, g. 110 di farina 00, g. 6 di lievito chimico, g. 110 di noce di cocco grattugiata.

Per il croccante al cocco: g. 120 di

copertura Bianca Opalys, g. 35 di feu-

illetine, g. 35 g di briciole di sablé alla noce di cocco, g. 45 di noce di cocco tostata, g. 10 di scorza di lime.

Per la gelatina al lemon grass: g. 100 di zucchero semolato, g. 450 di

© Philippe Vaurès

acqua, g. 2 di lemon grass, g. 7 di colla di pesce, g. 40 di succo di limone, g. 40 di succo di lime.

Per la nuvola cocco vaniglia: g. 200

di panna, g. 125 di purea di noce di

cocco, g. 5 di vanigliam 1 cartuccia

Dopo l’Estrazione® e la fermentazione, su cosa stai ricercando? Ci restano ancora molte cose da scoprire nel nostro lavoro sulla salsa e l’Estrazione®. È un terreno di sperimentazione straordinario e pratica-

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per sifone.

Per la finitura: noce di cocco grattugiata, noce di cocco tostata, zucchero invertito.


YANNICKALLÉNO © Philippe Vaurès

PROCEDIMENTO

Per la meringa: montare gli albumi a temperatura ambiente, poi unire

PAVILLON LEDOYEN

Carré des Champs-Élysées

lo zucchero semolato. Incorporare con la spatola lo zucchero a velo

8, avenue Dutuit - 75008 Parigi

giare su Silpat. Lasciare nell’essiccatore a 45°C per tutta la notte. Sgon-

www.yannick-alleno.com

setacciato. Gonfiare dei palloncini e immergerli nella meringa, poi ada-

fiare delicatamente i palloncini, rompere la base della sfera e spennellare di cioccolato per formare dei gusci di noce di cocco.

Tel. +33 1 53 05 10 00

ledoyen@yannick-alleno.com

Per il sorbetto: fare intiepidire l’acqua con metà dello zucchero semolato e i baccelli di vaniglia aperti e grattati. Versare a pioggia il resto

dello zucchero con lo zucchero invertito, il glucosio atomizzato e lo sta-

bilizzatore. Portare a ebollizione girando. Fare raffreddare. Incorporare

il cocco e il succo di limone. Frullare. Lasciare maturare per 48 ore. Mantecare e riporre nel congelatore.

Per i sablés: montare il burro in pomata, incorporare lo zucchero, poi l’uovo, infine la farina setacciata con il lievito e il cocco grattugiato. Stendere a macchina allo spessore di mm. 1,5. Cuocere in forno a 180°C fino a colorazione dorata.

Per il croccante al cocco: scaldare il cioccolato a bagnomaria, poi incorporare gli altri ingredienti. Stendere su carta da forno e riporre in congelatore.

Per la gelatina al lemon

grass: realizzare uno sciroppo

con zucchero e acqua, unire il

bastoncino di lemon grass spez-

zettato. Lasciare in infusione lontano

dal fuoco per 4 ore. Incorporare la

gelatina precedentemente ammollata e

il succo di 2 limoni. Fare rapprendere nel congelatore.

Per la nuvola cocco vaniglia: amalgamare tutti gli ingre-

dienti a freddo e versare in un sifone. Caricare con il gas e riporre in frigorifero.

Spargere su un piatto la noce di cocco grattugiata, fissare al centro un guscio con una goccia di zucchero invertito. Riempirla con 2 quenelle

di sorbetto sovrapposte, poi unire dei frammenti di croccante al cocco, la gelatina morbida di lemon grass e la noce di cocco tostata. Coprire il tutto con la nuvola di cocco e vaniglia e decorare con la noce di cocco tostata. Servire freddo.

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GOURMETFOOD

LA CUCINA “EMOZIONALMENTE EMOTIVA” DI

THIERRY MARX

E LA SUA RICERCA INERENTE IL PANE FRANCESE di

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Flavia Tomaello


THIERRYMARX

Amante delle arti marziali, ex casco blu, figlio di un rifugiato polacco, dirige a Parigi una delle cucine più esigenti al mondo e, allo stesso tempo, alimenta la tendenza di creare la cucina fuori dalle cucine, cominciando proprio dal primo ingrediente della gastronomia francese: il pane.

È una stella dell’universo culinario. Oltre ad aver fatto incetta di allori come chef, la sua partecipazione al reality “Top Chef” lo ha consacrato ufficialmente come un emerito galantuomo. E oggi è uno degli chef più celebri di Francia. Si è formato con alcuni dei migliori chef del Paese in ristoranti come Ledoyen, Taillevent e Robuchon. Ha ottenuto la sua prima stella Michelin nel 1988 nel Roc a Val a Tours, e un’altra presso il Cheval Blanc a Nimes nel 1991. Ha lavorato dieci anni presso il Château Cordeillan-Bages a Gironde, anni che gli sono valsi due stelle Michelin. Nel 2006 Thierry Marx è stato eletto Chef dell’Anno dalla guida Gault Millau e dalla rivista Le Chef. E’ stato insignito delle due stelle Michelin fin dal 2012 e ha ottenuto 19 punti sulla guida Gault & Millau dal 2017 per il suo esclusivo ristorante Sur Mesure. “Ho avuto la fortuna di nascere in rue de Ménilmontant - racconta -, a sud del distretto di Belleville. La nostra casa si trovava vicino al panificio del Signor Ganachaud, da dove sentivo arrivare i profumi del pane. I miei nonni erano emigranti ebrei polacchi e i miei genitori conducevano una vita semplice. In quel momento nel quartiere convivevano più di cento diverse nazionalità. Tutti vivevano insieme e senza problemi. C’era molta allegria e in strada si stava molto bene. Ricordo che gli ebrei tunisini aprirono i primi negozi di alimentari. Subito dopo sarebbero arrivati gli italiani, poi i nordafricani e altri dal resto dell’Africa o dal sudest asiatico. Tutti questi emigranti si sono poco a poco riuniti stabilmente attorno al cibo, aprendo ristoranti, locali di alimentari, angoli dove mangiare... Hanno creato un modello economico umile e sufficiente per prosperare socialmente e affrancarsi come uomini liberi. Proprio per questo ho cercato di mantenere queste influenze nella mia cucina, specialmente quando cucino cibo di strada, che è una forma di linguaggio universale”.

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GOURMETFOOD

RISOTTO DI SOIA E TARTUFI INGREDIENTI per 2 persone 4 ostriche

g. 40 di scalogno g. 7 di burro

cl. 16 di vino bianco secco g. 200 di germogli di soia g. 35 di champignones g. 14 di tartufi

sale e pepe a piacere PROCEDIMENTO

Aprire le ostriche e pulirne la conchiglia; filtrare il liquido e lasciar riposare.

In una padella, soffriggere lo scalogno e il vino fino a quando si secca.

Pulire e tagliare a pez-

zettini i funghi champi-

gnones. Versare dell’ac-

qua in una pentola e

portare a ebollizione per ottenere un’infuso di champignones.

Aggiungere al soffritto di scalogno il brodo di funghi e il succo di ostriche.

Cuocere a fuoco basso per 20 minuti.

Nel frattempo, tagliare i

germogli di soia con una

forbice, fino a ridurli della

grandezza di un chicco di

riso, e quindi mettere da parte.

Tagliare le ostriche a cubetti

grandi e affettare finemente i tartufi.

Mettere la soia in una padella

ben calda con la margarina sciolta.

Aggiungere delicatamente la salsa di

ostriche e i cubetti di ostriche (uesto processo durerĂ da 3 a 4 minuti).

Versare la zuppa di soia nei piatti, aggiungere i tartufi e un pizzico di salgemma.

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THIERRYMARX

La sua cucina innovativa e creativa unisce la tradizione francese alle influenze asiatiche, mantenendo sempre quella struttura, quei sapori e colori all’avanguardia che lo hanno reso famoso: vi si ritrova eco dei suoi viaggi in Australia, Hong Kong, Thailandia e Giappone. Marx crede che il cibo sia il piacere di condividere e intende arrivare al cuore attraverso alimenti che siano belli da gustare e da vedere. Come chef del Sur Mesure a Pargi, è stato responsabile di esperienze indimenticabili e molto differenti tra di loro, con menu elaborati per mesi e mesi nel suo laboratorio gastronomico. “Questo è un mondo di lusso ma senza ostentazione, un mondo di luce nella bellezza”, afferma. Thierry è inoltre il responsabile del ristorante Camélia, della pasticceria Cake Shop, dell’Honoré e della società di catering dell’hotel Mandarin Oriental París.

