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Anno XXXVIII N. 5 Novembre 2017 Euro 2,00

Aspetti e problemi posti dagli scavi di Pithecusa (II) La navigazione a vapore

Andersen a Napoli e a Ischia

Il bacino idrico dei Maronti

Sul "Real Ferdinando" da Napoli a Ischia

Ex libris Rassegna Libri

Collegamenti marittimi Napoli - Isola d'Ischia

Fonti archivistiche

Le chiese colpite dal sisma del 21 agosto 2017 Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna


La Rassegna d’Ischia Periodico bimestrale di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi

In questo numero

3 Motivi

Anno XXXVIII- n. 5 Novembre 2017 Euro 2,00 Editore e Direttore responsabile Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 19 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661 Stampa : Press Up - Roma

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4 Terme italiane e ricerca scientifica 5 Le chiese colpite dal sisma del 21 agosto 2017

11 Aspetti e problemi posti dagli scavi di Pithecusa... (II)

20 Collegamenti marittimi Isola d'Ischia -Napoli

23 Navigazione a vapore Sul "Real Ferdinando" da Napoli a Ischia

25 Note illustrative sul bacino idrico dei Marronti 28 Hans Christian Andersen a Napoli e Ischia 30 Andersen lo scrittore che colorò la vita con le fiabe 32 Andersen a Ischia

33 Roma - mostra La bellezza ritrovata

34 Serrara Festa di Santa Maria della Mercede

36 Il racconto Un parcheggio contestato 37

Rassegna Libri

46 Archivio diocesano Cronaca del 15 aprile 1855 47 L'Immacolata

50 Fonti archivistiche Discorso di San Basilio ai giovani e il Parroco Giuseppe Morgera 54 Ex libris


Motivi

Voci d’Ischia e per Ischia. Sempre si è scritto dell'isola, dall’interno e dall’esterno, sia per narrare le impressioni, i sentimenti, le visioni che si presentano agli occhi dei visitatori in ogni istante delle loro escursioni e dei loro soggiorni, sia per rievocare (inopportunamente a volte) momenti importanti della storia di un’isola che ha le sue origini nei tempi dei miti, degli dei, delle leggende. Se ne ha occasione di leggere in proposito nel florilegio di pagine che, di numero in numero, riportiamo nella sezione “Ex libris”, come pure in quella Bibliografia isclana che Pietro Serra compilò e fu dato alle stampe nelle due edizioni del 1966 e 1980, a cura dell’Ente Autonomo per la Valorizzazione dell’isola d’Ischia (EVI). Quasi 300 pagine di autori ed opere, frutto di un intenso lavoro di ricerca in biblioteche ed archivi di ogni genere; non solo autori che hanno trattato specificamente dell’isola, ma anche quelli che ne hanno dato solo cenno , e di ciascuna opera si indica, dove possibile, l’ubicazione di almeno un esemplare. Ed oggi, a voler aggiornare questa bibliografia, quante pagine occorrerebbero ancora? Ovviamente si parla di pubblicazioni in cui domina il riferimento locale, il fatto corografico locale più che la materia, avvenimenti pertinenti luoghi e tempi circoscritti alla vita di un paese, di una regione, di persone che hanno caratterizzato contrade e spazi di terre ristrette. Storie che sono appunto dette “locali”. «È sempre suggestivo rileggere brani dei nostri padri: insegnano e dicono cose forti con semplicità, scrive Vittorio Amedeo Caravaglios, presidente dell’Unione della Stampa Turistica Italiana; ed aggiunge: Ecco Gaetano Nobile, proprio 100 anni or sono: “Se egli è dolce, ed anche salutare, di

sottrarsi qualche volta al contatto strepitoso (che direbbe oggi?) della società, è nella Valle di San Montano che è d’uopo di andare a trovare un asilo oltremodo favorevole al raccoglimento. Tutto vi spira la tranquillità e la pace; l’aspetto del luogo e la rimembranza di quel che era a diverse epoche fanno nascere una dolce malinconia che invita alla meditazione”. "Se questo, 100 anni fa, immaginiamo 1500 anni fa, allorché la zattera adusta, con quel che avanzava del corpo vergine e martoriato di Santa Restituta, quasi a prodigio, veniva portata a trovare asilo e adorazione proprio su questi lidi di San Montano”. San Montano: un luogo che i primi colonizzatori scelsero per sede della loro necropoli, per il riposo eterno! Ma ogni cosa è cambiata e modificata e l’aspetto attuale non echeggia affatto gli antichi silenzi. Anzi! A tutti, certo, non sfugge la circostanza che i tempi cambiano e che oggi Ischia è diversa (logicamente) rispetto a varie epoche passate: positivamente o negativamente ci si chiede però spesso e la risposta non è mai scontata e tutta protesa per un miglioramento. Ischia, isola dalla storia più volte millenaria, dalla storia che, come le storie dei paesi dalle più vetuste origini, si confonde con la leggenda, non interessa e non attrae, nonostante che non sia mancato qualche spirito buono che abbia dedicato la sua vita a cercare e proporre in primo piano il passato. Manca a volte anche un legame tra passato e presente, come si evince per esempio dalla scarsa attenzione rivolta nei tempi presenti ai reperti archeologici, che dovrebbero assicurare gloria all’isola e agli uomini che li hanno portati alla luce con i loro studi e le loro ricerche. Non c’è interesse per la

Raffaele Castagna

cultura, né amore per la memoria e per quanto rappresenta l’isola d’Ischia in questo settore; spesso non si conoscono o si confondono, ad ogni livello istruttivo e istituzionale, i nomi degli studiosi specifici, sia quelli locali, sia quelli qui approdati e qui fermatisi appassionatamene. Si preferisce rivolgere ad altri settori e ad altri personaggi riconoscimenti e testimonianze di stima. Eppure Ischia vive di turismo e per un certo turismo… dovrebbe dare il dovuto peso alla conoscenza delle sue vicende storiche e al ricordo degli uomini che più l’hanno rappresentata. “Amarla, studiarla, custodirla, difenderla”, come scrisse don Pietro Monti, in una sua opera. «L’Isola d’Ischia – scriveva l’avv. Umberto Di Meglio nella presentazione della seconda edizione del libri di Serra – è universalmente nota per la bellezza dei suoi paesaggi, per lo splendore delle sue marine, per la ricchezza dei suoi boschi e delle sue eccezionali risorse idrotermali; lo è per la mitezza del clima, per i fenomeni di origine vulcanica ed anche per i suoi vini. Lo è, viceversa, molto meno per le sue glorie antiche e recenti e per la ricca fioritura di studi, di scritti e di produzione artistica cui essa ha dato luogo». Questo si scriveva nel 1980 e negli anni successivi il “molto meno”, invece di affievolirsi, si è accentuato, nonostante che sia migliorata la conoscenza, a livello di studi e di ricerche, di un’isola che non è più quella che il Maiuri definiva “del tutto ignota” e sconosciuta. Ischia turistica, Ischia vacanziera non volge le sue attenzioni alla cultura vera e propria, se non a quella che dà spazio a manifestazioni di giornata, anche come occasione personale di porsi in primo piano e procurarsi consensi.

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Terme italiane e ricerca scientifica il punto degli esperti a Ischia All’Assemblea di Federterme siglato protocollo d’intesa con l’Associazione Nazionale dei Comuni Termali-Ancot: nasce il “Coordinamento Terme d’Italia” “Le terme italiane tra presente e futuro: strategie per un rinnovamento possibile”. È stato questo il titolo della convention organizzata da Federterme/ Confindustria che si è tenuta il 14 ottobre 2017 a Ischia presso la sala conferenza del Regina Isabella di Lacco Ameno. La sede di Ischia è stata individuata dopo il terremoto dello scorso 21 agosto che ha colpito in particolar modo i Comuni di Casamicciola e Lacco Ameno e vuole testimoniare la costante attenzione di Federterme per l’Isola Verde e la fiducia nell’immutata capacità di accogliere del territorio ischitano e in particolare delle sue strutture alberghiere e termali. “Chi sceglie le terme lo fa perché ne conosce sia i benefici per la salute delle acque minerali e termali che le attrattive naturalistiche e culturali, che giocano un ruolo importante insieme alla qualità dei servizi e alle risorse del territorio circostante”, ha dichiarato Costanzo Jannotti Pecci, presidente di Federterme/Confindustria, che ha aggiunto: “In Italia da sempre si va alle terme perché sono soprattutto una risorsa e un presidio per la salute, importante e affidabile, che si fonda sulle specificità, qualità e diversità delle acque minerali termali, fredde e calde, che sgorgano dal sottosuolo e che possono essere utilizzate solo in base a rigorosi percorsi concessori e autorizzatori ministeriali e regionali. Le strutture erogatrici di trattamenti termali sono accreditate dal Servizio sanitario nazionale che richiede la presenza di medici e specialisti e personale addetto dotato di specifica formazione ed esperienza. Fondamentale in questo senso è la collaborazione in atto con i Ministeri della Salute e della Istruzione e della Ricerca e con gli Assessorati alla Salute delle Regioni, per migliorare e adeguare i servizi termali alle esigenze dei cittadini e contenere i costi per il Sistema. A livello internazionale ed europeo vanno segnalati la collaborazione con i sistemi termali di altri Paesi, attraverso l’Associazione europea delle Terme e la Federazione Mondiale delle Terme (Femtec), e gli scambi di esperienze innovative e di buone pratiche”. In tale quadro si inserisce lo studio

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Hydroglobe, realizzato da Femtec con FoRST per l’OMS, che ha stabilito recentemente, nel 2014, un rinnovato punto fermo sulle riconosciute valenze terapeutiche dei trattamenti termali che utilizzano acque minerali e termali. “Abbiamo appreso con evidente compiacimento – ha spiegato Aldo Ferruzzi, presidente di Forst - che le proposte Hydroglobe sono state considerate utili e recepite nelle strategie OMS. Anche la Consensus Conference, i cui risultati sono stati pubblicati sugli Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, e presentati al Ministero della Salute nel novembre scorso, hanno confermato l’appropriatezza delle prestazioni termali nel trattamento delle patologie muscoloscheletriche. Infine vorrei ricordare il concreto approccio adottato dal ‘Tavolo tecnico termalismo’ al Ministero della Salute anche in materia di valorizzazione della ricerca scientifica italiana a sostegno di innovativi percorsi di riabilitazione e cura e la valutazione delle potenzialità del termalismo terapeutico nell’ambito del cosiddetto ‘turismo della salute’”. Riguardo l’efficacia delle cure termali in alcune patologie. Marco Vitale, direttore Scientifico di Forst e professore ordinario di Anatomia Umana presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Parma ha infine ricordato come “oltre a dati già consolidati che riguardano la reumatologia, l’otorinolaringoiatria, e le classiche cure idropiniche per calcolosi renale, è interessante citare un filone di attività scientifica su determinate patologie del tratto gastroenterico, come alcune forme di stipsi e il reflusso gastroesofageo. Stiamo in particolare studiando l’impatto delle cure termali su alcune malattie di tipo metabolico, approfondendo ad esempio i meccanismi alla base dell’azione degli ioni-solfato sul fegato e sulla secrezione della bile. Infine alcuni studi pionieristici con acque sulfuree hanno già dato ottimi risultati in vitro e nella sperimentazione animale sulla progressione della malattia di Alzheimer”. In apertura sono arrivati i saluti del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e del sindaco di Napoli, luigi De Magistris.

