Anno XXXIV N. 3 Giugno / Luglio 2013 Euro 2,00
Ragguaglio istorico topografico della Isola d'Ischia Platea (Polverino) dei territori situati alli Bagni Fonti archivistiche: I luoghi sacri del territorio di Testaccio Premio Ischia Ischia Internazionale di Giornalismo Rassegna Libri Ischia Film Festival Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia Anno XXXIV- N. 3 Giugno/Luglio 2013 Euro 2,00 Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi
Mons. Pietro Lagnese il nuovo vescovo della Diocesi d’Ischia
Editore e Direttore responsabile : Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661.
Stampa : Press Up - Ladispoli (Roma)
Sommario 3 Motivi
4 Mostra di artisti isolani a La Colombaia 4 Premio Ischia di Architettura 5 Ex libris
14 Periferia e periferie Vie d'uscita 18 Premio di poesia Ciro Coppola
19 Ragguaglio istorico topografico della Isola d'Ischia - I
35 I 25 anni di attività della Scuola Calcio Torrione di Forio
36 Platea Polverino dei territori nell'isola d'Ischia alli bagni
40 Mostra di fotografie di Cesare Di Liborio 40 Ischia Global Film & Music
41 Fonti archivistiche per la storia dell'isola I luoghi sacri del territorio di Testaccio
46 Premio Ischia Internazionale di Giornalismo 48 Ischia Film Festival
50 Cinema: "Cleopatra" e "Plein Soleil" restauratti per il Festival di Cannes 2013 In copertina I - Veduta del porto d'Ischia
Sua Eccellenza Mons. Pietro Lagnese, nato a Vitulazio il 9 settembre 1961, è il nuovo vescovo della Diocesi d’Ischia, nominato dal Santo Padre Benedetto XVI il 23 febbraio 2013. Il 1° maggio 2013 è stato consacrato Vescovo da Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Crescenzio Sepe, Arcivescovo Metropolita di Napoli, e l’11 maggio 2013 è stato accolto ad Ischia quale successore di Mons. Filippo Strofaldi. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie ed altro (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. conto corrente postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 25 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.i www.ischiainsula.eu info@larassegnadischia.it rassegna@alice.it
MOTIVI
Sempre d’attualità e ampiamente controversa la questione sul destino delle tante case dette “abusive” e qui sull’isola non salvate, come per il passato, dall’ultimo condono edilizio, deludendo le speranze di coloro che si sono avventurati ancora in un campo che non poteva e non può continuare all’infinito. Alcuni già hanno subito le conseguenze dell’abbattimento, trovandosi a volte senza una abitazione, costruita invero senza licenza, ma con tanti sacrifici, forse spinti non da un fine speculativo e solo per migliorare il proprio tenore di vita di fronte ad un generale livello qualitativo che in campo turistico migliorava enormemente. Se ne avvantaggiava lentamente l’isola stessa nel presentarsi via via più accogliente verso i suoi ospiti. Uno sviluppo che in un certo senso non si presentava rivolto in una sola direzione, ma si ampliava sempre più, tendendo a far scomparire quella palese contraddittorietà che si palesava in un contesto di “baracche e nababbi nell’isola bella” (titolo di un articolo giornalistico del 1964): «In alcuni Comuni ancora restano al nostro sguardo le cosiddette “zone baraccali”, ultimi dolorosi ricordi dei terremoti dei lontani anni 1881 e 1883; ancora oggi molte famiglie attendono che venga loro assegnata una casa decente, pulita, decorosa; in alcuni rioni e quartieri di determinati paesi è impossibile notare un sia pur minimo segno di quel “boom” economico che si dice abbia investito l’isola in questi ultimi tempi; non di rado accanto ad un lussuoso albergo, villa, pensione, fa contrasto la misera catapecchia del contadino o del pescatore. Si parla sempre dello sviluppo e del progresso di Ischia in campo turistico e termale; si riportano cifre e statistiche a testimonianza del crescente afflusso di turisti; si intensifica e si incoraggia l’opera tendente ad aumentare la ricettività per tutte le categorie so-
Raffaele Castagna ciali di turisti; giammai di converso si volge l’attenzione a problemi e bisogni urgenti della popolazione isolana. Qualunque impellente necessità che abbia attinenza con la gente locale è rimandata, è posposta nella soluzione alle strutture di diverso, per quanto sotto alcuni aspetti anche utile, interesse, non tuttavia che possa risollevare le condizioni di vita di quanti ancora non dispongono di un tetto adeguato alla propria famiglia». Di fronte all’assenteismo delle istituzioni, di fronte alla mancanza di interventi da parte delle amministrazioni, il cittadino ha pensato che bisognava agire e procedere direttamente, favorito dal silenzio di chi doveva intervenire per la salvaguardia dell’ambiente e del territorio. Se i vicini non dicevano niente e lasciavano fare, nessuno interveniva. Situazioni che nel tempo venivano risanate con opportuni condoni e quindi il fenomeno, invece di essere bloccato, si allargava sempre più e diventava ormai generale; inoltre si creava lavoro e tutti (o almeno tutti) stavano bene. Oggi, arrivati al momento di rottura di un procedimento che sembrava senza fine, ci si trova combattuti, incerti da che parte stare in una realtà contrastante con gli incalzanti abbattimenti: chi ha preferito restare nella legalità, per lo più, sarebbe portato ad essere con l’intransigenza verso coloro che hanno voluto continuare ad operare senza calcolare le regole che sono pur necessarie in una società civile. Difficile districarsi tra speculazione e quella che viene oggi chiamata “edilizia di necessità”; sul piano delle conseguenze negative unicamente il cittadino, che vede annullati e distrutti tutti i suoi sforzi, anche per piccoli interventi nelle proprie abitazioni, nonostante che la popolazione aumenti continuamente. Ma c’è da chiedersi: perché le regole non sono state fatte rispettare?
Dove erano le istituzioni, le amministrazioni con i loro apparati? Anche in considerazione che a volte sono stati lesi i diritti di altri, lasciando andare avanti determinati progetti e iniziative. Ed ecco il perché di quella incertezza nel porsi di fronte alla questione interventista del presente. Peraltro stupiscono anche le decise opposizioni verso una soluzione che salvaguardi alcune situazioni, sia da parte delle autorità che di chi nel passato ha risolto i suoi problemi, allineandosi ad un miglioramento che portò allo sviluppo generale dell’isola d’Ischia. *** Ma le amministrazioni comuali sono presenti sul territorio oppure il loro compito si svolge soltanto dalle sale consiliari, intente a deliberare a destra e a manca, a creare commissioni, non sappiamo se del tutto necessarie o unicamente per favorire l'uno o l'altro? Chi si interessa poi di constatare se si rispettano le delibere adottate? Invero l'unico settore in cui si vede una notevole partecipazione è quello del rispetto che impegna gli automobilisti a parcheggiare in un posto o nell'altro. Completa assenza nel settore della nettezza urbana; non si sa invero a volte se funzioni o meno la raccolta differenzziata, se sono sempre vigenti gli orari di deposito dei rifiuti, se tutti i cittadini sono eguali, considerato che nulla si fa perché ciascuno si faccia carico di depositare il tutto davanti alla propria casa e non davanti a quella degli altri, senza alcun rispetto di locazione, di orario e qualità dei rifiuti. Una situazione che non preoccupa affatto chi di dovere e chi in realtà dovrebbe amministrare la cosa pubblica a vantaggio di tutti e non soltanto di alcuni, insensibili a salvaguardare l'ambiente e il territorio.
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Mostra di artisti isolani a La Colombaia di Forio
A La Colombaia di Forio, residenza estiva di Luchino Vi-
sconti, è stata organizzata dal 25 giugno 2013 una mostra di artisti isolani, dedicata al grande regista. Tredici autori, pittori e scultori, hanno accolto l’invito della Fondazione La Colombaia a trarre ispirazione dall’opera e dalla vita intensa di Visconti,
Premio Ischia Internazionale di Architettura
Tema del Premio Ischia Internazionale di Architettura 2013 è la qualità dell’ospitare. Ospitare, accogliere, ricevere sono vocazioni ataviche dell’architettura. Il Premio Internazionale Ischia di Architettura viene assegnato sia alle opere di architettura ultimate e documentabili per la sezione “Premio PIDA”, che a quelle riferite alla sola progettazione di esse per la sezione “Premio PIDA Concept”, all’interno di due macro sezioni: alberghi (hotels, agriturismi, pensioni) o SPA (Centri Termali, Parchi Termali, Beauty Farm, Centri Estetici). Le opere possono riguardare la realizzazione di nuova architettura o il recupero, la riqualificazione, l’ampliamento di edifici esistenti purché sia chiaramente leggibile un esplicito ed autonomo dialogo con la contemporaneità. Da quest’anno è stata aggiunta una sezione dedicata al mondo virtuale 3D, il “Premio PIDA pensa 3D”. La partecipazione è gratuita. Scadenza : 16 giugno 2013. Le premiazioni avverranno durante la settimana clou del premio che quest’anno si terrà dall’8 al 13 luglio sempre sull’isola d’Ischia. Il programma completo delle giornate visibile sul sito www.pida.it dal 15 giugno 2013. La proclamazione dei vincitori verrà comunicata ai media il giorno 23 giugno attraverso i siti web istituzionali ed attraverso l’invio di comunicazione ufficiale tramite e-mail a tutti i partecipanti. 4 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
nonché dalla sua permanenza ad Ischia, per coglierne attraverso la loro sensibilità frammenti, scintille di una creatività eccezionale, più riconosciuta e apprezzata a livello mondiale. «Proporre ad un pubblico, nuovo se si tratta di giovani, più avvertito nel caso di generazione “adulta”, la figura di Luchino Visconti è un’operazione importante proprio perché la funzione dell’arte, certificata oramai dal tempo e quindi dalla storia, ripropone alla memoria una vita vissuta e votata a quella perfezione formale che è mezzo e allo stesso tempo messaggio. L’opera viscontiana più conosciuta è quella cinematografica; quella di innovatore regista di prosa e di rappresentazione di opere liriche è nota solo attraverso le recensioni critiche dell’epoca o delle fotografie di scena, molte delle quali sono presenti proprio all’interno delle sale della Colombaia. La storia del Novecento è “documentata” nella filmografia, filtrata da un occhio esperto dell’animo umano e delle condizioni sociali in cui si muoveva; l’accuratezza estrema delle scenografie, dei particolari, visti a volte come esagerazioni, non sono altro che il tentativo titanico di ricostruzione di un mondo ormai perduto, ma il solo in grado di restituire quel clima e le condizioni di quelle esistenze, sia che si tratti dei pescatori siciliani o degli immigrati meridionali a Milano, che dell’aristocrazia ormai in declino, asburgica, bavarese o siciliana. Rileggere o leggere per la prima volta Visconti apre orizzonti illimitati, oltre a percepire coi sensi della mente e del cuore quei percorsi, spesso dolorosi e affascinanti, della vita degli uomini in un certo posto della terra e in una certa epoca».
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Al primo classificato della sezione Premio PIDA Alberghi sarà riconosciuto un premio di € 3000. Al primo classificato della sezione Premio PIDA SPA sarà riconosciuto un premio di € 1500. Al primo classificato della sezione Premio PIDA Concept Alberghi sarà riconosciuto un premio di € 1000. Al primo classificato della sezione Premio PIDA Concept SPA sarà riconosciuto un premio di € 500. Al secondo e terzo classificato di ogni sezione del PIDA e PIDA Concept verrà consegnata una targa/scultura di riconoscimento PIDA per lui e per la struttura ricettiva. I progetti dei primi tre classificati di ogni sezione verranno inseriti sul sito web ufficiale, nelle comunicazioni dei mediapartner, e nella pubblicazione per IPAD. Al primo classificato della sezione 3D, lo sponsor Analist Group donerà una collezione di corsi completi Revit Lab ed una licenza software OneRay professional; a tutti i partecipanti vincitori e non verrà donata una licenza di software OneRay. I premi in moneta saranno elargiti direttamente dall’Ordine degli Architetti di Napoli dopo rilascio di regolare ricevuta da parte del vincitore. Il festival di architettura di Ischia si pone l’obiettivo di esportare l’identità italiana attraverso la cultura e l’imprenditoria, mettendo a confronto le architetture del mondo del turismo italiane con quelle estere, con l’ambizione di diventare il premio di riferimento per “Gli Alberghi e le SPA più belle del mondo”.
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Ex libris Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli così italiani, come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1782, L’antichissima Città del braccio Occidentale del nostro Cratere, chiamata Cime, e Cuma, fu la prima Città, che ivi edi-
ficarono gli indigeni Cimmerj, ciò che indica il nome istesso di Κυμη. Si esamina la tradizione, che Strabone, e gli altri Storici antichi ci han tramandata intorno all’origine Greca della nostra Cuma e si cerca di mostrarne la sussistenza. I. Dacché i Cimmerj, ne’ tempi di Omero avean già edificata colà una Città, ed eran essi passati dallo stato selvaggio a uno stato di barbarie, avendo già formato un δημος cioè, una società. II. Si esamina, col confronto dell’autorità di Strabone e quella del Cronico di Eusebio, l’epoca dell’edificazione di Zancle, onde si dicon venuti gli Euboici fondatori di Cuma. III. Dopo Omero Eforo, scrittore natio di Cuma, non fa menzione della pretesa origine Greca della sua Patria. IV. Si rigetta l’opinione di Strabone, che mostra di creder la Colonia Greca, fondatrice di Cuma, precedente alla Guerra Trojana; deducendosi l’anacronismo di Strabone dall’epoca della popolazione della Cuma Euboica, posteriore alla disfatta di Troja. V. Si risponde a coloro che hann’opinato esser gli Eritrei, antichissimi Coloni, passati da Ischia a fondar Cuma, e si mostra l’incoerenza di un tal sentimento, tanto colla cronologia, come colla Storia così politica de’ Greci, come fisica dell’isola Pitecusa. Dal che si rileva che molto più recente fu la venuta degli Euboici, di quel che altri ha creduto e che qualche loro stabilimento sul littorale dell’antico agro Cimmerio fosse forse venuto dopo la crisi vulcanica d’Ischia, avendo non però que’ coloni ritrovata la Cuma come Città culta, qual’esser dovea dopo tanti secoli, ne’ quali gli antichi indigeni Cimmerj eransi quasi del tutto civilizzati.
... Siami permesso di presentare al mio leggitore alcune congetture sull’origine della nostra Cuma, Città la più antica del Cratere; congetture, colle quali se parrà, ch’io mi opponga agli antichi tutti, e a’ moderni, che scrisser di quella, non intendo non pertanto di ostinatamente attaccare il comun sentimento, ma di esporre una mia qualunque siasi opinione, della quale lascerò l’esame a coloro, che senza prevenzione giudicar sapranno, mentre mi adoprerò di mostrar loro, che Cuma fu la prima Città, che venne da’ Cimmerj edificata, dappoiché quelli col tratto del tempo incominciarono a civilizzarsi. Né vorrei si avesse codesto dettaglio come un episodio, lontano dal mio assunto, perocché ove io giunga a mostrar la probabilità di questa mia congettura, ne seguirà per avventura, che se i nostri Cimmerj, cioè gli abitatori delle terre occidentali del Cratere di recente lasciate dalle acque aveano una Città πολις nell’età Omerica, ivi senza dubbio era stata la prima Vulcanica eruzione tra tutt’i luoghi del nostro Cratere. E in tal guisa verrò a mostrare indirettamente esser molto più antica di quel che altri ha creduto, questa tal Città, né esser ella opera di Euboica o Eritrea Colonia. E s’intenderà finalmente, che dalla remota origine di questa Città Cimmeria, anziché da qualche Greca Colonia, che molto più tardi poté giugnervi, ripeter si debba la vera cagione di quella cultura, che in Cuma si trova ne’ tempi medesimi in cui tal non era la stessa Roma. Ogni uomo di buona sede converrà meco sulle prime, che fra Κυμη e Κυμμηρον o Κυμμηριοι altra differenza non vi passi se non quella di un luogo, e degli abitatori del luogo istesso, come lo è fra Neapolis e Neapolitani, Capua
e Capuani, etc. Or che l’appellazione originaria di Cuma presso i Greci, ed anche presso i Latini, fosse stata Cyme Κυμη, niun lo ignora. Presso Strabone l. V, Κυμη, presso Stephano, presso l’Autore del libro de Vita Homeri, attribuito per errore ad Erodoto, presso Pausania, e finalmente, anche presso i Greci de’ bassi tempi, come Agazia, ed altri sempre viene scritto Κυμη. I Latini anche così scrissero un tal nome: Silio Italico Lib. XIII. v.44 Cymes. Stazio Lib. IV. Silv. 3 v. 65 Quieta Cyme. Da Kυμη Tolomeo fé il primo Kουμαι, e presso i Latini da Kυμη si fece Cuma e Cume; giacché fu solito ai Latini di cangiar la v delle voci greche in u, o che, secondo Lipsio pretende, da’ Latini questo Greco elemento per u si pronunziasse; o che, come credo più volentieri, avesse forza di u anche presso de’ Greci stessi; poiché nelle voci, di cui la tradizione ci ha serbata in qualche modo la pronunzia, ciò chiaramente ravvisiamo; siccome fra noi Napoletani che fummo un tempo Greci, si pronunzia tunno il pesce, che i Greci chiaman τυννος, diciamo tuppete in significato di battere per la voce greca τυπτο ecc. Dalle cose, che abbiam dette di sopra, non fa uopo muover quistione per cercare, se dalla Città fosse nato agli abitatori il nome, o questi a quella lo avessero dato; poiché il luogo nell’antico linguaggio detto Cemere, come abbiam mostrato colla voce Fenicia, cioè lutulento, fé sì che gli abitatori si chiamasser lutulenti, e perciò Kιμμεριοι, a tal che dalla qualità locale ad amendue, suolo cioè, e abitatori, sia nato un tal nome. Né sembri strano, ch’io niuna differenza frapponga fra le due Greche voci, l’una scritta Kυμη coll’u, e l’altra Kιμμεριοι col i; perocché è ben noto a’ La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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filologi quanto poco conto di queste tali differenze debba tenersi; e chi ha piccola contezza del Greco, sa quante voci nascono dal verbo χυω diffondo le quali variano secondo che vengon da quello derivate, e quindi tanto la χυσις palude, quanto le voci χειμα inverno, χειμεριος invernale &c., benché altre abbian la ι, altre il dittongo ει, tutte nondimeno nascono da uno stesso tema. Mi si perdoni questo piccol tratto di pedanteria, necessario per istabilir meglio il mio argomento. Che se diamo un’occhiata alla topografia del nostro Pianeta, noi troveremo che non vi è in tutta la Geografia una denominazione locale così universale, come lo è quella di Cuma, o Cyme, giacché questa fu l’appellazione de’ luoghi palustri, e di recente abbandonati dalle acque; il che siccome in più luoghi avvenne per le anzidette ragioni, così moltissimi furono i luoghi, che il nome di Cume ritennero. Noi abbiam’ una Cyme Κυμη nell’Eolia, un’altra presso Stefano nell’Etolia, un’altra nella Jonia, un’altra nella Panfilia. Un’isola di questo nome incontriamo nella Sicilia presso l’istesso Stefano: fu celebre la Cuma della regione Euboica, onde si crede derivato il nome alla nostra Cuma Campana. Abbiamo un’altra Κυμη nel Bosforo Cimmerio. Vedeste mai in geografia tante città di luoghi tra loro sì remoti che abbian nulladimeno l’istessissimo nome? Or di ciò parmi che altra esser non poté la ragione, se non l’indole del luogo, il quale ovunque palustre era, e serbava tuttavia le vestigia e reliquie delle acque del mare, che un tempo vi eran dimorate, tal nome di Κυμη Cume nel linguaggio primigenio di quelle antichissime popolazioni acquistava. Il che (se mi fosse lecito di oltrepassar i limiti delle mie ricerche) confermar chiaramente potrei coll’esame della topografia de’ luoghi, ne’ quali le Cume furono; agevolmente mostrando, che dalla loro situazione al mare vicina, e dalla conformazione del prossimo littorale ben si argomenta che furon quelli un tempo luoghi e terreni ingombri dal limo delle acque marine e dai ristagni delle acque istesse, che dopo il loro retrocedimento vi avean nonpertanto lasciate le orme dell’antico domicilio. Né altra parmi che fosse stata la tradizione dell’origine di questo nome presso i nostri Cumani, i quali in una delle loro medaglie presso il Capaccio, serbando il costume degli antichi, usi a metter nel rovescio di quelle qualche simbolo esprimente la qualità locale del loro terreno, vi misero una granocchia, certo, e indubitato indizio della qualità palustre del loro suolo; come se avesser voluto colla figura di questo palustre insetto, indicar lo stato primitivo del suolo, sul quale sorse la loro Città. Ove è da riflettersi, che l’epigrafe della medaglia suddetta è Κυμαιον, Cumanorum, o Cymeorum, nome degli abitatori di Κυμη ne’ tempi culti; giacché dall’antica denominazione, nel pristino linguaggio Cimere, pria si fé la voce Cimerii e poscia grecizzandosi un tal nome, si formò il nome di Cyme alla Città, e quello di Cymei, e più tardi Cumei, e Cumani agli abitatori, voci, che sanno del tempo culto del linguaggio Greco. Forse sembrar potrebbero bastevoli gli addotti argomenti ad appoggiare in qualche modo la mia congettura, che 6 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Cuma, cioè, non fu se non la Città de’ Cymei, prima detti Cimmerii. Ma chi mai potrà prestar fede alla mia opinione, contro la quale riclama la storia, che dell’origine di questa Città tutt’altrimenti favella? Diffatti tutti gli antichi ci parlan di Cuma come di una Città edificata da coloni o dell’ Eritrea, o deli’ Eubea; e neppur un solo fra quelli ci dice, che a’ Cimmerj se ne debba l’origine. Perlocchè mi fa uopo d’impegnare il buon senso de’ miei leggitori, affinché senza prevenzione meco esaminino il merito delle testimonianze della Storia antica su questo punto, e poscia decidano della ragionevolezza delle mie congetture. Se leggeremo un per uno tutti gl’Istorici più antichi, che di Cuma ci parlarono, come Strabone, Pausania, Tolomeo, Stefano, Patercolo, Eusebio &c. , troveremo che quot capita, tot sententias essi hanno intorno ai primi coloni, fondatori di questa Città. Quasi tutti non però convengono a darle un’antichità o precedente alla Guerra di Troja, o al più meno di un secolo a quella posteriore : e che finalmente sia stata questa la Prima Città dell’Italia. Chiamiamo ad esame i loro sentimenti. In primo luogo la diversità di opinioni, che passa fra quasi tutti gli antichi su un tal punto, ci dee far sospendere almeno la credenza a qualunque sentimento, se vogliam esser di buona fede. Il più antico intanto di codesti Scrittori non oltrepassa l’ottavo secolo di Roma; e quindi scrivono essi di un fatto, avvenuto circa dieci secoli innanzi al tempo in cui essi viveano. Or qual dubbia fede, secondo le regole della sana critica, essi non meriteranno, ove sien, come diffatti lo sono, sì discordi tra loro e nella qualità de’ pretesi coloni, e nell’epoca della loro venuta? Quindi a creder mio ha dovuto appo essi loro nascere la tradizione della colonia fondatrice di Cuma da due cagioni: la prima, dal vedere un’altra Cuma nell’Isola Eubea, e di qui altri fece venire i fondatori della nostra Cuma: altri vide Cuma nell’Eritrea; e di là fece distaccare una colonia, che nella Campania edificò una Città di simil nome: così ragionate degli altri, i quali trovando tante Cume, voller che dagli abitatori di una di quelle si fosse distaccata la colonia fondatrice della Cuma Campana. La seconda cagione derivò dall’indole de’ Greci, che vollero attribuirsi 1’origine di tutti i luoghi, e vollero ne’ tempi culti passar come i padri, e fondatori di tutte le Città, nelle quali abitavano; perlocchè appoggiati all’esistenza delle Cume, che nell’antica Grecia per la maggior parte erano, agevolmente accreditar poterono questa supposta tradizione, che col tempo, allorché ogni Città si facea un pregio di riconoscersi per una Colonia Greca, passò poi per verità istorica. A ciò si aggiunga un’altro argomento, che agevolmente appoggiò quella greca tradizione, nato da’ coloni Euboieci, che vennero a stabilirsi nella Pitecusa, ossia Ischia. Il trovar degli Euboici in Ischia, luogo sì vicino a Cuma, il veder Cuma nell’Isola Euboica, ha dato un’aria di verità alle narrazioni de’ Greci, i quali han potute di leggieri sostenere, che quegli Euboici, che fecero in Ischia il loro stabilimento, ne han fatto un altro nel continente, cui han dato il nome di un luogo, che nel suolo natio avean lasciato. Ecco le congetture, che mi conducono a credere, che senz’altro idoneo fondamento, oltre all’orgoglio, ed
ambizione de’ Greci, ed alle analogie de’ rapporti locali, sia sorta la tradizione della Colonia Greca, fondatrice della nostra Cuma. Esaminiamo dunque cronologicamente la venuta di questa Colonia Greca, per veder qual sede dar dobbiamo alla tradizione degli antichi così varj tra loro e così anche contrarj all’ordine de’ tempi. Strabone nel V della Geografia ci narra che Cuma, Città la più antica di tutte le altre dell’Italia e della Sicilia, fu edificata da Ippocle Cumano, e Megastene Calcidese. Dallo stesso Geografo nel Libro VI sappiamo che quegli Euboici, ch’indi passarono nel nostro Cratere, furon gl’istessi, che una co’ Zanglei e coi Messenj esiliati dal Peloponneso, avean prima edificata la celebre Zancle, oggi detta Messina. Eusebio nella sua Cronaca conferma lo stesso, e senza verun’equivoco dice, che que’ condottieri della Colonia Greca, ch’edificarono Zancle, venner poi a edificar Cuma nella Campania. Eccoci dunque al caso di poter investigar l’epoca della venuta di questa Colonia nel nostro Cratere. Noi sappiamo da Pausania in Messen. presso Valesio nelle sue Escursioni sopra Diodoro, che que’ Messenj, che uniti a i Zanclei, e Calcidesi fondarono Zancle, non partirono dalla Grecia, se non dopo la seconda guerra, ch’ebber contro i Lacedemoni; terminata la quale, avendo distrutta la loro Città, passarono nella Sicilia. E ben conta a’ cronologi l’epoca di questa seconda guerra de’ Messenj, avvenuta il primo anno dell’Olimpiade XXVII, che corrisponde, secondo la correzione della Cronologia d’Eusebio, che noi seguiamo, agli anni seicento settantuno prima di Cristo. Osservate anche il Petavio, il Marshamo, lo Scaligero, e tutti gli altri più accreditati cronologi, i quali unanimemente convengono in questo punto. Or da ciò ne siegue che i duci della Colonia Greca, che si vogliono i fondatori di Cuma, non poterono giugnere nel nostro Cratere prima dell’anzidetta epoca; e che per conseguente non avessero edificata Cuma pria dell’anno DCLXXI innanzi Cristo, cioè nell’anno dalla fondazione di Roma settanta nove. Ma sarà egli credibile, che gli Euboici nel tempo stesso, che uniti a’ Messenj, e Zanclei, edificarono Zancle nella Sicilia, avesser nel nostro Cratere edificata Cuma? Che anzi ogni ragion vuole, che notabil tempo avesse dovuto passare, in cui avendo quelli Coloni ben fissato nella Sicilia la novella loro dimora, fosser poi venuti sino al nostro Cratere, ove par che dovesse esser l’ultimo de’ loro stabilimenti. Quindi io credo che avesse per lo meno dovuto passare un secolo, per trovarsi quelli Greci Coloni nello stato di scorrere francamente i nostri mari, e stabilirsi all’estremo ramo del Cratere Cumano; e quindi secondo un tal computo la fondazione della nostra Cuma dovrebbe per lo meno corrispondere al secondo secolo di Roma. Ma chi non vede in qual anacronismo politico ci farebbe urtare quell’epoca della fondazione della nostra Cuma? Da Dionigi d’Alicarnasso nel libro VII sappiamo che nell’anno CCXXIX dalla fondazion di Roma i Cumani erano talmente ricchi, e potenti, che giunsero a far l’invidia degli Etrusci, che abitavano nel littorale della
Campania. In quest’epoca fanno i Cumani la guerra cogli Etrusci con buon’ordine di fanteria, e di cavalleria; e nel loro regolamento militare si ravvisan lo stato e le circostanze di un popolo abbastanza civilizzato. Inoltre dal racconto della vittoria da’ Cumani riportata, e delle circostanze civili, che la seguirono, ben si argomenta la cultura della nazione Cumana, superiore a quella di tutti gli altri popoli della Campania. Così parimente troviam, che quella Città siegue a fare la prima figura nella Campania in tutto il terzo secolo di Roma. Or se vogliam esser sinceri, dovrem senza fallo confessare esser incredibil cosa, che una Colonia appena stabilita nel nostro Cratere, potesse ergersi nello stato, in cui veggiamo la nostra Cuma nell’epoca stessa, in cui avrebbe dovuto esser fondata. Né ci dee abbagliare la qualità de’ Coloni, i quali perché Greci taluno ha creduto che potessero agevolmente introdurre ne’ loro stabilimenti la cultura civile; sì dacché l’indole di quelle tali Greche Colonie in verità ne’ primi tempi non era se non quella di uno stabilimento, che nel suo principio altro scopo non avea oltre al commercio, per facilitar il quale cercavano una situazione qualunque in que’ luoghi del littorale, che meglio loro riusciva: sì anche perché lo stato di Cuma pochi anni dopo l’epoca, in cui avrebber potuto venirvi gli Euboici (secondo il computo cronologico da noi rapportato) era quello appunto di una Città, e popolazione, che a corto di tutti que’ periodi, pe’ quali passar debbono gli uomini, che dalle selve si avvanzano verso la cultura socievole, era giunta a quello stato di civilizzazione che mancava tuttavia agli altri Campani, e avea acquistate quelle forze, e quella così militar che politica disciplina, cui non si perviene se non a costo di parecchi secoli. O dunque ismentiremo i fatti, contestati dalla Storia, ovvero. dovrem confessare, che tutt’ altra esser debba l’origine di questa Città, e che anziché dagli Euboici, tardi coloni del nostro Cratere, altronde ripeter dobbiamo le cagioni dello stato florido di Cuma nel principio del terzo secolo di Roma, come appresso farem veder. Inoltre egli è fuor di dubbio, che gli antichi Coloni Greci giammai, per quanto dalla Storia sappiamo, si vennero a stabilire in qualche luogo, ove digià vi era altra Città ricca di forze, e di una popolazione regolare (qual era la nostra Cuma nel tempo, che abbiam mostrato esservi potuti giugnere gli Euboici) se pur non fossero stati da naturali invitati a rimanervi; nel qual caso non mai cangiaron essi il nome alla Città, in cui furon ricevuti; né mai la Città prese da loro la denominazione, o si disse da nuovi sopravvenuti coloni edificata. Allorché dunque ci si dice che i Coloni Greci vennero nel nostro cratere, e vi edificarono una Città, cui imposero il nome, par chiaro che nel luogo, ove la Città fondarono, esser non vi dovea altra più antica Città o popolazion culta, al pari di quel che era Curma. Né vorrei che altri, pieno delle esagerate idee della Greca potenza, pensasse che in que’ rimoti tempi colle armi alla mano i nuovi coloni cercassero il loro stabilimento; perocché ciò non avvenne che molto tardi: e ne’ primi tempi, de’ quali parliamo, pochi marinari di fortuna appena co’ mezzi, che loro apprestar poteva il commercio, e qualche La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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arte dippiù, che loro era nota, si aprivan la strada ad ottenere da’ nostri indigeni un pezzo di terra, ove stabilivano il piccol centro del tenue loro commercio. Or se altro più sodo argomento da’ fatti ritrar io non potessi, crederei che bastevol sarebbe quello della qualità locale per ismentire 1’origine Greca della nostra Cuma. Poiché chi potrà mai persuadersi, che i Messenj, i Zanglei, gli Euboici o qualunque altra più errante nazione avrebbe potuto lasciarsi indietro de’ luoghi ameni, e atti alla cultura, per iscegliere un terreno circondato, e ingombro dalle vulcaniche mefitiche esalazioni, colmo di acque stagnanti, e in parte ancor sabbionoso, qual ce lo descrive anche sette secoli dopo Strabone? Chiunque vorrà esser di buona fede, non potrà certamente immaginarsi questa scelta senza riconoscervi un paradosso. Ma venghiamo ai fatti. Che si direbbe se in que’ luoghi istessi, ove si pretende fondata una tal Città, e situati i nuovi Greci Coloni, vi fosse già stata quattro secoli prima una Città, ed una popolazion regolare? Eccovene le pruove le più chiare, e lampanti presso di Omero. Questi ci narra, che Ulisse trovò quivi il popolo e la Citta degli uomini Cimmerj. Chiunque intende la forza delle voci δημος e πολις presso Omero, sa bene, che δημος non chiama egli se non le popolazioni, che erano già passate dallo stato selvaggio a quello almeno della barbarie politica, e quindi non dà un tal nome a’ Ciclopi: πολις chiama la Città già formata, e quindi giammai così denomina gli abituri de’ selvaggi. Quest’istesso Ulisse, che nel nostro littorale avea trovato i Lestrigoni fieri, e antropofagi, da’ quali gli erano stati ammazzati i compagni, entra nel tenimento de’ Cimmerj, e nulla di sinistro gli avviene. Dunque i Cimmerj erano una popolazione lodevole, già avvezza a veder gli esteri per la vicinanza del mare: aveano una Città, e la loro popolazione se non era ancor del tutto civilizzata, non era certamente selvaggia, ma vivea nello stato della barbarie il men lontano dalla cultura civile. E se altri ha creduto selvaggi i Cimmerj, ciò è derivato dall’ erronea interpretazione data alle parole di Omero, il quale dipingendo l’aer tetro, e caliginoso di quel luogo, come abbiam dimostrato, ha dato occasione a taluno (errore, nel quale ho confessato di essere stato per lo passato anch’io) di credere che i Cimmerj non avessero altre abitazioni oltre a quelle sotterrane cave, delle quali ci parla Eforo, la cui storia appresso esamineremo. Se dunque in quel luogo, ove fu Cuma, nell’età di Omero, cioè diece secoli prima di Cristo, eravi una πολις Città, e la popolazione de’ Cimmerj formava un δημος una società, ne siegue che anche qualche secolo pria di Omero i Cimmerj eransi cominciati a civilizzare, e in conseguenza aveano esteso il loro dominio sopra dell’intero suolo, che dopo la crisi Vulcanica avean lasciato le acque nel lato occidentale del Cratere. I Greci, secondo dalla dimostrazione cronologica abbiam ricavato, vi vennero circa sette secoli prima di Cristo; dunque vi dovetter trovare una Città, e un popolo, che se tal era tre secoli prima, quanti ne passarono da Omero al settimo secolo prima di Cristo, fra il corso di tre secoli, avea dovuto avanzarsi di molto e nella forza, e nel numero, e nella cultura socievole. Come mai avran 8 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
