La Madia Travelfood n. 338 - Giugno 2019

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNI

www.lamadia.com

ANNO XXXV Giugno 2019 - N. 338 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

SPECIALE

CALABRIA Luca Abbruzzino • Michele Alessio Locanda Alia • Santavenere • Torre Infame

LORENZO COGO

Il ritorno nella sua Vicenza

DANIEL CANZIAN

Cucina italiana contemporanea

LA MADIA EDITORE




SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 338

GOURMETFOOD

di

Alessandra Meldolesi

GOURMETFOOD

pag. 24

pag. 32

pag. 56 LORENZO COGO

DANIEL CANZIAN

Il ritorno nella sua Vicenza.

La sua cucina italiana contemporanea a Milano.

GOURMETFOOD

VINARIA

pag. 45

pag. 88

SPECIALE CALABRIA

ALESSANDRA PIUBELLO

Luca Abbruzzino, Locanda Alia, Santavenere, Torre Infame, Michele Alessio.

La sua passione per il vino.

di

Alessandro Rossi


La cultura del benessere

Hotel Santavenere

L‘identikit della dieta perfetta

di Riccardo Marcialis........................................................ pag. 60

di Primo Vercilli................................................................ pag. 8

Torre Infame

Asaggio di Libri................................................................. pag. 10

di Riccardo Marcialis........................................................ pag. 63

Il menu engineering

Giovani Talenti

Il rischio generalista in un mercato di specialisti

Michele Alessio

di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 11

di Ugo Ravaioli................................................................. pag. 66

EVO - L’olio extravergine di oliva

Chef di Spirito

Loro verde della Calabria

Giuseppe Di Meo

di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 12

di Sonia Leo..................................................................... pag. 74

SicurezzAtavola

Prodotti Eccellenti

Salvare una vita con il taglio degli alimenti

La Perla del Delta

di Mirko Damasco............................................................ pag. 14

di Fabrizio Salce............................................................... pag. 78

Buone Nuove..................................................................... pag. 16

Intervista a...

Golavagando

Tommaso Lacanfora

Ristorante Fondo a Trequanda......................................... pag. 18

di Lucy Gordan................................................................. pag. 80

Fornace Stella a Roma..................................................... pag. 19

Vinaria

Cu_Cina a Roma

Il focus di Alessandro Rossi

di Jerry Bortolan............................................................... pag. 20

Sembra facile ma...

GourmetFood

conservare e servire vino è un mestiere

San Barbato Resort

di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 86

di Luigi Cremona.............................................................. pag. 38

Champagne Rosé

Speciale Calabria

di Mario Federzoni........................................................... pag. 93

Luca Abbruzzino

Ma esistono davvero i vini naturali?

di Alessandra Meldolesi................................................... pag. 48

di Mario Federzoni........................................................... pag. 94

Locanda Alia

I vini dolci

di Riccardo Marcialis........................................................ pag. 55

di Davide Staffa............................................................... pag. 96



EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

IL SERVIZIO, MAL COMUNE, MEZZO GUAIO Ho di recente effettuato un pranzo di lavoro in un locale stellato di Milano. Tutto bene il pranzo: piatti ottimi, ben presentati. Il servizio, invece, mi ha lasciata allibita. Mi riesce difficile accettare che in un ristorante che ha pretese di manifesta e superiore qualità, il servizio sia ancora un “problema così problematico”. Cosa mi ha scandalizzato tanto? È presto detto. Le due cameriere che si sono alternate al mio tavolo hanno sempre interrotto senza alcun riguardo il colloquio mio e dei miei ospiti per declamare il piatto servito: la buona prassi di porsi davanti ai commensali, magari con uno “scusate”, è stata del tutto ignorata. Più importante quello che dovevano dire loro, che quello che a noi importava dire. Lo champagne richiesto al momento dell’ordine non è arrivato né sugli antipasti, né sulla prima portata servita. Abbiamo dovuto attendere lo sbarazzo dei piatti (tanto, nessuno delle quattro persone di servizio guardava mai il nostro tavolo malgrado il locale avesse solo quattro tavoli occupati) per poter chiedere di nuovo la nostra bottiglia, a quel punto arrivata sui secondi. La borsa da viaggio riposta nel guardaroba e da me richiesta al maitre è arrivata solo dopo un quarto d’ora, ossia solo dopo avergli di nuovo fatto cenno. Il caffè chiesto dai miei ospiti è arrivato quando, spazientiti, se ne stavano andando dopo un’attesa incongrua: un pranzo di lavoro ha spesso tempi molto stretti, pertanto le lunghe attese creano comunque problemi. Se ci sono, vanno comunicate al cliente. Troppo pedante? Troppo capziosa? Troppe pretese? Mi metto a protestare anch’io come tanti fanno su (S)Tripadvisor? Non credo: non sto denunciando un ristorante specifico, ma una serie di disservizi inaccettabili, spesso endemici. Ho sempre scritto chiaramente che io mi aspetto che piatti e servizio corrispondano coerentemente con quanto pago e con quanto dovrebbe garantirmi un ristorante prestigioso. Se tali presupposti non coincidono, divento un cliente scontento. Ma scontento dovrebbe esserlo di più lo chef, a cui un pessimo servizio non rende certo merito.

ME

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LACULTURADELBENESSERE

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

L’IDENTIKIT DELLA DIETA PERFETTA CRITERI OGGETTIVI PER POTER SCEGLIERE IL GIUSTO MODELLO NUTRIZIONALE - PARTE 1 Questa è la vera domanda che tutti si pongono: qual è la dieta perfetta? Cominciamo con il dire che se, come avviene, il tasso di obesità nel mondo cresce, è chiaro che pare non esista una dieta perfetta. Quello davanti a cui, purtroppo, ci dobbiamo arrendere è proprio un’evidenza: manca oggettivamente un modello alimentare che le persone riescano a seguire con facilità, tanto da far sì che tale modello diventi una regola quotidiana. Non dimentichiamo che il reale significato di “dieta” è appunto “regola”: dobbiamo, ancora oggi, ammettere che la maggior parte dei tentativi finalizzati a far sì che una “dieta” possa diventare nel tempo “regola quotidiana” sono meramente falliti. Urge a questo punto farsi la prima domanda: perché le persone si mettono a dieta? Riporto una casistica personale: su 719 persone intervistate, venute alla mia osservazione per una dieta (553 donne e 166 uomini), ben 677 (529 donne e 148 uomini), quindi il 94,15%, hanno rivelato che il motivo della visita era il dimagrimento, mentre solo 22 (3,05%) ha chiesto di poter seguire una dieta al fine di conseguire un equilibrio alimentare. Le rimanenti 20 persone (2,78%) hanno chiesto una dieta per risolvere altri tipi di disturbi differenti dal sovrappeso. Per poter recuperare il vero significato di “dieta” è quindi necessario intervenire sulle reali finalità che spingono la persona a seguire un qualsiasi regime nutrizionale. E’ corretto che la persona abbia come “motivazione” il perdere peso, ma è altrettanto corretto

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che il medico, prendendo spunto da quella motivazione, sposti il tiro sulla reale “finalità”: si deve cioè spostare il target da un obiettivo di prestazione ad un obiettivo di padronanza. Se la dieta viene iniziata e seguita solo con la finalità di raggiungere un obiettivo di peso, già si perde di vista quale deve essere il reale lavoro terapeutico in campo nutrizionale; quello che conta effettivamente è, attraverso un parziale obiettivo di prestazione, poter raggiungere un reale obiettivo di padronanza. La persona deve poter essere in grado di esser “padrona” della realtà “cibo”, cioè saperla gestire con tranquillità, senza ansie, senza paure o conflitti e deve, ovviamente, conoscerla in modo pieno e corretto, non influenzata dai mille messaggi mediatici fuorvianti. Fatto questo primo passo è necessario cominciare a districarsi nella miriade di tipologie di diete che il mercato offre e cominciare a saper discernere con più obiettività quale può essere la direzione da prendere. Fermo restando che alcune di queste proposte sarebbero già da escludere in virtù del primo passo che abbiamo fatto, il secondo passo da fare riguarda l’attendibilità scientifica. Riguardo ai principi scientifici che stanno a monte di ciascuna dieta, ci sono prove attendibili? Quali sono i criteri per stabilire un’attendibilità scientifica? Purtroppo molti scambiano l’attendibilità scientifica con la maggiore esposizione mediatica e questo è, al momento attuale, un grosso limite. Eppure l’attendibilità scientifica si basa


LACULTURADELBENESSERE

su pochi concetti: a) numero di pubblicazioni presenti a supporto; b) casistiche incluse in queste pubblicazioni (da non considerare mai le casistiche di poche decine di persone); c) numero di citazioni che ha ciascuna pubblicazione (più citazioni ha e più la pubblicazione è stata presa come riferimento da altri ricercatori). Questa piccola ricerca può essere fatta da tutte le persone con i normali strumenti sul web che si hanno a disposizione: basti pensare a Google Scholar. A questo punto arriva una domanda fondamentale che ciascuna persona dovrebbe farsi prima di scegliere una dieta: escludendo veganesimo e vegetarianesimo, il regime alimentare prevede l’esclusione incondizionata di qualche gruppo alimentare o qualche principio nutritivo a scopo metabolico? Nel regime alimentare si teorizza l’eliminazione di alimenti pur non avendo allergie o intolleranze accertate in modo inequivocabile? Ripeto: escludendo particolari regimi, adottati anche per motivi etici (vegano e vegetariano) ed escludendo particolari situazioni cliniche, in cui la gravità della condizione obbliga ad una privazione precisa, non ci sono assolutamente indicazioni affinché un qualche alimento venga eliminato del tutto dalla propria alimentazione. Anche qui molto spesso si fa un errore: si demonizza un determinato alimento solo in virtù del fatto che è di più difficile gestione. Se io affermo “il cioccolato può non far male” non voglio dire che “il cioccolato fa male”. Questa sottile differenza ci dà la misura di quanto una dieta possa essere propositiva (“il cioccolato deve esserci in una dieta perché è gustoso e gratificante, ma deve essere gestito, altrimenti può far male”) o di quanto voglia essere privativa (“il cioccolato deve essere eliminato dalla dieta”). Un regime privativo non insegna una reale gestione alimentare in quanto risolve tutto con l’assenza. Solo quando invece un determinato alimento è presente, noi possiamo imparare a gestirlo. Arrivati a questo punto, ecco a voi l’ultimo punto di oggi su cui riflettere: essere consapevoli che non ci sono integratori che aiutino, in modo deciso, ad essere più magri! Tutti noi cerchiamo ricette magiche che ci permettano di far meno fatica, ma in effetti le uniche due strade per essere in forma continuano ad essere un regime alimentare appropriato e un adeguato livello di attività fisica. Determinati integratori possono agire a livello nutrigenomico potenziando o silenziando alcuni geni che codificano per proteine molto importanti nei processi metabolici, ma, in ogni caso, nessun effetto sul sovrappeso potrebbe mai essere raggiunto senza una riduzione calorica o un aumento della spesa energetica. E’ anche vero che, se da una parte alcuni integratori possono stimolare alcuni geni (esempio, il resveratrolo che stimola SIRT1) è altrettanto vero che una cattiva alimentazione o condizioni cliniche particolari, come la resistenza insulinica, possono estinguere l’espressione dello stesso gene. Quindi bisogna categoricamente diffidare da proposte che contengano l’utilizzo inappropriato di integratori alimentari

e soprattutto non lasciarsi fuorviare da claims che evidenziano effetti sorprendenti e pensare che il primo, vero, autentico approccio deve essere quello di un miglioramento della gestione alimentare. Ecco quindi lo schema in cui riassumo i primi 4 punti fondamentali per poter stabilire qual è la dieta perfetta:

Ma attenzione: siamo solo a metà strada. Mentre meditate su questi primi 4 punti, vi dò appuntamento al prossimo numero per conoscere insieme quali sono gli altri punti (anch’essi fondamentali) per stabilire l’identikit della dieta perfetta!

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IL MENU ENGINEERING

a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

IL RISCHIO DEL GENERALISTA IN UN MERCATO DI SPECIALISTI Esempio 1. Mettiamoci nei panni di una persona che soffra di forti mal di schiena. Dopo una rapidissima ricerca su Google e il consiglio di qualche amico e conoscente, trova due medici. Il primo: Dott. Rossi, medico di base. Il secondo: Dott. Verdi, specializzato in risoluzione di problemi legati alla colonna vertebrale. A quale dei due professionisti è più probabile che si rivolga il paziente? Al Dott. Rossi? Con il rischio che lo guardi annoiato, da dietro ai suoi occhialoni dalle lenti spesse, dicendo: “Prenda queste pastiglie, due volte al dì, la fattura la chieda alla segretaria, alla prossima!” O al Dott. Verdi, che dopo aver proposto un’analisi di checkup specifica e qualche seduta in una clinica specializzata, ha la possibilità di rimettere in sesto per sempre il fortunato protagonista di questo esempio? Esempio 2. Mettiamoci nei panni di un’altra persona. Questa persona non soffre di mal di schiena, ma ha semplicemente voglia di una buona bistecca. Nelle prossimità della sua abitazione ci sono due ristoranti. Il primo: Il Pozzo. L’insegna recita: “Ristorante Pizzeria specialità carne, pesce, cucina tradizionale e pizza anche a mezzogiorno con forno a legna.” Il secondo: Outback, Steakhouse. L’insegna contiene testuali parole: “Condiamo le nostre bistecche grassfed con un mix segreto di spezie e le cuociamo solo su brace di legna di quercia.” Quale dei due ristoranti ha più probabilità di avere il nostro amico nelle proprie sale? Al Pozzo, rischiando che la bistecca sappia di cocktail di gamberi? O da Outback, dove il rischio maggiore è quello di provare la bistecca più buona della sua vita? (A proposito, Outback esiste davvero. E ha 1.200 punti vendita in tutto il mondo). Cosa possiamo imparare da questi due esempi? In entrambi i casi si aveva un PROBLEMA SPECIFICO da risolvere. Nel primo caso era un mal di schiena, nel secondo era una semplice voglia di mangiare una buona bistecca. Cambia il problema, ma non il nostro approccio a risolverlo. In entrambi

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i casi è più probabile che ci si affidi a chi promette di risolvere meglio il nostro problema specifico. Cioè a chi offre SOLUZIONI SPECIFICHE. La morale, che ogni ristoratore italiano dovrebbe imparare, è la seguente: “se il tuo ristorante offre soluzioni generaliste, non risolve problemi specifici!” Quindi, come si può anche solo pensare di attirare persone con un problema specifico? Quando i tuoi potenziali clienti escono per un pranzo o per una cena, hanno una gamma di problemi differenti: • C’è chi vuole fare bella figura con il/la proprio/a compagno/a; • C’è chi vuole fare suscitare invidia in tutti i suoi amici postando una foto del locale sui propri profili social; • C’è chi vuole mangiare, bere e divertirsi in un ambiente informale e rilassante; • C’è chi vuole mangiare un boccone veloce e ballare per tutta la sera; • C’è chi ha l’esigenza di lasciare i propri pargoli all’area giochi dedicata e passare due ore della propria vita rilassandosi; • C’è chi vuole festeggiare un momento speciale; • Ecc. ecc. Insomma, siamo tutti alla ricerca di una soluzione ad un nostro problema specifico. Nessuno di noi esce con un problema generico. Tutti noi abbiamo un problema specifico, e ricerchiamo soluzioni che siano all’altezza del problema stesso. Va da sè che se non si offre soluzioni specifiche, non si risolve problemi specifici. E, in Italia, abbiamo una duplice fortuna: 1. Di problemi specifici è pieno il mercato; 2. Di soluzioni specifiche è vuoto il mercato; Chi legge dovrebbe focalizzarsi sul proporre al mercato delle soluzioni specifiche ai propri problemi specifici. Perché nel mercato di oggi, quando il generalista incontra lo specialista, ha le stesse possibilità di vittoria dell’uomo con la pistola che incontra quello con il fucile: ben poche.


ASSAGGIO DI

LIBRI

a cura di Giorgia Zucchi

DAL LIBRO AL PIATTO

LA DEGUSTAZIONE DEL CAFFÈ

150 anni di storia della letteratura gastronomica italiana raccontati attraverso 10 testimonial, dall’Artusi al Guerrini, da Marchesi a Bottura. Una rassegna di testi e ricette che ben rappresentano l’evoluzione della nostra cucina nel tempo, da quella di casa a quella della migliore ristorazione.

di Mariavittoria Andrini - Edizioni InMagazine 128 pagine - Euro 22,00

RICETTE DELLA BUONANOTTE Una raccolta di ricette scritte e disegnate, da realizzare nella calma della sera, da soli o con i bambini, per diffondere in casa il dolce profumo di prelibatezze da gustare poi il mattino successivo.

di Valentina Scannapieco - iFood Editore 96 pagine - Euro 16,90

È dell’azienda Bazzara di Trieste un nuovo volume sull’analisi sensoriale del caffè, pratica ormai diffusa tra gli appassionati e i cultori di questa bevanda con un gusto tipicamente italiano. Terminologie adeguate, con vocaboli, tecniche di produzione e di degustazione in un tomo soprattutto per addetti ai lavori.

di Franco e Mauro Bazzara - Planet Coffee 384 pagine - Euro 45,00

CUCINA SLOW Divise per cicli stagionali, una serie di ricette che la stessa autrice ha corredato da belle foto. Ne scaturisce un volume che, malgrado sia intenzionalmente dedicato alla montagna, rappresenta quel confort food adatto a tutte le occasioni. Preparazioni golose, light, senza glutine, vegetariane infarcite di consigli e passione.

di Monica Giustina- iFood Editore 288 pagine - Euro 22,90

ENCICLOPEDIA ENOGASTRONOMICA DELLA ROMAGNA Enciclopedico Pozzetto lo è sempre stato in quanto ogni suo volume esprime in modo esaustivo ogni argomento trattato. Questo nuovo volume - che segue il primo tomo dove si raccontano gli usi e costumi pi tradizionali della Romagna, con particolare attenzione alla cultura suinicola - analizza dieci cucine della regione in quanto ogni zona ha consuetudini specifiche che la caratterizzano rispetto alle altre. Un mosaico che ci consegna un quadro ricco e gustoso di un territorio variegato in cui la storia ha il ritmo delle generazioni che si susseguono, con gli inevitabili cambiamenti delle abitudini alimentari.

VOLUME II - di Graziano Pozzetto - Società Editore Il Ponte Vecchio - 492 pagine

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a cura di Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini

L’ORO VERDE DELLA CALABRIA In Calabria la presenza dell’ulivo è documentata almeno sin dal VIII/VII sec. a.C.) dove arrivò con le navi dei primi coloni Achei che sbarcano nella zona compresa tra Kaulonia, Kroton e Sybaris; ma come attestano alcune evidenze archeologiche, la presenza dell’olivo in Calabria è ben più antica. Tali studi retrodatano l’introduzione della coltivazione dell’olivo all’età del Bronzo (XIII-XII sec. a.C.) come emergerebbe dagli studi condotti negli scavi del centro protostorico di Broglio di Trebisacce (CS) ed in aree limitrofe. In questa area di scavo e studio sono stati rinvenuti noccioli ed olive, nonché impronte di foglie di Olea europaea negli intonaci, e tracce di olio da olive all’interno dei caratteristici contenitori. Tuttavia si deve ai Romani, con l’introduzione di importanti innovazioni e il perfezionamento delle tecniche olearie, l’enorme sviluppo e la diffusione di questa coltura antichissima: lo storico Plinio affermava che dalla Calabria arrivava “un eccellente olio d’oliva a prezzi ragionevoli, il migliore nel Mediterraneo”. Definita pianta “magica” e “immortale” grazie alla sua capacità di rigenerarsi, l’olivo, pianta generosa e longeva, ha accompagnato ed accompagna strettamente la vita rurale calabrese, rivestendo nel tempo la stessa importanza del vino e del pane. Olive, olio, legno, foglie, rendono questo albero molto importante. È alimento per il bestiame e medicamento ed unguento in erboristeria, luce nelle antiche lucerne, lubrificante per le antiche fabbriche, alimento ed ingrediente principale in

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cucina, calore e legno per le case. Veri e propri monumenti della natura, sempreverdi e molto longevi, con il loro verde argento straordinario gli olivi sono oggi parte inconfondibile del paesaggio collinare e pianeggiante agrario calabrese. L’olivicoltura ha consentito di valorizzare vaste aree poco adatte a ospitare altre colture, assumendo una rilevante importanza per l’economia della regione. Le origini antiche della diffusione dell’olivo sul territorio, il tramandarsi della tradizione nelle pratiche colturali, la particolare esposizione dei terreni e l’ambiente pedoclimatico, hanno determinato una diffusione importante della coltura dell’olivo che ha consentito lo sviluppo di numerose cultivar autoctone. Con più di 135mila aziende agricole ad indirizzo olivicolo, 750 frantoi attivi, circa 190mila ettari coltivati ad olivo e 51 milioni di piante (16% della superficie nazionale coltivata a olivo) e una produzione di quasi 190mila tonnellate (33% della produzione nazionale di olive e il 36% di quella di olio) la Calabria è la seconda regione in Italia per produzione di olio di oliva.

Bruzio D.O.P. Prodotto in quattro zone diverse della provincia di Cosenza, alle quali sono assegnate le seguenti menzioni geografiche aggiuntive alle quali risultano corrispondere caratteristiche organolettiche e di consumo differenti:

Le D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta) riconosciute in Calabria, le zone di produzione e le principali caratteristiche come da disciplinare:

Lametia D.O.P. Prodotto solo nei comuni adiacenti la Piana di Sant’Eufemia nella provincia di Catanzaro. Colore da verde a giallo paglierino, odore fruttato, sapore delicato di fruttato.

Alto Crotonese D.O.P. Prodotto nella fascia collinare della provincia di Crotone. Colore giallo paglierino-verde chiaro, odore delicato di oliva, sapore fruttato leggero.

Fascia Prepollinica Colore verde con riflessi gialli, odore di fruttato medio, sapore fruttato. Colline Ioniche Presilane Colore giallo oro con riflessi verdi, odore di fruttato delicato, sapore fruttato con sapore di mandorla dolce. Sibaritide Colore giallo con qualche riflesso verde, odore di fruttato leggero, sapore fruttato leggero con leggere sensazioni di amaro. Valle del Crati Colore dal verde al giallo, odore di fruttato medio, sapore fruttato.