Un settore, quello termale, che, dopo la pesante recessione registrata nel periodo 2011-2013, nel successivo triennio ha evidenziato un parziale recupero della produzione e del giro d’affari. Nel 2016, il valore aggiunto prodotto dal settore termale si è attestato a 581 milioni di euro, avendo segnato un incremento del 3,1% rispetto all’anno precedente. I ricavi totali si sono invece accresciuti dell’1,3% a prezzi correnti, avvicinandosi alla soglia dei 731 milioni di euro. Secondo l’elaborazione di Federterme su dati Global Wellness Institute, nel 2015 l’Italia (con un fatturato degli stabilimenti idroterapici pari a 1.509 milioni di euro) si colloca al secondo posto in Europa dietro la Germania (6.150 milioni di euro). L’Assemblea è stata anche l’occasione per la firma di un protocollo d’intesa fra Federterme e Ancot- Associazione Nazionale dei Comuni Termali che hanno tenuto a battesimo la nascita del “Coordinamento Terme d’Italia”: un organismo che assicurerà sinergia e unità del settore nel confronto nazionale e internazionale per difendere gli interessi dei territori e delle imprese termali, assicurando anche il supporto all’attività di ricerca scientifica termale. Tra i temi al centro delle relazioni anche le problematiche relative all’interpretazione della cosiddetta “Direttiva Bolkestein” effettuata da alcune regioni che vorrebbero applicare al rilascio e al rinnovo delle concessioni per acque termali, le procedure di evidenza pubblica previste dalla direttiva. Federterme ha ribadito come un intervento chiarificatore del legislatore nazionale, attraverso una norma d’interpretazione autentica, sia ad oggi l’unica soluzione possibile su cui Federterme è impegnata. La chiusura dei lavori è stata affidata a Dorina Bianchi, sottosegretario ai Beni, Attività culturali e Turismo che ha specificato: “Il comparto termale, se accompagnato da adeguate compagne informative, può superare la stagionalità e supportare le imprese durante tutto l’anno. Una buona occasione per l’Isola di Ischia, la cui stagione turistica è stata parzialmente condizionata dal drammatico evento sismico ma che anche attraverso questo settore può rilanciare la sua offerta. Il segnale che arriva da Federterme e dagli imprenditori delinea una forte volontà a far ripartire il sistema nazionale e l’isola, non soltanto nella stagione estiva, ma grazie a questo settore e ai servizi che offre, per tutto l’anno”.

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Le chiese colpite dal sisma del 21 agosto 2017 ma non distrutte “Bisogna risollevarsi, in corpo ed in spirito … Io voglio la chiesa, datemi

la chiesa! Mi si fabbrichi la chiesa pure alle falde dell’Epomeo, io lì andrò a radunare il mio popolo: ma presto, ma presto”

Parroco Giuseppe Morgera

di Ernesta Mazzella Propongo un breve viaggio attraverso le nostre chiese che attualmente a causa del terremoto sono state chiuse al culto, scrivo queste poche pagine con la viva speranza nel cuore di rivederle “presto, ma presto” di nuovo aperte. La parrocchia di S. Maria Maddalena Il terribile terremoto del 28 luglio 1883 distrusse l’antica parrocchia di S. Maria Maddalena in Piazza Maio1. Della ricostruzione della Parrocchia s’interessò il SdD Don Giuseppe Morgera sin dal primo momento quando fu prescelto nella terna presentata al Vescovo dal Municipio di Casamicciola. Il primo progetto per la nuova chiesa parrocchiale portava la data del 21 marzo 1884; dopo tante peripezie il 7 maggio 1894 fu firmato il capitolato di appalto alla ditta dell’imprenditore Catello Buonocunto di Castellammare di Stabia per una spesa complessiva di £ 103.620. L’8 luglio 1894 il vescovo d’Ischia Mons. Giuseppe Candido, fra una gran folla plaudente, benediceva la prima pietra della nuova chiesa. I lavori furono seguiti passo dopo passo dal SdD e il 31 maggio del 1896, finalmente, ci fu la solenne benedizione della nuova chiesa parrocchiale dedicata al Cuore di Gesù e a S. Maria Maddalena Penitente. Una lapide ricorda che il 15 maggio 1965 questa chiesa è stata elevata dal papa Paolo VI a Basilica2. 1 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese, Forio 2000; A. Della Ragione, Ischia Sacra, Clean Edizioni, Napoli 2005, p. 62-64; A. Di Lustro, 8 luglio 1894 una grandiosa festa religiosa a Casamicciola. Benedizione della prima pietra della nuova Chiesa Parrocchiale, in “La Rassegna di Ischia”, 5, 1994, pp. 7-10; A. Di Lustro, Le Capitolazioni delle Confraternite dell’Università di Casamicciola conservate nell’Archivio di Stato di Napoli, in “La Rassegna di Ischia”, 1, 2007, pp. 39-42; A. Di Lustro - E. Mazzella, Insulanae Ecclesiae Pastores. I pastori della Chiesa d’Ischia, Fisciano, Gutenberg Editrice 2014; E. Mazzella, “L’Anonimo” Vincenzo Onorato e il Ragguaglio dell’Isola d’Ischia, Fisciano, Gutenberg Ed. 2014, p. 252.. 2 Questo tempio / Centro spirituale della risorta Casamicciola / Paolo VI / Per i voti e le preci / Di Mons. Dino Tomassini / Vescovo d’Ischia / Il 15 maggio 1965 / Elevava a dignità di Basilica / Il Comune di Casamicciola Terme / A perenne ricordo.

La chiesa presenta una pianta basilicale costituita da tre navate e nove altari, la sovrasta un soffitto ligneo a cassettoni. Entrando sulla sinistra si ammira il fonte battesimale di marmo del secolo XVIII, proviene dalla antica chiesa parrocchiale al Maio, il 1° gennaio 1844 fu battezzato il SdD Giuseppe Morgera. Accanto vi è la tomba del SdD, con la seguente iscrizione: mortalia josephi morgera qui pastor bonus et pater pauperum hic in pace christi quiescunt 1 jan. 1844 – XVII apr. 1898. Domina dall’alto la bianca tomba in marmo una lapide posta dal parroco Antonio Schiano per ricordare la traslazione delle spoglie del SdD nel 19663. Vi è l’altare con il Crocifisso in legno scolpito, opera della prima metà del secolo XIX, il SdD mentre inaugurava questo altare il 15 aprile fu colto dall’attacco di emorragia celebrale. Proseguendo si incontra l’altare dedicato alla Madonna di Pompei. L’altare di marmo posto nel transetto proviene dall’antica parrocchia, lo domina una tela raffigurante la Pietà, opera di ignoto pittore eseguita nella seconda metà del XIX secolo. Segue la teca in marmo contenente la bella scultura della Santa Maria Maddalena Penitente (mezzobusto, XVIII sec. Ignoto scultore campano), quest’opera è attribuita dal Borrelli all’artista lacchese Pietro Patalano4. La Santa è rappresentata avvolta in un 3 Giuseppe Morgera / parroco di Casamicciola / canonico onorario della chiesa cattedrale / per il suo lucido ingegno / professore di discipline letterarie e sacre / nel seminario diocesano / annunciatore della divina parola / nella diocesi e fuori / diventato modello del gregge / fatto tutto a tutti / non risparmiava fatiche / per il duplice ideale del suo ministero / una chiesa nuova ed una gente nuova / nell’atto rinnovatore / del sacrificio del calvario chiudeva la sua vita terrena / in questo tempio che egli volle maestoso / e la devozione dei figli sempre piú bello / i venerati resti mortali / del pastore buono / nell’anno del centenario dell’ordinazione sacerdotale / Antonio Schiano parroco / plaudenti autoritá e popolo / traslava / 1966 4 G. G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Paparo Edizioni, fig. 73. Per la biografia e bibliografia delle opere dei Patalono consultare il prezioso studio di A. Di Lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano tra Napoli e Cadice, Arte Tipografica, Napoli 1995; A. Di Lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano, in “La Rassegna d’Ischia”, anno VIII, n. 9 dicembre 1987;A. Di Lustro, Gli Scultori Gaetano e Pietro Patalano, in “Ricerche Contribu-

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sotto le macerie della sua casa nella catastrofe del 28 luglio 18836. Segue l’altare dedicato a San Giuseppe. Presso l’uscita si ammira una grande teca in legno contenente la statua di S. Emidio, opera della fine XIX secolo, di anonimo scultore campano. Tra le varie e belle opere si ammira il pulpito policromo realizzato in legno a cassa quadrangolare, che poggia su di una grande aquila ad ali spiegate: è una pregevole opera del XIX secolo. La sacrestia la si può considerare un vero scrigno di opere in essa si ammirano le statue di Sant’Anna, San Michele e Santa Lucia, tutte opere della seconda metà del XVIII sec., di ignoti autori campani, inoltre un San Filippo Neri, in tre teche di legno sono conservate l’Addolorata, l’Immacolata e l’Assunta, opere della seconda metà XIX sec., si ammira un altare in legno dipinto a finto marmo con Crocifisso in cartapesta modellata e dipinta (fine sec. XIX), un dipinto con Madonna e Santi della seconda metà del sec. XVIII, un dipinto raffigurante Tobiolo e l’Angelo opera di fine XVIII secolo7.

Scultura di S. Maria Maddalena penitente

manto giallo, poggia la mano sinistra su un teschio e nella destra regge un crocifisso. L’altare maggiore in marmi policromi proviene dalla distrutta chiesa parrocchiale come anche gli altari dei transetti destro e sinistro, mentre quelli delle navate furono eseguiti dopo l’inaugurazione del 1898. Nell’abside si notano la poltrona e gli sgabelli, dai piedi decorati da volute, in legno intagliato e dorato, opere di artigianato campano, fine sec. XIX. Sull’altare l’immagine del Sacro Cuore e di S. Maria Maddalena inviate da Venezia, rispettivamente il 6 marzo 1884 e il 31 luglio 1884 da un pio anonimo, probabilmente l’ex re Francesco II di Borbone, al suo amico d’infanzia, il parroco SdD Giuseppe Morgera. Nel transetto di sinistra, altare con tela raffigurante l’Assunzione, seconda metà del sec. XVIII, probabilmente dipinta dal pittore napoletano Nicola La Volpe; l’opera proviene dalla distrutta chiesa dell’Assunta in Piazza Bagni. Nella navata si incontra l’altare con la tela raffigurante la Trinità opera dell’inizio XIX sec. di un ignoto pittore campano. Proseguendo vi è a tomba di Mons. Carlo Mennella, vescovo titolare di Mennith e vescovo ausiliare di Ischia5, morto ti e Memorie”, atti relativi 1984-1999, Vol. III, pp. 25-45. 5 C. d’Ambra, Ischia tra fede e cultura, Torre del Greco 1998, p.212-214; A. Di Lustro - E. Mazzella, Insulanae Ec-