dunque potuto pochi Greci marinari edificare una nuova Città nel suolo ed agro istesso, ove appunto era la Città, e il popolo de’ Cimmerj? Se non che mi avveggo che altri possa credere, che fra il corso di questi tre secoli facilmente abbia potuto avvenire quella distruzione de’ Cimmerj, di cui ci parla Eforo presso Strabone; a tal che i Coloni Euboici avesser trovato il suolo vuoto di abitatori, e forse sugli avvanzi della distrutta Città Cimmeria avesser di leggieri, e senza verun contrasto potuto ergere una nuova Città. Io potrei ricordare a chi siffattamente pensasse, ciò che poc’anzi ho detto intorno allo stato politico di Cuma nel terzo secolo di Roma, il che sembrami troppo, bastevole a mostrar che punto non si accorda l’epoca della venuta degli Euboici collo stato civile di una Città nel secolo stesso secondo di Roma da essi edificata. Ma seguendo il filo del mio ragionamento, parmi vedere che neppure tra questi tre secoli abbia potuto avvenire la distruzione de’ Cimmeri. Noi abbiam osservato, che le qualità vulcaniche, dalle quali era ingombro il suolo Cimmerio nell’ età Omerica, mostravano che la materia delle ceneri e lapilli vulcanici non ancora avea potuto giugnere allo stato argilloso di modo, che vi avesser potuto i Cimmerj far degli scavi. Eforo terminando la sua Storia al terzo secolo dopo di Omero, ci fa sapere che quella materia, di cui eran composti i monti del suolo Cimmerio, era già divenuta αργιλον argilla, e che in quella cavavan essi delle miniere, e delle strade sotterranee, e che nelle viscere del monte aveansi formato un Oracolo. Per quanto si voglia remota l’antichità de fatti, che rapporto ai Cimmerj Eforo racconta, non potrà negarsi che per giugnere quella materia vulcanica ad uno stato di argilla (qualunque siesi il senso, che ad una tal voce davano gli antichi), cioè atta a cavarsi, e ad esser suscettibile delle volte, avesser dovuto scorrere per lo meno quattro, o cinque secoli. Sospendo per ora di dar le pruove anche di questo periodo, riserbandomele diffusamente nelle mie ricerche sull’antico stato del nostro Cratere. Ma piacemi così di passaggio avvertire, che questo corso di tempo necessario a dar consistenza alle ceneri vulcaniche vien comprovato dalla formazione, e dallo stato attuale de’ tufi, che incrostano il ramo Appennino, che fa l’oggetto principale di questa Dissertazione; scorgendosi in quello la lentissima progressione, colla quale le ceneri vulcaniche vanno acquistando dopo secoli una certa tenacità, consistenza, e un glutine, necessario a sostener le forme, che cavando vogliono darvisi. Oltre a ciò, quei terreni, nei quali le ceneri vulcaniche hanno acquistato una tal consistenza, quanto più si rimonta verso la loro superficie, tanto più hanno una terra atta alla cultura, di modo che questa rendesi coltivabile in ragione della consistenza, che la sottoposta materia vulcanica acquista. Verrà ciò parimente da me dimostrato anche nelle sudette ricerche, ove esporrò alcune mie riflessioni sulle cause delle diversità de’ terreni atti alla cultura ne’ luoghi soprapposti alle materie vulcaniche; lusingandomi di poter presentare a’ naturalisti una materia, che meriterà il loro ulteriore esame; e che nel tempo stesso ci mostrerà la diversità de’ climi per la parte ch’influisce nella costitu-
zione fisica degli abitatori di tai luoghi, onde per avventura intenderemo alcuni rapporti della Storia antica coll’età nostra, poco osservati da que’ politici, che esplorano la natura da’ loro gabinetti. Ma Omero ci descrive ne’ suoi tempi il suolo Cimmerio come del tutto disadatto alla cultura, e che altro non nudriva, se non alberi palustri, e nemici delle biade. Dunque nell’età sua niuna consistenza ancora avean potuto acquisire le ceneri vulcaniche del suolo Cimmerio: e se ne’ tempi, di cui parla Eforo, avean già tal consistenza, che argille vengono chiamate, e i Cimmerj vi cavavan delle grotte, ed andirivieni; legittima conseguenza ella è, che da Omero al tempo, di cui Eforo favella, vi fosser passati, per lo meno tre secoli. Ciò stabilito ne siegue, che se tre secoli almeno dopo di Omero vi eran tuttavia i Cimmerj, e quindi anche la loro Città, non poterono i Coloni Euboici trovar vuoto di abitatori quel terreno, nel quale la pretesa Cuma edificarono; che anzi dovettero trovarvi la Città, e gli abitatori Cimmerj, da’ quali certamente avrebber dovuto domandar in grazia un qualche luogo pel loro stabilimento. Ma Eforo, mi ripiglierà taluno, non dic’egli che furono distrutti i Cimmerj; e se l’epoca della sua storia non oltrepassa il secolo terzo dopo di Omero, non dovean quelli esser già distrutti nell’età istessa, in cui voi cercate di mostrarceli tuttavia esistenti? Eccomi a rispondere ad una ragionevole obiezione. Osservate di grazia la contenenza del racconto, che ci fa Eforo di un tale avvenimento, e nel tempo stesso la qualità de’ Cimmerj, di cui egli parla. Chiama Eforo Cimmerj quegli uomini, che viveano unicamente collo scavo delle miniere, e col traffico degli oracoli, e ci dice che furon costoro distrutti. Or nulla vi ha di più probabile, se non che nell’età sua Eforo avesse considerato per Cimmerj quel resto dell’antica popolazione, che anche tardi tuttavia rimase addetta a quest’opera servile, seguendo le vestigia de’ suoi primi maggiori. Il tempo rendè que’ Cimmerj, che si erano uniti in società, più culti; nacque fra loro uno Stato politico, e quindi non pochi di loro restarono addetti allo scavo delle miniere; e seguendo la barbara religione, figlia piuttosto delle fisiche circostanze del loro clima, fecer commercio degli Oracoli. Questa porzione de’ Cimmerj ch’era rimasta in uno stato di barbarie, e di servitù, fu quella che divenne poscia la vittima di qualche vicino Regolo, come Eforo racconta. Che anzi lo stesso Eforo ci somministra chiare pruove di questo stato di servitù, nel quale fra Cimmerj era ridotta quella porzione, che allo scavo delle miniere attendeva dicendoci, presso Strabone l. V, che i cavatori delle miniere nulla avean di proprio, ma vivean proventibus ab rege designatis. Eccovi un Re, sotto il quale vivean servi que’ tali Cimmerj, che cavavano i metalli. Eforo intanto, che pieno della borea Greca de’ suoi tempi, si vedea Cittadino di Cuma, Città già culta, e rispettabile per lo stato politico, al quale era giunta, di leggiera erasi persuaso della volgar tradizione, che i Cimmerj fossero stati già distrutti; poiché, sotto quel nome non considerava se non i cavatori delle miniere, che fra barbari venivan ri-
putati nell’età sua. Allorché dunque ci narra egli la destruzione de’ Cimmerj, non dee questa intendersi della nazione intera, e della loro Città, ma bensì di que’ suoli che eran addetti alle miniere. Diffatti chi non vede che di costoro unicamente quegli parla? Par egli possibile, che Omero pria di lui, cioè tre secoli per lo meno innanzi l’epoca della sua storia, ci presenti una Città e un popolo regolare de’ Cimmerj; ed Èforo tre secoli dopo cel mostri come una mano di pochi cavatori di miniere, indovini, ladri, erranti, e abitatori di cave sotterranee? Dunque Eforo per Cimmerj distrutti non intese, se non quella porzione, che nell’antico stato servile dello scavo delle miniere era tuttavia rimasta; e non già quella parte culta, e civilizzata de’ Cimmerj, la quale col progresso del tempo, col traffico, che avea co’ Greci, e cogli stabilimenti che sul loro suolo fecer costoro, divenuta una delle più culte popolazioni, dimenticata avea la sua vera origine: siccome avvenne di tutte quelle Città nostre, che sdegnarono ne’ tempi culti di riconoscere la tenue origine, onde eran nate. Per la qual cosa ne’ tempi di Eforo ogni Cittadino Cumano, qual’egli era, par che si facesse vergogna di credersi originario di quegli antichi Cimmerj, che tutti un tempo eran vissuti collo scavo delle miniere, al quale col progresso dell’età rimase addetta la sola parte più vile della nazione. Dunque tre secoli dopo di Omero esser vi dovea la Città, e i1 popolo de’ Cimmerj tuttavia in quel luogo, ove si pretendono venuti gli Euboci Coloni. E quindi avendovi costoro trovato Città, e abitatori, non han potuto ergervi una Cuma, né fondarvi, come in un terreno vuoto, e dissoccupato, veruna Città. Ma mi opporrà taluno che, senza cercar altrove da computi cronologici la venuta de’ Cumani Euboici, trovar la potremmo presso quegli istessi antichi Storici, che della nostra Cuma favellarono; giacché Strabone mostrò di credere, che fosser quelli venuti nel nostro Cratere forse innanzi alla Guerra Troiana: e quando anche ciò sembrasse inverisimile, per lo meno, appigliarci potremmo all’epoca, che dopo di Patercolo gli altri antichi ce ne han data, cioè circa un secolo dopo l’anzidetta guerra; del qual sentimento par che sia benanche Eusebio nel suo Cronaco: ed una tal epoca sembra che affatto non ripugni allo stato politico della nostra Cuma Campana nel secolo terzo di Roma. Ma quest’epoca appunto ci scopre la falsità della Storia, che ci tramandarono gli antichi intorno all’origine della nostra Cuma. Ed io mi adoprerò di esporla all’esame degl’illuminati leggitori; seguendo le regole della sana e ben ordinata critica, le quali se c’insegnano a rispettare l’autorità degli antichi, del pari ci vietano di ciecamente, seguirli, allorché scrivendo essi di fatti molto più riposti de’ tempi loro, non corrispondano o all’ordine politico, o alla verità cronologica. Quindi pria di ogn’altro dimostrerò, che né gli Euboicì, né gli Eretrei poterono edificare la nostra Cuma o prima, o anche un secolo dopo la disfatta di Troja. Strabone ingannato dalle favolose relazioni de’suoi Greci, e convinto da un’ altra parte della rimotissima antichità della nostra Cuma, volle attribuirla a’ Greci, e la volle nel La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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tempo stesso per la prima Città d’Italia, e quindi inclinò a crederla precedente alla Guerra Trojana. Intanto que’ Greci, che secondo il suo racconto vennero a fondarla, eran Greci Calcidesi ed Eretrei, cioè Euboici. Dunque eran di quegli antichi Eoli, che avean dedotta una loro colonia nell’Isola Eubea. La deduzione di quella Colonia Eolica è nota nella Storia de’ primi Greci, e presso dell’autore del Libro de Vita Homeri, come anche presso di Eusebio nel X libro della Preparazione Evangelica leggiamo, che avvenne nell’anno centocinquantesimo dopo la Guerra di Troja. Dunque la colonia degli Eoli, che abitò l’Isola Euboica, essendo posteriore di un secolo e mezzo alla guerra Trojana, come mai ha potuto innanzi di quella partir di là, ove non ancora erasi stabilita, e venir nel nostro Cratere a edificarvi Cuma? Né mi stia altri a rispondere, che Eusebio, e il preteso Erodoto parlano della Cuma Friconide; poiché è ben dimostrato dal dottissimo Casaubono ne’ commentarj postumi a Polibio, che quella fu chiamata Coma, e non già Cuma, e che gli antichi debbonsi intendere della Cuma Euboica, ove appunto gli Eoli fecer la loro emigrazione. Che se gli Eoli Euboici, dappoiché ebbero colà stabilito la loro sede, e edificate le Città, tra quali la loro Cuma Euboica, passaron indi nel nostro Cratere, ciò non poté farsi almen pria di tre secoli dopo quel primo stabilimento; giacché non è verisimile, che in minor tempo gli Eoli abbian potuto edificar Cuma, ed Eretrea nell’Isola Euboica, e divenir così popolosi da esser nello stato di spedir coloni ad abitare altrove. Il che se così fu, noi troveremo la nostra Cuma edificata circa il primo secolo di Roma; e quindi a Roma posteriore; e per conseguente né più antica della guerra Troiana, né la prima Città Italica, come dice Strabone. So nondimeno che altri sull’autorità d’un passaggio di Livio Lib. VIII han creduto di poter agevolmente schivare buona parte delle contradizioni, che finora ho mostrato esservi nella tradizione della Colonia Euboica; facendo venire i fondatori della nostra Cuma dalla prossima Isola d’Ischia, ov’eransi i Greci stabiliti sulle prime; e donde col tratto del tempo rischiarono di passare nel vicino continente, laddove una Città, da essi appellata Cuma, vi edificarono, uniti cogli Eretrei, primi abitatori, secondo Strabone lib V, della medesima Isola. Or io sieguo volentieri un tal sentimento, dal quale resterem vieppiù convinti della tarda venuta de’ Greci coloni nel littorale de’ Cimmerj; soprattutto se noi regolar vorremmo lo stabilimento di qualche Colonia in Ischia colle regole fisiche delle qualità locali di quella. E per vero o che quel tratto di terra, che forma l’Isola Pitecusa, si fosse nella crisi universale distaccato dal continente, come mostraron di credere con qualche fondamento gli antichi, o che fosse sorto per l’azione de’ Vulcani, egli è fuor di dubbio: che ne’ tempi di Omero una tal isola o non era affatto abitata, come quella che attualmente era ingombra da un terribile ignivomo che Omero somiglia ai fulmini di Giove sdegnato; oppure se avea abitatori, eran costoro de’ selvaggi, che perciò αριμοι vengon chiamati dallo stesso Omero, cioè simie, come interpretarono 10 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
questa voce i Greci; ovvero dalla voce fenicia antica, che troviamo nel Genesi c. II. V. 25. Harum, e Harumi, cioè nudi, senza vesti, tutte qualità che ben si convengono a’ selvaggi, i quali potevan esser colà ne’ tempi di Omero. Dunque almeno nell’età Omerica non ancora era venuta a stabilirvisi la colonia Greca. Questa colonia, dice Strabone Lib. V che sulle prime fu di alcuni Eretrei, che vennero a stabilirvisi per la quantità di oro, che vi cavavano, e per la feracità del terreno. Dunque quando vi venner costoro avea dovuto in primo luogo già estinguersi il Vulcano; poiché chi s’indurrebbe mai a credere, che una mano di Greci i più disperati, avesser voluto scegliersi per loro abitazione un luogo, nel quale tuttavia ribolliva l’azione viva de’ Vulcani, ai quali se eransi per avventura avvezzi gli indigeni, non è però che non dovesser rimuover di là chiunque nuovamente vi giugnesse. Ma dippiù, se già vi si cavavan le miniere, da più secoli avean colà dovuto estinguersi i Vulcani, che ne avean preparata la materia. E se finalmente eravi un terreno fertile, quanti secoli non eran dovuti passare per ridursi la terra vulcanica alla feracità, di cui ci parla Strabone? Che se seguendo codeste fisiche vedute, vorrem dare una tal quale epoca allo stato, in cui era l’Isola, quando vi vennero gli Eretrei, dovrem confessare che per lo meno eran dovuti scorrere da’ tempi di Omero, ne’ quali era in azione il Vulcano, cinque, o sei secoli, ne’ quali quel terreno ridotto si fosse allo stato, del quale parla Strabone. E quindi secondo questo computo fisico gli Eretrei non avrebber potuto abitare in Ischia prima del terzo secolo di Roma; e più tardi avrebber dovuto di là passare nel continente, a tal che Cuma sarebbe stata edificata da essi forse nel quarto secolo della stessa Roma. Per veder l’anacronismo, cui una tal epoca ci condurrebbe, altro far non si dee che legger la Storia Romana, e ricordarsi, come sopra abbiam detto, dello stato florido della nostra Cuma anche ne’ primi anni del secolo terzo della fondazione di Roma. Potrà nonpertanto sembrar verisimile a taluno che gli Eretrei siensi stabiliti in Ischia anche molto prima del computo che noi dallo stato fisico di quella dedur vogliamo; credendo che per esser 1’Isola alquanto grande, se in un luogo eravi dell’azione vulcanica in tempo di Omero, in buona parte nulladimeno era già potuta mancare ed estinguersi, e che quivi trovar poteansi quelle condizioni, che Strabone fa trovare a’ Coloni Eritrei nell’Isola suddetta, senza che vi dovesse correr sì lunga stagione dall’età Omerica alla venuta di quei Coloni. Ma per quanto ostinatamente si voglian questi Greci coloni di un’indole tale, che amasser meglio stabilirsi ne’ luoghi posseduti almeno in parte da’ Vulcani, senza essere atterriti, e respinti da que’ fenomeni che riuscendo loro nuovi, dovean colmarli di spavento, e del più insano terrore; io mi lusingo di mostrar colla Storia che la venuta degli Eretrel nei nostri mari non poté essere se non molto tarda, e posteriore all’epoca omerica di circa cinque, o più secoli. Fu massima costante presso gli antichi Politici, che dall’epoca del θαλαττοκρατειν, cioè dominio del mare,
ch’aver poté una qualche nazione, ripeter si debba il principio della sua grandezza; quindi Polibio conta per lo primo anno della vera grandezza politica de’ Romani, l’anno quarto della prima guerra Punica, come quello, in cui cominciaron essi a dominare in preferenza delle altre popolazioni nostre, e Siciliane il mare. Per la qual cosa una tal epoca fu così celebre appo i più antichi Greci, che anche pria delle Olimpiadi ebber per punti fissi della loro Cronologia i tempi, ne’ quali le diverse nazioni tenner presso di loro il dominio del mare, a tal che comparavano gli avvenimenti dagli anni, che la tale o tal’altra nazione dominato avea il mare. Noi troviamo le chiare vestigia di questo antichissimo computo cronologico nel Cronaco di Eusebio, in cui, non ostante i tanti vuoti che vi han portato le mani ignare, che ce le han tramandato, troviamo tuttavia il catalogo di queste dominazioni sotto le rispettive epoche, cominciando da i Lidj nell’anno duemila settecento novantuno del Mondo sino agli Egineti nell’anno della stessa epoca quattromila seicento ottanta. L’impero del mare, come dagli antichi Istorici, e politici sappiamo, in altro non consisteva, che nella superiorità delle forze marittime, la quale metteva la nazione, che tal era, nello stato di potere scorrere francamente il mare, corseggiarvi sovranamente, e spedir de’ coloni ovunque meglio le riuscisse. Or fra i popoli, cui toccò un tempo codesto impero del mare, nell’accennato catalogo, che dalle antichissime memorie cronologiche Eusebio trasferisce nel suo Cronaco, gli Eretrei non occupano, se non il decimo sesto luogo, cioè dopo i Foacesi, e i Nassj; così Eusebio: dopo i Nassj gli Eretrei occupano il mare per anni sette. Dunque volendo stare alla verità cronologica, nel decorso di questi sette anni han potuto gli Eretrei, o Eritrei trasportar nel nostro Cratere, ed in Ischia la loro Colonia. Or l’epoca del tempo, in cui fu nelle loro mani il dominio del mare, da Eusebio si stabilisce circa l’Olimpiade sessagesima sesta, cioè prima di Cristo anni DXII incirca, e circa i principi del secolo terzo di Roma. Eccoci dunque all’epoca la più certa secondo i più antichi ed autentici monumenti, nella quale creder possiamo che gli Eretrei abbian potuto venire ne’ nostri mari; ed eccovi in conseguenza dimostrato, che que’ popoli non essendo venuti ad abitare in Ischia se non dopo cinque secoli incirca dall’epoca Omerica, se mai essi furono i fondatori di Cuma, non l’han potuta edificare pria del secolo terzo di Roma; il che, come abbiam mostrato, ripugna apertamente al consenso universale della Storia, e allo stato politico, nel qual era la nostra Cuma in quest’epoca in cui dovrebbe esser sorta per le mani de’ Greci coloni. Dalle riflessioni sinora fatte parmi ch’io abbia chiaramente mostrata la poca fede, che meritano tutte le tradizioni, a noi dagli antichi tramandate intorno all’origine Greca della nostra Cuma Campana, come quelle che ripugnano apertamente all’ordine così fisico, come istorico, e cronologico. Per la qual cosa trovando la nostra Cuma di un’antichità rimotissima, par che ogni ragion voglia doversene attribuire l’origine o la fondazione ad una po-
polazione piuttosto indigena del suolo, ov’ella surse, qual fu appunto la nazione Cimmeria; perocché egli è fuor di dubbio che i Cimmerj poterono essere in qualche modo più culti, allorché i Greci stessi non ancora eran tali. Né vorrei che sembrasse questo mio sentimemo un paradosso a coloro, che non han ben esaminata l’indole della progressione civile; poich’egli è certo che la prima condizione, che si richiede affinché una popolazione avvanzi verso la cultura socievole, dee ripetersi dal tempo: e i Cimmerj essendo, come di sopra abbiam mostrato, i primi, che calarono da’ monti ad abitar ne’ terreni abbandonati dalle acque, potevan certamente vantare la stess’antica per lo meno de’ Greci; tanto più che ne’ nostri monti stessi, ne’ quali aveano per lo innanzi abitato, eravi già da qualche tempo sorta una certa cultura, comeché barbara, e rozza (qual’era quella de’ montagnardi Lestrigoni, de’ quali appresso farem parola) tale nulladimeno, che portava gli uomini alla civilizzazione, quali al pari di quel che erano i Greci nella stessa età. In secondo luogo la vicinanza dei mare si è sempremai noverata fra le prime cagioni della civilizzazione: e tali erano i Cimmerj, abitando ne’ luoghi circondati dal littorale, qualità locale, che procurò loro il vantaggio del commercio, e del traffico cogli esteri, che pe’ nostri mari giravano. Finalmente la feracità, che passati alquanti secoli dopo le crisi Vulcaniche acquistar dovette l’agro Cimmerio, dové non solo accrescerne la popolazione, ma benanche render più culti gli abitatori; né possiam dubitare di codetta feracità, avendone delle pruove nella Storia del terzo secolo istesso di Roma, la quale a’ Cumani si diriggeva ne’ primi suoi tempi per le provvisioni frumentarie. Talmente che conchiuder possiamo, che trovando noi falsi, e contradittorj i racconti degli antichi, che voller Cuma fondata da una Colonia Greca; e vedendo per l’opposto che sin dai tempi Omerici i Cimmerj avean già edificata una Città, essendo essi venuti ad uno stato socievole, a costoro, secondo la norma delle più ragionevoli, e verisimili congetture, attribuir dovremo la fondazione e l’origine della nostra Cuma Campana. Potrei a questo proposito agevolmente mostrare 1’antichità de’ popoli detti Cimmerj, se oltre alle cose di sopra dette rapporto all’ordine fisico, mi fosse lecito di aggiugnere le riflessioni che ci somministra la Storia più antica. Ma, comecché troppo mi sia dilungato dal mio proposito, e debba ricondurmi sull’oggetto principale delle mie ricerche, non voglio non pertanto tralasciar di avvertire a qualche filosofo alla moda, il quale sotto nome di Cimmerj non sa veder che de’ barbari, che Strabone nel III Libro ci fa sapere sulle memorie antichissime, onde avea tratto la sua Storia Geografica, che i Cimmerj nell’età di Omero, o poco prima eran venuti sino alla Eolia, ed anche alla Jonia e che dai Cimmerj aveano apparato i Jonj alcuni de loro sacri riti. Osservate dunque qual cultura avevano ne’ tempi Omerici, ed anche prima gli abitatori delle terre vicine al Bosforo, onde eransi allontanate le acque, sicché Strabone non arrossisce di confessare che i cultissimi Jonj avessero da quelli appreso qualche sacra cognizione. Tutto in somma La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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ci dimostra, che se la grande antichità di quelle prime popolazioni, che da i monti eran discese su i piani lasciati dalle acque, aveale innanzi le altre tutte avvicinate a que’ gradi di coltura socievole, cui non si perviene se non per la mano de’ secoli; non dovrà recar meraviglia veruna, se i nostri Cimmerj, cioè que’ che fra noi i primi furono ad abitar le terre, ond’erasi allontanato il mare, civilizzati col tratto del tempo, avessero edificata una Città, che poscia divenne la più rispettata. e temuta del nostro littorale. Ma ben mi avveggo che, dopo queste cronologiche ricerche, comeché sia dimostrata 1’insussistenza delle tradizioni antiche sull’origine della nostra Cuma, non sappia nonpertanto persuadersi l’avveduto leggitore, che tant’Istorici antichi abbian bevuto grossolanamente una favola, o se l’abbian essi inventata senza che avesse questa un qualche appoggio sulla verità istorica. Per la qual cosa, come anche per mostrare onde mai sia nata quella tradizione degli antichi, fa uopo ch’io metta fine a questo paragrafo, fidando al meglio che sia possibile, l’epoca, e la cagione, per cui vennero i Greci a stabilirsi sull’antico agro Cimmerio, ciò che col tempo acquistò ai nuovi Coloni la falsa gloria di aver essi edificata Cuma: nel qual’esame mi lusingo di metter in veduta que’ fatti, che altri, ch’io mi sappia, non vide mai nel libro il più trito, qual’è l’opera stessa di Strabone. Questi nel V libro della sua Geografia, favellando della nostra Ischia, ci dice che gli Eretrei e i Calcidesi abitarono nell’Isola Pitecusa, ove felicissimi vivevano per la feracità del suolo, e per lo scavo delle miniere di oro. Siccome abbiam noi già dimostrato, l’Isola non poté venir abitata da Calcidesi e dagli Eretrei, popoli Euboici di due confinanti Città, se non circa il secolo terzo di Roma; epoca, la quale non solo nasce dal tempo, nel quale gli Eretrei Euboici ebbero il dominio del mare, ma corrisponde parimente all’età, in cui tale, qual ce lo descrive nell’accennato passaggio Strabone, esser poteva il suolo dell’Isola Pitecusa. Siegue a dirci lo stesso Strabone, che quelli coloni Euboici furono finalmente discacciati dall’Isola pe’ tremuoti, ed eruzioni vulcaniche, per l’azione delle quali l’isola stessa rimase inondata dalle acque del mare ribollenti. Ora in questa occasione appunto parmi che i coloni Greci abbian dovuto passare dall’Isola, in cui abitavano, sul continente vicino; quindi se noi potrem rinvenire 1’epoca di questa celebre crisi Vulcanica dell’isola Pitecusa, troverem parimente quella della venuta degli Euboici nella nostra Cuma. Ma dove mai cercherem quest’epoca, sprovveduti delle memorie, che sopra di tai cose ci avean lasciato gli antichi, e che il tempo ci ha involate? E pure egli è certo che dallo stesso Strabone ricavar la possiamo, se leggeremo con matura attenzione un prezioso passaggio ch’egli ci reca del Siracusano scrittore Timeo, dal quale verremo in chiaro sì dell’epoca, ch’indagar vogliamo, come della ragione, che agevolò agli abitatori di quell’isola il passaggio sul prossimo continente. Così siegue a dire Strabone, dappoiché ha favellato dell’eruzioni vulcaniche di Pitecusa: Timeo anche ci dice, che gli antichi divulgarono parecchie favole intorno a 12 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Pitecusa. Poco prima dell’età sua, ci narra che il colle Epomeo, sito nel mezzo dell’isola, dopo alcuni tremuoti eruttò gran fuoco sin dentro il mare, e che le materie bruciate venivano rigettate dal monte sull’Isola istessa, come altrettanti fulmini. La quale ignita materia essendo corsa nel mare per ben tre stadj, ritornò indi sull’Isola istessa, e quindi avendo portato seco su di quella le acque del mare, queste allagarono l’Isola, e ne estinsero le Vulcaniche fiamme. E che finalmente tal fu il fragore da una tal eruzione cagionato, che coloro i quali abitavano i luoghi vicini al lido del prossimo continente, abbandonando quel suolo, fuggirono nelle parti superiori, cioè le più mediterranee della Campania. Questo è il gran passaggio di Timeo, che servirà di chiara scorta alle nostre ricerche, Da Suida nel suo gran Lessico sappiamo che questo tal Timeo, il quale scrisse le cose italiche e siciliane in otto libri, fu di Taurmina, e pose tutta la massima cura nel dire il vero e che sopravvisse al celebre tiranno di Siracusa Agatocle. Questo Principe occupò il dominio di Siracusa, come sappiamo da Diodoro Lib. XIX nell’anno quarto dell’Olimpiade 115, che presso a poco corrisponde ai principj del secolo quinto di Roma, e propriamente circa il 430 ab urbe condita, innanzi Cristo 320 incirca. Morì Agatocle nell’Olimpiade 112 cioè circa l’anno 319 prima dell’era volgare. Se dunque Timeo fiorì sotto Agatocle, e visse circa la fine del secolo IV, e principj del V di Roma, nel qual tempo scrisse parimente la sua Storia. Ciò posto, venghiamo all’esame del suo racconto. Dice Strabone di aver Timeo scritto, che poco prima dell’età sua, cioè in cui Timeo vivea, era avvenuta questa enorme crisi Vulcanica, ch’egli ci narra, in Pitecusa; dunque dovette quella accadere nel principio del secolo quarto di Roma, se Timeo visse, come abbiam veduto, nella fine del quarto e principii del V secolo della stessa Roma. La crisi, che nell’addotto passaggio ci presenta Timeo, fu tale, che dovette bandir dall’Isola qualunque abitatore, sì per l’azione de’ fuochi vulcanici, come per l’inondazione del mare, ch’egli ci descrive. Dunque gli Eretrei Euboici, che un secolo prima, come abbiamo mostrato, eransi venuti a stabilir sull’Isola, in questa enorme vicenda vulcanica furono da quella cacciati; a tal che possiamo quasi sicuramente stabilire, che questi Greci coloni avesser posseduta l’Isola Pitecusa per lo spazio di un secolo, e più, e che verso il quarto di Roma fossero stati alla fine costretti a lasciarla. Lo stesso Timeo nel pocanzi addotto passaggio ci dice, che questa Vulcanica eruzione incusse un panico timore sull’animo degli abitatori del continente vicino, e talmente gli atterrì, che abbandonando il proprio suolo, si ricoverarono nella parte più mediterranea della Campania. Ecco l’occasione per cui si facilitò a coloro, che eran campati alle fiamme Pitecusane, lo stabilimento su quel vicino littorale. Gli Euboici, come avvezzi agli ordinarj fragori del monte Epomeo di Pitecusa, allorché l’Isola intera bruciò, non poterono se non rifugiarsi nel continente più vicino: or quivi appunto abitavano i Cimmerj, e vi aveano una Città già nota per la sua cultura e potenza, come abbiam veduto ch’era anche ne’ principi del terzo secolo di Roma;
dunque difficilmente sarebbe loro riuscito di francamente piantarvi il loro stabilimento. Ma opportunamente il vicino Vulcano, che oltre al suo solito avea bruciato, obbligò i Cumani, ossieno i Cimmerj indigeni di Cuma, ad abbandonarla, come attesta Timeo; ed ecco in che modo gli Euboici fuggiaschi dall’Isola vicina, trovarono la Città, e il suo agro vuoto di abitatori, in guisa che riuscì loro agevole di occuparla, senza che persona glielo avesse contrastato, giacché tutti gl’indigeni di que’ luoghi eran fuggiti nella Campania superiore, ossia più mediterranea, come sappiamo dallo stesso Timeo. Ed eccomi ornai giunti a mostrar l’epoca, nella quale gli Euboici da Ischia passarono in Cuma, la ragione per cui vi passarono, e ‘l modo come vi si stabilirono. La viva idea di una così enorme, e funesta eruzione fomentando per lungo tempo un panico ed eccessivo timore nell’animo degli antichi indigeni Cumani, non permise loro di ritornarvi se non tardi, e intanto diede campo agli Euboici di vieppiù stabilirvisi, avendo essi trovata una Città ben formata, e delle commode abitazioni, ed avendo forse portato seco non poco, di quell’oro, che nella primitiva loro abitazione, di Pitecusa cioè, giornalmente avevan cavato. Se noi avessimo la Storia de’ nostri luoghi, e se il tempo non ci avesse tolte le memorie, che di quella ci avean lasciato gli antichi, chi sa quanto sapremmo circa gli avvenimenti, che dovetter seguire nell’ordine politico fra quelli nuovi occupatori, e gli antichi indigeni del suolo Cumano. Se non che parmi di ravvisarne anche qualche vestigio presso Diodoro, e presso Dionigi d’Alicarnasso, comeché ambedue parlando di fatti loro noti per mezzo di tradizioni, e memorie politiche, non ci diano l’esatto ragguaglio delle circostanze di ciò che raccontano; difetto generale di tutti gli Storici, che noi abbiamo, come quelli, che avvezzi a considerar la grandezza Romana, ne’ tempi, in cui scrissero, appena degnarono le popolazioni, che più non fiorivano, di occupare alcuni piccoli vuoti nelle loro opere. Ambedue questi lodati Scrittori ci raccontano, che nella Olimpiade ottantesima nona i Capuani, e gli altri Etrusci Campani unite le loro forze assediarono Cuma, e la presero per assalto, usando contro de’ vinti tutte le più inumane, e barbare maniere. Ma di grazia non era quella la Cuma, che settant’anni prima avea mostrato lo stato delle sue forze superiore a tutte le altre vicine popolazioni anche del Littorale? Leggete l’undecimo libro dello stesso Diodoro. Come dunque settant’anni dopo avrebbe potuto succumbere vilmente, mostrando tante poche, e tenui forze contro una truppa di popoli men culti, e meno disciplinati, qual’esser doveano i Capuani, e gli altri Etrusci Campani? Tutt’altrimenti dunque andò l’affare, e noi ne intenderemo la ragione, ove seguiremo la scorta de’ fatti, che di sopra abbiam da Timeo ricavati. E per vero egli mi sembra probabilissimo, che gli indigeni Cumani, i quali presso i Capuani, e gli altri Etrusci mediterranei, come racconta Timeo, eransi rifugiati pel timore dell’eruzione Pitecusana, vedendo che gli Euboici, fuggiti dall’Isola, eransi impadroniti della loro Città, e delle loro terre, uniti ai loro
ospiti gli assediarono, mentre gli Euboici Pitecusani pel tenue loro numero, per le loro politiche circostanze, e perché sprovveduti di ogni soccorso in un luogo, ove eran nuovi, non valsero a resistere alle forze de’ Capuani, degli Etrusci, e de’ Cumani; i quali vendicando 1’occupazione, che quelli del loro territorio avean fatta, usarono avverso i vinti Euboici le più inumane crudeltà, che seppe dettar loro la vendetta contro di chi avea usurpato i beni, la Città, e le loro terre. Diffatti par che tutto tenda a confermarci in questa opinione; poiché Timeo ci dice che gli Euboici fuggiti dall’Isola si gittarono nel prossimo continente; e tal era l’agro Cumano. Egli ci dice, che i Cumani abbandonarono il suolo natio; dunque agevolmente poterono quelli occuparlo. Noi troviamo una disfatta degli abitatori di Cuma, che siegue dopo qualche anno dall’epoca, in cui gli Euboici Pitecusani eran passati sul continente Cumano, abbandonato da’ naturali; poiché un tal bellico avvenimento dee situarsi secondo Diodoro fra l’Olimpiade 88 e 89, le quali corrispondono appunto alla metà del secolo quarto di Roma. La crisi vulcanica di Pitecusa, come abbiam mostrato colle regole critico-cronologiche, avvenne appunto nel principio dello stesso secolo quarto di Roma. Dunque par che la Storia istessa ci confermi vieppiù nel nostro sentimento, recandoci parimente il dettaglio di quelle rivoluzioni politiche, che nella Cuma avvenir doveano, allorché dopo qualche anno gli antichi indigeni di quella volendo ritornare al suolo natio, e vedendolo occupato dagli Euboici, impegnarono le forze di quelle popolazioni, presso le quali si eran per quegli anni rimase, per discacciar dalle terre, e Città Cumana gli Euboici usurpatori; i quali perché in Cuma da qualche anno abitavano, facilmente presso gl’Istorici de’tempi appresso passarono per veri Cumani. Per conchiuder dunque. Da questa venuta degli Euboici da Pitecusa nella nostra Cuma, e dalla dimora, che per qualche tempo vi fecero, dovette senza fallo nascere la tradizione degli Euboici fondatori di Cuma; poiché agevolmente poterono quelli spacciarsi per tali, avendo fissata la loro sede in una Città vuota di abitatori, quale avean trovata Cuma, allorché vi passarono; e quindi farli considerare come i fondatori di quella. Parmi di aver portato quell’esame istorico, comechè sulle ali delle congetture, al punto della maggiore verosimilitudine, che sia possibile fra ‘l bujo dell’antichità, e la mancanza delle memorie. Mi rimane soltanto di prevenire il mio leggitore intorno ad un’obbiezione, che far mi potrebbe, cioè che una tal crisi Pitecusana avesse dovuto avvenire molto prima dell’epoca da me stabilita, se dopo di quella Jerone Tirrano di Sicilia mandò colà una colonia di Siracusani. Ma qui prego chiunque promuover potrebbe una cosiffatta obbiezione, a non lasciarsi ingannare da coloro, che confondono l’epoche, poiché la colonia Siciliana fu spedita in Ischia non già dal primo Jerone, ma bensì dal secondo Tiranno di questo nome verso la fine del V e principi del secolo VI di Roma. * La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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Periferia & Periferie Napoli - Le catacombe
Vie d’uscita
di Carmine Negro
Un mosaico del V secolo, sulla parete laterale della cripta, colpisce per la raffinatezza dello stile e la ricchezza dei motivi. Riproduce una figura maschile: carnagione scura, labbra molto pronunciate, volto scarno con grandi occhi, naso aquilino e zigomi sporgenti. Veste una tunica dalle ampie maniche e regge, con le due mani, un libro che sulla copertina presenta una croce latina con ai lati i simboli dei quattro evangelisti. Il fondo in oro, in parte perso, è bordato da una triplice fascia circolare in bianco, rosso e azzurro mentre sul resto della lunetta, su fondo blu, è riprodotta una decorazione vegetale con cesti di acanto, foglie e racemi in varie tonalità di verde, celeste e giallo, e fiori in rosso e arancione. Il mosaico, che è composto da tessere disposte in un ordito molto regolare, rivela una grande sensibilità nell’accostamento dei colori. Il mosaico ritrae lo sguardo triste di Quodvultdeus, letteralmente “quello che Dio vuole”, nato in Africa, ordinato diacono attorno al 421 da Sant’Agostino e dal 434 al 454, titolare della cattedra vescovile di Cartagine. Nel 439, con la caduta di Cartagine nelle mani del re dei Vandali Genserico, Quodvultdeus rifiutò di 14 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
aderire all’arianesimo, professato dallo stesso re e, per questo, costretto all’esilio con il clero a lui fedele, fra cui Gaudioso di Napoli. Gaudioso di Napoli, il cui vero nome era Settimio Celio Gaudioso, è stato un vescovo di Abitine, nella regione di Cartagine; dopo l’invasione dei Visigoti anche lui non volle convertirsi all’arianesimo e re Alarico lo costrinse ad imbarcarsi, assieme ad altri vescovi cristiani, fra cui Quodvultdeus, su vecchie navi in disarmo, senza vele né remi, mandandoli alla deriva.