LA PASSIONE PER LA MOLLICA DI PANE “Adoro il pane. – conferma con entusiasmo – Non ho altri cibi preferiti. Adoro cucinare i funghi. Anche il pesce, perché è molto delicato e bisogna essere piuttosto precisi per prepararlo bene. Cucinare le verdure invece apre a numerose curiosità: non credo che si sia scoperto tutto quello che è possibile fare con le verdure”. Seguendo il suo istinto ha aperto La Boulangerie; questo panificio è il giusto trait d’union tra i suoi due mestieri che trascinano verso un nuovo concetto di pane, sintesi tra la cucina popolare e lo spirito “fast casual” insito nello chef. Di fatto questo mix coincide perfettamente con le aspettative della gente amante di un

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GOURMETFOOD

consumo nomade che combina i buoni ingredienti di una dieta salutare, equilibrata e rispettosa dell’ambiente con la velocità di un servizio di qualità, ad un prezzo accessibile. Per Thierry Marx, il pane è “il primo ingrediente della cucina francese”, è parte del patrimonio culturale della sua gastronomia. “L’uomo non può fare a meno del pane. - sostiene - I quattro elementi naturali vi si trovano intimanente collegati tra loro: la terra che fa crescere il grano, l’acqua che irriga, l’aria che fa lievitare l’impasto e gli dà la vita; il fuoco che lo forgia e gli dà forma”. Bernard Ganachaud è colui che lo ha ispirato in questi ideali. “Avevo l’abitudine di passare per la sua panetteria tutti i giorni e sempre con immeso piacere. – ricorda

– Poi ho iniziato a studiare come diventare panettiere, pasticcere e cuoco, riuscendo ad ottenere qualche diploma. Ho cominciato in Australia, dove ho lavorato come aiuto cuoco”. Anche i suoi ristoranti descrivono la storia dell’incontro tra il cuoco e il fornaio e sono la rappresentazione significativa dei suoi sentimenti di rispetto verso la cucina. “Trovo ispirazione in ogni luogo, - indica - sia esso un’uscita al mercato di mattina, così come un viaggio lontano... Ho passato un’importante parte della mia vita in Asia: la filosofia di vita del Giappone mi è rimasta dentro. Mi piace il modo con cui i giapponesi si rapportano con la natura e apprezzo il loro senso civico così sviluppato. Tuttavia non ne rimango intrappolato e non idealizzo il Giappone (e del resto non sono incline a idealizzare nulla), ma il Giappone ha davvero avuto una forte influenza nella mia cucina, anche se ho poi potuto sviluppare un mio stile personale”. Il suo pane mantiene qualcosa di questo eccletismo nomade, ma anche il sapore della memoria. La sua proposta di un pane con farina biologica, castagne o riso è attualmente al centro della sua ricerca e ogni settimana infatti si sforna un nuovo tipo di pane. Indicato come una star della cucina molecolare, lui rifiuta di essere inquadrato in tale categoria: il termine è stato usato in modo improprio e non coincide con la realtà della sua cucina e con il suo mondo interiore. La cucina è molecolare, come di fatto tutto è molecolare. Il termine cucina molecolare è stato creato per spiegare alcune reazioni chimiche e fisiche, ma il non-sense con il quale questo termine è stato utilizzato da parte dei media non ne favorisce la comprensione: “Lottiamo regolarmente per mettere in chiaro che non siamo degli stregoni rinchiusi in qualche laboratorio.” sostiene. Il suo stile gastronomico gioca con le consistenze e le temperature, con le forme e i colori: “È quella che io chiamo cucina “emozionalmente emotiva”. La mia cucina proviene da ogni luogo, non ha frontiere. Quando ho cominciato, ho provato a copiare la cucina dei grandi chef che hanno influenzato il mio stile. I miei viaggi, gli incontri con scienziati, disegnatori, architetti, hanno ampliato la mia visione della cucina e mi hanno fornito le abilità per innovarla. Alla fine ho creato una cucina che mi avrebbe reso molto orgoglioso e che si potrebbe classificare come “cucina d’autore”. La cucina soddisfa un certo pubblico. È inutile, direi quasi illusorio, pensare di poter piacere a tutti”. La sua visione si pone su un percorso irreversibile verso l’innovazione, anche se lui tratta ingredienti classici come il pane: “È essenziale collegare l’alimentazione con la natura ed è proprio sotto questo aspetto che avverto l’unicità del pane. Dobbiamo acquistare i nostri prodotti base con molta attenzione, cercando di comprare la maggior parte possibile di prodotti locali. L’attenzione alla salute e all’ambiente rimane sempre una priorità. Mi piace immaginare e sognare che i prodotti biologici si convertano in uno strandard di vita per tutti”. Questo alchimista della cucina riesce a raggiungere nel Sur Mesure e nel suo panificio la quintessenza in una miscela di sapori semplici e senza tempo, adatti a incontrarsi per stare bene insieme.

MANDARIN ORIENTAL

251 Rue Saint-Honoré, 75001 Parigi - Tel. +33 (0) 1 70 98 73 00 www.mandarinoriental.com

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GOURMETFOOD

CARME RUSCALLEDA SETTE STELLE MICHELIN PER LA SUA CUCINA di

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Flavia Tomaello


CARMERUSCALLEDA

Carme Ruscalleda è la chef che ha ottenuto il maggior numero di stelle con le sue attività gastronomiche. Oggi rivela qualcuno dei suoi segreti per giungere alla cucina della felicità. Quando si pensa alla chef donna più premiata al mondo, la si immagina cresciuta dietro ai cuochi più famosi del pianeta. E, invece, la catalana Carme Ruscalleda è autodidatta. È nata nel 1952 a Sant Pol de Mar in una famiglia di agricoltori. Durante la sua infanzia aveva manifestato alcune doti artistiche, ma i suoi maestri ne avevano scoraggiato il percorso. Quasi fosse un’eredità, decide di inserirsi nell’impresa dei genitori a metà del 1968: si tratta di un piccolo spaccio nel quale il padre vendeva gli insaccati di propria produzione e una vasta scelta di conserve, formaggi e vini che giungevano da tutto il mondo. Data la buona richiesta, la famiglia decide di dedicarsi alla preparazione di salumi particolari.

Carme conosce qui suo marito, Toni Balam, dal quale ha due figli: Raül (1976) e Mercè (1982). Per dare inizio alla propria storia imprenditoriale, comincia a vendere alcuni piatti d’asporto di sua creazione. L’idea incoraggia la coppia a crescere e così comprano una piccola locanda giusto davanti al negozio di don Ramón, il padre di Carme. Nasce in questo modo, a metà del 1988, il ristorante Sant Pau, in una casa con vista mare e con giardino. “La mia cucina è sempre stata segnata dal mio contesto familiare e dall’orto del Maresme - ci racconta -; il ritorno ai prodotti KM 0 è il segnale che abbiamo avuto ragione a rispettare queste regole, che consglio anche per i fornelli di casa”.

LA FORMULA CHIAVE La ricetta magica di Carme è semplice: “libertà, naturalezza, sapore e gioia: ecco le chiavi”. Il suo ultimo libro “Felicità” esce in corrispondenza con la chiusura del suo ristorante, quello che aveva aperto 30 anni fa e che l’aveva lanciata come stella nell’empireo gastronomico. La fine di questa esperienza non significa altro che un nuovo inizio, una nuova sfida verso la ricerca di forme nuove per mano dei suoi eredi. Lei comunque è ancora in grande attività nel Mandarin Oriental di Barcellona, dove dirige, insieme a uno dei suoi figli, i ristoranti Blanc (foto in alto) e Momentos. “La vita in famiglia gira intorno alla

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GOURMETFOOD

mia cucina. Non ho mai tralasciato nessun progetto a causa dei miei figli. Loro sono sempre stati presenti (e lo sono ancora)”. Questa contiguità con la famiglia (con cui lei stessa è cresciuta durante la propria infanzia) ha sempre segnato la sua cucina, spingendola all’immaginazione e a mettersi in gioco. Ma anche la tendenza ad affidarsi alla stagionalità dei prodotti è uno dei punti cardine nei suoi 30 anni di ristoratrice. “I miei libri esortano a seguire questo percorso nelle cucine di tutti: in “Cucinare per essere felici” (che viene ristampato ormai da 17 anni) ho provato a dimostrare che le ricette facili e con prodotti naturali sono possibili nella tavola di tutti i giorni”. Pasticcio di patate e crosta di formaggio; insalata di cavolfiore, spinaci e sardine con vinaigrette; lasagna di scampi e ricotta; hamburguer di tonno con ketchup; crema fredda di cioccolato e fichi... ecco alcune delle idee che tira fuori alla rinfusa, come per dimostrare che da un piatto comune come il pasticcio o l’hamburguer, può nascere un piatto ideale anche per la propria casa.

RITORNO ALLE RICETTE DELLA NONNA “Bisogna riprendere l’usanza di andare al mercato e parlare con il pescivendolo o con il fruttivendolo e lasciare che ci dia consigli - propone Carme -. In casa si deve parlare di cibo e avere a cuore i prodotti, trovando il modo per recuperarli”. Una volta questo era un sapere che si trasmetteva di madre in figlio, ma oggi questo passaggio di conoscenze si sta perdendo: “Ormai non succede più. Ho visto molti libri di ricette familiari che sono stati compilati lasciando parlare la zia, la nonna”. E qui Carme fa una compa-

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razione tra le lingue che si perdono ogni 15 giorni nel mondo con le ricette che non recupereremo mai più proprio per esserci dimenticati di questa usanza di dialogare con le cuoche di casa. “Sono convinta che a scuola si dovrebbe insegnare a cucinare”. Un altro dei suoi consigli è quello di non immergerci completamente nella tecnologia e lasciare che questa ci sovrasti. Tornare ai modi semplici di un tempo, e da lì essere creativi, è la maniera giusta per arricchire la vita culinaria. Quando le si chiede quale sia l’ingrediente che non dovrebbe mancare mai in cucina, Carme si sbilancia verso l’olio d’oliva “perchè puoi usarlo per tutti i piatti; in un antipasto con verdure crude, per far risaltare il sapore del pesce alla piastra o dei bocconcini di carne, e addirittura in alcune torte...” Come su ogni cosa, assicura che bisogna metterci passione, perchè sta proprio lì la differenza tra presentare un pesce insipido e uno insaporito con erbe di stagione. Il suo invito è quello di creare una nostra personale dispensa gastronomica, dove siano sempre alla mano gli ingredienti di base; uova, farina, riso, patate, sale e pepe, zucchero, burro, latte, aglio e cipolla, formaggio, mostarda, spezie e olio d’oliva, insieme a verdure e frutta di stagione. “Uno degli obiettivi è quello di innamorarci della cucina tanto da metterla nella lista delle cose più interessanti della vita”. Questo il suo auspicio.