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* La piccola chiesa di Santa Maria dei Suffragi detta del Purgatorio nella frazione del Maio8, fu fondata probabilmente nel 1695. Nel 1720 venne indicata come di diritto patronato della famiglia Sacchetti, ma nel maggio del 1859 la Curia di Ischia pone nelle varie chiese dell’isola un editto in cui si annuncia e si precisa che, non trovandosi in Curia titoli di fondazione e di dotazione e non avendo per questo la chiesa una annua rendita per il suo culto e mantenimento sarebbe stata adibita ad usi profani se non si fosse presentato in Curia chi ne vantava diritto di paclesiae Pastores. I pastori della Chiesa d’Ischia, Fisciano, Gutenberg Editrice 2014, p. 65. 6 Nella lapide che sovrasta la tomba si legge: Carolus Mennella / Huius communitatis Casamicciolae / Parochus benemerentissimus / Ob humaniorum literarum / Aliarumque scientiarum doctrinam / In dioecesano seminario / Studio rum moderator diligentissimus / Ob praeclara virtutum merita / Cathedralis ecclesiae canonicus honorarius / Dehinc episcopus Mennithen I.P.I. / Antisti isclano auxiliaris renuntiatus / Incentis terrae motus / Qui die XXVIII iulii MDCCCCLXXXIII / Prima nocte / Totam insulam ex imis concussit / Et Casamicciolam a fundamentis evertit / Ruinis oppressus / Victima missiprime occubit / vixit annos XLIX et dies XXXIX / Franciscus Di Nicola antistes isclanus / Episcopo suo auxiliari acceptissimo / Moerentissimus / Posuit 7 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese, Forio 2000. 8 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese, Forio 2000; A. Della Ragione, Ischia Sacra, Clean Edizioni, Napoli 2005.


tronanza con titoli autentici. Nessuno si presentò, allora il vicario foraneo don Arcangelo Cesareo, insieme alle sorelle Maria Giuseppina e Teresa, insieme a Marianna Morgera e le sorelle Regina Parole espresse da Pedro de Borbon-Dos Sicilias, discendente di Francsco II delle Due Sicilie dopo il terremoto del 21 agosto 2017. Lettera inviata al Parroco don Luigi Ballirano e pubblicata su Facebok da Amedeo Piro

È con viva costernazione e profonda commozione che ho appreso del terribile terremoto che lo scorso 21 agosto ha colpito l'isola d'Ischia e in particolare la ridente città di Casamicciola Terme, distruggendone parte dell'abitato più antico, provocando due vittime e decine di feriti e lasciando centinaia di persone senza più nulla. La sincerità dei miei sentimenti è vieppiù ravvivata dai legami storici che già legarono la mia famiglia proprio alla città di Casamicciola, nella persona del mio avo Sua Maestà il re Francesco II delle Due Sicilie, il quale, ricordandosi dei suoi soggiorni da fanciullo presso la Casina Reale al porto d'Ischia e del Venerabile Giuseppe Morgera col quale si era intrattenuto bambino, all'indomani del terremoto del 1883 si prodigò, nella più perfetta discrezione cristiana, per la rinascita del paese e il conforto dei superstiti. Da lui furono donate anche le statue del Sacro Cuore di Gesù e di S. Maria Maddalena, che ancora campeggiano nel tempio parrocchiale ad essi dedicato, che hanno rappresentato il segno della rinascita. In quanto Capo del Sacro Ordine Militare di San Giorgio Martire, ma più ancora in quanto discendente di Francesco II delle Due Sicilie, sento la responsabilità di dover intervenire in prima persona, attraverso il Sacro Ordine di cui Ella è Cappellano, con aiuti concreti per la nuova ricostruzione di Casamicciola, la quale già più volte si è dimostrata forte e capace di riprendersi. La prego di estendere la mia vicinanza anche al Sindaco, il Prof. Ing. Giovan Battista Castagna e alle altre Autorità. Mi rendo conto dei gravosissimi compiti cui esse stanno attendendo e del lungo e delicatissimo lavoro che si prospetta; ad esse va tutto il mio più accorato sostegno. Le invio i mici più sinceri e cordiali saluti.

e Maria Grazia Mennella dotarono la chiesa, e la Curia concesse il diritto di patronato comune il giorno 12 gennaio del 1860. La chiesa fu ristrutturata nel 1890 e nel 1949 ed ancora rifatta, dopo un incendio, negli ultimi anni. La chiesa presenta un solo altare dove si venera l’Addolorata. La statua dell’Addolorata fu incoronata dal vescovo d’Ischia Mons. Antonio Pagano9. Questa statua fu salvata dall’incendio e dall’ultimo terremoto del 21 agosto, attualmente è custodita nella chiesa di S. Gabriele dei Padri Passionisti. Il popolo di Casamicciola è molto legato al culto dell’Addolorata, la cosiddetta “Madonna di notte”, un’antica processione che, nella notte del Venerdì Santo, tocca sette chiese del comune in ricordo dei sette Dolori di Maria Addolorata, partendo dalla Chiesa di S. Maria della Pietà alla Marina per percorrere i Rioni della Marina, Perrone, S. Pasquale, Piazza Bagni fino a giungere all’alba del sabato Santo presso la Basilica di S. Maria Maddalena. In sacrestia si conservano due dipinti: l’Assunta opera di un anonimo artista campano dell’Ottocento ed una Sacra Famiglia, settecentesca, eseguita da un modesto artista vicino ai modi di Francesco Solimena10. * La Chiesa di S. Pasquale Baylon, fondata nella metà del 1700 da Francesco Antonio Corbera, figlio di Cesare e nipote di S. Giovan Giuseppe della Croce. Pervenne ai Mancuso, Baratelli, De Sanctis, eredi, in linea femminile, dei Corbera. Nel 1889, in seguito a trattative condotte da Antonio Morgera, la concedettero alla Congrega di Sant’Anna. La chiesa aveva già accolto, dopo il terremoto del 1881, la pia opera laicale Santa Maria del Suffragio, istituita nel 1872 dal sacerdote Vincenzo Piro nella chiesa del Purgatorio al Maio, che fu appunto distrutta dal terremoto del 4 marzo 1881. Sull’altare maggiore in marmo troneggia la statua lignea di San Pasquale Baylon. Si ammirano le statue di Sant’Antonio da Padova, di S. Giovan Giuseppe della Croce, di San Ciro. Due altari laterali, uno dedicato a Sant’Anna, l’altro all’Addolorata. Da ammirare l’artistica Via Crucis, opera di Luigi Marta, dono della contessa Giulia Von der Pahler in Samoyloff nel 1844. * La Chiesa e Congregazione di S. Maria della Pietà11 che accoglie nelle sue mura l’antica 9 E. Mazzella, Le Madonne Incoronate, in “La Rassegna di Ischia”, n° 3, 2017, p. 26. 10 A. Della Ragione, Ischia Sacra, Clean Edizioni, Napoli 2005, p. 71. 11 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue

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Congregazione di S. Maria della Pietà, detta anche “Oratorio”, situata, prima del terremoto del 28 luglio 1883, al Maio, congregazione che risale agli inizi del 1600. Sull’altare di marmo si ammira la preziosa Pietà opera del Vaccaro12. Da notare le statue di San Giovanni, della Madonna, del Cristo Risorto opere protagoniste della tradizionale cerimonia della “Gloria” nella domenica di Pasqua, nonché quelle di San Gabriele, del Cuore di Gesù, di San Giuseppe e dell’Addolorata. Sulle pareti, in alto, tele raffiguranti i sette dolori di Maria: la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto, Ritrovamento di Gesù al Tempio, L’incontro di Maria e Gesù che sale al Calvario, la Crocifissione, La deposizione dalla Croce, la Sepoltura di Gesù. * La chiesa del Buon Consiglio13, detta anche la Chiesa dei Marinai, fu fondata da un gruppo di patroni marittimi, i cui nomi sono scolpiti in una lapide di marmo entrando a destra. Questi “si costituirono innanzi al notaio D. Ignazio Monti” per la costruzione di una chiesa da dedicare al culto della Madonna del Buon Consiglio, di S. Giovanni Battista e delle Anime del Purgatorio. I lavori iniziarono nel 1821, dopo l’acquisto del suolo in piazza Marina. La prima Messa fu celebrata il 1° novembre 1824 dal Vescovo Mons. Giuseppe D’Amante. Con rescritto reale del 16 gennaio 1833 venne riconosciuta ai compatroni l’amministrazione in proprio della chiesetta, il che consolidò il diritto di patronato già riconosciuto con decreto del 1826. La piccola chiesa venne ampliata nel 1883, distrutta la Parrocchia di S. Maria Maddalena al Maio, vi fu temporaneamente trasferita la cura parrocchiale. L’interno della chiesa è costituito da un›unica navata. Sui lati, fin dalle origini, furono collocati due altari: uno dedicato alle Anime del Purgatorio e l›altro a S. Giovanni Battista. Nel 1929 le pareti sono state rivestite di marmo. Sull›altare maggiore vi è un quadro d›autore ignoto, dedicato alla Vergine del Buon Consiglio. Si nota una statua che si presume costruita, verso la seconda metà del ‹700, da ignoti artisti laziali ed acquistata dai compatroni che, per motivo di commercio, frequentavano quei lidi. Si ammirano gli affreschi dell’artista Canino. Una lapide sul pavimento, la bocca di una chiese op. cit., p. 14. 12 A. Della Ragione , Andrea Vaccaro opera completa , Editore Napoli Arte, Napoli 2014; E. Mazzella, L’Anonimo Vincenzo Onorato e il Ragguaglio dell’Isola d’Ischia, Fisciano, Gutenberg Editrice 2014, p. 252. 13 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese op.cit., p. 13.

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delle due antiche sepolture presenta una iscrizione molto interessante:”Siste navita / qui templum istud aere collato struxisti / memento / quod huc fortunae manebunt / consule / ut bene sancteque obeas feliciterque resurgas”.14 La chiesa racchiude non poche statue entrando sulla sinistra si ammirano: Sant’Antonio, l’Addolorata, l’Immacolata e il Cuore di Gesù, inoltre vi sono alcuni dipinti il Battesimo di Gesù Cristo e la Vergine del Buon Consiglio. Di questa chiesa, secondo Cervera15 esisteva la seguente tradizione: “Allora, quando un veliero salpava per recarsi nel Lazio o in Liguria, cioè verso ponente dove il percorso era più rischioso, le campane della chiesa accompagnavano il veliero, finché questo non scompariva all’orizzonte. Al ritorno la scena si ripeteva dal primo apparire del veliero fino all’attracco.” * La chiesa dell’Immacolata16, nella frazione della Sentinella, è stata costruita nel XX secolo, tra edifici storici, che ricordano il soggiorno di illustri personaggi, come Benedetto Croce e Ibsen,. La Chiesa della Santissima Immacolata sorge sul luogo dove era un edificio religioso intitolato a Sant›Antonio da Padova, del 1703. A tale proposito lo storico isolano Giuseppe d’Ascia, nella sua monumentale «Storia dell’isola d’Ischia», scrive: «Altra piccola chiesa dedicata all’Immacolata e S. Antonio di Padova, abbellita ed ampliata da pochi anni. È fornita di quattro altari, uno di marmo, ed attira la devozione dell’intero Comune di Casamicciola (…)» (d'Ascia, 1867) Questa chiesa, descritta brevemente dal d’Ascia, che scrive nel 1867, fu distrutta dal terremoto del 1883 ed era intitolata sia all’Immacolata sia a S. Antonio da Padova. Nello specifico, l'intitolazione a Maria SS. Immacolata risale al 1855. La chiesa, infatti, possiede una statua in legno della Madonna opera settecentesca di scuola napoletana, che si narra sia stata ritrovata sotto le macerie dell’edificio, dopo l’evento sismico del 1883, da tre soldati. La statua è stata incoronata solennemente il giorno 3 ottobre 19545 , anno mariano, per decreto dell’11 gennaio 1954 del Capitolo Vaticano; il sacro rito fu presieduto dal Cardinale Celso 14 “Férmati navigante, / che costruisti questo tempio con denaro raccolto / ricorda / che qui rimarranno i tuoi beni / provvedi / a che tu muoia bene e santamente per felicemente risorgere” 15 G. Giuseppe Cervera, Guida d’Ischia, 1959. 16 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese op. cit., p. 21.