Quodvultdeus
Approdarono fortunosamente a Napoli, dove Quodvultdeus fra il 445 e il 451 scrisse il Libro delle promesse e delle predizioni di Dio e prese parte alla lotta contro il pelagianesimo, mentre Gaudioso si stabilì poco fuori dalla città, sulla collina di Capodimonte, nei pressi dell’attuale Rione Sanità, dove costruì un monastero in cui introdusse la Regola agostiniana, ancora sconosciuta in Italia. A Gaudioso si attribuisce la traslazione a Napoli, dalla chiesa di Lacco Ameno, di alcune reliquie di Santa Restituta, che da allora furono custodite nella basilica paleocristiana dedicata alla Santa, oggi parte integrante del Duomo come cappella laterale, cui si accede attraverso la navata sinistra. La tristezza ritratta nello sguardo dell’africano Quodvultdeus, colpevole di aver testimoniato la propria fede dinanzi ai barbari di Genserico che avevano conquistato la sua Cartagine, era verosimilmente data dall’angosciosa solitudine di chi muore esule perché scacciato dalla propria terra natia e cerca nel calore di chi lo accoglie la possibilità di poter proseguire ciò che sente importante per la sua vita. In fuga dal Nord Africa questi antichi profughi, per sottrarsi da persecuzioni e repressioni, attraversavano su “carrette del mare” il tratto di acque che separa le due sponde del Mediterraneo e sbarcavano su lidi di terre sconosciute in cerca di ospitalità senza sentirsi clandestini. *** Ho dedicato la festa del 25 aprile 2013 alla visita di luoghi particolari di cui avevo sentito parlare spesso ma che non avevo mai visitato: le catacombe. La loro conoscenza ha consentito agli studiosi di ripercorrere, attraverso le stratificazioni sotterranee, le tracce delle civiltà, che si sono succedute e sovrapposte nella millenaria storia della città. È impressionante la quantità di informazioni contenute nelle viscere della La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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terra, emozionante l’atmosfera che si respira in queste vere e proprie città sotterranee dedicate alle sepolture un tempo pagane e poi cristiane. Situate nel sottosuolo dell’attuale Rione Sanità, in quella che veniva denominata la valle dei morti, una volta zona extra moenia, le ampie ed esclusive architetture sotterranee, gli antichi affreschi e i raffinati mosaici fanno di questo itinerario un viaggio nel tempo dove la stretta relazione tra la vita e la vita eterna è segnata da quel passaggio chiamato morte. Il nucleo originario delle catacombe più famose, quelle di Capodimonte, cominciò a svilupparsi attorno alla tomba di una ricca famiglia romana datata al II secolo. Il mausoleo fu successivamente donato alla comunità cristiana di Napoli e nel III secolo accolse i resti mortali di Sant’Agrippino, sesto vescovo della città. Poiché Sant’Agrippino era considerato il primo patrono e difensore della città di Napoli, il sito divenne ben presto luogo di venerazione. Successivamente tra il 413 e il 431 il vescovo Giovanni I trasportò le reliquie di San Gennaro, decapitato nel 305, dall’Agro Marciano, dove era stato sepolto, alle catacombe napoletane di Capodimonte, che da allora assunsero il nome del santo, sancendo ufficialmente la nascita del culto. Alcune fonti riportano che, «nella basilica grande riposa il venerabile corpo del beatissimo martire Gennaro … luogo di pellegrinaggio per sciogliere voti e sollecitare la protezione del martire nei momenti difficili, come quelli delle eruzioni vesuviane … presso di esso, avvenivano numerose guarigioni». Ed è la basilica grande denominata “Basilica Maior” l’ambiente che meglio contraddistingue per dimensioni e suggestioni spaziali le catacombe napoletane. Lunga settanta metri, larga dieci, e alta fino ad undici metri l’ampia basilica a tre navate e scavata interamente nel tufo ancora conserva numerosi affreschi del V e del VI secolo. Con i successivi am16 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
La famiglia di Theotecnus
S. Gennaro, Nicatiola e Cominia
pliamenti ha inglobato la basilica dei Vescovi, una vasta sala ipogea, dedicata alla memoria dei primi quattordici vescovi di Napoli così come testimonia l’ampio affresco, un vero e proprio catalogo figurato, che fu realizzato nella volta a botte sottratta al tufo. La realizzazione della grande basilica si rese necessaria quando il culto delle tombe dei martiri si andò affermando definitivamente e la presenza di folle di fedeli necessitò di adeguati spazi ottenuti attraverso l’ampliamento del piccolo ambulacro centrale.
A ridosso della basilica dei vescovi troviamo un altro luogo simbolo di queste catacombe: la cripta dei Vescovi. Scoperta nel 1971 a seguito degli scavi sulla parete occidentale della basilica dei vescovi, la cripta - abside situata a ridosso del sepolcro di S. Gennaro presenta all’interno quattro mosaici di altrettanti vescovi, due dei quali sono riconoscibili nelle persone di Giovanni I e Quodvultdeus; gli altri due sono invece di vescovi anonimi. Il mosaico di Giovanni I, il quindicesimo vescovo napoletano raffigura uno
sguardo sereno, ridente e rilassato; la pacatezza dell’anima traspare attraverso quel sorriso rassicurante e quegli occhi che fissano carichi di devozione i luoghi in cui egli volle la deposizione del famoso vescovo di Benevento. Un capitolo a parte meritano gli affreschi che questi spazi sotterranei hanno saputo conservarci riportando ai giorni nostri una rappresentazione figurativa di grosso impatto emotivo e di grande ricchezza informativa. Tra gli affreschi la più antica immagine di S. Gennaro (V secolo) al centro del dipinto, tra una bambina a sinistra, Nicatiola, ed una donna a destra, Cominia, probabilmente sua madre che guardano frontalmente, in atteggiamento orante. Ai lati del santo, in modo da dividere le tre figure, due candelieri hanno le torce accese mentre il nimbo che cinge il capo del santo con le prime lettere del nome greco di Cristo, segno di specialissimo onore, indicano la grande considerazione avuta nei confronti del Santo già all’epoca. Tra gli altri affreschi che ritraggono San Pietro, San Paolo, San Lorenzo, la catechista Bitalia, spicca quello della famiglia Theotecnus (inizio VI secolo) uno dei migliori esempi di pittura bizantina napoletana. Presenta un gruppo familiare di tre defunti: una bimba di due anni e dieci mesi, Nonnosa, con i genitori Theotecnus e Ilaritas, in atteggiamento orante. La bimba è centro compositivo e centro degli affetti di famiglia; il padre e la madre che ritirano con tenerezza il braccio per lasciare liberamente pregare la piccola sulla quale scende dall’alto, per mezzo di due lacci rossi, una coro-
na fatta di fronde di alloro con una grossa gemma al centro, simbolo del premio eterno ricevuto dai discepoli di Cristo. Le candele accese ai lati della composizione indicano una famiglia unita nella fede, che dopo la morte, gode delle gioie del paradiso. La fibula posta sulla spalla destra di Theotecnus e la ricchezza degli abbigliamenti del padre e della bambina sembrano suggerire di trovarsi davanti ad un alto funzionario bizantino, forse un senatore. Il ventre della città che custodisce storie di altri tempi sembra ricordarci che Napoli appartiene a due mondi, quello in superficie fatto di luce, colore e folklore e quello sotterraneo fatto di misteri, esoterismo e misticismo. Le catacombe di San Gennaro racchiudono molto bene queste due anime della città che spesso convivono e s’incontrano in tanti luoghi storici e di culto come questo. *** Via Toledo in questo giorno dedicato alla liberazione è particolarmente allegra con tanti artisti di strada a suonare, ballare e mimare per la gioia dei più piccoli e di quanti non lo sono più. Ogni tanto un’auto della Polizia Urbana, della Finanza o dei Carabinieri si fa largo tra la folla che ha invaso con i larghi marciapiedi la stretta carreggiata dei veicoli. Sulle scale del Banco di Napoli mi riposo per la fatica della passeggiata alle Catacombe, per assaggiare insieme a tanti, turisti e non, i prelibati gelati che si possono acquistare, nei negozi della strada che lavorano in modo artigianale questi gustosi prodotti. Pochi minuti ed un vero e proprio mercatino viene creato sul marcia-
piede di fronte. Un grosso lenzuolo viene steso a terra e il contenuto allineato: borse, pochette e trousse di marche famose si offrono in bella mostra e a costi concorrenziali a quanti passeggiano. Di fianco un cartone piegato diventa il supporto di un altro cartone su cui sono già fissati rossetti, profumi, e prodotti di bellezza femminile. Un ombrello si apre e diventa un altro spazio espositivo per la vendita di orecchini che sono già fissati nella copertura di stoffa. E poi ancora una valigia di legno per la vendita di collane e bigiotteria varia. Poco distante un carrozzino per bambini è trasformato in un carrettino pieno di ombrelli e ombrellini nella speranza che il tempo diventi meno clemente ed uno scroscio provvidenziale aumenti la richiesta del prodotto. Dietro questi negozi improvvisati tunisini, asiatici e tanti giovani negri. Il loro sguardo è rivolto alle tante persone che passeggiano ma anche alle auto delle forze dell’ordine che sono appena passate. Dopo poco un tam tam di suoni e voci si mescolano, si accavallano e si trasmettono tra i giovani venditori. In pochi secondi gli ambulanti sbaraccano. Si chiudono le casse di legno con le collane e la bigiotteria e gli ombrelli con gli orecchini mentre le lenzuola con le borse vengono prese sulle spalle per fuggire nelle strade laterali. In pochi attimi i marciapiedi sono ritornati liberi e i loro occupanti svaniti, inghiottiti dal groviglio di strade che si snodano nel labirinto dei quartieri spagnoli, resi invisibili dalla paura e dalla clandestinità. Carmine Negro
La Rassegna d'Ischia Periodico di ricerche e di temi culturali, turistici, politici e sportivi
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Premio Internazionale di Poesia
“Ciro Coppola”
per lo studente Italiano e dell’Unione Europea
La “Pro Casamicciola Terme” bandisce la XXXVI edizio-
ne del Premio Internazionale di Poesia “Ciro Coppola” per lo studente Italiano e dell’Unione Europea. Al concorso posso partecipare gli studenti: a) residenti nell’area geografica italiana o all’estero, iscritti per l’anno scolastico 2012/2013 ad una classe della scuola secondaria superiore (licei, istituti tecnici, professionali, d’arte); b) dei Paesi dell’Unione Europea iscritti per l’anno scolastico 2012/2013 ad una classe della secondaria superiore od istituti corrispondenti. Le poesie concorrenti dovranno essere al massimo due in lingua italiana (lunghezza non superiore a 40 versi) dattiloscritte in 11 esemplari su foglio bianco A4 e devono essere inviate, entro e non oltre le ore dodici antimeridiane del 19 agosto 2013, al seguente indirizzo: Premio Internazionale di Poesia “Ciro Coppola” - Edizione 2013 - Associazione Pro Casamicciola Terme - 80074 Casamicciola Terme (Napoli). II Premio per la poesia vincitrice è di Euro 600,00 oltre al Premio del Presidente della Repubblica ed altri riconoscimenti. Gli autori delle poesie segnalate riceveranno targhe e 200,00 Euro. Il premio in denaro dovrà essere ritirato personalmente dall’autore/trice durante la cerimonia di consegna dei riconoscimenti. La “Targa Calliope” sarà assegnata a quell’Istituto che, in edizioni diverse, sarà rappresentato da tre partecipanti al Premio “Ciro Coppola”. Tale riconoscimento prevede anche un premio di Euro 500,00 che dovrà essere destinato all’acquisto di libri per la biblioteca scolastica dell’Istituto assegnatario. La cerimonia di proclamazione della poesia vincitrice e di quelle segnalate, con la consegna dei relativi premi e riconoscimenti, avverrà entro il mese di ottobre 2013 in Casamicciola Terme, salvo eventuali spostamenti per impedimenti di carattere organizzativo. Ulteriori e precise disposizioni di regolamento possono leggersi sul sito : www.premiocirocoppola.org *
Sul sito www.santandrea.ru - curato da Mikhail Talalay - nella sezione "Luoghi sacri del Meridione" è stata inserita una presentazione di Santa Restituta, Patrona dell'isola d'Ischia, e degli omonimi scavi e santuario di Lacco Ameno, con alcune foto illustrative. L'articolo è disponibile per la lettura soltanto in lingua russa. 18 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia Si pubblica, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il testo del manoscritto adespoto identificato come "Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia", conservato presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Napoli, Fondo S. Martino, ms 439, ritenuto, secondo quanto scrive Agostino Lauro (1970), «degno di attenzione da parte di chi si è interessato alla storia d'Ischia negli ultimi trenta anni». Ma «le conclusioni alle quali sono pervenuti i diversi studiosi, dopo esame più o meno diligente di esso, non sono concordi sul valore, sul tempo della compilazione, sull'autenticità dell'opera» (A. Lauro1). Rimandando ad altra occasione il riferimento specifico a coloro che hanno voluto ricercarne e valutarne gli aspetti controversi sopra indicati, diciamo che il manoscritto è diviso in tre parti con i seguenti titoli: 1) Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia (fogli1-101). 2) Ragguaglio istorico topografico del castello d'Ischia (fogli 102-129). 3) Ragguaglio istorico ecclesiastico d'Ischia (fogli 130-174). Trascrizione del testo di Giovanni Castagna
1) Lauro Agostino, A proposito di un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli, in Archivio storico per le Province napoletane, terza serie, anni VII-VIII - LXXXV-LXXXVI dell'intera collezione, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1970.
Ragguaglio istorico topografico della Isola d’Ischia Ischia, isola sita nel mare cumano, nel mare tirreno, nel mare mediterraneo, sta circa il grado 41 di latitudine e il grado 38 di longitudine. È di circuito 18 miglia italiane, e piedi 750 inclusa ancora la misura de seni. La costante tradizione ha sempre divisato miglia 18. Gli storici napoletani pure di tale misura la divisavano, quindi in tempo del Re Carlo III di Borbone essendosi fatta dell’isola una misura in regola dagli ingegneri ed esperti, effettivamente fu trovata di miglia 18 e di piedi 750. Però giusta le osservazioni con tutta esattezza fattesi si è rilevato che il circuito dell’isola di molto si è diminuito da quello che era nel tempo antico, atteso che il mare in tutto il giro di essa di molto e molto l’ave roso e nel litorale e nel territorio ed assai di più dove domina la marea del vasto pelago, in maniera che il mare in tutto l’accennato circuito e territorio non solo è entrato notabilmente in dentro ma ben vero dal proprio livello sin a qualche passo si è inalzato ed elevato, e non c’è dubbio. Il suo sito è uno dei più belli, delli più ameni, delli più piacevoli, delli più vistosi e delli più soddisfacenti del mondo. La sua aria ed atmosfera è forse la prima, la più elastica, la più vibrante, la più salubre, la più giovevole e la più vivificante.
Essa è distante dalla prima terra in prospetto e verso il nord, cioè da Procida e propriamente da Guevara, miglia 3. Dal continente e dal sito dell’antica Cuma miglia 8; da Pozzuoli miglia 12 e dalla Capitale di Napoli miglia 18. La sua costa rimpetto al nord, principiando dal Castello della Città, e tirando fin’a monte di Vico, anziché fin’alla punta del Caruso, è quasi in retta linea, la quale è di lunghezza di circa miglia 6; continente la città d’Ischia colla villa de Bagni e li comuni di Casamicciola e del Lacco. Tale costa, da suoi piani e lungi assai dai suoi rialti e colli e monti, tiene una vistosissima e molto vaga e dilettevole prospettiva. Guarda dalla parte dell’Est l’isola di Capri, la Licosa, il sito della antica distrutta Pesto e di Acropoli, il Capo Prenusso, li lidi, li piani e li monti di Massa, di Sorrento, di Vico e di Castello a mare; e li monti di Gragnano, di Lettere e di Nocera; indi la costa di Pompei e delle due Torri colla grata Portici e colli monti del Vesuvio e di Somma. A nordest mira la bella, deliziosa e gran Città di Napoli co’ monti di Sant’Eramo ed Ermeo e colle giolive ville ed ubertose campagne del Vomero e Posillipo. In prosieguo Pozzuoli co’suoi fertili territori e colli monti de Camaldoli, e Lilibeo, che col Monte Gauro e colli vaghi promontori e colli di Miseno, di Baia, della nobile villa distrutta Bauli e di Miliscola, volgarmente detto Monte di Procida, come il gaio e lieto cratere pieno e colmo di gustosi pesci, che benvero fan graziosa veduta di Guevara e Procida. Al nord poi e guarda, e vede li siti delle antiche distrutte Cuma, Literno, e Vico, e Patria; che la di loro graziosa riviera , e la campagna felice cogli intersparsi laghi di Miseno, e del Fusaro, di Licola e di Patria, e colli spaziosi, e speciosi territori del Volturno e Garigliano, e non meno la piacevole e diletta vista de’ territori de nomati monti Falerno e Marsico, che la tirata de’ monti di Sessa, di Traietto, e di Mola, come di Gaeta e del Circello. Quindi dal monte di Vico e del Caruso tirando innanzi la linea della costa, e piegando, e curvando verso il nordest, e il vest si fa avanti il comune di Forio, e la villa di Panza; d'onde rispettivamente si rimira parte dei monti di Gaeta, e il Circello, colle isole di Ventotene in distanza a 30 miglia e di Ponza a’ 60, e il mare formiano, e toscano, e corso, e sardo. Fratanto la linea sempre più curvando, e circolando si arriva al litorale del comune di Fontana, di Serrara, e di Santangelo, il quale litorale è da una parte rimpetto al mare libico, da un’altra al mare del sud, e siculo, e dall’altra al mare calabro. E così tale linea proseguendo avanti, sempre curvando ed insensibilmente circolando si giunge al lido, ed alla costa di Testaccio e de Maronti, e successivamente poi al litLa Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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torale della catena de monti della villa di Campagnano; e finalmente al Castello d’Ischia dove da per tutto si vede il mare dell’est coll’Isola di Capri, e col Capo Prenusso, e col seguito de suoi monti. La quale descritta Isola siccome un tempo da un antico geografo (Ptolomeo) fu annoverata tra le isole fortunate; così che da un poeta (Ariosto, 33,29), il quale l’innalzò alle stelle, venne decantata: Né quest’isola avrà da starsi cheta, che non s’essalti e non si levi al Cielo. Se la stessa fusse stata un prodotto comparso colla creazione delle cose, e del mondo, o così comparso dopo il diluvio, o veramente avvenuto per un effetto di straordinaria mossa, e crisi della natura, e dappoi nelle sue parti da volta in volta, e da tempo in tempo vulcanizzata per causa e per successi di sotterranee eruzioni, esalazioni, accensioni, effervescenze, sovversioni, ed esplosioni, o pure fusse stata un ammasso di vasti e di diversi vulcani prodottisi dalle violenti ignee esplosioni della materia sulfurea, ferrea, aluminosa, alcalina, vitriolica, nitrosa, bituminosa, piria, e di ogni altra materia atta ad accendersi, ed a produrre vomiti di fuochi dalle viscere della terra, e dalle parti interne, e recondite della stessa col tramandarsi fuori monti, e masse vulcaniche, onde in isola si avesse potuta formare, ed effettivamente si fusse formata, non è cosa tanto facile a decidersi, a fissarsi, a determinarsi. Certi osservatori, e viaggiatori in vero si sono fatti leciti di asserire essere l’isola un totale prodotto vulcanico, ma senza ragioni, ed argomenti; e non si dubita, che fattasene della stessa un’esatta analisi, ed una ponderata osservazione sì nell’interno di essa, che nell’esterno, e nel littorale, si è rilevato, e conosciuto di essere il tutto un prodotto, ed un ammasso di vulcano di diversa ignea materia da tempo in tempo esalata, ed esplosa. Infatti il tutto è pietra vulcanica, e monte di pietra vulcanica, durissima, e densissima, e quasi focaia, e di colore bronzino, e piombino, e rosaceo, e nero, siccome parte della stessa pietra comparisce rara e porosa, altra rarissima, ed altra molto leggiera. Degli accennati vulcani di volta in volta, e da tempo in tempo successi, erettisi, ed elevatisi in colli, in promontori, in monti, e in corsi, la pietra, e la materia vulcanica in taluni luoghi e parti si è mantenuta ferma, e dura; in altri si è corazzata, in altri si è sciolta in lapilli, in sabbia, ed in rena, ed in altri si è modificata in materia terrosa, argillosa, cretacea, e puzzolanica, come anco in tufo, e quasi tufo. Ma quanto in essa comparisce, ed esiste, si conosce, e si rileva con evidenza di essere stato un totale effetto di eruzioni, e sovversioni vulcaniche derivate da inesplicabili, inintelligibili, ed eccessivi fuochi formatisi sotto il suo suolo, e sotto la sua terra, e nelle sue sotterranee interne parti, e con somma violenza al di fuori esplosisi, tramandatisi, ed eruttatisi. Benvero però tali fenomeni, e comparse non furono causa, e principio di formarsi una isola, ma bensì quella isola esisteva, in tutte le sue parti da volta in volta, e da tempo in tempo divenne vulcanizzata dall’esalazione, ed esplosione 20 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
de fuochi sotterranei perché l’isola in se stessa, e per se stessa è un continente ben congiunto, ligato, ed attaccato: onde se fusse stata totale prodotto vulcanico, tale congiunzione ferma, forte e totale non ci sarebbe stata, né ci avrebbe potuta avvenire, mentre ogni vulcano, ed ogni esplosione ed ignea eruzione avrebbero formato naturalmente tante isole, e tanti monti isolati, quanti essi si formavano, e fuori si tramandavano, di fatti allora quando successe alcuna eruzione sotterranea vulcanica in qualche piccola distanza dal continente dell’Isola, formò un’isola a parte, come si verifica nel castello d’Ischia, nel promontorio di Sant’Angelo, ed in tante elevazioni vulcaniche, le quali sotto il mare si osservano; ed essi come vulcani diversi, ed in vari tempi avvenuti, diverse elevazioni producevano, che non avevano che fare, né attaccavano colla isola. Dunque, l’Isola non è un totale prodotto vulcanico, ma bensì un’opera della natura da volta in volta, e da tempo in tempo vulcanizzata. Nella medesima non esiste pianura, ma tutto è colle, monte, promontorio. Talune valli, aperture, passaggi, vie, piccoli piani, e screpolature, si veggono, e si osservano, non sono altro che gli ultimi effetti, ed azioni de fuochi e de vulcani, i quali si restringono, e vengono a restringersi, e ritirarsi, all’ora quando gli vulcani, e li fuochi stanno per estinguersi, e la di loro agibile attività per finire. Intanto se si guarda alcuna pianura, essa è appunto la falda, la scoscesa e la spiaggia de’ monti, che per la legge del declivio suole correre verso il livello del mare, ed allorché il fuoco vulcanico fa le proprie mosse, e li corsi: siccome è quella pianura, la quale si osserva in tutto il territorio di Forio, essendo una falda dell’Epomeo; e come era quella la quale si mirava un tempo, ed esisteva a vista del Castello; e che non ostanti la sua ultima eruzione, e sovversione vulcanica, pur tuttavia si mantenne in pianura. Fa d’uopo leggersi per semplice curiosità quello che si è rapportato dopo l’enunciativa de’ vulcani della regione bruciata, mentovati da Baronio, su l’assertiva troppo arbitraria del Baccio su ‘l detto di Servio, che l’isola d’Ischia ed unita a quella di Procida si fusse un tempo distaccata da un monte nominato Inarime, che stava vicino al monte di Miseno. Tale Isola viene colli seguenti nomi, nomenclature, voci, e vocaboli chiamata, divisata, e fatta intendere dagli scrittori greci, e latini, sì antichi, sì della media età, e sì posteriori. Arime, prima da Omero, poi da Pindaro; e forsi dalle voci greche Arim et Arii significanti ardore, ed ardori, o perché in essa vi poterono venire ad abitare taluni di quelli popoli così nomati i quali abitavano quella parte dell’Asia minore, che si accostava verso la costa meridionale del mare nero; o veramente dagli Arimi del Regno di Cilicia potuti venire nell’Isola col di loro Re Tifeo, quando fu scacciato dal di lui nomato regno, ch’era di Cilicia. Inarime, prima da Virgilio, poi da Ovidio, Solino, da Lucano, e da altri, li quali seguendo il senso, e l’intelligenza di Omero e di Pindaro, unirono la preposizione IN alla voce ARIME, che stando divise ne’ detti scrittori poeti, essi
le congiunsero, e ne formarono la voce INARIME (si legga quello che si accenna di Servio e del Baccio come poco sopra si è citato su l’Inarime, abbenché il Cluverio proteggendo Virgilio nel l.1 c. 1 cita Massimo greco revisore antico di Omero, il quale assicura che per le di lui mani passò un codice delle opere di Omero, in cui incontrò la preposizione in e la voce arime, unite ed in questo modo εωαρίμοις. Pithecusa -ae, o Pithecusae -arum dagli scrittori soprattutto greci, che la fecero derivare dalla voce greca πίθος (pytos) πίθον, corrispondente alla voce latina Dolium, ed alla italiana Ziro, botte, e qualunque vaso va al rotondo; ed appunto perché in essa isola, e fin dagli antichissimi tempi, specialmente in Casamicciola ci era, come ci è, la fattura, la costruzione, e la fabbrica di ziri, di tubi, e di altri vasi, attese le grandi ed inesauste miniere della creta, e dell’argilla sempre in essa esistenti; onde de’ grandi e sorprendenti Ziri si sono ritrovati sotterrati, ed anco da dentro foderati, e coverti di piombo, e di consimile genere. Della voce Pithecusa più appresso se ne farà più distinta menzione, e parola. Ænaria. Da Tito Livio, da Plinio e dagli scrittori latini e, successivamente, da quelli italiani. Plinio nel l. 3 c.6: Ænaria ipsa a statione navium Æneæ. Omero Arime dicta. Græcis Pithecusa. Poco appresso ci è occasione di farsene più distinta parola. Leucotea. Da Mela così sembra divisarsi e nomarsi. Egli nel c. 6 situa molte isole, che opina esistere nel mare infero, ma napolitano: Pithecusas, Leucotea, Ænaria, Sinonia, Capreæ, Prochita. Onde taluno scrittore pure per Ischia la intende. Gerunda. Dagli storici di Napoli scrivendosi de fatti della media età.Voce antichissima addetta a denominare e divisare il Castello d’Ischia et isola d’Ischia; e sin dal tempo che Ierone Re di Siracusa mandò nella stessa una colonia di siracusani per abitarla; ed allorché stava abbandonata per la partenza da essa degli Eritriesi cumei e Calcidesi, mentre era ben nota al detto Re filosofo la fertilità e la ricchezza della Isola. Intanto li mentovati coloni avendo edificata una città sul divisato Castello, li apposero in onore del proprio re il nome di Ierone. Le carte geografiche e nautiche ritenenti le antiche denominazioni, così la tengono designata e sotto il nome di Geronda, Girunda e Gerona ed in particolare il Castello. Insula. Dagli antichi scrittori latini e da quelli della media età. L’isola d’Ischia per antonomasia in diverse età con tale voce venne designata e chiamata e propriamente colle voci di insula ed insulana; ed a ragione mentre nel mare infero napoletano non ci è isola che l’uguaglia nella grandezza, nella montuosità, nelle prospettive, nella salubrità e nella cospicuità. Strabone così la fa intendere nel l. 5. Insulam, quam Augustus neapolitanis, ut Capreas acciperet, ab illis vocat Pithecusas. Appiano l. 5 civ. Libo ad insulam Pithecusas appulit, quæ nunc est Ænaria.