Locride D.O.P. (ancora in fase di valutazione) Il riconoscimento del marchio D.O.P. da parte


dell’Unione Europea si trova ancora in fase di valutazione, ma l’olio extravergine di oliva della Locride ha di certo tutte le credenziali per ottenere il prestigioso riconoscimento. L’olio si ricava da una particolare cultivar di oliva, detta Grossa di Gerace, ben diffusa lungo la fascia ionica della provincia di Reggio Calabria, chiamata appunto Locride. Il disciplinare di produzione è ancora in fase di definizione. Colore verdone, verde-oro, giallo-oro, odore fruttato delicato, sapore spiccato di fruttato. In Calabria il patrimonio olivicolo può contare su di un vasto germoplasma, frutto della differenziazione, nel tempo, di almeno 33 cultivar differenti: Borgese, Carolea, Cassanese di Lauropoli, Cerchiara, Chianota, Ciciarello, Corniola di Villapiana, Razza, Dolce di Rossano, Fecciaro, Fidusa, Grossa di Cassano, Grossa di Gerace, Mafra di Cerchiara, Melitana, Miseo, Napoletana, Nostrana di Amendolara, Ottobratica, Pargolea, Pennulara, Perciasacchi, Policastrese, Pugliasca, Rezza, Roggianella, Santomauro, Sinopolese, Squillaciota, Tombarello, Tonda di Strongoli, Tondina, Zinrifarica. L’ulivo, albero simbolo della Calabria, non smette mai stupire: è recente la scoperta della presenza nella regione - precisamente in provincia di Cosenza e Reggio Calabria, nelle vicinanze di poderi che appartenevano un tempo a monaste-

ri basiliani, particolarmente diffusi in Calabria tra il VII e il X secolo d. C. - della rarissima specie «Leucolea», bianca oliva, che dà olive assolutamente candide. I frutti, di piccole dimensioni, presentano la particolare ed unica caratteristica di non sintetizzare durante la maturazione pigmenti antocianici ( pigmenti rossi che colorano la buccia delle olive). Le drupe, infatti, con il procedere della maturazione, da color verde chiaro lucente virano al bianco latte e, se non raccolte, si mantengono a lungo sui rami. Si ottiene così un accattivante effetto estetico determinato dall’acceso contrasto tra le olive di color bianco ed il verde scuro del fogliame. CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO IGP OLIO DI CALABRIA I.G.P. La zona di produzione dell’olio extravergine d’oliva ad Indicazione Geografica Protetta “Olio di Calabria” comprende l’intero territorio amministrativo della regione Calabria. Calabria IGP è un olio extravergine ottenuto da olive provenienti dai cultivar autoctone, a prevalente diffusione sul territorio regionale: Carolea, Dolce di Rossano, Sinopolese, Grossa di Gerace, Tondina, Ottobratica, Grossa di Cassano, Tonda di Strongoli, presenti da sole o congiuntamente, in misura non inferiore al 90 %. Il restante 10 % può provenire da cultivar di olive autoctone di minore diffusione.

Tra le «particolarità sensoriali» vi sono il fruttato di oliva verde o appena invaiata, le note floreali e di carciofo, accompagnate da persistenti sentori di erba appena sfalciata, foglia e pomodoro (verde/maturo). Al gusto, si fa apprezzare per la struttura armonica dei suoi costituenti, che lo rendono mediamente dotato di amaro e piccante, caratteristica questa riconducibile al contenuto fenolico, medio-alto. La Calabria si conferma terra vocata per la coltivazione dell’olivo con un patrimonio olivicolo ancora in larga parte inesplorato, dalle grandi potenzialità, di cui deve essere presa consapevolezza. In un contesto dove fa ancora fatica ad attecchire il concetto di qualità, l’olivicoltura in questi ultimi anni ha comunque fatto passi da gigante, anche se ha comportato sacrifici ed adattamenti che non tutti hanno avuto la capacità di affrontare e risolvere. C’è ancora molto da fare per creare un’identità territoriale per l’olio calabrese, tuttavia esistono realtà importanti e olivicoltori d’eccellenza che, attraverso un percorso d’innovazione che diventerà un esempio ed un riferimento per molti, hanno raggiunto risultati notevoli in termini di qualità di prodotto e si fanno valere nel panorama nazionale ed internazionale.

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SALVARE UNA VITA CON IL TAGLIO DEGLI ALIMENTI AL RISTORANTE UN SERVIZIO IN PIÙ PER LE FAMIGLIE di

Mirko Damasco

Nel nostro precedente articolo abbiamo iniziato a delineare il quadro generale che evidenzia l’elevata rischiosità del soffocamento da cibo in età pediatrica, con una fascia di maggiore esposizione tra gli 0 e i 4 anni. A livello internazionale si concorda sul fatto che l’elevata incidenza di episodi di soffocamento sia dovuta alle caratteristiche psico-fisiologiche del bambino: le vie aeree sono di diametro piccolo e fino alla pubertà di forma conoide; la scarsa coordinazione tra la masticazione e la deglutizione dei cibi solidi (che non è innata, come lo è per i liquidi); la dentizione incompleta (i molari si sviluppano verso i 30 mesi); la frequenza respiratoria elevata e la tendenza a svolgere più attività contemporaneamente. Poiché in età pediatrica il cibo è la causa tra il 60% e l’80% degli episodi di soffocamento, molto si deve fare in termini di prevenzione. In generale, si può affermare che gli alimenti “pericolosi” condividono particolari caratteristiche di forma, consistenza e dimensioni. Le forme tonde (ad esempio l’uva o i pomodorini) e quelle cilindriche (ad esempio le carote o i wurstel) sono più pericolose poiché, se aspirati, possono bloccarsi nell’ipofaringe, ostruendo completamente il passaggio dell’aria. La consistenza del cibo può giocare un ruolo insidioso quando si tratta di cibo particolarmente fibroso (ad esempio il sedano crudo), appiccicoso (gli gnocchi di patate) o comprimibile (come per esempio i wurstel): quando si tratta di alimenti duri e fibrosi, questi sono difficili da masticare a causa della fisiologica mancanza di denti del bambino, mentre quando si tratta di alimenti appiccicosi, risulta difficile rimuoverli allorquando, una volta inalati, restano bloccati nelle vie aeree. Infine, nel caso di cibi

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comprimibili, questi possono finire nelle vie aeree ancor prima che il bambino riesca a morderli, adattarsi alla forma dell’ipofaringe (grazie alla loro consistenza), ostruendo così il passaggio dell’aria. Dobbiamo allora rinunciare ad alcuni cibi potenzialmente rischiosi per la salute dei bambini? A questa domanda è importante rispondere con un semplice e chiaro “NO”. Anzi, un comportamento di “rimozione” indurrebbe ad una maggiore esposizione al rischio, che per sua natura non è mai eliminabile. Allora, cosa fare? Ebbene, tutte le linee guida a livello internazionale sono concordi nell’affermare che sia possibile offrire ai bambini gli alimenti “pericolosi” (a parte poche eccezioni) quando siano stati opportunamente preparati in modo tale da minimizzare il rischio di soffocamento. Perciò, la prima azione che deve essere intrapresa è nel senso della prevenzione, con alcune semplici regole di preparazione del cibo che andiamo a sintetizzare: • Preparazione del cibo per annullare la forma circolare che agisce da “tappo” (ad esempio, andremo a tagliare gli alimenti cilindrici come le carote o i wurstel a listarelle, quelli tondi come l’uva o i pomodorini in quarti). • Preparazione del cibo per modificarne la consistenza (nel caso del sedano, ad esempio, per eliminare le nervature ed i filamenti, lo somministreremo cotto anziché crudo). • Preparazione del cibo per modificarne le dimensioni, tagliandolo in pezzi piccoli o tritandolo.


SICUREZZATAVOLA

Concludiamo questa seconda puntata riportando quanto il Ministero della Salute ha indicato, in un documento di alcuni anni fa, come raccomandazioni con riferimento alla tipologia di cibo. ALIMENTI PERICOLOSI (CATEGORIE PRINCIPALI)

ETÀ FINO ALLA QUALE EVITARE L’ALIMENTO

SE VUOI FORMARE IL PERSONALE DEL TUO LOCALE CONTATTACI

info@sicurezzatavola.it PREPARAZIONE RACCOMANDATA

Alimenti di forma tondeggiante (es. uva, ciliegie, olive, mozzarelline, pomodorini, polpettine)

Tagliare in pezzi piccoli (circa 5 mm). Prestare attenzione nel rimuovere i semi e i noccioli

Alimenti di forma cilindrica (es. wurstel, salsicce, carote)

Tagliare prima in lunghezza (a listarelle) e poi in pezzi più piccoli (circa 5mm), MAI a rondelle. Prestare attenzione nel rimuovere eventuali budelli o bucce

Arachidi, semi e frutta secca a guscio

4/5 anni

Se comunque somministrati, tritare finemente o ridurre in farina

Cereali in chicchi (es. orzo, mais, grano) e muesli

Tritare finemente. Utilizzare i cereali sotto forma di farina anziché di chicchi interi (dopo l’anno i bambini non dovrebbero più mangiare farine)

Frutta disidratata (es. uvetta sultanina)

Mettere a bagno/ammorbidire e tagliare finemente

Alimenti che si rompono in pezzi duri e taglienti (es. cracker e biscotti di consistenza molto dura)

Ridurre in farina/sbriciolare (dopo l’anno i bambini non dovrebbero più mangiare farine)

Burro di arachidi e altri alimenti della stessa consistenza

Spalmare uno strato sottile sul pane

Pezzi di frutta e verdura cruda, o solo parzialmente cotta, con consistenza dura (es. mela) e/o fibrosa (es. sedano, ananas)

Cuocere fino a quando raggiungono una consistenza morbida, o grattugiare finemente. Prestare attenzione nel rimuovere eventuali semi, noccioli, filamenti, e bucce

Verdure a foglia

Cuocere fino a quando raggiungono una consistenza morbida e tritare finemente. Qualora fossero consumate crude, sminuzzare finemente. Prestare attenzione nel rimuovere filamenti e nervature

Carne, pesce

Cuocere fino a quando diventano morbidi e poi tagliare in pezzi piccoli. Prestare attenzione nel rimuovere nervature e filamenti, gli ossicini dalla carne, le lische dal pesce

Salumi e prosciutto

Tagliare in pezzi piccoli (massimo 1 cm) da somministrare singolarmente

Legumi (es. fagioli e piselli)

Cuocere fino a quando sono abbastanza morbidi da poterli schiacciare con una forchetta

Formaggi a pasta filata

Tagliare finemente

Alimenti (es. pane, biscotti) che contengano frutta secca, disidratata, cereali in chicchi

Tritare finemente o ridurre in farina

Caramelle dure e gommose, gelati

4/5 anni

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BUONENUOVE!

Riapre Laqua Charme & Boutique di Cinzia e Antonino Cannavacciuolo Si apre una nuova stagione per Laqua Charme & Boutique, la casa al mare di Cinzia e Antonino Cannavacciuolo, che sorge nei luoghi da cui è cominciato il fortunato percorso dello chef bistellato, il quale ha scelto Meta di Sorrento per realizzare un piccolo gioiello votato al relax, al benessere ed immerso nella natura più rigogliosa. L’architettura Feng Shui, le camere che accarezzano il mare, la natura e un luogo ideale per gli appassionati di yoga. Tutto è pronto per la stagione 2019.

Laqua Charme & Boutique Meta (NA) www.laquaspasorrento.it

La “nuova” primavera del Locale Firenze insieme allo chef Gianluca Renzi Gianluca Renzi è appena arrivato alla guida della cucina del LOCALE Firenze; classe 1989, romano, forte di significative esperienze presso il pluristellato chef Heinz Beck e poi come executive chef del Ristorante Castello di Fighine presso il quale ha ottenuto la stella Michelin, porterà in tavola piatti di una cucina “cucinata”, che darà parola agli ingredienti restituendo al cibo il valore conviviale ed emozionale che questo devo avere, e nel quale il lato estetico dell’impiatto non avrà un ruolo marginale pur non condizionando la costruzione della proposta.

Locale Firenze www.localefirenze.it

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La Patata di Bologna è D.O.P.! La Patata di Bologna D.O.P. è la prima patata italiana insignita della Denominazione d’Origine Protetta: pre stigioso rico n o s c i m e n to che identifica e tutela una patata di altissima qualità in base alle sue caratteristiche fisiche, organolettiche e per area di produzione. L’unica varietà della Patata di Bologna D.O.P. è la Primura: forma ovale, allungata e regolare. Il colore della polpa giallo paglierino, la buccia liscia e di tonalità chiara. La polpa consistente, mai troppo secca e tendenzialmente non farinosa, la rendono particolarmente idonea a molteplici utilizzi culinari come la cottura a vapore e al forno, in salse ed intingoli per aggiungere una gradevole texture a tutti i piatti (ad esempio il Gulasch), oppure in padella con olio e rosmarino. Sono ottime anche fritte, in particolare dopo averle lavate in acqua tiepida per eliminare l’amido in eccesso.

www.patatadibologna.it


LE NOVITÀ DEL MESE

Ca’ Pelletti: prima apertura in Veneto

www.capellettilocandaitalia.it

Tutti pazzi per la Mortadella Bologna IGP, anche all’estero! La Mortadella Bologna IGP vola anche all’estero, con un aumento delle vendite dell’8,6% e, nell’anno del suo diciottesimo compleanno, il Consorzio Mortadella Bologna si regala un Disciplinare nuovo: niente glutammato e solo aromi naturali. Dei 33 milioni di kg venduti nel 2018, l’84% viene consumato in Italia e il 16% all’estero, per un valore totale di 320 milioni di euro. Si confermano grandi consumatori di Mortadella Bologna la Spagna e la Gran Bretagna. Per quel che riguarda invece l’export extra UE (per ora ancora il 6% del totale, ma con ampi margini di crescita) la Mortadella Bologna IGP viene acquistata principalmente in Svizzera (39%) e nell’est asiatico (13% in Giappone).

Burrolio veg e senza glutine Burrolio è un’alternativa al burro vaccino, 100% vegetale e senza glutine. Un burro vegetale solido a temperatura ambiente, dall’alto profilo sensoriale, organolettico e nutrizionale. Si può utilizzare come ingrediente per impasti dolci e salati, per mantecare, soffriggere e dorare. Disponibile nelle versioni all’Oliva, Nocciola, Pistacchio, Mandorla e Noce, in formato pet da 100 grammi.

Dopo Bologna e Milano, l’originale format di cucina romagnola apre a Padova, in via Mantegna 2. La catena ristorativa fa capo a Surgital, la prima azienda italiana produttrice di pasta fresca, piatti pronti e sughi in pepite surgelati per la ristorazione, il catering e il canale bar. Il nuovo ristorante rispecchia il gusto, lo stile e i valori dell’accoglienza e della familiarità tipici della tradizione romagnola, attraverso un’offerta gastronomica variegata che si ispira alla cucina tipica della Romagna: Caplett (Cappelletti), Taìadel (tagliatella), Garganél (Garganelli). Immancabile nel menu la piadina artigianale in abbinamento con salumi e formaggi locali. Inoltre, trovano ampio spazio nella locanda anche i piatti tipici a base di carne: spezzatini, umidi e tagliate, da abbinare ai contorni di verdure fresche o cotte. A completare il menu una ricca selezione di vini tipici del territorio, che valorizzano il sapore di ogni piatto e offrono ai clienti un’esperienza completa. Il nuovo ristorante occuperà 15 risorse sin dall’inizio, portando a 70 il numero delle persone impiegate in tutti i locali della catena.

www.burrolio.it

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GOLAVAGANDO

IN

FONDO C’È LA CUCINA TOSCANA PIÙ ONESTA All’interno di un borgo fondato dai Templari, sul confine tra la Val D’Orcia e la Val di Chiana, nasce Fondo, nel cuore dell’Abbadia Sicille. Quello che fu un ospizio per i pellegrini, un convento dei monaci Olivetani e una fattoria, ospita oggi un luogo di ristoro nato da un’idea di una chef e una storica dell’arte. Non solo la tavola intesa come uno spazio in cui stare, ma anche un luogo dove condividere eventi e manifestazioni culturali. Nell’epoca del Cibalismo, in cui predomina l’estetica del #food che sazia ancor prima di averlo mangiato, Fondo sposta l’attenzione sui veri protagonisti della tavola: produttori, allevatori e contadini del territorio, per valorizzarne le eccellenze. In questo modo l’atteggiamento cannibale nei confronti del cibo si concentra nella semplice cura di un pomodoro nell’orto nei giorni di pioggia, nell’urgenza del pane che lievita sotto il panno e della carne che si affumica nel denso della corteccia, prima di pensare a quanto tutto questo possa essere fotogenico. Il cibo è “solo” cibo e deve svolgere la sua funzione con onestà. Il nome Fondo rappresenta tutto questo: la parte residuale del piatto, il fondo agricolo, il fondo di cottura delle materie che mettiamo sui carboni. Fondo è quello che resta di ciò che abbiamo fatto e che, senza malinconie, nel tempo di una forchettata, scompare. FONDO RISTORANTE - ABBADIA SICILLE

Strada Provinciale 14, Km 5.5 - 53020 Trequanda (SI) Tel. +39 338.84.47.074 - +39 338.65.21.846 www.fondoristorante.it - fondoristorante@gmail.com

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A ROMA

FORNACE STELLA PIZZA E CUCINA DI QUARTIERE A PIAZZA LECCE

ECCELLENZE DI TEANO ALLA

LOCANDA DE FORIS di

Pizza, bruschette, fritti, piatti di pasta generosi, carni fumanti, e uno spazietto per il dolce: Fornace Stella ha aperto a Piazza Lecce, a breve distanza da Piazza Bologna, con un ambiente caldo e accogliente che ospita una cucina e una pizzeria diretta, per buongustai ma, soprattutto, per tutti. L’idea della pizzeria di quartiere nasce da Enrico Mercatili e Roberto Priora - colleghi, amici e soci, con un trascorso nell’imprenditoria - che hanno deciso di creare Fornace Stella per un pubblico che ama divertirsi e andare a cena fuori non dimenticando la qualità del servizio, dell’offerta e del bere. Prima di tutto pizza: a pensarla e firmarla è il Mastro Pizzaiolo romano Giancarlo Casa, che ha creato un impasto che concilia la croccantezza della pizza romana con la scioglievolezza e la morbidezza della pizza napoletana. Il risultato è una pizza a modo suo diversa, unica. Facendo un salto in cucina, si scopre una proposta semplice, diretta, ma non banale. Una cucina che ha nella soddisfazione di occhi e palato la sua unica pretesa, partendo dagli sfizi in coccio sfornati dalla fornace, i fritti (tra cui le olive ascolane di importazione marchigiana, proprio come Enrico), le bruschette, le paste, la griglia, i crostini, le verdure di contorno e i dolci. In tutto il menu si cerca il giusto bilanciamento tra le ricette di famiglia e proposte dal sapore più attuale. Anche a pranzo con una carta e formule dedicate. FORNACE STELLA

Piazza Lecce, 9 - Roma - Tel. 06 4754 9953 www.fornacestella.it

Laura Gambacorta

Teano, l’antica Teanum sidicinum, è un importante borgo dell’alto Casertano che si sviluppa alle pendici del massiccio vulcanico di Roccamonfina. Ricco il patrimonio archeologico, storico e culturale che ha come fiore all’occhiello il Teatro romano, il più antico d’Italia, che risale alla fine del II secolo a.C.; non da meno è il patrimonio agroalimentare che beneficia di terreni particolarmente fertili. Proprio queste numerose eccellenze come il cece di Teano, conosciuto anche come “cece piccolo riccio”, varietà antica a rischio di estinzione che dal 2018 è tutelata come Presidio Slow Food, il fagiolo “a pizzella” e la rinomata nocciola mortarella sono alla base della proposta gastronomica dello chef Pietro Balletta, patron della Locanda De Foris. Se i ceci di Teano vanno a sposarsi con la pasta mischiata e i fagioli a pizzella con il baccalà mantecato, le nocciole vanno a completare le tagliatelle con salsa di finocchio. Anche tra le carni la preferenza viene data a quelle di bufalo e di suino nero di razza casertana, non a caso conosciuto anche col nome di “pelatello teanese”. Balletta, “sidicino doc” ritornato nella sua Teano dopo tante esperienze nelle cucine di diverse zone d’Italia e non solo, fa della territorialità e della stagionalità dei prodotti il suo punto di forza. Il piccolo e accogliente locale, ricavato in un ex monastero di monache di clausura, sorge nel cuore del centro storico di Teano a pochi metri dalla cosiddetta “portella”, l’unico accesso solo pedonale alla città medioevale. LOCANDA DE FORIS Calata Santa Maria De Foris - Teano (CE) Tel. 328 9174945

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CU_CINA FUSION DI CARATTERE A ROMA di Jerry foto di

Bortolan Giovanna Di Lisciandro

Nel rione Monti di Roma, alla fine della Salita del Grillo - la via che costeggia e guarda lo storico e straodinario Foro di Traiano, il mercato multifunzionale nell’antica Roma - al numero 6B c’è “Cu_Cina”, il ristorante di Stella Shi, una geniale chef dagli occhi a mandorla, di origine cinese che ha aperto insieme a Simona, la sorella sommelier e responsabile della sala. La carta del ristorante coniuga Italia e Cina in Cucina, ma non entra nel coro del deja-vu. La sua cucina è frutto di un percorso che nasce quando Stella, a 19 anni, rimane folgorata dalla passione per i fornelli e, con una determinazione tipica della sua razza, inizia una full immersion nei posti giusti, dove impara le regole, i fondamentali e le tecniche dell’alta ristorazione. Tutto questo le servirà poi per creare le sue proposte, che non sono propriamente cinesi né di tradizione italiana, ma fuse su percorsi studiati per creare piatti non scontati, perché venati da idee e tecniche mai approssimative. Piatti realizzati con alimenti anticonvezionali che si integrano alla perfezione, creando piaceri insoliti come con l’uovo barzotto fritto, concepito con verza cinese, jus di vitello, tuorlo d’anatra sotto sale, fusione e integrazione perfetta dei tre alimenti, divertente e gustosissimo. Intense ed avvolgenti le animelle con chutney di pera Nashi, liquirizia, cipollotto: un piatto della tradizione romana

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riproposto finalmente con una nuova e appetibile rappresentazione fusion. “Io amo unire prodotti della tradizione, come le animelle, con prodotti di altra origine - afferma Stella -. In questo caso, unisco una «composta», fatta di chutney (molto orientale e molto speziato), pera nashi (un frutto cinese più croccante rispetto alla pera classica) e cipollotti (gli sponsali pugliesi). Il tutto con un ragù di carne legato con una polvere di liquirizia in purezza. Nel caso del conge di riso Jasmin, Stella ripropone con una sua tecnica precisa delle cotture, un piatto povero cinese con cibo recuperato, fatto con quello che avanzava la sera precedente: verdure, carne, riso, che poi si mangiavano a colazione. Il riso lo fa stracuocere facendolo diventare una crema di riso, lontana da quello che è il concetto italiano del risotto, aggiunge il crudo di pecora, lo scalogno fritto e cime di rapa acidule. Ma non solo piatti forti e un pò complessi per gli ingredienti usati propone la carta della chef. I suoi primi sono tentazioni lussuosamente semplici, ma saporite e divertenti, come gli gnudi di broccoli con bagna cauda, cozze, rafano, o i ravioli - guò tiè con anatra alla maniera di Ahui, caffè, nervetti. Bella la storia di Stella. Nasce in Puglia da genitori cinesi di Shangai. A 10 anni la famiglia si trasferisce a Roma dove lei continua gli studi fino al diploma del liceo classico europeo.

ANIMELLE GLASSATE ALLA LIQUIRIZIA cuthney di pera nashi, cipollotto glassato INGREDIENTI per 4 persone

in un bagno di acqua e aceto nelle stesse

chero, g. 50 di burro.

in macedonia. In una padella mettere a

g. 300 di animelle, 4 cipollotti, g. 30 di zuc-

Per il chutney

1 pera nashi, g. 100 di purea di albicocca, aglio, scalogno, cardamomo, chiodi di garofano, anice stellato, zenzero, aceto q.b.

g. 150 di burro, fondo bruno di vitello, liquirizia pura in polvere q.b. PREPARAZIONE

Pulire le animelle eliminando le infiltrazioni

di sangue e le membrane esterne. Porre

proporzioni per 30 minuti. Tagliare la pera soffriggere mezzo spiccihio di aglio senz’anima e mezzo scalogno, aggiungere tutte le spezie e infine la pera. Sfumare con

aceto e portare a cottura con la purea di albicocca. Glassare per 5 minuti i cipollotti a fuoco lento in acqua, burro e zucchero.

Cuocere le animelle nel burro, glassarle nel fondo bruno alla liquirizia.

Impiattare da un lato l’animella glassata, scannellare il cipollotto glassato, posizio-

nare una quenelle di chutney e infine guarnire con il fondo bruno alla liquirizia.