Costantini, Cancelliere di Santa Romana Chiesa accompagnato dal Cerimoniere Pontificio Mons. Fattinnanzi. La corona della Madonna fu realizzata dall’orafo Visconti17. L’edificio è formato ad unica navata, con abside semicircolare. La facciata principale si presenta molto semplice e si conclude con un timpano triangolare. A destra si nota un campanile a pianta quadrata. * La Chiesa di San Giuseppe al Fango, purtroppo, mostra gravi danni alla struttura. La sua costruzione dovrebbe risalire al XVI secolo, ma la bolla di fondazione, con la concessione del patronato alla famiglia Verde di Forio, è datata 1714. Nel 1712 la sacrestia e la chiesa erano completate. Il suo aspetto attuale risale a metà degli anni Sessanta del Novecento, quando, dopo alcuni lavori fu riaperta al culto nel 1969. Nel 1973 fu terminato il campanile. L’edificio ha un solo ambiente, con una pianta quasi pentagonale, abbellita da vetrate colorate che da sinistra a destra rappresentano l’Annunciazione, la Natività, la Presentazione al tempio e San Giuseppe. La facciata è molto semplice, priva di frontone, arricchita da una 17 E. Mazzella, Le Madonne Incoronate, op. cit., p. 25.

vetrata del 1990 realizzata da Antonio Virgilio, dove è raffigurata “L’Apoteosi di S. Giuseppe”. Il portale d’ingresso è realizzato in pietra lavica, con alla base rosoni in rilievo. * Il primo documento che parla della Chiesa di S. Rocco è un atto notarile di Polidoro Albano nel 1542 18. Il terremoto del 1883 distrusse l’edificio. Prima di tale data, la struttura era maggiore rispetto a quella attuale, con otto archi, un soffitto a botte, con decorazioni in stucco. I primi lavori di ristrutturazione furono affidati all’ingegnere Carlo Mennella di Casamicciola e consentirono una parziale riorganizzazione, dovuta agli scarsi fondi. Nel 1885 il Comitato Centrale di Soccorso per i terremotati di Ischia accordò un sussidio di 1200 lire alla Congrega di S. Anna, ma i lavori si protrassero fino al 1889 e costarono 4.000 lire, la somma fu recuperata grazie all’intervento dei confratelli e i fedeli di Lacco Ameno. Nel 1960 un temporale danneggiò le strutture portanti della chiesa, e fu solo negli anni Settanta, che fu possibile eseguire i lavori necessari. La facciata della chiesa è semplice e lineare, arricchita da un portale in pietra di piperno del XVII secolo. A fianco vi è il campanile, che non è quello originale crollato nel 1883, ma è stato ricostruito dall’ingegnere Antonio Castagna, anche in questo sisma ha riportato alcuni danni, ed attualmente sono in corso i lavori di ripristino. Sopra il portale risalta una pannello in maiolica raffigurante S. Rocco e S. Anna sullo sfondo di Monte Vico ed il “Fungo. Nel timpano da notare l’orologio in marmo con cifre e sfere in bronzo. L’interno si presenta ad una sola navata, con una cupola che si innalza all’altezza del presbiterio. Lungo la parete destra si aprono due cappelle, la prima dedicata a S. Antonio da Padova, la seconda a S. Gioacchino, S. Anna con Maria Bambina. A sinistra, invece, troviamo una sola cappella dedicata a S. Rocco. Sulla parete di fondo del presbiterio vediamo due tele, della prima metà del Settecento raffiguranti San Rocco e San Francesco. Sulla parete sinistra troviamo un dipinto Madonna con il bambino in braccio della fine dell’Ottocento, di un ignoto pittore campano. * La Chiesetta del Purgatorio o di S. Michele, che sorge in località Scentone nel comune di Forio attira subito lo sguardo del turista per la

Lacco Ameno - Chiesa di San Giuseppe al Fango

18 G. Castagna - A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese op. cit., p. 47.

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particolare forma della facciata di uno stile particolare. L’atto ufficiale di fondazione di questa chiesa è una pergamena del Vicario Capitolare di Ischia, Daniele Morgioni, datata febbraio 174319 Purtroppo i pochi documenti esistenti nella chiesa non fanno alcun riferimento al progettista, al direttore dei lavori e alle maestranze che hanno realizzato la costruzione della chiesa. Il terremoto del 28 luglio 1883 danneggiò la cupola per cui rimase per alcuni anni chiusa al culto. Anche il sisma del 21 agosto ha recato alcuni danni alla chiesa. L’aspetto più interessante di questa chiesa è quello architettonico. La costruzione è preceduta da un sagrato quadrato, circondato da sedili scolpiti in pietra e sopraelevato di alcuni gradini rispetto al livello stradale. La facciata è delimitata da due pilastri laterali, sporgenti come contrafforti, ed è divisa in due ordini senza alcun ornamento di stucco e con semplici cornici. Nella parte bassa della facciata si aprono due nicchie lateralmente al portale di pietra lavica grigia. L’interno della chiesa si presenta ad una sola navata. Presenta un solo altare completamente rifatto in seguito agli ultimi lavori di sistemazione, sul quale pende una grande tela raffigurante la Madonna delle Grazie, S. Giovanni Battista, S. Michele e le Anime Purganti attribuita ad Alfonso Di Spigna20 dall’Alparone21. Attualmente l’opera è conservata nel Museo Diocesano di Ischia.

19 A. Di Lustro, La chiesa del Purgatorio di Forio compie 250 anni (1743-1993), in “La Rassegna d’Ischia”, 1, 1993. 20 A. Di Lustro - E. Mazzella, Le Madonne della Misericordia dell’isola d’Ischia storia arte e pietà popolare, Fisciano Edizioni Gutenberg 2016, p.60. 21 E. Persico Rolando, Dipinti dal XVI al XVIII secolo nelle chiese di Ischia, Edizioni Graphotronic, p. 90.

Opere di varie chiese danneggiate dal terremoto del 21 agosto 2017 e trasportate, per salvaguardia, nel Museo Diocesano di Ischia 10 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017


Nuovi aspetti e problemi posti dagli scavi di Pithecusa con particolari considerazioni sulle oreficerie di stile orientalizzante antico di Giorgio Buchner Estratto da : Contribution à l’étude de la Société et de la Colonisation Eubéenne (Centre Jean Bérard, Naples 1975) II Ma ritorniamo a Pithecusa. Non discuterò delle informazioni riguardanti il commercio, perché non potrei aggiungere molto alle cose già note: i numerosissimi sigilli del Lyre-player Group provenienti dalla Siria settentrionale, gli scarabei e gli amuleti egiziani o egittizzanti ugualmente numerosi (che ora vengono studiati in modo approfondito dal Dott. Fulvio De Salvia), la ceramica fenicia presente tanto con anfore quanto con vasi di piccole dimensioni, le anfore SOS molto frequenti, la ceramica geometrica apula, le anforette d’impasto dall’Etruria meridionale, etc. Non tratterò nemmeno dell’industria ceramica, alla quale ho già accennato, e come il materiale proveniente dagli abitati abbia allargato e completato in misura inaspettata l’immagine della ceramica di produzione locale che prima era limitata a quella deposta nelle tombe, rivelando l’esistenza di una classe di ceramica euboica tardo-geometrica, spesso figurata, fabbricata a Pithecusa; e come questa scoperta faccia conoscere finalmente la fonte dalla quale deriva quella ceramica geometrica localmente prodotta in Etruria la cui ispirazione vagamente cicladica era stata da tempo notata. Né parlerò delle testimonianze dell’industria siderurgica — oltre a quelle cui ho già accennato rinvenute nell’abitato di Mazzola, vi sono quelle provenienti dallo scarico Gosetti —, loppe e scorie di ferro, bocche di mantice da forno siderurgico e, particolarmente significativo, un pezzo di minerale di ferro allo stato naturale sicuramente proveniente dall’isola d’Elba1. Tralascerò anche le informazioni sull’uso della scrittura a Pithecusa nell’VIII sec. e voglio accennare soltanto che alla ormai da tempo famosa cosiddetta «Coppa di Nestore» si è aggiunto un numero considerevole di graffiti, sempre dell’VIII sec, alcuni dalla necropoli, ma la maggior parte proveniente dagli abitati (Mazzola e scarico Gosetti), anche se non sono così spettacolari essendo o frammentari o molto brevi, ed inoltre una firma di pittore vascolare, dipinta su un cratere tardogeometrico di fabbrica locale, da Mazzola, purtroppo mancante dell’inizio del nome. 1 Vedi G. Buchner, Mostra degli scavi di Pithecusa, in Dial. di Archeol., III, 1-2, 1969, p. 97 sq. e fig. 10 a-d; id., Arch. Rep., 1970-71, p. 66; J. Klein, A Greek Metalworking Quarter: Eighth Century Excavations on Ischia, in Expedition, 14, 2, 1972, p. 34-39.

Vi si legge...] ινος μ' ε̉ποίεσε — ed è la più antica firma di pittore che si conosca2. È confermato dunque abbondantemente che la scrittura era di uso corrente a Pithecusa nella seconda metà dell’VIII sec. Vorrei soffermarmi invece su una circostanza che finora non è stata ancora chiaramente rilevata, e cioè che la necropoli di Pithecusa era divisa in appezzamenti familiari. Come è noto, cremazione ed inumazione sono state usate contemporaneamente a Pithecusa. La cremazione era riservata in genere agli adulti — uomini e donne — ma ci sono anche alcuni casi di giovanetti cremati. Le tombe a cremazione dell’VIII e VII sec. finora rinvenute a Pithecusa sono senza eccezione a tumulo. Si tratta di piccoli tumuli del diametro di 1,50-4 m., alti in origine ca. 1,00-1,50 m., i quali coprono una lente di terra nera di forma tondeggiante che costituisce gli avanzi del rogo. I roghi non furono mai accesi sul posto dove fu eretto il tumulo, ma su un ustrino nelle vicinanze, che non è stato ancora scoperto, e da dove tutti gli avanzi indistintamente furono portati sul posto della sepoltura definitiva ed accumulati in genere in un leggero incavo, talvolta anche direttamente sulla superficie pianeggiante del piano di campagna, e ricoperti col tumulo. Si trovano perciò nella lente di terra nera, misti in giacimento caotico, i frammenti di ossa cremate, di vasi e di ornamenti personali bruciati e legno carbonizzato. Inumati furono invece i bambini e fanciulli, in alcuni casi anche adolescenti e giovani intorno ai 18-20 anni. Le tombe ad inumazione sono a fossa, in genere con cassa di legno, sul coperchio della quale furono posate alcune pietre, mentre altre pietre di rincalzo furono spesso incastrate tra la cassa e le pareti della fossa. I neonati sono sepolti ad enchytrismos, in anfore o più raramente in pithoi. In superficie, le tombe ad inumazione erano contrassegnate da segnacoli costituiti da cumuli più o meno grandi di pietre. Soltanto in rari casi, e per tombe ad inumazione particolarmente ricche, fu eretto al di so2 Vedi G. Buchner, Arch. Rep., 1970-71, p. 67, fig. 8 (disegno); J. Klein, Expedition, 14, 2, 1972, fig. 5, 6 (fot.); vedi anche E. Peruzzi, Origini di Roma, II, Bologna, 1973, p. 24-28, tav. III (buona riproduzione fotografica in scala più grande dei frammenti del cratere con iscrizione dipinta), tav. IV (due frammenti con graffiti da Pithecusa).

