Anno XXXVII N. 5 Ottobre - Novembre 2016 Euro 2,00
Una significativa identitĂ per l'isola d'Ischia! Quale? 6Il vescovo Mons. Agostino D'Arco nel cinquantenario della morte 6Parco di Villa Arbusto - Il giardino ricostruito da Rizzoli nel 1952 Gli Aragonesi tra Napoli e Ischia Rassegna Libri
Lacco Ameno Le giornate elleniche Teatro Premio Aenaria L'ambiguo scorrere del tempo alle soglie della colonizzazione
I casi di Cuma e Pithekoussai
Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia Periodico bimestrale di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi
In questo numero 3 Un'identità per l'isola d'Ischia! Quale?
Anno XXXVII - n. 5 Ottobre / Novembre 2016 Euro 2,00
5 Al Torrione di Forio Mostra di Angela Bonavita
6 - Agosto 2016 / Rivedere Ischia! - Giornate elleniche
Editore e Direttore responsabile Raffaele Castagna
7 Mons. Agostino D'Arco nel cinquantenario della morte
La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 19 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661 Stampa : Press Up - Roma
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11 Storia romana (39 a. C.) Il patto di Miseno
12 Rassegna Libri - Contexts of early Colonization - Zoé la principessa che incantò Bakunin - Gli antichi Greci - Memorie sparse di civiltà antiche
16 Teatro / Premio Aenaria Undici compagnie sul palco del Polifunzionale
17 Archeologia Cronologia versus Archeologia I casi di Cuma e Pithekoussai 21 Ibsen in Italia e a Casamicciola
23 Il giardino ricostruito da Rizzoli a Villa Arbusto nel 1952
26 La natura fa meraviglie sulla collina del corbezzolo 29 Ischia : Festa e corteo di S. Alessandro
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Ex libris - Pietro Thouar, giornaletto mensile (1868) - Storia dei monumenti del reame delle Due Sicilie, tomo I, 1846
conto corr. postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 19 80076 Lacco Ameno (NA) www.ischialarassegna.com www.larassegnadischia.it www.ischiainsula.eu
35 Festival internazionale (II edizione) La Filosofia il Castello e la Torre
36 Note storiche Gli Aragonesi tra Napoli e Ischia
info@larassegnadischia.it rassegna@alice.it
In Copertina (I) Foto grande: Veduta dell'Epomeo (J. C. C. Dahl, 1820) - Foto piccola: Paesaggio ischitano (Landelot T. Turpin de Crissé)
34 Giornate europee del patrimonio
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J. E. Chevalley De Rivaz Viaggio da Napoli a Capri e a Paestum (1846)
52 Ischia Ponte / Galleria Ielasi Mostra di Giovanni de Angelis Chiuso in redazione il 10 settembre 2016
Un'identità per l'isola d'Ischia! Quale? Ischia turistica! Era bella l’isola! E, forse, lo è ancora come sembrano registrare di tanto in tanto le testimonianze del web! Ma, a dire il vero, la bellezza è pur sempre un concetto di valutazione soggettivo, personale e, certe volte, temporaneo, legato a proprie esperienze di vita vissuta, dovuto per lo più a qualità originarie e primarie. Come sognava Lamartine, “L’alito dei primi fiori d’arancio che si è aspirato sbarcando su un’isola sconosciuta lascia per lungo tempo il suo profumo di ricordo”. A creare questo incanto, soprattutto di paesaggio, l’uomo molte volte non ha contribuito, se non marginalmente; se mai è intervenuto per modificarlo in peggio e in caratterizzazione negativa. Sicché oggi verrebbero quasi ad essere vanificate quelle parole che il re Ludwig I di Baviera fece aggiungere all’affresco di Rottmann sulle arcate del giardino di corte a Monaco: Corri a Ischia Lontano dal frastuono della vita, Là troverai quella pace Che da tempo ti è sfuggita via1.
“Che cosa contribuisca a creare questo fascino – si chiede l’autore Paolo Buchner – è una sensazione che sfugge ad un’analisi superficiale, ma d’altro canto ci sono (oggi diremmo: c’erano!) una natura australe, spiagge incantevoli, angoli pittoreschi e la possibilità di condurre una vita scevra dal ritmo frenetico della grande città”. Pace esterna e pace interna: la seconda agevolata e provocata dalla prima, ma, venuta meno l’una, diventa impossibile 1 Cfr. Paolo Buchner, Gast auf Ischia (1968), nella moderna traduzione italiana di Nicola Luongo (Ospite a Ischia), pubblicata nel novembre 2002 dall'Editrice Imagaenaria d'Ischia.
trovare anche l’altra. Ormai ogni paese è città e le località turistiche presentano generalmente quasi tutti i mali dei grossi centri urbani. Traffico, mancanza di adeguati servizi, difficoltà di movimento, irrequietezza di vita, mare non sempre limpido e pulito… Tutto diventa complicato e problematico nell’uso di attrezzature e servizi essenziali e comuni: acqua, balneazione, spiagge… E poi che dire della impossibilità di godere attimi di tranquillità e di silenzio, diurni e notturni? La speranza è che non ci si fidi ancora una volta sul fatto che l’isola sia bella, che attiri e richiami sempre turisti e villeggianti, contando sulle belle parole che tanti si sentono legittimati a pronunciare e a esprimere su Ischia, assicurando dirigenti, amministratori, responsabili che tutto va bene e che non c’è bisogno di nulla: ma perché, pensano costoro, c’è gente che si lamenta e che accusa la classe politica di assenteismo e di noncuranza circa i vari problemi che vengono prospettati, come è avvenuto in passato, in cui non si è riuscito a dotare l’isola di adeguati impianti di depurazione, parcheggi, smaltimento rifiuti, specialmente per salvaguardare il mare?. L’isola d’Ischia è cambiata, in pochi lascia ormai rimpianti e nostalgie nel lasciarla, pochi hanno fede di non dimenticarla, di averla sempre presente nei loro cuori per qualcosa che hanno ricevuto dalla sua terra e che vi vedono di caratteristico, di peculiare, di proprio e che non esiste altrove. Da un certo aspetto il cammino dell’isola d’Ischia è stato significativo e degno di nota. Da isola prevalentemente contadina e peschereccia, con qualche risorsa artigianale, e quindi, si può dire,
polivalente sul piano delle risorse economiche (tutti aspetti, peraltro, quasi in via di progressiva modifica e abbandono), si è immedesimata in una situazione per lo più monovalente legata al turismo... Una nuova realtà che, d’altra parte, ha fatto anche piacere e ha offerto generali soddisfazioni, dando ai paesi isolani una prospettiva di benessere e di progresso, cui sono mancati però una politica guida ed uno sviluppo intelligente. Dalla venuta di Angelo Rizzoli a Lacco Ameno, autore delle prime iniziative del settore, c'è stata una escalation generale e costante, in cui ciascuno ha fatto quello che ha voluto, con una classe dirigente che ha molto assecondato più che controllato e diretto. In fondo eravamo nel dopoguerra e appariva poco accettabile fermare coloro che tentavano di migliorare le condizioni di vita, anche e soprattutto nella esigenza di una abitazione decente e confortevole per sé e per i figli, pensando che all’epoca erano ancora in piedi qua e là alcuni rioni baraccali, retaggio dei due terremoti del 1881 e 1883; nel 1945 l’isola fu anche terra di confino. E quindi lo sviluppo, che prepotente si afferma con il boom economico generale e con il gran concorso dello sfruttamento edilizio, senza alcun rispetto per l'ambiente, è stato anche passaggio alla costruzione di pensioni e alberghi di tutte le categorie; è parso normale ad un certo momento che tutti, trasformando o abbandonando terre e vigneti, dovessero diventare albergatori, mai soddisfatti degli introiti economici; ogni angolo doveva dar posto a nuove camere, per tener dietro alle richieste che aumentavano, a mano a mano che all’epoca l’idea turistica, il bisogno di muoversi e di uscire dai propri ambiti toccava tutti i ceti sociali. La Rassegna d’Ischia n. 5/2016
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Dapprima si chiamò turismo d’élite, poi turismo di massa. La popolazione si trasformò e progredì senza criterio; chi costruiva case e alberghi non ha mai avvertito l’esigenza di crearsi un parcheggio per le macchine per sé e per i clienti; inizialmente si facevano progetti per cisterne e si creavano altri vani abitativi. Lo slancio innovativo dato da Rizzoli ha indotto a seguire un solo filone (costruire case), ma teniamo presente che lui tutto faceva con criterio e dotò i suoi alberghi di un’officina, che funzionava anche come sosta per i veicoli, creò per i turisti un cinema, campi da tennis, un minigolf. Tutte cose che successivamente sono scomparse. Peraltro bisogna pur dire che non si è mai avuta la percezione che bisognasse fermarsi e dare una svolta a ciascun procedere né da parte degli amministratori né dai cittadini che si avviavano a far prevalere il presente, e non anche il pensiero per il domani, per un futuro migliore in tutti i sensi A tanto crescere in alcuni settori, gli amministratori non hanno saputo far corrispondere un eguale e necessario progresso sul piano pubblico, pur parlando di tanti progetti, parzialmente portati avanti e realizzati, anche grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e all’EVI (Ente Valorizzazione Isola d’Ischia), che agiva come ente sovracomunale, a testimonianza che per certe realizzazioni non c’è bisogno di attendere la chimera del comune unico, a cui alcuni, senza giusta cognizione di cause e senza conoscere bene l’isola, auspicano il ricorso in modo autoritario. Ovviamente il fenomeno turistico non è che sia stato un’esclusiva dell’isola, ma ha avuto concretezza dappertutto in campo regionale, nazionale e internazionale: le nuove realtà si sono aggiunte a quelle zone che già da tempo erano state rinomate e degne di essere visitate e frequentate. Di conseguenza, anche per ulteriori ragioni che non sono locali, ma nazionali e internazionali, l’offerta è aumentata e la domanda ridimensionata. Ciascuna località aveva una sua caratteristica che la ponesse in primo piano nella notorietà generale e ha cercato di sfruttarla dovutamente, perché difficilmente potesse essere dimenticata. Ed ecco che per fare turismo bisognava anche impegnarsi sul piano della concorrenza. Ecco quindi la necessità di essere e avere un qualcosa di diverso e di particolare richiamo per un mondo desideroso di conoscere, oltre che di godere e ammirare, cioè una distintività, una significativa identità un elemento unico di forte richiamo, che fosse anche una salvaguardia per altri aspetti pur importanti. Ischia aveva (o poteva sviluppare) una tale distin4
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tività, una identità precisa, lungi dal correre dietro a tutte le novità, all’esigenza di avere tutto, di offrire tutto agli ospiti dei nuovi tempi? Ecco quello che ha contribuito a frenare l’isola d’Ischia in campo turistico. L’invidia, forse, di avere tutto, di tendere a soddisfare ciascun interesse ha portato a dotare Ischia certamente di qualcosa di nuovo, ma ha anche danneggiato e annullato altri aspetti che ne avevano fatto prima la fortuna. Ischia era un’isola prevalentemente termale e grazie a questa caratteristica ha goduto di un’attività prolungata che faceva durare sette o otto mesi la stagione turistica. Poi il settore termale è stato quasi rinnegato e ridotto a volte ad un corollario delle offerte di soggiorno. Da quanto tempo non si ha un libro, una moderna pubblicazione sulle acque termali, osannate già un tempo da Giulio Iasolino2, Camillo Eucherio de Quintiis (un poema in versi latini)3, G. A. D’Aloisio4, Morgera5, Mancioli6? Spesso non si è avuta (e non si ha) una politica per il paese, ma un paese per la politica. Il mare e le spiagge erano una prerogativa speciale rispetto anche ad altre famose località, ma poi si è voluto tenere dietro alla nautica ed è subentrata la mania dei porti, distruggendo direttamente o indirettamente tratti importanti di arenili, sottraendoli alla balneazione (spiagge e mare) già in quanto aree portuali; non da ultimo il bisogno di scogliere con il conseguente mutamento delle correnti marine sui litorali. Il tutto (o quasi, almeno a volte) dato in concessione, senza lasciare alcun tratto libero. Non di rado creando problemi agli stessi pescatori, una delle professioni più praticate nei tempi addietro, quando si poteva sostare ovunque e stendere le proprie reti ad asciugare. Da quasi padroni del mare e dei rispettivi tratti limitrofi, son diventati per lo più invisi a tutti. Per molti sembra valida sin qui la circostanza che faceva dire che il mare non bagna più Napoli; il mare anche per un’isola e per gli isolani appare come un lusso o addirittura un super lusso lasciato in mano a pochi particolari, spesso extra isolani. E che dire del turismo chiassoso dei giorni moder2 Giulio Iasolino, De’ Rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa, hoggi detta Ischia, 1588. 3 Camilo Eucherio de Quintiis, Inarime seu de Balneis Pithecusarum libri VI, 1726, di cui si ha anche una traduzione italiana. 4 Giannandrea D’Aloisio, L’infermo istruito nel vero salutevole uso dei rimedi naturali dell’isola d’Ischia, 1757. 5 Vincenzo Morgera, Le Terme d’Ischia prima e dopo gli ultimi terremoti distruttori (1881 e 1883), studi e osservazioni, 1890. 6 Massimo Mancioli, L’isola d’Ischia: salute e bellezza (1991), tradotta anche in tedesco e altre pubblicazioni.
ni, oltre che degli eventi eccessivamente rumorosi, coinvolgenti a volte, più che l’ambito specifico di una piazza, di uno spazio delimitato, un intero paese, come se tutti ne avessero bisogno impellente; vi contribuiscono anche gli alberghi con le proprie feste interne, fatte per trattenere i clienti e annullare la volontà di andare all’esterno a cercare svago e diversità. E gli ultimi tempi hanno presentato un ulteriore aspetto non certo confortante per l’esigenza da tanti avvertita e fatta propria di sparare, in qualsiasi occasione e in qualsiasi ora, fuochi pirotecnici sempre più potenti e rumorosi. L’isola sta venendo meno attualmente anche sul piano culturale, facendo svanire la speranza di salvezza futura mediante la valorizzazione del patrimonio, storico e archeologico, di cui essa è dotata, soprattutto con quanto è venuto fuori negli ultimi tempi e con la prospettiva di quanto ancora il territorio possa offrire in fatto di ricerche e di rinnovamento. Ma sembra prevalere un errato concetto di cultura (parola in verità abbondantemente usata in
senso improprio). Alcune realizzazioni tanto osannate in precedenza passate al patrimonio comunale mediante soldi pubblici si fanno scomparire nel silenzio generale (si pensi almeno alla Colombaia di Forio, chiusa al pubblico e di cui non si conosce il destino; si pensi ancora al Museo e Scavi di Santa Restituta in Lacco Ameno, di cui non si hanno notizie di apertura da oltre due anni; ma c'è anche lo scarso interesse rivolto al Museo di Pithecusae per una opportuna e continua valorizzazione, in quanto si tende maggiormente a fare eventi per la sede esterna); e pensare che quest’anno si è celebrato Luchino Visconti e l’anno scorso si è ricordata la figura di don Pietro Monti! Cultura per molti significa fare l’evento temporaneo, celebrare qualcosa per uno o due giorni, pavoneggiarsi in un modo o nell’altro, felici dello spazio ricevuto sui vari giornali, sul web, sui social media, e incuranti del fatto che poi calerà presto l’oblio su ciascuno di questi avvenimenti. Raffaele Castagna
Forio - Torrione
ONDE – VAGUES
mostra di Angela Bonavita L’Associazione Culturale Radici, sempre proiettata ad offrire alla collettività foriana e vacanziera quanto c’è di meglio nel panorama artistico, ha presentato al Torrione di Forio (1-8 settembre 2016) la mostra di Angela Bonavita (artista italofrancese nata a Napoli) dal titolo “Onde - Vagues” articolata in due fasi. La prima, espositiva, che ha raccontato le sue emozioni catturate sulla tela con gesto rapido ed energico; la seconda, propositiva e partecipativa, dove lo spettatore è diventato parte attiva della mostra, esprimendosi lui stesso, a volte con l’aiuto di Angela, su una parte di una grande tela bianca messa a sua disposizione. Angela Bonavita ha illustrato i motivi per cui ha scelto questo tema così romantico e questa è una parte del suo pensiero: «Quale visione è più inafferrabile di un’onda? I movimenti ritmati di un’onda sono gli stadi di un cerchio infinito, un cerchio senza limiti. Movimenti all’immagine delle passioni che travolgono tutto sul loro passaggio. Un’onda è lo sconvolgimento annunciato, al suo arrivo, si è sprovvisti di forza, impossibile lottare contro una tale mostruosa invasione. Ogni volta si è presi dalla paura improvvisa che ci trascinerà via con lei, eppure ogni volta l’Onda
passa... In questo mondo contemporaneo dove i cambiamenti sono nello stesso tempo ciclici e repentini, come le onde, ogni volta polverizzano tutte le nostre certitudini e travolgono le fondamenta le più solide L’Onda è come lo specchio di questo mondo: un eterno ritorno”. (www.iltorrioneforio.it) La Rassegna d’Ischia n. 5/2016
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Agosto 2016
Rivedere Forio (Ischia)!
La mia attesa era spasmodica; attraverso il grande vetro a specchio del treno superveloce, scorgevo scorrere velocemente la natura ovattata dalla nebbia che fluttuante a tratti avvolgeva ogni cosa celandola alla mia vista. Velocemente, ben presto, giunsi bruciando tempo e tappe sul traghetto che scivolando silenzioso e veloce su di un mare, il mio, finalmente azzurro-cupo mare, infinitamente, silenziosamente mio, solo mio, eternamente mio… Incantata apparve e strinsi in un unico ammaliante abbraccio la mia incantevole isola di Pitecusa. Giunsi ben presto, dopo aver superato punta Caruso, dinanzi alla incantevole, affascinante mia natia Forio, che pareva come sdraiata sotto la protezione del mitico monte Epomeo, il quale con sguardo indomito e a tratti accarezzevole abbracciava l’intera comunità foriana, dove calli, viali e multivariegati sentieri sono colmi di fiorenti e odorosi mistici oleandri e buganvillee. La luce della mia terra è intensa, viva in tutte le stagioni e mi avvolge integralmente in simbiosi con gli aromi inebrianti di limoneti, aranceti, dai quali improvvisamente una brezza lieve ti inonda offrendo al mio, al cuore di colui che ama il sacro della divina natura l’ebbrezza dell’amore infinito. Amore che scoprirono per primi gli antichi popoli d’Eubea che s’insediarono nell’isola nell’VIII secolo a. C. I tesori che custodisce l’isola verde sono infiniti e pressoché innumerevoli… Fumarole, acque termali, conosciute e frequentate da tre millenni, sorgenti d’acqua dolce e altro ancora. Ogni volta che, ammaliato ed estasiato, ritorno sulla ‘mia isola’ ed in particolare in seno alla mia mitica Forio, la mia mente, l’animo e l’intero corpo percepisce, esaltandosi, ritemprandosi e rigenerandosi, un’esplosione di manifestazioni di gioia. Il problema si scatena inevitabilmente, al contrario, al momento della partenza che vorrei non avvenisse mai. Sì, certo, tutti mi esortano a restare e a continuare a vivere “codesta età felice”, nel ritornare alle mie origini. Ma, ahimè, non riesco a rinnegare del tutto il mondo momentaneamente lasciato alle spalle… devo purtroppo riviverlo, riemmergendomi in una realtà che mi ha dato pochi momenti di vera gioia, ma tante amarezze e dolori ai quali io non posso e non voglio sfuggire: sono la vita, la triste, dolce realtà. Tutto è pronto, è arrivato il fatidico giorno del ritorno nel mondo momentaneamente abbandonato… gli occhi sono lucidi per la commozione che assale il mio animo e che sono celati da occhialoni scuri, che nascondono le mie lacrime, ma non mimetizzano affatto i miei fremiti, indomabili di tristezza, colmi di fibrillazione. La Punta Caruso viene superata, ahimè resta l’amara realtà… e l’abbraccio ultimo dell’azzurro-cupo mio mare, nel fondale del quale spero di trovare, un giorno, la pace e forse il riposo. Gaetano Ponzano 6
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Le giornate elleniche di Pthekoussai 30 settembre – 2 ottobre 2016 Lacco Ameno - Ischia Venerdì 30 settembre 2016 Ore 18,30: “Pithekoussai: emporio o prima colonia d’occidente? (Villa Gingerò) Saluti istituzionali Relazione: Prof. Alfonso Mele Intervento programmato: Prof. Luigi Gallo Ore 21,30: Visita guidata al Museo di Pithekoussai (con la dott.ssa Costanza Gialanella curatrice del Museo) Sabato 1° ottobre 2016 Ore 10,30 - 12,30 - 15,00: Lettura di Poesie greche (Parco Ternale Negombo) Ore 18,00: Ellenikà: La lingua greca dalle origini ai giorni nostri
Modera Prof.ssa Jolanda Caprigllone Relatori: Prof. Louis Godart (“L’Incontro fra
Greci e Fenici a Pithekoussai all’origine della scrittura”) Prof. Jannis Korinthios (“L’evoluitone linguistica dal greco antico al neogreco”) Prof. Luigi Alberto Sanchi (“L’influenza della lingua greca sul latino e sulle lingue neolatine”)
Ore 21,30: Festa greca dei Poseidoniati (Piazza Santa Restituta)
Domenica 2 ottobre Ore 10,30: Né troppo ricchi né troppo poveri...
L’economia in Aristotele: una lezione per la Grecia e per l’Europa di oggi. (In occasione
dell’anno Unesco dedicato ad Aristotele (Villa Gingerò) Intervento introduttivo: Prof. Marco Galdi Relazione1: Prof. Diego Fusaro Conclusioni: Dott. Luigi De Magistris Per informalità: www.filellentca.blogspot.it www.prolocolaccoameno.com La Società Filellenica Italiana ha sede in Cava de' Tirreni (SA) presso l'Hotel Vittoria Maiorino, che fu sede dal luglio all'ottobre del 1944 del Governo Greco in esilio, "ultima tappa", come definì la città il Premio Nobel Seferis, prima del Suo rientro in patria. La Società ha come suo scopo quello di favorire la consapevolezza, soprattutto da parte delle giovani generazioni, del debito fondamentale che la Civiltà occidentale ha nei confronti della Grecia e del Suo eccezionale Popolo.
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Ischia – Personaggi
Agostino D’Arco Vescovo di Castellammare di Stabia e Sorrento nel cinquantenario della morte Nel 50° anniversario della morte dell’ultimo vescovo ischitano, S. E. Agostino D’Arco, Mons. Camillo d’Ambra consegna alla storia locale uno straordinario profilo di una personalità che ha dato lustro alla nostra isola A cinquant’anni dalla inattesa scomparsa di S. E. Mons. Agostino D’Arco si risveglia nella mente l’ammirazione di chi lo conobbe e l’apprezzò e nel cuore il rimpianto per la immatura scomparsa. Attingendo dalle memorie di un tempo ormai lontano nasce spontanea e incontenibile la volontà di rinverdire il ricordo di quella stima ch’Egli s’era meritata e di quella fama di cui era circondato. Si attagliano a Lui esattamente e senza esagerazione questi versi di Giuseppe Parini (Odi: La vita rustica): Ah! Quella è vera fama D’uom che lasciar può qui Lunga ancor di sé brama Dopo l’ultimo dì. È giusto che anche le nuove generazioni, che vivono un contesto storico tanto diverso da quello in cui visse ed operò Mons. D’Arco, possano giovarsi della conoscenza ed ammirare le gesta di un uomo che ha dato tanto decoro all’isola d’Ischia che giustamente ne va fiera. Già il giorno di segnalata letizia nel quale nacque da Michelangelo D‘Arco e Maria Francesca Trani nell’aprica frazione di Campagnano nel Comune d’Ischia e fu battezzato dal parroco di S. Domenico, D. Antonio Conte, può considerarsi un giorno che gli antichi romani reputavano meritevole d’essere segnato da una pietruzza bianca, cioè fortunato. Era il 5 marzo 1899, giorno nel quale Ischia festeggia, con materna fierezza, il più santo dei suoi figli, Giovan Giuseppe della Croce.