Ma come sei entrata in questo mondo impegnativo che è la ristorazione? Il pallino della cucina è sempre stato qualcosa di innato in me. A 22 anni sono andata all’Alma, a Parma, alla scuola di Marchesi; poi mi sono trasferita a Londra a Le Gavroche, il ristorante-università super stellato di

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Alain e Michel Roux, uno dei percorsi più tosti al mondo per le esigenti regole del lavoro e dell’impostazione in cucina. Lì ho appreso l’importanza delle tecniche francesi per le cotture delle carni: tecniche che applico nel mio ristorante per quello che riguarda la carne. Tranne alcune eccezioni, la carne viene cotta tutta alla francese: cotture istantanee, burro, riposo tradizionale, e poi impiattamento. Altro percorso, il più formativo, è stato con Renato Ricciardi della Locanda di Piero, a Montecchio Petralcino: un grande maestro per me. Infine, ho lavorato sei mesi a Hong Kong, al Jardin de Giade, storico ristorante di cucina cinese molto tradizionale. Diciamo che in tre anni hai concentrato la preparazione che richiede decenni per capire quello che accade nel mondo del food. Ma della cucina cinese, che cosa ti è rimasto? Per me è importante sottolineare che io non faccio una cucina di tradizione: la mia cucina è un ricordo, un magazzino delle esperienze culinarie fatte nella mia famiglia o nei miei viaggi in Cina. Quindi non mi permetto di fare una cucina tradizionale anche perché non sono in grado di farlo. Prendo quello che è il mio background e lo inserisco all’interno di ricette con prodotti italiani o cinesi. Perciò il gusto che si ottiene è un melting pot, una fusione che non ha nulla di programmato e non ha nulla di prettamente tradizionale cinese o italiano.

CONGEE DI RISO JASMINE crudo di pecora, cime di rapa acidulate, scalogni fritti INGREDIENTI per 4 persone

g. 100 di riso Jasmine, g. 400 di acqua, g. 200 di carne di

coscio di pecora, g. 100 di grasso di pecora, g. 200 cime di rapa, g. 50 aceto di mele, g. 50 di acqua, aglio, scalogno. PREPARAZIONE

Per il congee: cuocere il riso Jasmine nell’acqua fino a raggiungere la consistenza di una polenta morbida. Tagliare a

cubetti la carne di pecora da servire cruda. Nel frattempo arrostire il grasso di pecora fino ad ottenere un grasso di condimento con sapore d’arrostitura. Marinare per 2 ore le cime di rapa in aceto e acqua. Saltare le cime di rapa con

uno spicchio d’aglio. Tagliare gli scalogni a julienne e pas-

sarli nella farina di riso. Friggere a 180°C in abbondante olio

di semi di girasole. Mettere da parte. Impiattare sul fondo il congee, posizionare la carne di pecora, le cime acidulate e gli scalogni fritti. Condire il tutto con sale e il grasso arrostito per intensificare il sapore selvatico dell’ovino.

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YO-YO

semifreddo allo yogurt, crumble allo shiso, pomelo, alghe caramellate INGREDIENTI

PREPARAZIONE

g. 200 di yogurt bianco intero, g. 100

semi montata, aggiungere la gelatina pre-

Per lo yo-yo

di panna semi montata, g. 3 di colla di pesce.

Per il crumble

g. 300 di farina 00, g. 150 di zucchero, g. 150 di burro.

Continua a definire ancora la tua cucina. Il termine più adatto è «identità» che non concerne più il cibo, la bevanda, la ristorazione. Si tratta di una cucina mirata con un’idea e un focus molto preciso che, da un certo punto di vista, ti rende tutto più semplice perché sai qual è la direzione che vuoi intraprendere.

Per l’alga caramellata

1 foglio di alga kombu essiccata, g. 150 di zucchero, g. 150 di acqua.

1 pomelo, 2 foglie di shiso (basilico orientale), purea di lampone.

Per lo yo-yo: unire lo yogurt alla panna cedente sciolta ed inserire negli stampi. Abbattere per 3 ore prima di sformare.

Ammollare per una notte l’alga kombu in acqua. Successivamente cuocere sot-

tovuoto a 90°C nello sciroppo di acqua e zucchero. Una volta cotte, essiccare in forno ventilato a 80°C per 4 ore.

Per il crumble, amalgamare tutti gli ingre-

dienti in planetaria e stendere in una plac-

ca a forno statico 170°C per 15-20 minuti. Una volta raffreddato, inserire una julienne di foglie di shiso. Impiattare con 4 girelle di yo-yo, predisporre sui lati il crumble,

le alghe in maniera sparsa ma armonica

e terminare con pezzi di pomelo che do-

nano freschezza. Guarnire con punte di purea di lampone.

Ma in cucina con la tua brigata come ti comporti, sei esigente? Sì, io sono un generale, sono molto esigente. Non urlo, non ne ho bisogno: a volte basta uno sguardo per far capire quello che si vuole o comunque come ci si deve comportare. Secondo me, la prima regola è l’ambiente. Se si vive in un ambiente «pacifista» si cucina anche meglio perché il cibo risente degli stati d’umore, assorbe tutto: la cucina è un atto d’amore. - Come il semplice ma gustoso Yo-Yo, il dessert: un semifreddo allo yougurt, spugna allo shiso, pomelo, alghe caramellate. Perfetto per chiudere in armonia.

CU_CINA FOOD ROOTS

Salita del Grillo, 6b - Roma Tel. 06 4561 5220

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IL RITORNO DI

LORENZO COGO NELLA SUA VICENZA di

Alessandra Meldolesi

32 anni, di cui quasi 20 passati ai fornelli e 8 sotto i riflettori. Per tutti noi Lorenzo Cogo è una “vecchia” conoscenza, eppure gran parte dei cosiddetti emergenti è passata all’anagrafe prima di lui. Fiamme e luci che non invecchiano, date le sembianze da ragazzino, mercuriale e imponderabile come le sue ricette. “Sono cresciuto sotto il tavolo della cucina di mio padre, nel Bistrò dal Cogo di Thiene”, racconta mostrando una foto che lo ritrae in divisa a tre anni, abbracciato a Mariano, suo sosia nel tempo. Un nativo culinario cresciuto in fretta, protagonista di un miracolo anche imprenditoriale. Il locale multifunzionale che ha aperto a Vicenza quasi tre anni fa protende verso la Basilica Palladiana il dehors con vista dello storico caffè Garibaldi. Gli interni sono stati rimaneggiati creativamente, in modo da riprendere linee e colori delle architetture rinascimentali, straniate da sculture in sospensione e collage di quadri: passati i tavolini, coperti o meno secondo la stagione, dietro il bancone la cucina, modernissima, è a vista. Durante il pranzo vi si destreggia Lorenzo in persona che, pinza all’occhiello e walkie talkie nel taschino per comunicare con gli altri piani, rifinisce i piatti del bistrot.

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Non c’è infatti un unico punto di ristoro: sulla sinistra la vetrinetta ospita la pasticceria della casa e, subito dietro, si accede allo shop con gelateria artigianale; mentre a destra la scala sale verso il ristorante gourmet, anzi no, visto che l’accesso è sbarrato. L’ingresso vero è a lato, sulla piazza, attraverso un portone dedicato da cui si accede a un ascensore. Nel complesso un locale unico e impegnativo, fra i più belli d’Italia, esteso su oltre 600 metri quadrati. Eppure fino a qualche anno fa Lorenzo era solo il bravissimo chef di un ristorantino da 5 tavoli. “Come ho imparato a pilotare una struttura del genere? Da solo. Mi sono chiuso qui dentro, dormendo in ufficio, perché sono il superstite di un modo di lavorare che sta scomparendo: la gavetta. Ho cominciato da piccolo, a 14 anni in una pasticceria della zona, poi in diverse trattorie. Tutte esperienze che mi sono tornate utili, insieme all’amicizia di chi mi ha aiutato. Quando mi è arrivata la proposta, ero già innamorato di questo posto, perché volevo cogliere la sfida del territorio, che non aveva grandi ristoranti, mentre oggi siamo tanti. L’essenziale è capire cosa desiderano le persone: ci vuole soprattutto l’intuito”.


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Ogni cosa viene prodotta internamente, nelle due cucine del bistrot e del gourmet, e nel laboratorio di pasticceria sotterraneo, dalla croissanterie alle monoporzioni. E il ritmo è incalzante: alla colazione seguono l’aperitivo, poi il lunch, il servizio del tè o degli aperitivi serali e infine la cena. Il luogo è tornato patrimonio della città: il caffè, griffato Giamaica, è fra i più economici di Vicenza e può essere sorbito in un luogo unico al mondo. “Poi c’è la sfida del bistrot, perché ho sempre sognato di tornare al format di famiglia, facendo qualità. Oggigiorno viviamo tutti in una bolla, attaccati al telefonino, ed è solo a tavola che stiamo insieme: è la cucina che ci salva. Quindi l’informalità è più che mai un’esigenza: questi spazi rappresentano il futuro della gastronomia, mentre tutto ciò che è gourmet resterà sempre una nicchia. Non c’è niente di più bello che stare in mezzo alla gente, vedere le persone che si divertono e portano con sé i figli o i genitori. Ci ho investito tantissimo, e non solo perché rappresenta la base strutturale dell’azienda. Mi ha impegnato in un cambio di mentalità, dove la priorità non sono più l’identità e l’esclusivismo. Anche se alla fine l’ospite cerca ovunque le mie proposte autoriali. Per questo io ci sono sempre, in prima linea: non è l’ennesimo bistrot fatto per finanziare altro, dove lo chef è assente”. La geografia variabile della cucina è rimasta invariata: come uno slalom intorno al mondo, che schiva con accortezza la Francia. “Perché ho sempre pensato che un ristorante, per avere senso, ha bisogno di una propria identità. Ho sempre cercato di non essere la

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RISOTTO AL MORLACCO mosto d’uva e polvere di radicchio INGREDIENTI per 4 persone

g. 320 di riso Carnaroli, g. 80 di morlacco, g. 100 di burro, ml. 40 di mosto d’uva, 2 cespi di radicchio di Treviso, 1 carota, 1 sedano, 1 cipolla, 1 foglia di alloro, olio extravergine d’oliva q.b., aceto balsamico bianco q.b., vino bianco q.b., sale e pepe q.b. PROCEDIMENTO

Pulire e sfogliare il radicchio. Disporre le foglie ben aperte su teglie ed infornare a 90°C con tiraggio aperto. Lasciare in forno finchè le foglie non saranno ben secche, dopodiché frullare bene il tutto per ottenere una polvere fine.

Lavare, pelare e tagliare a pezzettoni sedano, carota e cipolla. Unirli in una pentola assieme ad alloro e 3 litri di acqua fredda. Accendere il fuoco e portare a bollore, dopodichè mantenere costante l’ebollizione per 45/50 minuti. Filtrare le verdure e mantenere in

caldo il brodo. Tostare bene il riso Carnaroli a fuoco vivace con un filo d’olio extravergine d’oliva. Bagnare con un goccio di vino bianco e fare evaporare, successivamente bagnare con il brodo vegetale, salare leggermente e portare a cottura, all’incirca 10 minuti.

Togliere quindi dal fuoco e mantecare bene con burro, morlacco, sale, pepe ed un goccio di aceto balsamico bianco. Lasciare riposare un minuto e poi disporre nel piatto con delle gocce di mosto d’uva e spolverare tutta la superficie con polvere di radicchio. Servire.

copia di qualcun altro, e la cucina italiana, per la mediazione di Marchesi, conserva una nitida impronta francese. Visto che adoro viaggiare, mi sono subito fiondato in un continente inesplorato, l’Australia, dove ho trovato livelli altissimi; poi in Spagna e in Giappone, Danimarca e Inghilterra”. Il risultato è una cucina che Lorenzo definisce “istintiva”, ma solo perché la cultura si è convertita nell’impulso di una seconda natura. Ed è forse questo il lascito più profondo dell’esperienza orien-

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tale: una disciplina che è diventata grazia secondo il modello zen. Per il quale in qualsiasi ambito la tecnica va dimenticata e l’inconscio va lasciato solo di fronte alla situazione da affrontare: in quel momento allora la tecnica eseguirà i suoi prodigi in maniera automatica o spontanea, come uno specchio riflette involontariamente le immagini che lo circondano. Ad appena 30 km di distanza, anche i fornitori sono gli stessi di sempre, compresi gli orti di famiglia; ma l’asse della cucina si è spostata, per così dire, dalla natura alla cultura. È inevitabile che accada in una delle piazze più belle del mondo. “Qui respiro la storia, che significa proporzioni palladiane e via delle spezie. E questo propizia un nuovo approccio. Non è più come a Marano, dove raccoglievo le erbe spontanee andando al lavoro e fiutavo i minimi cambiamenti stagionali. Qui non vedo niente: in evidenza c’è il luogo”. Vicenza significa una piccola Venezia asciutta: basta percorrere le strade cittadine per rimarcare la mano degli stessi architetti della Serenissima. E, come a Venezia, l’identità è impermanenza e l’ubi consistam un perpetuum mobile: quello stesso viaggio che ha segnato la formazione di Lorenzo, oggi appassionato di spezie. È presso la biblioteca La Vigna che indaga la storia su testi di enologia e gastronomia, antichi o contemporanei, che lo sintonizzano ulteriormente sui luoghi. I piatti del bistrot sono tanto straordinari quanto ecumenici, per uno scontrino medio che si aggira intorno ai 30 euro. C’è l’involtino di sfoglia di riso con kiwi fermentato, cavolo nero e radicchio alla brace, da intingere nell’olio allo shiso. Un gioco vegano di sponde amare, dolci, acide che rimbalza fra i continenti e Vicenza. Più pop il corn dog in stile street food a base di tastasal, la pasta di salame, impanata e fritta, servita con maionese al mais e senape e pop corn per variare le testure, sensibilissime, di un ingrediente

identitario del territorio. Con altri divertissement, fa parte della linea della condivisione a centro tavola. Ma vanno forte anche i piatti di resistenza, carni e pesci sottoposti a cottura diretta nel forno. Ci sono il galletto, il wagyu e anche la costoletta di cinghiale, con il fondo d’ordinanza, french style secondo gli insegnamenti di Heston Blumenthal, per dare un plus alla potenza, il radicchio e le patate sottoposte a tripla cottura, al vapore, fritte e infornate, in modo da conciliare la superficie vetrificata con il cuore arioso. La carta dei vini è forse meno personale di quella del gourmet, con il Veneto e tanti blasoni italiani in evidenza. Mentre al piano superiore il sommelier Stefano Grandi ha privilegiato bottiglie più impegnative, soprattutto vini naturali e artigianali, che seguono i viaggi della cucina, cosicché la Francia sta arretrando in favore del Nuovo Mondo, anche se il lavoro di scouting è più complicato. Fra i due esercizi la parete osmotica ha fatto transitare un nuovo stile, più affabile ed elegante, forse perfino più maturo, al riparo di ogni autoreferenzialità, senza scapitarci in creatività e riflessione. Nei piatti del gourmet la tecnica è arretrata, ricondotta a gesto e palato, in un gioco contrastato di elementi integri e sensazioni primarie, che rimpalla gusti, aromi e testure: è l’istinto dell’ingrediente a parlare in prima persona. Con le note fumé del forno, le acidità non omologanti delle fermentazioni e la balsamicità del foraging e delle erbe aromatiche quali retaggio della gavetta internazionale. E gli ambienti, ispirati al Teatro Olimpico, con il sipario di vetro sul boccascena della cucina e il tavolo dello chef in marmo verde, sono finalmente all’altezza dei virtuosismi culinari.

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I menu degustazione sono due: Sostanza, con i signature anche di Marano, a 130 euro e il più contemporaneo Esperienza a 150, costata di rubia gallega compresa. La loro costruzione è felicemente sregolata, ora in crescendo, ora a zigzag secondo la moda kaiseki. Descrive le evoluzioni di una trottola sul mappamondo, per esempio, il granchio reale, ingrediente iperboreo che schiocca le sue chele per la Spagna (il gazpacho di mandorle), l’Asia (la salsa piccante), il Mediterraneo (la foglia di cappero, le olive, l’origano). Sparando coriandoli di gusto. Me è elegantissima la cappasanta cruda, valorizzata nella sua dolcezza dalle sembianze e dalla struttura di pasticceria. Quindi il pandispagna all’elicriso, la bernese alla vaniglia, tipo crema pasticciera, l’artemisia e un estratto di capasanta essiccata a inzuppare che, con le erbe, sviluppa una sensazione di dessert al Vermouth. Sul filo di seta fra dolce e salato, con i semi di senape per bilanciare. “Un piatto nato assaggiando un mollusco, la sua dolcezza, la sua tessitura”. Il nuovo Cogo non ha più niente da dimostrare, nemmeno tecnicamente. Lavora anzi in sottrazione di effetti, come prova la tartare di rubia gallega appena coagulata dalla sosta di 10 minuti sulla piastra di sale di Cervia, come un salume subitaneo, riequilibrata nella sapidità dall’acidità della polvere di pomodorini del piennolo e dai mirtilli svedesi, in gelée e in pickles, più la polvere di lenticchie per la nota tostata, il gorgonzola in gocce a ingrassare e la maggiorana balsamica. Gusti primari anche nel risotto alla genziana verticalizzato con riduzione di peperone al naturale alla base e prugna fermentata in superficie: ficcante progressione dolce/amara/acida. Mentre torna all’eleganza il dessert di rosa e Pastis, con la meringa all’anice, la crema pasticciera al liquore, la polvere di levistico e i petali in agrodolce, più gelée all’aceto di rosa e gelato alla rosa per una multifreschezza che veicola profumo.

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RISTORANTE EL COQ

Piazza dei Signori, 1 - Vicenza Tel. 0444 330681 www.elcoq.com



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DANIELCANZIAN

A MILANO

DANIEL CANZIAN È CUCINA ITALIANA CONTEMPORANEA

Nato e cresciuto in una famiglia di “osti”, come lui ama definirli, Daniel fin da bambino vive con passione l’atmosfera della ristorazione, il contatto con la gente, scoprendo fin da subito l’amore per i sapori. Daniel è un bambino curioso, non gli piace solo la cucina, ma anche disegnare, dipingere, ha un animo gentile e sincero. Grazie alla sua tenacia il suo percorso formativo sarà ricco di incontri prestigiosi e di esperienze impegnative, che gli trasmetteranno la grande professionalità che oggi lo contraddistingue senza privarlo della sua natura. Executive Chef de Il Marchesino nel 2008 e del Gruppo Marchesi nel 2011, anno in cui ha avuto anche il privilegio di lavorare con il Maestro Michel Troisgros, Daniel Canzian nel 2013 ha realizzato il suo sogno, aprendo un ristorante che porta il suo nome ed esprime in ogni dettaglio la sua idea di cucina, italiana e contemporanea.

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UOVO DI SELVA

al vapore con pesto mediterraneo INGREDIENTI per 4 persone 4 uova di selva

g. 240 di panna fresca Per il pesto mediterraneo

g. 30 di olive taggiasche denocciolate

g. 30 di acciughe sotto sale lavate e deliscate g. 30 di mandorle pelate e tritate

g. 10 di brunoise di buccia di limone g. 30 di brunoise di buccia d’arancia g. 10 di capperi sott’aceto

g. 10 di brunoise di zenzero g. 140 di olio evo

g. 20 di succo di limone PROCEDIMENTO

Per l’uovo al vapore: miscelare il tuorlo con la panna. Salare leg-

germente. Disporre la crema ottenuta all’interno dei gusci d’uovo

decapitati da una parte, in modo che il guscio diventi il conteni-

tore. Cuocere le uova a 84°C vapore per 14 minuti. Togliere dal forno e mantenere a temperatura ambiente.

Per il pesto: tritare finemente le acciughe, le olive e i capperi. Aggiungere tutti gli altri elementi tranne olio e succo di limone.

Mixare bene e infine aggiungere olio e limone per ottenere un pesto denso.

PRESENTAZIONE

Ad ogni uovo aggiungere un cucchiaio di pesto mediterraneo e servire subito, ancora tiepido.

Membro dell’associazione Jeunes Restaurateurs d’Europe dal 2017, a gennaio 2019 Daniel entra nel board europeo, con la carica di tesoriere. ““In perfetto accordo con il manifesto dei Jeunes Restaurateurs d’Europe, che si fonda sui concetti di condivisione, collaborazione e tutela delle materie prime locali in un’ottica di crescita globale – spiega Daniel Canzian – lavorerò in sinergia con gli altri rappresentanti del Board per portare i valori della cucina italiana in ambito internazionale. La collaborazione tra Paesi, l’arricchimento reciproco e lo sviluppo di progetti che possano far crescere il settore in modo uniforme e positivo per tutti sono anche per me valori fondamentali”, ha commentato Daniel Canzian.

LA CUCINA ITALIANA DI DANIEL... VERSO LA PUREZZA La cucina italiana, quella tradizionale e regionale, quella che racconta la nostra storia, è al centro del menù di Daniel. La cucina italiana non rinasce attraverso una rivisitazione, ma trova nelle mani dello chef diventa

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DIVISIONISMO IN CUCINA... UN RISOTTO EXPONENZIALE attuale, Daniel ama alleggerire i piatti da tutto ciò che non è necessario al gusto e all’equilibrio dei sapori per esaltare la parte nobile del piatto: la sua tradizione. Nel corso del tempo il cammino dello chef ha preso una direzione sempre più chiara ed esplicita portandolo ad iniziare un percorso, da lui stesso definito verso la purezza, che prende forma dall’enfatizzazione più marcata della cucina italiana. Come? Dando valore a ciò che offre il nostro territorio e alle sue tradizioni: ecco che non serviranno tecniche che vengono da lontano, come le fermentazioni, in contrasto con la freschezza e la leggerezza che contraddistingue il nostro microclima, ma per lo chef sarà più coerente ripristinare quelle italiane, come gli sciroppati o i sottaceti. Daniel rafforza quindi i suoi credo: nel potere della tradizione della cucina italiana, da tutelare e nobilitare e nella materia prima, sempre italiana, fresca e di stagione. Daniel la sceglie personalmente, andando al mercato insieme ai suoi collaboratori, dove il contatto diretto con i fornitori gli permette di prendere accordi affinché al ristorante entri solo ciò che rispetta i suoi canoni e deriva da agricoltura non intensiva. Per questo anche le descrizioni dei piatti in menu sono poco dettagliate, per lasciare

INGREDIENTI per 4 persone g. 320 di riso Carnaroli

g. 40 di vino bianco secco

g. 900 di brodo leggero di verdure affumicato g. 80 di burro

g. 40 di parmigiano grattugiato g. 60 di burro acido

polvere di curry Madras polvere di the nero

polvere di paprika affumicata PROCEDIMENTO

Tostare il riso in una casseruola con g. 80 di burro, salandolo

leggermente. Sfumare con il vino bianco secco, far evaporare, bagnare con il brodo bollente. Portare a cottura mescolando di

tanto in tanto. Allontanare la pentola dal fuoco, unire il burro, il parmigiano: coprire con un panno e lasciar riposare per qualche minuto in modo da rilassare il riso. Mantecare energicamente con

il mestolo, aggiungere pochissimo brodo per conferire la classica consistenza “all’onda” quindi correggere di sale.

Stendere a velo il risotto sui piatti, spolverare quindi le tre tipolo-

gie di spezia in modo tale da creare un effetto divisionista dei tre colori. Servire.