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pra della fossa un vero e proprio tumulo, costruito in modo identico ai tumuli a cremazione. Un gruppo a parte formano le contemporanee sepolture ad inumazione senza corredo, in fosse che sono in genere molto meno profondamente scavate, sempre senza cassa di legno e senza pietre. Talvolta il morto si trova in posizione rannicchiata, cosa che non si riscontra mai tra i sepolti con corredo che sono sempre in posizione supina. La pianta della necropoli, a prima vista, presenta una disposizione caotica delle tombe, nella quale non sembra possibile di scorgere alcun sistema. La chiave per capirlo è fornita dai tumuli delle tombe a cremazione. I singoli tumuli non sono isolati, ma formano degli agglomerati, i quali a loro volta sono invece isolati. Entro ciascun agglomerato i tumuli sono stati successivamente agglutinati al tumulo precedente. Per l’agglutinazione sono stati impiegati due metodi diversi (vedi lo schema in figura). Nel primo, e più economico, la base del muro perimetrale del tumulo successivo non forma un cerchio intero, ma abbraccia una parte del tumulo preesistente, che viene parzialmente coperto e inglobato. In tal caso la terra nera del tumulo B si trova immediatamente accostata alla faccia esterna della base del muro perimetrale del tumulo A. Nel secondo metodo un tratto più o meno grande del tumulo A viene addirittura demolito e poi ricostruito inglobandolo nel tumulo B. In questo caso la lente di terra nera del tumulo B si trova immediatamente accostata oppure parzialmente sovrapposta a quella di A. Soltanto in rari casi avviene che entro il medesimo agglomerato un tu-

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mulo non sia in questi modi agglutinato ad uno preesistente, ed anche allora i tumuli non sono veramente isolati, ma sempre strettamente accostati. È evidente che questi agglomerati di tumuli intenzionalmente concatenati devono rappresentare tombe successive di membri di una stessa famiglia. Una parte degli agglomerati scoperti si sono potuti mettere soltanto parzialmente in luce. Tre agglomerati, di cui due sono a loro volta congiunti e sono da considerarsi piuttosto come unico, sono stati invece interamente scavati. Ciascuno copre una striscia di terreno lunga da 14 a 17 m. ca. e larga da 6 a 10 m. Segnali di termini, che pur dovevano esistere in origine, non si sono potuti osservare. Forse si può immaginare che fossero costituiti da paletti di legno. Le fosse delle tombe ad inumazione dei bambini e giovani furono scavate nello spazio ancora libero da tumuli. Mano mano che aumentava il numero delle sepolture a cremazione di un appezzamento familiare, le tombe a fossa venivano coperte dai tumuli. Abbiamo perciò entro ciascun appezzamento tanto una successione stratigrafica orizzontale, molto chiara soprattutto p;r le tombe a cremazione, che una successione stratigrafica verticale, con la sovrapposizione dei tumuli alle tombe ad inumazione. Si ricava così un grandissimo numero di dati per la cronologia relativa delle singole tombe e dei loro corredi. Ma questo non è tutto. Oltre alle informazioni utili alla ricerca antiquaria, scaturiscono anche informazioni sulla struttura demografica e sulla struttura sociale degli abitanti di Pithecusa. Una approfondita elaborazione dei dati di statisti-


ca demografica non è stata nemmeno iniziata ancora, ed appare del resto opportuno attendere che alle 592 tombe dell’VIII e VII sec. che vengono ora pubblicate nel volume «Pithecusa I» (insieme a 131 tombe più recenti) si possano aggiungere le tombe dello scavo successivo, in parte ancora da completare, e che saranno di numero all’incirca uguale. Vogliamo accennare soltanto che praticamente per tutte le tombe con corredo dell’VIII e VII sec. è stato possibile accertare il sesso dell’individuo. È apparso infatti con chiarezza che tutti gli individui che portano una o più fibule su ciascuna spalla (comprendenti fibule di tutti i tipi con arco a curva semplice) sono femminili, mentre quelli senza fibule o con una sola fìbula ad arco serpeggiante su una spalla o sul petto sono maschili. Ugualmente si può determinare così anche il sesso dei cremati in base alle fibule. Per quanto riguarda l’età degli individui inumati è stato possibile determinarla in molti casi con precisione in base ai denti3, in altri, dove questi non sono conservati, almeno approssimativamente in base alla lunghezza dello scheletro. Anche per le 112 tombe a cremazione sarà possibile accertare per lo meno in modo approssimativo l’età degli individui in base allo studio delle ossa cremate, che rimane ancora da compiere. (Le ossa cremate, anche se sono molto frammentarie, si conservano tuttavia incomparabilmente meglio delle ossa inumate che a S. Montano sono sempre in pessime condizioni, mentre non si conservano invece praticamente mai i denti dei cremati). Per quanto riguarda le informazioni sulla struttura sociale sono da ricordare anzitutto le tombe ad inumazione senza corredo o con corredo poverissimo che sono frammischiate, nello stesso appezzamento familiare, a quelle con corredo. A volte sono isolate, a volte accentrate in gruppi più fitti. Che non si tratti di tombe più recenti è dimostrato dal fatto che sono ugualmente sottoposte ai tumuli delle tombe a cremazione. A differenza delle tombe ad inumazione con corredo, un buon numero di esse appartiene ad individui adulti o comunque sviluppati in altezza. Quasi sempre si tratta di fosse molto meno profondamente scavate rispetto al livello del piano di campagna antico (che è indicato dal livello della base dei tumuli), spesso molto strette e corte, appena sufficienti per contenere il cadavere che non è mai deposto in una cassa di legno. Mentre avviene soltanto raramente che una fossa con corredo venga tagliata altro che marginalmente, e senza danneggiare il suo contenuto, da una successiva fossa con corredo, si osserva abbastanza frequentemente che scheletri senza corredo sono stati tagliati senza alcun rispetto da fosse con corredo. Si tratta evidentemente di individui di infimo rango sociale che venivano considerati con poco riguardo, sebbene venissero sepolti negli stessi appezzamenti familiari in mezzo alle tombe con corre3 F. R. Munz, Die Zahnfunde aus der griechischen Nekropole von Pithekoussai auf Ischia, in Arch. Anz., 1970, p. 452-475.

do più o meno ricco. Non possono essere che schiavi o servi appartenenti alla famiglia. Passando alle tombe con corredo, è da osservare che lo stato socio-economico dell’individuo sepolto, ovvero dei suoi genitori quando si tratta, come nella maggioranza dei casi, di tombe di bambini, non è determinato tanto dalla maggiore o minore quantità della ceramica contenuta nella tomba, quanto dagli ornamenti personali e particolarmente dalla specie di metallo di cui consistono. Le tombe pithecusane più antiche sono in genere molto povere di ceramica e spesso contengono soltanto una semplice oinochoe e una tazza, kotyle o skyphos, anche quando il morto è adornato da una parure relativamente ricca tutta d’argento, con fibule, anelli fermatreccia e collana con pendagli. L’uso di deporre nella cassa un numero spesso molto rilevante di balsamari — aryballoi e lekythoi — si afferma soltanto nel periodo LG II ed anche nelle tombe di questo periodo un numero maggiore di vasi non sempre corrisponde a ornamenti personali di metallo prezioso. Tutte le tombe con corredo finora rinvenute a Pithecusa appartengono a famiglie di ceto medio e medio-basso, come si rileva dal fatto che mancano quasi completamente ornamenti personali di oro e sono molto rari quelli di elettro. Tra i diversi appezzamenti familiari si possono osservare delle differenze che evidentemente denotano un livello socio-economico diverso delle singole famiglie. Non possiamo entrare in una analisi più dettagliata dei singoli gruppi di tombe. Voglio ricordare soltanto due esempi. In uno degli appezzamenti familiari interamente scavati, che inizia con un tumulo appartenente alla fine del periodo LG I e termina con tumuli del pieno LG II, tutte le sepolture a cremazione femminili e parte delle sepolture ad inumazione femminili posseggono quella che era la parure standard delle donne di Pithecusa di un certo livello medio o medio-superiore: su ciascuna spalla una fibula a sanguisuga di lamina d’argento, talvolta accompagnata da una o più fibule di bronzo e in testa due anelli fermatreccia a spirali d’argento o spesso anche d’argento placcato con sottilissima lamina d’oro, ai quali si aggiunge frequentemente una collana di pendaglietti a globo o a ghianda di sottilissima lamina d’argento e più raramente una coppia di larghi bracciali di lamina ondulata d’argento. (A questo appezzamento appartiene anche la tomba a cremazione che conteneva la famosa «coppa di Nestore ). In un altro appezzamento familiare che non è stato interamente scavato, quasi tutte le tombe a cremazione come ad inumazione, sono prive di oggetti d’argento e contengono invece fibule e anelli fermatreccia a spirale di bronzo. Nello stesso appezzamento sono particolarmente frequenti vasi locali d’impasto, che altrimenti si riscontrano soltanto molto raramente. Tra le tombe maschili ci sono alcune che contengono una piccola accetta di ferro — probabilmente uno strumento da carpentiere — e una di un giovane di ca. 21 anni, ad inumazione, con un intero arsenale di 11 istrumenti di ferro, accetta, scalpelli, punteruoli, coltello, anche La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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essi di carpentiere. Abbiamo dunque una famiglia di artigiani, di livello sociale notevolmente più basso, che tuttavia possedeva anch’essa degli schiavi, come è attestato dalla presenza di tombe meno profonde senza corredo. Gli appezzamenti familiari sono stati in genere rispettati a lungo e soltanto nella seconda metà del V sec, quando ormai i tumuli antichi erano interamente scomparsi sotto terra, per il continuo apporto di terreno alluvionale dilavato dalle colline circostanti, si riprese a seppellire nuovamente nella stessa area senza tenere più alcun conto delle sottostanti sepolture antiche. A prescindere da alcuni casi di sepolture isolate — come per es. quello di un piccolo gruppo di sepolture del periodo LG I, una tomba a cremazione a tumulo con due tombe ad inumazione di bambini, che si trovano sotto l’appezzamento caratterizzato dalle parures di argento — abbiamo un solo caso in cui un appezzamento contenente tombe del periodo LG I e LG II è stato riassegnato ad un’altra famiglia nel periodo Medio-protocorinzio e da questa usato fino al periodo del Corinzio-medio. Ciò che restava fuori terra dei tumuli più antichi è stato demolito allora, e i nuovi tumuli sono stati sovrapposti. Ma si tratta, ripeto, di un caso eccezionale, presumibilmente dovuto al fatto che la famiglia si era estinta o era emigrata. In genere tombe del VII sec. non si trovano sovrapposte o frammiste a tombe dell’VIII sec. Indicazioni di appezzamenti familiari sono stati finora raramente osservati in necropoli greche dell’VIIIVII sec. Si conosce soltanto qualche caso in cui è stata trovata una recinzione in superficie. È da pensare tuttavia che questo costume sia stato molto più diffuso, se non di uso generale, soltanto che è difficile accorgersene quando non si sono conservate tracce della delimitazione dei singoli appezzamenti4. Come abbiamo già accennato, mancano interamente, tra le tombe finora scavate ad Ischia, sepolture di individui appartenenti al ceto sociale più elevato, quello dei nobili guerrieri. Nessuna tomba contiene infatti un’arma. Ma sarebbe errato voler dedurre da ciò che a Pithecusa vivessero soltanto commercianti ed artigiani. Non possiamo aspettarci di trovare tombe a cremazione con armi frammischiate negli stessi appezzamenti familiari caratterizzati da tombe maschili senza armi. La loro mancanza deriva soltanto dal caso che finora non ci ha fatto trovare ancora un appezzamento appartenente ad una famiglia del ceto nobile. Dalle tombe a cremazione presso la Porta Occidentale di Eretria e da quelle del tutto analoghe, soltanto che sono in parte più ricche, trovate a Cuma, sappiamo come erano fatte queste tombe dei nobili, che senza dubbio devono essere ancora nascoste nella valle di S. Montano. A differenza delle tombe a cremazione di persone di 4 Cf. D. C. Kurtz and J. Boardman, Greek Burial Customs, London, 1971, p. 56.