CARMERUSCALLEDA

BURRATA

pomodori autunnali e salsa medievale Jurvert INGREDIENTI per 10 persone

Per la burrata: 10 pezzi di burrata di ottima qualità.

Per i petali di pomodoro autunnale confettati: pomodori autunnali maturi e sodi.

Sbollentare e lasciar raffreddare i pomo-

dori. Tagliarli in 4 pezzi. Pelarli e togliere i semi. Lasciarli scolare in modo che perdano l’acqua.

In un vassoio per forno disporre i pomodori ben separati.

d’oliva, sale e pepe per 20 minuri. Lasciar riposare.

Per la salsa Jurvert

(Libro di Sent Sovi, XIV sec., ricetta nº166.)

g. 50 di foglie di prezzemolo, g. 0,5 di fo-

glie di maggiorana, g. 1 di foglie di menta,

g. 2 di aglio, g. 25 di pane tostato, g. 50 di nocciole tostate, g. 25 di noci, 2 tuorli d’uovo cotti, ml. 150 di olio d’oliva, ml. 20

di aceto balsamico di Jerez, g. 20 di miele, pepe q.b., sale q.b.

Condirli con olio d’oliva, un po’ di sale e

Lasciare macerare insieme la notte prima

buire il condimento e distribuirli con la

nocciole, le noci, i tuorli, l’olio, l’aceto e

zucchero. Muoverli con cura per distriparte concava verso l’alto in modo che

non si ammassino. Condire con un altro po’ di olio e confettare in forno a 100ºC per 1 ora.

Girare i petali e lasciarli confettare per 1

ora ancora a 100ºC. Condervare i petali confettati in un contenitore adeguato.

Per i pomodori cherry confettati: 50 po-

modorini cherry, olio d’oliva (abbastanza per coprire), mezza foglia d’alloro, g. 3 di

timo limoncino, g. 2 di rosmarino, g. 2 di pepe nero in grani, g. 5 di basilico, g. 5 di sale, g. 5 di zucchero.

Scottare i pomodori in acqua bollente in modo da poter togliere meglio la pelle.

Tagliare a metà i pomodorini e coprirli con

il miele. Il giorno dopo triturare tutti gli

ingredienti. Per evitare che il pestello si riscaldi troppo e annerisca il composto, to-

gliere la miscela dal mortaio e sminuzzare 15 secondi con colpi decisi e ripetere l’operazione.Aggiunge-

8 dadi di pane tostato. Collocare ai margi-

ni 8 grossi punti di salsa Jurvert. Collocare al centro del piatto la burrata ben scolata.

Intorno alla burrata appoggiare con cura 8 petali di pomodoro.

Impreziosire il piatto con 4 foglie di prezzemolo chip.

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giusto e poi conservare in un contenitore adeguato in luogo

fresco, o in porzioni sottovuoto.

Per i dadi di pane

tostato: pane integrale in cassetta.

metterlo in forno a

dadi di cm. 2x2; 160ºC per 20 minuti.

Conservare in un contenitore ermetico

Scottare e raffreddare i pomodori. Tagliarli

DECORAZIONE

Tagliarli a brunoise e soffriggerli con olio

tipo “chip”.

in quarti. Pelarli e togliere i semi.

pomodorini cherry confettati (senza olio) e

raggiungere il punto

re al fresco con il proprio olio.

modori d’autunno maturi.

soffritto di pomodoro. Distribuire ai lati 10

re sale e pepe fino a

Tagliare il pane a

Per la base di pomodoro soffritto: po-

Stendere su un piatto liscio 30 grammi di

i seguenti ingredienti: il pane tostato, le

olio d’oliva; aggiungere sale, zucchero e infornare a 100ºC per 45 minuti. Conserva-

PRESENTAZIONE

Foglie di prezzemolo fritte

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ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”

VINO: È SEMPRE LA PRIMA IMPRESSIONE QUELLA CHE CONTA Come nella vita, anche il vino vive di un più che probabile imprinting soggettivo, ma al tempo stesso oggettivo nel contenuto. Vi sono mestieri che non tutti sono in grado di espletare. Grandi personaggi dell’economia mondiale, della scienza, della politica e della medicina hanno ottenuto importanti successi grazie alle loro doti, ognuno di loro ovviamente in campi differenti. Non tutti però avevano lo stesso dono. L’arte oratoria di Goebbels ad esempio era più unica che rara. Il suo capolavoro può essere considerato il discorso del 18 febbraio 1943 al Palazzo dello sport di Berlino quando riuscì a indirizzare una folla dubbiosa e frastornata dalle prime disfatte delle armate del Reich verso il sostegno più caloroso e pieno al regime; al termine del comizio, quando Goebbels domandò se si volesse la guerra totale, il boato che ne seguì infranse i vetri della struttura. Gianni Agnelli sosteneva che i patrimoni si ottengono per speculazione, accumulazione e successione. Lui lo ebbe per successione e di suo ci mise, a detta sua, la

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responsabilità. Sosteneva di avere una dote, quella di saper individuare le risorse umane, i quadri che avrebbero guidato le sue aziende. I casi citati hanno qualcosa in comune, ovvero l’istinto: una reazione specifica per tutti gli individui appartenenti alla stessa specie. L’elemento razionale deve prevalere, ma l’istinto è fondamentale. Dove può effettivamente fare la differenza se ben interpretato? Soprattutto nella scelta dei collaboratori e durante le decisioni importanti. Gli illuminati possono capire cosa fare attraverso un elemento in più, appunto l’istinto. Ora, vi chiederete cosa c’entra questa filippica con il mondo del vino; in realtà possiede molti elementi comuni con le storie che abbiamo raccontato. La prima impressione è sempre quella che conta, soprattutto sul bicchiere.


ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

L’arte della degustazione insegna che attraverso un’esperienza più applicata che concettuale - dove paga più il lavoro di gomito alzato piuttosto che una gobba leopardiana da capo chino sui libri - si ottengono i migliori risultati. Ovvio che questo non può essere generalizzato a tutti i campi del sapere, ma nel mondo del vino la pratica è più importante della teoria. La bocca e il naso sono primitivi: un neonato riconosce la madre dall’odore del suo corpo e per sempre sarà cosi. Nel vino formarsi inizialmente attraverso un metodo induttivo per poi passare alla fase deduttiva – che per sua natura è astratta – può essere un errore. Le due strade dovrebbero essere per sintesi parallele. Ovvio che l’intuizione logica è sempre il risultato di un tirocinio psicofisico prolungato e relativo alla propria attività. Quindi sovente nel vino la prima impressione è quella giusta, quella corretta.

Se ci pensiamo è come nella vita: anche le persone si annusano come i vini; ci piacciono o non ci piacciono da subito. Declinato nella grande degustazione, i vini vivono ovviamente di sfumature e sensazioni primarie che colpiscono nell’immediato e forniscono la prima impressione, che solitamente è quella che conta. Quante volte anche ai degustatori più navigati è capitato di centrare un vino subito, al primo approccio olfattivo o degustativo, per poi cambiare idea perché molte sfumature, spesso la maggior parte, fanno parte del copione di tanti altri vini? Credo sia successo tante volte, a me per primo, per questo credo che la soluzione ideologica migliore della sfera vino sia la deduttiva applicata all’istinto feroce, quasi adrenalinico, che scaturisce dallo stupore nell’essere prossimi alla soluzione matematica del bicchiere in degustazione. Gli occhi brillano quando si può dire: so cos’è! Un consiglio? Non tentennate, fidatevi del vostro naso e del vostro palato.

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GOURMETFOOD VINARIA

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XXXXX XXXXX di

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NUOVE CRU

BARDOLINO

TRA LE NUOVE SOTTOZONE: ROCCA, MONTEBALDO E SOMMACAMPAGNA di

Gianluca Ricci

Per festeggiare i suoi cinquant’anni di vita la doc del Bardolino si è regalata tre sottozone nuove di zecca: La Rocca, Montebaldo e Sommacampagna. Prosegue dunque in grande stile la campagna di rilancio di un vino che, dopo i fasti ottocenteschi in cui si permetteva di contendere a Borgogna e Beaujolais le tavole dei grand’hotel svizzeri, aveva smarrito la sua identità per ritirarsi mogio mogio entro i confini del territorio in cui solo pochi testardi contadini hanno continuato a produrlo. Era il 2008 quando il Consorzio di Tutela varò il piano strategico di rilancio, all’indomani della zonazione dei vigneti effettuata dal professor Attilio Scienza: nel 2015 le prime concrete conseguenze, con la creazione di Bardolino Village. E oggi le tre cru, a sottolineare le prerogative peculiari di un territorio che per la sua ricchezza e varietà fatica ad essere compresso all’interno di una sola categoria enoica. Cru: ad essere pignoli quelle tre lettere non si potrebbero mettere insieme nemmeno per sbaglio, visto che rimangono un patrimonio culturale limitato alla sola Francia, primo Paese al mondo ad inventarsi un termine con cui individuare una singola vigna o, al massimo, un singolo villaggio di produzione. Da noi le norme sono chiare: cru è parola buona per promozioni e manifestazioni, ma per legge si deve parlare di sottozone o di men-