I nomi che al neonato vennero imposti furono Agostino e Giovan Giuseppe e, se bisogna credere all’antico aforisma “nomen est omen”, bisogna anche rallegrarsi che l’augurio si sia concretizzato perché di Sant’Agostino ereditò il perspicace intelletto e di San Giovan Giuseppe la pietà e la sollecitudine apostolica. Cresciuto in seno ad una famiglia moralmente sana e cristianamente esemplare, Agostino cominciò a percepire, anche se inizialmente in confuso, la voce di Dio che lo sceglieva per Sé, voce che di giorno in giorno divenne sempre più chiara ed allettante. Quando scattò in lui l’assenso della volontà, comunicò ai genitori quel suo desiderio temendo una loro ragionevole opposizione, invece li trovò contenti e grati a Dio
per aver volto lo sguardo sulla loro famiglia. Dio, gradendo quella generosità, darà a quei genitori la gioia di donargli non solo uno, ma due dei loro figli: Agostino e Salvatore. Il Seminario d’Ischia nel primo decennio del ‘900, quando vi entrò Agostino D’Arco, stava attraversando la fase più splendida della sua storia e godeva dei frutti di quell’impronta seria e serena che gli aveva dato Mons. Giuseppe Candido e che era stata recepita e migliorata dal suo successore Mons. Mario Palladino, due vescovi illuminati e saggi che trasformarono quell’antico istituto in una palestra di virtù e un faro di luce. La loro lungimiranza aveva dotato il Seminario di docenti di valore, scelti fra i migliori sacerdoti isolani o forestieri, che vivevano insieme con gli alunni, come in famiglia, sotto la sapiente guida di due impareggiabili rettori che si susseguirono: D. Giovanni Regine di Forio e D. Giovanni Scotti di Barano, ambedue canonici della Cattedrale, insigniti poi della dignità vescovile. Non fa meraviglia se, in un simile contesto, il seme della vocazione di Agostino, nascosto in un terreno così fertile, sarebbe spuntato, si sarebbe sviluppato e avrebbe prodotto fiori e frutti in abbondanza. L’impegno nella formazione e la diligenza nello studio si evidenziarono ancora di più negli anni del liceo e della teologia trascorsi nel Seminario Regionale Campano di Posillipo retto dai Padri della Compagnia di Gesù, istituto prestigioso che ha dato alla Chiesa tanti sacerdoti e La Rassegna d’Ischia n. 5/2016
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tra essi non pochi Cardinali, Nunzi Apostolici e Vescovi. Negli anni della formazione, Agostino fu seguito costantemente non solo dal vescovo diocesano, ma particolarmente, ed è doveroso ricordarlo, dalle premure del suo parroco don Vincenzo Cuomo, da tutti stimato, che gli aveva fatto da padrino di cresima e che ebbe la consolazione gli vederlo ascendere agli ordini sacri e al Presbiterato che gli fu conferito da Mons. Pasquale Ragosta il 18 marzo 1923 e giovandosi poi di lui per tanti anni e in varie occasioni nella cura pastorale della sua vasta parrocchia di San Domenico. Nei primi anni di sacerdozio approfondì i suoi studi e si laureò in teologia. Entrato poi fra i Canonici del Capitolo Collegiale dello Spirito Santo non solo fu assiduo alle celebrazioni liturgiche, ma fu instancabile amministratore del Sacramento della Penitenza nonché direttore spirituale di tante anime più sensibili e fervorose e qualcuna di esse diventò suora. Preparò con cura, con la collaborazione di altri sacerdoti e degli amministratori laici della Chiesa dello Spirito Santo, i festeggiamenti per il secondo centenario della morte di San Giovan Giuseppe, cioè per il 5 marzo 1934. Fin dall’anno precedente la chiesa era stata abbellita con marmi sia per pavimento che per rivestimento dei pilastri portanti nonché con dipinti nel transetto e nella finta cupola. Per far meglio conoscere il Santo Patrono, in quell’anno centenario, nel quale fu portata anche a Ischia una sua insigne reliquia, don Agostino scrisse una sua breve biografia che fu largamente diffusa. Mentre attendeva a questa specie di culto, si prodigava anche nell’insegnamento nel Seminario vescovile e nello Studentato dei Frati Minori della Provincia Napoletana che aveva sede, allora, nel convento d’Ischia, nel quale si formarono e divennero sacerdoti non pochi giovani isolani. Nel 1937, resasi vacante la parrocchia dello Spirito Santo per la morte di Raimondino Lauro, il vescovo De Laurentiis non trovò sacerdote più adatto a reggere quella vasta 8
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parrocchia di D. Agostino, che già era canonico della Collegiata fin dal 1926, assumendo il titolo di Vicario Perpetuo della Collegiata dello Spirito Santo e di S. Vito Martire, che guiderà fino al 1959, cioè alla sua promozione all’episcopato. Chi scrive ebbe l’onore di conoscere il Can. Agostino D’Arco quando varcò la soglia del Seminario all’inizio dell’ottobre 1936. Era lui il Padre Spirituale facente parte della triade direzionale insieme al rettore, Can. Ernesto Castagna e l’economo can. Michele Cortese. D. Agostino copriva quel delicato officio fin dal 1933. Ebbi modo di apprezzare la sua delicatezza e la sua sapienza, oltre all’indiscussa competenza pedagogica ed oratoria. I suoi discorsetti che faceva periodicamente ai seminaristi, il giovedì e la domenica sera, venivano ascoltati con diletto e si imprimevano profondamente nella memoria. Potei ancora giovarmi dell’insegnamento del professor D’Arco nell’anno scolastico 1940-41 quando ero in quinta ginnasiale, insieme ad altri cinque compagni quali uno, Salvatore Buono di Francesco, era nipote di don Agostino perché figlio della sorella di lui, Chiarastella. Si era allora nel primo anno di guerra e noi ragazzi eravamo ansiosi di conoscere quel che stava succedendo, ma non ne avevamo la possibilità. In seminario
non c’era l’apparecchio radio e la regola ci vietava la lettura dei giornali. Notando a volte che il prof. D’Arco, che quell’anno insegnava latino e greco, entrava in classe con il Mattino in mano e lo posava poi sulla cattedra, strizzavamo l’occhio a Salvatore che sedeva nello stesso banco perché facesse qualche domanda allo zio, non concernente le materie scolastiche. Don Agostino sorrideva benignamente e, quando mancava ancora una manciata di minuti al termine dell’ora di lezione, appagava l’onesta voglia. Ci faceva avvicinare alla cattedra, rispondeva alle nostre domande o ci leggeva qualche articolo ben fatto esortandoci sempre a pregare per la pace. Durante le vacanze estive ogni sera noi seminaristi della sua parrocchia, cioè Pasqualino Mattera, Massimiliano Lauro, Nicola Sasso, Baldassarre Califano e il sottoscritto, eravamo assidui alla visita al SS. Sacramento e alla benedizione eucaristica, dopo aver condotto per turno la recita del Rosario insieme con il popolo e le tre suore stimmatine che servivano il dormitorio per i senzatetto dell’Opera Pia Iacono, Avellino, Conte, che aveva sede nel vicoletto di fronte alla porta della Chiesa dell’Addolorata. Questa, benché angusta, era la sede di fatto della parrocchia dell’Assunta nella cattedrale. Quel tempietto era un
Mons. Agostino D'Arco (a destra) con il vescovo E. De Laurentiis
vero asceterio dove don Agostino era a disposizione di tutti, sia per lo svolgimento delle pratiche matrimoniali, sia per la cura spirituale di donne che facevano vita devota o si impegnavano per sostenere le attività parrocchiali, per l’insegnamento del catechismo ai fanciulli, per il soccorso ai poveri, che erano numerosissimi in quel periodo di guerra. Ricordo l’amara estate del 1945 quando chi scrive fu colpito da una grave malattia. Nessun compagno di seminario e nessun prete venne a visitarmi, se non il vescovo De Laurentiis e il parroco D’Arco, che pregarono e fecero pregare per me e la grazia fu concessa per intercessione della Madonna. Sono gesti questi che non si possono dimenticare. L’Azione Cattolica nell’isola d’Ischia è esistita fin dai suoi primordi e fu fiorente sotto i pontificati di Pio XI e Pio XII. I parroci gareggiavano fra loro a chi avesse più iscritti nei vari rami. Don Agostino D’Arco era uno dei più fortunati. Se nel periodo bellico ci fu un calo numerico e una rarefazione dei raduni lo si deve alle gravi difficoltà del momento, ma fin dall’immediato dopoguerra insieme all’assillo per la ricostruzione ci fu anche un risveglio di fede e anche nella nostra diocesi l’Azione Cattolica riprese quota sotto la direzione di Mons. D’Arco che ne era il Delegato o Assistente diocesano. A Ischia fu data una sede più degna al Centro diocesano e si organizzarono convegni, gare di cultura religiosa, propaganda missionaria, sostegno da parte dei giovani e della gioventù femminile alla Giornata Universitaria; molti giovani che frequentavano i corsi universitari si scrissero alla FUCI, insomma ci fu un periodo di euforia che ebbe la sua esplosione nel pellegrinaggio diocesano per l’Anno Santo del 1950 nella cui organizzazione ebbe tanta parte mons. D’Arco. Penso che l’impegno per la buona riuscita delle celebrazioni giubilari del 1950 fu l’ultima benemerenza che affrettò la nomina a vescovo. Essa fu pubblicata l’11 febbraio 1951. Pio XII, assegnando a mons. D’Arco la sede titolare di Tenneso,
lo costituiva coadiutore del vescovo di Castellammare di Stabia, mons. Federico Emanuel, uno dei salesiani della prima ora, ormai avanzato negli anni. La lieta notizia riempì di gioia non solo i familiari e la larga parentela di Mons. D’Arco, ma tutti quelli che lo conoscevano e lo stimavano e particolarmente ne esultarono il vescovo De Laurentiis e l’intero presbiterio, perché la diocesi aveva di nuovo un suo rappresentante nell’episcopato italiano, dopo la semestrale interruzione verificatasi per la scomparsa del cardinale Lavitrano nell’agosto 1950. L’ordinazione episcopale fu programmata per il primo aprile e l’intera diocesi cominciò i preparativi per festeggiare alla grande lo storico evento. Fu per il rito della consacrazione la chiesa di S. Maria di Portosalvo, una delle più spaziose e meglio accessibili. Fu invitato come vescovo consacrante il cardinale Adeodato Piazza, patriarca di Venezia che accettò ben volentieri. Il 31 marzo il cacciatorpediniere “Oriani” fece l’ingresso nel porto d’Ischia tra lo stridio delle sirene delle navi ivi ancorate e lo squillar delle campane. L’Eminenza fu accolto festosamente nei decorosi ambienti estivi dei Borbone. Il giorno seguente, 1° aprile, una folla strabocchevole gremì la chiesa di S. Maria di Portosalvo per assistere all’inconsueto rito dell’ordinazione episcopale. Era stata preferita quella chiesa per la sua capienza, ma si rivelò del tutto inadeguata. Accanto al cardinale consacrante v’erano, secondo le norme, i due vescovi conconsacranti Mons. Mattia Guido Sperandeo, allora ausiliare del vescovo di Nola, e il nostro vescovo De Laurentiis. Oltre al Presbiterio diocesano al completo erano presenti molti sacerdoti venuti da Castellammare con il sindaco Pasquale Cerchi; i sindaci isolani nonché tutte le autorità. Nel pomeriggio, perché il cardinale potesse farsi un’idea della realtà isolana, fu effettuato il giro dell’isola in macchina sostando nei vari centri per dare alla popolazione la possibilità di vedere il nuovo vescovo. In occasione della sua ordinazio-
Fratelli D'Arco: Agostino e Salvatore
ne Mons. D’Arco ricevette in dono da una famiglia ischitana un dipinto rappresentante San Giovan Giuseppe e, apprezzandone il gentile pensiero, fu tanto grato a chi glielo aveva donato, perché lo portasse nella sua nuova residenza per godere della protezione del Santo e non spezzasse il legame con Ischia. Quando Mona. D’Arco pose piede in Castellammare, ove giunse direttamente da Ischia via mare, accompagnato da tanti amici e ammiratori, il vescovo Emanuel e il Presbiterio stabiese l’accolsero con visibile giubilo, grati al Santo Padre che aveva fatto alla diocesi un dono così prezioso. Quanto don Agostino fosse amato dai componenti della tanto rispettosa famiglia D’Arco lo dimostra il gesto di affetto sincero e disinteressato, anche se indubbiamente non senza sacrificio, fatto per lui dai suoi germani Gabriele e Salvatore. Il primo si trasferì con la moglie Olimpia e i figli, lasciando casa e interessi che teneva nell’isola; il secondo, integerrimo, e stimatissimo sacerdote del clero diocesano, senza badare al prestigio che s’era acquistato nell’isola né all’onorifico officio di canonico teologo del Capitolo, né alla sua stessa salute, purtroppo minata dagli stenti subiti e dai periLa Rassegna d’Ischia n. 5/2016
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coli ai quali fu esposto come tenente cappellano militare durante la sfortunata campagna di Russia e la rovinosa ritirata che fu una ecatombe per i nostri soldati, seguì il fratello vescovo e fu per lui un aiuto impareggiabile e insostituibile che gli infuse coraggio e gli dette sicurezza nei nove anni che gli stette accanto, fino a quell’infausto 12 giugno 1960 quando morì a soli 53 anni. Ripresosi gradatamente dopo quella disgrazia, Mons. D’Arco si ributtò nell’agone con maggiore fiducia in Dio, governando la diocesi con prudenza e saggezza mista a mansuetudine e fermezza, senza avvilirsi quando qualche iniziativa non gli riusciva e senza gloriarsi dei successi, né a parole né con la stampa. È impossibile scandagliare le pieghe nascoste e note solo a Dio di quel gran cuore che ebbe questo degnissimo Pastore. Difese strenuamente la dottrina cattolica e la morale, la sacralità della famiglia, i tradizionali valori dell’onestà e della religiosità del nostro popolo meridionale contro le insidie, palesi o subdole e sempre fuorvianti, delle novità dottrinali e delle mode amorali ed aberranti. A Castellammare partecipò intensamente alla vita del popolo, mai arroccato nel sacro palazzo, anticipando di fatto d’oltre mezzo secolo lo slogan oggi tanto di moda della “Chiesa in uscita”. A questa chiesa, la Cattolica, che egli tanto amò, propagandò la dottrina sociale difendendo coraggiosamente i sacrosanti diritti dei lavoratori del braccio e del pensiero ed è sintomatico che, grazie al suo equilibrio politico, collaborato efficacemente da un Silvio Gava ed altri benemeriti in una città industriosa per il turismo, per il porto, per il cantiere navale, per le fabbriche e che era considerato la roccaforte dei partiti di sinistra dell’Italia del Sud, potesse avere il sopravvento il partito di centro. Con la sua vigile e cordiale presenza e con la collaborazione dei parroci, Mons. d’Arco riuscì a pacificare famiglie in dissidio condividendo con la sua presenza pastorale e l’affetto umano i loro problemi, le loro angosce e le loro speranze. Quella squisita carità e quella solidarietà 10
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umana che già tanto era rifulsa a Ischia particolarmente negli anni di guerra e nell’immediato dopoguerra, la moltiplicò da vescovo e poi, quando poté, fu sempre vicino alla povera gente. Da solerte pastore curò il seminario, senza badare a spese cercando di cominciare a concretizzare le idee nuove che venivano fuori dalle assemblee conciliari alle quali fu assiduo dal 1962 al 1965. Attento allo sviluppo demografico e all’espansione di Castellammare e degli altri centri del territorio diocesano verso le periferie, curò la costruzione di nuove chiese, eresse canonicamente nuove parrocchie (ben 18), attese con diligenza all’aggiornamento del giovane clero e ne curò la spiritualità (consacrò sei sacerdoti) e solo Dio sa i tanti sacrifici che fece personalmente, quando non esisteva ancora l’otto per mille e tutte le agevolazioni che vennero in seguito e soprattutto quanto amaro dovette ingoiare per episodi incresciosi, incomprensioni, resistenze, insubordinazioni e così via, cose tutte, si sa bene, che sono scontate e normali nell’esercizio della ministero episcopale. Come se tutto questo non bastasse, gli cadde fra capo e collo anche l’altra tegola dell’amministrazione della limitrofa arcidiocesi di Sorren-
to, vacante per la rinuncia del suo vecchio titolare mons. Carlo Serena. Il lavoro si raddoppiò, gli spostamenti tra le due sedi divennero frequenti, amò senza differenza come a Castellammare, anche i Sorrentini e tutti gli abitanti dell’incantevole penisola. Si gettò nella nuova sfida con il solito entusiasmo giovanile. Purtroppo il fisico, troppo teso e scarsamente curato, non resse; il 21 settembre 1966 Mons. D’Arco morì. Era stato a Ischia nel mese precedente per quel po’ di vacanze che si prendeva una volta l’anno e nulla faceva prevedere la sua prossima fine. Quando si sparse la notizia, tutti ne erano increduli stimandola uno scherzo di cattivo gusto. Ma si dovette credere per forza al mesto e prolungato dondolio delle campane. Ora quelle campane suonano a festa perché se gli antichi romani dicevano “post fata resurgo”, con quanta maggior ragione possiamo dirlo noi che crediamo nella resurrezione della carne e nella vita eterna e prendendo poi questa espressione scritturistica nel suo significato più ampio affermare di Mons. Agostino D’Arco : Elemosynas illius enarrabit omnis ecclesia sanctorum? Mons. Camillo d’Ambra
Mons. Agostino D'Arco tra la gente
Storia romana - Anno 39 a. C.
Il patto tra Pompeo - Antonio - Ottaviano nelle acque tra Miseno e Ischia Il recente summit Italia - Francia - Germania a bordo della portaerei Garibaldi con visita all'isola di Ventotene, per rendere omaggio e ricordare la figura di Altiero Spinelli, autore già, negli anni di confino (1939-1943), del Manifesto per l'Europa unita e libera, ci ha fatto ricordae un altro famoso incontro della storia romana. Nell'anno 39 a. C. nelle acque del golfo di Napoli (tra Miseno e l'isola d'Ischia) si incontrarono i tre grandi dell'epoca (Sesto Pompeo, Antonio e Ottaviano) per decidere le sorti del mondo o procedere ad una sua equa spartizione. L'episodio viene citato da vari storici. Qui riportiamo i testi che si leggono nella Storia dell'isola d'Ischia (1867) di Giuseppe d'Ascia e nella Storia d'Italia di Vannucci del 1853. Ischia «Coinvolta nelle turbolenze intestine di Roma, fomentate dai tre candidati: Sesto Pompeo, Antonio, ed Ottaviano, fu spettatrice del famoso congresso, che progettarono i tre Duci; ed attuarono sullo scoglio di Baja ov’è il promontorio di Miseno. Per la qual cosa Sesto Pompeo, all’invito del suocero Libone, che avea un tal congresso proposto; e lo attendea nella detta Ischia, venne da Sicilia, scissa dal romano impero fin dall’anno 44 avanti l’E. V. e sottoposta al suo comando. Accompagnato da una imponente e numerosa flotta, montando egli una galea a sei ordini di remi, giunse in questi paraggi; e quivi, come in luogo sicuro e di sua fiducia, perché abitata da gente del suo partito, attese i suoi emuli. Trattata la pace con Ottaviano e Antonio, Sesto Pompeo concesse loro la Sardegna e si tenne la sola Sicilia; fu questa pace solennizzata da un lauto banchetto che il medesimo Pompeo diede ai due suoi rivali a bordo della sua galea dirimpetto ad Ischia. In siffatta occasione Menas suo liberto, che accoppiava a bravu-
ra fedeltà, gli progettò, ch’era opportuno tagliare le corde delle àncore , che fermavano il legno, su cui trovavansi Ottaviano e Marcantonio; e così, mettendolo in cammino, far prigionieri i due duci, ponendoli all’arbitrio suo. In questo modo sarebbe divenuto padrone dell’universo. Ma Sesto Pompeo, qual uomo d’onore rispose a Menas: “Tu dovevi farlo senza che me lo avessi detto; ma, giacché mi hai comunicato il tuo divisamento, io mi contento più di quello che mi rimane (purché io sia leale) che acquistare l’universo procacciandomi il nome di traditore» (Giuseppe d’Ascia, Storia dell’isola d’Ischia, 1867). * Storia d’Italia dai tempi più antichi all’invasione dei Longobardi scritta da Atto Vannucci, Firenze 1853: La pace fa trattata al Capo Miseno ove andarono Ottavio e Antonio. Pompeo stava sulla sua capitana con dietro a sé l’armata navale: i due erano sul lido e tenevano dietro schierate le forti legioni. Si fecero ponti tra il lido e le navi, e ivi si abboccarono i tre e si convennero in questi pat-
ti: «Si cessasse dalie armi per mare e per terra; Pompeo ritraesse i presidii dai lidi italiani, non desse più ricetto ai fuggitivi, liberasse il mare dai pirati, provvedesse Roma di frumento; e in compenso ai suoi servigii, avesse facoltà di chiedere assente il consolato, e di amministrarlo per suoi amici; riavesse una parte della fortuna paterna; i rifugiai e i proscritti tutti, tranne gli uccisori di Cesare, fossero liberi di tornare a Roma». Il trattato, concluso in parole, fu scritto e mandato a custodire dalle Vestali, e i tre, fra i plausi ardenti dell’armata e delle legioni, si baciarono, e si convitarono reciprocamente. Pompeo, come volle la sorte, trattò prima gli altri, e ad Antonio che gli domandava ove sarebbe apparecchiata la cena, accennò la sua capitana e rispose: nelle mie carine, mordendo così con amaro equivoco l’altro, che gli aveva rapita a Roma la casa paterna posta nel quartiere delle Carine. Sulla nave, nel più bello del convito, il liberto Mena fattosi accosto a Pompeo gli disse all’orecchio: Vuoi tu che, tagliate le gomene, ti liberi da tutti costoro e ti renda solo padrone del mondo? Pompeo, pensato un istante, rispose: Bisognava farlo, e non dirmelo; io non sono uso a tradire la parola giurata. La qual cosa dimostra lui più onesto degli altri, e smentisce chi lo disse senza fede in sue parole e in sue opere». La pace bugiarda da tutte le parti non poteva durare e presto tornarono in guerra.
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Rassegna LIBRI Contexts of early Colonization
Atti della conferenza Contestualizzante la prima colonizzazione: Archeologia, Fonti, Cronologia e Modelli interpretativi tra Italia e il Mediterraneo, in memoria di David Ridgway, vol. I
A cura di Lieve Donnellan, Valentino Nizzo, Gert Jan Burgers Palombi Editori, 2016 – Pagine 387, € 49,00.
Primo volume edito della conferenza internazionale Contextualizing early Colonization: Archaeology, Sources and Interprettive Models between Italy an the Mediterranean, tenutasi a Roma tra il 21-23 giugno 2012. La conferenza fu resa possibile solo con il generoso supporto di molti individui, organizzazioni e istituzioni e fu ospitata dal Royal Netherlands Institute di Roma, Accademia Belgica e British School a Roma. Organizzazione con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Ministero degli Affari Esteri. Il volume tratta i seguenti argomenti: Cronologia (parte prima), con relazioni di Manuela Mari, Albert J. Nijboer, Valentino Nizzo, Francisco J. Nuñez; Il Mediterraneo e gli inizi della colonizzazione (parte seconda), con relazioni di Ida Oggiano, Michal Krueger, Gianluca Melandri e Nicola Parise, Marco Minoja, Carlotta Bassoli e Fabio Nieddu; Contesti indigeni all’inizio della colonizzazione (parte terza), con relazioni di Gilda Bartoloni, Pier Giovanni Guzzo, Bruno d'Agostino e Patrizia Gastaldi, Massimo Osanna, Marco Pacciarelli, Rosa Maria Albanese Procelli, Gianluca Melandri e Francesco Sirano, Mario Denti, Martin A. Guggisberg, Francesco Quondam; La colonizzazione greca e fenicia (parte quarta) con relazioni di Mario Lombardo, Alessandro Naso, Massimo Botto, Maria Costanza Lentini, Grazia Semeraro, Sveva Savelli, Valeria Parisi, Chiara Maria Marchetti e Enzo Lippolis, Giovanni Boffa. * Nella premessa al volume dedicata al ricordo di David Ridgway, Pier Giovanni Guzzo scrive: Per l’impresa pithecusana David ha lavorato, 12
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com’è ben noto, insieme ad un altro personaggio, ad un altro protagonista: anch’esso di radici non locali anche se, ormai da almeno una generazione, acclimatato, accettato e pienamente simbiotico all’isola dalla quale gran parte, se non la massima parte, della più antica storia d’Italia è incominciata. Nonostante qualche difficoltà, ormai dimenticata nei fatti anche se sempre da ricordare così che non venga la tentazione di rinnovarla sotto la spinta di uno stolto nazionalismo, questi due non italiani, o almeno non completamente italiani, hanno avuto un’incidenza senza pari nell’identificare e nel farci vedere le prime radici storiche del nostro Paese, almeno da un punto di vista geografico. E credo che questa valutazione possa valere come metafora nell’attualità della situazione antica che Giorgio Buchner e David Ridgway ci hanno restituito per Pithecusa, ampliando il rag-
gio di analisi, di riflessione, di interpretazione alla Sardegna, all’Etruria tirrenica, a Cartagine, all’Iberia. Con sempre sullo sfondo l’originaria spola che imbarcazioni ardimentose e fortunate compivano tra l’Eubea e l’Asia minore, e verso Cipro e i porti fenici. A quell’identico amalgama, le componenti del quale non sono sempre precisamente identificabili e distinguibili (almeno per noi, oggi) e le cui reciproche combinazioni non danno sempre luogo ad identici risultati, ha corrisposto il fecondo trapianto di Buchner e di Ridgway (sia pure da Ovest verso Est) in un quadrante mediterraneo
lontano dalla loro rispettiva origine, più o meno lontana nel tempo. * Di particolare interesse per l'isola d'Ischia l'intervento di Valentino Nizzo sul tema:
Cronologia versus Archeologia. L’ambiguo scorrere del tempo alle soglie della ‘colonizzazione’ : i casi di Cuma e Pithekoussai di cui pubblichiamo, grazie alla disponibilità dell'autore, alcuni stralci in questa rivista alle pagine 17 e sgg.
Zoé la principessa che incantò Bakunin Passioni e anarchia all'ombra del Vesuvio di Lorenza Foschini Mondadori Ed., Collezione Le Scie, 2016, € 20,00. La principessa Zoé Obolenskaja, moglie del governatore di Mosca, donna colta e di gran fascino, ricchissima ma di idee radicali, lascia San Pietroburgo alla volta dell’Italia. Viaggia con i cinque figli e un gran seguito regale. Nel 1866 arriva a Napoli dove conosce Michail Bakunin, il nobile rivoluzionario russo. Conquistata dalle idee di Bakunin, la principessa gli mette a disposizione il suo immenso patrimonio e in cambio viene elevata al rango di autentica rivoluzionaria. Il libro di Lorenza Foschini rievoca i due anni trascorsi tra Napoli e Ischia, in cui i due aristocratici russi alternano all’attività rivoluzionaria gite, crociere nel golfo, recite teatrali. Un periodo che in una biografia viene definito “Les délices d’Ischia”. La principessa alloggiò prima a Casamicciola a Villa Zavota o albergo Bellevue, dove era sceso anche Garibaldi per curarsi le ferite della battaglia dell’Aspromonte. Successivamente il soggiorno avvenne a Villa Arbusto in Lacco Ameno, alle pendici dell’Epomeo, «una costruzione della metà del XVIII secolo, edificata da don Carlo d’Acquaviva, duca d’Atri, come dimora di villeggiatura, costeggiata da vigneti, pini secolari, ulivi, fichi, melograni, cipressi e, ai bordi dell'ingresso principale, da piante di corbezzolo, l'Arbutus unedo da cui la villa ha tratto il suo nome». «Tutto è bianco e grigio a Villa Arbusto, in contrasto con la fantasmagoria di colori delle aiuole fiorite di ibisco, jacaranda, plumbago, gelsomini, rose, fiori appesantiti dalla calura del giorno»,
inoltre «una pinetina punteggiata di piante grasse tra cui cresce spontanra e profumatissima l'antica rosa di Paestum che, sin dai tempi dei romani, si narrava venisse bagnata con la calda acqua termale, in un lungo viale costeggiato da colonne intonacate di bianco e e da panchine rivestite di maiolica».
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Gli antichi Greci di Edith Hall Einaudi Ed. – Titolo originale “Introducing the Ancient Greeks, traduzione di Luigi Giacone, pagg, 230 € 30,00
Edith Hall1, nell’intento di farci scoprire la civiltà degli antichi Greci, individua dieci caratteristiche uniche e peculiari che la diffusero nel mondo mediterraneo; e a ciascuna di queste viene associato un periodo della storia greca. Innanzitutto si notano nei Greci la passione per la navigazione, la diffidenza verso l’autorità costituita, l’individualismo e la sete di conoscenza; inoltre essi erano aperti a nuove idee, dotati di grande spirito, competitivi, ammiravano l’eccellenza nelle persone di talento, erano capaci di esporre in modo articolato le loro ragioni e inguaribili edonisti. «I dieci periodi della storia greca presentati in questo libro, e abbinati ciascuno a una caratteristica fondamentale dello spirito greco, sono ambientati in dieci diverse aree geografiche, dal momento che il centro di gravità della cultura greca si spostò attorno all’antico Mediterraneo, in Asia e nelle regioni del Mar Nero. Devo tuttavia rimarcare fin da subito che la personalità peculiare degli antichi Greci sembrava aver raggiunto la propria maturità ben prima dell’inizio della nostra storia. Essa divenne infatti evidente fin dal momento in cui le prime parole greche trascritte secondo l’alfabeto fonetico fenicio (da cui deriva direttamente lo stesso metodo di scrittura da me usato in questo momento) irruppero nella nostra storiografia. I due primi esempi di frasario greco risalgono entrambi alla metà dell’VIII secolo a.C. Il primo è inciso su una oinochóë, una brocca per il vino appartenente al cosiddetto stile «tardo geometrico» e chiamata «Oinochoe del Dipylon» perché ritrovata nella necropoli ateniese del Dipylon. Sembra che fosse il premio in una gara di danzatori. Uno degli esametri dell’iscrizione - la stessa forma metrica usata nei poemi di Omero ed Esiodo - recita: « Il danzatore che si esibisca nella maniera più delicata...» Seguono altri segni illeggibili, ma la frase sembra potersi completare con qualcosa del tipo «allora vincerà questo premio». Attraverso queste poche parole cogliamo l’immagine emozionante di antichi Greci che danzano per puro piacere, bevono vino da brocche ornamentali e, soprattutto, gareggiano tra loro. L’altro esempio, legato a una gara di motti di spirito, è inciso sulla cosiddetta «coppa di Nestore», 1 Edith Hall insegna Lettere classiche al King’s College London.