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ceto medio, per quelle del ceto nobile si raccoglievano i frammenti delle ossa bruciate che venivano avvolte in un panno e deposte in un lebete di bronzo. Per gli uomini il corredo consiste in un numero più o meno grande di armi, spade e cuspidi di lancia di ferro, poste sopra o intorno all’urna, e di ornamenti personali deposti entro l’urna, per le donne soltanto in ornamenti personali. Ceramica non è stata mai deposta in queste tombe, con una sola eccezione a Cuma. Delle 6 tombe a cremazione del piccolo sepolcreto presso la Porta Occidentale di Eretria5 4 contenevano armi, in numero variabile da una sola cuspide di lancia nella tomba 8 fino alle 4 spade di ferro, 5 cuspidi di lancia di ferro e una di bronzo della tomba più ricca n. 6; una tomba era femminile, contenente soltanto ornamenti personali, e una senza corredo. La copertura del lebete può essere formata da un secondo lebete capovolto, più spesso da un coperchio di piombo e anche da un disco di pietra. La protezione delle tombe consiste in una cassetta formata da lastre irregolari di pietra. In un caso, la tomba femminile 10, il lebete è custodito in un’unica grande pietra di forma cilindrica, incavata nel mezzo. Da Cuma conosciamo 7 tombe di questo tipo, 6 dagli scavi Stevens6, più la tomba scavata da Pellegrini nel fondo Artiaco7. Tutte le tombe di Cuma hanno il lebete posto entro una custodia formata da un cubo o parallelepipedo di tufo nel quale è scavato un vuoto che contiene l’urna, una differenza rispetto a Eretria dovuta ovviamente alla disponibilità del tufo vulcanico di facile lavorazione. 4 delle 7 tombe cumane presentavano entro il lebete di bronzo ancora un’urna d’argento che conteneva le ossa cremate. In quattro casi il lebete era coperto con uno scudo di lamina di bronzo decorata a sbalzo con motivi geometrici. È da notare che due di queste sono sicuramente femminili. In un caso lo Stevens ha notato tre cuspidi di lancia di ferro poste all’esterno del ricettacolo di tufo. Altre due delle 6 tombe Stevens con lebete sono presumibilmente maschili perché contengono fìbule ad arco serpeggiante, ed è facile che resti mal conservati di armi di ferro poste all’esterno siano sfuggite alla attenzione. La più ricca di tutte è la spettacolare tomba del fondo Artiaco che per fortuna è stava scavata e pubblicata accuratamente già 70 anni fa, cosa tanto più meritevole in quanto una buona parte del corredo è stata in seguito dispersa nel Museo Nazionale di Napoli. Ed è proprio a questa tomba che si collegano gli argomenti dei quali vorrei ancora parlare. 5 Eretria III: C. Bérard, L’Hérôon à la Porte de l’Ouest, Berne, 1970. 6 E. Gabrici, Cuma, in Mon. Ant. Linc, XXII, 1913: tomba 1 (col. 214), II (col. 214 sq.), XI (col. 223 sq.), XLIII (col. 248 sq.), LVI (col. 259-61), LIX (col. 264). 7 G. Pellegrini, Tombe greche arcaiche e tomba greco-sannitica a tholos della necropoli di Cuma, in Mon. Ant. Linc, XIII, 1903, col. 201-295, per la tomba a cremazione v. col. 225-263, 286 sq.


Si tratta di problemi di vasta portata di cui nessuno si è mai reso chiaramente conto, anche perché soltanto ora, con la scoperta delle tombe pithecusane, la questione appare in tutta la sua evidenza.

La tomba del fondo Artiaco Sarà opportuno premettere un breve inciso sulla datazione della tomba del fondo Artiaco. È questa l’unica tomba a cremazione appartenente ad un individuo della classe nobile, tra quelle finora conosciute da Eretria e da Cuma, che contenga un vaso di ceramica e fortunatamente di un tipo caratteristico: una grande anfora attica del tipo SOS, che doveva essere piena di olio o di vino. Con ciò la tomba costituisce un caposaldo della massima importanza per la datazione dei vari tipi di oreficerie e degli altri oggetti di metallo che formano il suo corredo. Di questo si è accorto per primo W. Johannowsky nel 19678, mentre è stato poi più ampiamente considerato da Ingrid Strøm nel suo recente libro sull’origine e lo sviluppo dello stile orientalizzante dell’Italia centrale9. Come hanno visto Johannowsky e la Strøm, e come posso confermare pienamente, l’anfora della tomba del fondo Artiaco appartiene senza alcun dubbio al tipo più antico delle anfore SOS, di cui un esemplare proveniente dal Kerameikos può essere datato intorno al 730-725. E diversi esemplari simili sono usciti anche dalla necropoli di Pithecusa in contesti databili fin entro l’ultimo quarto dell’VIII sec. La tomba del fondo Artiaco non può scendere perciò in nessun caso oltre il 700 e molto probabilmente risale a 10 o 20 anni prima della fine del secolo. Come ha già osservato la Strøm, non è valida la opinione di Guzzo che vorrebbe attribuire l’anfora SOS della tomba del fondo Artiaco a una forma più tarda della serie e data perciò la tomba nella «prima metà del VII sec, forse intorno al 680-670»10. Ingrid Strøm osserva giustamente che quasi tutti i 52 oggetti di metallo contenuti nella tomba appaiono di carattere puramente etrusco, lo scudo di lamina di bronzo con decorazione geometrica a sbalzo, le numerose armi di ferro, e soprattutto le oreficerie, 5 fibule serpeggianti a bastoncini e globetti di elettro e argento, i due fermagli a pettine, il fermaglio a spranghe con sfingi e teste umane, la lamina d’oro, ecc. La studiosa conclude perciò, come già molti altri hanno 8 W. Johannowsky, Dial. di Archeol., I, 2, 1967, nota 86 a p. 182. 9 I. Strøm, Problems Concerning the Origin and Early Development of the Etruscan Orientalizing Style, Odense Univ. Press, 1971, p. 112 sq.; le note 153-157 a p. 233-237 contengono un elenco molto utile di anfore SOS, diviso per gruppi cronologici e località di rinvenimento. 10 P. G. Guzzo, Su due classi di affibbiagli etruschi del VII sec. a.C, in Stud. Etr., 36, 1968, p. 277- 307: v. p. 288 n. 2 sulla datazione dell’anfora SOS della tomba del fondo Artiaco. In seguito lo stesso Guzzo ha ammesso che la datazione più alta dell’anfora è «indubbiamente più solida» (Arch. Class., 24, 1972, p. 163).

fatto prima di lei11, che la tomba deve appartenere a un guerriero etrusco, forse residente a Cuma, ma sepolto con un corredo in massima parte appartenente al suo paese d’origine. La stessa Strøm osserva giustamente che anche da altre tombe cumane provengono numerosi oggetti di tipo prettamente etrusco, altri scudi di bronzo, lamine d’oro con decorazione a sbalzo, fibule d’argento, fermagli, che si possono trovare elencati nel suo libro. Secondo la Strøm la presenza di questi oggetti a Cuma è dovuta a scambi commerciali con l’Etruria, sarebbero cioè oggetti di fabbricazione etrusca, importati dall’Etruria. Sia detto qui che Pithecusa ha dato finora un solo esemplare di lamina d’oro decorata a sbalzo che rientra anch’esso perfettamente nella classe delle lamine cosiddette etrusche. Si tratta di una fascia, o tenia, che era avvolta intorno al capo di un infante dell’età di ca. 9 mesi, di sesso maschile. Vi si alternano cerchi concentrici, c.d. pal-mette fenicie e leoni con la testa rivolta indietro; negli interstizi si ripete il motivo delle piccole S giacenti, così frequente e caratteristico per queste lamine. La tomba, con il suo corredo di numerosi vasi del pieno protocorinzio antico, originali d’importazione, oinochoe, aryballoi globulari e kotylai, rappresenta un nuovo caposaldo cronologico e conferma la datazione di questo tipo di lamine entro gli ultimi due decenni dell’VIII sec. Altre due tombe dello stesso periodo contenevano fasce analoghe di argento che si presentavano purtroppo ridotte in polvere e non più recuperabili. Finché si conosceva soltanto il materiale di Cuma, nello stato così incompleto in cui è giunto a noi, e per giunta difficilmente e malagevolmente accessibile agli studiosi, la spiegazione che si tratti di pezzi importati poteva sembrare giustificata anche se avrebbe dovuto suscitare perplessità, tanto l’idea che uno straricco guerriero etrusco fosse sepolto in mezzo alle tombe greche di Cuma12 (— si ricordi che accanto è stata trovata una delle consuete tombe ad inumazione dell’ultimo quarto dell’VIII sec, anch’essa pubblicata dal Pellegrini —), quanto la frequenza di oreficerie e scudi importati dall’Etruria. Oggi, che si conoscono parecchie centinaia di corredi di tombe della seconda metà dell’VIII sec. da Ischia, la situazione si presenta completamente diversa. Non soltanto un certo numero di oggetti particolarmente preziosi, ma tutti gli oggetti di ornamento personale di metallo, ferro, bronzo, argento, elettro, che si trovano 11 A cominciare da G. Pinza, Materiali per la etnologia antica toscano-laziale, I, Milano, 1914, p. 364. 12 Giova ricordare come già il Karo, nello stesso anno 1904, pur ritenendo, a differenza del Pellegrini, che le oreficerie della tomba del fondo Artiaco siano di fabbricazione etrusca e importate a Cuma, respinge nettamente la possibilità che si tratti della sepoltura di un Etrusco e si dichiara pienamente d’accordo con il Pellegrini stesso nell’attribuire la tomba a un greco di Cuma, osservando giustamente che il rito è «perfettamente greco». (G. Karo, Tombe arcaiche di Cuma, a proposito di una pubblicazione recente, in Bull. Paletnol. Ital., XXX, 1904, p. 1-29, cf. specialmente p. 18 e 20).