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CRUBARDOLINO XXXXXXXXX

zioni geografiche aggiuntive o al massimo di vigne. Al diavolo le norme, devono aver pensato sul Garda quando hanno deciso di valorizzare le specificità organolettiche del loro prodotto. Ecco dunque il Bardolino Montebaldo, prodotto nella zona settentrionale, più fredda e più vicina alle pendici del Monte Baldo che del lago di Garda è la montagna più elevata ed incombente; e poi il Bardolino La Rocca, realizzato con uve coltivate nell’anfiteatro morenico a ridosso del lago in condizioni climatiche meno rigide e più ventilate; infine il Bardolino Sommacampagna, frutto del lavoro di vignaioli che operano sulle colline che chiudono il Benaco nella sua parte meridionale, più calda e protetta dalle brusche variazioni atmosferiche tipiche delle aree più settentrionali. E se il territorio vale qualcosa, nella formazione dei vini, queste specificità non potevano

che dare vita a prodotti dalle caratteristiche inevitabilmente differenti, nonostante per decenni siano stati imbottigliati sotto un’unica, generica etichetta. «In realtà non si tratta di una rivoluzione vera e propria – ha riconosciuto il Presidente del Consorzio di Tutela del Bardolino Franco Cristoforetti – perché le tre sottozone che impropriamente sono state definite cru sono identiche a quelle che erano state individuate già all’inizio

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VINARIA

dell’Ottocento, ben prima della classificazione di Bordeaux. Non abbiamo fatto altro che riconoscere le loro peculiarità e provare a valorizzarle adeguatamente. Grazie all’evoluzione del gusto – ha aggiunto – il mercato è oggi preparato a prodotti di questo tipo: l’obiettivo è quello di suddividere la produzione generale in modo che il Chiaretto si attesti sui 17 milioni di bottiglie, il Bardolino sui 7 e le sottozone sui 4». Solo 14 delle oltre 100 aziende che danno vita al Consorzio hanno superato l’esame di un comitato volontario costituitosi con l’obiettivo di censire i possibili candidati, ma non è detto che il numero nel corso dei prossimi anni possa aumentare, come peraltro auspica lo stesso presidente Cristoforetti: «Nelle carte dei vini dei grandi alberghi svizzeri e austriaci, dove l’aristocrazia europea si recava in vacanza a fine Ottocento, c’erano i migliori Bardolino assieme ai cru del Beaujolais, affini per stile e gusto. Noi vogliamo rinverdire quei fasti con i nostri, di cru, eleganti e raffinati». I canoni ovviamente sono decisamente più restrittivi rispetto a quelli previsti dal disciplinare della doc: vigneti di almeno sette anni, Corvina al 95% e non più solo all’80, resa massima di 100 quintali per ettaro, appassimento bandito, uso moderato e ragionato del legno e immissione sul mercato almeno dopo un anno dalla vendemmia. Ecco perché i nuovi Bardolino ne hanno guadagnato in colore, aromi e sapore, ecco perché le tre sottozone non temono l’invecchiamento e anzi lo auspicano, per dare il massimo delle loro possibilità. Al momento il bollino per i vini selezionati sarà limitato a 100mila bottiglie, ma non appena il Ministero delle Politiche Agricole darà il benestare definitivo i numeri potranno aumentare considerevolmente. Il Bardolino muta ancora la sua natura, dunque, all’indomani della clamorosa “rivoluzione rosé” che qualche anno fa ne fece il vino rosato più venduto e apprezzato in Italia, dopo che aveva rischiato la scomparsa intorno al 2008, quando all’ingrosso veniva pagato 42 centesimi al litro: segno che il suo territorio,

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CRUBARDOLINO

le sue uve e le sue cantine sono davvero eclettici e garantiscono ampi margini di miglioramento ad una evoluzione che probabilmente non si è ancora conclusa. Non lo esclude per esempio Giovanna Tantini, della cantina omonima: «Da sempre sono convinta che la Corvina lavorata come dico io possa dare vita a vini complessi e strutturati. Questo progetto mi ha permesso di concretizzare anni di esperimenti e di tentativi. A questo punto non è detto che il Bardolino resti quello che è sempre stato, visto che un’altra strada è praticabile». «In realtà i Bardolino cru sono sempre esistiti – ha dichiarato Matilde Poggi, infaticabile animatrice della cantina Le Fraghe – Quello che è mancato, soprattutto negli ultimi anni, è stato un adeguato lavoro di valorizzazione: il nuovo disciplinare ha messo le cose a posto, anche perché ha insistito molto sulla Corvina che è il segreto del successo del progetto». «La Corvina è un grandissimo vitigno – ha aggiunto Silvio Piona, della cantina omonima – soprattutto se i vigneti hanno una certa età, sono in equilibrio e ben lavorati: tutte prerogative previste dal nuovo progetto che per questo non può che dare vita a vini di grande livello». Ma l’aspetto più importante

dell’intera faccenda è che queste nuove perle non rischiano di sbiadire la lucentezza delle altre: il Bardolino continuerà ad essere declinato nelle sue diverse varietà, compresa la Docg Bardolino Superiore con le sue 150mila bottiglie, considerata la punta di diamante del prodotto gardesano. Semplicemente si articolerà l’offerta in nuove, specifiche proposte, ognuna delle quali legittima ambasciatrice della complessità di un vino che negli ultimi anni ha saputo trovare nel suo dna le armi vincenti per affermarsi in un mercato sempre più diffidente e complicato.

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GOURMETFOOD

CHARDONNAY OVVERO RAFFINATA FRESCHEZZA di

Mario Federzoni

Lo Chardonnay è una varietà di Vitis vinifera europea dalla buccia verde.

È molto aromatica, con un sapore molto intenso tale da non aver bisogno di essere “tagliata” per esprimere a il meglio di sé. I vinificatori, insieme al terroir (terreno, clima e uomo), possono trarre un’ampia gamma di aromi e sapori, eleganti, delicati e potenti allo stesso tempo. Alcune recenti scoperte della biologia molecolare hanno stabilito l’esatta origine dello Chardonnay: i progenitori dello Chardonnay sono il Pinot nero e il Gùuais bianco. Il Goùais bianco, chiamato anche Heunisch (Unno), era un vitigno molto diffuso nel Medio Evo per la sua grande produttività, che venne portato in Francia dalle legioni romane guidate da Marco Aurelio Probo, imperatore di origine Illira. Probabilmente il vitigno che si originò dall’incrocio col Pinot Noir (Morillon Noir), lo Chardonnay, aveva bacche colorate poi, per segregazione o mutazione gemmaria, favorita anche dalla “piccola età glaciale” (nel 1300, dopo un periodo chiamato “periodo caldo medievale” avvenne un graduale avanzamento dei ghiacciai sino al 1850) che costrinse i viticoltori a preferire vitigni a bacca bianca, si originò la versione che conosciamo oggi.

 Gli esperti di genetica pensano che il motivo per cui le uve Gouais e Pinot Nero siano ottimi progenitori sta nel fatto che, avendo pochissimo in comune dal punto di vista genetico, si completino l’un l’altra, e che, proprio per questo, apportino vigore alle piante, invece di ottenere l’effetto opposto, come spesso avviene quando si accoppiano dei consanguinei. A Carlo Magno ed ai Cistercensi va il merito di aver ricostituito la viticoltura francese e soprattutto di aver diffuso lo Chardonnay, grazie al fatto che questo vitigno ha una elevata capacità d’accumulo di zuccheri, un buon controllo dell’acidità tartarica, una buona tolleranza alla siccità ed un buon controllo della sintesi dei terpeni, che sono la base del suo potenziale aromatico.

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LOCHARDONNAY

I PRIMATI GENETICI DELLO CHARDONNAY 
Dal punto di vista della qualità, questo vitigno ha la grande capacità di interagire perfettamente con le condizioni del pedoclima, dando così origine a vini capaci di differenziarsi notevolmente, fedeli espressioni di terreni più o meno argillosi o calcarei, di climi caldi o freschi, e ciò grazie a una gamma di descrittori che nessun altro vitigno possiede, mantenendo altresì immutati alcuni elementi sensoriali di riconoscibiltà legati al controllo genetico. Ecco perché anche nella Champagne, dove lo Chardonnay è molto presente, da zona a zona, da terroir a terroir, le differenze sono assai evidenti. Infatti il fattore climatico è preponderante nel determinare le caratteristiche organolettiche degli Chardonnay. L’altitudine del vigneto è ciò che determina il profilo olfattivo dei vini, anche in funzione dei vari andamenti termici, tra il periodo dell’invaiatura e della maturazione.

 Le vigne delle zone più “calde” producono vini con descrittori olfattivi di frutta tropicale (melone, fico, passion fruit, ananasso…), mentre al gusto emerge una struttura assai potente, che resta sempre comunque in equilibrio con la classica componente acida. I vini ottenuti nelle aree più fresche presentano un profili olfattivi con note di aromi primari come fiori bianchi, frutta (pera, pesca…) e spezie, seguite da aromi secondari burrosi dovuti alla frequente fermentazione malo lattica, mentre al gusto si distinguono per maggior freschezza. Per finire, i vini delle zone con climi temperati intermedi si presentano assai più agrumati, con sentori di fiori, spezie, frutta matura e nocciola; al palato si notano una buona struttura ed un elevato equilibrio.
I migliori risultati si ottengono da vigneti che insistono su terreni argillosocalcarei, o marnosi, con un buon drenaggio, mentre i vini provenienti da terreni

sedimentari, profondi, sabbiosi, ciottolosi, risultano essere meno complessi. Terreni pietrosi, con ardesia e ferro, fanno emergere la mineralità dello Chardonnay, mentre terreni ricchi di humus e sostanze nutritive esaltano la sua rotondità e la sua potenza.