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una kotylë, ovvero una tazza di piccole dimensioni, con decorazione geometrica, prodotta probabilmente a Rodi e ritrovata in una tomba di Pitecussa, l’isola più tardi conosciuta come Ischia. L’iscrizione, formata da tre versi, ciascuno scritto con una calligrafia diversa, è stata aggiunta in qualche momento dopo che il manufatto era stato completato, ma ancora durante l’VIII secolo. Si ha l’impressione che gli autori partecipassero a un gioco di società in cui la coppa veniva passata dall’uno all’altro e ognuno aggiungeva un verso alla poesia: Di Nestore son io da ber coppa pregiata di coppa tal chi beva, lui disio presto avrà di Venere ben coronata. Si tratta di versi intenzionalmente scherzosi. Nel primo, l’umile tazza di argilla parla scimmiottando la solennità dei versi omerici e avanza buffamente la pretesa di essere nientemeno che la magnifica coppa di metallo del famoso Nestore dell’Iliade. I due versi successivi affermano che chi berrà da essa sarà preso da passione amorosa (e Nestore, essendo il più vecchio dei comandanti greci sotto le mura di Troia, generalmente non era visto in una luce erotica). I bevitori gareggiavano nel far ridere i loro compagni. Nella «coppa di Nestore» è ravvisabile la maggior parte degli elementi che resero particolari gli antichi Greci: l’iscrizione è opera di persone in gara tra loro che hanno rapidamente imparato da un
popolo straniero una nuova abilità: la scrittura; gli autori dei versi si permettono un motto di spirito irriverente, che smitizza sia una figura eroica di status elevato sia il solenne genere letterario dell’epica; li sentiamo parlare apertamente di sesso; amano il piacere, in particolare l’uso ricreativo del vino, come elemento inscindibile dalla loro identità, tanto che a volte si definivano gli stranieri in base
a ciò che bevevano: birra (gli Egiziani) o latte (i nomadi del Nord). Gli autori dell’iscrizione dovevano essere mercanti originari dell’Eubea, nella Grecia continentale, intenti a far festa su una piccola isola dove avevano stabilito una loro stazione commerciale. Il fatto poi che la coppa sia originaria di Rodi è di per sé un segno dei forti legami culturali esistenti anche tra isole separate da ampi tratti di
mare e dimostra che la conoscenza condivisa di particolari miti e opere di poesia agiva come un collante sociale attraverso l’intero Mediterraneo. I Greci che incisero l’iscrizione sulla «coppa di Nestore» mentre si godevano una bella bevuta su un’isola remota erano già tipici rappresentanti degli antichi Greci» (pp. 27-28).
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Memorie sparse di civiltà antiche di Pietro Russo
Confcommercio, imprese per l’Italia, provincia di Napoli, in due volumi di pagine 1080 complessive. Presentazione del prof. Aniello Penza, 2016 (Dalla Presentazione di Aniello Penza) - Un popolo senza memoria è
come un albero senza radici. Ricordare chi siamo stati significa comprendere meglio quello che siamo. Il libro di Pietro Russo ha un senso e un valore (non unici in verità) in questa direzione. Lo sforzo dell’autore è quello di presentare al lettore attento il racconto di un’isola baciata dalla bellezza, dalle sue remotissime origini fino ai nostri giorni. È un racconto puntuale e dettagliato, che si avvale non solo degli studi personali dell’autore, ma anche di scritti di autori diversi, antichi e moderni, tutti innamorati dello scoglio felice, protesi a scoprirne la natura e la storia con la profondità dell’intelligenza e con la sapienza del cuore. Molte sono le opere scritte sull’isola, ma non temo smentita se affermo che nessuna di quelle precedenti è così ricca di documentazione fotografica come questa. La fotografia è documento più convincente e inoppugnabile di ogni altro, perché riproduce una realtà incontrovertibile, e quando correda uno scritto, lo rende automaticamente credibile. (…) Il taglio dell’opera prevede la trattazione della realtà naturale, sociale e umana dell’intera isola, ma si sofferma in modo particolare su Forio, vuoi perché luogo natio della madre dell’autore, scrigno di ricordi della propria infanzia e adolescenza e perciò particolarmente amato, vuoi perché i documenti in suo possesso riguardano per lo più il comune del Torrione. Chi sfoglia questo libro va incontro ad una piacevole sorpresa. Pietro Russo, con umiltà ammirevole, spesso si fa da parte e introduce brani di storici, giornalisti, poeti, che nel corso dei secoli si sono succeduti a raccontare le meraviglie di quest’isola.
Sono presentate tutte le epoche che hanno attraversato Ischia e l’hanno segnata: quella preistorica, quella greca, la medioevale, la moderna, la contemporanea. Di ognuno di esse, con un’estensione più o meno vasta, si descrivono i caratteri e le forme, senza dimenticare l’apporto di scrittori di varia natura, invocati a documentare quanto asserito. (…) L’autore non nasconde le sue emozioni e i suoi affetti. Li ritrova nello scrigno della memoria e li rievoca con nostalgico interesse. Non è poco, se si considera che per questa strada egli conduce la sua opera fino al cuore del lettore, che potrà a sua volta scoprirvi fatti, avvenimenti e persone, che appartengono al suo vissuto e costituiscono qualche filo importante nella trama della sua vita. (...) Non manca l’intento pedagogico. Parlando del turismo degli splendidi anni ‘60 e ‘70 o presentando immagini delle contrade isolane e foriane anche degli anni precedenti, l’autore non evita di sottolineare la tranquillità dell’isola di allora in contrasto stridente con il caos degli anni presenti, che per nulla ha giovato all’immagine della nostra terra e al richiamo turistico. Pietro Russo invoca inoltre con fondata speranza, non fosse altro che nell’interesse degli isolani, un cambiamento di mentalità, una rinascita culturale della nostra gente, degli uomini politici, della classe dirigente in generale, che ci metta alla pari con le sfide che ci attendono, per rendere sempre più appetibile e felice il soggiorno nella nostra isola, a vantaggio non solo dell’ospitato ma anche dell’ospitante. C’è tanto da fare in questa direzione. Vanno rivisti molti atteggiamenti e vanno cambiate molte abitudini. Bisogna imparare un nuovo modo di far turismo, tenendo presente la situazione economica attuale
e le immancabili concorrenze. Ischia ha i numeri per prevalere, può offrire tutto quello che un viaggiatore intelligente richiede: le bellezze naturali, le cure termali, il sole, il mare, i panorami mozzafiato e non ultime le ricchezze culturali, che, opportunamente valorizzate, costituiscono da sole un forte richiamo.
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Ischia – Teatro : Ottobre / Novembre 2016
Premio Aenaria : 11 compagnie sul palco del Polifunzionale Si svolgerà nel periodo ottobre/novembre 2016 la III edizione del Premio Aenaria, un premio nato dalla collaborazione tra la compagnia Uomini di mondo e l’Associazione Amici del teatro, il cui presidente, Enzo Boffelli, ha dichiarato nella conferenza di presentazione: “Questo premio è stato una grande soddisfazione personale, ci ha fatto crescere, ci ha fatto andare oltre, abbiamo scoperto un mondo nuovo, emozionante; sono felice di vivere questo sogno, di vedere bambini ed adulti che si dedicano con tanto amore al teatro”. A sua volta Corrado Visone, direttore artistico della rassegna che ha comunicato il programma del premio che inizierà il 1° ottobre e proseguirà per i mesi di novembre e dicembre, fino al 4 dicembre e che porterà ogni settimana ad alternarsi sul palco del teatro Polifunzionale ben 11 compagnie, ha detto: “Il premio cresce in maniera esponenziale, si è creato un connubio perfetto tra il premio teatrale ed il fascino d’Ischia; ce lo dimostrano le richieste di partecipazione ed affiliazione. Collaboriamo con diverse strutture alberghiere che ospitano le compagnie e con l’agenzia Cilindro viaggi per offrire ad attori ed accompagnatori una conoscenza completa dell’isola d’Ischia. Quest’anno il cartellone è molto ricco e variegato e va incontro un po’ ai gusti di tutti, non a caso ci saranno spettacoli musicali, commedie, opere drammatiche e brillanti”.
22 ottobre 2016 Mercanti di stelle - Roma PRENDO IN PRESTITO TUA MOGLIE di Luca Franco 29 ottobre 2016 Luna Nuova - Latina MORSO DI LUNA NUOVA di Erri De Luca 5 novembre 2016 Teatrame - Como LO SPAZIO VUOTO di Paolo Bignami 12 novembre 2016 CLAET - Ancona OH, DIO MIO di Anat Gov 19 novembre 2016 Sidera Teatro - Parigi SENZA TERRA SOTTO I PIEDI di M. Marigliano e A. Salvatore 26 novembre 2016 Compagnia di Teatro del Bianconiglio – Eboli LA CURA di Francesco Amendola
Programma
2/4 dicembre 2016 Uomini di Mondo - Ischia UN POSTO FISSO IN PARADISO di Corrado Visone
1 ottobre 2016 Colpi di scena - Gravina in Puglia (BA) IO SPERIAMO CHE ME LA CAVO di Ciro Villano
3 dicembre 2016 Teatrodell’armadio - Cagliari BESTE FEROCI REVOLUTION di F. Morceddu e A. Murgia
8 ottobre 2016 Teatronuovo - Ganosa di Pugla (BT) PARCHEGGIO A PAGAMENTO di Italo Comi
3 dicembre 2016 PREMIAZIONE
15 ottobre 2016 La Cantina delle Arti - Sala Consilina (SA) S.U.D. di Enzo D’Arco 16
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Tra le novitù di quest'anno, il riconoscimento per il miglior attore caratterista dedicato alla memoria dell'indimenticabile Pasquale Lorini; tra le tante compagnie si propongono anche una italofrancese con una commedia che tratta il tema dei migranti ed una compagnia sarda.
Note di Archeologia
Cronologia versus Archeologia. L’ambiguo scorrere del tempo alle soglie della ‘colonizzazione’: i casi di Cuma e Pithekoussai * di Valentino Nizzo ** I casi di Cuma e Pitecusa qui discussi rientrano in due specifiche aree di ricerca su cui lo scrivente ha lavorato per qualche tempo, con risultati forse controversi, ma che sono basati su almeno due aspetti oggettivi: la necessità di una più attenta ricerca d’archivio di vecchi scavi e la straordinaria importanza della stratigrafia della necropoli di Pithekoussai. Nel primo caso, lo studio di nuovi documenti d’archivio, relativi alle sepolture ‘preelleniche’, ha permesso di evidenziare le gravi anomalie che hanno destabilizzato l’affidabilità di alcuni contesti in cui la ricostruzione cronologica della prima età del ferro in Italia era stata originalmente fondata. Nel caso di Pithekoussai, la ricostruzione della sequenza stratigrafica della necropoli, fusa con l’analisi tipologica e associativa di più di 2.600 tombe in circa 600 contesti (compresi tra il TG I e il Medio Corinzio), ha portato ad una più accurata lettura dell’evoluzione del cimitero e ad una più precisa contestualizzazione di tombe e reperti, unanimemente considerati “fossili guida” per la cronologia antica del Mediterraneo.
Pithekoussai
Sono davvero pochi i casi, almeno in Italia, in cui una scoperta archeologica e i suoi diretti esiti scientifici sono direttamente riconducibili alla volontà e all’acuta determinazione di una sola persona: Giorgio Buchner.1 Dedito allo studio e alla valorizzazione del patrimonio archeologico ischitano sin dagli anni ginnasiali per poi farne l’argomento della sua tesi, Buchner, appena divenuto funzionario della Soprintendenza (1949), dovette confrontarsi con il complesso problema del riordino delle raccolte protostoriche del Museo di Napoli, dando quella validazione scientifica che ha reso un caposaldo cronologico i 36 corredi Osta di Cuma. Questo avveniva poco prima che riuscisse a dare avvio (1952) all’impresa che ne avrebbe consacrato la noto1 Sulla sua vita e opera si veda P. G. Guzzo e C. Gialanella, Dopo Giorgio Buchner. Studi e ricerche su Pithekoussai: atti della giornata di studi, Ischia 20 giugno 2009. * Dal volume Contexts of early Colonization; vedi qui pag.12. ** Valentino Nizzo: Funzionario archeologico della Direzione Generale Musei, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Per informazioni sull'autore cfr.: https://sumitalia.academia.edu/ValentinoNizzo
rietà, legando inscindibilmente il suo nome a quello di Pithekoussai. L’eccezionalità della scoperta fu tale che essa divenne immediatamente un punto di riferimento per l’archeologia del Mediterraneo antico, grazie anche alla disponibilità con la quale Buchner condivideva i suoi dati prima ancora che venissero editi. Il dibattito cronologico che cominciava allora a scaldare gli animi, trovava, infatti, uno dei suoi spunti principali proprio negli scavi della necropoli di Pithekoussai, i cui resti erano tali da ricucire di colpo le distanze tra Oriente e Occidente e rinsaldare la cronologia della ‘prima colonizzazione’ alla documentazione storica e archeologica della Grecia, del Vicino Oriente e del mondo indigeno. Tali potenzialità vennero intuite sin da subito da Buchner, che condusse quelle esplorazioni con una rara sensibilità per le problematiche geologiche e stratigrafiche; ed è plausibilmente anche a quest’ultima che può essere ricondotta la precocità con cui egli intuì la rilevanza cronologica di quelli che, ancora oggi, consideriamo tra i fossili guida della ‘prima colonizzazione’ (come le coppe ‘tipo Thapsos’ con o senza pannello, le kotylai tipo ‘Aetos 666’, gli arybattoi ‘Spaghetti style’), codificandoli sia sul piano tipologico che su quello terminologico sin dal 19632 e anticipando di alcuni anni le puntuali formalizzazioni stilistiche compiute da J. Nicolas Coldstream che, come si tende spesso a sottovalutare, potè beneficiare nelle sue ricerche del fondamentale apporto della documentazione pithecusana. E sono in molti, ancora oggi, a trascurare la rilevanza assoluta della sequenza cronologica che scaturisce dalla quasi ininterrotta successione stratigrafica di sepolture che connota il paesaggio funerario pithecusano nei 150 anni circa in cui fu in uso la necropoli prima della sua rioccupazione di età Tardo Arcaica. Una circostanza compiutamente avvertita da Buchner che, sin dall’inizio, registrò nei suoi taccuini tutte le relazioni fisiche tra sepolture che gli era possibile individuare, in un’epoca in cui il metodo stratigrafico non si era ancora consolidato nella prassi archeologica comune (quella dei classicisti, soprattutto) e, in particolare, veniva solitamente considerato estraneo alle problematiche di scavo dei sepolcreti. Un patrimonio di informazioni che egli seppe magistralmente utilizzare nelle sue densissime sintesi e di cui si avvalsero quanti ebbero modo di collaborare con lui come David Ridgway, Ni2 G. Buchner, Intervento in Metropoli e colonie di Magna Grecia (Atti Taranto 3, Napoli) 1964, 263-74.
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colas Coldstream e Cornelis Neeft, per citare solo alcuni. Informazioni che davano un peculiare spessore alle loro ricostruzioni, riversandosi poi nel più ampio dibattito sulle dinamiche e i tempi della ‘prima colonizzazione’ e della cronologia della Prima Età del Ferro nel Mediterraneo, anche in virtù dei molteplici parallelismi e addentellamenti che la varietà della cultura materiale di Pithekoussai consentiva di istituire. Una ramificazione di dati e di relazioni che, man mano che le ricerche proseguivano, si faceva sempre più solida, nonostante, per ragioni indipendenti dalla volontà degli Editori, tardasse ad apparire la loro pubblicazione definitiva. Quando finalmente ciò avvenne, nel 1993, il dibattito sugli aspetti cronologici viveva un momento di stasi che, a breve, sarebbe stato interrotto dalla prima divulgazione di alcuni risultati radiocarbonici calibrati che sembravano cambiare la sequenza fino ad allora ipotizzata per la Prima Età del Ferro centroeuropea e, conseguentemente, italiana. La prima occasione di confronto diretto fra i rappresentanti della teoria cosiddetta ‘tradizionalista’ e quanti, invece, avevano sposato le tesi ‘rialziste’ ebbe luogo nel 2003 e chi scrive presentò per la prima volta in quella sede i risultati della ricostruzione stratigrafica della necropoli di San Montano, destinandoli al dibattito3. (…) La sequenza pithecusana, per la sua solidità interna e per la quantità e qualità di parallelismi che ingloba, si è prestata e si presta ancora a essere un punto di riferimento per quanti si occupino di problematiche coloniali e, nello specifico, dell’inquadramento temporale di un periodo compreso, approssimativamente, tra il 750 e il 680-50 a.C.4 3 G. Bartoloni e V. Nizzo 2005, Lazio protostorico e mondo greco: considerazioni sulla cronologia relativa ed assoluta della terza fase laziale, in G. Bartoloni e F. Delpino (edd.), Oriente e Occidente : metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell'età del ferro in Italia: atti dell'incontro di studi di Roma, 30-31 ottobre 2003; poi sviluppato in Nizzo, Ritorno a Ischia. Dalla stratigrafia della necropoli di Pithekoussai alla tipologia dei materiali (Collection du Centre Jean Bérard, Napoli, 2007. 4 Dopo questa data, infatti, la successione stratigrafica perde, in parte, la sua efficacia per il rarefarsi dell’occupazione nel settore edito della necropoli, le cui ragioni vanno forse spiegate in relazione al trasferimento di una parte consistente della comunità presso Cuma (Nizzo 2007, cit. alla nota precedente, p. 84). Non torniamo in questa sede sulle ragioni che ci hanno indotto a scegliere i termini cronologici assoluti di ciascuna fase; poiché, tuttavia, vi sono stati alcuni fraintendimenti, ci teniamo a ricordare che la fissazione delT’inizio della fase di occupazione regolare della necropoli non “prima del 745-740” (ibid.), non implica in alcun modo che tale termine vada esteso anche all’avvio del periodo TG1 (tradizionalmente riferito al 750 a.C), problema per il quale la porzione edita della necropoli non fornisce dati attendibili, ma solo un terminus ante quem; per tali ragioni e in considerazione del rinvenimento di frammenti MG su Monte di Vico, è parso prudente far partire il computo dei nostri ‘livelli’ dal n. 10, lasciando liberi i numeri preceden-
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Su una parte significativa dei dati stratigrafici Neeft, come noto, ha fondato la sua importante ricostruzione cronotipologica degli aryballoi protocorinzi; molti altri hanno attinto dal materiale pithecusano elementi per ancorare le loro sequenze culturali, come si è verificato per l’ambito enotrio a partire dall’askos della tomba 325 o per quello laziale in base alle anforette a spirali delle tombe 944 e 159. Si tratta, tuttavia, di estrapolazioni che, il più delle volte, prediligono una valutazione di massima del singolo oggetto e/o della singola classe senza considerarle nel quadro più ampio del contesto di provenienza o, cosa ancor più grave, di quello dell’intera necropoli. Quest’ultimo, infatti, fornisce degli elementi che permettono di considerare in forma critica, almeno per quel che concerne aspetti di dettaglio, alcuni eccessivi schematismi tipologici nella classificazione di categorie reputate concordemente dei fossili guida, come gli aryballoi, la cui ricostruzione evolutiva ha assunto forme proprie dell’evoluzionismo biologico, che non sembrano poter essere giustificate da un punto di vista tecnologico e artigianale, almeno sulla base di quanto è possibile desumere dall’evidenza pithecusana.5 Le associazioni di corredo mostrano, inoltre, come, in diverse circostanze, gli elementi considerati più significativi dal punto di vista cronologico, come nel caso citato dello scarabeo di Bocchoris della tomba 325, non siano in realtà quelli che consentono di definire l’esatta posizione temporale del contesto, con tutte le conseti nel caso in cui, com’è molto probabile, dovessero essere rinvenute testimonianze antecedenti a quelle sinora note. 5 Nella produzione locale del TG2, infatti, sembra avere maggior valore crono-tipologico l’evoluzione stilistica della decorazione rispetto a quella morfologica; tale situazione può dipendere almeno in parte dal modo in cui gli artigiani locali recepirono i modelli allogeni, con la conseguenza che quanto può aver rilevanza cronologica, stilistica e, dunque, tipologica nell’artigianato corinzio, possa non essere traslato automaticamente ad altri ambiti, sebbene culturalmente affini. L’immediatezza della produzione locale, inoltre, soprattutto per la sua relazione più o meno diretta con la prassi funeraria, crea una cesura rispetto all’intervallo cronologico che può aver interessato le importazioni, tra il momento della produzione e quello della deposizione. Fattori di questo tipo e altri che per brevità si omettono potrebbero spiegare quanto emerge dalla documentazione pithecusana, nella quale la transizione dalla forma globulare a quella ovoide che segna il passaggio dal TG2/PCA al MPC appare meno netta di quanto si è finora ipotizzato, essendo essa connotata dall’apparizione già in un momento iniziale del TG2 di quei tratti morfologici che diverranno poi caratteristici nel MPC. I medesimi presupposti suggeriscono una maggiore ponderazione in tutti quei casi in cui il rinvenimento di fossili guida in centri estranei a quelli di produzione, diviene un indizio per ancorare le sequenze locali incognite a quelle esterne cognite, come nel caso dell’aryballos di transizione dal globulare all’ovoide rinvenuto a Tarso in uno strato riferito alla distruzione di Sennacherib del 696 a.C. Cfr. in proposito anche Neeft, Protocorinthian subgeometric aryballoi (Alland Pierson series 7, Amsterdam,1987, la cui cronologia al 680 a.C. per la transizione al MPC è a nostro avviso quella preferibile anche per Pithekoussai.
guenze che è facile immaginare possano derivarne. Tale consapevolezza può infatti emergere solo attraverso una valutazione di tutti gli aspetti disponibili, sia quelli esterni (rapporti stratigrafici, logiche spaziali, condizionamenti rituali) che quelli interni (definizione cronologica rispetto al resto della necropoli di altri elementi del corredo e utilizzo rituale degli stessi) correlati al contesto in discorso, in virtù dei quali sembra preferibile una sua datazione prossima o posteriore al 700 a.C. (Non è questa la sede per discutere che ripercussioni tale conclusione possa avere sulla datazione dell’askos enotrio e sui correlati cronologici che ne derivano quali, ad esempio, la collocazione temporale della fondazione di Sibari); scegliere una cronologia alta del contesto sulla base della presenza del solo scarabeo senza tentare di discutere e/o criticare nel loro insieme tutti gli altri elementi disponibili risulta, a nostro avviso, non tanto poco prudente, quanto poco utile. Situazioni affini possono essere discusse in relazione ad altri capisaldi, come l’altrettanto celebre (per la presenza della cosiddetta ‘Coppa di Nestore’) tomba 168, per la quale chi scrive ha da tempo ipotizzato una ricomposizione alternativa rispetto a quella tradita dagli Editori nel 1993. Tale ricostruzione, lungi dal volersi configurare come uno sterile tentativo di ‘normalizzazione’ o una ancor più risibile critica delle capacità di Buchner, ha l’unico scopo di proporre una possibile spiegazione per le diverse anomalie che caratterizzano il contesto in discorso e che emergono con piena evidenza proprio a partire dalla formalizzazione sistematica dei dati raccolti dallo scavatore e dalla loro interpretazione su basi stratigrafiche, tipologico-associative e rituali. Alcune delle incongruenze rilevate erano state già evidenziate da Neeft nel 1988, per essere poi, in parte, discusse dagli Editori nel volume del 1993, senza, tuttavia, controbattere convincentemente le argomentazioni dello studioso olandese. Le osservazioni di Neeft erano fondate, essenzialmente, sull’analisi di alcuni aryballoi presenti nella tomba 168, ritenuti recenziori rispetto a quelli della tomba 325; in uno ‘strato di cocci’ posto al di sotto della lente di terra della cremazione 168, inoltre, figuravano, alcuni frammenti di lekythoi coniche locali appartenenti a tipi di solito attestati in un momento centrale-avanzato del TG2, che inducevano Neeft a proporre una datazione analoga per la tomba 168 e, comunque, posteriore a quella solitamente attribuita alla tomba 325 in virtù dello scarabeo di Bocchoris (circa 715-10 a.C). Proposta che si scontra con la straordinaria mole di relazioni stratigrafiche registrate da Buchner per il contesto della ‘coppa di Nestore’, le quali obbligano, inequivocabilmente, a porlo all’inizio della sequenza del TG2, in un momento coincidente con il nostro livello 17 e senza dubbio antecedente a quello in cui si colloca la tomba 325, soprattutto alla luce delle puntualizzazioni sopra sintetizzate. La situazione è ulteriormente complicata dalle risultanze della lettura tipologico-associativa della sequenza dell’intera necropoli, all’interno della
Lacco Ameno - Museo di Pithecusae - Coppa di Nestore
quale posizioni come quella della tomba 168 (liv 17) e della sottostante inumazione 456 (liv 16) sono rese obbligate dalle relazioni stratigrafiche che le connotano. Ciò fa sì che risultino immediatamente palesi diverse altre incongruenze, oltre quelle evidenziate da Neeft, correlate all’apparizione eccessivamente precoce nelle tombe 456 e 168 di alcuni oggetti che, nel resto della necropoli, compaiono solo a partire da un momento centrale del TG 2. A tali singolarità se ne aggiungono altre sul piano del rituale, le stesse che insieme alla presenza della ‘coppa di Nestore’ contribuiscono a conferire quell’aura di eccezionalità alla tomba 168: lente di terra e relativo tumulo sovradimensionati rispetto alla norma; corredo ceramico di straordinaria esuberanza (nel quale risultano addirittura triplicati oggetti come le oinochoai, solitamente documentate da un esemplare per contesto); presenza di manufatti del tutto assenti nelle altre incinerazioni, come i 4 crateri (nel resto della necropoli attestati esclusivamente dai frammenti residuali dispersi dalle pire). La discussione è naturalmente più complessa di quanto sia possibile riassumere in questa sede; molto più semplice appare invece sintetizzare la proposta ricostruttiva che potrebbe spiegare tutte le incongruenze rilevate e che, in ultima analisi, è bene ricordarlo, è stata già prospettata da Buchner in occasione della prima edizione della coppa di Nestore (individuata, si noti bene, in due campagne distinte a distanza di diversi mesi l’una dall’altra: Ottobre 1954/ Giugno 1955), quando, addirittura, veniva avanzata l’ipotesi di tre contesti distinti: “scavata, apparvero non uno ma tre leggeri incavi accostati, per cui si potrebbe pensare che si sia trattato di tre tombe anziché una”.6 Ripensamenti di questo tipo non sono nuovi 6 Buchner e Russo, La coppa di Nestore e un'iscrizione metrica da Pitecusa dell'VIII sec. a.C., RAL 8-10, 1955, 21534; ipotesi poi ripresa e smentita in Buchner e Ridgway, Pithekoussai I. La necropoli: tombe 1-723 scavate dal 1952 al 1961, MonAnt 75-4 (Roma) 1993, 212-15, con osservazioni essenzialmente fondate sulla dispersione uniforme degli oggetti di corredo, la mancanza di tracce relative alla sovrapposizione di più lenti di terra distinte e l’assenza di resti scheletrici riconducibili a più di un individuo. Per comprendere tali affermazioni è opportuno ricordare come la prassi incineratoria pithecusana prevedeva la deposizione della terra del rogo (e dei resti del defunto e della parte del corredo che veniva combusta sulla pira) direttamente sul piano
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Tomba 168 - A) Proposta ricostruttiva: con l'asterisco i reperti di dubbia attribuzione (nel riquadro in alto a destra: matrix relativo al Gruppo A01, con la posizione stratigrafica della t. 168, dettaglio planimetrico dell'area della t. 168) (da Nizzo) B) Arco di vita dei tipi significativi attestati nella tomba 168, con evidenziata (fasce grigie orizzontali) la collocazione cronologica dei due contesti ricostruiti (elaborazine di V. Nizzo).
nell’opera di Buchner, la cui onestà intellettuale è stata sempre tale da fornire tutti gli elementi per valutare criticamente il suo lavoro o da procedere egli stesso a rivedere le sue originarie posizioni, come si è verificato, ad esempio, nel caso delle incinerazioni 158A-B e 137A-B, inizialmente interpretate come singoli contesti e poi sdoppiate in fase di edizione. Chi scrive ridi calpestio della necropoli o, tutt’al più, in leggeri incavi nel terreno; la lente veniva poi sormontata da un tumulo di pietre cui, nel tempo, altri se ne sovrapponevano intenzionalmente, ‘agglutinandosi’ ai preesistenti o demolendoli parzialmente; tali fattori rendevano complessa la lettura della successione delle sepolture così come quella del loro perimetro, soprattutto in casi come quello della tomba 168 in cui il numero di tagli, disturbi e sovrapposizioni è così elevato da indiziare una sua ‘attrattività’ senz’altro fuori dal comune e, plausibilmente, direttamente proporzionata al numero di vincoli di ‘tipo familiare-affettivo’ coinvolti.