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nelle tombe di Pithecusa — fibule, armille, pendagli etc. — si ritrovano esattamente uguali nelle tombe contemporanee dell’Etruria, con pochissime eccezioni che si possono contare sulle dita di una mano. Che a Cuma ci troviamo in realtà in presenza dello stesso fenomeno, può accertare chiunque si dia la pena di ricercare gli avanzi superstiti nei depositi del Museo di Napoli. La tomba del fondo Artiaco non costituisce affatto un caso isolato, ma rappresenta la regola per quanto concerne l’identità del suo corredo di oggetti di metallo con gli oggetti di metallo che si ritrovano nelle contemporanee tombe dell’Etruria. Essa colpisce in modo particolare soltanto perché contiene oggetti straordinariamente ricchi e preziosi13. Chi, oggi, volesse ancora considerarla come tomba di un guerriero etrusco sarebbe necessariamente costretto alla assurda conseguenza di dover ritenere sepolture di Etruschi tutte le tombe di Cuma e di Pithecusa della seconda metà dell’VIII sec. È un dato di fatto, ripeto, che gli ornamenti personali usati dai greci di Pithecusa e Cuma nella seconda metà dell’VIII sec sono identici a quelli usati nell’Etruria e nel Lazio, da quelli più semplici di bronzo a quelli più elaborati e preziosi come i fermagli dei tipi della tomba del fondo Artiaco, e lo stesso vale per altre classi di oggetti di metallo, come per es. gli scudi di bronzo. Ed è un altro dato di fatto che questi oggetti sono diversi, almeno in massima parte, da quelli usati dagli stessi Greci nella loro Madrepatria. Teoricamente i prototipi di questi oggetti usati dai Greci di Pithecusa e Cuma potrebbero derivare quindi: 1) da tipi in uso presso le popolazioni anelleniche dell’Italia meridionale e centrale, oppure 2) possono essere stati creati dagli stessi coloni oppure 3) possono derivare da una, o anche più di una, terza regione, oppure 4) possono derivare dalla coincidenza di queste tre sorgenti. Non c’è dubbio che quest’ultima possibilità teorica corrisponde a quanto realmente è avvenuto. Dovrà essere oggetto di future ricerche cercare di individuare chiaramente queste diverse componenti ed i loro complessi rapporti. Che gli antecedenti immediati delle fìbule si trovino soltanto nella Sicilia, nell’Italia meridionale e nell’Italia centrale è ovvio — e abbiamo quindi il primo caso. È da notare che gli «skyphoi a chevron» si trovano tanto nelle tombe preelleniche di 13 È da tener presente, a proposito, il frammento delle Kymaïka attribuite a Hyperochos, conservato presso Ateneo. Sembra accertato che si tratti di uno scrittore locale tardo, di età ellenistica (v. in ultimo E. Manni Klearchos, 25-28, 1965, p. 72, n. 40 e p. 74, con bibliografia). Tuttavia è ben possibile che il passo conservi il ricordo di costumi di età greca molto più antica, piuttosto che della Cuma sannitica contemporanea dell’autore. Sarebbe suggestivo poter immaginare che il personaggio sepolto con tanto sfoggio di ricchezza nella tomba del fondo Artiaco fosse proprio uno di quei signori cumani descritti da Hyperochos che usavano portare in continuazione ornamenti d’oro e vesti sfarzosamente colorate e amavano di scarrozzare con tiro a due per la campagna insieme con le loro donne.

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Cuma quanto in quelle di Veio (periodo II A) esclusivamente associati con fibule a staffa corta mentre già nelle tombe finora più antiche di Pithecusa, del terzo quarto dell’VIII sec. si trovano esclusivamente fibule con staffa lunga. Ciò sembra lasciare per lo meno aperta la possibilità che l’invenzione della staffa lunga sia dovuta ai coloni euboici. Se fosse possibile provarlo — per ora la questione deve restare aperta — avremmo il secondo caso. Come ha osservato la Strom, le sfingi barbute del fermaglio della tomba del fondo Artiaco mostrano caratteri propri dell’arte assirieggiante della Siria settentrionale. Resta da indagare se non possa essere di origine siriana anche la forma particolare di questo tipo di fermaglio. Elementi derivati dalla Siria settentrionale si riscontrano del resto in genere nel repertorio di motivi decorativi delle oreficerie a lamina con rilievi a sbalzo dell’Italia centrale e di Cuma. Ci troviamo dunque di fronte al terzo caso. Anche per quanto riguarda le fibule, per le quali una derivazione da tipi indigeni è innegabile, le relazioni non saranno state comunque così semplici ed a senso unico come pensa la Close-Brooks. Resasi conto della identità delle fibule di Pithecusa con quelle di Veio, la studiosa inglese scrisse infatti, nel 1968, “È mia opinione che le fìbule di Pithecusa, lungi dall’essere una creazione greca, siano o importate direttamente dall’Etruria, o copie locali e, in qualche caso, adattamenti da originali etruschi”14. 14 J. Close-Brooks, Considerazioni sulla cronologia delle facies arcaiche dell’Etruria, in Stud. Etr., XXXV, 1967, p. 327. — (Aggiunta in bozze:) Un’analisi dei vicendevoli influssi che sono intercorsi tra le fibule italiche e quelle greche è stata intrapresa recentemente da K. Kilian, Zum italischen und griechischen Fibelhandwerk des 8. und 7. Jahrhunderts, in Hamburger Beitrâge zur Archàologie, III, 1, 1973, p. 1-39. Per quanto riguarda l’introduzione della staffa lunga, l’autore, dopo aver dato un elenco delle diverse ipotesi che sono state espresse a riguardo, non le discute, ma sembra tuttavia pronunciarsi a favore di una sua origine indigena («Mit den Bogenfibeln mit erweitertem Bügel und gestrecktem Fuss liegt uns daher eine Form vor, die als bodenständige Entwicklung des italischen Fibelhandwerks anzusehen ist»). Secondo Kilian, in base al materiale attualmente conosciuto, soltanto le fibule a staffa lunga con arco rivestito di osso e ambra si possono considerare come fibule «italiote», nel senso, cioè, che rappresentano tipi che sono stati sviluppati dai coloni greci da forme indigene. Un influsso greco l’autore riconosce giustamente nelle fibule che portano un globo al vertice dell’arco, note p. es. da Falerii e da Veio (op. cit., p. 16 e fig. 3,2-6), un particolare che non ha precursori tra le fibule italiche mentre si riscontra frequentemente in Grecia. La circostanza che fibule di questo tipo sono presenti anche a Pithecusa, tanto in esemplari di bronzo identici a quelli dell’Italia centrale, quanto in esemplari in cui il globo centrale è costituito di ambra e i coni terminali sono di osso, indica l’origine italiota anche di questo tipo. Nel terreno della necropoli di S. Montano l’ambra scompare sempre interamente e soltanto in un caso la forma a grosso globo dell’elemento centrale si è conservata grazie alla sua impronta vuota nella terra indurita circostante (tomba 632, probabilmente appartenente al periodo LG I). È da presumere perciò che questa


In teoria si potrebbe immaginare, per es., che tipi di fibule propri dell’Italia meridionale possono essere stati modificati dai Greci di Pithecusa, e questi poi a loro volta essere stati introdotti e adottati in Etruria. Di grande aiuto per lo studio futuro delle relazioni tra le fibule delle tombe greche di Pithecusa e Cuma e quelle indigene sarà indubbiamente la raccolta delle fibule dell’Italia meridionale e della Sicilia fatta da Fulvia Lo Schiavo, di cui si attende la pubblicazione. Non mi sembra esagerato dire che tutto il materiale metallico dall’Etruria e dal Lazio della seconda metà dell’VIII e inizio VII sec. va riconsiderato e ristudiato sotto questo nuovo punto di vista. C’è da considerare poi anche un altro lato della questione. Il fenomeno che i coloni greci di Pithecusa e Cuma — e anche quelli di Siracusa, sebbene in misura minore — usano fin dall’inizio ornamenti personali, e specialmente fibule, che sono di tipo non greco ma indigeno, anche se forse con qualche adattamento e modifica di invenzione propria, e questo tanto per le donne quanto per gli uomini e a tutti i livelli, dalle persone di condizioni più umili ai più ricchi nobili guerrieri, rappresenta infatti un interessante problema di carattere sociologico che chiede una spiegazione. Non si può immaginare che l’iniziativa di adottare gli ornamenti personali di foggia indigena sia partita dagli uomini, dal momento che si tratta in maggioranza di ornamenti femminili, mentre gli uomini si limitano per lo più alla adozione delle fibule ad arco serpeggiante. Possono essere state soltanto le donne a imporlo. Di conseguenza non resta che ammettere che, se non tutte, almeno la maggioranza delle donne dei coloni non erano greche, ma donne indigene che volevano conservare i loro ornamenti abituali. Sappiamo oggi che fibule sono state sicuramente fabbricate a Pithecusa stessa. Nello scarico di un’officina in località Mazzola è stato trovato uno scarto di fusione di una fibula di bronzo con arco a piccola sanguisuga piena e un residuo della lavorazione di fibule con arco rivestito, e cioè una piastrina di osso dalla quale sono stati segati i segmenti da infilare sull’arco della fibula15. Da un altro scarico all’esterno dell’officina struttura IV, che non può essere posteriore al primo quarto del VII sec, proviene un peso di bilancia di precisione che presa 8,79 gr., esattamente corrispondente cioè allo statere del sistema ponderale euboico. Essendo sicuramente di età premonetale, il peso può essere servito soltanto per pesare metalli preziosi, argento ed oro. La sua presenza nello scarico di un’officina nella quale è accertata la lavorazione di oggetti minuti di bronzo, indica con ogni probabilità che vi siano stati lavorati anche metalli preziosi. A questo punto è da ricordare il notissimo passo di Strabone (V 247 C) secondo il quale i Pithecusani

erano ευ̉τυχήσαντες δι' ευ̉καρπίαν καὶ διὰ τὰ χρυσει̃α proprio nei primi tempi della colonia, prima che una στάσις e in seguito anche eruzioni vulcaniche indussero una parte degli abitanti di abbandonare la città. Per quanto riguarda l’ευ̉καρπία, la fertilità del suolo, come una delle ragioni della felice agiatezza dei coloni — e che potrebbe a prima vista sembrare una testimonianza a favore di quegli storici che ancora recentemente hanno sostenuto che Pithecusa sia stata una colonia agricola piuttosto che un centro di commercio e di industria — 16, è da precisare che si tratta chiaramente di un luogo comune, di un topos che Strabone usa sempre quando parla di terreni vulcanici, la cui fertilità è rimasta ancora oggi un luogo comune proverbiale. Infatti, proprio poche righe prima, alla stessa pagina proposito della regione vesuviana, Strabone parla a lungo dell’ευ̉καρπία dovuta alla cenere vulcanica che rende il terreno particolarmente adatto per la viticoltura, e aggiunge che lo stesso vale anche per la regione etnea. E all’inizio della descrizione della Campania egli rileva l’ευ̉καρπία dell’intera regione. In realtà il terreno collinoso e montagnoso dell’isola poteva si e no bastare per il nutrimento della popolazione di Pithecusa, ma mai costituire una fonte di ricchezza. Singolare e ben diversa è invece la seconda ragione dell’agiatezza dei pithecusani. Che χρυσει̃α non debba significare soltanto miniere d’oro (che ad Ischia sono da escludere per ragioni geologiche), ma può significare ugualmente officine di orefici, è stato di recente opportunamente documentato da una giovane grecista, Patrizia Mureddu, messa sulla strada da David Ridgway, che in un seminario sulla “protocolonizzazione” tenuto a Cagliari nel marzo del 1972 aveva ricordato come, in conversazioni comuni, io avevo suggerito la possibilità di tradurre appunto la parola usata da Strabone in tal modo17. Dalla recente edizione di Sbordone18 si rileva del resto che χρυσει̃α si trova in un unico codice tardo del XV sec. seguito da Casaubono e da tutti gli editori successivi, compreso lo stesso Sbordone, mentre tutti gli altri, e più antichi, manoscritti recano χρυσία, che ha il significato di oro 16 R. M. Cook, Reasons for the foundation of Ischia and Cumae, in Historia, 11, 1962, p. 113-114; A. G. Woodhead, The Greeks in the West, London, 1962, p. 33; A. J. Graham, Colony and Mother City in Ancient Greece, Manchester, 1964, p. 219. In uno studio più recente (A. J. Graham, Patterns in early Greek Colonisation, in J.H.S., 91, 1971, p. 3547 e specialmente p. 42 sq.) lo stesso autore, pur modificando parzialmente la sua opinione in seguito all’evidenza dei rinvenimenti archeologici, dubita tuttavia che commercio e industria abbiano costituito la ragion d’essere di Pithecusa. Alle sue argomentazioni ha risposto D. Ridgway, Addenda ciclostilate (novembre 1973) a: The First Western Greeks: Campanian Coasts and Southern Etruria, in: Greeks, Celts and Romans, London, 1973.

forma particolare delle fibule con arco rivestito sia molto più frequente a Pithecusa di quanto non appaia oggi.