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alla cucina la libertà di proporre le verdure e i contorni migliori, secondo la loro disponibilità. Daniel va fiero dei suoi quasi quaranta piccoli e piccolissimi fornitori: dalla carne, al pesce, alle verdure, lavora esclusivamente con materie prime locali o dell’area del Mediterraneo. Se alcuni piatti sono per loro natura senza tempo, molti altri si modificano nel corso dei mesi: per portare in tavola sempre e solo ciò che ci regala la terra in modo naturale, ecco che il menu, oltre a variare ad ogni stagione, può proporre di giorno in giorno qualche novità. Semplicità, stagionalità e italianità sono gli elementi alla base della cucina dello Chef, mediterranea e sincera, così come quelli della personalità di Daniel stesso.

DANIEL E IL SUO SPAZIO Non a caso Daniel ha voluto creare uno spazio idoneo ad evidenziare il ruolo del cibo, vero ed unico protagonista dello spettacolo che ogni giorno va in scena presso il suo ristorante. La cucina non solo è totalmente a vista, ma è anche aperta sulla sala: nulla si deve nascondere, al contrario tutto si deve vedere. Questo concetto trova la sua massima espressione nel “tavolo Saltimbocca”, un bancone in legno che affaccia proprio sulla cucina, dove gli ospiti di Daniel possono pranzare, cenare o anche solo bere un aperitivo beneficiando della sintonia immediata che si instaura con lo chef e i suoi cuochi. Un elegante spazio esterno con vista sulla Chiusa di Leonardo, protagonista di allestimenti in continua evoluzione, completa la location. In questa “terrazza”, ma non solo, si può pranzare, cenare o gustare l’aperitivo di Daniel.

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POLLO IN CASSERUOLA secondo l’usanza di Treviso INGREDIENTI per 4 persone

PROCEDIMENTO

via, g. 100 di burro, abbinamento di

lare, pepare quindi rosolare ad olio sino

1 pollo, olio evo, aglio, rosmarino, salortaggi secondo la stagione. Per la salsa italiana

g. 500 di salsa di pomodoro, g. 400 di vino bianco, g. 200 di cipolla julienne, g. 300 di jus di vitello, g. 200 di aceto.

Tagliare le cipolle a julienne. In una

casseruola far ridurre cipolle, aceto e vino bianco.

Una volta ridotto a consistenza quasi sciropposa (250 grammi) unire il pomodoro salsa e lo jus di vitello. Lasciar

Legare il pollo. Ungere esternamente, saa completa e totale doratura della pelle.

Posizionare con la schiena sulla base della

casseruola quindi aggiungere il burro, l’a-

glio e il rosmarino, poi nappare bene per lucidare il pollo. Con la casseruola stessa

passarlo in forno preriscaldato a 190°C

per 8 minuti di cottura per coscia e successivamente 4 per il petto. Togliere il pollo

dal forno quindi lasciarlo riposare qualche minuto. Servirlo accompagnato dalle salse e da ortaggi freschi di mercato.

sobbollire per 10 minuti. Filtrare e cor-

Tecniche: rosolatura, deglasso, cottura

Per la finanziera di frattaglie

Come utilizzare gli scarti: con gli scarti

ricini e durelli di pollo, g. 200 di fe-

ottimo brodo che parta dalla carcassa cotta

reggere di sale e acidità.

g. 200 di creste di gallo, g. 200 di cuogatini di pollo, g. 200 di brunoise di verdure (carote-cipolla).

per arrostimento.

del pollo post cottura si può realizzare un

al forno e non dalla carcassa cruda. Questa tecnica nasce nel 700 in Francia.


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BRODETTO VIVACE

ai frutti di mare dell’altro Adriatico INGREDIENTI per 4 persone

si secchino). Sgusciare rapidamente i mitili, filtrare con un panno

dorle di mare, g. 300 cappesante, g. 240 di acqua di pomodoro,

ebollizione così da eliminarne le ulteriori impurità schiumandolo.

kg. 2 di cozze dell’Adriatico, kg. 2 di vongole veraci, kg. 1 di mang. 40 di limoni sciroppati a freddo, pepe nero Lampong, g. 50 di cipolle di Tropea in base acetica, g. 50 di pasta neutra di pomodori costoluto, olio extravergine d’oliva.

il liquido ottenuto. Porre il liquido ottenuto sul fuoco e portarlo a Unire l’essenza di mitili all’acqua di pomodoro. In un piatto fondo

stendere un cucchiaio di pasta di pomodoro costoluto, aggiungere il pepe e l’olio extravergine d’oliva. Adagiare sopra i mitili.

Aggiungere le falde di cipolla di Tropea in base acetica, i limoni

PREPARAZIONE

Lavare e pulire i mitili. In casseruole differenti, aprire i mitili senza aggiungere nulla e facendo molta attenzione a non cuocerli troppo

(dovranno infatti rimanere leggermente crudi in modo tale che non

sciroppati a freddo (solo la parte della buccia) le foglie di prezzemolo, le foglie di sedano ed infine coprire il tutto con la base di acqua pomodoro-mitili.

Servire caldo accompagnato da crostini di pane integrale.

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Via San Marco angolo Castelfidardo - Milano - Tel. + 39 02 6379 3837 www.danielcanzian.com - info@danielcanzian.com

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SAN BARBATO RESORT DON ALFONSO REPLICA IN BASILICATA di

Luigi Cremona

San Barbato chi era costui? Non l’avevamo mai sentito nominare, ma wikipedia ci ricorda che a lui si deve la conversione dei Longobardi e la riorganizzazione della chiesa e del clero nel territorio compreso tra Benevento e il Gargano. San Barbato oggi invece va ricordato come il nome della contrada in cui è stato inaugurato da pochi mesi il nuovo San Barbato Resort Spa & Golf. Ed in effetti qui siamo a Lavello, l’antica Forentum romana, un borgo fino ad ora un po’ dimenticato che si trova all’incrocio di tre regioni: Basilicata (alla quale appartiene), Campania e Puglia. E’ ben collegato grazie all’autostrada e alle altre strade provinciali che servono il vicino polo industriale di San Nicola di Melfi della Fiat e del suo indotto, molto meno collegato

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via treno o ferrovia, come peraltro gran parte del nostro meridione. Difficile sarebbe immaginare il perché in questo angolo d’Italia sia sorto un Resort del calibro di questo San Barbato, non appaiono evidenti motivazioni di alcun genere, visto che in tutta la Basilicata, che comprende anche Matera e Maratea, non ci sono al momento strutture di pari confort. Le ragioni sono perlopiù sentimentali, nascono dal profondo legame di un imprenditore di successo con il proprio paese di origine e dal desiderio di valorizzare la valenza e la potenzialità di un territorio che comunque nei suoi dintorni annovera Matera, il Vulture, la Daunia, l’Irpinia. E non hanno badato a spese: le camere con ogni dettaglio curato, la spa Vitas a cura di Clarins e il fitness, una piscina che sembra un piccolo lago, una fontana che di notte si accende con giochi di acqua luci e sonoro. E non è finita: l’area intorno si sta attrezzando per ospitare un piccolo golf e la futura club house è in costruzione a fianco dell’albergo. Ma il nostro interesse è legato alla ristorazione ed è qui forse la cosa più sorprendente del resort. Al piano terra ci sono due sale eventi, una più grande (circa 250 posti) l’altra più piccola sono servite da una cucina centrale che è uno spettacolo per la qualità delle attrezzature che ospita. Al terzo piano, quello della terrazza, un piccolo ristorante offre la piccola cola- zione con vista, ma anche un’alternativa di pranzi veloci e aperitivi. Prende il nome di Terrazza Bellavista, grazie alla partner-

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ship con il brand Bellavista, e ovviamente non manca l’offerta di bollicine. L’arredo è in genere monocromatico, sul bianco, essenziale e moderno. La differenza la fa il ristorante al primo piano: Don Alfonso 1890 San Barbato, non quindi una semplice consulenza (la famiglia Iaccarino ha una serie di consulenze che vanno da Macao a Toronto, da Sorrento alla Nuova Zelanda), qui ci mettono nome e faccia e quindi le aspettative crescono. In effetti loro cu-

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rano tutta la ristorazione del Resort, gli eventi, le prime colazioni, il room service ecc... Questo è il ristorante di punta ed indubbiamente fa colpo: tutto giocato sul nero con i tavoli bianchi che appaiono quasi sospesi e sul fondo le grandi vetrate si aprono sulle luci della fontana multicolore che si vede dall’alto e che domina il panorama. La cucina è attrezzata in modo impeccabile con tutto quello che si può pensare e ben supporta il lavorio della brigata. I prezzi sono giudiziosamente abbordabili con un menu degustazione di 6 portate a 95 euro e piatti (antipasti, primi e secondi) sui 25 euro in media. L’impostazione è dovuta alla famiglia Iaccarino, della quale non possiamo che fare lodi. La famiglia Iaccarino è caratterizzata da quelle doti di accoglienza, ospitalità e dalla capacità di metterti subito a proprio


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agio, che sono alla base del successo della famiglia. Qui l’accoglienza è quotidianamente gestita dal direttore, Canio Sabia, che ne è quasi la copia. Meglio di così non potevano scegliere per equilibrare la funzionalità efficiente, ma inevitabilmente fredda di una struttura nuova e moderna, con un senso di piacevole calore umano. Ed infine ecco la cucina: un menu ben articolato, che spazia in vari generi, toccando giustamente prodotti nobili, come ostriche, astice e filetti, ma non mancano i risvolti più popolari e legati al territorio come gli strascinati, l’agnello laticauda e le orecchiette, anche se ne vorremmo ancora di più specie sul fronte delle verdure e dei legumi dei quali la zona è particolarmente ricca. Non a caso secondo noi uno dei piatti migliori è un elegante polpetta lunga di vitello accompagnata da un tortino delicato di erbe e senape. Tra gli altri antipasti spicca l’elegante composizione di astice. Abbiamo assaggiato due primi, i cappelli di genovese di pollo con fonduta di parmigiano reggiano e il risotto limone e scampi, e due secondi (il merluzzo dorato con

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Qui sopra: 1) suprema di faraona ripiena con il suo filettotartufo, sfera di verza farcita con patate e dadolata di verdure, profumo di rosmarino; 2) dentice in panure alle erbe, cremoso di zucchine al profumo di menta e ortaggi di stagione; 3) spaghetto Don Alfonso; 4) ostriche Gillardeau, caviale di Yuzu (limone asiatico).

yogurt di bufala e agrumi e il filetto in crosta) ben fatti e identitari. Qualche parola la meritano i dessert. Siamo capitati a San Barbato nel periodo pasquale e al team di pasticceri una serie di assaggi golosi che vanno dalla colomba alla pastiera, dal casatiello alle eleganti uova pasquali. Ma sono i lieviti il tema preferito che si esprime al mattino in una colazione da non perdere. L’ultima annotazione è per qualcosa che sta per arrivare. L’ultimo piano della club house sarà trasparente con al centro un forno a pizza. Un’altra chicca a completare un’offerta già oggi molto corposa e invitante.

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Format diversi ma un unico partner tecnico: Electrolux Professional. Una scelta dettata dalla necessità di avere al proprio fianco un’Azienda importante, affidabile nelle soluzioni e nel servizio, in grado di assicurare piena tranquillità nell’operatività, anche in vista dei carichi di lavoro molto importanti. Electrolux, interpretando le esigenze della proprietà, ha proposto per le due cucine più prestigiose il top della sua gamma: parliamo di Molteni e Thermaline, quanto di meglio si possa trovare nel mondo della ristorazione professionale. Per il Don Alfonso 1890 San Barbato, la scelta è ricaduta su una splendida cucina Molteni, e non poteva essere diversamente visto che è presente anche presso l’omonimo ristorante nella penisola Sorrentina. Un elegantissimo monoblocco centrale di 4 metri di lunghezza, smaltato di colore nero opaco con finiture cromate, creato sartorialmente per la cucina e la struttura dove deve operare. Bella, anzi bellissima, Molteni è perfettamente integrata e coordinata con i pensili circostanti, anch’essi total black così come le piastrelle. Ogni dettaglio

LA CUCINA DEL SAN BARBATO a cura della

è perfettamente funzionale per la brigata, niente è stato lasciato al caso. Questa cucina, per le sue caratteristiche ed il suo charme, diventa al tempo stesso un oggetto di arredamento e attrazione per gli ospiti: al Don Alfonso 1890 San Barbato possono ammirarla, assieme a tutta la brigata all’opera, dalla grande vetrata che divide la cucina a vista dall’elegantissima sala. Passando alla banchettistica, la scelta della cucina è dipesa dal tipo di servizio che il San Barbato vuole offrire. Volendo diventare un punto di riferimento per eventi luxury con oltre 350 ospiti, Electrolux ha suggerito la

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Redazione


SANBARBATORESORT

SAN BARBATO RESORT SPA & GOLF

Strada Statale 93 km 56,300 - Lavello (PZ) - Tel. 0972 816011 www.sanbarbatoresort.com - info@sanbarbatoresort.com

gamma Modulare 90 di Thermaline, garanzia di massima produttività e di un’efficienza senza eguali. Per le funzioni di cottura, oltre ai tradizionali cuocipasta e friggitrici, si è scelta la versatilità dell’innovative piastre free-cooking, apparecchiature multifunzione che permettono di cuocere il cibo direttamente sulla su-

perficie oppure indirettamente con l’utilizzo di pentole o padelle. Ad affiancarle due piastre induzione tutta superficie, che possono alloggiare fino a 16 pentole contemporaneamente per una maggiore produttività. Per pianificare al meglio le operazioni in cucina, preservando la qualità degli ingredienti, massimizzando la resa in cottura e riducendo scarti e sprechi, è stato adottato il sistema Cook&Chill di Electrolux con forni da 20 teglie GN 1/1 in abbinata agli abbattitori di temperatura roll-in da 180 kg. E per gestire i picchi di “alta produttività”, sono state installate anche una potente brasiera a pressione e una grande pentola della gamma ProThermetic, sempre di thermaline. Insomma, la scelta di un brand di riferimento e delle sue tecnologie all’avanguardia permettono al San Barbato Resort di far fronte a qualsiasi situazione di servizio.

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Speciale

CALABRIA • Luca Abbruzzino • Michele Alessio • Locanda Alia • Santavenere • Torre Infame

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LA CUCINA NEOMEDITERANEA DI

LUCA ABBRUZZINO IN CALABRIA di

Alessandra Meldolesi

Non sorride quasi mai, Luca Abbruzzino, tanto è serio e riflessivo, perennemente concentrato sulla sua cucina, esatta come un diagramma colorato. Ad appena 28 anni, viene già annoverato fra le promesse della cucina italiana ed è probabilmente lo chef numero uno della sua regione, la Calabria. Una terra aspra non solo nell’orografia e nel profilo delle coste. Qui l’alta cucina si è accomodata da poco, dopo una lunga sosta a Eboli, con l’eccezione dell’avamposto solitario della Locanda di Alia a Castrovillari. Con la Campania e la Sicilia corre ben più di uno stretto e qualche infrastruttura lacunosa: un ritardo che oggi potrebbe paradossalmente giovare. “La cucina calabrese non esiste”, taglia corto Abbruzzino. “Basti pensare che per le feste mangiamo lasagne e pasta al forno, quindi piatti non nostri; abbiamo qualche ricetta, molto povera perché qui erano tutti contadini, e alcune specialità in pasticceria. Invece vantiamo una materia prima infinita, di qualsiasi tipo: pesce, carne, ortaggi, casearia e insaccati. E la mancanza di una tradizione forte può rappresentare un atout, nel senso che aiuta a sguinzagliare la fantasia, nel tentativo di valorizzarla al meglio”. Tanta libertà è anche il frutto di una formazione atipica: figlio d’arte di papà Antonio, cuoco formatosi a sua volta all’alberghiero e poi per conto proprio, Luca frequentava il liceo scientifico quando a 17 anni ha iniziato ad affiancarlo in sala nel suo primo ristorante da patron. “All’epoca si trattava di un posto normalissimo, che serviva piatti tipici con prodotti di qualità. Penso agli spaghetti al guazzetto di mare, alla spatola panata al forno, alla padellata di totanetti coi legumi. Poi è successo che un giorno, dopo che mi ero iscritto a Economia e commercio, mio padre ha mandato via tutti i dipendenti in uno scatto d’ira e siamo rimasti in tre, io, lui e mia madre Rosetta, che da sempre era il jolly, anche in sala. Sono entrato in cucina e non ne sono più uscito. All’inizio è stata dura, perché volevo spingere senza averne i mezzi; lui mi frenava e non capivo, ma oggi so che aveva ragione. Nel frattempo, anno dopo anno, durante i due mesi di chiusura, ho compiuto le mie esperienze: stages da Gennaro Esposito, Mauro Uliassi, Enrico Crippa, due volte Piergiorgio Parini, Jean-François Piège a Parigi, Michel Bras con Simone Cantafio a Tokyo; e ne ho in programma altri ancora. Crippa è stato quello che mi ha segnato di più, nel senso dell’organizzazione e del gusto; ma sono molto legato anche a Parini per la capacità di trattare con naturalezza qualsiasi cosa arrivi, improvvisan-

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Speciale

CALABRIA

do. E ho avuto la fortuna di mettere subito in pratica quello che imparavo. I piatti della svolta sono stati il fusillone con ‘nduja, pecorino e ricci di mare e il dessert di pane, olio e zucchero. Dopo di che nel 2013 è arrivata la stella e nel 2014 mio padre mi ha affidato in toto i fornelli”. Calabrese nell’ingredientistica, ma senza esclusivismi, quella di Abbruzzino è oggi una giovane cucina mediterranea, o meglio neomediterranea, scrostata dai cliché che l’hanno a lungo mortificata e incline alla complessificazione del gusto che altrove quasi sempre fallisce. Non mancano le contaminazioni, figlie di tante esperienze globali, utili per vivificare il piatto senza per questo strapparne le radici, intrecciate a una liquirizia identitaria. Ma resta tutta meridionale l’immediatezza del prodotto con il suo apporto di profumi, ora balsamici ora agrumati, in cui il territorio sferra emo-

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zioni come un pugile sul ring: le composizioni si allargano dalla Magna Grecia, “matria” di Calabria, fino a lambire un petit goût di Medio Oriente, per esempio nelle ricorrenti note dolci e di frutta che contrastano il piatto. Nessuna malattia storica, nessun dettaglio a soqquadro in composizioni cartesiane, dai gusti diretti, puliti e contemporanei. Senza ricorso a tecnicismi, fermentazioni o giapponismi di troppo. Il menu ha una composizione originale: alla carta non c’è nessun antipasto, ma quattro primi, capisaldi della cucina italiana, due secondi di carne e altrettanti di pesce. Più tre menu degustazione, composti di 4, 6 e 8 portate rispettivamente a 55, 70 e 80 euro, tutti a sorpresa, secondo la stagionalità e il mercato. A fare la spesa ogni due giorni sono Luca, Antonio o Rosetta, da un fruttivendolo nascosto in un sottoscala di Catanzaro, presso due o tre pescherie che acquistano su commissione all’asta o da un paio di macellai di fiducia,

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a San Giovanni Morgeto o Catanzaro. Il percorso di abbinamento, composto di 4 o 6 calici, costa 25 o 35 euro. E proprio la cantina è un ulteriore vanto del locale: le carte sono due, una delle quali consacrata alla Calabria, regione quanto mai da scoprire, che regala 130 etichette su un totale di circa 400. Ottimi i pani: i taralli al finocchio, i grissini alla cipolla, la focaccia al rosmarino, le pagnottelle bianche e scure al lievito madre. In accompagnamento c’è subito una ciotola di burro della Sila salato alle erbe che sembra quasi francese. Capitolo tecniche, il sottovuoto cede quasi ovunque alle cotture dirette in padella e soprattutto al barbecue, vettore di profumi ancestrali, che intridono il vissuto calabrese grazie al rito del camino. Gli appetizer sono un flash-back sulla storia del ristorante, a firma di Antonio o di Luca: mettono in sequenza classici quali il riso con cipollotto e liquirizia, la padellata in forma di crema di calamari e legumi alla vaniglia, un boccone di spatola al barbecue con concentrato di agrumi, la tartelletta con spuma di manzo, anemoni di mare e salsa verde. E i piatti sono a tratti geniali. Vedi l’ostrica con broccolo e pompelmo, svolta in forma binaria: da una parte la crema di ostrica dalla consistenza di maionese, ottenuta frullando le polpe con l’acqua, a nappare il midollo (o gambo) di cavolo al barbecue, più foglie di dragoncello e scorzette leggermente candite di pompelmo; dall’altra l’ostrica al naturale con succo di pompelmo, pompelmo pelato a vivo e insalatina di ciuffi di broccoletti. Le stesse tre note in una melodia diversa: la tensione è sempre fra la sapidità del mollusco e l’amaro del vegetale e dell’agrume, ma la dominante vaga fra la grassezza e l’acidità, cosicché il confronto fra le due versioni finisce per comporre un interessante meta equilibrio. Di piatti composti di originale e remake se ne sono già visti; ma questo parallelo fra due divagazioni rappresenta una nuova intuizione, fresca, netta e contrastata nella geometria di


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CALABRIA

PICCIONE E CILIEGIE INGREDIENTI

Aggiustare di sale e pepe. Sfumare con il passito. Eliminare le foglie di alloro e frullare il

di ciliegie, sale e pepe, g. 500 di

grandezza di una ciliegia e fare raffreddare in frigo.

2 piccioni, fondo di carne, kg. 1 ciliegie.

Per la mousse di fegatini

g. 700 di fegatini, 5 foglie di alloro, 15 filetti di acciughe, g. 70 di burro, g. 200 di passito, sale e pepe. Per le ciliegie in carpione

g. 600 di acqua, g. 300 di aceto ros-

tutto; inserire in sacchetto da pasticceria. Con la mousse di fegatini fare delle palline della

Per la gelatina di ciliegie: passate al green star 200 grammi di ciliegie in carpione; aggiungere 2 grammi di kappa e passare dentro le palline di fegatini. Fare raffreddare.

Preparare la glassa di ciliegie, passando 200 grammi di ciliegie in carpione al green star, aggiungere al succo estratto lo zucchero e fare ridurre.

Disossare le cosce, metterle sottovuoto con olio, sale pepe, alloro e buccia di limone.

Cuocere a 72°C per 2 ore nel roner o forno a vapore.

Cuocere con cottura diretta i petti di piccione in un tegame

so, g. 300 di vino bianco, g. 600 di

zucchero, g. 50 di sale, g. 5 di pepe rosa, 5 foglie di alloro, timo. PREPARAZIONE

Bollire tutti gli ingredienti del carpione, farli raffreddare, aggiungere

le ciliegie private del nocciolo e lasciare marinare.

Per la mousse di fegatini: rosolare

con il burro, avendo cura di lasciare una cottura rosa; aggiustare di sale e pepe.

aggiungere l’alloro e le acciughe.

ciliegie in carpione, la glassa di ciliegia e il fondo di carne.

i fegatini con il burro in un tegame,

Servire il petto con la coscia e la ciliegia di fegatini, accompagnando il tutto con alcune

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ROGNONCINI DI CONIGLIO albicocca, senape e Vermouth INGREDIENTI

g. 300 di rognoni di coniglio, g. 300 di albicocche, g. 400 di Vermouth, g. 100 di senape in pasta, fondo di carne, erbette aromatiche, olio di vinaccioli, olio extravergine d’oliva, sale e pepe.

Per il carpione: l. 1 di acqua, g. 200 di aceto bianco, g. 100 di zucchero di canna, g. 100 di vino bianco, g. 25 di sale, zenzero, spezie e aromi. PROCEDIMENTO

Per il carpione: bollire tutti gli ingredienti e lasciare raffreddare.

Pulire le albicocche togliendo il nocciolo, tagliarle a metà e metterle sottovuoto con il carpione. Lasciare marinare.

Pulire i rognoni, salarli bene, metterli sottovuoto con olio di semi di vinaccioli e alloro e cuocere per 18 minuti a 65°C.