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tiene che anche nel caso della tomba 168 sia necessario un ripensamento in merito alla composizione del contesto che, prudenzialmente, sulla base dell’analisi tipologico-associativa e di considerazioni di tipo planimetrico, stratigrafico e rituale sembrerebbe potersi dividere non in tre ma in due sepolture distinte, la più antica delle quali (168A) manterrebbe immutata la sua posizione cronologica in corrispondenza dell’inizio del TG2 (e, con essa, la pertinenza, tra le altre cose, della fibula maschile e della ‘coppa di Nestore’), mentre la seconda (168B), insieme alla sottostante tomba 456 e ai materiali recenziori associati, verrebbe a collocarsi in un momento centrale del periodo (liv 21-23), non troppo lontano da quello in cui fu realizzata la tomba 325 . Per ripristinare la conformità del rituale, invece, sembra opportuno espungere dal corredo i 4 crateri; essi, infatti, potrebbero essere derivati dallo smantellamento di una pira posta nelle vicinanze che avrebbe dato origine agli ‘strati di cocci’ individuati a ridosso della tomba 168, in parte mescolatisi con la sua lente di terra senza lasciar tracce evidenti anche a causa delle molteplici perturbazioni/sovrapposizioni cui essa fu sottoposta (10 delle quali dirette e 25 indirette).7 Se la ricostruzione proposta per le tombe 456 e 168 cogliesse nel segno, tutte le ‘anomalie’ sintetizzate riguadagnerebbero congruità, non soltanto nella prospettiva di dettaglio relativa alle sepolture in discorso, ma nel quadro più ampio delle logiche rituali del gruppo cui appartengono e in quello generale della sequenza dell’intera necropoli. È proprio l’estrema coerenza di quest’ultima - dovuta integralmente alla maestria di chi l’ha scavata e pubblicata - che ci spinge a insistere in questa direzione, anche alla luce di quella che è stata l’evoluzione della disciplina dopo l’avvento dell’informatica, tale da mettere a disposizione di tutti strumenti in grado di vagliare criticamente un numero di variabili prima inimmaginabile. (…) Valentino Nizzo 7 La sottrazione dei crateri al contesto lo priva senz’altro di uno dei suoi connotati più caratteristici, oggetto di diverse elucubrazioni volte a coniugare la loro presenza con quella dell’iscrizione metrica di ascendenza iliadica e a ricondurre entrambe alla sfera del vino e del simposio e all’eroizzazione del giovane defunto. La presenza dell’iscrizione dipinta ex theo su uno dei crateri, attribuito dagli Editori a fabbrica euboica, veniva, per tali ragioni, ritenuta indizio sufficiente per ipotizzare che “il defunto [...] aveva certamente un ruolo di carattere religioso” (d’Agostino), un’ipotesi che verrebbe meno qualora esso dovesse essere espunto dal corredo e che sembra comunque piuttosto improbabile, almeno per quel che concerne l’equivalenza isomorfica istituita tra l’originaria funzione del vaso (peraltro importato dall’Eubea in base all’attribuzione degli Editori) e il ruolo detenuto dal defunto in vita.
Ibsen in Italia e a Casamicciola Gino Cucchetti - Ibsen in Italia - Fa par-
te di: La lettura : Rivista mensile del Corriere della Sera (1929, dic., fasc. 12)
(Da un'intervista) - Si parla delle innumerevoli gite di Enrico Ibsen in Italia. Da buon scrittore nordico, da poeta verace, l’anima sua tendeva, fra tutte le terre, a quelle della gloriosa latinità. Suo figlio, insieme alla moglie, l’accompagnò sempre e può far fede di quale e quanto amore adorasse il nostro Paese. Venezia, Roma, Napoli, Amalfi, Casamicciola... Tappe memorabili e feconde. Ad ogni nome, si può dire, va unito quello di un’opera ibseniana. Tra Napoli e Sorrento nacquero Gli Spettri. A Casamicciola nacque Peer Gynt. Ad Amalfi: Casa di Bambola... Amalfi: Hotel Luna! ancor oggi la stanza di Enrico Ibsen ed il suo tavolo di lavoro sono intatti. Ma ovunque son lapidi e busti che lo ricordano. A Casamicciola il soggiorno del Poeta è stato ricordato l’estate scorsa con una grande lapide murata sulla facciata di uno dei nuovi palazzi alla marina. È un voto che vien sciolto dopo tanti e tanti anni. Quando Ibsen morì, un grande napoletano, o meglio un grande italiano — Achille Torelli — pensò di onorarne la memoria ricordando, con lapidi ed iscrizioni, le feconde tappe italiche del drammaturgo scandinavo. Quella di Casamicciola è rimasta, fino a ieri, un pio desiderio, e soltanto per iniziativa di Vittorio Conte, l’attuale podestà, il modesto sogno s’è realizzato. La targa è fregiata di un grande altorilievo in bronzo riproducente il mezzo busto di Ibsen, opera pregevole dello scultore Tello Torelli. Sotto è incisa la bella epigrafe che Achille Torelli aveva dettata appunto quando era a capo del comitato ibseniano. Dice: TETRO NELL’INFINITO MISTERO DELL’ESSERE ISOLATO PER ALTEZZA SUPREMA D’INGEGNO ENRICO IBSEN ESULE DA L’ASPRO SUO CLIMA BLANDITA L’ANIMA NELLA DOLCEZZA DI QUESTO CIELO SORRISE DIEDE A L’ARTE «PEER GYNT» CHE
DISSIPATORE DE L’ESISTENZA NE INTESE IL VALORE MORENDO NEL BACIO IN CUI LA TESOREGGIAVA L’IMMORTALE SOLVEIG Non dunque i Racconti popolari di Asbjòrnsen, soltanto, ispirarono Ibsen al fantastico personaggio di Peer Gvnt, ma, anche il dolce azzurro mare d’Ischia. Lo si può ben immaginare, curvo sulle carte del poema, in quella piccola stanza di piccola casa — alta sul paese e tutta bianca — meditare la triste morte di Aase, o, con la bella testa leonina scoperta al vento e al sole, condursi di là del golfo, in faccia all’infinito, a sognar la partenza di Peer per il mondo, oltre il mare, lontano. Ed il «suo» Grieg, intanto, in riva ad altri lidi più freddi, ma con uguale cuore, creava l’amoroso e doloroso canto di Solveig. - È strano che il passato, l’arte, la storia d’Italia non gli abbiano ispirato che un solo dramma: Catilina - osservo, sfogliando una superba raccolta delle opere del Maestro. La Rassegna d’Ischia n. 5/2016
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E Sua Eccellenza : - Mio padre fu scrittore irriducibilmente nordico : nordico nelle sue visioni teatrali, nelle sue concezioni, nelle sue manifestazioni, nella sua filosofia. Non è da stupirsi se molti critici lo compresero male. - Financo un suo conterraneo, un suo fratello d’anima... - arrischio io. - Lei allude a Bjòrnson. Ma il loro contrasto non fu di tal natura come tanta gente volle far credere. Non vi fu mai guerra fra i due. Ebbero una diversa concezione della vita e per questo la loro arte fu diametralmente diversa. Bjòrnson non condivideva, o non riusciva a comprendere il pessimismo e soprattutto lo scetticismo di Ibsen. Ecco perché non ne comprese l’opera drammatica. - A proposito di scetticismo ibseniano : può esser vera la indifferenza di vostro padre per tutto quanto era teatro, se al teatro egli diede tutta l’opera sua? - Fino a poche ore prima della sua morte mio padre lavorò per il teatro. Ma dopo le esperienze raccolte durante gli anni di Bergen, in cui fu direttore di quei teatri, non volle più saperne di palcoscenici. Consegnava i suoi drammi ai capocomici e non andava neanche ad udirne le prove. Egli soleva dirmi che, per aver troppo bazzicato il teatro, ne era rimasto nauseato. Perciò si ritrasse anche da ogni forma di vita mondana, rifiutò cariche, s’allontanò da attori e da attrici...: - La massima del suo «Stokmann»: L’uomo più potente è quello che è più solo» Che è poi la parafrasi della frase michelangiolesca:«Sii solo e sarai tutto tuo». Ora è la signora Ibsen che — riandando con la memoria ai lieti anni in cui era appena sposa del figlio del Grande — mi vuol parlare. Mi vuol parlare per ricordare la figura di sua suocera. Susanna Ibsen, moglie di Enrico. — Enrico Ibsen mi diceva di lei: «Senza il suo aiuto, forse, non avrei potuto vivere». Era una personalità, un carattere. Non ammetteva i compromessi, di qualsiasi genere, non conosceva infedeltà verso altrui e verso sé medesima. Era forte ed insieme generosa : un miscuglio strano di autorità e di modestia. Detestava la pubblicità, fuggiva la gente, avrebbe voluto vivere eternamente nell’ombra. Ecco forse perché il gran pubblico non sa della sua enorme influenza sulla vita di Ibsen. Ella gli fu sempre vicina, consigliera ed ispiratrice. Ed Ibsen aveva della sua intuizione letteraria una opinione profonda. Appena ultimati, egli leggeva con lei tutti i suoi drammi, scena per sce22
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na. Egli mi confessava un giorno : «Alla critica di due persone solo io tengo : a quella di mia moglie e a quella di mio figlio Sigurd». Era una divoratrice di libri insaziabile. Tutte le letterature di tutti i paesi la interessavano ugualmente. Senza il suo aiuto Ibsen non avrebbe mai letto e conosciuto certe opere, soprattutto di autori stranieri, che poi gli furono di grande utilità. E fu capace di qualche clamorosa conversione. Ibsen era, ad esempio, contrario alla emancipazione della donna... Ella tanto fece che riuscì a mutarlo. Risultato non trascurabile : Le colonne della società e soprattutto Nora, Casa di bambola. E in Nora, come in Lona Hessel, come nella Signora Alving si possono intravedere, dolcemente e fortemente riprodotti alcuni tratti di Susanna Ibsen, qualche suo gesto particolare, qualcuna di quelle parole che caratterizzavano i suoi vivaci discorsi. Di discorsi se ne udivano molti, in casa Ibsen, di diversa natura, ma tutti ugualmente interessanti: erano discussioni animate e spesso vere dispute su temi di letteratura, d’arte, di storia, di politica. Queste aspre battaglie di parole avvenivano, di consueto, durante i pasti. Allora tu udivi, da l’un capo all’altro della tavola, Enrico e Susanna lanciare i loro pareri ad aita voce, con frasi infocate e con tal foga e tale impeto oratorio ch’essi potevano sembrarti l’un contro l’altro inferociti. Se non che, nel bel mezzo di uno di questi uragani, tu udivi Susanna chiedere con una voce ridiventata mansueta e gentile : — Ibsen, vuoi favorirmi il pane? E Ibsen, con la stessa dolce amabilità le porgeva il pane. Poi... la disputa riprendeva più ardente di prima. Furono poveri, nei primi anni, poveri in dignità ed in silenzio. Quando Ibsen scriveva Brand — ad Ariccia presso Roma — spesso si dividevano, per cena, un tozzo di pane secco e qualche grappolo d’uva. Nei giorni di festa, Susanna, ch’era una abilissima cuoca (Ibsen, sino alla fine della sua vita, non volle mangiare che cibi preparatigli dalla moglie), cucinava il pranzo in una piccola osteria accanto, nell’angolino di un focolare che le cedevano per misericordia. Compiuto il Brand, e speditone il copione all’editore Hegel, dovettero aspettare mesi e mesi perché se ne decidesse la rappresentazione. L’Hegel s’era mostrato incerto sulla bontà del dramma... e manifestava il desiderio di avere un colloquio col Poeta. Partirono e come sempre, in terza classe. Poi vennero la fama e la fortuna. Ma anche nei giorni più radiosi della loro vita, Susanna Ibsen non volle mai partecipare agli onori che si tributavano al marito (…). (Gino Cucchetti, in La Lettura)
Il parco di Villa Arbusto un grande esempio di cosmopolitismo botanico
Il giardino ricostruito da Rizzoli a Villa Arbusto nel 1952 : piante rare, essenze originarie dei cinque continenti di Giuseppe Sollino e Raffaele Castagna La Villa Arbusto, nei secoli passati, era già conosciuta per la vegetazione lussureggiante. Tra le tante essenze mediterranee che coprivano i dolci fianchi della collina affacciata sul panorama di Lacco, prevaleva nettamente il corbezzolo, quell’arbutus unedo da cui l’altura doveva trarre il suo nome, tramandatosi fino ai nostri giorni, di Arbusto1. Sembra oggi quasi profetico quell’antico nome ispirato alla sua flora originaria, per la collina che accoglie uno dei più bei parchi dell’isola. Già, perché Villa Arbusto non è solo la sede del nuovo Museo di Pithecusae, ma si identifica anche con un magnifico giardino, aperto al pubblico contemporaneamente agli spazi museali. Come, d’altronde, è sempre stato, fin da quando la masseria del Monte2 fu trasformata in residenza signorile, verso la fine del Settecento, dal duca D’Atri3. 1 Il toponimo “Arbusto” è certamente molto antico ed è dovuto alla ricca vegetazione arborea in generale ivi esistente o più singolarmente (ma forse meno esattamente) alla presenza delle piante del corbezzolo. Il latino presenta queste forme. 1) Arbustum (arbor): luogo piantato ad alberi, albereto, boschetto; in particolare filari di olmi per tirarvi su le viti; tratto dall’aggettivo arbustus (arbos/arbor = fornito di vegetazione. Il significato originario “filare di olmi” si trova in Virgilio (Ecloga 3 v. 10). Ma in altri passi il termine assume il significato generico di alberi, arboscelli, come quando il poeta dice che le querule cicale con rauco canto assorderanno anche gli alberi (arbusta). 2) arbutus = corbezzolo (pianta) – arbutum = il frutto del corbezzolo. Virgilio (Georgiche 3 v. 301): “siano dati alle capre corbezzoli (arbuta) in abbondanza. Arbutetum = terreno piantato a corbezzoli. (Nota di Raffaele Castagna da La Rassegna d’Ischia n. 1/1988 pag. 26). 2 “Commorante in questo Casale et proprie nella massaria del sig. Germano Monte chiamata Larbosto (1668) – Parzonaro (mezzadro) dell’Arbusto (1688) – Lucia Iacono morta nelle case dell’Arbusto (1698) – Citazioni in Ricerche di Giovanni Castagna nei registri parrocchiali, pubblicate ne La Rassegna d’Ischia n. 2/1984 e n. 1/1988). 3 Verso il 1731 la masseria del Monte passò al dottor don
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Risale proprio ad allora l’impianto originario del parco, disegnato per essere l’elemento unificante tra la villa padronale, adibita a casa di campagna per la famiglia del duca che vi accoglieva sempre numerosi ospiti, e gli altri edifici sorti sulla collina, a cominciare dalla Villa Gingerò. Non mancava, il parco, di offrire ai suoi visitatori un’armoniosa integrazione tra la sua rigogliosa vegetazione e le suggestioni architettoniche create dai colonnati e dai pergolati rispondenti al gusto dell’epoca. Senza dimenticare il colpo d’occhio della bella fontana situata nel tratto di giardino vicino alla villa padronale. La Villa Arbusto è raffigurata in una acquaforte incisa da J. C. Stadler e disegnata dal rev. Willyams Cooper (1762-1816), cappellano di una delle navi della squadra di Horatio Nelson (incisione datata 1801, ma su schizzi del 1799) ed è riportata nel libro A Voyage up the Mediterranean. L’immagine è così presentata nella didascalia: Palazzo di Acquaviva, near Lago4: Niccolò di Simone di Napoli e il 1785 al Signor don Carlo d’Acquaviva, duca d’Atri, il quale vi fece costruire una fastosa villa. 4 Non stupisca la denominazione “Lago” per Lacco, perché anche in una Istorica Descrizione del Regno di Napoli diviso in dodici provincie di Giuseppe Maria Alfano, 1795 troviamo: “Lacco o Lago, casale…”.
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Il reverendo soggiornò nel Palazzo che così descrisse: «Questo palazzo è delizioso, situato circa un quarto di miglia sopra il villaggio di Lacco, ai piedi della montagna di S. Nicola. Esso domina un lontano prospetto del Vesuvio; e la nostra squadra navale alla fonda a Procida era perfettamente visibile. In questa gradevole compagnia e residenza io passai il mio tempo molto piacevolmente: il clima era mite, l’atmosfera tersa ed elastica, la campagna circostante molto pittoresca, e varia in modo non comune. I giardini del palazzo erano realizzati in modo da respingere il calore che prevale nella stagione estiva, essendo interamente ombreggiati con viti che si estendevano sulle pareti da pilastri eretti allo scopo. Vi sono anche due belle dimore estive, che, con fontane e alberi, rendono la permanenza oltremodo gradita. Di qui il Vesuvio mostra ogni sera un bellissimo spettacolo. Quando il sole tramonta il colore delle montagne cambia da un azzurro chiaro ad un rosa vivace; e quindi ad un pieno porpora, che gradualmente diviene più scuro finché viene avvolto alla fine in un’ombra nera». Proprio questi elementi architettonici caratteristici del parco furono recuperati con cura, dopo decenni di abbandono, quando, nel 1952 l’Arbusto fu acquistato da Angelo Rizzoli, che vi stabilì
Lacco Ameno - Villa Arbusto nell'antichità
la propria residenza isolana. Dalle colonne e dalle pergole partì la rinascita del giardino, che il “commendatore” volle dedicare alla moglie Anna. E per ridare vita al parco, Rizzoli chiamò il giardiniere Alberto Cosentino da Capri, dove si occupava delle aree verdi del Comune, il quale, contento dell’incarico, arricchì l’impianto iniziale, impoverito dalla prolungata trascuratezza, con piante provenienti dai cinque continenti, compresi diversi esemplari rari. Sfruttò, Cosentino, il clima favorevole della collina che guarda al sole e la naturale feracità della terra vulcanica, sempre ospitale, con le essenze delle più varie provenienze. Nel 1991 l’Amministrazione comunale e il sindaco Vincenzo Mennella pensarono di fare una pubblicazione, una guida scientifica per la grande varietà di piante e di fiori, con «uno studio che con sistematicità, guidato da una grande sensibilità per il fascino che Villa Arbusto sprigiona con l’armonia dei colori e dei profumi, ha da anni condotto in silenzio l’autore di questa opera, il professore Giuseppe Sollino. Essa «vuole anche rendere grazie a quanti hanno alimentato nei decenni l’interesse per il giardino di Villa Arbusto, oggi parco pubblico, da chi nei secoli andati, a partire dal settecento, piantò i primi alberi, a chi, come il giardiniere caprese, Alberto Cosentino, curò l’impianto
generale del parco per incarico di Angelo Rizzoli». L’opera (Le piante di Villa Arbusto, caratteri botanici generali), non si sa perché, purtroppo non venne pubblicata e rimase allo stato di bozza di stampa (da dove abbiamo tratto i riferimenti citati) a cura dell’Editoriale Ischia. Il giardino rappresenta “Un gradevole esempio di cosmopolitismo botanico”, per il prof. Giuseppe Sodino, autore negli anni ‘90, quando il complesso era stato già acquisito dal Comune di Lacco Ameno, di uno studio sulle caratteristiche botaniche di Villa Arbusto, “giardino davvero unico per struttura, esposizione e varietà di piante”. Il lavoro, come precisa il Sollino, non presentava tutto «sulla complessa realtà del giardino di Villa Arbusto; ma volutamente e per due motivi: intanto per lo spazio limitato e il carattere solo di guida indicativa dello scritto, ma anche per lasciare al visitatore il gusto della scoperta e agli studiosi quello di un’indagine più profonda e matura». In effetti, forse, non ci sono più né il gusto della scoperta né la possibilità di un’indagine più profonda. Solo peraltro sul sito (www.pithecusae.it) si possono ancora leggere delle note concernenti le piante.
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La natura fa meraviglie sulla collina del corbezzolo La flora mediterranea Il percorso ideale per conoscere il patrimonio verde di Villa Arbusto inizia da un rigoglioso esemplare di corbezzolo, “situato ai bordi dell’ingresso principale, quasi ad identificare il nome dato alla villa...”. Una pianta tipica di quella flora mediterranea che è ampiamente rappresentata in tutta l’area del parco. Ci sono, infatti, arbusti e alberi di alloro, ulivi, fichi, melograni, alcuni cipressi e una quarantina di esemplari di pino domestico, il simbolo verde dell’Isola d’Ischia. E ricca è la rappresentanza di oleandri, dei più vari colori, allevati ad albero o a cespuglio. Assai nutrita è la schiera di piante esotiche, un altro elemento caratteristico del parco lacchese. Il cortile principale è ombreggiato da magnifiche magnolie della specie “glandiflora”, che da più di un secolo, in estate, riempiono l’aria intorno alla villa principale con la fragranza dei loro fiori bianchi. Questa pianta è senza dubbio una delle più belle ed imponenti per lo sviluppo eccezionale di 3 esemplari ultrasecolari vivcini alla casa padronale. E non mancano imponenti ficus, veri e propri monumenti arborei, originari dell’Asia tropicale, che sull’isola raggiungono spesso dimensioni ragguardevoli. Corbezzolo
Magnolia
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La flora australiana L’Arbusto ospita due piante provenienti dall’Australia, che rappresentano delle vere rarità. C’è, innanzitutto, una bellissima casuarina, dai rami color verde-grigio, che ha raggiunto ormai il mezzo secolo. E c’è la grevillea robusta, sempreverde, di circa 50 anni, le cui foglie sono ricoperte di peluria sericea. Sempre di areale australiano è poi l’eucalipto, genere niente affatto raro anche sulla nostra isola e ben rappresentato a Villa Arbusto. La flora americana Una indiscutibile rarità, giacché è l’unico esemplare presente sull’isola, è invece la colletia cruciata, originaria dell’America meridionale,
Casuarina
Grevillea
Eucalipto
Colletia cruciata
dai caratteristici rami con spine appiattite di forma assai singolare, che presenta piccoli fiori bianchi da cui emana un profumo simile a quello del latte. Tra le piante più significative segnalate da Sollino vi è un esemplare di jacaranda, originaria dell’America meridionale, che, per la magnificenza dei suoi fiori azzurro-violacei a grappolo, è considerato uno dei dieci alberi più belli esistenti al mondo. Sempre dal Sud America, in particolare dal Brasile, provengono gli arbusti di feijoa brasiliana, che producono in autunno frutti fortemente zuccherini. Di questa specie molto caratteristica vi sono tre esemplari di quasi 50 anni di età.
Calliandra
Come dimenticare l’americana calliandra, ben riconoscibile per i suoi fiori che somigliano a piccoli piumini purpurei? Altra meraviglia sudamericana sono i due alberi di eritrina, meglio nota come “albero del corallo” per il colore rosso scuro dei fiori, che compaiono a maggio. E poi ci sono dature, alberi di fitolacca, mimose, agavi e fichi d’India, tutte specie originarie del Nuovo Mondo, ma ormai naturalizzate alle nostre altitudini.
Jacaranda
Feijoa
La flora orientale Numerose sono anche le specie orientali: la lagerstroemia, con i suoi fiori rosa intenso tipicamente estivi; l’ibiscus, di cui vi sono una quarantina di rigogliose piante; l’abelia, il pittosporo e la rosa banksiana, con diversi esemplari ben sviluppati e dalle copiose fioriture. Dalla primavera fino all’autunno inoltrato il parco di Villa Arbusto è un vero trionfo di colori, in tutte le loro possibili sfumature, e di profumi. Impossibile dimenticare per chi abbia avuto modo di visitare anche una sola volta quel giardino il colpo d’occhio offerto dalle bignomie in fiore, padrone incontrastato delle pergole. Ai rossi-arancio e ai violetti intensi delle bungavillee, le cui fioriture accompagnano la lunga stagione isolana, fino alle soglie dell’inverno, fanno contrasto i delicati fiori
Eritrina
Agave
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azzurri del plumbago, il cosiddetto “gelsomino azzurro”, anch’esso di grande effetto scenografico dalla primavera all’autunno. Tante altre sono le specie presenti nel ricco giardino lacchese, impossibile descrivere la mirabile armonia che regna tra essenze di così diverse origini e caratteristiche. L’unica possibilità, per godere appieno degli incomparabili quadri dipinti dalla natura è di visitare il parco dell’Arbusto, sostando lungo i suoi viali accoglienti.