San Gregorio Magno nella lettera 53 disegna l’isola e il Castello colla voce Insulas. Li Padri di San Mauro nel fare una esatta edizione delle opere e dell’epistole di San Gregorio nella nota alla lettera 53 sotto l’epigrafe Gussane spiegano e divisano la voce insula col nome Icla seu Ischia; ed essendosi osservate le varie edizioni parigine colle note, e la veneziana del 1771 coll’aggiunta del Gallicciolli così sempre si è trovato scritto e notato. L’autore della nota Gussane si fa conoscere ben inteso di geografia e topografia e così lo sono li dotti Padri di San Mauro e il Gallicciolli. Si sta solo nel dubio che l’antico copista nel dovere scrivere Iscla, omise la lettera s e poté scrivere e scrisse Icla, e così venne proseguito. Qualche antica carta e documento, che fu esente dalle fiamme e dall’incendio del 1656 allorché fu bruciato l’archivio vescovile, divisa e fa intendere Iscla ed Ischia sotto le voci insulas e insulana. Il vescovo Nicola nel 1396 divisando e denominando la sua chiesa cattedrale isolana e tenendo occhio alla voce usata nella media età, si spiega con questi termini: Altare sub vocabulo S. Anna positum in maiori Ecclesia insulana. – Istrumento in pergamena L.B. – E in una iscrizione del 1331 tra le altre: Hic jacet dominus Petrus Bonomane Archidiaconus insulanus. Floruit hoc mundo centum tribus annis. Le antiche voci e vocaboli, i quali si usavano in Italia, avendo sofferto col miscuglio delle diverse barbare lingue ed indi colla mutazione dell’antica natia lingua, una cert’alterazione, una posposizione ed anco toglimento di lettere ne avvenne che le voci e li vocaboli ancora Insula et Insulana fussero state dappoi scritte e proferite sotto le denominazioni e voci d’Iscla e d’Isclana, ed indi d’Ischia. E questa è appunto l’etimologia d’Iscla, d’Isclana e d’Ischia. Iscla. Dagli atti ecclesiastici, dalle bolle, dalli diplomi Reali ed Imperiali e dalle antiche iscrizioni ed anco del 10 e dell’11 secolo. Icla. Dalla nota Gussane nella lettera 53 di San Gregorio giusta l’edizione de Padri di San Mauro e la veneziana, delle quali sopra si è fatta espressa menzione. Icla, Ischia. Ischia. Dalli scrittori del 13 e 14 secolo che dal Petrarca e dal Boccaccio; la quale voce è la stessa che l’antica voce Iscla, essendosi alterata la lettera l col farsi divenire h ed i. Non bollì mai Vulcan, Lipari ed Ischia. Ricercate le carte ecclesiastiche e civili della Città e della Isola d’Ischia, non si è potuto tenere lume del tempo e del quando l’isola cominciò a chiamarsi e nomarsi colle voci d’Iscla e d’Ischia. Da qualche libro parlamentario, da talune schede di notari, da alcuni libri parrocchiali e da certe private carte, le quali più antiche appena arrivano al meno di tre secoli, non contengono che le voci d’Iscla, d’Ischa e d’Ischia. Tale voce potrebbe essere belgica, portata in Italia dalle nazioni barbare ed in specie dalla longobarda, mentre tra le La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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nazioni belgiche e quelle del nord, le quali invasero soprattutto l’Italia, ci era gran comunicativa e commercio. Nella Gran Brettagna verso la Sabrina ci erano due scaturigini e fonti di acque calde chiamate da Ptolomeo e da Antonino Ischalis, Iscalis. Isca Gallena, Iscalis Brittaniæ. Onde tale voce poté applicarsi ed adattarsi all’isola d’Iscla, d’Isca e d’Ischia, dove sono innumerabili scaturigini d’acque calde e fonti perenni; delle stesse voci sarà per farsene menzione poco più appresso e con più distinzione. Nella parte di Squillace ci è una contrada, o sia parrocchia, che forsi ancora feudo, che si denomina Isca. Tiphœa. Da molti scrittori, cioè isola gettante fuoco. Inarima iuxta Procitam. Da un antico manoscritto contenente gli atti di Santa Restituta. Adrima juxta Placidam, alias Procidam da una copia del cennato manoscritto. Ænaria iuxta Placidam da una seconda copia. Ænaria iuxta Prochitam et Procidam dalla leggenda dell’officio napoletano di Santa Restituta dell’anno 1500. Hadrima da Davide Romeo nello Epitome di Santa Restituta. Ad Hadrimam parvam insulam prope Prochitam. Ma tali prossimi nomati scrittori siccome divisano di poco o nulla sapere di geografia e di topografia, così nulla curarono di leggere almeno gli indici dei libri geografici. Senaria, Sevaria, Savaria da uno scrittore che intende con tali voci essere stata ancora divisata l’isola d’Ischia; le quali forsi poté rilevare da manoscritti, ma le stesse non hanno potuto né poterono fare intendere l’isola d’Ischia, abbensì fare intendere e divisare certi luoghi particolari dell’Isola, di fatto un comune che si poté chiamare in qualche antico tempo Sevaria, attualmente e da secoli viene chiamato Serana e Serara, che esiste nella parte dell’isola quale riguarda il sud. L’Ermolao, il Volaterrano, il Giovio ed altri niun occhio e nessuna mira avendo tenuto all’antica nomenclatura usata nella media età, d’Iscla, si sono dati all’intutto a commentare e ad illustrare colle di loro erudizioni l’ultima voce e denominazione Ischia. La voce Ischia prima fu apposta ed applicata al Castello, indi alla città, poi all’Isola. Il Castello d’Ischia è un’alta e gran rupe e scoglio di pietra dura, e quasi silicia a colore di piombo, che in un tempo antichissimo e remotissimo si elevò e s’innalzò in mezzo al mare dalle sue viscere e da suoi sotterranei luoghi per effetto di una spaventevole inesplicabile ignea accensione, eruzione e vulcanica esplosione. Lo stesso per il proprio sito essendo più che forte, anziché inespugnabile e soprattutto in quel tempo, in cui non ci era il cannone, né le bombe, dagli additati scrittori si vuole far credere e darsi ad intendere di essersi chiamato Ischia, derivante dalle voci greche ΙΣΧΙΣ fortis (Ischys): ΙΣΧΥΡΟΣ fortitudo (Ischyros). Francesco de Petris si fa lecito entrare in una erudizione più rara e ricercata e di far derivare la voce Ischia dalle voci 22 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
latine coxendix, e coxa, e dalla voce greca IXIOY coxa, significanti l’Ischio e l’osso d’Ischio, qual è quell’osso sito da sopra la coscia, su cui l’uomo con fermezza, robustezza e fortezza si sostiene; e così si vuole alludere all’antichissima famiglia Coscia (Cossa), la quale sempre dominò nel Castello, nella Città e nella isola d’Ischia. La detta famiglia tiene per stemma la gamba e la coscia, Quindi già ché li scrittori hanno trattato di riferire su la voce Ischia tante parole erudite ad oggetto di pervenire al chiaro della di lei etimologia, senso e significato, si opina rapportarsene altre, affinché su la voce Ischia venisse formato un buono e grande ammasso di parole erudite. Nella gran Bretagna verso la Sabrina nei confini dello antico regno dei Belgi due scaturigini e fonti d’acque esistevano, le quali Antonino chiamò acque del Sole e Ptolomeo acque calde; le medesime apportavano e recavano sanità e salute a coloro che ne facevano uso. Antonino facendo parola di quei luoghi li chiama Isca Gallena, Isca Siluris, Isca Dummoniorum, Iscalis Brittaniae. Ptolomeo li chiama Ischalis, Iscalis. Lo che di sopra si è accennato. Essendosi fatta menzione dell’epistola 53 di San Gregorio Magno, si dichiara di essersi la medesima diretta a Romano difensore e con essa San Gregorio dà le forti premure, acciocché si fusse in tutti li modi cooperato, onde fussero restituite a Leonzio le isole tolte alli seniori e cittadini napoletani, giaché egli ne aveva ottenuti gli ordini del principe Imperiale Maurizio, siccome per lo passato gli Imperatori benvero haveano comandato. Queste isole appunto mentovate da San Gregorio sono le isole d’Ischia e del Castello d’Ischia, le quali furono da Ottaviano Augusto cedute in cambio ai Napoletani, mentre essendo sotto il dominio romano, se ne fece la cessione in vece dell’isola di Capri, che essendo sotto il dominio di Napoli, venne ceduta all’Imperatore Augusto ed all’impero romano. Ischia e il Castello d’Ischia sono le due isole intese da San Gregorio, una volta di cittadini napoletani, da poi dei romani ed in appresso da Augusto restituite ad essi napoletani per la cessione di Capri di antico dominio degli stessi e non Procida e Nisita, le quali si avevano e tenevano tanto a vili che vennero sempre possedute da privati Baroni, né mai di esse si fa menzione di essersi a Napoletani cedute o possedute da medesimi, che fittate e poi restituite. Li Padri di San Mauro e il notatore veneziano dottissimi nella lettura de scritti della media età, approvano la nota Gussane, il quale si rileva sapere bene la geografia e la storia ed in dove si legge la voce Icla ed Ischia e la dà e le divisa con tale denominazione. Gli antichi e successivi scrittori fanno menzione di Pithecusa e di Pithecusæ e le danno ad intendere alle volte per un'Isola e alle volte per due Isole: vale una l’isola grande e montuosa, e l’altra il Castello, il quale presso le nazioni era di somma riputazione sì per la di lui fortezza e sicurissimo sito, e sì per essere stata un’antichissima Città, e cospicua per le di lei nobilissime famiglie e pel valore dei cittadini. Ovidio più di ogni altro fa rilevare e conoscere che la
voce Pithecusa e Pithecusæ fu addetta ed apposta al Castello: egli distingue e divisa Inarime, Prochita e Pithecusæ, e poi situa e pone le Pithecusæ sterili colle locatas. Mss. 1.19: Inarimen, Prochitamque legit, sterilique locatas colle Pithecusas. Questo colle è appunto quella rupe e quello scoglio vulcanico, quale forma in mezzo al mare un’isola sterile di sua natura, che sterilissima per essere una pietra vulcanica silicea senza terra. Ovidio non intendeva né poteva intendere della isola d’Ischia perché non è un colle, ma un gruppo ed un ammasso di colli, di promontori, di alti monti; ed essa non è sterile, ma bensì sempre ubertosa e fertilissima e fin dalli tempi delle occupazioni degli eritresi cumei, calcidesi, siracusani e napoletani. Il Silace presso il Sinedo nelle annotazioni a Stefano Bizantino con Ovidio più distintamente e chiaramente fa conoscere il Castello veniva effettivamente inteso e chiamato Città, come quello che per più migliaia d’anni venne chiamato e fu veramente Città con terra, borgo e Castello e dove esisteva tutta l’abitazione, che da poco si disperse per l’Isola intiera Pithecusæ, seu Pithecusa insula in Campania habebat civitatæ cognomen. Le Pithecusæ o Pithecusa Isola della campagna aveva una Città con tal cognome o vero aveva tal cognome la Città. Tre uomini dotti ed eruditi del secolo 17 si presero l’ingrato piacere e scherzo di drizzare la di loro lincea vista sull’Isola d’Ischia e di metterla in tutto dipreggio, e nel tempo stesso di far rilevare ed arguire che niun conto debba farsi prima di quelli antichi gravi scrittori e greci e latini, i quali dissero fondate parole su essa e poi di quei che dappoi ne fecero menzione e fin ad avanzarsi a dire che Plinio nulla sapeva di greco. Essi sono Claudio Salmasio nel Commentario in Servio ed in Salino, Samuele Bochart nel Chanaam e l’Eritreo in Virg. Inar., i quali dichiarano nell’anzidetta isola ed esprimono di averci abitato le scimmie, le quali andando sotto la denominazione di Pithecos, ne intendono far derivare la nomenclatura dell’Isola Pithecusa: aggiungendo che nella lingua etrusca le scimmie anco avevano il nome di Pithecusæ, siccome Servio le chiama Enares, sine naribus, corrispondente alla voce Pithecos; che benvero lo stesso Esichio denomina Arimes: onde pare che inclinano a far rilevare Pithecusa da Pithecos = Aenaria da Enares = ed Arime da Arimes. Pertanto Bochart riflette di vantaggio e colle di lui profonde riflessioni s’inoltra, scrivendo che Giove avendo destinato le scimmie nell’isola, da esse effettivamente venne derivata e nominata Pithecusa; infatti prosiegue a riflettere coll’Eritreo ed a scrivere che se l’isola fusse stata denominata dalla voce Pytos, s’avrebbe dovuta chiamare Pytusa e non Pithecusa, e in più l’Eritreo se dalla voce Aenea, si avrebbe dovuta denominare Eneja e non Enaria. Se mai gli enunciati scrittori meritano tutto il rispetto e venerazione per la somma ed eccessiva di loro dottrina ed erudizione, tutta volta fanno conoscere che per la di loro
gonfiezza niun riguardo e niun atto di urbanità e di creanza intendono tenere ed avere per tanti scrittori sì del di loro tempo che del tempo antico, e soprattutto di Plinio l’istorico, il quale fin dal suo tempo scrivendo, smentisce quello, e quanti essi loro dappoi dovevano dichiarare e commentare; come quello scrittore fondatamente sapeva le lingue greca, latina ed etrusca, la filosofia, la storia, la natura delle cose e la ragione, la causa e le radici della etimologia. Infatti di essi e molto eruditi altri al par di loro niun conto dimostrano farne e tenerne, e di questi pare essere il celebre Arduino nelle note e commento all’istoria del ridetto Plinio. E veramente essi tre nomati eruditissimi scrittori potevano alquanto sospendere il di loro malconcepito umore di passione relativo alle di loro scimmie su l’Isola d’Ischia e riflettere colla di propria vasta dottrina ed erudizione, che da πιθος, dolium, ne derivi πιθαυνιον = doliolum; siccome da πιθος ne nasce πιθαπον, πιθηπον, indi πιθηκοεις; dappoi πιθηκκηυιας che corrisponde alla significazione, e voce Figlinae: del pari che da πιθος ne deriva ancora, e possa derivare il verbo πιθακοω figlinam exerceo, donde Πιθακυσα e il plurale Πιθακυσαι. Allo stesso sembra inclinare il Padre Arduino, ed accostarsi, stimando di far derivare Pithecusa απο των πιθακοεω; Quod ad fictile spectat; e così fa ben risultare quello attiene per la difesa di Plinio. Anziché esso dotto, ed erudito scrittore passando avanti a dare un di lui proprio sentimento, paradossando, dice, e scrive, che Aenaria derivi da Aeneo, Aheneo, metallo; e qual se nell’isola Pithecusa, Ischia ci fusse stato il lavoro, e la fattoria ancora del metallo, del rame, del piombo, e simile, al pari che in essa ci fu il lavoro, e la fattoria dell’oro, cioè del metallo fino, dell’alume, e della creta; onde siccome dell’oro non è da dubitarsi, così per altri metalli ci sono degli indizi, e de lumi a ragionchè essendo avvenuti de fortuiti scavamenti, e delle fossate, si sono trovati seppelliti, e sotterrati, grossi, e grandi ziri di creta, i quali da dentro erano coverti di metallo, di piombo, e di materia atta a distendersi, e liquefarsi; ma dicendosi meglio, li vasi costruiti di metallo, venivano poi coverti di creta, la quale cotta nelle fornaci formava un solo, e ben sicuro vaso per vino, per olio, per acqua, e per altro liquido. Egli l’istorico Plinio nel l. 3.c.6. attesta nel seguente modo: Aenaria ipsa a statione navium Aeneae: Omero Arime dicta, nam non a simiarum multitudine, ut aliqui putant, sed graecis Pithecusa a figlinis doliorum. Questo testo viene attaccato dagli accennati tre eruditi; e questo testo è così ben difeso dal P. Arduino, e da tanti uomini letterati, ed eruditi; e con tali espressioni volle Plinio smentire coloro, che dopo migliaia d’anni volevano far delle novità. Il P. De Quinctiis nella nota su la voce Inarime l.1. così ben corrobora li detti di Plinio: A figlinis doliariorum hoc nomine hanc Insulam dixere, cum in ea affatim satis sit creta, ex qua Doliola figlina conficiuntur. Dolium quippe graeci pithos dicunt. Intanto per non stancarsi ulteriormente chi legge, si fa di meno altri scrittori, ed autorità trascrivere, onde la livorosa La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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dotta fantasia degli su divisati tre eruditi si rilevi colle di loro forbite, e stirate voci di Pithecos, Enares, e d’Arime, le quali sono andate pescando nel torbido mare dell’etrusco, dai millantati servii, e degli Esichii, i di cui sensi, ed intelligenze possono ad essi, ed altri molto bene adattare alle proprie voglie, e co’ denti stirare e tirare dove si vuole. In ordine poi all’etimologia de nomi, de verbi e di qualunque voce non saprei se la stessa arriva, e tocca l’apice, e la cima della di loro gran dottrina, ed erudizione, atteso che li professori cronologi le sogliono ricavare, ed estrarre da ogni semplice radice, che have, e tiene una semplice analogia di poche lettere, le quali tali fiate si osservano posposte, ed anteposte; molti esempii se ne potrebbero addurre, ma si opina uno solo rapportarne, ed è appunto quello del fiume Garigliano, la di cui radice è Liri. Del rimanente se li sopralodati eruditi, e letterati intendono far apparire, e dimostrare del disprezzo, e del vilipendio verso l’isola d’Ischia, e di lei abitanti, all’orch’entrino negli inviluppi d’inette, e d’irregolari favole, e come in quella al di molto ridicolo, che Giove avesse li medesimi mutati in scimie, o pure Candalo, Atlante, e di loro seguaci antichi abitatori della prefata in tali animali, non vengono a fare altro, che a far risaltare, e far conoscere l’antichità degli abitatori d’Ischia essere di già stata, ed esistita sin da tempi di Giove re di gran parte dell’Asia minore, e di altre regioni di oriente, e di far rilevare la grande intelligenza, finezza, ed arguzia del pensare, e dell’operare di essi abitatori, mentre siccome tra gli animali irragionevoli quello che via più, e maggiormente si distingue, e si discerne nell’aggire, nel pensare, nell’operare, e nell’imitare soprattutto è il genere delle scimie; così tra gli uomini che fanno uso della ragione, in modo speciale e distinto si distinsero, e si distinguono, nel pensare, nell’aggire, nell’operare, e nel saper fare il proprio negozio, e vantaggio furono, e forsi sono essi abitatori, ragion per cui nell’antichità vennero descritti, e nominati anco cercopi, cioè uomini atti, capaci, ed adattati a negoziare, a saper negoziare ed a guadagnare. Tutta volta però affinchè si entri nel pregiudizio, e nella prevenzione degli uomini, specialmente ignoranti, li antichi della rimota antichità solevano riputare li luoghi disabitati, o abitati da gente selvatica, ed aliena dalla urbanità, e dal commercio, come abitati dalle scimie. Licofrone non esente da tal pregiudizio, nella di lui Cassandra col velo della di lui oscurità riferisce, che alcune isole esistenti nel mare di Africa, e dette Pithecuse, venivano abitate dalle scimie; ed in dove colla favola rapporta d’avere Giove mutati quegli abitanti in scimie. Diodoro nel libro 2 prevenuto dall’alterazione delle fallaci notizie asserisce, che in Africa esistevano intiere provincie, e regioni, le quali egli chiama Città, ed al numero di tre, col nome di Pithecuse, le quali erano abitate dalle scimie. Li Tebetani, Tartari, della gran regione Tangetana tenevano di sicuro, che la maggior parte della stessa in monti calvi, ed in estensioni bruciate per migliaia di anni venne abitata dalle scimie: ed essi dicevano, che un Tifone gettato il fuoco in quella terra aveva tutte le piante, e la stessa terra 24 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
bruciate; e che li sassi intersparsi, e li segmenti sparsi li riputavano quali tizzoni e segni di una combustione e di bruciamento. Ci è di più talun erudito il qual si dà a credere, espone, e sostiene, che l’Arime di Omero, e di altri antichi poeti greci non tiene occhi all’isola d’Ischia, e tutto altro riguarda fuorchè la stessa; e che li Latini, e Plinio vennero ingannati, e così trasportati da Virgilio, il quale reputa, che o non aveva capito, o non aveva letto Omero. Questa è appunto l’indole di certi critici, i quali si vogliono particolarizzare dopo il passaggio di 17 secoli ed a mostrare sì poco conto di taluni luminari, che illuminavano e facevano risplendere l’età d’oro, e del tempo di Augusto. Non troppo devesi su quest’assunto dilungare, e solo far riflettere, che Omero nel luogo ove si avvale della voce Arime, dà ad intendere, e significare, che Lui scriveva di quella parte, dove Tifeo giaceva, ed era stato: Questa parte, senza verun dubio è l’isola d’Ischia Pithecusa: Siccome il Comito nel l. 6. della mitologia, su l’appoggio di Ferecide, e di altri scrittori antichi prova, e dimostra, che Tifeo fuggendo da Cilicia, e dall’Asia minore verso Italia, trovò contro la potenza di Giove Re di Oriente la di lui sicurezza nell’isola di Pithecusa, che è la vera storia del Re Tifeo, la quale poi venne tanto dalle favole velata e sotto ascosa. Ora sembra opportuno rapportare, e descrivere li versi di quelli antichi scrittori sì greci, e sì latini, i quali nominarono l’isola d’Ischia, e ne fecero menzione. Omero, Ilid. 1.2. ... Iovi sicut fulminibus gaudenti Irato, quando circa Tiphoea terram verberat In Arimis, ubi Typhoei dicunt esse cubilia.
Come fa pompa l’adirato Giove Pei fulmini quali vibra, e che saetta, Quando percuote in Arime la terra Presso i luoghi Tifei, dove si dice Essere di Tifeo l’ardente letto.
Come se tutto a fuoco ardesse il letto Sotto la terra rimbombava come allorchè Giove, che del fulmine gode, s’adira, e intorno a Tifeo la terra, nella montagna d’Arime flagella ove dicon, che stazzi Tifeo. Così il dotto traduttore Salvini.
Pindaro, Pytion v. 33 Qualis immensum Jupiter Tiphonem Quinquaginta movens capita prostratum dedit In Arimis quondam
Con orrore, scuotendo il grande Giove Le teste cinquanta forti, e robuste Rovesciò in Arime un tempo, ed abbatté il furioso Tifeo d’un corpo immenso.
Tale poeta ne fa altra menzione corrispondente alla seguente traduzione
Tifone nato di Cilicia all’antro col setoloso petto oppresso giace sotto il siculo suolo, d’Arime e Cuma.
Ed in altro luogo Apparet procul Inarime, quae turbine nigro Fumantem premit Iapetum
Molto da lungi Inarime compare, Quale con nero tempestoso turbo Il fumoso Giapeto aggrava, e stanca.
Hesiodo nella Teogonia Haec autem coercebatur in Arimis sub terra Echidna Immortalis nimpha, et senii expers diebus omnibus: Huic Tiphonem, ajunt, mixtum ejse amore, Illa vero gravida facta peperit fortes filius.
Virgilio Aen. l. 9 Tum sonitu Prochita alta tremit, durumq. cubile Inarime jovis imperio imposta Tipheo.
All’orchè Procida, è svèlta, e staccata Pel fragore, e rimbombo s’agita, e trema, Inarime qual duro, e grave peso Fu di ordine di Giove sovraposta Sul corpo dell’indomito Tifeo.
Antica traduzione L’alta Procida all’or tremò pel suono, Et Inarime il duro, e grave letto Sovraposta a Tifeo d’ordin di Giove.
Altr’antica traduzione All’ora l’alta Prochita trema, Et Inarime divenuta letto Per lo voler di Giove al gran Tifeo.
Ovidio l. 14 Inarimen, Prochitamque legit, sterilique locatas Colle Pithecusas habitantum nomine dictas.
Pel fuoco, e l’ardor fremendo Inarime, Procida scuote, e pur le Pitecuse, Che sovr’un sterile colle situate, Dagli abitanti suoi così son dette. Antica traduzione Inarime toccò Procida, e in colle Sterile le riposte Pitecuse Dagli abitanti suoi così chiamate.
Cornelio Severo in Etna Dicitur insidiis flagrans Aenaria quondam Nunc extincta super; Testisque Neapolis inter Et Cumas locus est multis iam frigidus annis.
Lucano l. 5. II Campana fremens ceu saxa vaporat Conditus Inarimes aeterna mole Tiphoeus Freme la cima del gran Monte, ove Escon i Sassi, ed Inarime sotto L’eterna mole tiene Tifeo nascosto. Petrarca Tr. della cast. Freme il mare così quando s’adira In Inarime allor, che Tifeo piagne. Silio Italico l. 8. Non Prochitae, non ardentem sortita Tiphoea Inarime
Stazio l. II s. II De Fenestris cubiculi in villa Haec videt Inarmem, illi Prochita aspera paret. Servio l. 9 Aen. Inarime nunc Aenaria dicitur. Festo Aenariam appellavere locum, ubi Aeneas classem ab Troianis veniens appulit. Sylace Pithecusae, seu Pithecusa insula in Campania habebat Civitatem cognomen. Potrebbe leggersi il Pinedo nell’annotazione a Stefano Bizantino alla parola Pithecusae. Tito Livio, nella guerra de’ Romani co’ Palepolitani. Haud procul inde, ubi nunc Neapolis sita est, duabus urbibus populus idem habitabat: Cumis erant oriundi: Cumani Chalcide euboica originem trahunt; classe qua advecti a domo fuerant, multum in ora maris ejus, quod accolunt, patuere. Primo in insulas Aenariam et Pithecusas egressi; deinde in continentem ausi sunt sedes transferre. Dappoi non lungi dove al presente Napoli è situata, un’istesso popolo abitava in due Città: Tali abitanti erano oriundi da Cuma, e li Cumani tirano l’origine dalla Città di Calcide nella Eubea (Negroponte), li quali colla flotta erano stati trasportati dal proprio paese, e casa, molto si trattennero nella spiaggia di quel mare, che abitano. Finalmente prima sbarcati nell’Isola Enaria, ed in Pitecusa; poscia si fecero arditi e trasferirono le di loro abitazioni nella terra ferma. Biondo nel descritto testo dec. II c. 8 I cumani ebbero la di loro origine da Calcide Euboica; sendo portati coll’armata da casa loro in Italia, ebbero gran potenza e valore nelle spiagge di quel mare, che abitano. Avendo prima fatto empeto nell’isola Enaria, e nelle Pitecuse; e quindi pigliando poi ardire, passarono nella terra ferma, ove si fermarono. Giasolino su l’istesso testo l. I c. I. Vennero li cumani di Calcide di Euboica coll’armata nell’estremità del mare, e primanente sbarcarono nell’isola Enaria, e nelle Pitecuse; quivi pigliando ardire poi, passarono nella terraferma ove si fermarono ad abitare. Plinio l. 3. c. 6. Aenaria ipsa a statione navium Aeneae. Homero Inarime dicta: Graecis Pithecusa, non a simiarum multitudine, ut aliqui existimavere, sed a figlinis doliariorum. La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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Enaria, essa così viene detta dal soggiorno, e dalla dimora de’ bastimenti di Enea: da Omero è detta Inarime; da Greci Pitecusa; non dalla moltitudine delle scimie, come taluni opinarono, ma dalla fattoria de’ vasi di creta. Strabone l. 5. p. 171 ed. nap. Insulam quam Augustus Neapolitanis, ut Capreas acciperet ab illis, vocat Pithecusas... L’Isola, quale Ottaviano Augusto cedè, ed assegnò alli napolitani, affinchè pigliasse e ricevesse da quelli l’isola di Capri, chiama Pitecuse. Appiano l. 5. de bel. civ. Libo ad insulam Pithecusas appulit, quae nunc est Aenaria. Il Generale Libone approdò all’isola Pitecusa coll’armata, la quale al presente è Enaria. Antonino De stadiis….. Cumis Aenaria. Lo scoliaste di Pindaro, e lo stesso Pindaro Ubi accidunt ignis deflagrationes, et Tiphon subiectus esse dicitur. Festo nel comp. di Flacco de verb. sig. Aenariam appellavere locum ubi Aenea classem ab Troianis veniens appulit. Che questo luogo dove approdò l’armata di Enea fusse una spiaggia dell’Isola d’Ischia lo fa rilevare chiaramente Appiano de bel. civ. come di sopra sta trascritto e nel l. 5, ed in quel luogo dove scrive: ...nh%sov taèv Piqhkouésav h$ nu%n e|stin Ai|nariéav Antichi, e primi abitanti, e coloni dell’Isola d’Ischia, rilevandosene li lumi, e le notizie dalli poeti sotto il velo, e mistero della favola; e dall’istorici, e scrittori greci, e latini, che sinceramente ne riferirono le ricorrenze. Il Comite nel l.6. Della mitologia su li rapporti, e su l’appoggio di Ferecide, e degli antichi scrittori fa rilevare, che Tifeo Re della Cilicia avendo in battaglia superato, e vinto il di lui fratello Osiri, fu sorpreso, e trasportato da sdegno, da furore, e da un’alterazione sì eccessiva, che l’uccise, e lo fece a brani. Quindi divenuto più audace, e baldanzoso ardì provocare a guerra Giove re di Oriente, e si venne a battaglia, nella quale Tifeo fu superato, rovesciato, e ferito mortalmente: per lo che fu costretto a fuggire, e ricoverarsi nel territorio Colchide, da dove fu ancora obligato a fuggire, e si condusse in Italia, e propriamente nell’isola Pitecusa. Dall’accennata ferita essendone sgorgato del molto sangue, si favoleggiò d’esserne dallo stesso sortito un Dragone, il quale fu destinato a guardare il vello d’oro in Colchide; in cui dappoi essendosi formato, e propriamente in un gran concavo, un vulcano, ed un formidabile fuoco, fu nella condizione di fuggire, e di condursi nell’isola d’Ischia in Italia. Tifeo per la di lui indomita fierezza, e per la di lui violentissima furia si dipinge dagli antichi in orrida forma gigan26 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
tesca, che gettava fuoco dalla bocca, dalle narici, e dagli occhi. Egli giunto in Italia si elesse per di lui propria abitazione, e sicurezza l’isola d’Ischia; ed esso come re fuggiasco dovè con lui portare del gran seguito, e li Arimi del di lui perduto regno di Cilicia. Unita la di lui fierezza, il di lui furore, il di lui eccessivo sdegno, e la di lui altiera audacia alle alterazioni, ed all’effervescenze vulcaniche dell’isola si venne a favoleggiare, e ad esprimersi dagli stessi scrittori istorici, che Tifeo condannato a giacere sotto l’isola d’Ischia, quando si muove, e si rivolge su li fianchi, fuori svaporano, e si esalano fiamme ed acque bollenti. De Quintiis l. 1. Inarime ne fa la viva seguente descrizione: Fulmine dejectum, flammasque ex ore vomentem Torquet adhuc vindex, subicitque Tiphoea saxis Aeternumque premit. Frustra indignantibus audet Saepe humeris molem, et durum cervice rebelli Excussisse jugum, multo latus igne percustum, Et movet, et motis circumtremit insula Sylvis. Ci è chi situa Tifeo sotto il Castello d’Ischia. Per cui scrivendosi, che Carlo VIII Re di Francia avendo sottomesso tutto il regno di Napoli, fuorchè l’anzidetto Castello, l’Ariosto così canta: . .