Ridurre il Vermouth fino ad ottenere una consistenza sciropposa.

Sciogliere un po’ di burro in un tegame con erbette aromatiche e rosolare leggermente i rognoni di coniglio; aggiustare di sale e pepe.

Servire nel piatto i rognoni tagliati a metà unendovi le albicocche marinate nel car-

pione, la senape, il fondo di carne e le erbette aromatiche. Condire con un filo di olio extravergine d’oliva.

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gusti integri e primari. “Per me ha il senso della contaminazione, perché l’ostrica evoca l’alta ristorazione francese, mentre il broccolo e il pompelmo sono emblematici di questa regione”. E di agrumi è ricchissima la cucina di Abbruzzino: fino a febbraio arrivano bergamotti, clementine, arance e limette, che poi continuano a essere presenti nelle uniche conserve della casa, canditi, confit nel sale o in marmellata. Cosicché l’acidità è sferzante in piatti, che invogliano sempre al boccone successivo. Sono già un classico gli spaghetti al nero di sesamo, che giocano con un must delle trattorie di mare, ripescando un ingrediente tipico della cucina di queste latitudini (e ancora più giù): il sesamo, ma nero. Tostato e frullato con cipolla bianca e aceto, viene ridotto in una crema scura e servito con uva passa alla colatura di alici per l’ittico mancante. Un divertissement in punta di forchetta. E guarda di nuovo tutt’intorno, alle altre sponde del Mediterraneo, l’aguglia


Speciale

CALABRIA al rosmarino e alloro avvolta in foglie di vite a mo’ di dolmades (ma l’usanza è diffusa anche in Calabria), per l’effetto crosta di sale, cotta direttamente sul barbecue. Secondo il consueto contrasto dolce, ancora una volta rivolto verso sud, è servita con salsa di uva fragola, melagrana, pastinaca sempre al barbecue e mandorle in crema. Dove il tocco di genio sta anche nell’apertura del cartoccio al tavolo che evoca le atmosfere parigine da poco attraversate: uno spiazzante guéridon mediterraneo. È la stessa contaminazione dell’anatra, adagiata nella casseruola sopra un morbido letto di erbe aromatiche, poi cotta al barbecue per un esito leggermente amaro sulle carni dolci; viene servita con un fondo addensato con il sanguinaccio in conserva e il cioccolato, più un fico secco reidratato, che in Calabria è tradizione glassare al cacao, in modo da ricostruire una sensazione di classicità (le grandi salse montate al sangue e al cioccolato, tipo royale) attraverso il territorio e i precordi. Chiude pane, olio e zucchero, cavallo di battaglia di Antonio su cui Luca ha montato la sua sella: gli ingredienti sono adesso solo quelli di una merenda d’infanzia, con l’eccezione di un goccio di latte. Quindi non più il gelato alla vaniglia con un filo d’olio e i crostini di pane del signature paterno, in clamoroso anticipo su tanti ripescaggi odierni, ma un caramello salato con gelato al pane, crema all’olio (delicato) con latte e colla di pesce e una cialda di pane, olio e zucchero.

PESCA AL VINO ROSSO INGREDIENTI

Per il sorbetto vino e pesche: sciogliere

fano, cardamomo, estratto di pepe rosa,

nel vino, raffreddare, frullare le pesche,

l. 1 di vino rosso, cannella, chiodi di garopolvere di ciliegie.

Per il sorbetto vino e pesche: il vino di

cottura delle pesche, g. 40 di zucchero, g. 4 di farina di carruba, g. 500 di pesche.

Meringa di rapa rossa: g. 100 di zucche-

ro, g. 40 di acqua, estratto di rapa rossa, g. 15 di albumina.

Per la spugna: g. 160 di zucchero, g. 160 di farina di mandorla, g. 40 di farina 00, 3

tuorli, 3 uova intere, g. 100 di riduzione di rapa rossa.

Per il biscotto: g. 200 di burro, g. 400 di farina di mandorle, g. 100 di zucchero di canna, g. 40 di Maizena.

Per la granita al vino rosso: g. 40 di ri-

duzione di vino rosso, g. 100 di zucchero, g. 500 di acqua.

PROCEDIMENTO

Cuocere le due pesche intere nel vino

rosso per 20 minuti circa con le spezie (cannella, chiodi di garofano, cardamomo). Lasciare raffreddare e scolarle.

sul fuoco lo zucchero e la farina di carruba abbatterle nel bicchiere del Pacojet.

Per la meringa di rapa rossa: iniziare a montare l’estratto di rapa rossa e l’albumina, portare lo zucchero e l’acqua a 121°C

e versare sull’estratto di rapa e l’albumina

fino ad ottenere una meringa liscia e luci-

da; stendere sul silpat e cuocere in forno a 100°C per un’ora circa con la valvola aperta.

Per la spugna: frullare tutti gli ingredienti

al Bimby per 3 minuti, metterli nel sifone con due ricariche e cuocere al microonde

alla massima potenza (750w) per 45/50 secondi.

Per il biscotto: frullare grossolanamente tutti gli ingredienti al Bimby, stendere

su una placca e abbattere. Poi cuocere a 165°C per 18 minuti. Una volta tolto dal

forno ancora caldo, sbriciolarlo con un cucchiaio.

Per la granita al vino rosso: sciogliere lo

zucchero nell’acqua e aggiungere la riduzione di vino, abbattere e pacossare.

RISTORANTE ABBRUZZINO

Via Fiume Savuto - Località S. Janni 88100 Catanzaro

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GOURMETFOOD

LOCANDA ALIA RITORNO ALLA TRADIZIONE CALABRESE fotoservizio di

Riccardo Marcialis

Difficile, spesso, migliorare molte delle cose realizzate in passato, in quanto realizzate secondo princìpi derivati da un ragionato processo creativo. Dunque, ciò che oggi viene definito innovazione può più credibilmente essere considerato un remake. Nel caso della tradizione, essa esige di rimanere tale. Ecco perché per qualcuno non è così semplice essere contemporaneo nella tradizione. Questa va intesa come trasmissione nel tempo - da una generazione a quelle successive - di notizie, formule e ricette gastronomiche, con poche o nulle modifiche o trasformazioni rispetto all’opera originale. L’innovazione invece esprime il cambiamento di uno stato di cose, che introduce norme, metodi e sistemi nuovi: trasforma quindi una cosa in un’altra. Si affianca alla tradizione il concetto di qualità, che è la proprietà che caratterizza un prodotto esprimendone il valore e genuinità, nel senso di “non alterato, non sofisticato”, quindi “vero, schietto, autentico, naturale; che viene da fonte sicura”. La tradizione rimane sempre un punto di riferimento e la grande ispiratrice dell’innovazione. Con questo criterio Daniela Alia, responsabile della carta dessert della Locanda Alia, ha lavorato traendo spunto dal patrimonio domestico della sua famiglia e dal territorio.

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GOURMETFOOD

TRITTICO DI PESCE INGREDIENTI per 4 persone

già ammollato, 1 falda di peperone verde

evo, 1/2 bicchiere di vino bianco, sale q.b.,

to a pezzi alti cm. 3 circa, 1 bergamotto

metto di menta e di prezzemolo già puliti,

corazione.

Per il tonno: g. 200 di tonno fresco taglia-

fresco, g. 70 di olio evo, 1 peperoncino ros-

so piccolo piccante, un po’ di finocchietto selvatico, timo, rosmarino e alloro già puliti, sale q.b.

spellato e tagliato finemente, qualche ra-

1 cipolla fresca pulita, g. 20 di polvere di peperoncino dolce, la buccia grattugiata di

Avvolgere i filetti di pesce su se stessi e

secche denocciolate, g. 100 di olio evo.

per la cottura a vapore versare acqua, vino,

1/2 limone lavato accuratamente, 10 olive

In un foglio di carta d’alluminio unto d’olio

Asciugare per bene il baccalà su carta as-

rino. Chiudere bene, posizionarlo su una

ciotola versare l’olio, la polvere di pepe-

avvolgere il tonno con l’alloro e il rosma-

padella antiaderente caldissima e cuocere per circa tre minuti per lato. Lasciare intiepidire.

Nel frattempo in una ciotola capiente versare l’olio, le rimanenti erbette sminuzzate, il peperoncino anch’esso tagliato, un po’ di

buccia del bergamotto e salare. Mescolare con cura, quindi aggiungere il tonno e lasciarlo marinare per circa un’ora.

Per il baccalà: g. 250 g di filetti di baccalà

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qualche foglia di arancio lavate, per la de-

sorbente; allinearlo in una terrina. In una roncino, la buccia del limone tagliata sottile così come la cipolla ed il peperone. Infine aggiungere le olive.

Emulsionare il tutto e versarlo sul baccalà,

lasciare a macerare per un’ora circa avendo

fermarli con uno stecchino. Nel recipiente

aggiungere le foglie del finocchio ed il prezzemolo, portare ad ebollizione. Met-

tere il cestello con il pesce e cuocere per

circa 5 minuti. Raffreddare. In una ciotola versare l’olio, gli spicchi d’arancia pelati

al vivo, la menta ed il sale. Emulsionare e versare sul pesce raffreddato. Marinare per circa un’ora.

cura di girarlo ogni tanto.

PRESENTAZIONE

Per la lampuga: 1 lampuga pulita, lavata

viduali stretti e lunghi, accompagnando

e sfilettata, 2 foglie esterne lavate di un fi-

nocchio, qualche fogliolina pulita di menta, 1 arancia lavata e asciugata, g. 70 di olio

Distribuire il trittico di pesce in piatti indiciascuna tipologia con la sua marinatura e decorando la lampuga con le foglie di arancia.


Speciale

CALABRIA

Quel territorio che ha sempre fornito materie prime semplici, genuine e a volte anche molto economiche. Per il motivo che i dolci calabresi sono ancora fortemente legati alle festività religiose, vengono prepararti esclusivamente in queste occasioni, limitandone notevolmente il piacere di consumarli. La maggior parte di questi sono certamente di origine greca perché preparati con olio, vino e farina (la famosa triade greca): erano gli alimenti che i greci mettevano nella stiva delle navi quando andavano in giro per i mari, ma sono greci anche per il metodo di cottura, che è soprattutto la frittura. La cucina della Locanda Alia, condotta da Gaetano Alia, è radicata nel territorio e spazia su una vastissima varietà di ricette calabresi: dai gustosissimi primi di pasta alle deliziose zuppe; dal pesce e carne esclusivamente locali alle verdure del proprio orto. Quindi ci voleva una carta dessert che armonizzasse con quella della cucina, così Daniela, cercando una soluzione, l’ha trovata tra le cose ereditate dalla madre, che a sua volta le aveva ereditate dalla propria.

MACCO DI FAVE CON SPIGOLA INGREDIENTI per 4 persone

g. 800 di fave secche già spellate, 1 cipolla media rossa di Tropea, 4 pomodorini pic-

coli Pachino freschi lavati ed asciugati, 4 filetti di spigola fresca, g. 20 di zenzero, g. 70 di olio evo, qualche fogliolina di menta e alloro, 1 ciuffo di finocchietto selvatico. PREPARAZIONE

La sera prima mettere a bagno le fave in acqua fredda. Il giorno dopo prendere un

recipiente di terracotta, versare le fave, l’alloro, lo zenzero, il finocchietto selvatico, 10

grammi di olio ed acqua a sufficienza per cuocere i legumi a fuoco basso, avendo cura di mescolare spesso. A cottura ultimata, togliere l’alloro e setacciare raccogliendo la

purea in un contenitore. Aggiustare di sale e tenere in caldo. Tagliare i pomodorini a spicchi, la cipolla a velo, condire con il rimanente olio, la menta e salare. Scottare, in una padella antiaderente i filetti di spigola. Distribuire nei piatti di portata il macco, poggiarvi sopra i filetti di pesce ed infine i pomodorini con la cipolla. Servire.

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GIURGIULENA

GOURMETFOOD

La provenienza della giurgiulena è difficile da stabilire. Per alcuni proviene dalla Cina, patria delle

mandorle perché sono presenti tra gli ingredienti di questo dolce. Altri ritengono che siano stati gli arabi a importarla nel sud d’Italia, sotto forma di qubbayt, l’attuale “cubbaita” siciliana, a base di miele e sesamo. In dialetto calabrese si chiama giuggiu-

lena, derivante dall’arabo giulgiulan e significa,

appunto, semi di sesamo. Un dolce simile - utile da

portare con sé negli spostamenti sia per il suo valore energetico e nutritivo, sia per la lunga conservazione - era noto anche tra gli antichi romani, che lo chiamavano cupedia, ed era composto da miele,

albume e nocciole, diventato poi cupeta nell’idioma dialettale delle zone di Benevento. C’è da conside-

rare che, tra le fila dell’esercito romano, la cavalleria

era composta da mercenari saraceni o arabi e quin-

di, molto probabilmente, questi hanno divulgato l’uso di questo dolce tra le milizie romane. INGREDIENTI

g. 500 di semi di sesamo, g. 250 di zucchero, g. 250 di miele, bucce d’arancia, cannella in polvere, crema Chantilly.

PROCEDIMENTO

In un casseruolino, possibilmente di rame, scioglie-

re a fuoco medio il miele con lo zucchero, quindi aggiungere l’arancia e il sesamo. Cuocere per 30

minuti mescolando continuamente con un cucchiaio

o una spatola di legno. Inumidire un piano di marmo con l’acqua fredda, versarvi sopra la giurgiulena, stenderla con il mattarello in sfoglia il più possibile sottile. Velocemente, prima che indurisca, ricavare

dei rettangoli e avvolgerli in tubicini per cannoli. Lasciare raffreddare, quindi sfilarli dai tubicini. Si con-

serva, in un barattolo di vetro chiuso ermeticamente

per circa sei mesi. Al momento di servire, farcire i cannoli con crema Chantilly e una spolverata di cannella. Accompagnarli con vino moscato.

VARCHIGLIA MONACALE La Varchiglia Monacale nasce intorno al

te, g. 150 di cioccolato fondente, 2 albu-

di origini spagnola, che fondarono un

Per la copertura: g. 150 di cioccolato

1300 creata delle Carmelitane Scalze,

loro convento a Cosenza, che prepara-

vano questi dolci per gli alti prelati del

fondente.

luogo.

PROCEDIMENTO

da pasta frolla con un ripieno di man-

gredienti, tenendo da parte i due albu-

In origine questo dolce era composto

dorle e zucchero e ricoperto da una glassa di zucchero.

Dopo la scoperta dell’America, nel

1492, si diffuse in Europa l’uso del cioc-

colato e la ricetta si evolvette fino ad arrivare a noi come la conosciamo oggi ,con la sua forma ovale.

Il nome Varchiglia può derivare sia dal-

lo spagnolo “barquilla” che vuol dire cialda a forma di barchetta, sia dal dialetto cosentino “varca”: barca.

Le novizie benestanti delle famiglie co-

sentine che frequentavano il convento, esportarono questa ricetta e la fecero

conoscere ai notabili della città. In questo modo è arrivata fino ai giorni nostri. INGREDIENTI

Per la pasta frolla: g. 250 di farina, 1 uovo intero + 2 tuorli, g. 100 di burro, g. 100 di zucchero.

Per il ripieno: g. 250 di mandorle pela-

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mi, g. 100 di zucchero.

Preparare la pasta frolla con tutti gli in-

mi. Lasciare riposare per circa mezz’ora in frigorifero.

Alla scadenza del tempo, ritirare l’impasto e e stenderlo in una sfoglia di pochi

millimetri di spessore e con questa foderare delle formine imburrate.

A parte, passare le mandorle al cutter ottenendone quasi una farina.

In un casseruolino sciogliere a bagnomaria il cioccolato. Incorporare lo zucchero alle mandorle, quindi aggiungere

il cioccolato e amalgamare bene gli ingredienti. Come ultima operazione

incorporare alla crema gli albumi montati a neve ferma. Riempire le formine,

foderare con la pasta e con il ripieno di mandorle; e infornare a 170°C per circa 15/20 minuti.

A cottura ultimata ritirare dal forno, lasciare raffreddare e infine coprire con il

cioccolato fuso. Servire quando il cioccolato si è solidificato.


Speciale

CALABRIA Sono ricette abbastanza impegnative per la loro preparazione, ma il risultato meritava di lavorarci su. Quindi Daniela, immaginando queste preparazioni con l’ottica delle modalità con cui oggi i ristoranti di buon livello lavorano sulla loro pasticceria, si è data da fare nel ”taglia e cuci” provando e riprovando ragionevoli modifiche, forme e presentazioni. Il primo di questi dolci convertito in dessert è stato il bocconotto di Mormanno caldo, che veniva servito con una salsa di moscato e fette di arancia. Per La Madia, Daniela presenta cinque ricette rivisitate di cui ha tenuti vivi i gusti originali.

TURDILLI Il termine Turdillo deriva molto proba-

bilmente dall’aggettivo greco τυτθòς

- òν , che significa piccolo , piccino , ad indicare le dimensioni di questo dolcetto tradizionale. Secondo la leggen-

da questi dolci risalgono al periodo di

Brezio, figlio di Ercole e fondatore della città di Cosenza.

La ricetta prevede l’utilizzo di vino ros-

so, olio EVO, acqua e farina. Vengo-

no addolciti con il cotto di fichi che in

Calabria viene chiamato miele di fichi:

non è un vero e proprio miele, ma è il risultato della cottura e della pigiatura

dei fichi maturi, oppure con mosto cotto o miele.

Il mosto cotto è il risultato della bollitura per molto tempo della prima spremitura dell’uva, fino ad arrivare ad 1/3 del volume iniziale.

Si conserva a lungo. INGREDIENTI

g. 300/320 di farina 00, ml. 100 di vino rosso, ml. 100 di olio evo, ml. 50 di acqua, mezzo cucchiaino di sale, mosto

cotto q.b., 1 arancia, miele di arancia q.b., 3 stecche di cannella, 10 chiodi

di garofano, olio di arachidi q.b. per la frittura.

PROCEDIMENTO

In un casseruolino versare tutti i liquidi,

LA LOCANDA DI ALIA

una stecca di cannella, cinque chiodi di

Via Ietticelli, 55 - Castrovillari (CS)

che minuto. Ritirare dal fuoco e lasciare

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garofano e lasciare sobbollire per qualintiepidire per cinque minuti. Su una

spianatoia disporre la farina ed al centro

Tel. e Fax +39 0981 46370 info@locandadialia.it

versare, un po’ per volta, il liquido pre-

parato e filtrato. Lavorare delicatamente

con le mani sino a ottenere un impasto morbido ma non appiccicoso. Lasciare

riposare per 30 minuti. Prendere una parte dell’impasto e rotolarlo con le mani sino a ottenere un cordoncino del

diametro di un grissino, quindi dividerlo a piccoli tranci di circa otto centimetri.

Friggerli in abbondante olio. Ritirarli e porli a scolare bene su carta assorbente.

In una casseruola mettere il mosto cotto, il miele di arancia, il rimanente della cannella e dei chiodi di garofano, il succo

dell’arancia e la sua scorzetta. Portare a

ebollizione, quindi versare i turdilli fritti e lasciare insaporire per qualche minuto

mescolando con un cucchiaio di legno. Servirli irrorandoli con lo sciroppo rima-

sto. Sono buoni sia caldi che freddi e so-

prattutto serviti con gelato alla vaniglia. Si possono conservare coperti per circa quindici giorni.

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GOURMETFOOD

L’ESCLUSIVITÀ DEL

SANTAVENERE A MARATEA fotoservizio di

Riccardo Marcialis

A coloro che sono convinti che il Paradiso terrestre non esista, suggeriamo di fare un viaggio nel meridione italiano, e specialmente a Maratea, tra Basilicata, Calabria e Campania: giunti sino lì troverebbero, in un angolo incastonato tra mare e montagna, il Santavenere. Scenario naturale per esperienze sensoriali straordinarie ed eventi indimenticabili. Albergo storico di Maratea, il Santavenere è conosciuto nel mondo e già alla fine degli anni ’50 ospitava, insieme a tanti stranieri, Silvana Pampanini, Raf Vallone, Anita Ekberg, Camilla Cederna, Indro Montanelli, il Principe e la Principessa Alberto e Paola di Liegi, Peppino De Filippo, Pat Metheny, Luciano De Crescenzo e di recente Jonh Landis e Sophia Loren. Ancora oggi, dopo il restyling e le ristrutturazioni apportati alla struttura e al parco dalla attuale proprietà che lo ha acquisito nel 2001, si vive la stessa atmosfera di un tempo.

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Speciale

CALABRIA

IL TEAM DEL GUSTO E I RISTORANTI Semplicità e raffinatezza sono prerogative di una cucina che rappresenta i sapori tradizionali, ma anche la sperimentazione. Lo chef e la sua brigata sono quotidianamente alla ricerca di prodotti esclusivi che, accortamente combinati, danno vita a piatti genuini. Pasta, pane, marmellata, yogurt e pasticceria sono fatti in casa, e c’è una cantina ricca dei migliori vini nazionali e internazionali. SUL MARE: semplice ed elegante terrazza sul mare con banco del pescato del giorno e frutti di mare, è luogo in cui gustare grigliate, menu a base di pesce e pizza a due passi dal molo di attracco accessibile anche da ospiti esterni. All’ombra di una fitta macchia mediterranea, con una vista spettacolare sulla baia, il bar Il Carrubo rende ancora più confortevole la giornata di mare ed è il posto ideale per un aperitivo al tramonto.

OMBRINA IN OLIOCOTTURA INGREDIENTI per 4 persone

g. 450 di ombrina fresca, ml. 200 di olio EVO, g. 200 di zucchine novelle, 20 foglie di melissa, pepe bianco di Muntok in grani, sale Maldon in fiocchi, menta fresca, aceto. PREPARAZIONE

Porre sul fondo di un barattolo di vetro l’ombrina. Riempire con l’olio

fino all’orlo. Aggiungere foglie di melissa, granelli di sale Maldon e grani di pepe bianco. Richiudere ermeticamente il barattolo. Poggiare il contenitore di vetro dentro una teglia di acqua calda portata a 65°C.

Cuocere il pesce in oliocottura in vetro a bagnomaria a 70°C per 4 ore. Aprire il barattolo dopo averlo fatto leggermente raffreddare in acqua ghiacciata. Filtrare e conservare l’olio di cottura.

Tagliare le zucchine a rondelle e friggerle in olio d’oliva a 160°C; condirle con olio, aglio e un pochino di aceto e menta. PER LA CREMA DI ZUCCHINE ALLA SCAPECE

Cucinare 200 grammi di zucchine con 50 grammi d’acqua, 15 grammi di aceto, 20 grammi di olio, sale e zucchero. Frullare e setacciare.

Stendere un leggero strato di crema di zucchine nei piatti. Disporre su

GLI ULIVI: ai bordi della piscina, circondato dagli ulivi e dai limoni del vasto e incantevole giardino, il ristorante della piscina offre una notevole scelta di deliziosi light lunch. Per tutto il giorno, gli esperti barman sanno prendersi cura degli ospiti con il ristoro di bevande rinfrescanti e irresistibili cocktail. LE LANTERNE: lo stile raffinato ed elegante dell’ambiente interno, l’ampio patio colonnato in stile mediterraneo con un panorama mozzafiato sulla terrazza esterna e una ricercata cucina dove primeggiano il pesce ed i prodotti tipici locali sapientemente elaborati dagli chef, fanno de Le Lanterne uno dei posti tra i più esclusivi e suggestivi dove poter godere una cena a lume di candela.

questa le porzioni di ombrina e guarnire con le zucchine.