Lagerstroemia
Per anni, in contemporanea con i lavori di ristrutturazione nella villa, anche il giardino è stato off limits per gli appassionati, visibile solo in parte dalla strada. Ora, finalmente, l’apertura del Museo consente agli isolani, come ai turisti forestieri, di riappropriarsi di uno spazio verde di grande bellezza e interesse botanico. Un elemento nient’affatto di solo contorno, che, anzi, rappresenta un valore aggiunto rispetto all’offerta culturale del Museo. Uno spazio espositivo, quello lacchese, straordinario per i suoi reperti, ma anche per la felice collocazione in una struttura immersa nel verde, con vista sul mare.
Pittosporo
Giuseppe Sollino
Buganvillea
Ibiscus
Oleandro
Abelia
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Plumbago (gelsomino azzurro)
Ischia - Festa e corteo di S. Alessandro Il 26 agosto 2016 si è svolta ad Ischia la XXXVI edizzione del Corteo di S. Alessandro, una fastosa sfilata di costumi storici che è anche occasione di riscoprire le radici storiche dell'isola: dal Piazzale aragonese all riva sinistra del porto. Ammirati i magnifici costumi di nobili e digniitari, così come quelli più sobri del popolo, le donne nello splendore della loro bellezza messa ancor più in risalto dalla sontuosità di toilettes e parures. Hanno partecipato al corteo anche alcuni gruppi ospiti, come Gli Archibugieri e gli Sbandieratori di Cava dei Tirreni, il Corteo storico di Marino e i Danzatori di Ortisei (Val Gardena). *** Come nacque - In una delle mostre dell’artigianato locale, una sera notai una turista acquistare un bellissimo asciugamano di tela. Rimasi attratto dalla contrattazione che una giovane ragazza, avendola ereditata, ma sicuramente ignara, data la giovane età, del valore storico, facilmente la commercializzava, sottraendo così all’Isola un’opera d’arte risultato di enormi sacrifici e rinunzie della bisnonna. L’asciugamano riproduceva un volo di anitre sull’antico lago che oggi è il porto d’Ischia. Non era un asciugamano, ma un documento di storia, il rica-
Chiesetta di S. Alessandro
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mo di un paesaggio che forse i meno abbienti si riproducevano su pezzi di tela! Immediatamente la mente ripercorse l’infanzia, rividi mia madre con conocchia e fuso dare forma a della canapa ricavandone dapprima un filo sottile, poi un gomitolo e di seguito una tela ove mani delicate, con filo e ago avrebbero creato delle meravigliose opere d’arte, che si sarebbero poi gelosamente tramandate da madre in figlia, almeno quelle che l’usura del tempo avesse risparmiato. Acquistai subito i rimanenti asciugamani poiché pensai, in un attimo, che quei capolavori, frutto di una vita laboriosa, lasciavano per sempre il nostro territorio: era una parte della nostra storia che ci abbandonava per sempre! Nacque così il desiderio di offrire all’isolano la memoria e la custodia gelosa di una vita che il progresso rapidamente stava cancellando. Di lì l’idea di presentare una sfilata di abiti con accessori di epoche passate, testimoni dell’operosità e del gusto dei nostri antenati. L’occasione venne con il restauro di un autentico simbolo del passato: la Chiesetta di S. Alessandro dell’anno 1179 posta sull’omonima collina entrando nel porto a destra. L’incuria del tempo aveva ridotto tale monumento ad un rudere, anche se, per le generazioni precedenti alla mia, era stato un punto di riferimento per il culto della Santa Croce: il giorno 3 Maggio. Così tale Chiesetta fu di nuovo, come per il passato, il punto di incontro per i residenti e i villeggianti, per ricostruire qualcosa per l’isolano. Ed il 26 Agosto 1981, festa di S. Alessandro, nacque una prima semplice sfilata per il Borgo: pochi figuranti con abbigliamenti festivi di antichi popolani Ischitani che in occasione del dì di festa indossavano, con mostra di copricapi, grembiuli, camicie, frutto di un lavoro serale, elaborato alla fioca luce di una lampada a petrolio, una luce debole, ma caldissima poiché riusciva a riunire intorno ad un tavolo o ad un braciere una famiglia: il prossimo. (Dott. Francesco Napoleone, in Festa di S. Alessandro, edito dall’Ass.ne culturale Pro S. Alessandro, Massa Editore, agosto 2000) L'utilizzo delle foto qui pubblicate è stato gentilmente autorizzato dalla Direzione di ischiablog.it
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Ex Libris Pietro Thouar – Giornaletto mensile di educazione ed istruzione, Firenze 1868 Casamicciola 14 luglio - Giunto da varii giorni qui, avrei dovuto scriverti prima; riconosco il mio torto e ti chiedo umilmente un perdono che tu certamente non avrai la crudeltà di negarmi. Incoraggiato da questa speranza io oso dirigerti queste righe, secondo la promessa che ti feci prima della mia partenza da Firenze. L’indomani del giorno nel quale ti scrissi l’ultima mia lettera, partii da Napoli. Il tragitto meriterebbe certamente una descrizione, che io non mi sento capace di fare per due ragioni. La prima, perché il golfo di Napoli fu descritto tante volte, e così bene, che avrei da soffrire un paragone non molto vantaggioso per me : la seconda perché patii tanto del mal di mare, che non potei prestare quell’attenzione che meritavano quei luoghi, e sono costretto a consigliarti di leggere in altri scritti (e non ne mancano) la descrizione che forse ti aspettavi in questa mia epistola. Dopo due ore ed un quarto di viaggio ebbi la consolazione di poter sbarcare, contentissimo di lasciare il mare, che, come t’immaginerai, non gode le mie simpatie. Appena sceso a terra inforcai un asino e m’incamminai verso l’albergo. Nell’isola non si contano che due o tre carrozze; coloro che stanno troppo male per montare sull’asino usano la portantina, o seggiola portata da due uomini. La strada che dalla Marina conduce agli alberghi è una meraviglia a paragone delle altre. Nel mezzo è in terra battuta, dai due lati corre un lastricato, riunito di tanto in tanto da una riga di pietre che attraversa la strada: una doppia fila di alberi dà un dolce ristoro di ombra. Popo essermi riposato un momento nella mia camera, ne uscir per rivedere questa parte dell’isola, che è la più bella. Al nord il mare forma un seno profondo di una graziosissima curva; all’estremità dì questa curva s’innalza lentamente, una catena di montagne a forma di semicerchio; Epomeo ne è la più alta cima. Una collina sorge al centro: si scosta dalla montagna e corre verso il mare. All’oriente, porzione delle montagne e la collina, calando da tatti i lati, formano una conca a guisa di anfiteatro, e la somiglianza acquista vigore dai vigneti piantati all’intorno. Dalla conca alla estremità del semi-cerchio si estende una pianura verdeggiante, sulla quale sorgono molte case che nella stagione estiva servono di asilo ai numerosi forestieri attirati nell’isola o per curiosità o per vantaggio della loro malferma salute. Tutta questa porzione dalla collina alla montagna è il comune di Casamicciola , come l’indicano varie lapidi poste ai confini del Comune, sulle quali è scritto: Comune di Casamicciola Circondario di Fono
Collegio elettorale di Pozzuoli Distretto di Pozzuoli Provincia di Napoli. Credesi che una vecchia, chiamata Nizzola, che aveva fatto fabbricare una casa dove riceveva e prestava le attente e zelanti sue cure ai poveri malati, abbia dato il nome a questa parte, la più frequentata dell’isola essendo la più ricca di mezzi curativi, come acque minerali, fanghi, stufe ed arene calde. Nelle mie prossime lettere ti scriverò particolarmente su questo soggetto; per oggi contentati della descrizione generate dell’isola. Dall’altra parte della collina le montagne si abbassano verso il mare, ed ai loro piedi sorge il villaggio di Lacco Ameno, frequentato per lo più da pescatori. In mezzo al mare, a poca distanza dalla spiaggia, si innalza un gran masso a forma di fungo, e dalla sua forma prende il nome. Dicesi che fino là, tempo addietro, giungesse la piazza, e sotto l’acqua furono trovati dei magazzini scavati nella pietra, ma non si conosce in modo sicuro l’epoca in cui il mare ricoprisse quei luoghi. All’estremità occidentale del semi-cerchio si stacca una montagna tagliata a picco: è quasi completamente circondata dal mare. Dalla parte che tocca la terra finisce la catena che, abbassata interamente, lascia vedere il mare, il quale si avanza, ristretto fra due montagne a picco per vari metri dentro terra. Questo luogo si chiama Santa Restituta; credo che si racconti una leggenda a spiegare il nome, ma non me la ricordo. Questo luogo è una delle poche passeggiate che si abbiano nell’ isola. Ieri mi azzardai a salire sul Monte Vico (la montagna di cui ti parlo sopra). La strada è cattiva, ed in certi momenti l’asino minacciava di sdrucciolare; ma il ciucciaro lo sorreggeva afferrandolo per la testa, e grazie a Dio, sono tornato a casa senza far conoscenza colle pietre di quel lastricato. Sono stato pagato ad esuberanza della fatica fatta per salire sul Monte Vico poiché il panorama che si offre di lassù allo sguardo è degno di essere veduto. Su quella cima l'occhio spazia sopra tutta la porzione settentrionale dell’ isola. Su quella vetta sorgono le rovine di un castello, avanzo di fortificazioni erette già da vari secoli per difendere l’isola. Eccoti descritta la mia prima passeggiata; oggi ho l’intenzione di farne un’altra, della quale ti dirò altra volta. Intanto ti saluto. Enrico Cammeo.
Casamicciola 20 luglio 1868 - Mio buon Amico, l’altro giorno, verso le 5 e mezzo salito sopra un ciuccio, lasciandomi andare in balia del paziente animale, La Rassegna d’Ischia n. 5/2016
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mi sono incamminato per una lunga escursione. Scesi perciò fino a metà della collina da una parte, per poi risalire dall’altra dopo avere girato intorno alle case che stavano fra me e la montagna. Fin dove si stendeva l’occhio scorgevasi la fine della vallata orientale di cui ti parlai, circondata da tre lati dall’Epomeo e dalla collina. Ove quello si congiunge a questa, giace la piazza di Casamicciola che dovei traversare per continuare la mia strada, e giunsi sopra una via aperta nel fianco della montagna, sulla parte occidentale della collina donde vedevo Casamicciola e Lacco dall’alto in basso. Dopo vari giri e rigiri per una strada eccellente, perché piana ed in conseguenza non maltrattata dalle piogge invernali, mi trovai dall’altro lato del semicerchio settentrionale in un altro semicerchio molto simile al primo, ma più grande ed in mezzo senza colline. Il mare formava un golfo più profondo, e terminato ai due lati da due montagne a picco. In mezzo un pezzo di terra ove è situalo Forio separa il golfo in due parti ed il promontorio Imperatore lo finisce. Il mare in quel luogo è spesso agitato, e la costa è piena di scogli, perciò pochi vapori si azzardano di avvicinarvisi. Il villaggio di Forio, visto dalia strada offre un bello spettacolo, benchénon conti monumenti, e le case siano piuttosto basse. Il loro colore chiaro contrasta in un modo grazioso col verde dell’erbe e col bruno dei massi che l’avvicinano. Aggiungi a ciò il riflesso del calar del sole ed avrai uno spettacolo degno di esser visto. Solo mi dispiace che la cura che sono obbligato a fare, e le strade non mi hanno permesso di visitare la parte meridionale dell’isola, ma mi fu detto che è la meno bella; la qual cosa diminuisce assai il mio rammarico. Il giorno dopo mi sono incamminato alla stessa ora, e giunto al luogo dove il giorno innanzi era stato obbligato a retrocedere, continuai a scendere, avviandomi per una strada piana, costeggiata da muri ed alberi così fitti che non mi riusciva distinguere nulla pochi passi lontanò da me. Dopo aver camminato circa mezz’ora arrivai all’altra estremità del semicerchio, donde vedevo tutta la parte settentrionale d’Ischia. La parte orientale è completamente differente alle altre due. Il monte Rotaro termina a poca distanza dal mare; altre montagne lo circondano e formano un fondo scuro, perché pochi anni sono un’eruzione le coperse di lava ; la città d’Ischia è fabbricata sul piccolo spazio ristretto fra il mare e la montagna. Il porto d’Ischia offre un aspetto pittoresco. Esso era anticamente il cratere di un vulcano spento, e si era trasformato a poco a poco in un lago poco profondo (metri 2, 12). Ferdinando II, essendo in villeggiatura ad Ischia, ordinò che fosse convertito in porto, e nel 1853 fu cominciato il lavoro, e nell’anno appresso fu inaugurato. Esso è quasi tondo: una piccola apertura lo fa comunicare al mare, rendendosene così pericoloso l’accesso col cattivo tempo ; però una volta che una nave vi è penetrata dentro, non ci è porto che presenti maggior sicurezza. Il lido è poco più alto della superficie dell’acqua, e siccome i bastimenti possono arrivare a due o tre passi da terra, lo sbarco e l’imbarco sono 32
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facili anche senza l’aiuto di barche. La piccola striscia di terra che lo separa dal mare è coperta di verdura e due vasi con fiori sono posti dai due lati dell’apertura: un fanale è posto in cima ad una chaussée. All’estremità orientale d’Ischia è situata una montagna di accesso quasi impossibile perché a picco e circondata dal mare. Quivi vedonsi gli avanzi di un’antica città fortificata, che sotto l’antico governo aveva una guarnigione. Quest’isoletta è riunita ad Ischia da una chaussèe. Mille altri luoghi avrei potuto visitare, se , grazie alla noncuranza degli abitanti e del municipio, le strade non fossero rimaste in pessimo stato dopo le piogge cadute in questi quattro giorni. Se mi sarà possibile di andarvi te ne parlerò; se no contentati della buona volontà. Enrico Cammeo
Casamicciola 10 agosto 1868
Cavissimo Amico, desideri che ti dica due parole della storia dell’isola? Sarai subito ubbidito; sai che i tuoi desiderii sono ordini per me; e senza altre parole principio. L’Isola d’Ischia, credesi, abbia avuto origine da uno sconvolgimento naturale e che dopo un’eruzione essa sorgesse dal mare. Ma quando, è quel che si ignora. Solo rimane presso che certo che essa spuntasse dal mare e che l’Epomeo solo per lungo tempo fosse visibile. Del resto altre prove non esistono che quelle somministrate dalla Geologia. Pretendesi pure che Procida ed Ischia fossero state unite e che poi fossero separate da nuovi sconvolgimenti; ma adesso è confermata l’improbabilità di una tale ipotesi. Ischia è vulcanica mentre Procida non lo è affatto; la natura dei due terreni è completamente differente, e poi le estremità delle due isole presentano un aspetto più atto a combattere, che a confermare questa supposizione. È probabile che altre isole abbiano fatto una apparizione più o meno lunga sopra la superficie del Mediterraneo, come lo farebbero credere i bassifondi che trovansi per questi luoghi; che Procida fosse slata unita a Miseno come lo dimostrerebbe la similitudine dei massi formanti le coste poste di faccia; ma l’istoria di tutte queste vicende si perde nel buio dei tempi; per ciò credo meglio tornare alla luce. Il primo nome che sia giunto fino a noi per designare Ischia è quello di Pitecusa (ti farò grazia delle etimologie che vogliono applicarsi ai vari nomi che si ebbe la isola, ed oso sperare che me ne sarai grato). In quanto alle prime colonie credo superfluo il parlarne. Leggi una storia d’Italia; vedi quali ne furono i primi abitatori e conoscerai il nome di quelli che colonizzarono Ischia. Gli Eritrei abitavano Enaria, nome di Ischia dopo che Enea l’ebbe abitata cinque secoli prima e a forza di lavoro ne fecero un luogo di delizie, quando una tremenda disgrazia li colpì. L’aria pregna di vapori, mancava al respiro; le fonti disseccate non davano più acqua per estinguere la sete, mentre le sorgenti termali sollevavano, come per causa di fuoco sotterraneo, un
forte odore di zolfo che toglieva il respiro. Il mare agitato si allontanava dai suoi naturali confini; delle forti scosse , or ondulatorie ed or sussultorie, rovinavano le abitazioni fabbricate nell’isola e squarciavano il terreno formando delle caverne ove penetrava l’acqua del mare. La terra si aprì e vomitò un’immensa quantità di pietra calcarea, frammista alla cenere ed altre materie vulcaniche, ed inondò di lava tutto il lato orientale, dell’isola formando il Monte Rotaro ed una piccola serie di montagne dove prima vi era un piano. Non posso accertarti che i dettagli siano esatti; ma è certo che l’eruzione avvenne, perché ancora osservansi le materie vulcaniche in tutto lo spazio dove presumesi che abbia passato l’eruzione. Essa avvenne circa 26 secoli addietro, ma non era la prima, un’altra eruzione, avvenuta nel lato occidentale, aveva formato l’altra metà del semicerchio. Vari anni dopo questo sconvolgimento dei Cumani fuggendo la tirannia di Aristodemo si ricoverarono ad Enaria. Per difendersi dagli attacchi del tiranno che essi fuggivano, i Cumani fabbricarono sopra il monte Castiglione una fortezza di cui rimangono ancora le ru-
ine. Ma se questa fortezza poté proteggerli contro Aristodemo, non poté impedire che i Siracusani conquistassero l’isola. Questo popolo rinforzò le fortificazioni già fatte, e fece una nuova cittadella che esiste tuttora, sopra un monte isolato di cui già ti parlai. Continuarono i Siracusani i loro lavori ed avevano reso l’isola ricca,quando una terza eruzione mutò la faccia d’Enaria. Gli abitanti fatti esperti dalle precedenti rivoluzioni, poterono fuggire e rifugiarsi nella terraferma. Altre eruzioni ebbe a soffrire l’Isola d’Ischia; fra l’altre quella del vulcano ove adesso è il porto d’Ischia , ma non è possibile darne nessun dettaglio. Nuove colonie si successero ad Enaria, finché i Romani la conquistarono. Da questo punto i destini dell’Isola si trovano strettamente collegati a quelli di Roma. Ora prendendo parte per un partito della capitale, ora per l’altro, essa si trovò immischiata a tutte le guerre. Ora dava ricovero a Mario, ora guerreggiava con Sesto Pompeo contro Ottaviano. L’unico vantaggio ricavato da questa occupazione si fu, che le acque termo-minerali e le stufe cominciarono ad essere utilizzate. Enrico Cammeo.
Storia dei monumenti del reame delle Due Sicilie, tomo I, Napoli 1846 Ischia - Nel bellissimo golfo di Napoli, la città
degl’incanti, evvi l’isola d’Ischia. Gli antichi la chiamarano Enaria, e veniva da essi celebrata per le acque minerali, la cui influenza scuopriva la vestale Attilia Metella - Alcuni Caledonl di Eubea furono (secondo Strabone e Plinio) i fondatori di questa isola. Dessa poi fu dominata dai Greci, dai Romani, dai Goti, dai Longobardi e dai Normanni. Nelle guerre del nostro regno fu esposta alle escursioni dei pirati Africani. E quando il Marchese del Vasto comandava quest’Isola, il Corsaro Aridano Barbarossa, irritato per le perdite che quel capitano fe’ soffrire ai Turchi, saccheggiò molta parte dell’isola, e presi prigioni quattromila isolani, li vendé come schiavi. Evvi in essa un vulcano, detto Epomeo, il quale si estinte nel 1302. Eppure la sua arsa superficie è coperta di carbon fissile, e ad ogni vegetazione è negata, quella vegetazione che fa così bella e ridente quell’isola, da spingerti ad amare la campestre vita che di tanto incanto hanno sparso i versi di Virgilio. E prima di chiudere questo articolo non voglio trasandare una miseranda storia, che farà spargere qualche lagrima sull’infelice che ne forma il subbietto. Nelle contese di d’Obignì e Federico II sul Regno di Napoli (anno 1503 ) Gilberto di Montpensier traendosi in Ischia a seguir la parte francese, ivi trovò la morte, ed ivi fu sepolto. Saputo il miserando caso, il figlio di Gilberto portossi lagrimoso a visitar la tomba del padre. E là giunto, cominciò a struggersi in tanto duolo e lagrime, che dopo lungo tempo la gente pietosa, pensando che lo sventurato avesse dato sfogo al suo inten-
so dolore perché immobile si stava, si accostò per tôrlo dal funesto luogo. Chiamato, non rispose; scosso, non fe’ moto... Era morto! Così l’angiolo del dolore quando ha mostrato ai mortali di qual pianto debbasi onorar la memoria dei buoni, ritorna nel cielo a godersi l’aspetto di colui che compianse in terra1!
Procida - Altra volta faremo accuratamente osservare la comune opinione dei fisici circa le isole, considerandole come sollevamenti delle catene dei monti che sotto le acque si estendono. Da questa ragionata opinione chiaro emerge l’aggiustatezza di quella di Plinio circa l’isola di Procida, considerandola come surta dal mare presso Ischia, con quelle sue parole : Prochyta non ab Aeneae nutrice, sed quia profusa ab Aenaria erat. Tale pure indica il 1 Nel 1503, durante l'attacco portato dai Francesi contro il Castello Aragonese, difeso vittoriosamente da Costanza d'Avalos, perì Gilbert de Montpensier. Suo figlio, un anno dopo, si recò ad Ischia e si gettò sulla paterna fossa, sciogliendosi in amarissimo pianto. Dopo lunghe ore, donne compassionevoli lo scossero... lo sollevarono... era cadavere! Il duolo lo aveva ucciso sulla tomba del padre! Mentre i corpi si confondevano in una fossa, le loro anime si univano in una sede là "Ove l'amore sempiterno dura". In merito cifr. Storia dell'isola d'Ischia di Giuseppe d'Ascia (1867) pp. 172/173 e nota 202; e gli articoli di Giovanni Castagna: Un alito di pietà (Notte ischitana: 1504) in "Ischia in bianco e nero" (1983) pag. 148 e I conti di Bourbon - Montpensier e "les guerres d'Italie" in "La Rassegna d'Ischia" n. 6/2008.
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suo nome. Sicché possiamo abbandonar l’opinione di quelli, che dicono quest’isola parte di quella d’Ischia separata da scuotimenti volcanici, appoggiati all’opinione di Strabone, il quale dice : Prochyta pars a Pithecusis avulsa. Questa Procida, adunque, isola del Tirreno nostro, sull’estremità occidentale del Golfo di Napoli, sorge in mezzo al canale che la suddetta estremità del Golfo separa dall’isola d’Ischia. I Calcidesi e gli Eretrii di Eubea furono suoi primi abitatori, quando altri concittadini loro ponevano stanza in Ischia ed in Cuma. La frequenza dei tremuoti scacciolli da quella sede, ma tosto venne vieppiù ripopolata da Siracusani, Campani e Napoletani. Nei bassi tempi i Saraceni l’affliggevano con spessi assalti, e con terribili invasioni i pirati africani: quindi i cittadini si associarono in fraterna unione, e s’imposero tasse, e giuraron tutti di non soggiacere alla schiavitù di quei feroci. Un dì gli abitanti di quest’isola avevano quasi esclusivamente la pesca del corallo: ora son dediti al cabotaggio, al traffico marino, alla pesca del tonno, delle nuotanti pomici, della nafta o petrolio che in fondo al mare scorre. In così tante maniere quella operosa gente mena innanti i suoi laboriosi giorni. L’aria è saluberrima, il suolo feracissimo di uve e frutta. Evvi un castello di III classe, un regio palazzo, or cangiato in prigione, e 7000 abitanti.
Miseno - E non solo ci rammentiamo, in questa circostanza, di chi dié nome Miseno a questo promontorio, ma vi si associa l’idea pur dell’incontro qui presso avvenuto tra Ottavio, Antonio, e il figlio dello sventurato Pompeo. Correa quella epoca, in cui non si contendeva più in Senato pel miglior partito della romana Repubblica, ché il governo di essa era in potere del più avventuroso guerriero; e la spada impugnavano Antonio, Ottavio e Pompeo.... Ahi! che in quello scontro fu diviso il romano Impero, e questo colosso ebbe il primo impulso a minare. Si festeggiò poi da coloro quel dì, nel quale avevano deciso sulle sorti della Patria. Miseno, cessando in seguito di appartenere al territorio Cumano, divenne città. Fu colonia de’ Romani, ed ebbe un collegio di Augustali; nell'845 , avvenne la sua distruzione. Osservansi presso Miseno de’ neri scogli, luogo detto oggi Lo Schiavone, pezzo vulcanico di dura lava, e vogliono i Mineralogisti che la punta della isola di Procida, detta di Ruocilo, siccome se ne osserva un’ altra gran porzione a gran profondità sott’acqua, fosse stata un giorno congiunta con lo Schiavone. In questa regione fu Bacoli, che ebbe origine da Ercole, che condusse i bovi che aveva rubati a Gerione nella Spagna, vedi Simmaco lib. I. Servio nel lib. VI. e VII. dell’Eneide di Virgilio. Vi erano sepolcreti, tra i quali quello di Agrippina.
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24/25 settembre 2016 Giornate Europee del Patrimonio Ogni anno il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aderisce alle Giornate Europee del Patrimonio (GEP), manifestazione promossa nel 1991 dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea con l’intento di potenziare e favorire il dialogo e lo scambio in ambito culturale tra le Nazioni europee. Si tratta di un’occasione di straordinaria importanza per riaffermare il ruolo centrale della cultura nelle dinamiche della società italiana. All’iniziativa, com’è ormai tradizione, aderiscono anche moltissimi luoghi della cultura non statali tra musei civici, comuni, gallerie, fondazioni e associazioni private, costruendo un’offerta culturale estremamente variegata, con un calendario che spesso arriva a sfiorare i mille eventi. Uno straordinario racconto corale che rende bene l’idea della ricchezza e della dimensione “diffusa” del Patrimonio culturale nazionale: da quello più noto dei grandi musei alle meno conosciute eccellenze che quasi ogni paese può vantare e deve valorizzare. Per queste ragioni il MiBACT ha sempre colto occasioni come quella delle GEP per promuovere la progettualità elaborata dai singoli Istituti e continuare a rafforzarne lo stretto legame con i rispettivi territori e con le loro identità culturali.
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La Filosofia il Castello e la Torre Seconda edizione 26 Settembre - 2 Ottobre 2016 L’Associazione culturale InSophia, insieme al Centro Internazionale per la Ricerca Filosofica e all’Associazione culturale Napoli Filosofica, con il patrocinio del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo, dell’Istituto Italiano per gli studi Filosofici, del Circolo George Sadoul e della Federazione Internazionale delle Società filosofiche promuovono la seconda edizione del festival internazionale di filosofia “La Filosofia il Castello e la Torre - Ischia International Festival of Philosophy 2016” che si terrà ad Ischia, dal 29 Settembre al 2 Ottobre 2016 presso il Castello Aragonese e la Torre di Guevara. I due luoghi sono siti uno di fronte all’altro, incorniciati dal verde mare di Ischia Ponte. Keynote Speakers Simona Marino (Università di Napoli “Federico II”) Iain Chambers (Università di Napoli “Orientale”) James Conant (University of Chicago) Giuseppe Ferraro (Università di Napoli “Federico II”) Andrea Le Moli (Università degli Studi di Palermo) Gianni Vattimo (Università degli Studi di Torino) Sessioni generali A. Pensare la mediazione: le relazioni tra logica e filosofia. Cosa è una relazione? In cosa consiste la mediazione? Da Platone alle logiche contemporanee, dall’ermeneutica alle teorie critiche, passando per la metafisica classica e l’ontologia analitica, fino alle sfide poste dal discorso scientifico. In questa sessione si raccolgono i contributi che intendono mostrare come la filosofia ha posto, e ancora oggi pone, il problema della relazione, investigandone le domande fondamentali e i tentativi di soluzione. B. Dalla relazione all’azione: filosofia pratica, dialogo e alterità, educarsi alla diversità. In questa sessione si raccolgono le proposte riguardanti la relazione all’alterità dal punto di vista etico, politico, antropologico e non solo. La questione dell’affettività e del giudizio nella distinzione tra morale ed etica; le sfide del multiculturalismo, del dialogo interreligioso, della differenza tra identità e ruoli di genere nella società. Identità europea o identità globale? Esiste un’etica universale? Le questioni riguardanti il significato dello spazio pubblico; come comportarsi e rispettare la proprietà comune insieme con quella privata? Il dibattito politico contemporaneo: la responsabilità politica del cittadino e del politico nel gestire la cosa pubblica. C. Il linguaggio dei media: forme e pericoli della comunicazione nella società contemporanea.