LE SUE ORIGINI

La vera origine del nome “Chardonnay” deriva dal modo in cui veniva chiamato il vino bianco nella lingua ebraica e non francese, infatti, i primi a portare il vino bianco in Francia pare siano stati i Crociati provenienti dalla Palestina: il nome originale di questo vino in francese era “Porte de Dieu” (Porta di Dio) che era la traduzione dal nome ebraico “Shahar-adonay”, simbolo della Città Santa di Gerusalemme che, circondata appunto da vigneti di uve bianche, si diceva che portasse a Dio. L’assonanza del nome ebraico col moderno nome francese Chardonnay è estremamente evidente, ma è solo nel 1851 che in Champagne - dove oggi rappresenta il 28% della produzione totale, e copre un’area di 8.951 Ha - appare il termine “Chardonnet”, e si dice che il suo nome derivi da un piccolo paese del Mâconnais (Borgogna), chiamato Chardonnay (da chardon: cardo), anche se probabilmente è grazie alla reputazione mondiale dei vini bianchi della Borgogna che il nome Chardonnay è diventato quello ufficiale a livello mondiale. Come abbiamo visto, portata in Francia, l’uva Chardonnay ha trovato la sua dimora preferita prima nella Borgogna e, successivamente, nella regione della Champagne, ed è corretto dire che queste due regioni sono la sua “terra madre”, perché è qui che lo Chardonnay produce le sue migliori opere d’arte ed esprime il meglio di sè. L’uva ha grappoli da piccoli a medi, cilindrici, compatti con a volte due alette. L’acino è sferico o a volte leggermente oblungo, di colore giallo ambrato al sole. Buccia piuttosto sottile. Polpa poco

consistente con vinaccioli relativamente piccoli. Sapore dolce e zuccherino. Per parecchio tempo l’uva Chardonnay è stata considerata la variante bianca di quella Pinot, il che spiega perché in Borgogna fosse coltivata fianco a fianco con l’uva Pinot Nero: l’una destinata al vino bianco, l’altra a quello rosso. L’uva Chardonnay è sensibile alle gelate primaverili, poiché nel nostro emisfero germoglia alla fine di marzo o all’inizio di aprile; infatti le gelate sono uno dei problemi che affliggono i coltivatori della Borgogna e della Champagne, vicini al confine settentrionale della viticoltura europea. Proprio come accade per la maturazione, l’uva Chardonnay di solito germoglia una settimana dopo il Pinot Nero.


 È una varietà vigorosa, tranne quando viene praticata una potatura corta; il raccolto ideale per una qualità davvero eccellente è di 30 q.li per ettaro, mentre oltre i 70 q.li si verifica una considerevole caduta di qualità. L’uva Chardonnay gradisce potature tardive, per la protezione dal gelo, inoltre è sensibile alla pioggia ed ai forti cali di temperatura durante la fioritura che causano la cascola dei fiori, lo sfaldamento o anche l’acinellatura.

 L’uva Chardonnay è una delle tre varietà più coltivate e le ultime statistiche affermano che, in tutto il mondo, vi sono circa 200.000 ettari di terreni piantati a uve Chardonnay.

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VINARIA

IL VINO

AGLI ALBORI DELLA CIVILTÀ L’AFFASCINANTE STORIA DELLA SUA GENESI di

Mario Federzoni

La storia della vite e del vino accompagna, passo dopo passo, la storia dell’uomo; l’utilizzo della vite selvatica prima e la sua domesticazione poi, fino alla tecnica vinicola, sono tappe di un meraviglioso viaggio attraverso la mitologia, l’arte e le vicende dei popoli. L’Uomo preistorico viveva e cacciava in piccoli gruppi nomadi, si accampava in aree che offrissero un accesso facile all’acqua, buona protezione ed abbondanza di selvaggina; esplorava il territorio circostante, raccoglieva frutti ed altri vegetali per nutrirsene. Infatti, il cibo e le bevande, nei loro più vari aspetti, rappresentano la necessaria fonte di energia per l’attivazione dei processi biologici. In natura ogni forma vivente, pianta o animale, diviene nutrimento per altri esseri e l’uomo soddisfa ancora oggi, come allora, la propria necessità biologica di nutrirsi con la ricerca e la selezione del cibo e delle bevande e, per far questo, attiva i propri sensi (olfatto, gusto, tatto) come tutti gli altri animali, ma ha, egli solo, quel tipo d’intelligenza che sa trasformare i cibi e le bevande anche in qualcosa di “buono da pensare”, cioè un “plus” rispetto a ciò che ingerisce: gli alimenti, le bevande, per gli esseri umani hanno una propria forma ed un proprio preciso valore. Ecco perché anche nella scelta dei vegetali l’uva, bella da vedere, buona e dolce da mangiare, fu uno dei frutti più amati e ricercati sin dai primordi della comparsa dell’uomo sulla terra. La vite appartiene al genere Vitis e comprende oltre 40 specie; è una delle più antiche piante della terra ed è certo che fosse assai diffusa nel Mediterraneo già prima della comparsa dell’uomo. Si trovano tracce della sua esistenza in Alaska, Islanda, Groenlandia, Giappone, Cina, America, oltre che in Europa.
 Ma quand’è che l’uomo addomesticò la vite e scoprì il vino, e cosa spinse l’uomo del Paleolitico ad arrampicarsi pericolosamente sugli alberi più alti solo per riuscire a raccogliere queste belle bacche rosse, che piacevano tanto anche agli uccelli? La risposta probabilmente è contenuta nella cosiddetta “Ipotesi paleolitica” formulata dall’eno-archeologo Patrick McGovern: attratti cioè dai colori accattivanti degli acini, o semplicemente

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imitando gli uccelli, alcuni uomini primitivi raccolsero qualche grappolo d’uva selvatica, rimanendo sedotti dal suo gusto aspro e zuccherino. Deponendo quindi i grappoli in qualche recipiente di pelle, legno o pietra dopo qualche giorno, sotto il peso dei grappoli sovrastanti, dagli acini più bassi trasudò del succo; poiché in natura i lieviti della fermentazione si trovano proprio sulle bucce degli acini e sono presenti nell’aria sotto forma di spore, probabilmente quel succo produsse una sorta di vino spontaneo e primordiale. Assaggiata quella bevanda così dolce e restando poi avvinto da un piacevole senso di euforia, l’uomo del Paleolitico desiderò subito berne ancora. Ma senza i recipienti adatti, quel “Beaujolais nouveau dell’età della pietra”, come l’ha definito scherzosamente McGovern, doveva essere bevuto velocemente, prima che si trasformasse in aceto. Circa 12-10 mila anni fa, le popolazioni umane abbandonarono il nomadismo e divennero stanziali, dando conseguentemente vita alla nascita dell’agricoltura. Questa “rivoluzione neolitica”, ebbe come conseguenza la necessità di conservare in modo duraturo il cibo e le bevande, e si dovette anche trovare il modo per assicurare alle varie comunità l’approvvigionamento continuativo di uva.

IL SESSO DELLA VITE Bisogna sapere che la caratteristica in cui la vite selvatica (che cresce cioè spontaneamente) differisce di più da quella colti-


VINARIA

vata è il sesso dei fiori: la “vitis sylvestris” ha normalmente la caratteristica di avere nella stessa pianta o solo staminati (maschili) o solo pistillati (femminili); la “vitis sativa” (o coltivabile), invece, è una pianta ermafrodita, cioè possiede fiori sia staminati che pistillati. Tuttavia, anche una piccola percentuale della sylvestris è ermafrodita, e sicuramente fu da questo piccolo “vivaio” che trasse origine la domesticazione umana della vite: per garantirsi quindi un approvvigionamento sufficiente di uva ed evitare il pericolo di arrampicarsi sugli alberi, ben presto l’uomo primitivo iniziò a coltivare la specie di vite selvatica ermafrodita (seminandone i semi o interrandone delle talee, proprio come la vitis vinifera fa spontaneamente in natura nel processo chiamato “propaggine”) in modo che la “vendemmia” fosse assicurata ogni anno; infatti gli acini, di solito, si producono per “autogamia” ovvero autofecondazione della stessa pianta ed è questa l’ipotesi ermafrodita sulle origini della viticoltura. Per molti millenni l’uomo ha continuato a selezionare attivamente le uve, scegliendo quelle con gli acini più grandi, col contenuto zuccherino più alto o con particolari aromi, dando vita a quell’enorme molteplicità morfologica che oggi osserviamo nelle circa 10.000 varietà di viti conosciute sul nostro Pianeta. La culla della prima pianta di vite pare sia stata l’Asia meridionale, da lì essa è partita alla conquista del mondo. Le cronache dell’ottocento riportano che: “nell’Asia Minore e soprattutto in Armenia, intorno al monte Ararat la vite cresce spontaneamente ed assomiglia ad una liana selvatica, i cui rami, benché non potati mai…danno grappoli in gran copia e di gran peso senza traccia di oidio”.