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GOURMETFOOD

Nel cuore della grande tenuta, protette dalla quiete del parco secolare, le 26 camere con vista panoramica sulla baia del Santavenere o sul parco, sono diverse sia per arredi, colori e materiali, che per la disposizione degli ambienti. Sono pensate per chi desidera il massimo comfort e apprezza la sensazione rara di sentirsi accolti nell’atmosfera familiare di una casa con una lunga tradizione di raffinata ospitalità. Le 8 junior suite godono invece della pace della dependance immersa nel verde, con affaccio sul bosco a strapiombo sul mare o con patio privato e accesso dal giardino.

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LE GROTTE SPA INCONTRO TRA RELAX E LUSSO Con una visione “esclusiva” , Le Grotte Spa è stata progettata per offrire relax e rigenerazione corpo-mente anche grazie alla sua politica di utilizzo privato: l’ospite (coppia o famiglia) che prenota il suo percorso SPA non si troverà a condividerlo con nessun altro. Evocando i Bagni romani della vicina Pompei, Le Grotte Spa trae ispirazione sia nel design, che nelle scelte terapeutiche, da tempi antichi per poi fonderli con tecniche innovative. Tufo napoletano e affreschi in stile pompeiano impreziosiscono il luogo con elementi naturali. La Spa è composta da 17 ambienti denominati “Grotte”.

HOTEL SANTAVENERE

Via Conte Stefano Rivetti, 1, 85046 Maratea (PZ) - Tel. 0973 876910 www.santavenere.it - info@santavenere.net


Speciale

CALABRIA

A CASTROVILLARI

TORRE INFAME

È LA QUINTESSENZA DELLA CUCINA TRADIZIONALE fotoservizio di

Riccardo Marcialis

Spesso le cose preziose o rare sono naturalmente occultate, nel senso che può essere difficile rilevarle a colpo d’occhio o in un semplice passaggio. Ci sono luoghi sconosciuti e impensati che, grazie ai food travellers e riviste specializzate come La Madia, vengono scoperti, selezionati e proposti a quegli amatori di cucine genuine e veraci. Questa volta è toccato a un locale particolare, ma non in virtù di un raffinato arredamento e nemmeno per eventuali stelle acquisite. Si tratta di un’osteria come ce ne sono tante nel meridione italiano, a differenza di quelle al nord che i trend trasformano in locali un po’ troppo borghesi, tanto da non rientrare nella tradizione. Cosa ha di particolare questa osteria? Innanzitutto il suo nome: “Osteria Torre Infame”. La sua location: un angolo storico dell’antica Castrovillari. La sua ospitalità: tre personaggi che, all’apparenza, sembrano un trio da cabaret per la loro simpatia. Ma la cosa che la rende indimenticabile è la sua cucina. Una cucina che funziona da centinaia di anni perché è la cucina dei nonni, dei bisnonni e degli avi tramandata con cura e pazienza. Oggi l’Osteria Torre Infame, pur essendo un luogo frequentato da una clientela variegata - dalle giovanissime coppie di fidanzati alle famiglie borghesi di Castrovillari - è un luogo di tranquillo ristoro. L’ampio dehors sembra quasi una barcaccia teatrale essendo sopraelevata rispetto alla piazzetta, e nelle fresche serate d’estate viene voglia di trascorrerci tutta la notte. Tutto questo, condotto da Pasquale con il sapiente ed elegante umorismo con cui intrattiene gli ospiti in attesa delle portate. Nicola Mazzucca, patron e cuoco, ha preparato per La Madia alcune ricette che ci erano sembrate un po’ scontate, ma la più semplice, la pizza “skicculiata”, ci ha lasciati sconcertati tanto da chiedere a Gennaro, lo chef pizzaiolo, come riesce a fare una pizza favolosamente diversa con gli stessi ingredienti che usano tutti i bravi pizzaioli. Oltre

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GOURMETFOOD

alla bravura del cuoco, alla simpatia del personale e all’ospitalità, ciò che più gioca a favore della cucina dell’Osteria Torre Infame sono le materie prime coltivate e raccolte nei campi dietro l’angolo. Inoltre, e non per ultimi, l’aria di Castrovillari e la piacevolezza che abbiamo trovato negli ottimi vini locali. In breve, la storia: L’Osteria Torre Infame apre i battenti nel centro storico di Castrovillari, di fronte al magnifico Castello Aragonese risalente al 1490. Prende il nome da una delle quattro torri delle mura di cinta della fortezza, famigerata in quanto venne utilizzata come luogo di martirio e di dolore durante la dominazione spagnola e la lotta al brigantaggio. Nel corso degli anni si è caratterizzata per la sua cucina tipica castrovillarese, fatto che la rende un luogo dove si

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SPAGHETTI AL FUOCO DI BACCO Questo è il piatto più celebre della Torre Infame, una ricetta originale dell’oste Nicola Mazzuca. Uno spaghetto completamente cotto nel Magliocco che è il vitigno

tipico della zona. La ricetta nasce nel 1997, insieme all’osteria, da una chiacchierata sull’utilizzo in cucina dei vini importanti del territorio.

Si porta a ebollizione il vino con pomodoro passato, olive nere e peperoncino pic-

cante calabrese. Si aggiungono gli spaghetti e si lasciano cuocere sino a quando il vino è totalmente assorbito dallo spaghetto o evaporato. La mantecatura finale viene fatta con pecorino calabrese stagionato.


Speciale

CALABRIA

PIZZA SKICCULIATA La pizza della Torre Infame è prerogativa di Gennaro il pizzaiolo. E’ lui che ha por-

tato una piccola rivoluzione, proponendo il suo lievito madre, fatto con sola acqua e farina che continua a coltivare ormai da diversi anni.

La volontà è quella di riportare un sapore antico con una lievitazione di 24 ore

usando una farina leggera; anche se Gennaro vorrebbe arrivare alle 48 ore di lievitazione. La pizza alla “skicculiata” fa parte della tradizione di Castrovillari perché

ustilizza tutti ingredienti della zona; originariamente viene proposta in teglia, ma alla Torre si è preferita da subito la versione tonda, composta da pomodoro pela-

to, pomodorini, peperoni e le onnipresenti olive nere essiccate. All’impasto classico, affianca anche un impasto integrale e uno multicereale.

possono riscoprire i sapori autentici. Nicola Mazzuca, con la grande passione per la cucina ereditata dai genitori, ha saputo creare un locale caratterizzato da una cucina semplice e genuina fatta con prodotti provenienti prevalentemente dalle campagne di Castrovillari. Negli ultimi anni l’attività è stata migliorata ampliando il menu e la lista dei vini inserendo nuovi capolavori di artigianato culinario. Tra tutti i piatti, si distinguono i famosi spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel Magliocco locale, con peperoncino piccante ed olive nere, mantecato in padella con parmigiano reggiano. Una vera prelibatezza. L’Osteria è anche una superlativa pizzeria, con forno a legna e pizzaiolo di altissimo livello, Gennaro Papa. È vero che Castrovillari non è dietro all’angolo, ma ha la il privilegio di trovarsi proprio a metà strada tra il litorale ionico e quello tirrenico, con un comodo e dedicato casello autostradale. A buon intenditor...

OSTERIA LA TORRE INFAME

Piazza Castello, 16 - Castrovillari (CS) Tel. 0981 27208

BACCALÀ ALL’ARAGONESE

L’unico piatto di pesce in carta è il baccalà; un baccalà in umido, precedentemente

dissalato in acqua corrente per circa 2/3 giorni.

Si inizia soffriggendo i peperoni cruschi, la

cipolla bianca di Castrovillari e le immancabili olive nere.

Si aggiungono poi dei pomodorini ciliegini biologici e una spolverata di prezzemo-

lo che , dopo circa 6/8 minuti di cottura, formano un sughetto profumato sul quale viene adagiato il trancio di baccalà.

Altri 8/10 minuti di cottura e qualche minuto a riposo prima di essere servito.

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Giovani talenti

MICHELE ALESSIO UN FIOR FIORE DI CHEF NEL CUORE DELLA CALABRIA di

Ugo Ravaioli

Nella piana di Sibari, dove nell’antichità spuntò la più opulenta città della Magna Grecia, circa 600 ettari sono coltivati a riso. È un fazzoletto di terra che le bonifiche negli anni ‘60 hanno strappato alle paludi ed è l’unica sacca di produzione risicola dell’intero Meridione. Il raccolto annuo si aggira sui 15 mila quintali, che sono appena un millesimo del totale nazionale. Insomma, rispetto ai volumi padani, si tratta niente più che di un pugno di riso, ma una felice combinazione fra terra salmastra e fiumara assicura che il cereale, sotto il profilo della qualità, sia di assoluta eccellenza. Non è un caso, perciò, che i risotti figurino pressoché immancabilmente nei menu dei migliori ristoranti calabresi, magari coniugati con la liquirizia, visto

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Speciale

CALABRIA

che da quelle parti si concentra l’80% di quanta ne cresce in Italia. E non è neppure un caso che anche grazie ad un risotto (con il quale due anni fa si mise in mostra alla Fiera del Riso di Isola della Scala, di gran lunga la piĂš importante del settore), si siano accese le luci della ribalta su Michele Alessio, chef della Cascina di Fiore, dal 2009 tempietto della cucina

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Giovani talenti

SCIALATIELLI SANGIOVANNESI con ragù rosso di agnello e ricotta di pecora affinata alla liquirizia di Calabria

Lo Scialatiello è un formato di pasta fresca originario dell’estremo meridione d’Italia. Un tempo rappresentava la ricetta tramandata da massaia in massaia nelle case della capitale della Sila.

A San Giovanni in Fiore si trovava spesso condito con salsiccia fresca e funghi porcini, o anche con del baccalà che veniva cotto nel sugo e con quel sugo condita la pasta. Il nome Scialatiello deriva dell’operazione che le massaie facevano per creare questo formato: “scilavano” (affinavano a mano) questi cordoncini di pasta fino alla grossezza desiderata. INGREDIENTI per 4 persone

Per gli scialatielli: g. 500 di farina di grano tenero, g. 100 di uova fresche, g. 100 di acqua di sorgente, sale e pepe q.b.

Per il ragù rosso di agnello: g. 500 di polpa di agnello di Moscia calabrese (razza autoctona calabrese), g. 300 di pelato di pomodoro, 1 spicchio d’aglio, 1 rametto di rosmarino, ml. 50 di vino rosso Gaglioppo per sfumare, sale e pepe q.b.

Per la ricotta di pecora affinata alla liquirizia: 1 ricotta di pecora semistagionata, g. 20 di polvere di liquirizia calabrese, ml. 50 di liquore alla liquirizia calabrese. PROCEDIMENTO

Per gli scialatielli: realizzare una fontana con la farina e al centro inserire le uova e l’acqua tiepida dove sciogliere il sale. Ammassare l’impasto, creare una palla liscia ed omogenea e lasciarla riposare almeno un paio d’ore. Dopo questo tempo, stendere la pasta ad uno spessore di circa

mezzo centimetro e successivamente, con l’aiuto di un coltello (o di una macchinetta per la pasta), formare gli scialatielli.

Per il ragù rosso di agnello: tagliare l’agnello in piccoli bocconi. Preparare un soffritto leggero con aglio e rosmarino. Abbrustolire l’agnello a fiamma alta, salare e pepare e, quando si sarà

formata una bella crosticina, sfumare con il vino rosso. Lasciare evaporare completamente e aggiungere i pelati. Cuocere circa 1 ora aggiungendo acqua calda, se necessaria, fino a cottura.

Per la ricotta: affinare la ricotta con la polvere e il liquore di liquirizia tramite il sottovuoto. Fare

un paio di cicli con il sottovuoto a campana in modo che la liquirizia penetri nella ricotta. Lasciar riposare una settimana prima dell’utilizzo.

Cuocere gli scialatielli in abbondante acqua salata, scolarli e condirli con il ragù rosso di agnello; infine grattugiare delicatamente la ricotta di pecora affinata.

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montanara silana. Il ristorante è stato ricavato in un casale, con fienile e stalla, risalente agli anni ’30 e sapientemente restaurato. È immerso nel verde, nel cuore del Parco Nazionale della Sila, esattamente ad Olivaro, una frazione di San Giovanni in Fiore che già dal nome denuncia come in fatto di altura si sia ancora su quote in cui gli ulivi la fanno da padrone. Michele Alessio ha 29 anni. Ne aveva 19 quando, ancora studente liceale, ha accumulato le prime esperienze fra pentole e padelle in un pub del paese. Conseguita la maturità scientifica con il massimo dei voti, non ha avuto esitazioni nell’affiancare il fratello maggiore Antonello – sommelier e tecnologo alimentare – in un’avventura in proprio nel campo della ristorazione. Univa entrambi la cultura dell’accoglienza, ereditata dal padre Franco, che nel 1996 avviò un’aziendina per la produzione di liquori tipici che tuttora perpetuano e tramandano ricette millenarie. Michele appartiene a pieno diritto a quella Millenial Generation che ha scelto come palcoscenico i fornelli e si sta rendendo protagonista della riscossa gastronomica del Sud. Come Caterina Ceraudo, della vicina Strongoli, indicata dalla guida Michelin quale migliore chef donna del 2017. O


Speciale

CALABRIA come i fidanzati salentini Isabella Potì e Floriano Pellegrino, del ristorante Bros’ di Lecce, che la rivista Forbes ha inserito – l’una nel 2017 e l’altro nel 2018 – nella lista dei “30 talenti under 30” più influenti d’Europa. La Calabria, come ebbe a scrivere Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”, sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme. In quei mondi forse ci sta anche la straordinaria varietà dei prodotti, un autentico ben di Dio, che in Calabria offre la terra. E magari rientrava in un disegno divino che nel tempo si sarebbero scovate anche nuove e sorprendenti maniere per mescolarli e amalgamarli. A Michele, sotto questo profilo, non mancano né l’equilibrio in quelli che potrebbero apparire azzardi o ostentati virtuosismi, né l’inventiva: i suoi piatti hanno salde radici nella tradizione ma non rinunciano a ricercare l’innovazione, anche riguardo le tecniche e senza timori di confronti. Abbiamo ad esempio particolarmente apprezzato un tuorlo d’uovo marinato – celebre cavallo di battaglia di Carlo Cracco – che galleggiava in fonduta di caciocavallo, ser vito in contemporanea ad una trentina di commensali. Davvero inappuntabile nell’esecuzione. Questo e la piacevolezza riscontrata in tutte le altre sue preparazioni ci fanno presagire che Michele avrà un futuro sicuramente significativo nella storia della migliore ristorazione, non solo del Sud.

TROTA SALMONATA DI MONTAGNA patate della Sila ed erbette alimurgiche INGREDIENTI per 4 persone

Per la trota: kg. 1,5 di trota salmonata di montagna, ml. 300 di olio di vinacciolo, g. 500 di sale, g. 500 di zucchero, finocchietto selvatico.

Per le patate: g. 500 di patate di montagna, g. 50 di burro di montagna, sale e pepe q.b., brodo di trota.

Per le erbette alimurgiche: piantaggine, acetosa, vitalba, finocchietto, grespigno comune, fiori di malva, olio evo. PROCEDIMENTO

Per la trota: squamare la trota, sventrarla e sfilettarla. Levare gli sfridi dai filetti e

abbattere in negativo con l’aiuto di un abbattitore. Mescolare sale, zucchero e finoc-

chietto selvatico e marinare a secco i filetti di trota (portati a temperatura di +3°C) per 12 ore in frigorifero. Trascorso questo tempo, levare la marinata e asciugare per

bene i filetti, dopodiché sporzionare. Acidificare i singoli pezzi in acqua gassata per pochi minuti a +3°C. Asciugare nuovamente e condizionare i filetti sottovuoto in bu-

ste per cottura aggiungendo l’olio di vinacciolo. Cuocere a 48°C per 12 minuti e poi abbattere a +3°C.

Per le patate: cuocere le patate con tutta la buccia nel brodo di trota finché non

risulteranno morbide. Spelarle e ridurle in purea; aggiungere il burro di montagna, mantecare e tenere in caldo.

Per le erbette: pulire al meglio le erbette, sbianchirle in acqua bollente e raffreddarle in acqua e ghiaccio per salvaguardare colore e consistenza. Condire con olio

evo. Rigenerare i filetti di trota a 48°C per 10 minuti. Impiattare un po’ di purea di patate sulla quale spolverare della polvere di cicoria (essiccatore 50°C 18 ore);

adagiare i filetti rigenerati e completare con le erbette condite, i fiori di malva e un giro di olio evo.

AGRITURISMO CASCINA DI FIORE Via delle Rose (656,55 km)

87055 San Giovanni in Fiore (CS) Tel. 0984 971133 - 328 6732370

www.cascinadifiore.blogspot.com antonelloalessio@libero.it

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Giovani talenti

MICHELE ALESSIO INTERPRETA

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www.surgital.it

Giovani talenti per

RAVIOLOTTI AL BACCALÀ

patate alla cenere, polvere di cicoria e terra di olive nere INGREDIENTI per 4 persone 16 Raviolotti al baccalà

Divine Creazioni Surgital

g. 300 di patate della Sila

g. 50 di burro di montagna g. 500 di cicoria di campo

g. 200 di olive nere sale e pepe q.b.

crescione a decorazione olio evo q.b.

PREPARAZIONE

Sbianchire la cicoria in abbondante acqua salata, raffreddarla con del ghiaccio, strizzarla e inserirla nei cestelli dell’essiccatore a 55°C per 15 ore.

Inserire nei cestelli anche le olive nere de-

nocciolate, essiccandole alla stessa temperatura (55°C per 15 ore). Con l’aiuto di un barbecue cuocere le patate con tutta

la buccia sotto la cenere fino a quando risultino morbide. Successivamente pelarle

e ridurle a purea aggiungendo il burro di

montagna e un po’ di latte per raggiungere una consistenza setosa; regolare di sale e pepe.

Cuocere i Raviolotti al baccalà in abbon-

dante acqua salata per 5/6 minuti. Condire con olio evo.

Adagiare alla base del piatto la purea di patate alla cenere, i Raviolotti e su questi setacciare la polvere di cicoria di campo e la terra di olive nere.

Completare con le foglioline di crescione e un giro di olio evo.

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Giovani talenti

PANCIOTTI CON PUNTE DI ASPARAGI E MASCARPONE ®

guanciale croccante, fave, pecorino e bergamotto

INGREDIENTI per 4 persone

PREPARAZIONE

di sapore: se lo si vuole eliminare, cuo-

Divine Creazioni Surgital

nese Dop con l’utilizzo del bagnomaria,

bianca).

12 Panciotti asparagi e mascarpone g. 200 di Pecorino Crotonese DOP semistagionato

g. 80 di panna da latte

g. 80 di guanciale di maiale nero calabrese

g. 250 di fave fresche 1 bergamotto

sale e pepe q.b. olio evo

Preparare la fonduta di Pecorino Croto-

mettendo precedentemente a mollo il formaggio grattugiato con la panna per un paio d’ore; tenere in caldo.

Far essiccare il guanciale nel micro-

onde alla massima potenza per 50 secondi.

Asciugare il grasso in eccesso con l’aiuto di carta da cucina.

Procedere privando le fave del loro baccello (se le fave sono freschissime

avranno un sapore leggermente amarognolo. A noi piace questo contrasto

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cere le fave insieme ad un po’ di cipolla Sbollentarle per pochi minuti e raffred-

darle in acqua e ghiaccio per non perdere colore e consistenza. Metterle ad asciugare su un panno.

Cuocere i Panciotti in abbondante acqua salata per 7 minuti circa, scolarli e condirli con olio evo.

Comporre il piatto adagiando la fonduta

di pecorino, sovrapporre i Panciotti, le

fave fresche, il guanciale croccante e un giro di olio evo. Completare con la scorzetta del bergamotto.


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Giovani talenti per

BAULETTI® CON FORMAGGIO “CASTELMAGNO DOP”

con agnello e finocchietto selvatico, salsa di melanzane bruciate, pomodorini confit e menta INGREDIENTI per 4 persone

PREPARAZIONE

Per l’agnello: tagliare l’agnello a boc-

“Castelmagno DOP”

bucherellare le melanzane intere e ar-

e le erbe aromatiche. Eliminare la mari-

g. 150 di agnello allevato al pascolo

ché non risultino morbide. Pelarle e

16 Bauletti con formaggio Divine Creazioni Surgital (spalla o coscia)

ml. 50 di vino bianco Cirò Doc

erbe aromatiche q.b. (timo, rosmarino, maggiorana, menta, finocchietto selvatico) 2 melanzane intere

1/2 spicchio d’aglio

g. 100 di pomodorini Pachino sale e pepe q.b. olio evo

Per la salsa di melanzane bruciate:

rostirle sulla griglia del barbecue fininserirle nel robot insieme ad olio evo, mezzo spicchio d’aglio privato dell’a-

nima e qualche fogliolina di maggiorana. Setacciare e tenere da parte.

Per i pomodorini confit: lavare i po-

modorini e dividerli a metà. Posizionarli su una placca coperta da carta

forno e cospargerli con un trito composto da aglio, timo, maggiorana e

spolverare con un po’ di zucchero a velo. Infornare a 130°C per 90 minuti.

concini e marinarli per un’ora con il vino natura, asciugare e arrostire brevemente l’agnello su una padella di ferro su tutti i lati. Tenere in caldo.

Cuocere i Bauletti in abbondante acqua salata per 5 minuti, scolarli e condirli

con olio evo. Impiattare, posizionando i Bauletti sul piatto sopra i quali adagiare

i bocconcini di agnello e il finocchietto selvatico; a fianco di ciascun Bauletto di-

sporre una goccia di salsa di melanzane, un pomodorino confit e la mentuccia fresca. Completare con un giro di olio evo.

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PRODOTTI ECCELLENTI

LA PERLA DEL DELTA UN’OSTRICA D’ECCELLENZA ECOSOSTENIBILE di

Fabrizio Salce

La Rosa Tarbouriech prodotta in Italia è un’ostrica di altissima qualità derivata da un metodo di allevamento fortemente innovativo, finalizzato all’ottenimento di un’ostrica dalle caratteristiche davvero eccezionali. Le sue carni sono particolarmente consistenti, la polpa ricca, croccante e carnosa ha un sapore delizioso e meravigliosamente persistente, il guscio rasato e ondulato è decisamente pulito e privo di impurità. Il suo nome, ostrica rosa, prende spunto dal colore delle striature del guscio baciate dal sole. Il sistema di coltivazione decisamente particolare ed esclusivo è stato ideato da Florent Tarbouriech, produttore delle famose ostriche rosa nel bacino di Thau, la maggiore laguna della regione della Linguadoca-Rossiglione nel sud della Francia; area conosciuta anche per la grande produzione di vini, i più apprezzati sono il Vin de Pays d’Oc e il frizzante Crémant de Limoux. È un sistema a sospensione per cui le ostriche vengono attaccate alle funi che permettono poi di dosare acqua e aria con precisione alternando periodi in immersione a periodi di esposizione all’aria e al sole, simulando l’alternanza delle maree. Tutti i movimenti di immersione ed emersione delle funi sono alimentati da energia pulita: pannelli solari e impianti eolici. L’impianto di coltivazione del prelibato mollusco presente in Italia è situato nella Riserva della Biosfera del

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LAPERLADELGARDA

delta del Po nella Sacca di Scardovari, la più grande laguna del Po situata tra le foci del Po delle Tolle e il Po di Gnocca, un punto magico dove il grande fiume e il mare Adriatico si fondono in un abbraccio dando vita ad un ambiente unico per l’allevamento di vongole e cozze. Stiamo parlando di un impianto unico nel nostro Paese e del suo pioniere Alessio Greguoldo che iniziò le prime sperimentazioni con le ostriche nel 2007. Nel 2016 è iniziata la vera produzione e nel 2017 la vendita del prodotto. L’ostrica rosa speciale Tarbouriech nasce dunque dal sole e dall’acqua e offre tutta la complessità e la delicatezza dei suoi aromi. Coltivata in costante equilibrio tra acque salate e dolci nel rispetto dell’ambiente, la si trova nelle calibrature da 0 a 5 ma sempre e in ogni calibro all’altezza delle esigenze di amatori ed esperti. Indiscutibilmente un’ostrica di gran classe e dal sapore superiore.