In questa sessione si accolgono gli interventi riguardanti i media nella storia e nell’attualità. Il problema della verità e della menzogna nel dibattito pubblico. Lo spazio virtuale e la democrazia (come concetto reale ed utopico), le sfide e i pericoli dei nuovi mezzi di comunicazione, l’evoluzione del dibattito riguardante il rapporto tra tecnologia e vita sociale dal punto di vista della filosofia, della sociologia e delle teorie dei media. Il Festival prevede quest’anno anche l’attivazione di una Summer School preparatoria, rivolta a studenti universitari, dottorandi e giovani ricercatori. La Summer School, dal titolo “Forme della mediazione. Dalla filosofia allo spazio pubblico”, avrà luogo dal 26 al 29 Settembre alla Torre di Guevara e prevede la partecipazione di esperti a livello nazionale e internazionale. Gli ospiti Alessandro Arienzo (Università “Federico II” di Napoli) Franca D’Agostino (Politecnico di Torin / Università Statale di Nilano) Massimo Dona (Università Vita e Salute “San Raffaele” di Milano) Elena Ficara (Università di Paderborn/Technische Universitàt, Berlino) Maurizio Mori (Università degli Studi di Torino) Walter Quattrociocchi (IMT, Lucca) Nicola Russo (Università “Federico II” di Napoli) Davide Sisto (Università degli Studi di Torino) Maurizio Viroli (Princeton University/University of Austin, Texas) I luoghi Così come il Festival nei giorni successivi, la Summer School avrà luogo principalmente presso la Torre di Guevara di Ischia. Il tardo pomeriggio e la sera delle giornate della Summer School sono riservate all’organizzazione di visite guidate, degustazioni e spettacoli, così da completare il programma con un’offerta che permetta agli ospiti di conoscere meglio il territorio. Le scuole La Summer School prevedere la partecipazione di un numero ristretto di studenti meritevoli dei Licei isolani, selezionati dai professori di area umanistica entro la fine dell’anno scolastico 2015-2016. Alcuni studenti del liceo saranno anche presenti in qualità di collaboratori per l’accoglienza degli ospiti, la traduzione dei testi e l’assistenza durante gli incontri.
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Note storiche
Gli Aragonesi tra Napoli e Ischia di Domenico Di Spigna Tra le varie dinastie che si sono succedute sul trono di Napoli, quella che maggiormente si è legata all’isola d’Ischia in epoca medioevale fu senza dubbio l’Aragonese che, venuta dalla Spagna e già forte nello scacchiere mediterraneo con Alfonso di Trastamara1, si rivolse alla conquista del regno di Napoli, posseduto sino al 1435 dalla “frivola” e volubile regina Giovanna II d’Angiò Durazzo, succeduta al fratello re Ladislao. Il giovane e battagliero iberico, grazie alla difficile ed instabile situazione politica del periodo che vedeva coinvolti Angioini, Genovesi, il Papa e il ducato di Milano, invitato a Napoli da Diomede Carafa, riuscì a farsi adottare dalla regina, rimasta senza eredi In verità la sovrana era mal consigliata dal suo amante Sergianni Caracciolo2, poiché verosimilmente i designati pretendenti al trono erano Renato e suo figlio Giovanni d’Angiò. Dopo lunghe ed estenuanti lotte, durate un ventennio, il 12 giugno 1442 Alfonso (era stato pure sconfitto e catturato dai Genovesi nella battaglia di Ponza e condotto prigioniero a Milano) fece dopo lungo assedio capitolare la fortezza angioina entrando in Napoli. La strategia usata a tale scopo militare fu la stessa messa in atto dal generale bizantino Belisario3 facenddo entrare i suoi catalani in città attraverso un antichissimo acquedotto in disuso. Alfonso d’Aragona nella circostanza si avvalse dei “pozzari” Aniello Ferraro e un tal Roberto, sbucando poi in casa di Ceccarella che sarà poi compensata con una pensione annua di 36 ducati. Aveva l’Aragonese un fratello di nome Pietro che, forte uomo d’armi qual era, negli anni precedenti si era reso protagonista del cannoneggiamento della città con le bombarde, dal forte del Carmine. Si racconta che una palla della sua artiglieria attraverso il campanile abbia colpito il crocifisso della magnifica 1 Fu Alfonso V di Spagna e Alfonso I di Napoli. 2 Potente ed ambizioso segretario di corte, ucciso poi a tradimento. La sua figura è riscontrabile nella tela del pittore Leonardo da Besozzo nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara. 3 Generale di Giustiniano imperatore d’Oriente (482-562 d. C.), autore del Corpus Juris.
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I Re Aragonesi (1442 – 1501) Alfonso V d’Aragona, I come re di Napoli, detto il Magnanimo (1442-1457) Ferdinando I, detto Ferrante I (1458-1493) Alfonso II (1494) Ferdinando II, detto Ferrante II o Ferrantino (1495-1496) Federico
(1496-1501) chiesa del Carmine Maggiore, e questo per evitare il colpo piegasse il collo; ciò come oggi si osserva. Ma dando credito al proverbio che dice: chi di coltello ferisce di coltello perisce, lo stesso Pietro d’Aragona venne orrendamente decapitato da un colpo avversario. Una volta conquistata la città, Alfonso I d’Aragona (Medina del Campo 1396 - Castel dell’Ovo in Napoli 27 giugno 1458) poté pronunciare il noto lamento epico: Città, quanto mi costi per la mia grande sventura! Mi costi duchi e conti uomini di grandissimo valore - mi costi un certo fratello che avevo come figlio - mi costi ventidue anni i migliori della mia vita - che in te mi nacque la barba e in te la imbiancavo4. 4 Oh, ciudad cuánto me cuestas por la gran desdicha mía! – me cuestas duques y condes, hombres de muy gran valía; - me costaste a ml hermano que por hijo le tenía – y de otra gente menuda cuento ni par no tenía. Me cuestas veintidós años los mejores de mi vida - Que en ti me nacieron barbas y en ti las encanecía.
zione dell’architetto Guillermo Sagrera, denominandolo Castelnuovo, così ebbe ad adoperarsi per il castello d’Ischia. Sappiamo che fin dai tempi remoti esso fu un baluardo avanzato per la difesa di Napoli; per tale motivo il Trastamara6 ne fortificò le mura di cinta, lo arricchì d’altre costruzioni per renderlo città e fortezza, ma l’opera maggiore che compì fu la escavazione, con immane fatica, d’una galleria nelle sue viscere per creare una più comoda via d’accesso al maschio dotandola di lucernari e trabocchetti. Precedentemente si poteva guadagnare la parte alta, inerpicandosi per gradini creati sulla fiancata che volge a Vivara.
Alfonso V d'Aragona, I come re di Napoli, il Magnanimo
Lasciata in patria la moglie regina Maria (una sua cugina) ed asceso al trono di Napoli s’industriò subito in opere pubbliche e in riforme nel campo giuridico, favorì il commercio e, sopra ogni cosa, diede impulso alla cultura, circondandosi di umanisti e artisti tra i quali vanno ricordate le note figure di: Antonio Beccadelli detto “il Panormita”, suo segretario e consigliere, autore dell’opera De Dictis et Factis Alphonsi e dell’epigrafe latina per l’arco di trionfo: “Alfonsus princeps hanc condidit arcem”; Bartolomeo Facio (1410-1457) che scrisse il De rebus gestis Alphonso primo neapolitanorum rege, Lorenzo Valla (1407-1457) etc. Tutti questi tenevano nella biblioteca reale l’ora della lettura quotidiana. Per tal motivo il primo re aragonese di Napoli è passato alla storia quale umanista protorinascimentale. Per la realizzazione dell’imponente arco di trionfo che ora superbamente ammiriamo si avvalse dei migliori scultori ed architetti del tempo quali Francesco Laurana, Pietro da Milano, Isaia da Pisa, Domenico Gagini, sotto la direzione di Guillermo Sagrera5. Come avvenuto in Napoli nel rifacimento del Maschio Angioino, da lui voluto in pianta trapezoidale con cinque poderose torri cilindriche col personale disegno e realizza5 Domenico Gagini (Bissone 1420 - Palermo 29-9-1493)---- Pietro da Milano (Milano ? - Napoli 1473 ca.)----- Isaia da Pisa (Pisa ? - 1472 ca.)----- Paolo Taccone Sezze Romano - Roma 1470 ca.)----- Guillermo Sagrera (isole Baleari 1380 ca. - Napoli 1456).
Alfonso, ch’era nato da Ferdinando ed Eleonora Albuquerque, molto si adoperò per la sua isola prediletta, già conosciuta prima che si impossessasse di Napoli; vi portò il fico d’India dalla Sicilia, il carrubo, l’aloe e molto vi si divertì cacciando conigli e volatili7. Altra notevole opera fu l’unione del castello all’isola maggiore con un robusto ponte, essendo il precedente collegamento quasi sommerso dal mare8, rendendolo verosimilmente come una seconda dimora reale dove poteva trastullarsi con la sua avvenente favorita Lucrezia d’Alagno. Non si esauriscono qui gli interventi dell’Aragonese! Infatti in un’ottica di prevenzione per la difesa delle coste fece costruire la fortezza di Procida9 che, passata dopo ai d’Avalos da costoro prese il nome, le torri di Lacco (inglobata poi nell’odierno cimitero), di Testaccio (oggi ridotta a rudere) e quella adiacente alla Cattedrale d’Ischia (oggi torre campanaria). Il frenetico e generoso sovrano riuscì bene a coniugare l’arte bellica con quella ancor più nobile della cultura classicizzante; si ricorda infatti che, mentre assediava Napoli il 27 ottobre 1440, scrisse al governatore di Valencia pregandolo d’inviargli il pittore Jacomard Bacò, affidandogli l’incarico di dipingere un’ancona per la chiesa di S. Maria della Pace al Campo Vecchio. Di poi per affrontare le notevoli spese per realizzare quanto detto fu necessario istituire una dogana nella città d’Ischia per la vendita di sale , ferro e pece, come già fatto per Napoli e Castellemmare di Stabia. Così disponeva la reale maestà: Dunque, poichè fummo umilmente supplicati da parte di testimoni giurati della città di Ischia affinché ci degnassimo delle riparazioni fortificate della suddetta città, e della sua fortezza vantaggiosa6 Antica Casa reale spagnola, i cui membri furono re di Castiglia, Aragona, Navarra, Sicilia e Napoli. 7 La zona di caccia era quella di Campotese in Panza. 8 Ciò a causa del bradisismo che investe l’area flegrea, di cui l’isola fa parte. 9 Si tratta della portentosa struttura che si erge sulla Terra Murata di Procida.
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mennte si provvedesse, dal momento che sono situate in direzione nemica e quasi da tutti fosse più volte auspicato un così notevole fortilizio e un posto di guardia ben difeso, noi non abbiamo niente di più chiaro al momento presente sia nel futuro a cui possiamo provvedere secondo promesse, grazie al presente caso delle nostre cognizioni tecniche, vogliamo, ci adoperiamo e ordiniamo con deliberazione immediata del Sacro Collegio, alla nostra presenza. Perciò nella suddetta città di Ischia, d’ora innanzi sarà istituita una dogana in cui saranno vendute sale, ferro, pece nella stessa maniera di Napoli e Castellammare di Stabia, pertanto a nessuno si consente nella sunnominata citta di Ischia, né nella rocca né nelle isole che presentemente possiede la succitata Regia Maestà, nelle vicinanze di Napoli, vendere o acquistare sale, ferro o pece se non prima siano state acquistate e svincolate nella città di Napoli e Castellammare già nominate e che tutti quanti proventi della detta dogana siano preceduti dal nostro regio consenso. Destiniamo nel modo seguente alla riparazione della sunnominata città e fortezza di Ischia; tre parti delle entrate della suddetta dogana vengano spese nella riparazione delle mura, delle torri, del molo e anche del ponte della predetta città, nella edificazione o anche nuova costruzione di una torre, dove sarà più necessario. Inoltre la quarta parte dei detti redditi li destiniamo alla riparazione e fortificazione della rocca d’Ischia naturalmente per tutto il tempo necessario alla riparazione stessa finché ce ne sarà bisogno e non oltre, cosicché l’amministrazione dispone che per i numerosi mercanti o per altre persone, siano sudditi del re, siano altri, non sia lecito vendere nelle precedenti località sale, ferro o pece né agli abitanti di questi luoghi sia possibile comprarne o farne comprare se non siano state svincolate attraverso la suddetta dogana di Napoli e Castellammare; quanto sarà svincolato servirà per la riparazione e l’edificazione con precedenza alle fortificazioni, il reddito di detta dogana verrà distribuito o rivolto a vantaggio di quanto piaccia alla Reale Maestà e per la raccolta delle dette entrate verrà scelta una persona idonea e degna di fiducia che delle sopraddette entrate faccia un elenco ordinato, presente uno scrivano, in relazione alle succitate città e sia conservato così da rendere conto di esse nell’anno prestabilito agli invaricati per mezzo della Curia Regia, per qualsiasi cosa diamo incarico etc.10 10 (Il testo latino è riportato dalo storico foriano d'Ascia nella sua Stoia dell'isola d'Ischia, 1867) Cum igitur pro parte juratorum civitatis Iscle fuerit nobis humiliter supplicatum ut digneremur reparacioni menium dicte civitatiss accius castri salubiter provideretur cum, sit in fronteriis inimicorum constitute et fere ab ominibus tam quam notabile fortilitium et statio bene fida carinis, sepius
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Una volta ristrutturato e abbellito il castello dell’isola, poteva il re “umanista” assicurarsi maggiore prestigio e conferire più incolumità ai propri sudditi isolani, e per quanto prima accennato meglio soggiornarvi e bearsi con la bella e giovane Lucrezia. Ma chi era costei? Le cronache del tempo raccontano di un’avvenente ragazza dagli occhi verdeggianti nell’iride, figlia del castellano di Torre Ottava, signore di Torre Annunziata, tale messer Nicola d’Alagno, incontrata il 23 giugno (1448) in occasione della festa di S. Giovanni Battista, quando le ragazze festeggiavano per strada, offrendo ai passanti un cestino d’orzo, rapidamente germogliato, dal quale traevano buoni auspici per un pronto matrimonio, ricevendone in cambio alcune monete. Il re attorniato dai propri dignitari fece donare la borsa delle monete, dette “alfonsini”, ma ella ne prese uno solo dicendo sibillinamente che le bastava un solo Alfonso. Fu il cosiddetto colpo di fulmine sul cinquantaquattrenne sovrano per la donzella di anni 17. Ebbe di lei a dire in un distico l’umanista A. Beccadelli: quantum rex proces ,quantum sol sidera vincit, tantum campanas superat Lucretia nynphas. Lo spagnuolo peroptentur, nos nullum promptiorem habentes in presentiarum modum quam in futurum quo premissis provvidere possumus, tenore presentis de certa nostra scientia, volumus provideamusque et jubemus cum matura deliberatione Sacri Regi Consilii nobis assistentis. Quod in dicta civitate Iscle amodo fiat domus dohane in qua vendantur sal, ferrum et pix eo modo et forma quibus venditur in civitate Neapolis et Castri maris de stabia, itaque non liceat cuique in dicte civitate Iscle nec et castris et Insulis que et quas dicta Regia Maiestas de presenti possidet prope Neapolim vendere seu emere sal ferrum aut picem, nisi prius empta et exepedita fuerint in dohana predicta sicut emuntur et expediuntur in civitatibus Neapolis et Castri maris predictis et universos redditus ditte dohane dum de regio precesserit beneplacito nostro. Deputamus reparationi dictarum civitatum et castri Iscle in modum sequentem. Quod tres partes reddituum dohane predicte expendantur in reparationem menium, turrium et moli sive pontis civitatis predicta, et in edificationem sive novam costructionem cujusdam turris ubi magis necessarium erit: quartam vero partem dittorum reddituum deputamus reparationi et fortificationi Castri predicte Iscle quamdiu scilicet Castrum ipsum reparatione, fortficatione indeguerit et non ultra ita quod amministratio multis mercatoribus seu aliis personis sive sint subditi Regii sive alii non liceat in dittis partibus vendere sal, ferrum aut picem neque habitatoribus parcium ipsarum liceat illa emere seu emi facere, nisi expediantur in dohana predicta servatis ordine et forma qui servantur in dohanis Neapolis et Castri maris; expeditis vero repacione edificatione, et fortificatione premissis, redditus dette dohane destribuantur seu convertantur pro ut placuerit Regie Majestati et ex nunc in recolletione dittorum redditum deputeretur persona idonea et fide digna, que de dittis redditibus faciat quinternum ordinatum interveniente scriptore portionis ditte civitatis et teneantur anno quolibet de eisdem reddere rationem personis ditte per regiam curiam deputantis qua propter mandamus etc.
re Alfonso fu talmente sedotto dalla fresca bellezza della torrese, che spesso soggiornava nella cittadina di Torre del Greco, ma di poi a causa degli impegni di governo la condusse seco nella reggia di Napoli, dove si comportava da vera regina. Lucrezia seppe con scaltrezza e con amore (ma fu vero amore?) raccogliere tutto ciò che le dava il monarca: gioielli, stoffe pregiate, che erano le stesse usate per i suoi abiti, proprietà ed accomodamenti matrimoniali per i suoi germani con altolocati e nobili spagnoli per essere poi nominata castellana d’Ischia. Non ancora appagata nella sua bramosia, si recò a Roma presso il Pontefice Alonso Borja (Borgia in italiano)11 per chiedere l’annullamento del matrimonio di Alfonso con la regina Maria, ma la richiesta non venne accolta12 e mestamente fece ritorno a Napoli incrociandosi con Alfonso a Capua laddove le era venuto incontro. Di questo re acculturato e soldato combattente, espressosi in forma scenografica nella capitale ed in Ischia, non molto benevolmente ce lo descrisse lo storico di Forio d’Ischia G. d’Ascia nella sua “storia” per il quale non fu molto “magnanimo” perché una volta impossessatosi dell’Isola vi cacciò quegli uomini che parteggiavano per Renato d’Angiò, dando alle loro mogli per mariti delle centinaia dei suoi fedeli Catalani, dai quali discesero i patrizi altrimenti detti “cittadini” che d’estate villeggiavano in Casamicciola13.
Ferrante I d’Aragona Deceduto Alfonso I in Castel dell’Ovo, ne ereditò la corona il figlio bastardo Ferrante o Ferdinando (Valencia 1424 – Napoli 1494), già nominato erede al trono nella chiesa di S. Lorenzo in Napoli il 3 marzo 1443, una settimana dopo il trionfo di suo padre. Fu questo giudicato intelligente, coraggioso, astuto, scaltro, sanguigno. Una volta assiso sul trono molto ebbe da temere e combattere contro i suoi avversari Angioini e i Baroni; i primi aventi ancora interessi per la città con Giovanni figlio di Renato d’Angiò, che si riportò di nuovo sotto le mura superbe del trachitico castello d’Ischia. Nulla poté all’arrivo della flotta aragonese, dovendo abbandonare il suo rifugio sulla montuosa Fontana. Questo avvenimento datato 6 luglio dell’anno 1464 è riportato nella famosa Tavola Strozzi14 che celebra il festoso ritorno 11 Fu papa Callisto III dal 1455 al 1458. 12 Decisione tra le poche giuste del Pontefice catalano di Valencia, definito nepotista e latore di dignità agli indegni. Vedi: I Papi, Newton Comptom 2013. 13 Nella zona di tal nome Via Cittadini in Casamicciola Terme. 14 Probabile opera del fiorentino Antonio Rossellino, che si trovava a Napoli per lavori nella chiesa di S. Anna dei Lombardi e pagato dai banchieri Strozzi a Napoli.
delle galere al porto di Napoli. Il secondo e più duraturo ostacolo era rapresentato dai rivali Baroni, che si concluse a vantaggio del re con la carcerazione di alcuni di loro e la morte per altri. Nota di rilievo fu la condanna alla pena capitale del suo primo segretario Antonello Petrucci di Teano, ritenuto capo dei congiurati, avvenuta con decapitazione l’11 dicembre 1486. Contro di loro Ferrante usò una brutale energia per combatterli, essendo stati essi una perenne spina ai fianchi durante i suoi 36 anni di regno. Molto fece, sulle orme paterne, per la sua capitale, bonificando zone paludose, intensificando traffici commerciali con altre città della penisola e non fu refrattario alla cultura. Non a caso portò a Napoli quel magnifico architetto che fu Giuliano da Maiano15 artefice della Porta Capuana, gioiello rinascimentale del 1485 e pur stimato crudele sovrano, fu abile politico in caso di pace o di guerra. Durante il regno ebbe a ricevere in Castelnuovo San Francesco di Paola16 accompagnato dal suo segretario e confratello dell’Ordine dei Minimi Baldassarre di Spigno, venendo esortato ad esercitarsi in opere di giustizia e di carità. Inoltre è da ricordare la caduta in disgrazia, per sua mano, della oramai ex potente ed incomoda Lucrezia d’Alagno che, pur sempre ambiziosa, ma a lui invisa, aveva lasciato il possesso del Castello d’Ischia, passandolo a suo cognato Giovanni Toriglia17, marito di sua sorella Antonia, che ivi stabilitosi (e forse in combutta con gli Angioini) non volle più abbandonarlo. Però entrambi non potettero sfuggire allo strapotere di Ferdinando. La bella Lucrezia di Torre Ottava, già “vedova” dell’amore di Alfonso, dovette abbandonare il reame (fu a Ravenna, in Dalmazia e infine a Roma, dove passò di vita), mentre il Toriglia fu snidato da Ischia da Gageraldo Richisenz esperto uomo di mare, per ordine del re, per tornarsene poi in Catalogna.
Alfonso II d’Aragona Morto Ferdinando, cinse la corona di Napoli suo figlio Alfonso duca di Calabria (Napoli 1448 – Messina 1495). Per la sua investitura, avvenuta nello stesso anno (1494) del decesso di suo padre, va ricordata una “tocada de trompetas” (suonata di trombe) all’uscita da Castelnuovo ed un’altra al ritorno dalla Cattedrale. Aveva sposato nel 1464 per procura la milanese Ippolita Sforza, figlia di Francesco e, con sfarzosa cerimonia l’anno seguente in Napoli, dalla 15 Maiano (Firenze 1432 – Napoli 1490) fu scultore e architetto, autore in città pure della porta Nolana. 16 Paola in Calabria 1416 – Plessis Les Tours (Fr) 1507. 17 Secondo G. Pontano questi era un uomo di pessima levatura, meritevole di qualunque supplizio, avaro fino alla nausea, superbo e tracotante
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quale fu reso padre di Ferrantino, Isabella e Pietro. Come i suoi predecessori fu un valoroso combattente, un giovane feroce incline alle armi e superbo nel cacciare i Turchi invasori da Otranto dove purtroppo molto guasto portarono i Maomettani facendo ottocento morti. A differenza di suo fratello Federico di grande statura e grazioso nella figura, Alfonso detto “il guercio” era severo nell’aspetto e con la forza e l’audacia intendeva agli imperi, crudele coi nemici, amante della caccia, in preda a tanta avarizia18. Poco amato dai napoletani, ebbe in amicizia Lorenzo il Magnifico e si schierò apertamente contro i Baroni del regno da braccio destro di suo padre. Il suo regno durò appena un anno con un epilogo non proprio glorioso; si trovava infatti a guerreggiare in Toscana quando stava giungendo dalla Francia il ciclone di Carlo VIII per cui dovette ripiegare su Napoli ed ancora solo e impaurito (si racconta che avesse incubi nella notte) abdicò per suo figlio (Ferrante secondo). Portatosi allora nel sicuro castello di Ischia, una volta organizzatosi fece vela per Mazara del Vallo per rinchiudersi in convento; ammalatosi morì pochi mesi dopo in Messina. Contava anni 47.
Ferrante II d’Aragona Per il rinunciatario Alfonso II venne a sopportare la causa aragonese suo figlio Ferrante detto “Ferrantino”, ossia piccolo Ferrante (Napoli 1467 - Somma Vesuviana 1496). Anche il suo regno fu di breve durata e va considerato tempestoso per le vicende belliche. Al pari degli avi fu coraggioso soldato, battendosi eroicamente contro i francesi, morendo, men che trentenne, e lasciando questo mondo così dolcemente nel compianto dei sudditi, tra i quali in mesto mormorio qualcuno ripeteva i versi di Francesco Petrarca: oh! cechi, il mesto affaticar che giova, tutti torniamo alla gran madre antica e il nome nostro appena si ritrova. Il giovane re aveva avuto per precettore e segretario il Cariteo, colto poeta che lo accompagnava nelle sue vicende. In politica mostrò una certa magnanimità, liberando alcuni Baroni fatti imprigionare dal nonno Ferrante I ed in guerra tentò coraggiosamente di ostacolare la discesa verso il regno di Napoli di Carlo VIII19, ma invano. Le sue difese sul Garigliano e a Capua nulla poterono. Giunto nella capitale il re invasore, il popolo, nella sua mutevolezza, lo accolse bene e ci furono pure gli auguri del noto umanista Gioviano Pontano, che pur era in grande considerazione pres18 Vedi C. Porzio, La congiura dei baroni, Napoli 1994, pag. 72. 19 Nelle sue scorrerie s’era portato sotto il castello d’Ischia, senza poterlo espugnare per l’eroica difesa di Costanza d’Avalos.