Fuorchè lo scoglio, ch’a Tifeo si stende su le braccia, e sul petto, e su la pancia. Il Signor della rocca, che venia Quest’istoria additando a Bradamante Mostrando, che l’ebbe Ischia, disse pria, Ch’a veder’altro, più vi meni avanti. Cotal eroe da Omero è chiamato Tifeo
Da Silio Italico… Iapeto Da Esiodo, da Pindaro, e dallo Scoliaste di Pindaro… Tifone: Ubi accidunt ignis deflagrationes, et Tiphon subiectus esse dicitur, che secondo Pindaro era di Cilicia, e propriamente Re di Cilicia. Suida nel Lessico rapporta, e fa intendere, appoggiato a Strabone, ed a molti antichi scrittori, di essere stati li primi abitatori dell’isola d’Ischia li Cercopi, i quali si condussero sotto la guida, e sotto la direzione de due fratelli Candolo, ed Atlante: Essi primi abitatori furono denominati Cercopi, mentre erano di natura, e d’indole scaltri ed astuti, industriosi, lusinghieri, ed atti a negoziare, ed a procacciare guadagno. La di loro etimologia deriva dalla voce greca quale Κερκοψ, la quale in latino significa lucrum, in italiano guadagno. Si nota che certi antichi scrittori, e poeti non lasciarono di favoleggiare, ed al solito delle antiche finzioni, che cotali due fratelli Candolo, ed Atlante furono da Giove mutati, e cangiati in scimmie. Da quali due rapporti evidentemente viene a rilevar-
si l’antichità rimotissima degli abitanti in Ischia, e sin a tempi, che Giove regnava in Oriente, e Atlante nella Mauritania, mentre siccome quello Atlante fu il primo a fare le osservazioni, e le scoverte astronomiche sugli altissimi monti della Mauritania, così nel tempo del medesimo regnante si facevano sul monte Epomeo: lo chè sarà via più per rilevarsi, allorchè si farà tra poco parola dello sbarco degli eritriesi, e calcidesi nell’Isola; e della frase usatasi da Tito Livio. Plinio l.11 c.88 fa con chiarezza conoscere le formali antichissime, e rimote abitazioni in essa, stante che assicura, che in tempo nel quale passa, e sormonta ogni memoria, e notizia istorica umana, si trovava di già costruita una Città murata, che per effetto di terribilissimo, e formidabilissimo tremuoto vulcanico venne assorbita, e sprofondata nelle viscere della terra: di un secondo si formò un lago; di un terzo ne sortì, e se ne sbalzò, e si formò Procida. Tito Livio istorico esatto, e riflessivo facendo parola de Cumani, e Calcidesi, i quali erano pervenuti dall’isola Eubea nel freto tra Cuma, ed Ischia, dice che molto si trattennero tra li confini, e le vedute di quel mare; che dappoi dopo molte considerazioni, e riflessioni con violenza, e con empeto uscirono, e sbarcarono in Enaria, ed in Pitecusa, e l’istorico si avvale del verbo egressi, che il Biondo l’intende, e lo traduce giusta il suo senso, e significato per una sortita, e per uno sbarco violento, ed empetuoso; e nell’istesso modo, e forma l’intende il commentatore dell’istorico, per cui vuole, che l’egressi venga, e così scritto e letto aggressi, qual corrisponde al senso, ed al significato assalto, e sbarcato tal’equipaggio, e colonia con assalto, e con violenza, e con empeto. Sicchè si viene al chiaro, nella terra dell’isola esisteva abitazione, e gente da difesa, la quale si opponeva ad un tale approdo, e sbarco. Strabone nel l.5. ne fa ancora rilevare l’antichità. Neapolis est Cumanorum, (nova civitas hoc verbo indicatur) postea temporis, et Calcidentium nonnulli, et Pithecusanorum, et Atheniensium immigrarunt, unde urbi hoc nomen factum. Napoli è fondata da Cumani (con questo vocabolo si fa intendere essere una nuova Città), dove coll’andare del tempo dappoi passarono li Pitecusani diuniti ad alcuni Calcidesi, ed Ateniesi, onde ad essa Città l’avvenne, e le fu fatto questo nome; vale, che li Pitecusani o siano gli antichi abitatori d’Ischia essendo passati in Palepoli edificata, ed abitata da Cumani, di tal modo in essa acquistarono, ed esercitarono dominio, che avendo nella medesima fatte tali, e tante innovazioni, e novità, onde divenuta di altra forma, e di altro aspetto, venne chiamata Neapolis, cioè nuova Città. Il Dottor Verlicchi, avendo per sicuro e giusta Strabone che li Pitecusei furono quelli, che edificarono Cuma, e poi Napoli, scrive di rendersi la dovuta giustizia agli isolani d’Ischia, e di loro patria, per li quali si rileva un fatto per se stesso pregevole e glorioso. Li Calcidesi, gli Eritriesi (o siano li Cumani), sono quel-
li, che per fatto istorico, e reale abitarono, e domiciliarono nell’isola d’Ischia. La di loro spedizione da Eubea successe molto tempo prima della guerra di Troia. Tale guerra avvenne nell’anno del periodo Giuliano 3530 che corrisponde all’anno 1189 prima dell’epoca cristiana; e giusta li marmi di Arondel verso l’anno 1300: causa per cui Tacito, e Mela, ed altri scrittori attestano la Città di Cuma in ordine all’edificazione precedere tutte le Città d’Italia. Peravio, colla scorta e guida di Vellejo Patercolo, nel Raz. de tempi, Ediz. di Ven. del 1758 f. 50, inteso di ogni scienza, e di tutta l’istoria sacra, e civile, che capace, ed idoneo a mettere nella chiara luce tutte le tenebre dell’antichità, dopo aver fatta parola di Cuma Eolica sistente nell’Asia riferisce di esistere nell’isola Eubea un’altra Cuma, da cui, e da Calcide sotto la condotta, e direzione de due Capitani Ippocle Cumeo, e Megastene Calcidese partirono quell’individui, e quelli coloni, che poi edificarono Cuma in Italia. Il viaggio, e ‘l corso della spedizione, e della flotta furono diretti, e regolati da una colomba, che li volava innanzi, e dimostrava il camino, e la rotta da tenersi. Indi essi coloni, ed individui s’accordarono tra loro, e pattuirono che il governo della Colonia d’ambedue li popoli fusse di uno, e il nome da imponersi alla Città fusse dell’altro. Sicché la Città la quale si edificò, venne chiamata Cuma in onore, e memoria del popolo, e della colonia Cumea (eritree), che del di loro capo, e duce Ippocle Cumeo; così venne nell’amministrazione, nella giustizia, e nel governo dagli Calcidesi diretta, e regolata. Quindi perchè gli uni, e gli altri, che edificarono Cuma, erano di Eubea, e da Eubea partiti, perciò Virgilio Cuma chiama Eubea. Dunque sotto la scorta di Peravio si deduce chiaramente, che li cumei, e calcidesi vennero, e partirono dall’isola di Eubea, o sia dalla parte orientale, e verso il nord, sono quelli, che effettivamente edificarono Cuma. Ma perchè nella Grecia, e nell’Asia ci erano più Città, e più nomi di Cuma, e di Cumana, molti scrittori opinarono essere gli stessi oriundi da Eolide, altri da Acaia, altri da Eubea, ed altri da altri luoghi di Oriente. Strabone nomina, e chiama taluni di essi coloni Eritriesi, ma questo vocabolo non si trova presso gli antichi scrittori Geografi, nè presso quelli Geografi posteriori che trattano dell’antica Geografia, come il Cellari, ed altri: Forsi Eritrea potè essere qualche contrada Eubea vicino a Cuma Euboica, e forsi alquanto ignobile; del rimanente gli eritriesi sono li medesimi che Cumei, e Cumani: ma Strabone nel libro 20 la nomina, e la situa con distinzione post Gerytum Eretria est: Euboicarum urbium desumpta Chalcide maxima…..situ Euripum. Sicchè gli Eritriesi e li Calcidesi con formale spedizione, e sotto il comando, e la condotta de due accennati capitani con una flotta di bastimenti insieme partirono da Eubea, e tennero la direzione, e la rotta verso Italia. Indi direttisi verso il mare tirreno infero giunsero nel mare di Cuma, in dove per alcun tempo si fermarono, messi, e situati ad osservare, e ad esplorare: Finalmente si determinarono pigliar terra, e così si accostarono, ed approdarono nell’isola Pitecusa (Ischia). In essa si decisero dimorare, ed La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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abitare, tirati dalla fertilità dé campi, e dalle miniere dell’oro, e giusta la frase, e l’espressione di Strabone propter fertilitatem agri, et auri fossilia. Gli enunciati due popoli coloni indifferentemente, e con armonica unione, e reciproco consenso su le prime nella stessa soggiornarono, e dimorarono; e così profittando delle biade, de frutti e delli prodotti ubertosi, come della raccolta dell’oro, e di altre miniere, divennero ricchissimi. Quindi coll’andar del tempo in mezzo all’abbondanza, ed alle prosperità entrati in emulazione, in invidia, in contese, ed in contrasti, passarono a tali atti sediziosi, ed insidiosi, che vennero a guerra aperta. Comunque fusse andata la bisogna li Calcidesi furono vinti, e superati onde datisi coraggio abbandonarono l’isola, e con ardimento si condussero nel continente, il quale alla medesima sta rimpetto. Initio ob seditionem coortam insulam deseruerunt. Sono le parole di Strabone. Gli Eritriesi Cumei vincitori abbenchè rimasero soli nell’isola, e soli si godevano li fertili prodotti della stessa, non ne poterono fare uso troppo a lungo, mentre gli orrendi tremuoti principiarono a farsi sentire, come ad esperimentarsi li perniciosi effetti delle ignee vulcaniche eruzioni, dell’effervescenze delle acque, e de bollori del mare; li quali furono tanto eccessivi, ed orridi, che furono essi costretti abbandonare il soggiorno dell’isola, ed a passare in quel medesimo luogo del continente, in dove di già si erano situati li Calcidesi. Post etiam terraemotibus exturbati, ignisque, marisque, atque calidarum aquarum eruptione. Per tanto l’uno, e l’altro popolo, riflettendo, che l’inimicizia, e la discordia tra loro erano causa di loro gran danni, e della di loro distruzione, quantunque non con troppo di loro gradimento si determinarono a coalizzarsi, e ad unirsi insieme, onde vennero alli patti, ed alla sorte, di sopra mentovati, che dovendosi da essi edificare una Città; la medesima di un popolo doveva portare il nome, e dall’altro popolo doveva essere l’amministrazione, e il governo: Infatti la Città la quale venne da tutti e due li popoli costruita; de Cumei portò il nome, e de Calcidesi ne fu l’amministrazione, e il governo. Quindi essi due popoli non ostanti, che si sparsero per li prossimi luoghi di Miseno, di Baia, e di Pozzuoli, pure a tale numero si moltiplicarono, ed in sì gran società arrivarono, che si ebbero a risolvere decisamente di passare altrove; perlochè essendoli noto il bello, delizioso, e felice sito di Partenope, colà si condussero in una numerosa parte; e nelle vicinanze della stessa fissarono il di loro soggiorno, e domicilio. Ivi si diedero a costruire un’edificio sì grande, che conteneva due abitazioni estese, e due gran Città: ma in modo, che rispetto, ed in quanto alla vicinanza, all’attacco, ed alla fabrica una doveva essere la costruzione, e la Città, ed una doveva comparire: ma riguardo, ed in quanto all’economia, all’amministrazione, alla giustizia, ed al governo, che alla distant’abitazione, due dovevano essere li rispettivi regolamenti; l’uno regolamento doveva essere segregato, e diviso dal regolamento dell’altro popolo: cioè il regolamento, e il governo del popolo discendente Eritriese Cumeo doveva 28 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
essere separato, e distinto dal regolamento, e dal governo del popolo discendente Calcidese. E tale condotta politica, e prudente si tenne con sommo pensare, riflettere, e con tutto avvidimento, ed affinché gli anzidetti due popoli non tenessero l’opportunità d’incontrarsi, e di trattarsi spesso, e così evitarsi l’occasione di alcuna stizza, e di talun’accenzione di spiriti, mentre in essi, e presso d’essi, e tra le rispettive famiglie de’ su divisati due popoli non lasciavasi di alimentare un ingenito ereditario odio, e dispetto, trapassato e comunicato da primi di loro genitori, come di sopra se ne accennò parola. Val quanto dire, che s’intese formare nel territorio partenopeo un’edificio, e raccogliere una caterva di oriunda greca eubaica gente, che per la difesa, e il sostegno, e mantenimento della propria quiete contro l’estraneo una essere doveva la città, uno il popolo; ma poi in quanto al proprio governo, alla propria economia, e pace, ed al godimento del territorio occupato ed acquistato due essere dovevano le città, e due li popoli. Palepoli venne denominata una tale nuova disegnata, architettata Città. Neapolis dappoi la stessa fu chiamata, ed all’oraquando li Pitecusani (cioè gli antichi Ischiaioli) diunita ad altri Calcidesi, ed a taluni Ateniesi, entrati in Palepoli ci fecero tali novità, ed innovazioni, che cambiata l’antica costruzione, con tale voce fu nominata. Post dicearchiam Neapolis est Cumanorum (nova civitas hoc verbo indicatur) postea temporis, et Calcidentium nonnulli, et Pithecusanorum, et Atheniensium immigrarunt, unde urbi hoc nomen factum. Strabone l.5. Cuma, come di sopra si è detta parola, fu la prima formata Città d’Italia, e che precedé tutte le altre che successivamente si costruirono in essa, la quale Italia si può riputare la prima nazione, e la prima parte più bella del mondo e per clima, e per la bellezza, e per la sua ubertà in tutto, e per la sua ricchezza, è tale che molti scrittori, l’hanno dato il nome di Paradiso: ma di essa Italia la più bella, la più fertile, la più deliziosa e la più vistosa era la regione di Cuma. Onde Cuma come la prima ad essere edificata in Italia, così fu ricca assai, ed abbondante, non solo perché vicino al lido del mare doveva tenere del gran commercio marittimo, ma perché possedeva la maggior parte della Campagna felice, in maniera che Trimalcione, il quale teneva nel territorio Cumano un territorio sì vasto, che li fu dato avviso d’esserli nato in uno stesso giorno, trenta fanciulli, quaranta fanciulle, cinquecento bovi, e di essersi raccolte nell’aia mille, e cinquecento moggia di grano, e riposti nei granai. La celebre via vicana che fu costruita per essa, e per il suo commercio, e che oltrepassava ancora la stessa, dimostrava il suo gran splendore: Si sostenne sempre nel suo potere, e dominio, e fu una delle sedi de Goti, e città di difesa de medesimi: fu nel suo gran vigore sin all’anno 600 di nostra era, e per essere poi divenuto luogo di aria infetta, e perniciosa, ché nido di ladri, e di malfattori, fu all’intutto abbandonata, e distrutta nell’anno 120.
Sicchè quelli che furono in Ischia, e forsi unitisi con quelli che stavano prima in Ischia, o sia in Pitecusa, costruirono Cuma; e gli stessi dappoi senza verun dubio costruirono Palepoli (due città in una) vicino Partenope; E li medesimi, che proseguirono ad abitare in Cuma, dappoi partiti, ed uniti co’ Pitecusani, e con li Ateniesi, come di sopra si è provato, nel fare delle novità in Palepoli, e metterla a nuova forma venne chiamata Napoli. Ierone Re di Siracusa, e gran Filosofo, che pieno di cogniziioni, dopo un tempo notabile, che li Calcidesi e gli Eritriesi avevano abbandonata l’isola, ben’informato del di lei sito, e del di lei abbondantissimo, e fertile suolo, circa la 78 Olimpiade corrispondente all’anno 478 prima dell’era cristiana si determinò a mandare nell’isola una Colonia di Siculi Siracusani, siccome se ne fece la spedizione; che la vennero ad abitare ed a coltivare. Questi nuovi Coloni dimorarono in essa per lungo tempo, ma non la poterono ulteriormente godere, a ragionché il tributo delle nuove formidabili accenzioni, de terribili tremuoti, e dell’eruzioni sotterranee vulcaniche li costrinse a lasciarla in abbandono, ed a ritornarsene in Sicilia. Una parte di essi però si rese ardita a non voler perdere le fatiche in essa sparse, ed a raccogliere li frutti si producevano per effetto de’ di loro aumenti, onde si ritirò su quell’alto scoglio, si denominarono Pitecusa, e di poi Castello d’Ischia, ed ivi costruì una città, che in onore del proprio Re venne chiamata Ierona, ed in seguito, e nella media età Gerunda, quale denominazione si estese a tutta l’isola; ed in esso Castello in quelle carte nautiche, che hanno tenute, e conservate le antiche nomenclature, viene appellato Gerone, e Girona, e Gironda. (Pontano, Fazzella) Li Napolitani dopo finite l’eruzioni, e le mosse della terra dell’isola, e dopo essere stati assicurati dell’effettiva partenza della maggiore, e più gran parte della colonia siculosiracusana, ed essendo intesi molto bene del vantaggio, e del profitto dell’isola, la vennero ad abitare, ed a renderla via più coltivata, e per molto tempo vi dimorarono, e la mantennero sotto al dominio de’ Cittadini di Napoli; E forsi furono gli oriundi della stessa.(Strabone). Li Romani beninformati del buono, e profittevole stato dell’Isola, che del di lei sito, de’ di lei forti, ed inespugnabili luoghi, e di alcune di lei sicure baie, e rade, delle quali ne stavano di senza nella parte bassa d’Ischia, andiedero ricercando de’ motivi, e de’ pretesti per rompere la guerra a Napolitani, ed avendone tenuta vittoria, s’impossessarono dell’isola, e ne cacciarono gli anzidetti; onde si legge che Libone comandante di un’armata navale de Romani per osservare l’oste nemica di terra, e di mare, che dimorava in Pozzuoli, nell’isola, e propriamente nella sicura baia d’Ischia, venne ad ancorarsi, e da dove, e da sulli monti, e particolarmente da quello di Campagnano, poteva fare nella rada di Pozzuoli, e di Baia, e faceva le sue scoverte, e sortite. Ottaviano Augusto, il quale nell’andare, e nel girare in Capri essendosi incontrato in un felice, e grato augurio, entrò nel desio di averla, e di possederla; e come che la stessa era soggetta alli cittadini Napolitani, ne fece trattare
la cessione con un cambio, come successe; e perciò l’Isola di Capri passò sotto il dominio degli Imperatori Romani, e l’isola di Pitecusa, o sia d’Ischia tornò ad entrare nel dominio, e padronanza de divisati Cittadini, ma coll’ aver però ceduta Capri. L’antichissime fabriche esistevano sopra l’alto scoglio detto Pitecusa, ed a forma di Città, e di Città murata; Li ruderi, li rottami, e le antiche mura sistenti in parte ancora su l’eminente scoglio, notato il Castiglione in tenimenti di Casamicciola, e le altre antiche fabriche si vedevano su il largo, ed alto scoglio chiamato Monte di Vico, nel comune del Lacco, in dove sin’a 300 anni a dietro si guardavano le unioni delle case, e l’esistenza d’intiere mura, facevano conoscere la di loro antica abitazione, e propriamente, e maggiormente l’accennato luogo sempre chiamato Vico, e Monte di Vico, mentre così venivano nominate quelle abitazioni, che non avevano denominazioni di Città; e fanno ad evidenza rilevare, che per li di loro siti forti, e vicini, ed attaccati alle buone, ed opportune rade, dovevano essere abitate dagli eritriesi, e calcidesi, dalli Siracusani, da Napolitani, e da Romani, che successivamente poi da coloro, che attesero a dimorare, e soggiornare nell’isola; e via più il ridetto scoglio del Castello d’Ischia sin al decorso del secolo 18 quasi si mantenne abitato, ed a forma di Città. E ciò che si è dedotto, verrà benvero confermato da qualche iscrizione, che si rapporterà in appresso. Allorchè coll’Italia l’Isola si trovò sotto le invasioni di diverse barbare nazioni, come Goti, Longorbardi soprattutto, ed altre, si perdé in gran porzione quel bell’ordine, che teneva occhio alli confini della sovranità, e delle potenze legittime, che delle antiche giurisdizioni; onde esse venute, e via più la Longorbarda, introdussero il disordine nelle provincie, e ne’ ducati assolati colle di loro tiranniche occupazioni. Quelli, che in Italia, e molto più in Roma, erano addetti, ed attaccati al governo Imperiale d’Oriente, o veramente attaccati al di loro acquisto, ed a se stessi, tolsero alli Cittadini Napolitani, e per essi alli Duchi di Napoli tra l’altre isole l’isola d’Ischia; per la di cui restituzione si dové tanto affaticare, ed impegnare San Gregorio Magno, sì per ottenere dal Principe Maurizio il corrispondente ordine, e la conveniente grazia, e sì per farne avvenire il puntuale eseguimento per la via del potente mezzo e dell’autorità di Romano Difensore, ed a stenti. Sicché l’isola proseguì a stare sotto il dominio, e il governo della Città di Napoli, ma non de’ Duchi; e fin’a qual tempo, e propriamente verso il secolo undecimo, nel quale le provincie di Napoli, e di Sicilia furono ridotte in regni, e sotto una sovranità, e dispotismo; qual fu de’ Normanni; e così l’isola seguì la stessa sorte. Se non ché talvolta per causa d’incidenti essendosi data la condizione di osservarsi divisa l’una, e sola sovranità, e di un solo regno sotto un solo Capo formarsi due regni, e due sovranità; una che governò sovranamente il regno di Napoli, e l’altra il regno di Sicilia, ne avvenne per politica di stato, e di governo, e per fine di notizie, o per regola di condotta, e di governo, o di profitto, che li sovrani di Sicilia La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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più volte si cooperarono, come li riuscì, a divenire padroni, e dominanti dell’Isola, e del Castello d’Ischia, come successivamente se n’osserverà il tempo e la circostanza. Fratanto di sopra essendomi disteso a scrivere su l’antichità dell’isola d’Ischia rispetto alla sua antica abitazione, e de suoi particolari luoghi, che del commercio si poté tenere con gente estera, e di provincia, che nella stessa isola venne a trattare, ed a dimorare, si rapporteranno come dilucidazioni quelli monumenti, e documenti, li quali sono giunti a notizia, e sotto gli occhi. Nel comune del Lacco facendosi uno scavo, fu ritrovata a caso una statuetta bipalmare di un rozzo marmo, la quale divisava un Ercole con la clave, e col mantello dinotante la pelle del leone. Essa statuetta dà chiaro segno d’una rimotissima antichità, mentre è di quell’antichissima costruzione e lavoro statuario, che non ancora la scoltura, e l’arte della medesima aveva principiato a dividere le coscie e le gambe; ed è opera di quelli antichi scultori greci, li quali se non tenevano Ercole per un Dio, come l’avevano gli antichi greci, almeno lo tenevano per un’ Eroe. Benvero facendosi nello stesso comune un altro scavo, e proprio nel luogo nomato li arbusti, fu trovata una urna, la di cui parte anteriore conteneva due teste di Bacco con corna, con orecchie alquanto lunghe e con barba stesa fin’al petto: Indi seguiva la iscrizione, che si trascrive, però di sotto la stessa ci stava inciso un cestino con biade, e fiori, lo che doveva alludere, come alludeva al bello, al felice, ed al fertile suolo del Lacco, sì per li frutti che per li fiori. DIS MANIBUS L. FÆNI VRSIONIS THVR. CONIVGI BENE MERENTI TYCHE LIBERTA FECIT Ma ciò che indica maggiormente il rimoto tempo degli abitatori d’Ischia, e via più del Lacco si rileva da una iscrizione in lingua greca scolpita in una pietra vulcanica di circa palmi dieci quadrati sistente sul Monte di Vico a direzione della torre verso la parte del mare, dove con disaggio, e per via angusta ci si arriva, la quale iscrizione sta intagliata molto superficiale, però a lettere maiuscole, per cui occupa quattro piedi quadrati. Su la situazione di tale iscrizione riflettendosi, si va a conoscere, che porzione di quel monte si dové staccare, e seppellirsi nell’arena di quel fondo di mare, onde esso monte doveva essere più spazioso di quello, che oggi comparisce, mentre la stessa non si sarebbe incisa in luogo disastroso. La cennata iscrizione dall’autore delle Colonie Fenicie in Italia al l.1 pag. 267 dell’edizione di Napoli del 1764 viene riferita nel seguente modo ΠΑΚΙΟC NYMΨΙΟC MAIOC ΠAKYΛΛOC AΠΕΑΕΥΘΕΡΟΙ TO TOIXION KAI TΡAIANOY THEΡITAΞΕΙ Tradotto così: 30 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Pacius Nympsius Majus Pacyllus Liberti Excitarunt hoc propugnaculum Cæsaris Trajani Imperio Il Dottor Medico Francesco de Siano rapporta la medesima iscrizione nella maniera, e forma come segue, da se estratta, e sotto i propri suoi occhi; e sinceramente dichiara non essere tanto facile a descriversene il resto, e reale esemplare, tanto per la faccia del sasso non levigata, e di un colore, che batte al nero; quanto per essere incisa molto superficiale, e su di un sasso, donde appena vengono direttamente sotto la vista le ultime lettere, e note; anziché talune lettere non potè distinguere, e rilevare, per cui dové far’uso della opportuna congettura. ΠΑΚΙΟC NYMΨΙΟC MAIOC ΠAKYΛΛOC AΠΕΑNTEC TO TOIXION KAI OI CTPA TIΩTAI sì tradotta: Pacius Nympsius Majus Pacyllus et milites murum incipientes posuere Il Regio Dotto, ed erudito Cattedratico Nicola Ignarra nella sua Palestra p.307 dopo aver osservata personalmente la trascritta iscrizione incisa nel sasso, ed in alcune lettere la ritrovò differente da quella fu estratta dall’autore delle Colonie Fenicie in Italia, la quale poi traduce nei termini seguenti Pacius Nymphius Publius Aquila Præfecti (sive Prætores) et Milites Murum extruxerunt Nell’antico piccolo tempio di Santa Restituta nel muro a mano destra si osserva fabricata una lapide di marmo con la iscrizione che siegue: la stessa, che per le voci pure latine, e per li termini puri lapidari, non meno, che per li nomi in essa descritti, debba essere fatta, ed incisa in tempo del secolo d’Oro, o prima, la quale ritrovatasi su taluno antico sepolcro nel Lacco, da qualche persona d’intelligenza per la sua bellezza si fece apponere, e fabricare: nella certezza, e sicurezza, che nel mentovato piccolo tempio non veniva giamai permesso di sotterrarsi, e seppellirsi cadavere, sì per il gran rispetto, e venerazione, che si aveva, e sì portava alle sacre reliquie della Santa; e si perché poté avvenire, di custodirsi, e potersi custodire nella chiesa del Lacco il delicato punto dell’antica disciplina ecclesiastica di non seppellire cadaveri nelle chiese.