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INTERVISTA A...

TOMMASO LACANFORA UN LUCANO VERO A MATERA AL SERVIZIO DI FRANCIS FORD COPPOLA di

Lucy Gordan

Palazzo Margherita è stato ultimato negli ultimi decenni del 1800 dalla famiglia Margherita a Bernalda (Matera). In questo piccolo centro della Basilicata è nato Agostino Coppola, il nonno del regista del cinema americano, Francis Ford Coppola. Agostino ha sempre chiamato il suo amato paese: “Bernalda bella” anche se non vi è mai ritornato dopo essere emigrato negli Stati Uniti. Contrariamente al nonno, suo nipote Francis - affascinato dai racconti di famiglia - si è recato a Bernalda per la prima volta negli anni ‘60 e successivamente in altre occasioni. Tutte queste visite in Basilicata di fatto hanno alimentato ancora di più, in Francis, il senso di appartenenza a questa terra, e così, nel 2005, ha deciso di comprare Palazzo Margherita che, dopo 6 anni di un attento restauro conservativo, è stato adibito ad hotel di lusso nel 2012. Oggi l’elegante albergo offre un’atmosfera sobria ma confortevole e romantica che ricorda il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Le sue 9 suites, dislocate su due piani e restaurate con l’aiuto e la professionalità del famoso architetto francese Jacques Grange, sono ognuna diversa dall’altra, con pavimenti di piastrelle antiche e soffitti affrescati. Palazzo Margherita è un “Hub” perfetto per visitare i “Sassi” di Matera e le rovine greche di Metaponto o le numerose cantine in zona.

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TOMMASOLACANFORA

L’INTERVISTA I nostri gusti per il cibo sono strettamente collegati all’infanzia; le sue prime memorie sul cibo? Sono nato a Matera l’8 settembre del 1988. Mio padre è sempre stato un agricoltore e sin da piccolo ho conosciuto solo prodotti tipici e stagionali usati secondo la nostra tradizione culinaria contadina. Tra i piatti tradizionali che ricordo ci sono sicuramente “I maritati”, pasta fatta in casa di formato differente (orecchiette, cavatelli e ferricelli) mischiata insieme e condita con un sugo di ragù realizzato con un misto di carni: manzo e maiale. Altri chef in famiglia? Sì, uno dei fratelli di mia madre lavora nella ristorazione: zio Mario è proprietario di un ristorante, “Le Dodici Lune”, a Matera; lui è stato il mio primo maestro di cucina, il mio mentore. Io ho lavorato con lui come apprendista, per un po’, in un resort - il Magna Grecia Hotel Village - sulla costa Ionica. Da lui

ho imparato sicuramente le basi e non solo della cucina tipica di questa zona. La sua gavetta? Come dicevo, il mio primo lavoro nella ristorazione è stato a Metaponto. Poi, dopo il diploma presso la scuola alberghiera di Matera, ho lavorato 4 anni in Germania, all’Hyatt Regnecy di Cologne e all’Hyatt Regency di Düsseldorf. Infine, nel 2102 Coppola ha aperto questa struttura, io ho avuto l’opportunità di conocerlo e di poter rientrare a casa. Dopo pochi mesi dall’apertura sono diventato chef della struttura dove dirigo la cucina. Come ha fatto a conoscere Francis Ford Coppola? Quest’opportunità la devo a mio zio che conosceva il signor Coppola già dal 2011. Infatti,in occasione dell’organizzazione del buffet del matrimonio di Sofia Coppola tenutosi prima dell’apertura proprio qui a Palazzo

Margherita, il Maestro chiese a mio zio se conoscesse qualcuno che potesse lavorare nella cucina di Palazzo Margheirta. All’epoca lavoravo in Germania e mio zio mi contattò. È molto esigente Francis Ford Coppola? No, il signor Francis è una delle persone più belle che abbia conosciuto in vita mia. Ama la cucina tradizionale; uno dei suoi piatti preferiti è la tiella d’agnello al forno con patate e lampascioni, ma adora anche molto la capriata, una zuppa di legumi. Le qualità essenziali per essere top chef? Come dice lo chef Vitantonio Lombardo: “Cuore, testa e pancia.” L’aspetto del suo lavoro che ama di più? Mi è sempre piaciuto stare ai fornelli, amo il mio lavoro e ogni piatto è per

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INTERVISTA A...

LINGUINE

con aglio, molliche di pane e peperoni cruschi di Senise

INGREDIENTI

linguine, olio extravergine d’oliva, pangrattato, 1 spicchio d’aglio, polvere di peperone secco, peperone crusco di Senise fritto, acqua, sale. PROCEDIMENTO

Portare a ebollizione una grande pentola di acqua salata. Tritare il pane raffermo e friggerlo in un filo d’olio extravergine d’oliva. Mettere da parte. Im-

mergere le linguine nell’acqua bollente salata. In una padella grande, scaldare

l’olio a fuoco medio e aggiungere uno spicchio d’aglio, cuocendo il tempo necessario per profumare l’olio. Quando l’aglio inizia a rosolare, togliere la padella dalla fiamma e incorporare la polvere di peperone rosso secco. Scolare la pasta 2 minuti prima del tempo di cottura e aggiungerla nella padella con olio,

aglio e peperone. Mescolare. Servire la pasta condita con un peperone “crusco” di Senise fritto e il pangrattato.

me una nuova sfida per migliorami. Di meno? Questo lavoro è molto sacrificante perché ti constringe a stare numerose ore fuori casa, ma in compenso ti offre molte soddisfazioni. Vedere il sorriso sui visi delle persone mentre apprezzano quello che hai preparato è bello, ti riempie di gioia. Come definerebbe la sua cucina? La cucina che facciamo a Palazzo Margherita si ispira alla tradizione culinaria lucana. È una cucina autentica che rievoca i piatti semplici ma ricchi di sapore, grazie alla produzione delle piccole aziende di famiglia da cui abbiamo la fortuna di acquistare i prodotti. I piatti che proponiamo sono paste di semola rimacinata fatte a mano, molte verdure ed ortaggi di stagione, legumi, cereali, frutta locale e carne (soprattutto agnello dell’Appennino lucano e maiale nero lucano) In base a ciò posso parlare di “Kilometro lucano” perché se devo raggiungere il Parco Nazionale del Pollino per acquistare un salame eccezionale devo percorrere 80 kilometri, ma ne vale

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la pena. La frutta e la verdura sono solitamente tutti comunque di zona o “Kilometro 0”. Tra i piatti che proponiamo sottolinerei i Maritati, di cui le parlavo prima, conditi con diversi tipi di salse o la tiella di agnello con patate e lampascioni, o ancora una torta biscottata con la ricotta fresca, oppure una nostra rivisazione del tiramisù, utilizzando il pane fatto in casa al posto dei savoiardi dolci e la ricotta fresca al posto del mascarpone, in aggiunta a caffè e cioccolato.

Quando questo albergo è chiuso durante l’inverno, lavora con papà? Non necessariamente. In passato ho svolto brevi periodi di lavoro presso gli altri alberghi della famiglia Coppola in Belize e Guatemala. Ed anche in California. Condivido le mie conoscenze e le preparazioni dei piatti tipici della nostra tradizione con gli altri chef dei Coppola HideAways e chiaramente apprendo dall’esperienza dei miei colleghi. Chef che ammira? Antonio Guida, Massimo Bottura, il nostro chef lucano Vitantonio Lombardo. I suoi vini preferiti? Primitivo di Matera e Aglianico del Vulture. I suoi dolci preferiti? Il mio “Tirami sud”. Un piatto che non le piace? Quelli che a Roma vengono chiamati il quinto/quarto: cuore, polmoni, fegato di agnello.


TOMMASOLACANFORA

Nel suo frigo, che cosa non manca mai? Il mio frigo è quasi sempre vuoto perché sono sempre al lavoro, ma quando non lavoro non mancano latte, formaggi, uova e certamente frutta e verdura di stagione… sono figlio di agricoltori! Che cosa ama particolarmente del sud-Italia? La mia Basilicata è una terra misteriosa e affascinante. Tanti paesaggi diversi, panorami che tolgono il respiro ma che sono ancora oggi sconosciuti a molti, pur conservando un’autenticità che purtroppo altre parti d’Italia hanno in parte perso. Perché un turista dovrebbe venire in Basilicata? La Lucania è una terra in cui la storia della natura e dell’uomo ha lasciato tracce importanti sin dal tempo in cui le terre

TIELLA D’AGNELLO con patate e lampascioni INGREDIENTI

12 costolette d’agnello, g. 800 di patate, 12 lampascioni, 2 cipolle bianche, g. 100 di pomodorini, cl. 200 di vino

bianco, 2 spicchi di aglio, g. 200 di parmigiano grattugiato,

cl. 200 di olio extravergine d’oliva, origano, prezzemolo, sale e pepe q.b.

PROCEDIMENTO

Pelare e tagliare le patate, pulire i lampascioni, pomodorini

e tagliarli in due, affettare la cipolla, mescolarli in un conteni-

tore con aglio, prezzemolo, origano, olio e.v.o., vino bianco, sale e pepe. In una teglia sistemare le costolette di agnello

salate e pepate e coprire con il preparato di patate, spolve-

rare il tutto con il parmigiano grattugiato e infornare a 160°C per circa 2 ore.

N.B.: è preferibile far cuocere l’agnello per 90 minuti con la teglia coperta e per 30 minuti scoperta per far gratinare tut-

to. Nel caso dovesse risultare troppo asciutto aggiungere un po’ di acqua.

Servire in un contenitore di terracotta o rame ricoprendo il tutto con l’impasto per pizza condita con olio e origano.

PALAZZO MARGHERITA Corso Umberto I, 64

75012 Bernalda (MT)

emersero dalle profondità marine. La Basilicata si offre ai viaggiatori regalando il fascino della scoperta delle sue bellezze naturali, della preistoria e della storia, delle tradizioni che in alcune zone hanno conservato ancestrali ricordi delle origini dell’uomo, di una gastronomia semplice e genuina dal marcato carattere mediterraneo. La Basilicata sa farsi amare da chiunque la visiti spinto da desiderio e curiosità, da chiunque abbia in animo la voglia di riscoprire il fascino di viaggiare seguendo le strade che dai crinali delle montagne o dalle colline si affacciano su paesaggi straordinari e inconsueti, o di raggiungere città ricche di storia, località marine incontaminate con spiagge amplissime di sabbia dorata. Meta ancora poco frequentata dal turismo tradizionale, è invece accogliente e ricca di attrattive. Viaggiare in Basilicata ha ancora oggi il fascino dell’avventura, della scoperta di un passato ricco di testimonianze, del contatto con una natura generosa e stupefacente, ma anche di gente ospitale pronta ad aiutarvi ogniqualvolta ne abbiate bisogno.

Tel. 0835 549060

www.thefamilycoppolahideaways.com

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ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”

SEMBRA FACILE MA…

CONSERVARE E SERVIRE UN VINO È UN MESTIERE PRIMA DI UN GRANDE VINO, C’È UNA GRANDE BOTTIGLIA. ANCHE NEL SERVIZIO.

Non dobbiamo mai dimenticarci che prima di un grande vino c’è sempre una bottiglia perfetta e che, per far sì che sia nella miglior forma possibile, la conservazione è fondamentale. L’ottima conservazione è frutto di due fattori principali: il controllo della temperatura e il tasso di umidità. Questo non dovrebbe mai essere inferiore al 70 -75% per evitare di far seccare i sugheri delle bottiglie, processo che porterebbe all’evaporazione del vino e all’ossidazione. La temperatura è fondamentale che sia il più costante possibile e compresa tra i 12 e i 16° C. Molto importante è anche l’assenza o quasi di luce (sia artificiale che solare): dato che le bottiglie sono trasparenti - il che comporta un deterioramento del vino decisamente veloce in presenza di molta luce - è sufficiente illuminare la cantina con una lampadina a bassa potenza. Da non trascurare l’aerazione, infatti il costante ricambio d’aria è rilevante per evitare muffe o odori stagnanti che possono penetrare all’interno delle porosità dei tappi deteriorando il vino.

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Bisogna inoltre porre attenzione nell’evitare vibrazioni troppo intense, per cui è sconsigliabile usare una cantina adiacente, per esempio, a una fermata della metropolitana. La collocazione è un altro elemento fondamentale perché le bottiglie possano sfidare indenni il tempo. La posizione ideale è quella coricata o leggermente inclinata con il collo della bottiglia verso l’alto (il che è valido per i bianchi, i rossi e le bollicine), in modo tale che il vino sia costantemente a contatto con il sughero del tappo, evitando di farlo seccare e mantenendolo sufficientemente elastico, a maggior ragione se la bottiglia è conservata all’interno di un ambiente con una temperatura o un’umidità non perfetta. È necessario collocare i vini bianchi e gli spumanti nei punti più freschi della cantina, quindi, procedendo dal basso verso l’alto, posizioneremo gli spumanti vicino al pavimento, poi i bianchi, quindi i rossi leggeri e più in alto i rossi importanti. Le scaffalature possono essere realizzate in tanti materiali: legno, metallo, cemento, terracotta o plastica, anche se il legno


ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

rimane sicuramente il più indicato, oltre che bello da vedere. I portabottiglie non devono essere posizionati troppo vicini al muro, per favorire una corretta circolazione dell’aria. È importante, infine, collocare le bottiglie con l’etichetta rivolta verso l’alto, in modo che questa sia in bella vista, e avvolgerle in pellicole trasparenti quando si registra un’umidità particolarmente alta (attorno al 90%), per evitare che si deteriorino e diventino illeggibili. Oltre alla conservazione esiste ovviamente anche il servizio, fondamentale per continuare il percorso iniziato in cantina. Spesso i vini serviti al tavolo di un ristorante sono o troppo freddi oppure troppo caldi, ma ricordiamoci che, insieme alla scelta dei bicchieri, la giusta temperatura fa parte del servizio (quello che spesso comporta ancora quell’antipatica voce al fondo della ricevuta che si chiama coperto). Una lunga conservazione in un ambiente troppo freddo (soprattutto per i vini bianchi) è deleteria, perché a lungo andare il freddo tende a cristallizzare le particelle in sospensione e a creare sedimenti, oltre a incidere pesantemente sulla parte aromatica rendendo con il tempo la percezione dei profumi minore e diminuendone la piacevolezza al palato. Logicamente, anche il troppo caldo può essere dannoso per un vino, accelerando la sua evoluzione organolettica e aumentando, soprattutto nei vini rossi, la percezione alcolica. Quando non è disponibile una frigovetrina climatizzata, esistono metodi alternativi per il raffreddamento del vino: 1) Il cestello del ghiaccio e la glacette: il vetro di un bicchiere da vino tendenzialmente raggiunge la temperatura ambiente, cioè diventa caldo, quindi il vino deve arrivare sulle nostre tavole a una temperatura più fresca per far sì che, anche con il passare del tempo, la temperatura di servizio sia la più corretta possibile. Per raffreddare velocemente una bottiglia di vino il cestello del ghiaccio è lo strumento più utilizzato. Bisogna riempire il cestello con acqua, ghiaccio e sale grosso (il sale aiuta a portare l’acqua raffreddata dal ghiaccio molto velocemente a una temperatura ancora più bassa e a mantenerla nel tempo). Il secchiello deve essere alto e l’acqua e il ghiaccio devono essere in quantità tali da ricoprire l’intera bottiglia fino al collo, ma non la capsula e il tappo. Nell’arco di qualche minuto la bottiglia sarà pronta e sufficientemente fredda per essere servita. È importante ricordarsi che con il tempo la bottiglia continuerà a raffreddarsi, quindi una volta raggiunta la temperatura desiderata è opportuno spostare la stessa in un secondo contenitore chiamato glacette, cioè un secchiello termico che all’interno ha un’intercapedine vuota che limita la dispersione termica. Il cestello può anche essere utilizzato quando la temperatura di un vino è troppo fredda: in quel caso

basta riempirlo con acqua più o meno calda (mai bollente) per abbassarne la temperatura. 2) Sacchetto raffreddante: ha la stessa funzione del cestello del ghiaccio, ma il materiale con cui è prodotto è plastico ed è molto aderente alla bottiglia, quindi limita la quantità di acqua e ghiaccio. È più utilizzato per mantenere la temperatura di servizio più che per raffreddare. 3) Abbattitore di temperatura: è una macchina che utilizza un liquido raffreddante che circola all’interno di una vasca dove si posizionano le bottiglie. Può raggiungere in pochi minuti temperature molto basse (anche -35°C) ed è utilizzato da alcuni ristoratori per raffreddare in poco tempo le bottiglie di vino. È possibile decidere la temperatura anche in base alla tipologia di vino che si vuole raffreddare. Si consiglia di impostare la macchina in modo che possa raffreddare lentamente e quindi in un tempo maggiore, per non creare uno shock termico che potrebbe rovinare il vino a causa di un abbassamenti di temperatura troppo veloce. 4) Fascia o fodero refrigerante: questa fascia a strappo, che permette grazie alla sua chiusura regolabile di essere utilizzata su qualsiasi tipo di bottiglia, è molto utile per raffreddare o rinfrescare le bottiglie di vino e per mantenerle alla giusta temperatura durante la degustazione. Sono fasce termiche da conservare in freezer e da applicare alla bottiglia per portare il vino alla giusta temperatura di servizio in pochi minuti. Per chi non avesse a disposizione una cantina o un locale adeguatamente climatizzato, ci sono ormai altri metodi di conservazione: uno di questi è rappresentato dalle frigovetrine climatizzate, fondamentali nella ristorazione ma altrettanto utili anche per uso privato. È importante, quando si scelgono questi metodi di conservazione alternativa, porre attenzione alle temperature e alla scelta di frigovetrine che consentano un buon controllo dell’umidità. Infatti la lunga conservazione all’interno delle frigovetrine necessita di temperature un po’ più alte rispetto alle brevi conservazioni, quando la rotazione dei vini è ben più rapida. Ciò in quanto lunghe permanenze a basse temperature comporterebbero infatti un deterioramento del tappo in sughero, che può seccarsi, mentre il vino stesso tenderebbe a non essere più così espressivo, impoverendosi delle sue principali caratteristiche organolettiche e formando sgradevoli precipitazioni tartariche. Si consiglia inoltre l’acquisto di frigovetrine climatizzate a doppia (o multipla) temperatura, visto che la conservazione delle bollicine, dei bianchi e dei rossi prevede livelli differenti di fresco.

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VINARIA

UN TRATTO ROSSO SOTTO TRACCIA IL VINO RICHIEDE STUDIO, DEDIZIONE, IMMENSI SACRIFICI E INVESTIMENTI. IN UNA PAROLA: AMORE di

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Alessandro Rossi


ALESSANDRAPIUBELLO

Immaginate un film, uno di quelli che ha lasciato traccia su intere generazioni di bambini e che ancora oggi, nonostante sia stato girato negli anni ’80, ne appassiona altrettante: La Storia Infinita di Wolfgang Petersen. Adesso, chi ha visto questo film - e io sono uno di questi - o chi per caso ci sia inciampato anche involontariamente da bambino o da adulto cerchi di ricordare la scena dove Bastian, un ragazzino amante dei racconti di avventura, si nasconde nella soffitta della scuola a leggere sotto una coperta il libro intitolato appunto La Storia Infinita rubato in un vecchio negozio di libri. Ora, se sostituiamo Bastian ed inseriamo Alessandra, ecco che la scena non cambia perché Alessandra è sempre stata così: timida, riservata, minuta, malinconica, avida di lettura e soprattutto un folletto dai capelli rossi accesi. A guardarla si capisce subito che è una ragazza fragile ma incredibilmente sensibile, quasi indifesa, ma non è debole. Alessandra non è passiva, prende posizione sulle cose che non

le piacciono ed è anche per questo che si fa largo senza essere aggressiva. Vi chiederete perché partiamo dal cinema per raccontarla. Per un semplice motivo: la più grande passione di Alessandra non è il vino o il cibo, ma per l’appunto il cinema. Chi è Alessandra Piubello? Alessandra è ovviamente una giornalista e da tantissimi anni scrive, scrive e non fa altro che scrivere. Si occupa principalmente di vino e cibo; è spesso chiamata a rappresentare l’Italia partecipando come giudice a concorsi enologici nazionali e internazionali: Mondial de Bruxelles, Decanter, Vinalies, giusto per citarne alcuni. Per la stampa, per i media e per tutti quelli che ronzano in questo mondo questa è la Piubello. Ma andiamo più nello specifico. Alessandra nasce a Verona e decide che le lingue sono un buon punto di partenza per costruire il futuro; studia tantissimo e ne porta a casa correttamente tre. Contemporaneamente frequenta tanti corsi di giornalismo - il mondo del

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VINARIA

vino e del cibo sono ancora lontani - ma, come raccontavamo, il primo grande amore è il cinema e grazie al fratello che faceva parte di un’importante compagnia teatrale di Verona, questa passione prende ancora più spazio. La vita prosegue al galoppo, le passioni aumentano e la sete di scrittura non si placa; in poco tempo decide che la scrittura - la sua lenta e pragmatica, come lei stessa la definisce sarà la sua vita e in men che non si dica si ritrova a dirigere come direttore testate giornalistiche di diversi settori. Queen e Prince sono i primi due magazine e raccontano di moda ma con ampi spazi dedicati all’attualità, al cinema e anche al teatro, ovvero le sue autentiche passioni.