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so i reali aragonesi. Di subito, il giorno seguente (212-1495) Ferrantino si condusse nella roccaforte d’Ischia, dove a stento fu ricevuto dal castellano, il filibustiere Giusto della Candida, che pugnalato pagò con la vita, perché ritenuto traditore; il suo corpo fu scaraventato in mare. Come aveva fatto suo padre, dopo alcune settimane che si trattenne ad Ischia, veleggiò per la Sicilia, sempre coltivando in cuore la speranza di ritornare perché benvoluto dagli isolani ai quali aveva ricambiato la sua generosità. Le circostanze politiche intanto volgevano a suo favore in quanto, formatasi la coalizione della santa lega (Milano, Venezia, e Papa) contro il re francese, Ferrantino con i suoi cominciò a risalire la penisola affrontando le truppe nemiche a Seminara in Calabria, venendo però disarcionato da cavallo e sconfitto, ma successivamente, con l’aiuto di Gonzalo Fernandez de Cordoba, riprese il sopravvento sul fuggitivo Carlo VIII, e autoproclamandosi re nel duomo cittadino. Riconquistata Napoli, il Ferrantino venne accolto con grande gioia non prima di aver soggiornato per circa un mese nella sua sicura Ischia dichiarandola “Città ed Isola Fedelissima”. Aveva il giovane re sposato la diciassettenne sua zia Giovanna d’Aragona, sorellastra di suo padre Alfonso; non ebbe figliolanza, morendo improvvisamente nel castello di Somma Vesuviana, sembra per le forti febbri o come maliziosamente si disse “per troppo uso del matrimonio”!
Federico d’Aragona Chiude per ultimo questa dinastia il buon Federico III (Napoli 1452 - Tours 1503), durante il cui regno di cinque anni non si ebbero sussulti, ma si delineò un periodo di transizione verso un amaro epilogo. Fratello di Alfonso II, ma di carattere diverso, come si evince dal libro di C. Porzio La Congiura dei Baroni pubblicato nel 1565: Era Don Federico persona per cognizione di molte scienze e per varie legazioni prudente e della natura del duca di Calabria molto lontano, come uomo delle lettere più che delle armi vago con l’equità modesta ed umanità procurava la grazia e il favore degli uomini. Ebbe per consorte, prima, Anna di Savoia e, dopo, Isabella del Balzo. Suoi segretari furono Vito Pisanelli e poi Jacopo Sannazzaro, l’autore del De Partu Virginis, la cui composizione molto ebbe dall’incanto ispiratore del castello d’Ischia. Quest’ultimo poeta di Mergellina, morale sostenitore del suo re anche in termini economici, in quanto vendette alcune sue proprietà in suo aiuto e lo seguì nell’esilio francese. Ciò avvenne perché gli Spagnoli con suo cugino Ferdinando il Cattolico si accordarono segretamente per spartirsi il regno. A Federico non restò altro
che lasciare a malincuore i bei lidi napoletani e consegnarsi a Luigi XII di Francia che lo trattò bene, assegnandogli anche un vitalizio. Come altre volte avvenuto per i suoi predecessori, quest’ultimo Aragonese si condusse a Ischia nell’inespugnabile castello e soggiornandovi per alcune settimane prima di fare vela per la Provenza, non prima d’aver concesso alcuni privilegi per l’isola20 che in sintesi possono così riassumersi: 1) Proprietà su mezzo miglio di mare e relative spiagge (15-8-1501) - 2) Permesso di porvi delle tonnaie per la pesca - 3) Privilegi d’ordine giudiziario (cause civili e penali da svolgersi nell’isola - Privilegi di carattere fiscale e d’ordine amministrativo. Nel concludere questa esposizione storica del basso medioevo che ha interessato nel suo profilo l’isola d’ischia, si può affermare che tale periodo fu molto travagliato, come ebbe a dire un cortigiano dell’epoca, tale Loise de Rosa, nella sua colorita esortazione: Chisto Riame èi de la santa Eclesia, e io dico che èi de lo santo diablo! Una volta che detto reame fu ridotto a provincia spagnola, allora si levò la voce del popolo che rimpiangeva i passati Aragonesi; Sai Napule quanno fuste corona? quanno rignava casa d’Aragona. E ad Ischia? Per l’affetto della Città 20 Successivamente nel 1535 furono ratificati ancora dall’imperatore Carlo V.
d’Ischia, fu concesso di aggiungere la scritta in latino sullo stemma del municipio: “Ischia aeternae fidelitatis”, ovvero la fedeltà a loro rivolta. Di tale retaggio tuttora ci resta ancora qualcosa come alcuni toponimi stradali quali: Piazzale Aragonese, Via Ferrante d’Avalos, Torre di Guevara, e certi cognomi: Miranda, Cervera, Zabatta, Cardona etc. Domenico di Spigna Bibliografia 1) Onofrio Buonocore - Storia di uno scoglio, Napoli 1910. 2) Antonio Ghirelli - Storia di Napoli. EinaudiFarigliano di Cuneo 1996. 3) Giuseppe d’Ascia - Storia dell’isola d’Ischia, Napoli 1867- Ristampa S. Giovanni in Persiceto 1988. 4) Filena Patroni Griffi - Napoli Aragonese, Tascabili economici Newton-1996. 5) Alfredo d’Ambrosio - Storia di Napoli. Ed. Nuova E.V. Napoli 1993. 6) Giuseppe Campolieti - Breve storia della città di Napoli - Mondadori 2004. 7) P. A. Bellantonio - San Francesco di Paola. Cooperativa. 8) Camillo Porzio - La Congiura dei Baroni contro re Fedinando I - Luca Torre editore 1994.
Il Castello Aragonese d'Ischia in una incisione dell'800
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Voyage de Naples à Capri et à Paestum Viaggio da Napoli a Capri e a Paestum 1846 di Jacques Étienne Chevalley De Rivaz CAPRI ET PAESTVM, noms chers à tous les amis des beaux arts et de la science des temps passés! Quel est le voyageur venant pour la première fois à Naples, lequel après avoir admiré les ruines d’Herculanum et de Pompée, gravi le Vésuve et parcouru les magiques et délicieux alentours de l’ancienne Parthénope, ne s’empresse de se rendre dans les deux endroits que je viens de nommer et qui avec l’enchanteresse Ischia, si chère à l’humanité souffrante par ses salutaires eaux thermales, forment, pour ainsi dire, le complément de tout voyage dans cette brillante capitale, et le terme où s’arrête la curiosité du touriste comme du savant désireux de connaître toutes les merveilles que présentent les environs du Cratère napolitain? Débiteur de l’avantage d’avoir pu pendant le VIIe Congrès italien visiter pour la seconde fois les deux premiers de ces lieux, si féconds en souvenirs, à la munificence du généreux Ferdinand II qui avait bien voulu mettre un des plus beaux ba teaux à vapeur de sa marine royale, le Stromboli, à la disposition des membres de la susdite réunion scientifique qui avaient souhaité de faire cette excursion, je me propose d’écrire dans ces pages la narration de notre voyage à Capri et à Paestum à bord du susdit navire; mais je ne saurais toutefois en commencer la relation qu’après avoir exprimé envers l’illustre et éclairé Monarque, lequel s’est si dignement montré le protecteur des savants italiens dans cette mémorable circonstance, le profond sentiment de gratitude que tous ceux qui ont eu le bonheur de prendre part à cette course conserveront éternellement d’une aussi heureuse et magnifique promenade, dont nous avons été redevables à la bienveillance toute paternelle, témoignée dans cette occasion à l’institution libérale des congrès, par l’auguste Arbitre qui régit aujourd’hui les destinées des Deux-Siciles. A peine, en effet, avait été
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CAPRI e PAESTVM, nomi cari a tutti gli amici delle belle arti e della scienza dei tempi passati! Qual è il viaggiatore in arrivo per la prima volta a Napoli che, dopo aver ammirato le rovine di Ercolano e Pompei, dopo esser salito sul Vesuvio e aver percorso i magici e deliziosi dintorni dell’antica Partenope, non si affretta a recarsi nei due luoghi che ho citato e che con l’incantevole Ischia, tanto cara all’umanità sofferente per le sue salutari acque termali, formano, per così dire, il complemento di qualsiasi viaggio in questa brillante capitale, e il termine dove si ferma la curiosità del turista e dello scienziato, desiderosi di conoscere tutte le meraviglie che presentano i contorni del Cratere napoletano? Debitore del beneficio di aver potuto, durante il settimo Congresso italiano, visitare per la seconda volta i primi due di questi luoghi, così fecondi di ricordi, alla munificenza del generoso Ferdinando II, che gentilmente aveva messo uno dei più bei piroscafi della sua marina reale, lo Stromboli, a disposizione dei membri della suddetta riunione scientifica che avevano chiesto di fare questa escursione, mi propongo di scrivere in queste pagine il racconto del nostro viaggio a Capri e Paestum a bordo di detta nave; ma comunque non posso iniziare il racconto, se non dopo aver espresso all’illustre e illuminato monarca, il quale si è così degnamente mostrato il protettore degli studiosi italiani in questa memorabile occasione, il profondo senso di gratitudine che tutti coloro che hanno avuto la felicità di partecipare a questo congresso conserveranno per sempre di una felice e bella passeggiata, di cui siamo stati debitori alla paterna benevolenza, testimoniata in questa occasione all’istituzione liberale dei Congressi, dall’augusto Arbitro che regge oggi i destini delle Due Sicilie. Appena, infatti, era stato espresso in una lettera che indirizzai
émis dans une lettre que j’adressai au prince des médecins italiens, le savant et vénérable professeur Vincent Lanza, notre digne président, le voeu général d’obtenir des bontés du Roi un steamer pour faire une excursion dans les golfes de Naples et de Salerne, que déjà S. E. le Ministre de l’intérieur, le chevalier Santangelo, Président général du VIIe Congrès, informait les présidents des diverses sections que le désir avait été favorablement accueilli; et allant même au-devant de tout ce qu’on n’aurait osé espérer, ce n’était pas seulement un bateau à vapeur que dans sa suprême hospitalité notre moderne Auguste avait eu l’extrême bonté de nous accorder, mais bien encore l’entier traitement nécessaire pendant une aussi longue course! Mille grâces, encore une fois, en soient donc rendues au généreux Auteur de tant de bienfaits. Ayant été avertis que le Stromboli partirait du port de Naples le 4 octobre à cinq heures du matin, jour de la fête de S. A. R. le Prince héréditaire, dès quatre heures et demie tous les invités s’étaient hâtés de se rendre à bord et au moment où les salves d’artillerie tirées des châteaux divers de la capitale saluaient l’aurore de cette journée, nous étions déjà en marche nous dirigeant sur Capri. Une mer calme et un ciel parthénopéen nous présageaient une excursion ravissante, et bientôt les doux rayons d’un soleil sans nuages vinrent nous en procurer l’agréable certitude. Plusieurs célébrités scientifiques se trouvaient de ce voyage. Qui n’aurait voulu partager le bonheur de se trouver en si illustre compagnie? Voir, entendre des savants aussi distingués, pouvoir s’entretenir, ne fût-ce qu’un instant, avec des hommes aussi remarquables, n’était-ce pas une de ces fortunes qui n’arrivent souvent qu’une fois dans la vie? Déjà le rivage de Naples n’apparaissait plus derrière nous que dans le lointain, et nous avions franchi la moitié de la distance qui sépare Capri du point de notre départ, lorsqu’une troupe de dauphins, comme pour nous souhaiter la bienvenue, vint plonger à plusieurs reprises à l’avant de notre navire, nous rappelant à la mémoire les vers si connus d’Ovide : .... nec se super aequora curvi Tollere consuetas audent Delphines in auras1 (1).
al principe dei medici italiani, il dotto e venerabile professore Vincenzo Lanza, nostro degno presidente, il desiderio generale di ottenere dalla gentilezza del re un battello a vapore per una escursione nei golfi di Napoli e Salerno, S. E. il Ministro dell’Interno, il cavaliere Santangelo, Presidente generale del VII Congresso, informava i presidenti delle varie sezioni che il desiderio era stato favorevolmente accolto; e, andando anche al di là di quanto si poteva sperare, non era solo un piroscafo a vapore che nella sua suprema ospitalità il nostro moderno Augusto aveva avuto la grande gentilezza di darci, ma ancora tutto il trattamento necessario in una così lunga escursione! Mille grazie, ancora una volta, siano rese al generoso Autore di tanti favori . Essendo stati avvertiti che lo Stromboli avrebbe lasciato il porto di Napoli il 4 ottobre alle cinque del mattino, giorno dell'onomastico di S. A. R. Principe ereditario, dalle ore quattro e mezzo tutti gli ospiti s’erano affrettati a salire a bordo e, quando le salve delle artiglierie dei vari castelli della capitale salutarono l’alba di questo giorno, eravamo già in moto dirigendoci verso Capri. Un mare calmo e un cielo napoletano ci preannunciavano un bel viaggio, e presto i dolci raggi di un sole senza nubi ci fornirono la piacevole certezza. Varie le celebrità scientifiche che erano in questo viaggio. Chi non avrebbe voluto condividere la felicità di essere in una compagnia così illustre? Vedere, ascoltare tali illustri studiosi, poter intrattenersi, anche se solo per un momento, con uomini così famosi, non era che una di quelle fortune che si verificano una volta nella vita? Già la riva di Napoli appariva lontana dietro di noi, e avevamo attraversato metà della distanza che separa Capri dal punto della nostra partenza, quando una schiera di delfini, come per darci il benvenuto, venne a tuffarsi ripetutamente di fronte alla nostra nave, ricordandoci i noti versi d’Ovidio : "... e più i delfini non osano sui gorghi alzar le curve terga all'aura1.
Nous admirions à notre droite toute la côte de Pausilipe, Nisida, les golfes de Pouzzoles et de Baja, le cap de Misène, d’où Pline l’ancien partit l’an 79 de notre ère pour observer la conflagration terrible qui épouvanta à cette époque ces contrées et où il trouva la mort, ainsi que les îles de Procida et d’Ischia; tandis qu’à notre gauche se déployaient majestueusement les belles rives où fleurissaient jadis Herculanum, Rétine2 et Pompée,
Ammiravamo alla nostra destra tutta la costa di Posillipo, Nisida, i golfi di Pozzuoli e di Baja, il Capo Miseno, donde Plinio il Vecchio partì l’anno 79 d. C. per osservare la terribile conflagrazione che terrorizzò a quel tempo questi paesi e dove morì, e le isole di Procida e Ischia; mentre alla nostra sinistra maestosamente si dispiegavano le splendide rive dove un tempo fiorivano Ercolano, Retina2 e Pompei, il Vesu-
1 Met. lib. II, v. 265. 2 Tous les auteurs modernes, se fondant sur le passage suivant de Pline le jeune : Retinae classarii imminente periculo exterriti, (nam villa ea subjacebat, nec ulla nisi navibus fuga) ut se tanto discrimini eriperet, orabant (lequel se trouve dans la lettre de cet auteur à Tacite, où il lui rend compte de la mort de son oncle) supposent que Rétine qui n’était qu’un village, situé au bord de la mer dans le voisinage d’Herculanum, avait été jadis un port considérable
1 Met. Lib. II, v. 265. 2 Tutti gli autori moderni basandosi sul seguente passo di Plinio il Giovane: Retinae classarii imminente periculo exterriti, (nam villa ea subjacebat, nec ulla nisi navibus fuga) ut se tanto discrimini eriperet orabant, (che è nella lettera di questo autore a Tacito, in cui gli rende conto della morte di suo zio) suppongono che Retina, che era solo un villaggio, posto vicino al mare in prossimità di Herculanum, era stato una volta un porto importante nel quale si ritiravano le flotte
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le Vésuve, l’ancienne Stabia , le superbe mont Santangelo et la presqu’île Sorrentine célébrée par Pline le jeune pour avoir été autrefois le siège des Sirènes3. Encore peu d’instants, et nous étions arrivés devant la première station de notre voyage, la pointe de Vitarèto qui termine au nord l’extrémité occidentale de Capri, à environ dix-sept milles de Naples, en face de l’entrée de la grotte d’Azur. Le Stromboli ayant arrêté ses roues pour nous don ner le temps d’examiner le magnifique phénomène d’optique que l’on admire dans cet antre, nous nous empressâmes tous de nous y rendre chacun à notre tour. Une ouverture étroite et basse, ayant seulement trois palmes environ de hauteur, pratiquée naturellement dans une masse rocailleuse et n’admettant qu’un petit bateau pouvant contenir trois à quatre personnes, sert d’entrée à ce lieu. Après avoir traversé cette espèce de couloir on ar rive dans une grotte spacieuse, formant une sorte de port caché dans l’intérieur du rocher, dont la forme est presque elliptique, ayant environ cent quatre-vingt-seize palmes de longueur et à peu près cent quatre palmes de largeur. Dans le temps où la mer est calme, celle-ci présente dans cette caverne une profondeur de quatrevingts palmes, et la hauteur de la partie la plus élevée de la voûte de cette dernière offre une élévation presque pareille, bien que dans les autres points cette élévation n’arrive seulement qu’à vingt-deux palmes; ce qui donne par conséquent la liberté de voir commodément la dite grotte dans toutes ses parties, et permettrait d’y demeurer sans péril, quand même la mer à l’improviste viendrait à s’agiter et à en empêcher la sortie. Mais ce qui rend principalement ce lieu si digne d’être dans lequel les flottes romaines se retiraient; mais, si je ne me trompe, c’est par ce qu’on en a mal compris le sens. En traduisant ce passage, comme deux écrivains français MM. Cochin et Bellicart l’avaient au reste pensé avant moi, on ne saurait en effet en inférer qu’il y ait eu autrefois un port dans ce lieu, et encore moins que les matelots de Rétine eussent pu envoyer supplier Pline de venir à leur secours; la seule inter prétation qu’on puisse donner à ce passage étant la suivante: Les matelots effrayés du danger que courait Rétine (car cet hameau était situé sous l’embrasement et l’on ne pouvait s’en échapper que par mer) le priaient de ne pas s’exposer à un si grand péril. Ceux qui font rapporter Retinae à classiarii, comme si Pline avait voulu dire classiarii Retinenses, ne réfléchissent pas à coup sûr que les matelots, qu’ils font venir de Rétine, n’auraient pas eu le temps nécessaire pour se rendre de ce dernier endroit à Misène depuis le moment où le Vésuve avait commencé à entrer en travail dans la journée désignée dans la susdite lettre , et qu’en tous cas ces derniers n’eussent eu plus rien à craindre s’ils s’étaient déjà enfuis de Rétine. D’ailleurs, s’il y avait eu à Rétine un port et une flotte, quel besoin auraient eu ses habitans d’envoyer chercher à Misène des transports pour s’enfuir par mer? Cette explication me semble d’autant plus naturelle que la suite du même passage vient tout-à-fait à l’appui de ce que je dis. Malgré toutes les supplications qu’on peut faire à Pline de ne pas aller à Rétine à cause du danger que court ce village, il n’en persiste pas moins dans sa résolution. 3 Surrentum cum promontorio Minervae Sirenum quondam sede. Hist. nat. lib. III, cap. V
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vio, l’antica Stabia, il superbo monte Santangelo, la penisola sorrentina celebrata da Plinio il Giovane per essere stata un tempo sede delle Sirene3. Ancora poco ed eravamo arrivati davanti alla prima tappa del nostro viaggio, la punta di Vitareto che termina a nord l’estremità occidentale di Capri, a circa diciassette miglia da Napoli, di fronte all’ingresso della Grotta Azzurra. Lo Stromboli arrestò le sue ruote per darci il tempo di esaminare il magnifico fenomeno ottico che s’ammira in questa grotta, e tutti a turno ci premurammo ad entrare. Una apertura bassa e stretta, alta solo circa tre palmi, formata naturalmente in una massa rocciosa, la quale permetteva l'ingresso di una sola piccola barca con 3-4 persone, funge da ingresso a questo luogo. Dopo aver attraversato questo tipo di corridoio si arriva in un’ampia grotta, che forma una specie di porto nascosto all’interno della roccia, la cui forma è quasi ellittica, con circa 196 palmi di lunghezza e circa 104 di larghezza. Nei giorni in cui il mare è calmo, si ha in questa grotta una profondità di ottanta palmi, e l’altezza della parte più alta della volta ha un’altezza quasi simile, però, negli altri punti si hanno solamente ventidue palmi; il che di conseguenza offre la libertà di vedere comodamente la detta grotta in tutte le sue parti, e permetterebbe parimenti di restarvi senza pericolo, anche quando il mare improvvisamente si agita e impedisce l’uscita. Ma ciò che rende principalmente questo luogo così particolare degno di essere visitato da tutti i viaggiatori è che le acque di questa grotta, invece di essere romane; ma, se non mi sbaglio, si è frainteso il significato. Nel tradurre questo passo, come avevano del resto pensato prima di me due scrittori francesi Sigg. Cochin e Bellicart, non possiamo desumere che c’era una volta un porto in questo luogo, e ancor meno che i marinai di Retina avessero potuto mandare suppliche a Plinio per venire in loro soccorso; l’unica interpretazione che si può dare a questo passo è la seguente: I marinai spaventati per il pericolo che correva Retina (perché questo villaggio era situato sotto il fuoco e non si poteva fuggire che per mare), lo pregavano di non esporsi a un così grande pericolo. Coloro che fanno riferire Retina a classiarii, come se Plinio avesse voluto dire classiarii Retinenses, non riflettono certamente che i marinai, fatti venire da Retina, non avrebbero avuto il tempo necessario per recarsi da quest’ultimo posto a Miseno dopo che il Vesuvio aveva cominciato ad eruttare nel giorno indicato nella citata lettera, e che in ogni caso questi ultimi non avevano nulla da temere se erano già fuggiti da Retina. Inoltre, se ci fossero stati a Retina un porto e una flotta, che bisogno avrebbero avuto i suoi abitanti d’andare a cercare a Miseno dei mezzi di trasporto per fuggire via mare? Questa spiegazione appare tanto più naturale in quanto il seguito dello stesso brano viene in appoggio di quello che dico. Malgrado tutte le preghiere che si possono fare a Plinio di non andare a Retina a causa del pericolo che questo paese corre, lui si ostina nel suo proposito. 3 Sorrento con il promontorio di Minerva, una volta sede delle Sirene. Hist. Nat. lib. III, cap. V.
visité par tous les voyageurs, c’est que les eaux de cet antre, au lieu d’être noires comme il semblerait qu’elles devraient l’être dans une caverne, sont au contraire d’une limpidité surprenante et leur couleur offre en même temps une teinte céleste du plus ravissant azur d’où est venu le nom de cette curiosité naturelle, laquelle teinte se reflétant sur les parois et la voûte de cette grotte secrète forme un spectacle vraiment magique, unique dans son genre. Ce phénomène, dû aux effets combinés de la transmission4 autant que de la réflexion de la lumière qui n’arrive dans cette caverne qu’après avoir traversé les ondes de la mer, provient de ce que les parois de la grotte dont il s’agit qu’on voit descendre perpendiculairement et presqu’en forme de muraille jusqu’au fond des eaux du côté gauche de son entrée, sont à l’opposite du cô té droit de la même entrée disposées admirablement en forme de voûte, s’étendant à fleur d’eau dans une assez longue extension jusqu’à une petite pointe contiguë qui plonge dans la mer, et formant ainsi une large et profonde cavité occupée entièrement par la plaine azurée, force est aux rayons lumineux qui doivent passer à travers cette excavation pour parvenir dans ce lieu de se revêtir de la couleur des flots. Une circonstance intéressante à noter en outre dans cet endroit, c’est que vers la moitié à peu près du côté droit de la même grotte se voit une sorte de débarcadère, donnant entrée à un souter rain, situé quatre palmes au-dessus du niveau de la mer et se prolongeant près de trois cents palmes en s’élevant insensiblement jusqu’à une espèce de cul-de-sac, où la chaleur fait monter le thermomètre de Réaumur à 35°, en même temps qu’on y observe selon le savant Mangoni, lequel est le premier qui ait publié une description exacte de cette grotte, une pierre de forme rectangulaire, placée à la partie supérieure de la voûte de cet antre et paraissant y avoir été mise à dessein pour servir en quelque sorte de couvercle à cette impasse. Cette caverne était-elle jadis une route occulte qui dans les temps anciens conduisait des villas supérieures à la mer? Cette opinion est celle du susdit Mangoni, et tout porte à croire qu’elle est la plus vraisemblable, puisque du temps des Romains il y avait dans le territoire de Damecuta, qui est au-dessus de la grotte d’Azur, une grandiose villa. En considérant la magnificence avec laquelle ces conquérants du monde construisaient leurs maisons de campagne, il n’y a rien d’étrange assurément à supposer qu’ils eussent ouvert une descente dans ce souterrain creusé en grande partie par la nature; attendu que servant à la fois d’ornement et de commodité à la susdite villa, cette voie aurait formé alors un chemin secret pour se rendre au rivage qui est au-dessous, 4 C’est à dessein que je me sers de ce mot, et que je n’employe pas celui de réfraction adopté par tous les auteurs qui ont écrit sur ce phénomène. On comprend, en effet, facilement que la réfraction de la lumière ne joue ici non seulement qu’un rôle tout-à-fait secondaire, mais que le phénomène dont il est question dépend principalement de la couleur du milieu à travers lequel les rayons lumineux sont obligés de passer pour arriver jusque dans la susdite grotte
nere come sembra che dovrebbero essere in una grotta, sono al contrario di una limpidità sorprendente e il loro colore ha nello stesso tempo una tonalità celeste del più incantevole azzurro, dal che è derivato il nome di questa naturale curiosità, la quale tinta riflettendosi sulle pareti e sulla volta della grotta srgreta forma come uno spettacolo davvero magico, unico nel suo genere. Questo fenomeno, dovuto agli effetti combinati della trasmissione4 e della riflessione della luce che entra nella grotta dopo aver attraversato le onde del mare, deriva dal fatto che dette pareti della grotta che si vedono discendere perpendicolarmente e quasi in forma di muraglia sino al fondo delle acque alla parte sinistra dell’ingresso, sono all’opposto sul lato destro dello stesso ingresso disposte mirabilmente in forma di volta, estendendola fior d’acqua in una lunga estensione sino ad una piccola punta contigua che s’immerge in mare e forma così una larga e profonda cavità occupata interamente dal mare azzurro, e quindi i raggi luminosi devono passare attraverso questa cavità per raggiungere questo posto per prendere il colore del mare. Una circostanza interessante da notare ancora in questo luogo è che nel mezzo quasi del lato sinistro della stessa grotta si vede una specie di imbarcadero, che dà accesso a un sotterraneo, situato quattro palmi al di sopra del livello del mare e si estende quasi trecento palmi elevandosi gradualmente sino a una sorta di vicolo cieco, dove il calore fa salire il termometro di Reaumur a 35 gradi nello stesso tempo che vi si osserva, secondo lo scienziato Mangoni, che è il primo ad aver pubblicato una descrizione accurata della grotta, una pietra rettangolare, posta nella parte superiore della volta di questa grotta e che sembra essere stato messo volutamente per servire in qualche modo come coperchio a questo vicolo. Questa grotta era una volta una via occulta che anticamente conduceva dalle ville superiori al mare? Questo è il parere del detto Mangoni, e tutto porta a credere che è il più probabile, poiché già in epoca romana vi era nel territorio di Damecuta, che è sopra la Grotta Azzurra, una grande villa. Considerando la magnificenza con cui questi conquistatori del mondo costruirono le loro case di campagna, certamente non v’è nulla di strano a pensare che essi avevano aperto una discesa nel sotterraneo scavato in gran parte dalla natura; atteso che servendo contemporaneamente come ornamento e comodità per la suddetta villa, questa via avrebbe costituito un percorso segreto per 4 Di proposito uso questa parola, e non quella di rifrazione adottata da tutti gli autori che hanno scritto su questo fenomeno. Si comprende, infatti, facilmente che la rifrazione della luce non gioca qui, non solamente un ruolo del tutto secondario, ma che il fenomeno di cui si tratta dipende principalmente dal colore del mezzo attraverso cui i raggi di luce sono tenuti a passare per arrivare nella suddetta grotta.