MEMORIÆ SALLVVIÆ NEVILLÆ FILIÆ PIENTISSIMI PARENTES Si fece correre non solo voce, ma ben vero se ne scrisse, e si diede alle stampe, che nell’enunciato Monte di Vico ci era una iscrizione la quale per la natura degli caratteri ignoti non si sapeva leggere, nè capire; ma che un Parroco del Lacco avendosi dovuto condurre in Roma, se ne portò una copia; la stessa avendo fatta osservare alli periti, e savi nelle lingue orientali, gli istessi dissero di essere quelli caratteri Frigii, che divisavano l’arrivo, e la dimora della flotta di Enea nella rada del Lacco. Ciò che si è detto, si deve sapere di essere una novelluccia fantastica, la quale per effetto d’ignoranza, e di mancanza d’arte di critica si giunse a farsi notare tra la stampa: Né l’accennata copia del Parroco, né rapporto del medesimo in riguardo al giudizio degli esperti delle lingue ci sono stati giamai, o giamai sono comparsi. Né sul Monte di Vico si è veduta in alcun tempo la menzionata iscrizione, né ci è. La sola iscrizione esistente sul detto Monte di Vico è quella che di sopra si è descritta, e replicata, e che dà a significare di esserci stato un tempo, in cui su quel monte anticamente si formò e costruì un muro, o sia una fabrica o da difesa, o da abitarsi, come effettivamente su quel monte avvenne, e di sopra se n’è parlato bastantemente, onde si entrò senza dubio nel vero. Forsi l’ignoranza della lingua, e dell’alfabeto greco fece correre, e spacciare l’espregiata novelluccia, che per mancanza di critica, di raziocinio, e di discernimento fece scioccamente credersi, ed asserirsi da taluni. Li manoscritti, e gli atti relativi a Santa Restituta, e che derivano, e si diedero alla luce per il puro canale del Dotto, esatto, e critico Chioccarelli fanno rilevare, che nel Lacco, ed insieme nell’isola, circa il terzo secolo, ci erano de’ moltissimi abitanti, istruiti nella civiltà, nella disciplina, e ne’ doveri di riconoscenza, e di corrispondenza verso li morti, e li vivi. Questi manoscritti però dall’osservazione de’ caratteri si stima, che non oltrepassassero il 13 secolo, ma potevano essere copie di altri antichi manoscritti, mentre lo stesso dotto, e critico Chioccarelli non li tacciò di suppositizi; anzi si fece un pregio di farli comparire alla luce e di farne un degno regalo alli Padri Teatini de’ Santi Apostoli. Acciochè si rilevasse maggiormente l’antichità degli abitanti dell’isola, e del commercio, e del trattare di gente estera in essa si è andato in cerca di lumi, e di monumenti in altri comuni della stessa, ed è riuscito venirsi in chiaro di altre notizie. In Moropane, estesa, e ben’abitata contrada del comune di Barano ci è un luogo chiamato sin dagli antichi, e rimoti tempi Nitroli, e senza sapersene la derivazione, che nell’andare del 18 secolo poi senza veruno dubio si seppe; perché cotale luogo stava dedicato alla Ninfa Nitrolide, mentre da sotto ad una rupe vulcanica per alcune fessure esce una perenne abbondante calorosa acqua, che serve per
uso di bagni, e di salute, e via più per beverla, e per tutte le occorrenze delle famiglie, e contiene in vero del molto purificato nitro. All’intorno della detta rupe, e nelle vicinanze, nel 15, e 16 secolo erano li ragazzi soliti a fare delle diligenze, e delle ricerche per trovare delle monete, e delle medaglie, stanteché effettivamente se ne trovavano; ma già mai ci fu Parroco, o Cittadino, che avesse tenuta la cura di conservarne taluna per onore del luogo, e per far conoscere sotto qual dominio all’ora si stava. Verso la decadenza del 16 secolo, e prima del 1588 il Dottor Medico filosofo Giovanni Pistoja essendosi condotto dalla Capitale nel divisato luogo ad oggetto di osservare l’acqua di Nitroli, e la di lui scaturigine, alcuni figlioli, li quali andavano per quel contorno in cerca di monete, e di medaglie, e facendo de’ piccoli scavi, li venne fatto di cacciare fuori due tavolette di marmo. Una era lunga due palmi, e larga uno, ove ci erano incisi due alberi, e di sotto due donne, che per le mani tenevano un Puttino; ed in essa stava trascritta la voce Votum. L’altra in forma quadrata lunga, e larga un palmo, e mezzo; ne’ di cui angoli ci erano incisi quattro vasi da acqua colle parole incise LINFA UMBRI….. mancanti di quattro, o cinque lettere, a cagione che quella parte del marmo era stata infranta, e facilmente da colpo di zappa nel fossarsi. La prima tavola disegna, e dà a significare la salute, che quel puttino aveva ricevuto per l’uso, e mezzo dell’acqua di Nitroli, ed in ringraziamento, e memoria alla Ninfa Nitrolide s’era fatta quella tavola colla voce Votum. L’altra tavola dà ad intendere, che quell’acqua per la salute del puttino si dava a doccia colli vasi incisi; e la parola LINFA o doveva divisare la donna idonea a saper gettare l’acqua a doccia, o la madre del puttino, che teneva la cura per la salute del figlio, e fece il voto; o pure si volle divisare, che quell’acqua di Nitroli era la medesima celebre, e salutifera acqua, la quale in quelli tempi esisteva nell’Umbria, e se ne faceva grande, e generale uso; e di cui li medici ne decantano, e scrivono i salutevoli effetti. Nel 1757 nel contorno, e nella vicinanza della ridetta Rupe di Nitroli ad oggetto di fare degli aumenti nel fossarsi, e scavarsi taluni lavoratori scovrirono un gruppo di belle, e bentirate tavole di marmo, di cui essendosi sparsa la notizia, il Signor della Guardia Governatore del Castello d’Ischia spedì forza nell’additato luogo, e così tutte le tavole di marmo ritrovate furono trasportate nel quarto d’esso Signor De La Guardia sistente sul maschio del Castello d’Ischia: Indi essendosene fatta relazione al Sovrano, le medesime di Real ordine si doverono rimettere nel Real Museo. Le stesse erano di lunghezza circa palmi quattro, e di larghezza palmo uno, e mezzo con belle iscrizioni incise in lingua pura latina, e greca; dedicate alla Ninfa Nitrolide. In una d’esse si osservava scolpita una donna co’ capelli sciolti; ed un’altra donna con un vaso nelle mani, la quale dinotava di bagnare a doccia la testa di quella donna stava scarmigliata. La stessa ricevutane la sanità, dové dedicare alla ridetta ninfa Nitrolide quel bel gruppo di tavole marLa Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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moree fornite d’iscrizioni, e di figure sculpite, che poi o dalle vulcaniche eruzioni dell’isola istessa, e dalle ceneri tramandate, o pure dello sbocco del Vesuvio vennero sotterrate. Le medesime doverono essere fatte nel tempo, che la lingua latina, e la lingua greca erano nella di loro aurea purità. Io nel tempo della predetta scoverta era giovanetto, e stava in seminario per apprendere le lingue, e le scienze; ed avendo usato de’ mezzi per tirare le copie dell’iscrizioni, non mi fu permesso, ma solo potei osservare le tavole, e le incisioni, e considerarle. Intanto niuno del governo si mosse a ricorrere al Sovrano per ottenersi quel bel gruppo, acciochè se ne fusse adornata la graziosa fontana sita in mezzo della Città, e dell’abitato; siccome non ci fu chi avesse pensato a tirare le copie di quelle iscrizioni, onde si fussero conservati li lumi di quelli monumenti, che arrecavano dell’onore, e delle notizie per l’isola d’Ischia: Per prudenza bisogna finirsi di parlarne, e farne menzione. Tra le irregolarità, e disaccuratezze successe ci fu quella soprattutto, che niuno cittadino, o ecclesiastico avesse giamai tenuta la menoma attenzione di conservare qualunque sia di quelle monete, e medaglie rinvenite verso il 15, e 16 secolo, per potersi tenere alcun documento, che avesse potuto divisare e tempo, e dominio, e governo relativo all’isola, e sua antichità. Nel decorso del 18 secolo mentre si facevano de scavi per aumenti di territori al laterale dell’arco rimpetto oriente, corrispondente alla pubblica strada, si scovrì una piccola stanza terranea, ed in dentro si trovò qualche moneta, che dopo tempo mi riuscì di tenerne una del peso di grani XVII. Tale stanza fu sotterrata nell’ultima eruzione del 1813, come verrà distintamente dichiarato. Tale moneta era da una parte notata col nome di Carlo di Angiò, e col titolo di Hierusalem, et Siciliae Rex; e dall’altra il Mistero dell’Annunziata ben risaltante. Il Muratori nelle dissertazioni, e taluni scrittori Napolitani rapportano la figura di tale moneta, ma questa differisce nel risalto dell’ali, che tiene, quando le altre rapportate da cennati scrittori sono prive del risalto, e dell’altezza dell’ali. (La nota tra le virgolette è in margine della pagina ed è annullata – “In marzo del 1818 nel territorio del fu Scialoia sito nel vico da fabricatori mentre zappavano, fu trovata una moneta di Carlo 2° come quella divisata di sopra, però senza la cennata altezza delle ale. Di più nel decorso del secolo 18 in altro territorio confinante agli stessi, ed anco detto il Vico sotto al Colle del Salito in una stanzina sotterranea furono trovate monete ancora di Carlo 2 di Angiò, e talune di Pietro d’Aragona e della di lui moglie Costanza della stirpe Normanna”). La stessa moneta fa pure intendere, che il Re Carlo 2, il quale regnava nel regno di Napoli, e nel fine del 13 secolo, e nel principio del 14, dominava anche nell’isola d’Ischia; e nel tempo poco prima del 1300, il Sovrano dell’isola di Sicilia nell’isola d’Ischia non ci teneva dominio. Infatti 32 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
l’ultima eruzione dell’arso avvenuta verso il 1301 essendo effettivamente successa all’orchè l’isola stava sotto il dominio di Carlo, che il Vescovo avendo perduto e territorio e rendita, il prefato Re Carlo l’assegnò annui ducati trenta in oro, ma per l’espressa causa della bagliva, e della decima della bagliva che spettava alla chiesa maggiore, o sia cattedrale, che dalla Regia Camera terziatamente si sono pagati sin’al tempo dell’occupazione. Oltre gli accennati ruderi di antiche fabriche, e muri osservati nel Castello d’Ischia, nel Castellone, e nel Monte di Vico, e oltre li marmi, e le iscrizioni trovate, che davano a divisare l’antichità dell’abitazione nell’isola; nella medesima si sono ancora scoverte case sotterrate, e specialmente nelle vicinanze di Casamicciola si trovarono seppelliti dalla terra ziri di un volume così grande, che li fattorieri rimanevano sorpresi nell’osservarli; mentre non sapevano pensare, come mai si avevano potuti cuocere col forno; Anziché gli stessi erano ancora foderati, e coverti da dentro con piombo, o con stagno, o con altro metallo atto a stendersi, o a liquefarsi, vasi, che dovevano servire o per conservar vino, o per conservare acqua. Di più in diversi luoghi si sono osservati de’ lunghi, e larghi mattoni, che dinotavano chiaramente di aver tenuti di sotto de’ cadaveri; e di essere stati sepolcri; Siccome nella villa de Bagni da poco tempo sotto terra fu trovato un tumulo di mattoni lunghi, e larghi e così ne’ laterali, come nel pavimento, continente un cadavere, ma consumato. Sul colle de detti Bagni confinante al Lago fin agli ultimi giorni sono comparse le antiche fabriche di un’antico Monastero di Basiliani, il quale verso il 15 secolo venne soppresso, e successivamente delle di lui rendite ne furono fatti vari dipartimenti. Ruggiero Normanno circa l’anno 1129 divenuto Re di Sicilia, che sovrano del Regno di Napoli si determinò a levare li ducati, e le piccole potenze sovrane, e ci riuscì, come ci riuscirono li suoi successori. Quindi l’isola d’Ischia, la quale stava sotto il governo de’ Seniori, e de’ Cittadini Napolitani, passò sotto il dominio de’ Sovrani del Regno di Napoli, ma non ci è notizia istorica, e tradizione, che gente da colonia fusse nell’isola venuta. Costa però di sicuro, che sin dall’11 secolo in poi da volta in volta famiglie estere, e di provincia venivano a far dimora nell’isola, e ad abitarla. Così proseguì sotto li Re di Alemagna verso il 1195, e sotto il dominio de Re Angioini de Reali di Francia verso il 1266. Alfonso I° d’Aragona circa il 1443 essendosi impadronito del Regno di Napoli, quantunque dell’isola d’Ischia se n’era impossessato sin dal 1423, è notizia certa che avesse destinata nell’isola una colonia; ma se non fu colonia formale, fu però un destino, ed ordine del Re; onde si mandarono in Ischia tanto Officiali, e bassi Officiali veterani, che soldati, spagnoli, Catalani, Aragonesi, e Siciliani, li quali l’avevano prestato del servizio militare, e da guerra, a quali assegnò ancora de’ territori, acciò se l’avessero per proprio uso coltivati, ed aumentati.
Non si dubita, che molte famiglie dell’isola, ma soprattutto del Castello, tanto per essere aderenti, ed attaccate alla Regina Giovanna, quanto alli Sovrani Angioini, abbandonarono l’isola, e andiedero o in altri luoghi, o nella Città di Napoli ad abitare. In appresso, e verso il 1503 arrivato Ferdinando il Cattolico Re di Aragona al governo del regno di Napoli, e così successivamente, non s’intese più spedizione di Colonia, né risoluzione di molte famiglie unite per dimora, ed abitazione nell’isola; mentre gli antichi abitanti del Castello, e dell’isola si erano tanto moltiplicati, che non ci era bisogno più di essere famiglie per compirla di abitazione. In quale considerazione, contemplazione, e ricerca fusse stata e questa isola, e questo Castello presso il Re di Napoli, di Sicilia, e li Sovrani esteri, onde se ne rilevi il preggio, e la stima in cui erano, si osserverà all’ora quando si verrà a dare in ragguaglio istorico dell’istesso Castello. Tale isola non ostanti di essere stato un prodotto della natura, e da volta in volta e nelle rispettive di lei parti, e nel tutto vulcanizzato; o di essere stato un totale prodotto vulcanico da tempo in tempo avvenuto per effetto delle replicate sotterranee accensioni, ed eruzioni esplose dall’interne parti di quel luogo dell’isola dove esiste, pure è stata, ed è tanto fertile, che produce, e somministra biade, granoni, legumi, e frutti in grande abbondanza, siccome quantità di diverse uve saporosissime, e delle uve da vino, e tante, che formano la gran derrata del vino, la quale è la ricchezza, ed il primo capo di commercio, che tiene l’isola con tutta l’alta Italia litorale e colla Città di Napoli: Del pari che il mare l’è d’intorno produce del molto, ed abbondante dilicato, e saporoso pesce; come passa per esso ne’ corrispondenti tempi il corso de tonni, delle palamite, de sculmi, e de pescispada, a quale oggetto nel di lei mare ci sono due tonnaie stimate e preggiate. Sin dall’antichità, e quasi sin al 16 secolo le abitazioni dell’isola erano dentro al Castello, in dove li fuochi giugnevano sin’al numero di 1892; numero, che sorprende, ma senza potersi mettere nel dubio. Il medesimo tra tutti li monti, e promontori vulcanici dell’isola era il forte, il più sicuro, ed il più inaccessibile, maggiormente per essere circondato dal mare da per tutto. Li naturali ad oggetto di evitare le incursioni de barbari, de’ pirati, e di quelli co’ quali si stava in guerra, ed anco per starsi al coverto delli stessi tremuoti, e delle nuove eruzioni, in esso abitavano, e commerciavano; e maggiormente, che nell’istesso non si sentono più scosse forti di tremuoti, né si teme più di ulteriori accenzioni, ed eruzioni. A tale oggetto nel medesimo esistevano il governo militare, il governo ecclesiastico, e vescovile, il governo politico di giustizia, ed il governo economico ed amministrativo; e tale governo era generale per gli abitatori dell’istesso, e di tutta l’isola, siccome in esso esistevano tutte le officine per la tenuta de’ Parlamenti, e per gli affari relativi al pubblico. Per l’isola ci era pochissima gente, e quella che riservatamente stava addetta alla custodia de territori, e de’ prodotti; e nell’intelligenza, che li Cittadini del Castello costumavano, e solevano uscire verso l’alba dallo stesso, andavano, e
giravano per li propri interessi, affari, e per li propri territori, e verso il tramontare del sole si ritiravano, portando con loro carichi di robbe, di legna, e di frutti. Coll’andare del tempo, e via più sotto il dominio spagnolo, e dell’Imperatore Carlo V, cessate le incursioni de barbari, e il timore di nuove vulcaniche eruzioni, li Cittadini, e naturali del Castello, e nobili, e distinti, e popolari pian piano, ed a poco a poco abbandonarono quella bella, e salutevole stazione, e dimora, e si dispersero per l’isola; e siccome principiò, così ha proseguito in modo, che nel Castello all’infuori di pochissimi militari, appena nel 1816 esistono tre, o quattro paesani, che attendono a coltivare, e guardare certi pezzetti di territori nel medesimo si fermarono. Si nota, che dopo il dominio di Carlo V nell’isola si soffrì pure l’invasione, e l’assedio di Barbarossa. Quando principiò l’isola ad acquistare più numerosa abitazione, e si li diede rispettivamente governo, ed amministrazione economica, si tenne cura non solo a formarsi, e costruirsi delle torri per difesa del comune, e delle torri private, ma si tenne maggiore cura ad ordinarsi, ed ad eseguirsi ne’ tempi estivi le guardie civiche littorali nelle ore della notte, oggette di avvisarsi l’abitazione nel caso, che ci poteva essere sbarco de barbari, e tali guardie stavano così situate, che se mai nell’ore notturne ci potevano essere sinistro, ed assalto per la via di mare, la voce poteva, e doveva correre per li luoghi littorali, dove ci erano abitazioni, acciò ogni abitato si disponeva o per la propia salvazione, o per la propia difesa. Che perciò gli abitati, che si accostano vicino alli lidi, sono così freschi, che tanto le costruzioni delle torri, e delle parrocchie, che le scede de’ Notari, li libri de’ Parlamenti, e li libri parrocchiali battesimali appena arrivano al poco più di tre secoli. Di sopra, come si è accennato, di essere l’isola abbondante ne’ prodotti per il sostentamento, e mantenimento della vita, Strabone attesta di essere stata così fin da rimotissimi tempi, ed il mare d’intorno abbondante di saporosi pesci; Parimenti dalla di lei terra li Calcidesi, e gli Eritriesi ne seppero estrarre, e tirare l’oro, per cui divennero ricchi, secondo attestò il medesimo Strabone. Giovanni Eliseo in un rapporto, che fa de’ bagni di terra di Lavoro, assicura che li veneziani spedirono nell’isola de’ lavoratori, e degli esperti, affine di estrarre, e tirare dalla di lei terra l’oro; ed effettivamente l’estrassero, ma il lavoro non si poté proseguire, perchè la spesa, e l’esito sorpassava di molto il ritratto, e l’introito; e più non si tentò l’esperimento. Che certi terreni dell’isola contengono dell’oro, ed abbiano nella propria terra oro, specialmente sul monte di Campagnano tenimento della Città, era costante tradizione. Dr. Giacomo Martorelli Cattedratico, e Professore di greca lingua, e versato nella lettura di Omero, e di moltissimi scrittori greci, aveva rilevato esserci dell’oro nell’isola, e particolarmente su l’accennato monte di Campagnano; e negli incontri lo soleva dire spesso, e lo diceva con espressioni di certezza. La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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Ci esistevano ancora miniere di Alume, onde il Genovese Bartolomeo Pernice, il quale nella dimora in Rocca di Siria, aveva acquistata in tal genere piena cognizione, e ne aveva imparata la professione, e l’arte di cacciare l’alume. Lo stesso nell’andare con bastimento in Napoli, passando per la vicinanza dell’isola, si accorse del mentovato genere, e perciò ci si condusse, ed avendolo effettivamente scoverto, ed osservato, lo fece ben conoscere, e ne ammaestrò li naturali; li quali impararono così bene l’arte che per più secoli ne arrivarono a tirare all’anno fin’a mille, e cinquecento cantaia; prodotto che recava gran profitto, e ricchezza. Quando si verrà a parlare del comune di Casamicciola, se ne dirà alcuna cosa di più. Questa miniera finì verso la fine del 15 secolo, e ne rimase qualche cosa nell’arso d’Ischia, ed in alcuni monti; siccome l’osservò il medesimo Dottor Medico Signor Andria. Forsi tanto il genere dell’alume, quanto il genere dell’oro, doverono ricevere delle modificazioni per effetto de’ continui vapori minerali, per cui venne a terminarsi il prodotto. Le miniere dell’argilla, e della creta sono state inesauste, ed immancabili; mentre da tempo antichissimo, che delle stesse se n’è fatto uso continuo per li vasi, e per li mattoni, non sono mai finite, e dimostrano di non volere giamai terminare; a causa che quelle grotte che si sono scavate, e formate per tirarsi tali materiali, dopo una lunghezza d’anni si trovano di nuovo riempite de medesimi. Si aggiunga che il P. Arduino intende far rilevare, e conoscere, che nell’isola ci fu un tempo ancora la fattoria, e il lavoro del metallo; e veramente nell’Isola si è trovato qualche indizio e lume in tal assunto, siccome su l’oro, che si è accennato. L’isola, nel laterale riguarda il nord, è fornita di buone, e sicure baie, tenitori, di seni, e di rade; e le migliori ne sono due; Quella della Città d’Ischia, e quella del Comune del Lacco, nelle quali non ci è memoria di essersi perduto bastimento, basta che tenga buone e forti ancore; e soprattutto sicurissima la rada della Città, in cui essendo successe tempeste, venti, e mosse di mare per più giorni, si è sempre osservato, che li bastimenti ancorati in essa si sono salvati; e taluni bastimenti nel porto di Napoli si sono naufragati, e sommersi. Si nota come nuovo ed inaudito successo, ed inconveniente, che si sentì nella notte de 17 a 18 Gennaro del 1819. Un bastimento spagnolo carico di formaggi essendosi ancorato fuori di rada, e su le alghe, avvenuta una empetuosa tempesta, il detto bastimento trascinandosi le ancore andiede ad imbattere in una scogliera laterale ad un lungo molo del Castello, dove naufragò, ma senza verun danno dell’equipaggio; però l’ancorarsi fuori di rada non fu senza fine secondario. Li naturali, ed abitanti dell’isola non sono tirati per l’ozio; la maggior parte di essi attende alla cultura della campagna, ed agli aumenti fruttiferi de’ territori: Altra parte attende al commercio marittimo dell’Italia, e della Sardegna; e la terza parte attende alla pesca. Le donne parimenti sono diligenti,ed attendono rispetti34 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
vamente alli lavori delle campagne, ed alli lavori delle tele, e del filare, ed a diverse industrie; delle quali si darà dettaglio più distinto, all’ora quando si farà parola de rispettivi, e particolari comuni dell’isola. Gli uomini son tutti ben fatti, e proporzionati, e le donne quasi tutte vistose, e belle; e li piedi degli uni, e delle altre, ancorchè generalmente battono scalzi la terra, sono ben tirati, e le donne quantunque in gran parte addette alla fatica per il mantenimento, e sostentamento della propia vita, pur tutta volta compariscono sempre colorite, e fresche. Sicchè nell’isola non ci è deformità, né mostruosità, e sono tutti di costruzione ben fatta. Tutte le enunciate doti, e prerogative hanno fatto sempre ricercare quest’isola dagli esseri, e via più per li di lei seni, e rade, onde gli stessi antichi Romani si spinsero a guerra aperta per levarla dal dominio de Napolitani, e se ne impadronirono; per cui le di loro flotte venivano nelle ricorrenze a ricoverarsi nelle mentovate baie, e siccome fece Libone Generale de’ Romani che attese a far’ancorare nella baia, e seno dell’attuale Città l’armata navale della republica, e maggiormente per essere a buona portata di scovrire, e potere scovrire dal mare del Castello le forze navali e terrestri, le quali stavano ne’ tenimenti di Pozzuoli, contrarie a Pompeio,ed alla republica. Siccome da sopra il monte Campagnano, vicino alla Città si scovre ad occhio nudo il territorio di Pozzuoli, e suoi mari, e lidi, nello stesso modo quelli di Napoli. Rade, baie, e seni, che furono ricercati dagli antiche Eritriesi, e Calcidesi, e da Enea, e più quella Città, che servì, ed occorse per dare ricovero alle galere, ed alle navi de’ ricchi cittadini d’Ischia, e delli Coscia, e Salvacoscia; e soprattutto alla flotta da guerra comandata da Pietro Salvacossa in nome di Federico Re di Sicilia: che alle flotte de due Sovrani erano in guerra Luigi d’Angiò, e Ladislao; e poi all’armata navale sicula Aragonese ne’ primi tempi d’Alfonso, e successivamente a quella di Giovanna d’Angiò, allora quando fece dimora nel Castello d’Ischia; e da dove colla medesima dava tanto da fare a Ferdinando I Aragonese. Una tale opportunità, e sicurezza, di unita alla certezza di una sicura difesa, fece a tutto sforzo ricercare l’Isola d’Ischia e propiamente la di lei baia vicino al Castello a D. Pietro, fratello del Re Alfonso allorchè del dì 5 di Agosto del 1435 Alfonso nelle acque di Ponza, essendo stato dopo dieci ore di forte combattimento battaglia, rotto, e fatto prigioniero da Genovesi intieramente, il solo D. Pietro colla nave di suo comando poté salvarsi, e condursi nella baia d’Ischia vicino al Castello. Appunto le stesse sopra enunciate doti, e prerogative, tra più, come ho detto, delle divisate baie, rade, seni, e territori fecero tenere in considerazione l’isola del dottissimo Geografo Claudio Tolomeo, registrandola, e nominandola tra le isole fortunate, come isola fortunata, la quale situò nel grado 39, e minuti 20 di latitudine, e nel grado 40, e minuti 30 di longitudine, fissando il punto della sua misura, e del circolo della latitudine nelle isole fortunate, o siano Canarie. ( I - continua)
Forio – La Scuola Calcio Torrione ha festeggiato i 25 anni di attività Il 9 ottobre 1987 un gruppo di ap-
passionati sportivi foriani, amanti del calcio giovanile, pose le basi per la costituzione di una Scuola Calcio, che operasse sul territorio e valorizzasse le potenzialità calcistiche dei giovani locali. All’inizio, e quasi per caso, si pensò di chiamarla Soccorso, in omaggio ad uno dei tesori artistici ed architettonici del paese; ma successivamente tutti concordarono nel denominarla Torrione, proprio come un altro dei simboli inconfondibili ed eterni del patrimonio storico di Forio. Il 22 ottobre 1987 la FIGC ratificò l’affiliazione della A. S. Scuola Calcio Torrione come società di Puro Settore con numero di matricola 203256. «L’associazione ha lo scopo di propagandare e promuovere iniziative e di sviluppare la pratica del gioco del calcio, rispettando i regolamenti della Federazione Italiana Gioco Calcio» si legge nell’atto costitutivo della società presieduta all’epoca da Pasquale Melluso, cui sono succeduti nel tempo Giuseppe Di Spigna, Nicola Serpico, Salvatore Cucinotta, Salvatore Di Meglio, Pietro Russo, Maurizio D’Ambra. Grazie all’entusiasmo, all’intuizione, alla volontà e alla passione per il calcio di questi “pionieri”, la Scuola Calcio Torrione ha potuto, per tanti anni, operare nello sport e nel sociale, conseguendo risultati a dir poco lusinghieri; essi scelsero quali colori sociali il “Giallo del sole” e il “Rosso del fuoco”, simboli della vita, come sa quello stesso sole dei tramonti di Forio. La Scuola Calcio Torrione cominciò ritagliandosi un piccolo spazio all’ombra di realtà maggiori, operanti sia nel più ristretto ambito del Comune di residenza, sia nel più ampio panorama dell’isola di Ischia. I suoi ragazzi hanno calcato terreni di gioco gibbosi e polverosi, hanno esibito con orgoglio le magliette intrise di sudore e di fango, hanno affrontato trasferte agitate, hanno vinto grandi partite e patito sconfitte cocenti. Nelle fila del Torrione sono cresciuti e maturati atleti che, dal polveroso e glorioso terreno del “Salvatore Calise”, sono poi approdati su palcoscenici calcistici ben più titolati. È il caso speci-
fico di Maurizio Lauro, che a Natale di qualche anno fa festeggiò, assieme ai piccoli atleti del Torrione, il raggiungimento del massimo traguardo auspicabile per un giovane atleta, e cioè giocare in serie A. Nella massima serie ha indossato dapprima la maglia dell’Ascoli, poi quella della Reggina e infine quella del Cesena, fino a diventare oggi un punto di forza della Ternana in serie B. Una grande soddisfazione e motivo di orgoglio per i nuovi e vecchi dirigenti del Torrione, che hanno visto riconosciuti e premiati i loro sforzi, le energie profuse ed i tanti sacrifici fatti. Ma non bisogna dimenticare i tanti altri atleti che dignitosamente hanno calcato i vari campi regionali ed interregionali, ritagliandosi il proprio spazio e la propria importanza, e portandosi sempre nel cuore il Torrione. Vale la pena di ricordare anche Giuseppe “Peppe” Mattera, capitano dell’Ischia Isolaverde, appena promossa trionfalmente in Lega Pro dopo un avvincente campionato di serie D, dove ha collezionato successi e record di serie. Ma il Torrione ha visto militare tra le proprie file anche molti oriundi ed extracomunitari: il suo “straniero” più affermato è stato sicuramente il talentuoso Mariano Molina, centrocampista dai piedi buoni, che, a metà degli anni ‘90, dopo una serie di prestazioni esaltanti, fu visionato ed acquistato dal Rieti, con cui disputò un paio di campionati ad alto livello in serie D, vincendo il titolo di campione nazionale juniores nel 1997. A guidare questi giovani vi sono stati tecnici preparati ed appassionati (nel periodo d’oro degli anni '90 i fratelli
Antonio e Michele Leone, Rosario Tortora ed Antonio Schiazzano raggiunsero risultati a dir poco sorprendenti nel panorama calcistico regionale e nazionale nei campionati e tornei federali) e dirigenti oculati che hanno speso tutte le loro energie per il miglioramento della società. L’impegno messo in campo quotidianamente, nelle attività di crescita umana e sportiva di migliaia di ragazzi, in tutti questi anni ha evidentemente dato credito e forza all’iniziale progetto, consentendo di essere ancora oggi, nel ventiseiesimo anno di attività e dopo aver appena tagliato il prestigioso traguardo del “quarto di secolo” di lavoro, protagonisti della stagione sportiva. Radicata sul territorio e a questo rivolta per elezione, la Scuola Calcio Torrione ASD, nel solco della tradizione, si prefigge la possibilità di esaltare, nella crescita, non solo le potenzialità tecniche dei ragazzi dell’isola d’Ischia, ma anche le espressioni più qualificate e competenti di istruttori-educatori e allenatori pure ischitani, cui vengono affidati a loro volta e che vengono scelti e selezionati in funzione dell’alto profilo e valore professionale espresso. In occasione di questo storico traguardo raggiunto la società ha sentito ancora la necessità di ringraziare tutti coloro che nel tempo hanno contribuito alla crescita ed allo sviluppo dei giovani, hanno difeso questo inestimabile patrimonio di valori e di cultura, lasciando un segno indelebile e un ricordo vivo e infinito del tempo passato insieme.
Antonio Schiazzano
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Platea delli territori situati nell’isola d’Ischia alli bagni venduti nell’anno 1740 all’Ill.mo Signor D. Francesco Buonocore medico primario di S. M. Nostro Signore * Parte II
Descrizione particolare dei terittori delli Bagni concessi l’anno 1650 dalli sig.ri Bernardino e Francesco Antonio Polverino ad alcuni particolari dell’isola d’Ischia
Descrizione particolare del territorio nominato il Monte di S. Pietro concesso l’anno 1650 per annui ducati 12 a: Francesco di Meglio - Giò Domenico di Meglio - Pietro di Paula - Onofrio di Paula - Giacomo di Paula d’Ischia 1650 - alli 25 Maggio per il notaro Carlo Martuccio
di Napoli= Francesco Antonio Polverino di Napoli a’ nome della fu Giuditta Polverina sua nipote ed erede del fu Marco Antonio suo padre e fratello del detto Francesco Antonio, e Bernardino Polverino figlio et erede del fu Girolamo Polverino, e choerede per metà della detta Giuditta sua sorella consobrina con detto Francesco Antonio, concedono in enfiteusi perpetua a’ Giò Domenico di Meglio a’ nome ancora di Francesco suo fratello, Pietro di Paula, Onofrio di Paula e Giacomo di Paula fratelli alcuni territori posti nell’isola d’Ischia, e propriamente dove si dice a’ S. Pietro a’ Pantaniello, confinanti al lido del mare, del Lago, e le Calcare, a’ corpo e non a’ misura per l’annuo censo enfiteutico perpetuo d’annui ducati dodici nel primo di Luglio di ciascun anno, come questo ed altro appare dall’instrumento che si conserva nelli atti del detto notaro presentemente 1740 conservati da suoi eredi, ed amministrati dal notaro Gennaro Monaco residente in una delle curie di Seggio Capuano, ed una fede autentica si ritrova presentata al foglio 4 delli atti attivati nella G. C. in banca di Gennaro della Monaca appresso il scrivano Lanfranco, de quali se ne conserva una copia autentica estratta dal foglio del detto scrivano Lanfranco per ordine del sig. don Francesco Bonocore cessionario dei sig. Polverini intermezza persona della Signora D. Anna Polverino e sig. de Stefano madre e figli mediante instrumento delli 4 Maggio 1740 per il notaro Domenico de Grado. Osservazione Il sopradescritto territorio del monte di San Pietro a Pantaniello censuato dalli Signori Polverini come sopra a
* La prima parte è stata riportata ne La Rassegna d'Ischia n. 2/2013. Trascrizione di Gianni Matarese e Raffaele Castagna 36 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Giò Domenico e Francesco di Meglio, a Pietro, Onofrio e Giacomo di Paula per annui ducati dodeci nel 1 di luglio, fu diviso in due porzioni, delle quali una spettò ai suddetti Giò Domenico e Francesco di Meglio fratelli con il peso di annui ducati sei, e l’altra ad Onofrio, Pietro e Giacomo di Paula con gli altri annui ducati sei. Queste porzioni furono suddivise, cioè quella di Giò Domenico e Francesco di Meglio in due parti con la metà del peso dei ducati tre per ciascheduna = della sopradetta divisione e suddivisione non si trova documento nelli atti dei Notari di quel tempo, ma certamente si deduce da molte asserzioni per essi censualisti fatte in altri contratti.
Monte di S. Pietro, per ann. duc. 12 diviso nelle seguenti porzioni:
Gió Domenico di Meglio la quarta parte per annui ducati 3=0
Francesco di Meglio altra quarta parte per annui ducati 3=0 Pietro di Paula una terza parte della metà, ducati 2=0 Onofrio di Paula una terza parte della metà di annui ducati 2=0 Giacomo di Paula una terza parte della metà di annui ducati 2=0 Somma annui Ducati 12=0
posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno a S. Pietro, appresso i beni delli eredi di Pietro de Paula, delli eredi d’Onofrio de Paula, di Francesco di Meglio, la via della Corte, franco eccetto dal peso d’annui ducati due dovuti alli eredi di Girolamo Polverino, ed annui ducati cinque per il prezzo di ducati 50 a Carlo Sasso, come questo ed altro più chiaramente appare dal instrumento conservato nelli atti del detto Notaro appresso gli eredi del fu Notar Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia.
In particolari partite si descriveranno passaggi, mutazioni, obbligazioni e successioni dei possessori, e contratti fatti sopra detti territorj sino allo stato presente 1740, per quelle notizie ritrovate particolarmente nelli atti delli notari contemporanei.
1668 - alli 22 Ottobre, per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia, Giacomo de Paula nel suo testamento dichiara doversi pagare al sig. Bernardino Polverino di Napoli carlini venti di censo enfiteutico per una annata finita, sopra un terreno con casa, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno per il suolo del detto terreno e come questo ed altro più chiaramente appare dal testamento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del fu Notaro Aniello Athanastasio di Cigliano d’Ischia.