LA CULLA DELLA VITE “DOMESTICA” Infatti, molti genetisti, eno-archeologi e linguisti tendevano a far coincidere la culla della domesticazione dell’uva con l’Anatolia meridionale, ma anche la regione transcaucasica resta, secondo le ultime scoperte, un candidato possibile. Lo dimostrano antichi reperti di uva rinvenuti in siti archeologici del Neolitico nel Dagestan, nell’Azerbaigian e nei pressi di Tbilisi in Georgia. Tracce chimiche della produzione di vino, risalenti a circa 6.000 anni fa, sono state trovate recentemente in Armenia. I Sumeri simboleggiavano l’uomo con una foglia di vite e, sui bassorilievi assiri, si vedono schiavi che attingono vino da alcuni crateri e lo servono ai commensali; è loro anche il mito di Siduri, la donna del vino la cosiddetta “ostessa sacra”. Gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la paternità della prima vigna, consideravano la vite “uno dei tesori più preziosi dell’uomo” ed inneggiavano al vino che “rallegrava il cuore dei mortali”. Anche per il mondo Greco il vino era un dono degli Dei, Dioniso, figlio di Zeus, era, secondo la leggenda, colui che aveva introdotto la coltura della vite tra gli uomini. Dioniso in Etruria veniva chiamato Fufluns, mentre i Romani gli attribuirono il nome di Bacco. In Egitto, anche se i documenti scritti più antichi riguardanti la coltivazione della vite risalgono al 2.373 a.C., il vino era già conosciuto 40 secoli a.C. ed era tenuto in grande considerazione; i vari ceppi di vite venivano piantati attorno alle tombe dei grandi Re ed i vigneti erano tutti essenzialmente di proprietà del Faraone, dei sacerdoti o di qualche importante funzionario. Le viti erano allevate a pergolato, potate ed irrigate ad arte, già a quei tempi, da esperti contadini. Così i nobili Egizi, durante i loro banchetti, bevevano vino a sazietà e pare, assai smodatamente. Vigeva anche l’uso raffinato, oltre quello di sorbire il vino nelle coppe di

terracotta, di berlo a mezzo di cannucce che si infilavano direttamente nelle anfore per evitare di mettere in sospensione eventuali sgradevoli depositi. In effetti, tutti i popoli che occuparono le rive del Mediterraneo (Egizi, Fenici, Persiani, Greci, Romani) si sono più o meno interessati alla coltivazione della vite ed alla produzione di vino, impiantando spesso numerosi vigneti nei territori che conquistavano, come ad esempio la Gallia, la penisola Iberica, la Germania, e persino la Gran Bretagna.
 Il nome “Vitis” dato alla vite, secondo i Latini, non è casuale, ma si riferisce alla capacità del vino di stimolare e tenere vivo il calore naturale indispensabile alla nostra vita. “Dai Greci ai Romani e dai Romani a noi si è trasmessa una civiltà che ha fatto del vino uno dei doni più preziosi della terra e che, nel pensiero religioso come nelle arti e nelle lettere, onora la vite”. (R.Dion) Il bacino del Mediterraneo è sempre stato ricco di vini: bianchi, rossi, secchi, dolci, leggeri o pesanti, a bassa o alta gradazione alcolica, ma la qualità di questi dipendeva, come anche oggi, dall’esposizione delle vigne, dal tipo di pianta e dal metodo di coltivazione. Spesso si praticava, ad esempio, l’allevamento con ceppi bassi con o senza sostegno a paletto, ma le vigne basse con pampini troppo vicini al terreno davano vini mediocri, mentre invece i grandi vini erano frutto di viti allevate in arbusto. E’ ormai anche accertato che per la vinificazione si usassero tecniche molto simili a quelle di qualche decennio fa: raccolta e successiva pigiatura in larghi recipienti, torchiatura dei raspi e fermentazione del mosto in contenitori aperti. Principali fonti bibliografiche: LA VITE - Attilio Scienza e Osvaldo Failla VITIGNI E VINI - UMC - Roberto Chifari L’ARCHEOLOGO E L’UVA Patrick Mc Govern

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VINARIA

CLAMOROSO!

DOM PÉRIGNON INVENTORE DI CHAMPAGNE? UNA “FAKE NEWS” CHE SI STA DIFFONDENDO DA DUE SECOLI di

Mario Federzoni

Lo Champagne custodisce il ricordo del Grand Siècle e di figure mitiche, come Dom Pérignon. Eppure non deve affatto la sua nascita al famoso monaco benedettino. Lo rivela una rivoluzionaria intervista rilasciata ad Antoine Lagadec, redattore del bimensile Revue des Deux Mondes, da Jean-Luc Barbier, docente di enologia all’Università di Reims. Contrariamente a quanto si crede, Dom Pérignon non è l’inventore della Champagne. Cosa sappiamo sull’origine di questa bevanda? A chi si dovrebbe allora attribuire l’invenzione dello Champagne? Dice Jean-Luc Barbier - L’attribuzione della creazione dello Champagne a Dom Pérignon è una falsa notizia che si è diffusa incessantemente per quasi due secoli, fino a diventare una verità nella mente dell’opinione pubblica. I produttori Champenois, ma anche gli storici, sono onesti nell’affermare che lo Champagne non è stato inventato da Dom Pérignon. La verità è assai più complessa: l’effervescenza fu per molto tempo, e fin dall’antichità, un fenomeno spontaneo e naturale che ha interessato alcuni vini. Anticamente era considerata un difetto e gli enologi facevano di tutto per evitarla. Due importanti eventi però si sono verificati in Champagne alla fine del primo terzo del diciassettesimo secolo: all’inizio, alcuni vitivinicoltori della Champagne generarono una vera rivoluzione enologica, creando un vino bianco, chiamato “vin gris”, da uve nere. In precedenza, infatti, i vini rossi erano prodotti con uve nere e i vini bianchi da sole uve bianche. Questo “vino grigio” sarà quindi il vero precursore dello spumeggiante Champagne. L’altro evento è il metodo di conservazione del vino: mentre anticamente era dalla botte che si estraevano tutti i vini che venivano poi imbottigliati solo al momento del servizio, i produttori di Champagne ebbero l’idea di mettere questo “vino grigio” in bottiglia subito dopo il raccolto, e tenerlo poi in cantina in attesa di venderlo. All’apertura di queste bottiglie, al momento del consumo, spesso si verificava un effervescenza più o meno intensa. I primi consumatori di questa bevanda originale e innovativa furono i giovani aristocratici londinesi e parigini, eccentrici e contestatori.

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DOMPÉRIGNON

J -L B REVUE DES DEUX MONDES QUALE POSTO OCCUPA QUINDI DOM PÉRIGNON NELLO CHAMPAGNE? di ean

Tutto risale a una lettera scritta da Dom Grossard, ultimo procuratore dell’abbazia di Hautvillers (Marne) durante il periodo della Grande Rivoluzione. In questo documento scritto nel 1821, oltre un secolo dopo la morte di Dom Pérignon, egli indica quest’ultimo come l’inventore dello Champagne. Senza dubbio il confratello era disposto ad onorare la memoria del suo predecessore, ma non fornì mai alcuna prova a supporto della sua affermazione. A tale riguardo va ricordato che anche un certo Frate Pierre, discepolo e contemporaneo di Dom Pérignon, non ha mai menzionato alcuna scoperta dello Champagne da parte di quest’ultimo. La leggenda, seppur priva di fondamento probatorio, non deve togliere a Dom Pérignon i suoi talenti come manager, viticoltore ed enologo. Questo monaco di grande pietà, lontano dall’umanità becera dell’epoca, tra l’altro, non beveva vino, ma la sua gestione rigorosa dell’Abazia contribuì alla sua prosperità.

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Durante la permanenza come procuratore, fino alla sua morte nel 1715, lavorò alla vigna dell’abbazia, una delle più vaste del momento, e diede anche grande impulso allo sviluppo ed al marketing del vino. Egli attuò, infatti, un tipo di viticoltura innovativa, con metodi rigorosi sia per la piantagione che per la selezione dei vitigni, la raccolta delle uve, la pigiatura, la vinificazione. I suoi vini erano di alta qualità, famosi in tutta la Francia e il loro prezzo era molto alto. In una nota indirizzata a un cliente per accompagnare una spedizione, egli annunciava che il suo era “il miglior vino del mondo”. Tuttavia, nessun documento ci consente di affermare che i vini di Dom Pérignon fossero effervescenti.L’intervista continua su altri temi, come l’iscrizione della Champagne al patrimonio dell’UNESCO, lo sviluppo e la protezione del marchio Champagne dalla concorrenza mondiale, ma questa è tutta un’altra storia, che magari racconteremo in un prossimo articolo.

I vignaioli della Champagne capirono rapidamente che si stava aprendo un nuovo mercato per un nuovo tipo di vino, e si impegnarono a soddisfare la domanda di questa nuova clientela. Ecco, questa è la sostanziale differenza storica che distingue la Champagne e lo Champagne da tutti gli altri vini: lo Champagne fu fatto espressamente per soddisfare una specifica domanda dei clienti, mentre gli altri vini venivano fatti tradizionalmente dai produttori che cercavano poi di piazzarli al meglio. I primi venditori di questo nuovo vino frizzante furono non già i contadini o i monaci, ma commercianti imprenditoriali e dinamici. Nel corso del tempo, questi precursori cercarono anche di capire cos’era l’effervescenza: perché appariva? A cosa era dovuta? Come provocarla e controllarla? Il processo di produzione dello Champagne, dall’impianto della vite alla posa del tappo sulla bottiglia, è complesso, e la sua definizione, il suo perfezionamento si estese per un lungo periodo, dal XVII fino alla fine del XIX secolo. Lo sviluppo di ciascuna delle tante fasi di fabbricazione, come la pressatura, l’aggiunta della “liqueur d’expedition”, l’invecchiamento sulle fecce, il disgorging, è avvenuto gradualmente e molto empiricamente, nel tempo, e ogni nuovo interprete o scopritore ha portato la sua pietra all’edificio comune.-

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IL GRANDE LIBRO DEL RUM INTERVISTA A DAVIDE STAFFA di

Gianni Di Lorenzo

È stata pubblicata di recente, edita da La Madia, quella che può essere considerata la più completa e attuale enciclopedia del rum, ricca di foto, elenchi di prodotti, descrizione delle aziende a livello mondiale. Al suo autore, Davide Staffa, esperto e appassionato di questo prodotto, abbiamo rivolto alcune domande: Come e quando è scoccata la scintilla tra Davide e il Rum? È stato il mio lavoro nel settore della vendita a farmene innamorare, il contatto con il pubblico, con i clienti ristoratori, enotecari e grossisti. Parlando con loro mi sono accorto che la conoscenza dei distillati era ancora estremamente superficiale. Inoltre, avevo cominciato a tenere lezioni anche nei corsi AIS, dove il tempo dedicato all’argomento dei distillati è complessivamente poco più di un’ora, durante la quale si affrontano tutte le tipologie di alcolici. Ai Rum spettano più o meno cinque minuti. Qui ho capito che c’era da fare molto per conoscere questo mondo e la cosa più facile mi sembrò essere la redazione di una piccola dispensa da lasciare ai curiosi per ampliare autonomamente l’argomento.