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lorsque dans ces temps éloignés surtout les eaux de la même grotte étaient plus basses, comme c’est l’opinion commune, et que par conséquent l’entrée devait en être aussi plus élevée et ouverte. Il serait à désirer seulement qu’on voulût entreprendre une excavation dans le territoire supérieur pour arriver à découvrir l’extrémité du chemin souterrain en question: ce travail, s’il ne produisait pas la découverte d’anciens monuments qui sont peut-être ensevelis dans ce lieu, tournerait en tout cas à l’avantage des habitants de Capri et des voyageurs , qui acquerraient ainsi une route commode pour aller par terre visiter la grotte dont nous parlons. Puisse donc ce voeu être bientôt rempli. On dit communément et tout le monde le répète que bien que la Grotte d’Azur ait été connue anciennement, comme nous venons de le voir, on n’avait conservé aucune tradition de cet antre et que la découverte de nos jours en est due à un pêcheur de Capri, nommé Angelo Ferrara, lequel y pénétra pour la première fois à la nage le 16 mai 1822. Sans vouloir diminuer en aucune façon le mérite de la découverte, si l’on doit l’appeler de la sorte, de ce brave marinier, je dois à la vérité de faire connaître ici que cependant il n’en est point ainsi, quoique d’ailleurs la même erreur se trouve consignée dans un excellent article sur cette grotte merveilleuse, écrit par le savant chevalier Gabriel Quattromani, et qui est inséré dans l’Album scientifique artistico-littéraire de Naples dcette presente année5. Pour s’en convaincre, il suffit d’ouvrir le docte ouvrage intitulé: Historiae Neapolitanae libri duo, publié en 1605 par le célèbre Capaccio, et réimprimé en 1771, et l’on y lira tout le contraire de l’opinion aujourd’hui reçue à cet égard. Voici ce que dit en effet cet auteur sur cette grotte, en décrivant Capri : Inter speluncas, una reliqua est, quant ingressu valde obscuram cernes, in lucidum deinde sinum desinit, in quem superne aquarum stillicidiis, mare nimis delectabile redditur6; paroles qui se trouvent également dans un ancien guide du Cratère napolitain rédigé par Antoine Parrino au commence ment du siècle dernier, et réimprimé en 17517, lesquelles excluent en conséquence l’idée que la tradition n’avait conservé aucun souvenir de ce lieu. Que depuis la fin du siècle précédent, les divers événements qui se sont succédés dans le royaume de Naples jusqu’au retour du sage Ferdinand I, ayent pu être cause que cette grotte ait été dès lors moins fréquentée et de plus en plus par conséquent oubliée, c’est ce qui devait sans doute arriver dans ces temps de calamiteuse mémoire, où les voyages ayant pour but des recherches archéologiques et topographiques de cette
raggiungere la riva che è al di sotto, soprattutto quando nei tempi remoti le acque della medesima grotta erano al livello inferiore, come è opinione comune, e quindi l’ingresso doveva essere anche più alto ed aperto. Sarebbe auspicabile solo che si volesse intraprendere uno scavo nella zona superiore per arrivare a scoprire l’estremità del passaggio sotterraneo in questione: questo lavoro, se non producesse la scoperta di antichi monumenti che sono forse sepolti in questo luogo, si trasformerebbe in ogni caso a beneficio degli abitanti di Capri e dei viaggiatori, che avrebbero un modo conveniente per andare via terra a visitare la grotta. Possa dunque tale desiderio compiersi presto. Si dice comunemente, e tutti lo ripetono, che, sebbene la Grotta Azzurra sia stata conosciuta in tempo antico, come abbiamo visto, non si sia conservata alcuna tradizione di questa grotta e che la scoperta dei nostri giorni è dovuta ad un pescatore di Capri di nome Angelo Ferrara, che vi entrò per la prima volta a nuoto il 16 maggio 1822. Senza voler sminuire in alcun modo il merito della scoperta, se dobbiamo chiamarla così, di questo coraggioso barcaiolo, devo invero dire qui che, tuttavia, non è così, anche se lo stesso errore è riportato in un eccellente articolo su questa meravigliosa grotta, scritto dallo studioso Gabriel Quattromani, ed è inserito nell’Album scientifico artistico-letterario di Napoli di questo anno5. Per convincersene basta aprire il lavoro dal titolo: Neapolitanae Historiae libri duo, pubblicato nel 1605 dal famoso Capaccio, e ristampato nel 1771, e vi si leggerà l’opposto del parere espresso oggi a tal proposito. Ecco ciò che l’autore dice in effetti su questa grotta, descrivendo Capri : Tra le grotte ne resta una che all'ingresso si vede molto oscura e che poi finisce in una luminosa insenatura in cui il cader di gocce d'acquadall'alto rende il mare piacevole6; parole che si trovano anche in un’antica guida napoletana scritta da A. Parrino all’inizio del secolo scorso, e ristampata nel 17517, che escludono l’idea che la tradizione non aveva conservato alcuna memoria di questo luogo. Che dalla fine del secolo scorso, i vari eventi che si sono verificati nel Regno di Napoli, fino al ritorno del saggio Ferdinando I, siano stati il motivo che questa grotta sia stata d'allora meno frequentata e sempre di più dimenticata, è ciò che forse è accaduto in tempi di calamitosa memoria, in cui, avendo i viaggiatori per finalità le ricerche archeologiche e topografiche di questa natura, queste non erano né frequenti né
5 Selon l’intéressant opuscule intitulé: Due giorni a Capri par l’architecte François Alvini, il existerait une autre version à l’égard de celte découverte, car cet auteur assure que ce fut seulement le 19 août 1826, que deux jeunes Suisses Copis et Frisi y entrèrent également à la nage pour la première fois, mais il est bien démontré par les dates que je cite qu’Angelo Ferrara avait déjà pénétré dans la susdite grotte avant les deux Suisses nommés plus haut 6 Op. cit. t. II, p. 166 7 Op. cit. p. 138
5 Secondo l’interessante opuscolo dal titolo: Due giorni a Capri dell’architetto Francesco Alvini, esisterebbe un’altra versione riguardante questa scoperta, poiché questo autore assicura che fu solo il 19 agosto 1826 che due giovani svizzeri Copis e Frisi vi entrarono ugualmente a nuoto per la prima volta; ma è ben dimostrato dalle date che cito che Angelo Ferrara era già entrato nella suddetta grotta prima dei citati due svizzeri. 6 Op. cit. t. II p. 166. 7 Op. cit. p. 138.
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nature n’étaient ni aussi fréquents ni faciles, comme ils le sont de nos jours, à présent qu’une heureuse et bienfaisante paix nous permet de nous occuper avec plaisir et succès de semblables travaux. Capri, placée en quelque sorte comme une sentinelle avancée à l’embouchure du golfe de Naples, et entourée de rochers calcaires d’une hauteur inaccessible qui n’offrent que deux endroits où les barques puissent aborder en sûreté, a environ huit milles de circonférence. Elle est située sous le 40° 45’ de latitude septentrionale, et le 11° 60’ de longitude à l’est du méridien de Paris. Divisée en deux hautes montagnes, dont la plus grande le Solaro s’élève à dix-huit cents pieds au-dessus de la mer, elle fut inculte et déserte jusqu’au temps où les Thélébéens ainsi appelés du nom de leur roi Thélébus, sortis à ce qu’on prétend de l’Acarnanie, vinrent avant la guerre de Troye l’habiter et y fondèrent deux villes ou villages, l’un à la partie occidentale et l’autre à l’orient, dans les lieux mêmes où se voyent aujourd’hui Capri et Anacapri, dont l’étymologie grecque signifie proprement ville au-dessus de Capri, et où l’on monte de ce dernier endroit par un escalier taillé dans la roche de cinq cent trente-six degrés. Grâce à cette aventureuse colonie, cette île ne tarda pas à être florissante, et avec les arts qui y furent introduits on ne manqua pas d’y fonder des établissements pour la jeunesse. Passée plus tard sous la domination de la république Napolitaine, elle y resta jusqu’à l’époque où cette dernière ayant perdu l’île d'Ischia qui lui avait été enlevée par Auguste, ce prince désireux de posséder Capri, à cause d’un prodige qu’il croyait être arrivé dans cette île à son débarquement 8 la demanda aux Napolitains, qui la lui cédèrent en échange d’Ischia laquelle retomba ainsi sous ses anciens maîtres. Suétone nous apprend que cet empereur y ayant fait pour lors élever de superbes palais, habita pendant quelque temps Capri, où il se plaisait beaucoup, prenant de l’agrément à faire habiller de jeunes Romains à la grecque et de jeunes Grecs à la romaine, pour les faire jouer et réciter devant lui des pièces de vers. Mais si cette île avait été sous le pouvoir d’Auguste le séjour de la paix et des lettres, elle ne tarda pas à devenir sous le règne de Tibère celui de l’esclavage et de la plus effroyable corruption. Ce fut l’an 27 de J. C. que ce voluptueux prince alla cacher ses débauches dans ce lieu retiré, laissant à son favori Séjan le soin de tenir les rênes de son autorité. On peut juger toutefois par l’immense quantité de ruines et de restes d’anciennes constructions, qui s’y trouvent encore, de la magnificence que dut présenter Capri sous ce farouche despote. Tacite parle dans ses annales9 de douze palais de diverses architectures que cet empereur y fit construire presque tous sur des points élevés, et d’où l’on pouvait jouir d’une vue délicieuse. Chacun d’eux portait le nom d’un des dieux du paganisme, et le plus fameux était celui dédié à Jupiter, situé sur l’ex
facili come lo sono oggi, come lo sono oggi, ora che una felice e benefica pace ci consente di affrontare con piacere e successo simili lavori. Capri, situata in un certo senso come una sentinella avanzata all’imboccatura del Golfo di Napoli, circondata da rocce calcaree di una altezza inaccessibile, che offrono solo due posti dove le barche possono avvicinarsi in modo sicuro, ha circa otto miglia di circonferenza. Si trova alla latitudine nord di 40° 45’ e longitudine 11° 11’ all’est del meridiano di Parigi. Divisa in due alte montagne, di cui la maggiore, il Solaro, s'eleva ottocento piedi sul mare, fu selvaggia e incolta fino al momento in cui i Teleboi così chiamati dal nome del loro re Teleboo, partiti, come si dice, dall’Acarnania, vennero ad abitarla prima della guerra di Troia e vi fondarono due città o villaggi, uno nella parte occidentale e l’altro a oriente, negli stessi luoghi in cui oggi si vedono Capri e Anacapri, la cui etimologia greca significa città sopra Capri, e dove si sale per mezzo di una scala scavata nella roccia di 536 gradini.
8 Apud insulam Capreas veterrimae ilicis demissos jam ad terram languentesque ramos convaluisse adventu suo adeo laetatus, ut eas cum republica Neapolitanorum permutaverit, Aenaria data. Suet. in August. 72 9 An. lib. IV, cap. 30
8 Apud insulam Capreas veterrimae ilicis demissos jam ad terram languentesque ramos convaluisse advenlu suo adeo laetatus est, ut eas cum republica Neapoliianorum permutaverit, Aenaria data. Suet. in August. 72 9 An. Lib. IV, cap. 30.
Grazie a questa avventurosa colonia, l’isola divenne presto fiorente, e con le arti che vi furono introdotte non mancò di formare delle strutture per i giovani. In seguito passò sotto il dominio della Repubblica napoletana e vi rimase fino al momento in cui quest’ultima avendo perso Ischia, presa da Augusto, tale principe desideroso di possedere l’isola di Capri, a causa di un prodigio che egli credette essere avvenuto in questa isola al suo sbarco8 chiese ai Napoletani di cedergliela, i quali la cedettero in cambio di Ischia che cadde così di nuovo sotto i suoi ex padroni. Svetonio ci dice che l’imperatore, avendo fatto costruire allora superbi palazzi, visse per un po’ a Capri, che amava molto, provando piacere a far vestire giovani romani alla maniera greca e quelli greci alla maniera romana, per farli suonare e recitare poesie. Ma se l’isola era sotto il dominio di Augusto dimora della pace e delle lettere, divenne ben presto sotto il regno di Tiberio quella della schiavitù e della corruzione più spaventosa. Fu nell’anno 27 di Gesù Cristo che questo principe voluttuoso venne a nascondere la sua dissolutezza in questo luogo appartato, lasciando al suo favorito Seiano la cura di reggere le redini del potere. Tuttavia, possiamo giudicare dalla grande quantità di rovine e resti di antiche costruzioni, che sono ancora lì, la magnificenza che aveva Capri sotto questo feroce despota. Tacito nei suoi Annali9 parla di dodici palazzi di varia architettura che l’imperatore aveva costruito quasi tutti nei punti alti, e dove si può godere di una vista incantevole. Ognuno portava il nome di un dio pagano, e il più famoso fu quello dedicato a Giove, che si trova all’estremità orientale dell’isola formata
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trémité orientale de l’île formée par un rocher coupé à pic d’environ six cents pieds de hauteur, non loin du lieu où l’on voyait anciennement la tour du phare qui servait de guide aux navigateurs, et qui s’écroula par suite d’un tremblement de terre peu de temps avant la mort de ce monarque. C’est dans les environs de ce palais isolé que l’on montre toujours aux curieux le chemin qui conduit au si célèbre et horrible saut, d’où Tibère faisait précipiter sous ses yeux les victimes sur lesquelles il avait épuisé les plus longs et les plus cruels supplices, et que des soldats armés de crocs et d’avirons avaient le cruel office de rejeter du rivage dans les eaux10 ! Tant de siècles écoulés sur ces terribles événements n’ont pu encore en faire oublier la mémoire, et il n’est pas un habitant de Capri, lequel passant dans ces lieux ne frémisse d’horreur en songeant seulement à la cruauté du tyran soupçonneux, qui avait pu imaginer de semblables tourments. Mais hâtons-nous de jêter un voile sur les forfaits dont ce monstre couvert de crimes épouvanta Capri et le reste du monde durant sa trop longue vie. Ceux qui voudront plus de détails sur cette partie de l’histoire de cette île pourront trouver tout ce qu’ils pourraient désirer sur cette matière dans le précieux ouvrage de Mangoni, dont j’ai fait mention plus haut, intitulé : Ricerche topografiche, archeologiche ed istoriche sull’isola di Capri, Naples 1834. J’ajouterai ce pendant que la population de l’île entière, laquelle était autrefois beaucoup plus considérable, se monte présentement à trois mille cinq cents habitans, dont mille neuf cent quatre-vingts demeurent à Capri, et mille cinq cent vingt habitent Anacapri, tous en général agriculteurs ou mariniers et pécheurs, se faisant remarquer par des moeurs pures et hospitalières, en même temps qu’ils sont actifs et industrieux autant que les ressources bornées de leur île le leur permettent. Enfin parmi les productions qu’offre Capri, je mentionnerai pour terminer ce paragraphe son excellent vin rouge avec ses fruits délicieux, et son huile qui le dispute à celle de Vico; mais malheureusement l’exiguité des terrains qui produisent ces denrées, dont cette île alimente Naples, fait qu’on y en récolte une trop faible quantité pour subvenir à toutes les nécessités de ses habitants, et c’est aux produits de la pèche et de la chasse principalement du temps des cailles de pourvoir au surplus de leurs besoins11. Pendant que nous nous mettions de nouveau en route pour continuer notre voyage à onze heures du matin, en faisant honneur à un confortable déjeuner, nous rappelant que c’était à pareille journée que trente-sept ans auparavant avait été entrepris l’assaut de Capri par les soldats Franco-Napolitains, le brave chevalier
da una roccia tagliata a picco di circa seicento piedi d’altezza, non lontano da dove si vedeva anticamente la torre del faro, che serviva come guida per i navigatori, e che crollò a seguito di un terremoto poco prima della morte del monarca. Intorno a questo palazzo isolato si mostra sempre ai curiosi il sentiero che conduce alla tanto famosa e orribile rupe dove Tiberio faceva gettare sotto i suoi occhi le vittime sulle quali aveva compiuto le più lunghe e crudeli torture e che soldati armati di uncini e remi avevano il crudele ufficio di gettare in mare10! I tanti secoli passati non sono stati in grado di far dimenticare la memoria di questi terribili eventi, e non c’è abitante di Capri, che passando attraverso questi luoghi, non rabbrividisca con orrore al pensiero solo della crudeltà del detto tiranno che aveva potuto immaginare tormenti simili. Ma affrettiamoci a gettare un velo sull’infamia con cui questo mostro coperto di crimini terrorizzò Capri e il resto del mondo nel corso della sua lunga vita. Coloro che vogliono maggiori dettagli su questa parte della storia di questa isola troveranno tutto quello che possono desiderare su questa materia nel prezioso lavoro di Mangoni, che ho già citato, dal titolo Ricerche topografiche, archeologiche ed istoriche sull’isola di Capri, Napoli 1834. Vorrei aggiungere, tuttavia, che la popolazione di tutta l’isola, che una volta era molto più grande, attualmente ammonta a 3500 abitanti, di cui 1980 a Capri e 1520 ad Anacapri, tutti in generale contadini o pescatori e marinai, con costumi puri e ospitali, allo stesso tempo che sono attivi e laboriosi come le limitate risorse dell’isola loro consentono. Infine, tra le produzioni offerte da Capri, cito per concludere questa sezione, un ottimo vino rosso, i suoi deliziosi frutti e l’olio, che gareggia con quello di Vico, ma purtroppo l’esiguità dei terreni che producono questi prodotti, di cui l’isola alimenta Napoli, permette una quantità minima per tutte le esigenze dei suoi abitanti, e sono i prodotti della pesca e della caccia, soprattutto al tempo delle quaglie, che permettono di provvedere per lo più ai loro bisogni11. Mentre ci mettevamo di nuovo in strada per proseguire il nostro viaggio alle undici del mattino, facendo onore a una confortevole colazione, ricordandoci che in questo giorno 37 anni prima era iniziato l’assalto di Capri da parte delle truppe franco-napoletane, il coraggioso cavaliere Antonio Carafa Noja, Eletto della municipalità del quartiere di Chiaia, che ci accompa-
10 Carnificinae ejus ostenditur locus Capreis, unde damnatos, post longa et exquisita tormenta praecipitari coram se in mare jubebat, excipiente classiariorum manu, et contis atque remis elidente cadavera, ne cui residui spiritus quidquam ineset. Suet. in Tib. 62 11 Consultez à cet égard l’intéressant opuscule intitulé : Statistica fisica ed economica dell’isola di Capri, du au sa vant Salvatore Tommasi, secrétaire de l’Académie des As pirants Naturalistes, fondée et dirigée par le célèbre pro fesseur 0. G. Costa, auquel l’histoire naturelle est redevable de tant de précieuses découvertes
10 Carnificinae ejus ostenditur locus Capreis, unde damnatos, post longa et exquisita tormenta praecipitari coram se in mare jubebat, excipiente classiariorum manu, et contis atque remis elidente cadavera, ne cui residui spiritus quidquam inesset. Suet. in Tib. 62 11 Consultate a questo proposito l’ interessante opuscolo intitolato: Statistica fisica ed economica dell’Isola di Capri dello studioso Salvatore Tommasi, segretario dell’Accademia degli Aspiranti Naturalisti, fondata e diretta dal famoso professor O. G. Costa, al quale la storia naturale è riconoscente per tante preziose scoperte.
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Antoine Carafa Noja, Eletto de la municipalité du quartier de Ghiaja, qui nous accompagnait et avait assisté comme volontaire à la prise de cette île qui se rendit le 18 octobre 1808 au général Lamarque, lequel cite ce digne officier dans son rapport, voulut bien nous raconter tous les épisodes de ce fait d’armes incroyable, dans lequel les troupes Napolitaines se couvrirent de gloire en rivalisant de courage avec les intrépides soldats Français, qui exécutèrent cette immortelle entreprise ; et nous ne pûmes que nous étonner comment une poignée de monde avait pu se rendre maîtresse de ce lieu, justement considéré par les Anglais eux-mêmes comme un petit Gibraltar, et alors occupé par une nombreuse garnison commandée par le trop fameux sir Hudson Lowe, qui sept ans plus tard fut le gardien de Napoléon à l’île de Ste. Hélène12. Après avoir salué en passant la chapelle de S.te Marie du secours, située sur la pointe orientale de Capri qu’on appelle aujourd’hui le Capo, nous dirigeant maintenant vers l’ancien promontoire Athénée appelé présentement pointe de la Campanella13, nous ne tardâmes pas à découvrir le lieu où Strabon raconte qu’un temple avait été enlevé par Ulysse à Minerve14, et qui est séparé de Capri par un canal d’environ trois milles. C’est dans ces parages que jadis les navigateurs, après avoir échappé aux périls de la mer, avaient coutume de faire des libations à cette divinité en revenant de leurs courses lointaines, ainsi que nous l’apprennent ces vers de Stace : Prima salutavit Capreas, et margine dextra Sparsit Tyrrhenae Mareotica vina Minervae15.
gnava e aveva partecipato come volontario alla presa di questa isola che si arrese il 18 Ottobre 1808 al generale Lamarque, che cita questo valente funzionario nel suo rapporto, volle raccontarci tutti gli episodi di questo incredibile fatto d’armi, in cui le truppe napoletane si coprirono di gloria competendo con impavido coraggio con i soldati francesi che eseguirono questa immortale impresa; e noi non potemmo che stupirci come una manciata di persone furono in grado di impadronirsi di questo luogo, giustamente considerato dagli Inglesi stessi come una piccola Gibilterra, e allora occupato da una grande guarnigione comandata dal famoso Sir Hudson Lowe, che sette anni più tardi fu il custode di Napoleone all’isola di Sant’Elena12. Dopo aver salutato incidentalmente la cappella di S.ta Maria del soccorso, che si trova sulla punta orientale di Capri oggi chiamata Capo, dirigendoci ora verso l’antico promontorio Ateneo al presente chiamato punta della Campanella13 non tardammo a scoprire il luogo dove Strabone racconta che un tempio era stato costruito da Ulisse a Minerva14, che è separato da Capri da un canale di circa tre miglia. È in queste acque che i naviganti una volta, dopo essere sfuggiti ai pericoli del mare, erano soliti fare libagioni al Dio al ritorno dai loro lunghi viaggi, come apprendiamo da questi versi di Stazio: Toccò poi Capri e su la destra sponda, dove Minerva hanno in pregio i Tirreni, depose il vino che d'oltre mar condusse15.
12 Voyez la relation de la prise de Capri par Mariano d’Ayala qui se trouve dans les intéressants mémoires historiques et militaires sur ce royaume, que l’on doit à l’impartiale et savante plume de cet habile officier d’artillerie, lequel, retiré aujourd’hui de la carrière militaire active, employe ses loisirs à honorer sa patrie en tirant de l’oubli les nombreux faits d’armes dans lesquels se sont illustrés à diverses époques ses concitoyens. Tout ce qui a rapport à la reddition de cette île à l’époque dont je parle, ne pouvant au reste manquer d’être lu avec intérêt par les personnes sous les yeux desquelles pourront tomber ces pages, j’ai cru de mon devoir de joindre à l’appendice qui trouvera sa place à la fin de cette relation l’extrait du rapport du général Lamarque touchant la prise de Capri, ainsi qu’une lettre inédite de l’ancien commandant de cette île, sir Hudson Lowe, adressée au général Lamarque; autographe qui était destiné par M. d’Ayala à orner la seconde édition de son ouvrage, et dont il a eu cependant la générosité de me céder la priorité, c’est pourquoi je me fais un devoir de lui en adresser ici mes remerciments 13 Ce nom lui vient parce qu’une cloche était autrefois placée dans ee lieu pour avertir les habitants des alentours de l’arrivée des corsaires, depuis qu’en 1588 une flotte de ces forbans avait emmené en esclavage trois mille Sorrentins et mille quatre cents habitants de Massa, après en avoir massacré un grand nombre 14 Pompeiis contiguum est Surrentum Campanorum: unde prominet Athenaeum, seu Minervae promontorium, quod alii Prenussum vocant. Eo in promontorio fanum est Minervae ab Ulysse conditum. Geogr. lîb. V 15 Stace, Silv. lib. II carm. 2
12 Vedete la relazione della presa di Capri di Mariano d’Ayala che si trova tra le interessanti memorie storiche e militari di questo regno, e che si devono alla penna imparziale e scientifica di questo abile ufficiale di artiglieria, il quale, ritiratosi ora dalla carriera militare attiva, usa il suo tempo libero per onorare la sua patria togliendo dall’oblio i numerosi fatti d’arme in cui sono eccelsi in diversi momenti i suoi cittadini. Tutto ciò che riguarda la resa dell’isola, al momento di cui parlo, non potendo mancare d’essere letto con interesse da parte di coloro sotto i cui occhi possono cadere queste pagine, ho pensato che fosse mio dovere aggiungere in appendice, che troverà posto alla fine di questa relazione, l’estratto del rapporto del generale Lamarque relativo alla presa di Capri così come di una lettera inedita dell’ex comandante dell’isola, Sir Hudson Lowe, indirizzata al generale Lamarque; autografo che era destinato dal Sig. d’Ayala per decorare la seconda edizione del suo libro, che, però, è stato abbastanza generoso da darmi la priorità, e per questo mi sento in dovere di indirizzargli qui i miei più sinceri ringraziamenti. 13 Il nome deriva dal fatto che una campana una volta era collocata nella zona per avvertire i residenti dei dintorni dell’arrivo dei pirati, dal momento che nel 1588 una flotta di questi pirati sono stati presi in schiavitù sorrentini tre miglia e 1400 residenti Massa, dopo aver massacrato molti 14 Pompeiis contiguum est Surrentum Campanorum: unde prominet Athenaeum, seu Minervae promontorium, quod alii Prenussum vocant. Eo in promontorio fanum est Minervae ab Ulysse conditum. Geogr. lib. V 15 Stazio, Silv. Lib. II carm. 2.
1 - à suivre
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Charlie Chaplin a Lacco Ameno (1957) (da Storia fotografica di Napoli 1945/1985, edizioni Sintesi) 50
La Rassegna d’Ischia n. 5/2016
Ischia Ponte – Galleria Ielasi 10 settembre – 10 ottobre 2016
Giovanni de Angelis dipinti e sculture
Lo stimolo di partenza, per me, è sempre la realtà. Ma non si tratta di una realtà puramente visiva, si tratta piuttosto di una realtà colta come attraverso un sogno, intravista, elaborata insomma a livello fantastico, e che si traduce in immagini irreali, più o meno... E poi, naturalmente, dal momento che la scultura è un’arte eminentemente concreta, bisogna che l’immaginazione trovi un modo esteticamente controllato di affrontare problemi formali, d’espressione... *** Giovanni de Angelis... in una pietra artificiale che si costruisce lui stesso, scolpisce figure longilinee assai stilizzate, talora irrigidite come idoli, talora estremamente e quasi temerariamente dinamiche, come i “nuotatori” sospesi elegantemente nell’acqua immaginaria. Dino Buzzati Corriere della Sera, 1970