Concessione a’ Giacomo de Paula per ducati due annui pagati ora da Raimondo Zuppardo presente possessore del concesso territorio nominato S. Pietro
1650 Giacomo de Paula 1668 Rosa de Paula 1682 Antonio Zuppardo 1740 Raimondo Zuppardo Giacomo di Paula per la sua porzione del terreno a’ S. Pietro a’ Pantaniello censuato ad esso in solidum con Pietro et Onofrio Di Paula, Giò Domenico e Francesco di Meglio mediante instrumento delli 25 Maggio 1650 per il notaro Carlo Martuccio di Napoli, come diffusamente è stato detto, pagava annui ducati due della somma delli annui ducati dodeci nel 1 di Luglio per tutto il detto territorio, per la terza parte della metà ad esso toccata in porzione nella divisione con Pietro ed Onofrio de Paula, della quale divisione abbenchè non vi sij instrumento, contutto ciò chiaramente si deduce e si prova con le seguenti notizie. 1661 - adì 1 Giugno per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia= Giacomo di Paula vende a’ Domenico Sorrentino annui ducati tre a prezzo di ducati trentacinque sopra un terreno di moggia quattro con Casa terrannea e Piscina,
1682 - alli 15 Marzo, per il notaro Giò Tommaso Filisdeo d’Ischia, Rosa de Paula moglie di Salvatore Montefusco, e figlia et erede del fu Giacomo di Paula, cede a’ Carlo de Paula un terreno, posto nelle pertinenze d’Ischia dove si dice lo Bagno, con casa, appresso i beni d’Aniello de Paula, il Lago, e la via pubblica, franco eccetto dal peso d’annui ducati due dovuti al sig. Bernardino Polverino di Napoli, ed altri come questo ed altro più chiaramente appare dal instrumento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del fu notaro Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia. Osservazione La sopra descritta cessione di Rosa de Paula in Carlo de Paula, o’ non ebbe il suo effetto, o’ fu immediatamente forse per scrittura particolare retrocesso dal detto Carlo alla sopranominata Rosa il detto terreno, perché nel medesimo anno 1682 alli 11 Aprile fu cedduto di novo dalla sudetta Rosa ad Antonio Zuppardo, come segue. 1682 - alli 11 Aprile per il notaro Giò Tomaso Filisdeo d’Ischia Rosa de Paula moglie di Salvatore Montefusco, e figlia ed erede di Giacomo di Paula, cede ad Antonio Zuppardo un terreno con casa, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, appresso i beni d’Aniello di Paula, il Lago e la via pubblica, franco eccetto d’alcuni pesi e particolarmente annui ducati due al sig. Bernardino Polverino di Napoli, l’istesso che fu dalla sopranominata Rosa ceduto a’ Carlo de Paula mediante istrumento delli 15 Marzo 1682 per lo stesso notaro Giò Tomaso Filisdeo, come questo ed altro più chiaramente appare dal detto Instrumento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del fu notaro Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia. 1693 - alli 13 ottobre per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia Antonio Zuppardo vende alla chiesa della SantisLa Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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sima Annunziata di Campagnano annui ducati tre, sopra uno terreno arbustato e vitato con casa, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, appresso i beni di Mauro Di Meglio suo cognato, il lago e la via publica, franco eccetto dal peso d’annui ducati due dovuti al sig Bernardino Polverino di Napoli per il suolo = ducati 3 al sig. Nicola Morgione, e ducati 5 a’ Carlo Sasso, come questo ed altro più chiaramente appare dal detto Instrumento conservato nelli atti del detto notaro, appresso gli eredi del fù notaro Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia. 1697 - alli 2 settembre per il notaro Pietro Paulo Monte di Casamicciola, Antonio, ed il R. D’ Giuseppe Zuppardo vendono a’ Mauro di Meglio annui ducati ventiquattro, sopra uno terreno di moggia due, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, e S. Pietro, appresso i beni d’Aniello di Paula, di S. Pietro delli Bagni, franco e libero d’ogni peso, come questo ed altro più chiaramente appare dal detto Instrumento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi dello stesso in Casamicciola. L’asserzione per franco e libero del detto terreno di S. Pietro fatta ad Antonio e D’ Giuseppe Zuppardo antecedente è falsa, perché al sopranominato Antonio fu ceduto il detto terreno, come si è detto di sopra nell’Instrumento di cessione delli 11 Aprile 1682, particolarmente con il peso d’annui ducati due a’ Sig. Polverini ed altri pesi e l’istesso Antonio nell’instrumento delli 13 Ottobre 1693 già descritto confessa il detto debito d’annui ducati 2 a sig. Polverini con altri pesi in detto instrumento descritti, onde al detto instrumento del 1692 non si deve avere credenza alcuna, perché fondato sopra la falsità. Si deve bensì asserire che i detti Zuppardi hanno venduto detta somma di ducati 24 sopra la mettà solamente di detto terreno, il quale è in misura moggia quattro come si asserisce nel instrumento del 1 Giugno 1661 di sopra accennato, e però nella loro mente i detti Zuppardi hanno forse considerata detta mettà libera d’ogni peso, e l’altra mettà obbligata ai pesi di tutto il terreno, la qual cosa però in sostanza è un bel artifizio per mascherare la falsità, ma evidentemente si conosce quanto contraria al vero sijno simili asserzioni, e non praticabili in bona coscienza. 1740 - alli 4 Maggio per il notaro Domenico de Grado di Napoli la sig.ra Baronessa D’Anna Polverina vedova del fu D’ Giò Battista de Stefano, co’figli ed eredi del detto D’ Giò Battista de Stefano vende al sig. don Francesco Bonocore diversi censi da conseguirsi sopra alcuni territorj posti nell’isola d’Ischia e particolarmente annui ducati due da Raimondo Zuppardo del fu Antonio sopra un terreno, posto nelle pertinenze d’Ischia dove si dice lo Bagno e propriamente a’ S. Pietro, il quale fu di Giacomo de Paula, come questo ed altro più chiaramente appare dal detto instrumento. Osservazione 1722 - alli 20 Ottobre per il notaro Natale Bonocore 38 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
d’Ischia Antonio Zuppardo s’obbliga pagare a’ Grazia Zappatta sua figlia monaca di casa annui ducati sei dai primi frutti d’uno suo terreno di moggia quattro, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice allo Bagno, e propriamente S. Pietro, appresso i beni di Marco di Meglio, di Pietro di Paula, il Lago, e la via publica, franco eccetto dal peso d’annui ducati 2 alli eredi Polverini, ducati 3 al sig. Nicola Morgione, ducati 5 al Primicerio d’Andrea Sassi, e ducati 3 alla santissima Annunziata di Campagnano, come il tutto più chiaramente appare dal Instrumento. Concessione ad Onofrio de Paula per ducati due annui pagati presentemente da D’ Francesco Bonocore d’Ischia possessore del concesso territorio nominato S. Pietro
1650 Onofrio de Paula 1675 Camilla Iadi Pietro 1684 Giuseppe Terzuolo 1685 Marco di Meglio 1726 Nicola ed altri de Meglio Onofrio di Paula per la sua porzione del terreno a’ S. Pietro a’ Pantaniello censuato ad esso in solidum con Pietro e Giacomo di Paula, Giò Domenico e Francesco di Meglio mediante Instrumento delli 25 Maggio 1650 per il notaro Carlo Martuccio di Napoli, come diffusamente si è detto, pagava annui ducati due della somma delli annui ducati dodeci dovuti nel 1 di Luglio per tutto il detto territorio, per la terza parte della metà ad esso toccata in porzione nella divisione con Pietro e Giacomo de Paula, della qual divisione abbenché non vi sij Intrumento, con tutto ciò chiaramente si deduce, e si prova con le seguenti notizie. 1652 - alli 26 Marzo per il notaro Scipione Calosirto d’Ischia Onofrio di Paula vende a’ Giuseppe Calosirto annui ducati tre per capitale di ducati trenta sopra un terreno arbustato e vitato di Moggia uno e mezzo, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, appresso i beni di Pietro e Giacomo di Paula suoi fratelli, via pubblica e vicinale, franco eccetto dal peso d’annui ducati due
dovuti alli sig. Francesco e Bernardino Polverini sopra il detto terreno propriamente chiamato a’ S. Pietro a’ Pantaniello, come questo ed altro appare dal detto istrumento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del notaro Aniello Athanasio di Cigliano della città d’Ischia 1625 - alli 14 Febbraio per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia Camilla Iadi Pietro nel suo instrumento dichiarava erede Girolamo Iadi Pietro suo fratello carnale. Item asserisce possedere come erede di Domenico, Giuseppe Antonio, Domenica, Nicola et altri de Paula premorti ad essa nel tempo della peste, e figli d’essa testatrice, e d’Onofrio de Paula suo primo marito, una masseria a’ S. Pietro a’Pantaniello con diversi pesi e particolarmente annui ducati due alli sig. Polverini di Napoli per il suolo come questo ed altro più chiaramente appare da testamento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del notaro Aniello Athanasio d’Ischia= 1675 - alli 5 Agosto per il detto notaro Scipione Cigliano d’Ischia Camilla Iadi Pietro presentemente moglie di Bernardino Bonocore cassando il testamento fatto giorni sono, per il presente dichiara eredi Antonia, Lucrezia, e Giovanni Iadi Pietro fratello e sorelle figli del fù Girolamo suo fratello come questo ed altro più chiaramente appare dal detto testamento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del notaro Aniello Athanasio d’Ischia. 1677 - alli 14 Novembre per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia, Antonia, Lucrezia e Giovanni Iadi Pietro nipoti ed eredi della fù Camilla Iadi Pietro concedono in enfiteusi perpetua ad Aniello de Paula del fù Pietro uno terreno arbustato e vitato di Moggia tre incirca, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, e propriamente S. Pietro, appresso i beni di detto Aniello de Paula, di Mauro di Meglio, di Francesco di Meglio Noviello, franco eccetto dal peso d’annui ducati due dovuti al sig. Bernardino Polverino di Napoli per il suolo- l’annuo censo di ducati quattordici- come questo ed altro più chiaramente appare dal detto Instrumento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del notaro Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia= Osservazione La sopra descritta censuazione fatta dalli eredi di Camilla Iadi Pietro ad Aniello de Paula, o’ non ebbe il suo effetto, o’ fù dal detto Aniello nelli anni susseguenti al 1677 sino al 1684 retrocesso e ceduto il detto censuato territorio, perche nel detto anno 1684 i detti eredi fecero la vendita del nominato e censuato territorio come segue: 1684 - alli 3 dicembre per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia, Antonia, Lucrezia e Giovanni Iadi Pietro nipoti ed eredi della fù Camilla Iadi Pietro vendono a’ Giuseppe Terzuolo uno terreno di Moggia tre, posto nelle pertinen-
ze d’Ischia, dove si dice lo Bagno a’ S. Pietro, appresso i beni d’Aniello di Paula, d’Antonio Zuppardo, demanio della città d’Ischia, il lago, e la via pubblica, franco eccetto dal peso d’annui ducati due dovuti al sig. Bernardino Polverino per il suolo- per il prezzo di ducati trecento e dieci dal qual prezzo sono dedotti diversi debiti e particolarmente ducati settanta per gli annui ducati due alli sig. Bernardino ed altri Polverini per il suolo- come questo ed altro più chiaramente appare dal detto Instrumento conservato nelli atti del detto notaro appresso gli eredi del notaro Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia. 1685 - alli 22 dicembre per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia, Giuseppe Terzuolo vende ad Antonio Zuppardo uno terreno vitato e fruttato di moggia tre, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno a S. Pietro, appresso i beni d’Aniello di Paula, d’Antonio Zuppardo sudetto, della Città d’Ischia il Lago, e la via publica, franco eccetto d’alcuni pesi e particolarmente d’annui ducati due dovuti al sig. Bernardino Polverino, l’istesso venduto al detto Giuseppe da Lucrezia, Antonia e Giovanni Iadi Pietro mediante Instrumento delli 3 Dicembre 1684 dallo stesso notaro Scipione Cigliano per prezzo di ducati 280, dal quale sono dedotti ducati settanta per capitale delli annui ducati due dovuti alli sig. Polverini per il suolo come questo ed altro più chiaramente appare dal detto Instrumento conservato nelli atti del detto Notaro appresso gli eredi del notaro Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia= 1685 - alli 22 Dicembre per il notaro Scipione Cigliano d’Ischia, Antonio Zuppardo dichiara che il terreno ad esso venduto mediante Instrumento sotto il presente giorno, anno, mese e Notaro da Giuseppe Terzuolo spetta a’ Mauro di Meglio del fù Giò Domenico di Celse avendovi esso Antonio avuto solamente il nudo nome come questo ed altro più chiaramente appare dal detto instrumento nelli atti del detto Notato appresso gli eredi del Notar Aniello Athanasio di Cigliano d’Ischia. 1686 – alli 4 Maggio per il notaro Domenico del Vecchio di Napoli, Marco di Meglio d’Ischia s’obbliga pagare al sig. Bernardino Polverino annui ducati due di censo enfiteutico perpetuo, sopra una porzione di territorio, posta nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice li Bagni, o’ S. Pietro a’ Pantaniello, l’istessa che si possedea dal fu Onofrio di Paula, e dal detto Onofrio passata in potere di Mimma Iadi Pietro sua moglie, dalla quale per testamento fu lasciata ad Antonia ed altri Iadi Pietro, e dalli stessi venduta a Giuseppe Terzuolo e dal detto Giuseppe al sopranominato Mauro di Meglio come questo ed altro più chiaramente appare dal detto instrumento, fede autentica del quale si ritrova presentata nelli atti fatti nella G. C.V. in Banca di Gennaro della Monica appresso lo scrivano Lanfranco al foglio 51= da Bernardino Polverino contro i censualisti dei detti terreni nell’anno 1680 e come chiaraLa Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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mente si vede dalla copia delli detti atti estratta in forma autentica dallo scrivano Lanfranco foglio del di sopra nominato nel presente anno 1740. 1726 - alli 2 settembre per il notaro Natale Bonocore d’Ischia= Mauro di Meglio per testamento lascia il detto terreno di Moggia 1 ½ posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice alli Bagni, e propriamente la Pigna, che tiene dal chiano del Bagno sino al lido del Lago, appresso i beni d’Antonio Zuppardo, di Pietro di Paula e Nicola e Giò Domenico di Meglio suoi nipoti con peso di ducati 2 alli sig. Polverini, carlini 15 alli sig. Lanfreschi, e Messe venti annualmente per il fu Nicola di Meglio suo nipote= Nel suo codicillo alla pagina 289 del detto protocollo dell’anno 1726 = lasciò il detto terreno con detti pesi, e Messe 10 di più per l’anima sua, a’ Nicola, Giò Domenico, Isabella, Madalena, Vittoria, Cattarina, e Faustina figli del fu Pietro Antonio di Meglio, come il tutto più chiaramente appare dal detto testamento nel quale vi è il patto di non potersi alienare sotto pena della caducità in benefizio del monastero di S. Maria della Scala d’Ischia. Nell’anno 1737 alli 24 Settembre per il notaro Aniello
Athanasio di Cigliano ,Nicola Giò Domenico, ed Isabella de Meglio concedono in affitto al Sig. Francesco Bonocore uno terreno vitato e fruttato di Moggia tre e mezzo, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, e propriamente S. Pietro a’ Pantaniello, appresso i beni di Raimondo Zuppardo, d’Antonio Lauro, del detto sig. D’ Francesco, il lido del Lago, la via pubblica, franco eccetto dal peso d’annui ducati 2 dovuti alla Signora D’ Anna Polverina per la concessione di detto terreno, carlini 15 al sig. Marchese Lanfreschi per capitale di ducati 20 = e ducati 3 per la celebrazione di messe venti, per l’annuo pagamento di ducati quattordici come il tutto più chiaramente appare dal detto Instrumento. 1739 alli 16 Giugno mediante Instrumento per il notaro Domenico De Grado di Napoli= Nicola, Giò Domenico ed altri de Meglio vendono all’illustrissimo sig. Don Francesco Bonocore medico primario di S.M.N.S. uno terreno di Moggia due e due terzi, posto nelle pertinenze d’Ischia, dove si dice lo Bagno, e propriamente S. Pietro a’ Pantaniello e franco eccetto dal peso d’annui ducati due dovuti alla Signora D’ Anna Polverina di censo perpetuo, per il prezzo di ducati trecento cinquanta, da quali sono dedotti ducati cinquanta per il detto censo come il tutto più chiaramente appare dal detto Instrumento.
Ischia Global Film & Music Fest 2013
Si svolgerà dal 13 al 21 luglio 2013 ad Ischia l'Ischia Global Film & Music Fest, una vetrina internazionale di film italiani come documentari, cortometraggi e video clip. La manifestazione è patrocinata dal Ministero italiano della Cultura, Ministero Italiano degli Affari Esteri, e dalla Regione Campania di Italia. Voluto dal produttore televisivo Pascal Vicedomini e con Michele Placido nel ruolo di Chairman, l’Ischia Global Film & Music Fest è diventato uno degli appuntamenti più prestigiosi del cinema internazionale. L’edizione 2013, che verrà inaugurata il 13 luglio, vedrà la partecipazione di ospiti molto illustri, tra cui Tony Servillo e la star statunitense Samuel L. Jackson.
Rustica Domus - Ischia
Le colonne d'Ercole Fotografie di Cesare Di Liborio a cura di Carola Pandolfo Marchegiani Mostra dall'8 giugno al 31 luglio 2013 40 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Colligite fragmenta, ne pereant
Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro La Ecclesia seu Confrateria de Santa Maria de Loreto de Forio tra XVI e XVII secolo e altri fatti coevi
I luoghi sacri del territorio di Testaccio
«Nel casale di Barano è la parrocchia di S. Giorgio, si possede per D. Giovanni di Jatta, contribuisce all’oglio del Santissimo Sacramento, vi è la messa letta le feste, e il dì suo la cantata, et altri pesi di visita; rende docati 32»1. Ci siamo già soffermati a lungo sul valore da dare al toponimo « Barano» e alla funzione della chiesa di S. Giorgio, nonché sul territorio della sua giurisdizione parrocchiale. Aggiungiamo in questa sede che le origini della chiesa e della parrocchia sono molto antiche. Già sappiamo che l’«hospicium» fondato dal vescovo Bartolomeo Bussolaro a «Barane» potrebbe riferirsi proprio a questa parrocchia e che ciò ci porterebbe già al 13742. La prima menzione di alcuni beni di un non meglio specificato «S. Giorgio» si riscontra in un atto del notar Nicola Prasino del 12 febbraio 1386 transuntato in un atto del notar Guglielmo Sardano il 19 dicembre 1397, pervenutoci nella pergamena originale inserita in un fascio del convento agostiniano di S. Maria della Scala conservato nell’Archivio di Stato di Napoli3. Vi si dice che in tale data fra Bartolomeo Tagliaferro di Savona, priore del convento di S. Maria della Scala, per maggiore cautela del convento, fa transuntare l’atto del notar Nicola Prasino con il quale Meo Talercio, figlio ed erede di Bartolomeo, aveva edificato in uno spazio comprato dal convento al prezzo di quindici tarì, una cappella dedicata a San (sic !) Nicola da Tolentino 4, «et assignavit in dotem et dotis nomine dicte cappellle duas terras quarum una est in Campagnana ubi dicitur alo Monte iuxta terram que fuit condam comitis Bellanti et iuxta terram predicti Calosirti et alios confines et aliam terram sitam et positam in fontana ubi dicitur ad terano iuxta bona Ioannis Cortese iuxta terram Angeli Cossa et iuxta terram Sancti Georgij una cum introitibus et exitibus earum et om1) Cfr. la Platea del vescovo Innico d’Avalos del 1598, in P. Lopez, Ischia e Pozzuoli due diocesi nell’età della controriforma, Napoli Adriano Gallina Editore 1991, p. 213. 2) L’ipotesi si può leggere in alcuni appunti di A. Lauro nel fondo delle sue carte nell’Archivio Diocesano d’Ischia (d’ora in poi: A. D. I.). 3) Vedi in Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi: A.S.N.), fondo Corporazioni Religiose Soppresse (d’ora in poi: C.R.S) fascio 107, pergamena originale di mm. 660x280 in scrittura minuscola gotica cancelleresca. 4) Fu canonizzato solo il 5 giugno 1446 da papa Eugenio IV a causa delle tristi vicende della chiesa nel periodo avignonese e poi durante lo scisma d’occidente. A Ischia già nel secolo XIV viene venerato come santo. Sul suo culto cfr. A. Di Lustro, Il culto di S. Nicola da Tolentino nell’isola d’Ischia, in La Rassegna d’Ischia, anno XXVI n. 6 ottobre-novembre 2005.
nibus juribus et proventibus predictarum». Con la rendita della dote, i frati dovevano celebrare ogni settimana «pro remissione peccatorum ipsorum Mei Taliercii». Poiché non abbiamo notizia di altri luoghi sacri dedicati a S. Giorgio, dobbiamo pensare che quello citato dal documento si trovasse nell’attuale Testaccio, anche se per parecchio tempo ancora non avremo altro riferimento esplicito sull’esistenza di una parrocchia o chiesa con questo titolo. Infatti il 21 aprile 1421 Petronilla Buonamano vende a Fra Nicola Taliercio del convento agostiniano di S. Maria della Scala due «corte arbustate» confinanti con i beni di S. Giorgio ubicati in Barano5. Circa un secolo dopo, nel 1512 gli Agostiniani ricevono un censo che grava su una casa ubicata a Barano, nel luogo detto «Ferrazzo» e poiché pagano il censo che appartiene alla chiesa di S Giorgio, essi pagano ogni anno a questa chiesa la somma di carlini 606. Inoltre nel 1515 «adi 7 marzo Luiggi di Meglio s’obliga pagare carlini cinque di censo enfiteutico sopra un orto di quarte tre, con casa e pescina, vendutoli con ducati otto da Pandonna Positano Boso suo marito per essere di sua robba dotale sito nelle pertinenze di Barano dove si dice Taurio giusta li beni di Bartolomeo Cuccari, di Vincenzo Cartari, la venerabile chiesa di S. Giorgio e via publica, come questo ed altro nell’istromento rogato per il notaro Marzio di Maio7 li detti quale riassunto per il notar Giovan Battista Funerio 8 d’Ischia quale in carta pergamena si conserva in nostro archivio n.151»9. Ancora il 27 maggio 1543 gli Agostiniani vendono alcuni beni immobili ubicati «dove si dice lo Testaccio, redditizii a Michele Scotti e alla Venerabile chiesa di S. Giorgio di Barano»10. Il primo riferimento esplicito alla parrocchia di S. Giorgio risale tuttavia al 9 marzo 1555 quando, per la promozione ad arcidiacono della cattedrale di D. Felice di Capua suo zio 5) Cfr. in A.S.N. , C.R.S. fascio 87 f. 586. 6) A.D.I. , Platea corrente di Santa Maria della Scala (P.C.) f. 211. 7) Di questo notaio, detto anche «de Madio», si trovano citati atti rogati tra il 9 gennaio 1506 (C.R.S. fascio 87, f. 1) e il 28 agosto 1520 (ibidem, f. 197). 8) Del notaio Giovan Battista Funerio sono attestati atti rogati tra il 1507 (cfr. in A.D.I., Documenti di S. Maria della Carità, atti del 1708 f. 97), e il 2 aprile 1550 (C.R.S. fascio 119 ff. nn.). Di lui possediamo una pergamena originale del 9 agosto 1519 conservata nel fascio 114 (K 11) dello stesso fondo archivistico. I suoi protocolli notarili nel secolo XVIII erano conservati dai figli del not. Aniello Attanasio di Cigliano di Ischia (P.C. f. 97). 9) A.D.I, P. C. f. 195. 10) Ibidem , f. 150.
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materno, viene nominato parroco di S. Giorgio, con bolla di papa Paolo II, D. Giovan Battista di Iatta come ci attesta questo documento vaticano frutto delle ricerche d’archivio di Mons. A. Lauro11: Archivio segreto Vaticano: Resignationes - Vol. 171 f. 11 Isclan - Cessio Die vigesima octava martii 1555 dominus Felix de Capua rector parochialis ecclesia sancti Georgii Casalis Barani Isclanae diocesis per dominum Sixtum Crochiali letterarum contra dictarum et suum procuratorem prout mandato moani domini Blasii Stampa notarii publici de die vigesima octava februarii ultimo praedicti subscripto in Camera Apostolica recognito de dimisso constat resignatis dictae parochialis quam obtinet in manibus Sanctissimi Domini Nostri Papae in favorem domini Francisci de Jacta Clerici Isclani parte Felix favore nepotis et dicta parochiali cum illi forsan annexis eidem Francisco provideri conceditur per supplicationem datam Romae apud sanctum Petrum septimo idus martii anno primo, missam 20 martii, resignatam libro XXIII folio 95 ac litterarum expeditioni consensit et iuravit Romae in officio dominis Mattheo Bocaccino et Remigio Jedignono testibus. Johannes Pelletier Qualche anno dopo, il 5 agosto 1562, al tempo del vescovo Filippo Geri (1560-1564), il cappellano della «parrocchiale chiesa di S. Giorgio nel casale di Varane» chiede l’autorizzazione alla S. Sede di cedere in enfiteusi un complesso di immobili «siti dove volgarmente si dice lo Testaccio» con un corrispettivo di annui carlini dodici da consegnarsi il primo di novembre «dictae parochiali ecclesiae Sancti Georgii»12. Il di Jatta lo abbiamo già altre volte incontrato quale titolare di alcuni benefici e resterà alla guida della parrocchia di S. Giorgio fino al 1598 quando gli subentrerà D. Albino de Meglio. Le vicende successive della parrocchia di S. Giorgio, come pure delle sue chiese di S. Maria delle Grazie della famiglia Nobilione fondata nel 1748 e di quella dell’Assunta fondata nello stesso anno da D. Simone Buono, sono fuori del periodo storico di cui ci interessiamo, e sono state ampiamente studiate in anni piuttosto recenti13, per cui, insieme con le confraternite sorte nella chiesa parrocchiale e quella di S. Maria di Costantinopoli, sulle quali anch’io di recente mi sono soffermato14, le lasciamo da parte e rinviamo chi volesse saperne di più a questi contributi. Vorrei però brevemente accennare a due cappella, sicuramente private, costruite nel corso del secolo XVIII. «La cappella rurale di S. Vincenzo Ferreri, in cui più non si celebra, è stata 11) A. D. I. Cartelle di appunti di Mons. A. Lauro. Il documento si trova in Archivio Segreto Vaticano (A.S.V.) Regesto Vaticano (Reg. Vat.)1846 f. 43 e ss. 12) Ibidem. 13) Cfr. G. Vuoso, La chiesa parrocchiale di Testaccio d’Ischia dalle origini ai nostri giorni, Forio Tipolito Epomeo 1990 p. 28 e ss. 14) A. Di Lustro, La Madonna di Costantinopoli, in La Rassegna d’Ischia anno XV n. 2 aprile 1994 (numero speciale); e ancora G. Castagna- A Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese, Forio 2000, p. 8.
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costrutta dal Reverendo d. Evangelista Morgioni»15. Questi era esponente di una ricca famiglia che aveva dato diversi preti alla chiesa di Ischia, tra cui un vescovo, Francesco, nominato prima vescovo di Ruvo di Puglia e poi di Minori, sulla costiera amalfitana16. Ricoprì diversi incarichi nell’ambito della nostra diocesi, tra cui quello di Vicario Capitolare quando il vescovo Nicola Antonio Schiaffinati fu costretto alle dimissioni per le sue precarie condizioni di salute. In questa funzione fondò la chiesa del Purgatorio allo Scentone a Forio della famiglia d’Ascia con bolla del febbraio 174317. Alla sua famiglia apparteneva il terreno con alcune stanze che, con atto del notar Orazio Maria Critari di Napoli, il 1° aprile 174018 lo stesso vescovo Nicola Antonio Schiaffinati comprò per realizzare finalmente il seminario diocesano. Della cappella di S. Vincenzo non si parla più negli atti delle visite pastorali del secolo XIX. Nei pressi di Testaccio, al limite della zona denominata Mortito, vi era una cappella dedicata a Santo Stefano di Stefano Abbate19. Questa era molto antica perché «adi 10 gennaro 1418 Stefano Pappacoda del quondam Marino della città d’Ischia vende al Venerabile Convento di Santa Maria della Scala d’Ischia de medesima è una terra sita nelle pertinenze di Barano e Testaccio, dove si dice lo Mortito, giusta li beni di S. Maria della Misericordia20, la cappella del quondam Stefano Abbate, di Delfinia Mellusi, di Ireda Cossa, via publica ed altri confini, se ve ne sono, per prezzo di onze tre di carlini sessanta per il notar Guglielmo Sardano21 d’Ischia quale sta in nostro archivio n. 279»22. Di questa cappella non si fa menzione in alcun altro documento. È necessario ora volgere il nostro sguardo alla zona di Testaccio, e più precisamente alla collina di S. Costanzo e Guardiola, e interessarci proprio a S. Costanzo il cui culto è datato sulla nostra Isola prima dell’anno 1000. Queste sono le testimonianze documentarie più antiche che possediamo sul culto dei santi a Ischia, dopo quelle che riguardano S. 15) A.D.I. Nota di tutti i luoghi pii laicali misti ed ecclesiastici colle congregazioni e cappelle, oratori e Monti della città e diocesi d’Ischia f. 13 r. Cfr anche G.G. Cervera-A Di Lustro, Barano d’Ischia-Storia, Melito Tipolitografia Ampa 1988, p.290. 16) C. d’Ambra, Ischia tra fede e cultura, Torre del Greco, Edizioni Rotary Club Isola d’Ischia 1998, pp. 204-205. 17) Il testo della bolla, la cui pergamena originale oggi si conserva nella stessa chiesa, è pubblicata da A. Di Lustro, La chiesa del Purgatorio compie 250 anni, in La Rassegna d’Ischia, anno XIV n. 1, febbraio 1993. 18 ) L’atto si trova in A.S.N. Notai sec, XVIII scheda 161 protocollo n. 28 ff. 131 v - 162 r. Sul Seminario d’Ischia cfr. Isclana Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Josephi Morgera canonici parochi Casamicciolae positio super virtutibus, Romae 1994 pp. 72-91. La ricerca storica di questa positio è opera di Giovanni Castagna e Agostino Di Lustro, storici della causa. 19) G. G. Cervera- A. Di Lustro op. cit. p. 19. 20) È la cappella di patronato della città d’Ischia che in seguito verrà donata all’Ordine dei Frati Minori Conventuali e diventerà il convento di S. Maria delle Grazie o all’Arena. 21) Di questo antico notaio sono attestati atti dal 16 aprile 1387 (C.R.S fascio 119 ff. nn.) e il 25 aprile 1432 (ibidem, fascio 104 f. 82). 22) A.D.I., Platea Corrente (P.C.) f. 139.
Restituta che, tra l’altro, non sono anteriori alla formulazione della famosa Passio del secolo IX o di quello successivo. Infatti nel «Sermo de transitu Sancti Constantii», pervenutoci in un codice che risale alla fine del secolo X conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli23, leggiamo. «Dum incolae insulae Majoris24, quae marinis undique eque ut Capreae circumvolvitur fluctibus, Sanctissimi Constantii in sollennitate25 ad eius turbam more solito recurrerent, quidam ardore succensus femineo procuravit quandam suadere puellam, ut in nefario opere suum ei assensum tribueret… sed praefata puella cuius corruptor periurius in limine ecclesiae S. Constantii Capreae fulmine crematus erat non immemor almi presuli beneficiorum, funditus a suo corpore coniugium pellens, adhesit ex tunc perpetuae castimoniae Christumque sibi sponsum adoptans confessori sancto templum in Maiore insula cum parentibus suis construxit. Donaque plurima optulit et illic usque ad finem vitae suae fideliter serviendo permansit»26. In seguito alla fondazione di questa chiesa, il culto verso il santo vescovo Costanzo, già tanto vivo tra gli abitanti della «Insula maior», si incrementa ulteriormente tanto che nel 1036 abbiamo sulla nostra Isola la presenza documentata di un monastero dedicato al Santo con la descrizione di alcuni beni donati al monastero di S. Maria in Cementara ubicati «a parte hoccidentis sicuti redit super terra monasterii nostri Sancti Constantii et badit iusta casa que nominatur de Campulo»27. Le circostanze delle vicende umane vogliono però che questo sia l’unico documento che ci attesti la presenza sull’isola d’Ischia in epoca così antica di ben tre monasteri: S. Maria «intus Ecclesia Sancta nostri monasterii que ipsius domini matris hadest sita in monte Cementara… a parte hoccidentis sicuti redit super terra monasterii nostri Sancti Constantii… quod est a parte monasterii nostri Sancti Hangeli alloquio» che scompaiono subito senza lasciare altra traccia sicura. Di S. Costanzo però, oltre al nome del Santo, giunge fino a noi anche qualche altro riferimento trasformato però in toponimo e qualche documento che però esula dall’esistenza di un monastero. Se i monasteri altomedievali di S. Angelo Alloquio e S. Maria in Cementara scompaiono senza lasciare alcuna traccia, quello di S. Costanzo presto si trasforma in beneficio, almeno fino ad una certa epoca. Non sappiamo se questo beneficio avesse una chiesa o cappella propria e dove fosse ubicata. Oggi il culto verso questo Santo non esiste più in nessuna parte dell’Isola. 23) Si tratta del codice membranaceo vindobonensis lat. n. 739, conservato fino al 1718 nel monastero di S. Severino di Napoli, del monaco Marino. Passato a Vienna, tornò a Napoli nel 1919. I fatti ai quali accenna, si sarebbero svolti nell’anno 991. È stato pubblicato da A. Hofmeister in: Aus Capri und Amalfi, Der Sermo de virtute und der sermo de transito S. Constantii und der Sarazenzugvon 991, Munchener Museum für Philologie der Mittelalters und der Renaissance, 4 (1924) p. 251. Su S. Costanzo cfr. anche : L. Fatica, S. Costanzo di Capri: Patriarca di Costantinopoli?, in Campania Sacra, XXIII ( 1992 ) pp. 195-200. 24) Cioè di Ischia. 25) La festa del Santo cade il 14 maggio. 26) Monumenta Germaniae Historica, Scriptorum XXX pars II Fasciculus II Lipsiae MDCCCCXXIX, p. 1019 e ss. 27) Regii Neapolitani Harchivii Monumenta, Napoli MDCCCXLIX voll. 3-4 n. 367, pp. 269-73.