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Dirige per anni anche una rivista di Golf e proprio su questa rivista contemporaneamente ad un’altra - Look - scrive i primi articoli dedicati al cibo e al vino. Gli vengono commissionati alcuni ristoranti e nonostante la materia fosse già nelle sue corde grazie ad una famiglia molto rigida che amava la buona tavola e il buon bere, inizia a fare le prime esperienze. Come dicevamo il cibo e il buon bere hanno sempre avuto un ruolo importante nella storia di questa famiglia: i genitori della madre di Alessandra infatti erano proprietari di alcuni negozi di gastronomia, il cugino produceva prosciutti di qualità in Friuli, il secondo cugino era proprietario di un ristorante e contemporaneamente lo zio gestiva una pizzeria. La passione per il vino - sicuramente latente sino a quel momento ma già nel suo destino - scocca definitivamente quando le chiedono un racconto, forse il primo e da quel momento la penna non smette più di tracciare storie. Il fil rouge con il vino nasce proprio da una passione del padre, proprietario di qualche ettaro in Valpolicella, che ha sempre permesso ad Alessandra di rimanere a stretto contatto con questa materia. Ma facciamo un passo indietro: abbiamo lasciato Alessandra a capo di alcune riviste che stavano dedicando sempre più spazi al mondo del cibo e così, dal nulla, si ritrova a zingareggiare per ristoranti sparsi in ogni dove quasi sempre da sola perché Alessandra, come raccontavamo inizialmente, è una persona


ALESSANDRAPIUBELLO

estremamente riservata. Siamo negli anni ’90 e non è facile, oltretutto sta diventando un hobby costoso e faticoso anche a causa dei rientri notturni che la portavano ad essere particolarmente stanca il giorno dopo e si sa, la scrittura ha bisogno di riposo per essere efficace. Ad una cena, casualmente, incontra una persona che diverrà molto importante per la sua carriera: Bruno Catapano, un noto gourmet dei tempi; con lui Alessandra trova finalmente qualcuno che l’ascolti e stranamente accade quello che non era mai accaduto prima: parla. Catapano non è proprio un tipo semplice, la mette alla prova professionalmente da subito, in ogni momento, ma ascolta molto e alla fine le fa un nome: Andrea Grignaffini. Con Grignaffini inizia la sua prima collaborazione di spessore e prestigio e si aprono le porte dell’Espresso, la nota guida dei ristoranti d’Italia. Ma come tutte le belle storie, spesso ci sono colpi di scena che rendono la vita più frizzante. E proprio qui entra in gioco il vino. Di vino Alessandra inizia a parlarne attraverso la rivista Queen, successivamente approda a Spirito Divino sempre grazie ad Andrea Grignaffini ed è proprio qui che incomincia ad affermarsi. L’avvicinamento tecnico al vino, come spesso accade, è dei più classici, ovvero una formazione da autodidatta passando dai corsi A.I.S. Successivamente decide di approfondire: WSET e poi si sposta a Bordeaux dove affina maggiormente le tecniche di degustazione. “La formazione sommelleristica è stata importante ma ne ho sempre criticato il metodo e la rigidità associativa” racconta Alessandra, “Il vino stesso è stato il mio maestro, non ha mai avuto reali mentori. Il mio rap-

porto con il vino è molto intimo, parlo con lui”. Mentori no, ma persone di spessore, amici con un ruolo importante in questo mondo sicuramente sì: Axel Marchal, suo insegnante all’università di Bordeaux, Stéphane Derenoncourt wine maker, Maurizio Colia suo insegnante al WSET, Steven Spurrier di Decanter per citarne alcuni. Da qui in avanti la storia si fa più recente e le tracce sono più nitide e più luminose. Racconta: “Il cibo è nutrimento e piacere, pura gioia. Il vino è più complicato, non si esprime così bene come si esprime il cibo. Il piatto è più immediato come codifica, il vino ha bisogno dei suoi tempi, cambia, evolve, è vivo. Il cibo sostanzialmente è un elemento sociale differente ma crea un percorso anche psicologico con il passato”. Alessandra ha le idee più chiare, ha terminato un percorso di crescita e stile che l’hanno portata ad essere

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prima all’interno di Slow Wine, successivamente la Guida Vini de L’Espresso e da poco la nuova co-curatrice della Guida dei Vini di Veronelli al posto di Daniel Thomases. Alessandra è idealista, no, anzi è decisamente pura d’animo, accetta la sfida Veronelli perché da piccola era il suo mito, un combattente come lei che l’aveva da sempre affascinata soprattutto grazie al linguaggio. “Grazie a Veronelli - racconta Alessandra - dobbiamo la nascita della comunicazione di questo settore, lui si è battuto per dare dignità e per valorizzare tutto il mondo del vino”. Il futuro è ovviamente dei giovani: “Si avvicinano, un po’ per moda, un po’ perché è di tendenza, un po’ per curiosità. Il vino richiede studio, dedizione, immensi sacrifici, investimento in tempo e soldi. In una parola: amore”. Prosegue Alessandra: “Il linguaggio del vino purtroppo in passato è stato troppo tecnico - come è prodotto, la ricerca spasmodica delle note degustative, l’eccessiva soggettività - e ha allontanato il consumatore finale”. Per Alessandra quella del linguaggio è una sfida quotidiana. “Vorrei tirarli dentro ad un sogno quando scrivo, perché il vino ha tanti aspetti legati all’immaginario e vorrei far scattare questo, riuscire a far percepire concretamente gli aspetti fondamentali delle persone che lo producono e del territorio”. È molto critica e severa con se stessa anche quando fatica a ricoprire il ruolo sociale che le appartiene all’interno del circuito vino: “Non riesco a scrivere di tutti i vini, ma principalmente quelli che mi piacciono”. Non nega che essere donna all’interno del mondo-vino è sicuramente più complicato che esserlo nel mondocibo: “Credo nel gruppo, nella collaborazione, perché da soli non si può fare niente”.

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Ma anche degustare è trasmettere qualcosa alle giovani leve è molto importante e anche su questo Alessandra è molto ferma sulle sue posizioni: “Per degustare servono pochi descrittori per poi cercare di puntare a quello che il vino ti trasmette, il suo corpo la sua anima e il suo contenuto declinato in pochi tratti. Cercare di raccogliere cosa il vino può regalarti, cosa trasmette l’uomo che l’ha prodotto, non bisogna fermarsi solo al bicchiere”. Conclude: “Mi voglio illudere che l’uomo abbia sempre di più un rapporto con la terra, che questa sia il suo punto di riferimento e che il futuro apra all’uomo una sincera simbiosi con la tecnologia necessaria per ottenere vini sempre più puliti e buoni”. Questa è Alessandra Piubello, una tratto rosso sottotraccia, ma che lascia il segno.


VINARIA

CHAMPAGNE ROSÉ DA DOVE PROVIENE IL SUO COLORE di

Mario Federzoni

Il rosè, un vino a volte magico, carico di riflessi affascinanti, un vino che sembra quasi etereo ma che poi, in bocca, si rivela spesso corposo, sapido, e più intrigante che mai. Amo gli Champagne rosè ben fatti, li ritengo i più gastronomici in assoluto, anche perché ce ne sono per tutti i gusti e per tutti le occasioni di consumo, poiché, oggi, tanti sono i sistemi per ottenere questo tipo di Champagne che nacque, originariamente, nella sua forma più semplice, grazie all’intuizione di una donna (ah, cosa faremmo senza le donne!) o forse, di un suo intraprendente cantiniere che già aveva gettato le basi per quello che poi divenne l’odierno sistema del “remouage”; M.me Cliquot (sia o meno attribuibile a lei stessa l’invenzione del rosè) ebbe comunque il coraggio e l’intuizione di proporlo sul mercato traendone immediato successo. Oggi sono cinque i più usati metodi per ottenere uno Champagne Rosè. Il più utilizzato, ed il più antico, è il ”Rosé d’assemblage” (o méthode mélange), prodotto aggiungendo alla cuvée base, (che può essere costruita da Blanc de Blancs o Blanc de Noirs o un assemblaggio dei tre vitigni) una percentuale variabile dal 10 al 20% di vino rosso (solitamente Pinot Noir). Altro sistema può essere quello di mescolare alcune stille di vino rosso al “liqueur d’expédition” prima della sua immissione in bottiglia. Terzo sistema (méthode de saignée) è quello di dare colore al vino lasciando macerare le bucce a bacca rossa del Pinot Nero o del Meunier (o entrambi) nel mosto per 6/12 ore, così che le stesse rilascino solo parte delle loro sostanze coloranti (che, ricordiamo, si trovano sotto la buccia degli acini). È possibile poi ottenere un Rosé aggiungendo alla cuvée base, un vino ottenuto da torchiatura prolungata di uve rosse. In questo caso avremo un rosé scarico, quasi grigio, definito “Rosé de Noirs”, che ricorda il cosiddetto “oeil de perdrix” (o occhio di pernice), uno Champagne vecchio stile, che era ottenuto con una macerazione breve delle uve a bacca rossa, in fase di fermentazione. Infine il “Rosè de Cuvaison”: a seconda del produttore le uve vengono pigia-diraspate o pigiate assieme al raspo, dopodiché mosto e bucce restano a contatto per diverse ore in ambiente chiuso e a temperatura controllata. In questo modo vengono estratti, oltre al colore, gli aromi primari dell’uva presenti nella parte interna della buccia, ottenendo così vini con profumi più intensi, fruttati e corposi. La temperatura controllata consente di regolare anche la velocità della fermentazione alcolica e, al contempo, il contatto non troppo prolungato con le bucce e le parti solide consente di estrarre solo i tannini necessari ed un numero limitato di polifenoli, in modo da limitare il colore, il senso di amaro e l’astringenza.

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VINARIA

MA ESISTONO DAVVERO I

“VINI NATURALI”? di

Mario Federzoni

Leggevo, qualche giorno fa, un bellissimo articolo dell’enologo Umberto Trombelli che mi ha fatto molto riflettere ed ha rafforzato le mie personali convinzioni. Si dissertava sul proliferare dei produttori di vini cosiddetti “naturali” (e spiegherò più avanti perché metto questo vocabolo tra virgolette), e sul fatto che, molti di loro, non riconoscono i difetti dei loro vini per quello che sono, ma vedono nei difetti organolettici un simbolo distintivo della loro “naturalità” e della loro territorialità, mentre aborrono l’uso di coadiuvanti e additivi che, a loro avviso, alterano l’originalità di un vino ed il suo legame col territorio. Sono ancora molti i fenomeni relativi alla fermentazione ed alla conservazione dei vini che a tutt’oggi la scienza non riesce a spiegare, ma com’è possibile che, per il solo gusto di andare contro corrente e, aggiungo, con scarse competenze tecniche, molti sostenitori dei cosiddetti “vini naturali” esaltino i difetti o, addirittura, li mostrino come un raro pregio, solo per poter dire che hanno… “scoperto” i nuovi astri nascenti della produzione enologica?! Tra i difetti principali e più evidenti di molti vini “naturali” si evidenzia lo sgradevole odore di “ridotto” - che si ha quando un vino rilascia sentori di uovo marcio, gomma bruciata, cerino o cavolo cotto - situazione dovuta principalmente alla presenza di composti solforati di varia origine; altro problema è l’eccessiva ossidazione che accentua il sapore di “marsalato”, e ancora l’alta percentuale di acidità volatile (ovvero la presenza eccessiva di acido acetico) ecc. Il difetto, in quanto tale, (dal dizionario della lingua italiana = mancata compiutezza, imperfezione più o meno accentuata e rilevabile dal punto di vista oggettivo o soggettivo) come dice un altro famoso enologo, è identificabile comunque e dovunque, perciò, oltre ad essere mortificante e dannoso, diviene anche un carattere omologante e non potrà mai essere distintivo di un vino e tantomeno di un territorio. La vera differenza, il vero PLUS, è dato dall’uva prodotta in un territorio particolarmente vocato che, assieme all’esposizione del vigneto, alla sua latitudine, all’approvigonamento idrico,

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all’isolazione, all’esperienza del vinificatore, ecc. (insomma a tutto ciò che i Francesi chiamano Terroir) aggiungono qualità e unicità. Il vitigno autoctono è un ulteriore plus, ma solo se ben selezionato. Usare lieviti selezionati, veloci e sicuri attivatori della fermentazione, batteri malolattici, solfiti in modica e controllata quantità, o anche le barrique per affinare, illimpidire e stabilizzare naturalmente il vino, non vuol necessariamente dire sofisticare il vino. Queste tecniche, ricercate e perfezionate nei secoli, si usano da sempre per migliorare e rendere più gradevole e longevo il vino”. Dice ancora Trombelli nel suo articolo (che mi sono permesso di concentrare): … Negli anni sono stati divinizzati vini che un produttore imbottigliava senza nessun controllo, così che ti capitavano prodotti che avevano fatto malolattica in bottiglia, o erano


VININATURALI

rifermentati per qualche residuo zuccherino mal considerato: guai ad avanzare qualche critica, perché eri segnato come barbaro e ignorante; paradosso dei paradossi”. E allora iniziamo col dire, ed ecco perché ho virgolettato sopra le parole “vini naturali”, che il vino in “natura” non esiste. Già nel 1807 Chaptal scriveva: “La natura lascia marcire le uve in pianta, mentre l’arte ne converte il succo in vino”.
 I cosiddetti “vini naturali”, anche storicamente, non sono mai esistiti.
 Gli antichi Greci e Romani, cuocevano il mosto, lo concentravano, lo salavano, l’aromatizzavano e tutto per aumentarne e preservarne la conservazione. Ogni artifizio era buono per evitare che il vino divenisse aceto.
 La vigna produce uva e, all’interno dei suoi acini, i semi per la perpetuazione della propria specie, che, come per ogni altro essere vivente, è la sua priorità, questa sì “naturale”. La vigna non produce vino; il succo degli acini si ha solo per un brevissimo periodo nell’arco della bio-degradazione degli stessi e non c’entra nulla con la vinificazione; il vino è ricercato e voluto dall’uomo, quindi è prodotto e regolato esclusivamente grazie al suo intervento. Colui che nega la preminenza dell’uomo non può che avere una visione esteriore e superficiale della vinificazione o, ancor di più, ignora la verità. Si potrebbe persino giungere a dire che fare vino senza arrivare all’acetificazione è un’operazione “contro natura”. Il vino, comunque la si pensi, dovrebbe quindi essere appetibile, piacevole da vedere e da bere e questo è l’obiettivo dell’enologia moderna: operare in modo razionale, in maniera preventiva, più ragionata al fine di ottenere un prodotto sano e godibile. Uno degli argomenti principali sostenuti dai paladini della “naturalità” è quello dell’uso dei lieviti “spontanei”.

Molti di questi microorganismi vivono in quiescenza nelle cantine, e non nei vigneti, per poi propagarsi durante tutto l’arco della vendemmia e risvegliarsi a contatto del mosto; dopo di che, in buona parte, tornano a rifugiarsi nelle cantine per diventare di nuovo dormienti. La maggior parte di essi, quindi, si sviluppa nei primi stadi della fermentazione per poi sparire, a causa della scarsa resistenza all’alcol, lasciando spazio ai saccharomyces, che finiscono per dominare la scena, infatti, se qualcuno facesse delle indagini genetiche sui ceppi considerati “indigeni”, scoprirebbe che molti di quegli stessi lieviti si trovano anche normalmente in commercio, poiché troverebbe dei comuni Saccharomyces Cerevisiae, con la brutta sorpresa di rinvenire, assieme a questi ultimi, anche colture di lieviti apiculati, assai “pericolosi” che, in certe situazioni ambientali, non mangiano solo zuccheri, e questo è un problema, poiché da queste fagocitazioni nel vino producono, al 90%, gravi difetti, inoltre tendono a uniformare i vini, coprendo i caratteri distintivi dell’uva e del terroir. Spesso ciò che i fautori della “fermentazione naturale” chiamano “gusto di terroir” si riduce, in realtà, ad un melange di alcoli superiori, acetati e odori fenolici prodotti da questi lieviti non-saccharomyces, e fatalmente, i vini prodotti in questo modo si assomigliano, quale che sia il loro terroir di provenienza. Per contro l’impiego di lieviti selezionati garantisce un rapido avviamento della fermentazione, e consente di limitare l’uso di solfiti senza rischiare l’ossidazione precoce dei mosti. Tra l’altro, l’aggiunta preponderante di ceppi selezionati, soprattutto se neutri, non causa deviazioni organolettiche e non intacca il carattere del vitigno: li rende sì dominanti, ma i microrganismi indigeni presenti non vengono affatto eliminati, e continueranno a svolgere il loro ruolo, finché le condizioni del mosto lo permetteranno. Parlando infine dei solfiti, l’enologo dr.

Trombelli conclude: … “Certo si possono produrre vini anche senza l’uso di solfiti, ma con un risultato qualitativo privo di personalità: per un effetto ossidativo, i profumi si perdono, rendendo i vini insignificanti rispetto ai tradizionali”. E’ assodato che, a tutt’oggi, non esiste una tecnica altrettanto valida, atta a produrre vini importanti e adatti a un lungo invecchiamento, senza l’uso di questo additivo che serve a conservare le qualità originali dell’alimento, è uno stabilizzante e infine è antisettico, inibisce cioè il proliferare di batteri potenzialmente dannosi; le uniche alternative sarebbero quelle di usare altri additivi, ad esempio quantità “industriali” di tannini, oppure agire sulla temperatura in determinate fasi del processo produttivo, ma queste pratiche non sono meno impattanti dell’utilizzo dei solfiti. Una temperatura più alta, ad esempio, può simulare un fenomeno di pastorizzazione e, per un alimento come il vino, non è affatto consigliabile, poiché il calore eccessivo ne degraderebbe la parte aromatica. Indubbiamente i solfiti aggiunti, se usati in modo improprio, sono fastidiosi e addirittura tossici, ma se usati nelle giuste e mirate quantità, non arrecano tutto il fastidio di cui si sente vociferare; inoltre, nel tempo, hanno subito continui ritocchi al ribasso mano a mano che è cresciuta l’esperienza enologica. Personalmente, per concludere, preferisco bere vini ben fatti, senza difetti e puzzette, che se “dimentico” in cantina per qualche tempo non mi facciano scherzi. Credo che su un certo tipo di mercato si possano trovare prodotti di questo tipo anche a prezzi non esosi perché, oltretutto, l’enologia moderna ha, da tempo, migliorato di brutto le sue conoscenze ed ha già buttato più di un occhio anche alla salvaguardia della salute dei consumatori.

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VINARIA

I VINI DOLCI

COME SI PRODUCONO, COME SI ABBINANO di

Davide Staffa

Già dal periodo della colonizzazione del Mediterraneo, le grandi popolazioni Fenice, Egiziane, Greche ecc. avevano impiantato vigneti per la produzione di vini con concentrazioni zuccherine molto elevate, spesso miscelati con miele o erbe aromatiche; le aree predilette per questo tipo di vini erano Sicilia, Spagna, il sud della Francia e il Nord dell’Africa. Nella comune cultura contadina storica il vino dolce era considerato un bene prezioso, una riserva di casa da offrire agli amici o agli ospiti, il massimo prodotto che si potesse avere da condividere per fare sentire le persone importanti. Sempre e comunque da bere centellinato, nelle grandi occasioni, o da gustare nelle feste e nelle ricorrenze importanti come festeggiamento di fine pasto. Oggi il consumo di queste tipologie di vini è un poco in contrazione per vari motivi: a problemi legati alle normative stradali, voglia di risparmiare sul conto del ristorante ecc., per cui spesso vengono acquistati presso le enoteche per essere poi condivisi durante le cene casalinghe in compagnia di amici che riescono ad apprezzare la tipologia. Per produrre questa categoria di vini dolci (chiamati anche da dessert) esistono diverse tecniche produttive differenti che consentono di concentrare gli zuccheri al massimo, eliminando gran parte dell’acqua contenuta prima di iniziare la fase della pressatura e della successiva fermentazione.

VINI PASSITI Appassimento naturale: le uve vengono raccolte molto mature in maniera tassativamente manuale, per non schiacciare gli acini e cercando di selezionare solo quelle più sane; in seguito i grappoli vengono messi ad asciugare in luoghi asciutti e ventilati per evitare l’insorgere di attacchi fungini nocivi che farebbero marcire i chicchi. Gli antichi romani Plinio e Columella descrivono queste tecniche usate anche sull’isola di Pantelleria con il vitigno Zibibbo ed esistono scritti che raccontano della produzione di vini dolci da uve bianche e rosse in Grecia, in particolare a Santorini, Chio, Corinto utilizzando uve moscato e malvasia in particolare. Alcuni produttori prediligono la tecnica dell’appassimento naturale. Dopo la vendemmia i grappoli vengono distesi su graticci composti dalle cosiddette “arele” o tappeti di canne di fiume, che lasciano circolare l’aria tra un grappolo e l’altro, oppure possono essere distesi su reti alla diretta luce del sole o legando i grappoli ad uno ad uno appesi su fili legati ai soffitti in camere ben aereate. Ad esempio, con queste tecniche vengono prodotti i passiti i Pantelleria da uve moscato di Alessandria alias Zibibbo, alcune albane di Romagna, il Recioto della Valpolicella da un mix di uve a bacca rossa tipo Corvina, Rondinella, Molinara, Corvinone ecc., i Vin Santi trentini a base di Nosiola. Appassimento in pianta: tecnica molto costosa per via dei costi di manodopera; consiste nell’interrompere il flusso di liquidi tra pianta e grappolo tramite la torsione del grappolo stesso o l’incisione del tralcio che supporta il grappolo, per cui l’uva resta appesa alla sua pianta di origine senza ricevere più nulla dalla stessa ed iniziando così un processo naturale di concentrazione zuccherina. Un altro modo differente di appassimento naturale in pianta lo si può ottenere grazie all’intervento di una muffa chiamata comunemente

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IVINIDOLCI

“muffa nobile” o “Botrytis cinerea”. Per questo tipo di appassimento naturale occorre che intervengano alcune condizioni climatiche ambientali particolari che non tutti gli anni riescono a svilupparsi. Ma quando compaiono, il chicco inizia a cambiare colore, diventa più scuro, si raggrinzisce lentamente perché la muffa non lavora sulla superficie dell’acino ma è il micelio a lavorare all’interno, asciugando inesorabilmente il contenuto. I chicchi vengono spesso raccolti in più passaggi manualmente, perché il processo non avviene in modo uguale in tutte le piante. Quest’ultima tecnica dello sfruttamento della muffa viene utilizzato tipicamente in Francia per la produzione dei famosi Sauternes, in Ungheria per i Tokaji, in Germania per i Trockbeerenauslese a base, spesso, di uve Riesling, e alcune zone italiane per i cosiddetti vini muffati, tra i più famosi i grechetti dell’Umbria e le albane romagnole, in particolare l’Albana Scaccomatto della Fattoria Zerbina, orgoglio e riferimento enologico romagnolo. Sempre a livello di vini appassiti naturalmente in pianta vanno ricordati i “vini di ghiaccio” o “icewine” o “eiswine”; i grappoli restano appesi alle piante fino ad inverno inoltrato aspettando che arrivino le prime gelate notturne. Le temperature devono scendere per diversi giorni da -6°C a -12°C, poi, nei mesi di dicembre e gennaio, vengono vendemmiati i grappoli e, dopo la pressatura, vengono separati i cristalli congelati di acqua dal resto del mosto che rimane così concentrato di sostanze aromatiche e zuccherine per iniziare la fase della fermentazione. I vini più conosciuti sono quelli prodotti in Canada sia usando vitigni aromatici che vitigni autoctoni tipo il Vidal, sia alcuni vini prodotti in Germania.

di asciugatura dei grappoli; evita la formazione di muffe, velocizza la concentrazione zuccherina a discapito della qualità finale del prodotto, riducendo molto l’estrazione aromatica naturale.

VINI LIQUOROSI Sono vini che si ottengono tramite l’aggiunta di una parte di alcol durante il processo di fermentazione, l’aggiunta del distillato blocca il processo e l’opera di trasformazione da parte dei lieviti perché questi non trovano più le condizioni ambientali necessarie per sopravvivere e rimane così una parte di zucchero residuo non fermentato all’interno del vino. Tra questi annoveriamo, tra i più conosciuti, il Marsala siciliano, il vino portoghese dell’isola di Madeira, il Porto ecc.

VINI DOLCI FRIZZANTI E SPUMANTI

viene interrotta prima di terminare tutto il suo processo tramite varie tecniche, lasciando una buona parte di zuccheri residui. Il vino viene spumantizzato e poi filtrato per eliminare i lieviti residui per evitare rifermentazioni non volute che andrebbero ad alterare il profilo organolettico del prodotto desiderato. Di questa categoria il più rappresentativo è senz’altro l’Asti o Moscato d’Asti. Gli abbinamenti migliori con queste categorie di vini sono senz’altro quelli con dolci a pasta lievitata, tipo crostate alla frutta, con confetture e marmellate, tortellini, ciambelle, biscotteria secca, tipico e tradizionale l’abbinamento natalizio panettone e pandoro con spumanti dolci. I passiti importanti e soprattutto i muffati si prediligono per accompagnare anche formaggi stagionati ed erborinati. Il consiglio comunque resta sempre di godersi i vini senza nulla accanto, da soli, nel cosiddetto momento di meditazione per non alterare i sapori e le sfumature più delicate.

Fanno parte di questa categoria tutti i vini prodotti usando basi di vario genere, dove la fermentazione generalmente

Appassimento forzato: avviene in ambienti chiusi sfruttando sistemi di ventilazione meccanica, deumidificatori e riscaldatori che velocizzano l’operazione

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