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DAVIDESTAFFA

Nel 2005 sono quindi partito per creare qualcosa di stampato: avevo pensato ad una dispensa breve per una rapida consultazione, ma più approfondivo, più si ampliava la ricerca, più perdevo di vista il traguardo. Non ero mai pronto per stampare…fogli su fogli, appunti su appunti…dopo sette anni avevo raggruppato un faldone di 12 centimetri di altezza! Mostrando poi ad amici il malloppo, nel tentativo di ottenere una dritta, qualcuno mi ha detto: “Ma scusa, con un pacco di roba così perché non ci fai un libro?” Da quel momento sono iniziati i viaggi studio nelle zone produttive per osservare i processi dal vivo, capire meglio, fotografare di persona, conoscere i produttori, assaggiare direttamente dalle botti i Rum a gradazione piena… Quante grandi famiglie, secondo le procedure produttive, possiamo ravvisare nel mondo dei Rum? In maniera super macroscopica due: i Rum artigianali e quelli industriali. In due parole le differenze principali tra Rum artigianale e Rum industriale. I rum artigianali provengono dalla distillazione di modesti volumi, in alambicchi pot still o colonna singola; solitamente la loro gradazione di uscita va dai 68 agli 82 gradi. Questo processo permette di conservare gli aromi della materia prima. All’interno di questa categoria situiamo poi una nicchia che non supera il 5% della produzione, ma che a mio parere rappresenta il vertice qualitativo, ovvero il rum agricolo. Quest’ultimo si differenzia dagli altri artigianali perché utilizza esclusivamente il succo vergine di canna da zucchero. Oltre alle bassissime rese di una “spremitura a freddo”, aumentano i rischi legati ad eventuali alte-

razioni, ma in cambio otteniamo una “base” di partenza che conserva sapori e profumi più integri e naturali. Il resto dei Rum artigianali si distillano partendo dalla melassa, che si ottiene lavorando la massa dopo che questa è stata privata dei cristalli di zucchero. Alcuni utilizzano anche lo sciroppo di canna, che si ottiene concentrando il succo fresco al fine di stabilizzarlo. I rum industriali utilizzano la melassa o addirittura, in alcuni paesi privi di legislazione, lo zucchero ridisciolto e fermentato. Sono generalmente prodotti in grandi quantità, con alambicchi a colonna multipla, e le loro gradazioni, spesso sopra i 90 gradi, possono raggiungere anche i 94°C. Ne deriva un alcool quasi neutro, anonimo e spogliato della sua identità, funzionale al mercato della miscelazione di massa e, soprattutto, del primo prezzo. È il mercato del brand.

que a segnalare che anche nel mondo whisky bisognerebbe approfondire meglio e fare dei distinguo, oggi molto più di ieri: la frenesia commerciale sta bruciando i tempi di attesa sulle maturazioni in botte e sugli affinamenti. I consumatori più attenti si saranno sicuramente accorti che anche le più blasonate distillerie scozzesi stanno eliminando dalle etichette gli anni di invecchiamento reali sostituendoli con nomi di fantasia che altro non sono che assemblaggi di malti sempre meno invecchiati. Business is Business! Prima rientrano i capitali e meglio è per gli azionisti e per i dirigenti delle multinazionali sempre più impegnati a portare numeri positivi ai bilanci, piuttosto che soddisfazioni ai consumatori.

Dopo anni di ricerche ed assaggi, cosa pensi di aver capito di questo universo? Che in questo settore avvengono le stesse cose che avvengono nel mondo del vino: c’è chi lavora con passione, cercando di curare con maniacalità tutti i passaggi della produzione e c’è chi cerca le scorciatoie cercando di raggiungere la visibilità del pubblico finale, con operazioni di marketing o di prezzo basso. Pensi che il Rum possa emanciparsi dall’iconografia che lo rappresenta sempre in compagnia di sigari, donne non proprio irraggiungibili, festini sulle spiagge? Quasi che non possa avere una sua identità di grande distillato come un whisky? La risposta a questa domanda nasce dalla risposta precedente, ovvero chi fa qualità non ha bisogno di legarsi a status symbol e situazioni connesse al mondo della notte. Ci terrei comun-

di Davide Staffa 2ª edizione La Madia Editore stampa a cura della Tipografia Valgimigli di Faenza 686 pagine - cm. 21x28 Euro 59,00 www.lamadia.com

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WHISKY JUGS

QUANDO UN OGGETTO PUBBLICITARIO DIVENTA UN UTILE STRUMENTO DI LAVORO di

Sono tanti gli strumenti che un barman usa durante il suo lavoro, alcuni davvero indispensabili, altri semplicemente utili e infine quelli importanti ma poco conosciuti. Tra quest’ultimi non si può non annoverare la particolarissima caraffa da whisky, più comunemente chiamata “Whisky Jugs”. Un oggetto semplice che per lo più può essere di ceramica, di terracotta o di vetro e che serve a contenere l’acqua per allungare il whisky. Infatti è così che i veri intenditori ci insegnano a degustare questo pregiatissimo distillato, il whisky può essere bevuto puro, assaporando appieno i suoi pungenti aromi, oppure allungato con circa un terzo di acqua fresca ma non ghiacciata così come vuole la regola per bere il “Re” dei distillati, smorzando la sua parte pungente ed esaltandone così i suoi profumi e sentori. La nascita di questo “accessorio” di servizio risale alla fine del 1800 quando già le prime distillerie proponevano eleganti brocche al fianco dei bicchieri di whisky. Di svariate forme e colori e di diverse dimensioni e materiali, le caraffe da whisky riportavano sempre l’elegantissimo logo o l’emblema della distilleria di provenienza. Le più famose aziende di porcellane e ceramiche produttrici di vasellame e pregiati servizi per la casa e per le strutture alberghiere hanno

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Alessandro Orzes

anche prodotto caraffe di notevole fattura e qualità. Tra le aziende produttrici ricordiamo la prestigiosa Royal Doulton, la Doulton Lambert, la Mintons, la Shelley, la Wade Regicor, la Hcw, la francese Moulin des Loups e le Italiane Euroceramiche e Ceramiche Piola. Solitamente queste caraffe, perloppiù prodotte nel Regno unito, riportano sul fondo il marchio dell’azienda che l’aveva prodotta, marchio che ci dà la possibilità di risalire in maniera abbastanza precisa l’anno di produzione e quindi alla rarità e al valore dell’oggetto. Le caraffe sono diventate, per la loro eleganza e bellezza, ricercate anche a scopo di collezionismo, in alcuni casi

raggiungendo quotazioni di tutto rispetto soprattutto per i pezzi più antichi. Purtroppo ad oggi le aziende non mostrano più molto interessate nell’investire in pubblicità “da banco” (oltre alle caraffe, altri oggetti che si prestano a questa forma di comunicazione sono per esempio i bicchieri, i rendi resto, i posacenere, i calendari perpetui) quindi i pochi esemplari prodotti ora sono solo per particolari avvenimenti come l’uscita di un nuovo prodotto oppure un importante anniversario della distilleria o di un marchio storico. Questo il motivo per cui gli amanti e gli estimatori delle “whisky jugs” setacciano incessantemente i mercatini e i rigattieri di mezzo mondo alla ricerca di qualche esemplare pregiato. Esistono diverse guide e cataloghi realizzati da appassionati, che offrono utili informazioni e quotazioni di riferimento per le caraffe. Tra i vari siti che si possono trovare in rete, ne esiste uno Italiano all’indirizzo: www.whiskyjugs.it che è una vera banca dati completa di ogni informazione contenente foto, storie, curiosità e ogni informazione utile sulle caraffe da whisky. La prima, e per ora unica, associazione di collezionisti di caraffe da whisky è nata in Australia, Paese che vanta il maggior numero di collezionisti di questo affascinate ed utile oggetto.