Del beneficio a lui intitolato nell’Archivio Storico Diocesano non esiste più alcun riscontro documentario, completamente ignorato dalla Platea del vescovo d’Avalos e dal «Notamento degli atti beneficiali….» segno che alla fine del secolo XVI esso già era scomparso. Il monastero, d’altra parete, è certamente già diventato beneficio semplice il 13 novembre 1296. In questo anno il papa Bonifacio VIII, considerati i meriti di Marino de Sancto, cosentino, per i buoni uffici di Matteo Rosso Orsini, cardinale diacono del titolo di S. Maria in Portico28, gli conferisce la prebenda canonicale e l’arcidiaconato della cattedrale di Cosenza, vacanti per la morte del titolare, maestro Pietro do Pofi, nonostante che già disponga dei benefici di «Sancti Constantii, Sanctorum Cosmae et Damiani et Sancti Laurentii29 Insulensis, Sancti Angeli de Plojano et Sanctae Mariae de Alto, Neapolitanae et Cathanensis dioecesium, ecclesias sine cura et canonicatum ac praebendam in Ecclesia Insulensi, necnon quasdam terras et possessiones ad Neapolitanam et dictam Insulensem Ecclesias pertinentes in Neapolitano et Insulensi territorio»30 . Non c’è dubbio che la diocesi ”Insulensis “ della bolla papale sia quella di Ischia, allora chiamata “Insulana”, come ormai è stato ampiamente dimostrato31. Infatti. a prova ulteriore si consideri che il 29 dicembre 1302 lo stesso papa Bonifacio VIII concede la dispensa dall’impedimento di consanguineità per il matrimonio tra Marino Bulgaro di Tommaso e Giacobella Abbate di Giovanni entrambi civibus Insulensibus32. Le famiglia Bulgaro e Abbate erano certamente famiglie isclane perché vari esponenti sono spesso citati dai Registri Angioini di questo periodo. Infatti della famiglia Bulgaro di Ischia si parla anche nella sesta novella del quinto giorno del Decamerone di Giovanni Boccaccio. Di un beneficio di S. Costanzo si parla ancora un secolo dopo quando il 17 gennaio 1410 papa Gregorio XII emise da Gaeta la bolla che qui trascrivo con la quale questo beneficio veniva concesso al prete isclano Nicola Arcucci e al tempo stesso lo nominava rettore della stessa chiesa.
28) Cfr. Eubel, Hierarchia Catholica medii aevi, Monasterii MDCCCXCVIII, vol. I p. 8. 29) Di questi due benefici di epoca così antica non abbiamo alcun documento, almeno per il periodo più antico. Solo in seguito del culto a S. Lorenzo troveremo traccia nella chiesa del convento agostiniano di S. Maria della Scala che nell’anno 1500 concede un altare dedicato al Santo con sepoltura che si trovano nella sacrestia della chiesa (cfr. A. Di Lustro, Ecclesia Maior Insulana, La cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni, Forio Tipolito Punto Stampa 2010 p. 159. 30) A.D.I., Fondo appunti di A. Lauro, cartella S. Sebastiano di Barano. I documenti si trovano in: A.S.V.; Reg. Vat., 28 f. 138 v. 31) Basta scorrere solo i Registri Angioini per rendersene conto. Cfr. di A. Di Lustro, Ecclesia Maior Insulana.. cit.; e, Antiquiores Insulani Episcopi, in La Rassegna d’Ischia, anno XXVII n. 4 agosto 2006. 32) A.D.I. Appunti di A. Lauro. Il documento si trova in A.S.V. Reg. Vat. 50, f. 238. Cfr. anche: A. Galdi, Istituzioni religiose e culti dei Santi nelle isole di Ischia e di Capri nel Medioevo, in Napoli nel Medioevo territorio ed isole, vol. II, a cura di A. Feniello, Congedo Editore, Galatina 2009, pp.153-199.
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Archivio Segreto Vaticano, Reg. Lat. 133, f. 151 (17 gennaio 1410) Gregorius episcopus etc. Dilecto filio primicerio ecclesiae Isclanae salutem etc. Dignum arbitramur et congruum ut illis se reddat sedes apostolicam gratiosam quibus ad id propria virtutum merita laudabiliter suffragantur. Cum itaque sicut accepimus una Le Lacke et altera de Lacrute nuncupatae possessiones sitae in territorio Isclano consuetae clericis saecularibus in titulo perpetuorum beneficiorum ecclesiasticorum assignari quas quondam Loysius Zagoto presbiter dum viveret obtinebat per ipsius Loysii obitum qui extra romanam curiam diem clausit extremum vacaverint et vacant ad praesens non volentes dilectum filium Nicolaum Arcutii rectorem capellae sancti Constantii Isclan apud nos de vitae ac morum honestate aliisque probitatis et virtutum meritis multipliciter commendatum horum intuitu favore prosequi gratioso, discretioni tuae per apostolica scripta mandamus quatinus si post diligentem examinationem ipsum Nicolaum idoneum ad obtinendum huiusmodi beneficia esse reppereris super quo tuam conscientiam oneramus, possessiones praedictas quarumque fructus redditus et proventus trium unciarum argenti secondum comunem aestimationem valorem annuum ut ipse Nicolaus asserit non accedunt sive praemisso sive alio quovis modo aut ex alterius cuiuscumque persona vacent etiam si tanto tempore vacaverit quod eorum collatio iuxta lateranensis statuta concilii ad sedem praedictam legitime devoluta vel ipsae possessiones dispositioni apostolicae specialiter reservatae existant etiam si is ex tunc persona dictae possessiones ulterius vacaverint eiusdem sedis cappellanus nuncius vel notarius seu fructuum et proventuum camerae apostolicae debitorum collectorum vel succollectorum aut apostolicarum abbreviato rum earundem vel penitentiariae nostrae litterarum scriptorum aut eiusdem sedis vel alicuius ex venerabilibus fratribus nostris litteris mentio specialis. Aut quod praefatus Nicolaus ut asserit praedictam et Sanctae Mariae de Porta Isclanas cappellas quae sine cura sunt et quarum fructus redditus et proventus sex florenorum auri secundum praedictam aextimationem valorem annuum non excedunt noscitur obtinere, nos enim si dictus Nicolaus ad hoc reppertus fuerit idoneus ut praefertur ex nunc perinde irritum decernimus et inane si secus super hiis a quoquam quavis auctoritate scienter vel ignoranter contigerit attemptari ac si die data praesentium praefato Nicolao ad hoc repperto idoneo de dictis possessionibus cum interpositione decreti provideri mandavissemus. Datum Gaiete sextodecimo Kalendas februarii anno quarto33. Altre notizie sul beneficio di S. Costanzo ci vengono da alcuni documenti del sec. XVI. Il primo risale al 1° maggio 1537 e si riferisce alla delimitazione di un terreno del convento agostiniano di S. Maria della Scala presso «li beni redditizi al beneficio di S. Costanzo»34. L’ultimo documento, invece, è del 1567 e ci permette di conoscere ancora non solo l’esistenza del beneficio di S. Costanzo, ma anche l’indicazione della collina con il nome del Santo, cosa che 33) Ibidem, cartella S. Sebastiano di Barano. Il documento si trova in A.S.V. Reg. Lat. 133 f. 151. 34) A.D.I., P.C. cit. f. 157.
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continua ancora oggi. Si tratta di un documento vaticano, un rescritto della Camera Apostolica con il quale si autorizza il capitolo della cattedrale a cedere in enfiteusi alcuni suoi beni ubicati «in Casale Barani et loco ubi dicitur lo Monte de Santo Costanzo» 35. In quell’anno la cappella intitolata al Santo esisteva ancora. Da questo momento scompare sia la cappella che il beneficio di S. Costanzo e quale testimonianza della presenza del suo culto sulla nostra Isola resta solo il toponimo della collina e il cognome di Costanzo, particolare soprattutto della zona di Buonopane. Dobbiamo ancora accennare ad altri due luoghi di culto per completare il quadro di Testaccio, anche se questi sono piuttosto decentrati rispetto al centro abitato, ma sono stati fino ad anni recenti sotto la giurisdizione della parrocchia di S. Giorgio. Il primo è la chiesa di S. Maria di Montevergine allo Schiappone, oggi sede della parrocchia della Natività di Maria Santissima e santuario diocesano. Essa ci richiama la diffusione, a partire dalla prima metà del secolo XVII, anche sulla nostra Isola del culto alla Madonna di Montevergine. Infatti nel corso di quel secolo furono ben tre le chiese che vennero dedicate a questo titolo mariano: l’eremitaggio di Forio nella zona che venne denominata appunto Montevergine, spiaggia compresa (oggi denominata S. Francesco non so se per merito, o demerito, di qualcuno!), costruita nella prima metà del secolo a spese dell’Università di Forio36; quella di Succhivo, fondata alla fine del secolo XVII dai fratelli Gelsomino e Giuseppe Mattera da Aglianico37 e l’eremo dello Schiappone, fondato forse alla metà secolo XVII dai fratelli Ottavio, Raffaele e Luigi Rossi, che abitavano nelle loro proprietà della stessa dona dello Schiappone. Essi morirono di peste nel 1656. Inseguito i loro beni furono acquisiti dal patrizio genovese Giovan Battista Bertarelli, erede del conte Spinola. Una delle figlie del Bertarelli sposò il patrizio napoletano Giovan Battista Siniscalchi e così passò ad essa la chiesa con l’eremo e i fondi dello Schiappone 38. La chiesa fu abbellita e adornata a partire dalla metà del secolo XVIII anche ad opera degli eremiti che vi si stabilirono; già a metà di quel secolo era diventato un luogo di pellegrinaggio. Infatti nella relazione ad limina del 1° dicembre 1741 del vescovo Nicola Antonio Schiaffinati, leggiamo: «Capella sub titulo S. Marie Montis Virginis sita in loco campestri de jure patronatus Familie Bertarella mediocris structure, et decenter ornata. Nonnullosque habet redditus. Verum ex pia fidelium devotione pluries in ea tam diebus festivis, quam diebus feriatis fit sacrum»39. In quella del successore Felice Amato del 12 aprile 1747, leggiamo: «Adest etiam capella sub invocazione S. Marie Montis Virginis a Parochiali valde distans, posita in territorio illorum 35) A.S.V. Arm. 29-30 tomo 228 f. 23. Vedi in A.D.I. Appunti A. Lauro cartella S. Sebastiano di Barano. 36) Storia dell’isola d’Ischia descritta da Giuseppe d’Ascia, Napoli, Stabilimento Tipografico di Gabriele Argenio, 1867, pp. 394395. 37) A.D.I., Notamento degli atti beneficiali… f. 96. 38) G. d’Ascia, op. cit. pp. 480-483. 39) Cfr. relazione ad limina del 1° dicembre 1741 del vescovo Nicola Antonio Schiaffinati in Archivio Congregazione del Concilio.
de Siniscalchi, fidelium devotione frequentata, et substenta»40. L’afflusso dei pellegrini divenne sempre più continuo, soprattutto in occasione della festa dell’8 settembre come ampiamente ci dice il d’Ascia: Grande è il concorso dei popolani nella notte che precede ed in tutto il giorno 8 settembre in cui si celebra la festività della Nascita di Maria. Da’ comuni lontani le carovane de’ devoti, uomini, donne, fanciulli, frammisti in diverse età, confusi in diverso sesso, in allegra brigata, alle prime ore della sera del 7 partono per l’Eremo, passando quasi l’intera notte in viaggio. Così le altre carovane, de’ paesi più prossimi, partono a più avvanzate ore, in modo che prima dell’alba, mentre l’Aurora riposa ancora dietro i Monti Somma-Vesuviana, l’Eremo è popolato di venditori, di trafficanti e di devoti; sull’atrio, sulle scale, su’ i poggi dell’Eremo stesso attendono che si apre la Chiesa per assistere a’ divini uffici e per pregare. La gente più civile, e il popolo de’ casali limitrofi accorrono all’Eremo dello Schiappone a giorno fatto, altri nel dopo pranzo, in modo che per tutta una notte, per un giorno intero è popolata quella solitaria campagna. È una fiera animatissima di uomini, e di animali, di donne abbigliate in diversi costumi, di gente parlante in diversi dialetti. È una festa campestre piena di brio, con cui pare che si saluta l’Autunno che si approssima; è una festa reli40) A.C.C. relazione del vescovo Felice Amato del 12 aprile 1747. 41) G. d’Ascia, op. cit. pp. 482-83. 42) Questa Nota si conserva nell’A.D.I. 43) Cfr. G.G. Cervera- A. Lustro, op. cit. 236.
giosa popolare da curiosarsi, perché è una delle poche feste campestri religiose, che richiama tanto concorso di popolo da tutte le parti dell’Isola41. A completare il quadro dei luoghi sacri di Testaccio, anche se esula dal periodo più specifico che stiamo esaminando, dobbiamo accennare alla cappella di S. Pancrazio ubicata sulla punta omonima. La Nota di tutti i luoghi pii… del 1777 si limita a segnalarne l’esistenza e a sottolineare che è di patronato della famiglia Calosirto che provvede al suo mantenimento42. Quando sia stata fondata non sappiamo perché mancano riferimenti documentari. Non esiste ancora al tempo del vescovo d’Avalos perché non ne parla nella sua Platea. Nel 1680 Tommaso Antonio Calosirto, fratello maggiore di Fra Giovan Giuseppe della Croce, quale amministratore dei beni della moglie Maria Lucrezia Mellosa, e suo cognato Giovan Tommaso Melluso possedevano in comune un territorio sterile e incolto proprio a S. Pancrazio e a l’Aschito «subtus ecclesiae Sancti Pancratii litus maris»43. In questo eremo si ritirò Scipione Calosirto, altro fratello di fra Giovan Giuseppe della Croce, perché le sue condizioni di salute non gli permettevano di vivere in convento. I vescovi nel corso dei secoli non hanno mostrato alcun interesse per questa cappellina. Infatti né le relazioni ad limina né le visite pastorali accennano alla sua esistenza, forse a causa della difficile accessibilità del luogo dove essa sorge. Ancora oggi la parrocchia dello Schiappone organizza il giorno 11 maggio, festa di S. Pancrazio, un pellegrinaggio per conservare vivo il culto all’antico martire romano. Agostino Di Lustro
Testaccio : Chiesa di S. Giorgio
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Premiazione a Lacco Ameno il 6 luglio 2013 I vincitori della XXXIV edizione del Premio Ischia Internazionale di Giornalismo
Francesco Guerrera, Lydia Cacho Ribeiro, Lilli Gruber, Emanuela Audisio, Franca Giansoldati, Sarah Varetto, Alessandro Di Meo, Isabella Bufacchi, Vincenzo Mollica e Luciano Onder sono i vincitori della 34ma edizione del Premio Ischia Internazionale di Giornalismo, in programma quest’anno dal 4 al 6 luglio prossimo sull’isola verde. 46 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
Tema dell’anno è “Dovere di informare, diritto di conoscere”. Lo ha deciso la giuria, presieduta da Paolo Graldi, segretario generale Carlo Gambalonga. A Sarah Varetto, direttore di SkyTg24 è stato assegnato un premio speciale, in occasione del decimo anniversario della creazione della prima testata “all news” in Italia. Francesco Guerrera, vincitore del Premio Ischia Internazionale, è attualmente capo redattore del Wall Street Journal. A Lydia Cacho Ribeira, giornalista messicana, va il “Premio Ischia per i diritti umani”. La Cacho è attualmente minacciata di morte dopo la pubblicazione di varie inchieste nelle quali denunciava un circuito di pedopornografia, coperto da politici e uomini d’affari messicani e di vari casi irrisolti di omicidi e abusi su donne. Il riconoscimento per la sezione “reportage dell’anno” è andato alla vaticanista de “Il Messaggero” Franca Giansoldati per i servizi sull'elezione al Pontificato di Papa Francesco e al fotoreporter Alessandro Di Meo, dell’agenzia Ansa, autore della foto del fulmine che colpisce il Vaticano dopo le dimissioni di Benedetto XVI. A Luciano Onder è stato assegnato il “Premio Ischia alla carriera” per la competenza e la capacità dimostrata in più di trent’anni di divulgazione scientifica, mentre Vincenzo Mollica è stato premiato per il contributo dato al sito ‘’Tg1.it’’ in particolar modo con le video chat ai personaggi dello spettacolo italiano ed internazionale. A Lilli Gruber, conduttrice della trasmissione quotidiana “Otto e mezzo” su “La Sette” va il premio Ischia per il “commento politico”. Il premio per l”analisi economica” è stato assegnato a Isabella Bufacchi de “Il Sole 24 ore” mentre Emanuela Audisio de “La Repubblica” è stata premiata per il miglior “racconto sportivo”. La cerimonia di consegna della XXXIV edizione del Premio Ischia, sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, con i patrocinii della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Cooperazione internazionale e integrazione (Dipartimento della Gioventù), e con il sostegno della Regione Campania e della Camera di Commercio di Napoli e con il contributo di Coca Cola HBCItalia, dell’Istituto Credito sportivo, di Poste Vita e di Autostrade spa si terra’ a Lacco Ameno dal 4 al 6 luglio prossimo. La formula del Premio, radicalmente innovata rispetto al passato, sarà preceduta dalle “Giornate dell’Informazione” che si articoleranno in vari focus sulle più attuali tematiche del giornalismo internazionale e italiano. In apertura sarà inaugurata la mostra fotografica “Sogno cose mai viste”, realizzata in occasione dei 50 anni dei diritti umani, in collaborazione con la Robert Kennedy Foundation e l’agenzia Contrasto. La Mostra fotografica sarà visibile a Villa Arbusto,
Piazza Santa Restituta, Lacco Ameno: Fotografie di Phil Stern, Robert Capa, Renè Burrì, Burt Glinn, Elliott Erwit, Philppe Halsmann, Philip Jones Griffiths, Inge Morath, Dennis Stock, Cornell Capa, Paul Fusco, Eve Arnold… 24 giugno - 7 luglio 2013 Premio Ischia Fotoreporter "La foto dell'anno" Omaggio alla stampa periodica - Mostra dello scrittore, fotografo, giarnalista Giuseppe Di Piazza.
Giovedì 4 luglio 2013 Ore 21,00 Lezioni di giornalismo “Dovere di informare, diritto di conoscere” Paolo Graldi, Alessandro Barbano - Rai Educazione Ore 21,30 La televisione: da modello culturale a “cattiva maestra”? Il bullismo nelle scuole italiane: Massimo Bernardini, conduttore di Rai Talk , Franco Di Mare , conduttore di Uno Mattina, Antonella Baccaro, editorialista de “Il Corriere della Sera” - Rai Educazionev- Interagiscono gli studenti del Liceo Classico e scientifico “Giovanni Scotti” e gli studenti dell’Istituto Alberghiero IPS “Telese” di Ischia. Consegna borsa di studio al vincitore del concorso “Robert F. Kennedy Europe High School Juornalism award” e al vincitore della borsa di studio “Giuseppe Valentino” e del concorso “Maria Grazia Di Donna”, riservato alle scuole di giornalismo in Italia. Venerdi 5 luglio 2013 Ore 10,00 Le pillole di Rai Educazione “Informazione, giovani e futuro nel Mezzoggiorno “: Virmar Cusenza (direttore de Il Messaggero) , Gaspare Borsellino (direttore Italpress), Marco Demarco, (direttore Corriere del Mezzogiorno), Francesco Delzio (autore de libro “La Scossa”- Ed. Rubbettino). Ore 18,35 Sala Azzurra Hotel della Regina Isabella Lacco Ameno: L’importanza del welfare per la crescita e lo sviluppo dell’Italia - Modera Alessandro Marenzi - Al termine del dibattito consegna premi ai “Comunicatori dell’anno”. Ore 19.30 Sala Azzurra, Hotel della Regina Isabella, Lacco Ameno : Una vita per la notizia: focus sul “caso Messico”: Lydia Cacho, vincitrice del “Premio Ischia per i diritti umani” incontra i giornalisti italiani - Modera Renato Coen. Sabato 6 Luglio 2013 Ore 9,30 Il Premio Ischia a “Uno Mattina estate” - Rai Uno Ore 11,00 Sala degli agrumi, Hotel della Regina Isabella Lacco Ameno - Le pillole di Rai Educazione: “La politica, i poteri e la liberta di informazione”: Massimo Franco (editorialista Corriere della Sera), Giovanni Maria Vian (direttore de “L’ Osservatore Romano), Alessandra Ravetta (condirettore Prima Comunicazione). Ore 17,15 Sala Azzurra Hotel della Regina Isabella, Lacco Ameno : La crisi economica vista dai giornali : Giovanni Legnini, sottosegretario all’Editoria, Luigi Contu, Direttore Ansa, Francesco Guerrera, Premio Ischia Internazionale Modera Sarah Varetto, direttore Sky Tg 24. Ore 21,30 Cerimonia di consegna del Premio Ischia Internazionale di Giornalismo XXXIV edizione - Conduce Paola Saluzzi - Diretta SkyTg24 Canale 504 eventi - A seguire concerto di Edoardo Bennato in Piazza Santa Restituta, Lacco Ameno - Diretta Radio Kiss Kiss
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Il regista francese Jacquot Benoît aprirà il 29 giugno 2013 l’XI edizione dell’Ischia Film Festival Dal 29 giugno al 6 luglio 2013 avrà luogo ad Ischia l’XI edizione dell’Ischia Film Festival con un ricco programma di mostre, incontri e proiezioni che si svolgeranno tra il Castello e la cinquecentesca Torre di Michelangelo o Torre Guevara. L’evento, realizzato con l’adesione del Presidente della Repubblica, è sostenuto dalla Regione Campania - “La cultura come risorsa” e dal MiBAC Direzione Generale Cinema, con il patrocinio del Comune d’Ischia. Sarà Jacquot Benoît, già aiuto regista di Marguerite Duras e membro della giuria del Festival di Cannes nel 2005, ad aprire il 29 giugno prossimo l’undicesima edizione dell’Ischia Film Jacquot Benoît Festival con la proiezione, nella suggestiva Cattedrale Barocca del Castello Aragonese, del suo ultimo seminario tenuto dal critico cinemafilm “Les adieux à la reine” interpre- tografico Vittorio Giacci sul Neoreatato dall’attrice tedesca Diane Kruger lismo, la Nouvelle Vague, le coprodunei panni della Regina Maria Anto- zioni e i cento anni di collaborazione nietta e, per l’occasione, a ritirare l’I- cinematografica italo-francese». schia Award 2013 assegnatogli dalla commissione del festival. «Ancora un Premio alla carriera a J. Sorel omaggio alla Francia e ai suoi autori – All’attore francese Jean Sorel il preha dichiarato Michelangelo Messina. mio alla carriera 2013. Diretto da regi- Siamo orgogliosi di premiare il regi- sti prestigiosi, quali Luis Buñuel, Sidsta Benoît Jacquot che proprio qui ad ney Lumet, Luchino Visconti e Carlo Ischia ambientò nel 2009 uno dei suoi Lizzani, l’attore francese entra nell’alfilm “Villa Amalia” con Isabelle Hup- bo d’oro dei premiati del festival. pert. Un omaggio che vede, oltre alla Con Sorel, uno degli attori francesi presenza di autori francesi, anche un più noti a livello internazionale per la
sua brillante carriera, da Vaghe stelle dell’Orsa di Visconti a Bella di giorno di Buñuel, si apre quest’anno un omaggio alla Francia considerando la presenza di diversi protagonisti del mondo del cinema francese che verranno ad Ischia per il festival. Tre mostre arricchirranno l’undicesima edzione dell’IFF 2013. Due delle mostre saranno collocate al Castello Aragonese mentre la terza verrà allestita nella cinquecentesca Torre di Michelangelo di fronte al Castello Aragonese.
Jean Sorel
L. Visconti e J. Sorel
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Sabato 29 Giugno 2013 Ore 19:00 Brindisi di apertura per l’undicesima edizione del Festival, alla Terrazza del Castello Aragonese. Ore 20:30 Inaugurazione della Mostra Fotografica Filmography di Chr. Moloney Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese di Ischia: - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi Domenica 30 Giugno Ore 19:30 Film Cocktail incontro riservato agli accreditati professionali presso il Castello Aragonese Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese : - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi Lunedì 1 Luglio Ore 19:30 Film Cocktail incontro riservato agli accreditati professionali presso il Castello Aragonese Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese di Ischia: - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi
Martedì 2 Luglio Ore 10:00 Apertura della BILC Borsa Internazionale delle Location e del Cineturismo. Di seguito XI Convegno Nazionale sul Cineturismo Ore 15:00 XI Convegno Nazionale sul Cineturismo rper gli accreditati professionali Ore 19:30 Film Cocktail incontro riservato agli accreditati professionali presso il Castello Aragonese Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese di Ischia: - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi Mercoledì 3 Luglio Ore 10:00 Seconda giornata di lavori dell’XI Convegno Nazionale sul Cineturismo riservato agli accreditati professionali. Ore 15:00 Workshop riservato agli accreditati professionali. Ore 19:30 Film Cocktail incontro riservato agli accreditati professionali presso il Castello Aragonese Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese : - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi Giovedì 4 Luglio Ore 19:30 Film Cocktail incontro riservato agli accreditati professionali presso il Castello Aragonese Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese di Ischia: - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento
Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi Venerdì 5 Luglio Ore 19:30 Film Cocktail incontro riservato agli accreditati professionali presso il Castello Aragonese Ore 21.00 Proiezione di un cortometraggio in presenza dell’autore alla Cattedrale dell’Assunta Ore 21.00 Proiezione delle Opere in Concorso e delle opere delle sezioni speciali nelle seguenti aree del Castello Aragonese di Ischia: - Terrazza del Sole - Terrazza del Convento Ore 21:15 Proiezione di un lungometraggio in prima serata al Piazzale delle Armi Ore 21:30 “Parliamo di Cinema” Gli autori delle opere in selezione incontrano il pubblico presso la Cattedrale dell’Assunta Ore 22:00 Proiezione di un lungometraggio alla Cattedrale dell’Assunta Ore 23.00 Proiezione di un lungometraggio in seconda serata al Piazzale delle Armi Sabato 6 Luglio Chiusura dell’XI edizione dell’Ischia Film Festival presso la Cattedrale dell’Assunta del Castello Aragonese. Serata di Gala per la premiazione delle opere in concorso all’XI edizione del premio internazionale IFF. Nel corso della serata concerto degli Artisti Cilentani con la partecipazione della solista Alina Di Polito. A seguire cena di Gala con gli ospiti del festival al Grand Hotel Delfini nella baia di cartaromana. Dalle ore 21.30 al Piazzale delle Armi saranno proiettati i corti e documentari vincitori del concorso. L’ingresso è gratuito per tutti gli accreditati del festival fino ad esaurimento posti disponibili. N.B. l’accesso al Piazzale delle Armi potrà avvenire esclusivamente attraverso il percorso pedonale Gli incontri «Parliamo di cinema» sono condotti dai giornalisti Maria Stella Taccone e Boris Sollazzo. *Questo programma potrebbe essere soggetto ad integrazioni o piccoli cambiamenti. Le eventuali modifiche, i nominativi degli ospiti, gli artisti premiati e le opere in concorso saranno comunicati attraverso l’ufficio stampa del Festival.
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Cinema: “Cleopatra” e “Plein Soleil” restaurati per il Festival di Cannes 2013 I film “Cleopatra” e “Plein Soleil”, che sono legati per molti aspetti anche all’isola d’Ischia, sono stati presentati in una nuova versione al Festival di Cannes 2013. Il restauro del secondo (regia di René Clement; attori: Alain Delon, Maurice Ronet, Marie Laforet, Ave Ninchi…; soggetto tratto dal romando “The talented Mr. Riples), noto anche col titolo di “Delitto in pieno sole”, è stato effettuato nel laboratorio Immagine Ritrovata di Bologna in Italia, con il ripristino di immagini e suoni, per dare tutta l’autenticità ad un’opera realizzata nel 1960. “Plein Soleil” sara’ visionato nelle sale dei cinema in Francia, nella versione restaurata, all’inizio dell’estate 2013.
In occasione del cinquantesimo anniversario di “Cleopatra”, Twentieth Century Fox Home Entertainment ha meticolosamente restaurato i 243 minuti della versione cinematografica originale del film. La nuova versione è stata proiettata il 21 Maggio in anteprima mondiale all’interno della selezione Cannes Classics durante l’edizione 2013 del Festival. In un esclusivo ricevimento, che ha fatto seguito alla première, Bulgari ha mostrato alcuni dei gioielli più preziosi della collezione personale di Elizabeth Taylor: pezzi esclusivi non in vendita e riacquistati a prezzi da record durante la famosa asta di Christie’s dopo la morte della diva nel 2011. La mostra includeva anche uno specchio di Bulgari in oro e turchese, un regalo ricevuto da Liz Taylor durante le riprese di “Cleopatra” e che è possibile vedere nel film, così come i costumi originali, in prestito dagli Studi di Cinecittà di Roma.
Villa Arbusto (Villa Gingerò) - Lacco Ameno dall'1 al 15 giugno 2013 Rassegna pittorica
Inge Kress Di Scala Antonio Macrì Raffaele Di Maio Inoltre Ricordo di un grande scultore/pittore: Giovanni Di Costanzo (a cura di Michele D'Arco) - Lettura di stralci di poeti - Spettacolo musicale - Piccoli Musici in concerto diretti dal maestro Francesco Di Scala - Presentazione del libro "Cogito et cano" di Palma Impagliazzo. Scuola Visconti di Cinema 2013 - La scuola di storia e cultura cinematografica del Circolo Sadoul compie 20 anni. L’edizione 2013 si svolgerà ad Ischia, Biblioteca Antoniana, dal 24 al 28 giugno 2013. Il Prof. Denis Brotto dell’Università di Padova terrà cinque lezioni sul regista Aleksandr Sokurov: 24. 6 : Di storia e di potere: Moloch, Taurus e il Sole 25. 6 : La parola e l’immagine: dalla voce solitaria dell’uomo al Faust 26. 6 : La Pinacoteca della natura: madre e figlio e Hubert Robert 27. 6 : L’arte e il tempo: Arca Russa 28. 6 : Le elegie tra componimento poetico e ricordo altre notizie sul sito www.sadoul.altervista.org 50 La Rassegna d’Ischia n. 3/2013
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Valeriana con fiori bianchi
Un Centranthus variante albus, ovvero la Valeriana con fiori di un bellissimo bianco candido, è stato fotografato dall’agronomo Francesco Mattera sul tetto della Biblioteca Antoniana d’Ischia: «Una vera rarità, che ha scelto di manifestarsi e di eleggere a propria casa il tempio della cultura ischitana. La famiglia è quella delle Valerianacee. I contadini un tempo la usavano come foraggio per conigli, capre, buoi, etc.». Giovanni Gussone nella sua Enumeratio plantarum vascularium in Insula Inarime sponte provenientium vel oeconomico usu passim cultarum (1855) presenta il Centranto rosso (C. ruber), di cui cita anche una variante con fiori bianchi (var. b albiflorus) e ne riporta, in generale, come luoghi natali i «muri e le rupi dalla sommità del monte Epomeo al lido, ma var. b . più rara; monte S. Nicola, cava di Buceto, muri a secco di Chiajano presso l’aquedotto, Castiglione, Casamicciola al Rostinale, Lacco superiore : var. bb (a foglie lanceolate) Casamicciola alla discesa dal Rostinale, monte S. Nicola presso alla Chiesa; var. c (a foglie terne verticillate, ovato-lanceolate) rarissima; muri a secco di Chiajano presso all’acquedotto». Volgo Cannocchiara . Radici tra le fessure profonde dei muri: foglie radicali e cauline medie integerrime, picciolate, o attenuate nel picciolo, ovato-lanceolate; superiori sessili, quasi connate, alla base irregolarmente dentato-crenate, maggiormente acuminate: brattee dalla base ovata lanceolate, acute, eguali all’ovario: fiori in a ., e in c . rubenti: calcare poco più corto del tubo corollino, ma quasi del doppio più lungo dell’ovario: pappo biancastro. Viene citata anche il Centranto calcitrapus = Valeriana calcitrapa o calcatreppola, presente «ai muri, in luoghi sassosi o arenosi erbosi, anche vicini al mare. - Glaberrimo, tenero, rigogliosamente virente; foglie superiori pinnatifide; fiori terminali, corimbosi, rosei, piccoli. Varia per il fusto appena palmare e semplicissimo, di 2 piedi e brachiato-raoso, ma sempre eretto. Il Gussone annovera inoltre la Valeriana officinale (V. officinalis) con le seguenti caratteristiche: glabra, alta: cauli solcati: foglie impari-pinnate: fiori terminali corimbosi, bianchi. Luogo natale: «selve alte o basse esposte a settentrione; selve di Catreca, delle Falanghe, del Fasano, del cavone del Vataliere, di Campagnano, dove piuttosto rara». Fiorisce in aprile, maggio. Annua.
Dalla Platea Polverino (vedi pagine interne)