VINARIA

IL VINO CAMBIA SE CAMBIO BICCHIERE? di

Mario Federzoni

Lì per lì si direbbe di no: in fondo, se il vino è dello stesso tipo è sempre uguale e ha sempre lo stesso gusto e lo stesso profumo. Pare però, secondo recenti studi condotti dall’Università di Medicina e Odontoiatria di Tokyo, che le cose stiano in modo assai diverso. Infatti l’equipe di scienziati diretti dal professor Kohiji Mitsubayashi ha applicato al collo di differenti bicchieri una speciale retina in grado di trattenere le molecole volatili rilasciate dal vino; dopodiché, grazie all’uso di una speciale sostanza, ha trasformato queste molecole in perossido di idrogeno che successivamente, messo a contatto col “Luminol” (un composto chimico che assume un aspetto luminescente se posto a contatto di un agente ossidante) presente nella retina applicata ai bicchieri, ha mostrato diversi mutamenti di colore in seguito alla differente emissione di molecole volatili che il vino rilasciava a seconda del tipo di bicchiere usato e della temperatura a cui il vino veniva posto. L’esperimento, pubblicato dalla rivista Chemistry World, ha così dimostrato l’assunto che “temperature e bicchieri diversi possono far sviluppare differenti bouquet e aromi dallo stesso vino”; così possiamo dedurre che la piacevolezza di un vino o l’apprezzamento delle sue caratteristiche può risultare penalizzato o esaltato secondo la scelta del bicchiere e della temperatura di servizio. La ricerca ha quindi stabilito che la funzione principale svolta dai diversi calici sarebbe quella di dare maggiore equilibrio e stabilità non solo al bouquet, ma anche alle sensazioni gustative fungendo da amplificatore degli organi sensoriali, aumentando il piacere della degustazione e facendo maggiormente emergere le prerogative intrinseche del vino. A questo punto risulterebbe logico variare i bicchieri oltre che in base al colore del vino, anche a seconda della sua struttura, dei tannini, dell’invecchiamento ecc… Roba da mettere nei guai anche il più esperto dei sommelier; una cosa però è certa, e questo non abbiamo bisogno dei giapponesi per affermarla con assoluta determinazione: i calici usati, a prescindere dalla loro forma, devono essere incolore e privi di scritte, di vetro o cristal-

lo trasparente, sottile, perfettamente asciutti e puliti, senza odori di “armadio” o di detersivo, con uno stelo possibilmente lungo e base stabile.

QUALI SONO I CALICI PIÙ ADATTI AI VARI TIPI DI VINO? Per vini corposi sarà bene scegliere calici ampi che, oltre a facilitare il movimento di roteazione del bicchiere atto ad ossigenare il vino, consentano di cogliere al meglio il bouquet, specialmente se relativo ai grandi vini rossi. I calici larghi e panciuti saranno in grado di veicolare il vino al centro della lingua, per percepirne al meglio sapidità e tannicità. Per i vini giovani sceglieremo sempre un calice grande, ma di dimensioni inferiori di quello usato per i vini più maturi; ciò per amplificare le note fruttate dei vini soprattutto se bianchi. Per le bollicine, oggi tanto amate dai più, il bicchiere ideale deve essere alto e ampio, possibilmente a forma di cono rovesciato con un leggero restringimento al bordo, così da poter dare vigore ed evoluzione al perlage e per concentrare altresì gli aromi dello spumante. I vini liquorosi o i passiti potranno essere degustati in calici piuttosto piccoli, con imboccatura stretta che serve a veicolare le sostanze aromatiche verso il naso ed evitarne la dispersione.

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IL VINO È COME IL DISEGNO: SERVE IL TALENTO PER PRATICARLO! foto di

di Giulia Gotelli Leonardo Bertinelli, Alessandro Farné e Manuela Mazza

Visita all’enoteca storica Faccioli di Bologna, dove Elisa Argentesi, la sua proprietaria, custodisce i segreti di un piccolo mondo in espansione: quello dei vini naturali Un corridoio dai toni caldi, le pareti decorate da una lunga collezione di bottiglie di vino provenienti da ogni regione d’Italia, pochi tavolini: questi i dettagli che un cliente coglie alla prima occhiata nell’entrare all’enoteca Faccioli, storico locale incastonato ai piedi della torre di via Altabella. Dell’attività originale è rimasto proprio tutto: le scansie, il bancone, i quadri, le foto d’epoca, il bagno: tutto garantisce che l’avventore, una volta varcata la soglia, respiri la storia. In fondo, sulla parete, svetta il ritratto di Olindo, il suo fondatore e primo proprietario, che ha dato vita a questo piccolo angolo di pace nel 1924: prima sotto la torre degli Asinelli, poi, nel 1934, il trasferimento per lasciare che il monumento fosse usato per controllare la città. Dagli anni ’30 ad oggi, però, la famiglia Faccioli non si è spostata: dopo Olindo è arrivato il figlio Fiorenzo e infine il nipote, Carlo. È proprio Carlo a passare il testimone del locale, nel 2012, a Elisa Argentesi e Stefano Ferrari, che hanno deciso di mantenerlo esattamente com’era, eccezion fatta per i vini. I nuovi proprietari infatti hanno un’idea ben chiara in mente: la Faccioli evolve quindi da osteria a enoteca e gli unici prodotti che vi si possono trovare sono i vini naturali. Lo sprone iniziale, l‘idea di acquistare il locale, è stato di Stefano, quando ancora lui ed Elisa non erano sposati. Ora lui si dedica all’amministrazione e al magazzino (una parte di lavoro che la moglie proprio rifiuta, ndr) anche se per stessa ammissione di lei «qualche lacuna sulla degustazione ce l’ha, ma in termini di conoscenza delle etichette si ricorda molto più di me!». Una bella scommessa per la coppia, che non ha ereditato la clientela storica del vecchio Olindo e ha dovuto quindi sgomitare per crearsi un posticino nel mercato enogastronomico bolognese.

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ENOTECASTORICAFACCIOLI

«Cosa si prova ad ereditare un posto come questo? Un inferno! – ride Elisa, occhi verdi come il grembiule su cui svetta, ricamato in oro, il nome dell’enoteca - All’inizio parti eccitato perché è un locale storico, quindi senti anche di avere in mano qualcosa di molto importante. In realtà, dopo essere subentrati alla precedente attività, abbiamo dovuto ricostruire tutto non sulla base dell’enoteca storica ma sul valore di quello che andavamo a vendere». Il processo è stato lungo: soltanto da quest’estate, dopo sei anni («sei anni e due figli» precisa Elisa), l’attività ha iniziato a dare i suoi frutti e i clienti ad arrivare con uno scopo mirato: degustare e acquistare vini naturali, accompagnati da taglieri di salumi e formaggi di qualità. Dall’enoteca Faccioli sono infatti banditi vini blasonati, cocktail, birre, bibite. Pochi piatti caldi, perché se si entra in un’enoteca è sul vino che ci si deve concentrare. «Il problema dei locali di oggi è l’identità – commenta ancora Elisa, - I bar fanno da mangiare, le enoteche fanno i cocktail. Dove fanno i cocktail vendono il vino: si trova tutto dappertutto. È l’identità che si è persa. Dando un’identità da subito, seppur soffrendo, si screma la clientela e alla fine il mercato te lo riconosce». I vini naturali ricoprono soltanto il 6% del mercato totale, ma, oltre agli appassionati, la clientela è composta anche da curiosi, che entrano nell’enoteca incerti sul da farsi ma sono propensi a farsi consigliare. Molti clienti vengono dalle città limitrofe, da Modena, da Ferrara o, addirittura, dall’estero. «Lavorare con gli stranieri è la cosa più bella – commenta la vitale proprietaria dell’enoteca - L’italiano è un po’ influenzato dalla cultura enologica italiana. Lo straniero, invece, questo background non lo ha perché negli altri Paesi, a parte la Francia, la cultura del vino non si è mai sviluppata: viene qua, è curioso, interessato e attento». Secondo Elisa, infatti, lo straniero va alla ricerca della qualità e per offrire la qualità servono conoscenza e duro lavoro. Una conoscenza che ha approfondito negli anni grazie a una precedente esperienza all’enoteca Zampa dove ha lavorato per sette anni il mercoledì e la domenica sera, oltre ad essere un’agente di commercio durante il giorno: «Avevo la passione del vino, abitavo nel quartiere della Barca dopo lo stadio e andavo lì a bere. Ho iniziato a rompere continuamente chiedendo che mi prendessero a lavorare – confessa Elisa, sottolineando le proprie affermazioni, pronunciate con un allegro accento bolognese, con una gestualità irrefrenabile – Il tutto per avere più contatto col vino». Dopo sono arrivati i corsi, ma il vino «non è che devi studiarlo e basta: ti deve piacere e devi avere anche il palato per capirlo!». Secondo la proprietaria dell’enoteca, infatti, molti sono gli appassionati, ma il livello di conoscenza è vario: come per il disegno, si va a scuola, ci si esercita, si possono anche raggiungere livelli sufficientemente alti. Poi però c’è chi ha il talento ed è inevitabilmente più bravo. Sui giovani e al loro rapporto con il vino è speranzosa: ragazza negli anni ’90, ha vissuto un’epoca in cui le uniche bevande alcoliche a cui si avvicinava erano i cocktail, dentro e fuori dalle discoteche. Adesso, invece, è felice di constatare che i ventenni contemporanei, se adeguatamente istruiti, sono più sensibili al fascino delle enoteche e dei loro prodotti. «Vedo che chi cresce in una famiglia appassionata di vino, ha un vantaggio – commenta, sottolineando l’assoluta ignoranza che aleggiava invece nella sua casa d’infanzia, - Se a tavola si sta con gente che beve vino e ne parla, pian piano impari!». L’aumento delle enoteche, la pubblicazione di volumi specialistici fanno sì, infatti, che la sensibilità per il vino di qualità si sviluppi, coinvolgendo anche i più giovani. Senza sottovalutare il potere di internet: oltre allo shop online dove si possono ordinare i prodotti della Faccioli (soprattutto se in seguito alla visita dell’enoteca l’avventore non ha la possibilità di portare direttamente a casa con sé il proprio vino preferito), nella sua costante ricerca di nuovi prodotti da proporre, Elisa non disdegna i social. «Quello dei vini naturali è un mondo a parte e su Instagram ci si segue, si hanno i follower – spiega, - magari vedi qualcuno che beve un determinato prodotto, ovviamente uno del mestiere e ci si confronta, lo scambio di informazioni tra addetti ai lavori è più immediato».

ENOTECA STORICA FACCIOLI

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