17 P. Mureddu, ΧΡΥΣΕΙ̃Α a Pithekussai, in Par. Pass., fase. 147, 1972, p. 407-409; D. Ridgway, The First Western Greeks, op. cit., n. 32, p. 22 e Addenda, op. cit.,p. 4 sq.

15 Vedi G. Buchner, Arch. Rep., 1970-71, p. 66, fig. 7.

18 Strabonis Geographica II: libri III-VI, re, Roma, 1970..

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lavorato, oreficerie, nel senso di “insieme di oggetti d’oro preziosamente lavorati”. Ambedue significati, «officine di orefici» come «oggetti d’oro lavorato», sono ugualmente accettabili per cui non sussiste più alcuna ragione di ricorrere a più o meno ingegnosi emendamenti del testo19. L’insieme dei dati fin qui esposti obbliga, a nostro avviso, a una riconsiderazione delle opinioni correnti sui luoghi di fabbricazione delle oreficerie comunemente dette etrusche di stile orientalizzante antico. Ci sembra, infatti, che si possiedono ormai elementi in numero sufficiente per avanzare ragionevolmente l’ipotesi che gran parte di queste oreficerie sia stata prodotta a Pithecusa. La presentiamo qui come ipotesi di lavoro che dovrà essere ancora maggiormente convalidata da studi futuri più approfonditi che tengano conto di tutto il materiale disponibile. Siamo consci che si tratta di rivedere, e abbandonare, un concetto ormai radicato e non messo più in dubbio, quello della fabbricazione autoctona in Etruria, anche se con l’accoglimento di motivi decorativi esotici, delle fastose oreficerie di stile orientalizzante antico, ed è prevedibile, perciò, che quest’ipotesi incontri resistenza e magari inizialmente venga considerata del tutto incredibile. Noi ci auguriamo che venga discussa seriamente e con argomentazioni valide, siano esse favorevoli o contrarie. S’intende che gli argomenti maggiormente probanti non sono il peso di bilancia da orafo rinvenuto in una delle officine di Mazzola e nemmeno, per quanto suggestivo sia, il passo di Strabone relativo alle χρυσια. Il primo, preso a se stante, indica solamente che in quell’officina sono stati lavorati anche metalli preziosi, ma nulla ci dice né della quantità, né della qualità delle oreficerie che sono state localmente prodotte, mentre il valore da attribuire al secondo resta necessariamente elemento di valutazione soggettiva finché non è confermato da altre testimonianze. Gli argomenti di maggior peso, quelli che ci hanno dato il coraggio di pronunciare quest’ipotesi, sono altri, e precisamente la frequenza di oreficerie di questo tipo a Cuma e la circostanza che proprio a Pithecusa, nella seconda metà dell’VIII sec., come in nessun’altra località sono presenti quei presupposti di carattere economico-commerciale da una parte e di contatti con il mondo orientale dall’altra, che erano necessari per poter dare origine a questa produzione. Non sembra dubbio che le oreficerie di stile orientalizzante antico dell’Etruria meridionale distribuite tra Cuma e Vetulonia, tanto quelle di lamina decorata a sbalzo quanto quelle con decorazione plastica figurata 19 Il Pais, dopo aver in un primo tempo proposto χρυτει̃α per analogia con il nome romano dell’isola, Aenaria, (E. Pais, Storia della Sicilia e della Magna Grecia, Torino, 1894, p. 158), più tardi nell’articolo sopra citato (v. nota 5, = Ric. Stor., p. 235) ha proposto invece di leggere χρυσει̃α, pignatte, vasi di terracotta, ovvero officine di vasellame, al posto di xpuaeioc, correzione che è stata accettata anche da J. Bérard, La colonisation grecque de l’Italie et de la Sicile dans l’antiquité, Paris, 1957, p. 43, n. 1.

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e i fermagli a pettine provengono da un unico centro di fabbricazione20 - Una produzione così massiccia — è da tener presente che il materiale ritornato alla luce rappresenta necessariamente soltanto una minima parte di quello realmente prodotto — ed esportata per un’area così vasta, presuppone come luogo di fabbricazione un grosso centro con una vasta e organizzata rete di relazioni commerciali21 e con la capacità di impiegare 20 Vedi I. Strøm, op. cit., p. 89 e 106, la quale pensa a Tarquinia come più probabile centro di fabbricazione, mentre P. G. Guzzo, op. cit., p. 298 sq., preferisce Cerveteri. 21 Uno degli argomenti addotti da R. M. Cook a sostegno della sua tesi che Pithecusa non ebbe la funzione di centro commerciale era che «there is little or nothing of Ischian make among the early Greek pots found in Etruria» (Historia, 11, 1962, p. 113-114, cf. supra, n. 32). David Ridgway ha risposto giustamente che oggetto principale dei commerci tra Pithecusa e l’Etruria erano metalli e minerali di metallo e non vasi e che pertanto l’argomento non era valido. Ciò egli scrisse nel 1969, nella prima parte dell’articolo cit. The First Western Greeks, p. 23, la cui stesura risale a quella data. Da allora nuove scoperte succedutesi rapidamente stanno rivolgendo interamente questa immagine negativa che ancora cinque anni fa si aveva circa un apporto euboico-pithecusano alla ceramica dell’Italia centrale nella seconda metà dell’VIII sec. Nel suo Postscript al citato articolo, datato ottobre 1971, p. 38, Ridgway poteva riferire come la scoperta, nell’abitato di Pithecusa, di una classe di ceramica tardogeometrica, anche figurata, di stile euboico ma prodotta localmente (Buchner, Arch. Rep. 1970-71, p. 67) faccia conoscere la fonte di quelle affinità «cicladiche» da tempo notate nella ceramica italo-geometrica (A. Blakeway, Ann. Brit. School Athens, 33, 1932-33, p. 194 sq.) concludendo: «In a word, as a result of the new (and non-cemetery) evidence from Pithekoussai, we are beginning to discern which decorative ideas in Etruria may find parallels at Pithekoussai and in Euboea generally». Recentissimamente, poi, è stata riconosciuta da Eugenio La Rocca la presenza di ceramica tardo-geometrica in rilevante quantità — e risalente per lo meno in parte al periodo LG I — in strati di un abitato situato nel centro di Roma (S. Omobono). Per buona parte si tratta di ceramica fabbricata a Pithecusa, mentre alcuni frammenti sono senza ombra di dubbio di fabbrica euboica originale. Allo stesso Eugenio La Rocca e a Fulvio Canciani è dovuto il merito di aver individuato un cratere geometrico da tempo conservato nel Civico Museo Archeologico di Grosseto e proveniente da una tomba rinvenuta a Pescia Romana, riconoscendolo di fabbrica euboica originale e attribuendolo giustamente all’officina del Cesnola painter. Una fotografia a colori del cratere si trova riprodotta incidentalmente nel volume di autori vari Le città etrusche, Milano, Mondadori, 1973, p. 117, figura in alto. Sul Cesnola painter vedi. J. N. Coldstream, Greek Geometric Pottery, p. 172 ss.; sulla sua attribuzione all’Eubea, sulla quale oggi non ci possono essere più dubbi, lo stesso Coldstream, The Cesnola painter: a Change of Address, in Bull. Inst. of Class. Studies Univ. London, 18, 1971, p. 1-15. Dalla stessa tomba proviene inoltre un secondo vaso, una coppa su piede di sagoma insolita, ugualmente di fabbrica euboica. Su queste scoperte è in corso di stampa un lavoro di Eugenio La Rocca che apparirà in Dial. di Archeol., VII, 1974, con il titolo Due tombe dall’Esquilino. Alcune novità sul commercio euboico nell’Italia Centrale nell’VIII sec. a.C, al quale si affian-


notevoli capitali per il rifornimento della preziosa materia prima, quale appunto doveva essere Pithecusa in quel periodo. E presuppone inoltre una località in cui poteva operare una scuola di artigiani orafi che disponeva di conoscenze tecniche molto sviluppate e nello stesso tempo era in condizioni di poter possedere un repertorio di motivi decorativi orientali, e specialmente originari dalla Siria settentrionale, congiuntamente a quello dei motivi correnti di origine greca22. Questa scuola di orafi, inoltre, doveva risiedere in una località in cui trovava anche le condizioni psicologiche adatte per sentirsi libera di elaborare creazioni artistiche nuove che non fossero legate agli schemi fissati di una determinata tradizione artigianale. La lavorazione di oreficerie, specie di lamine decorate a sbalzo, è ben documentata a Eretria e nella vicina Attica nell’VIII sec.23, dove i suoi inizi risalgono ad età ca, in corso di stampa nella stessa sede, uno studio di Fulvio Canciani con osservazioni sui rapporti tra l’Eubea e la ceramica italogeometrica dell’Etruria. Mi è gradito ringraziare Eugenio La Rocca per avermi fatto vedere il materiale inedito di S. Omobono, mentre al medesimo e a Fulvio Canciani va la mia riconoscenza per avermi liberamente concesso di anticipare qui questi cenni sulle loro scoperte e i loro studi che allargano così opportunamente le conoscenze sull’influenza euboica nell’Italia Centrale nell’VIII sec. Quanto vasta sia stata l’area interessata dal commercio euboico in Italia, non soltanto a nord, ma anche a sud di Pithecusa, documenta la recente scoperta fatta da Giuseppe Voza di ceramica di fabbrica euboica originale appartenente al periodo LG I in tombe indigene a Villasmundo (nell’interno, tra Megara Hyblea e Leontini : G. Voza in Archeologia nella Sicilia sud-orientale, Napoli, Centre Jean Bérard, 1973, p. 57 sq.). 22 A quanto io sappia uno studio particolare sugli elementi stilistici greci non orientalizzanti nelle oreficerie dell’orientalizzante antico dell’Italia Centrale non è stato ancora eseguito. Eppure tali elementi non mancano. Ne citiamo due esempi: la coppia di bracciali da Tarquinia nel British Museum (H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, Cambridge Mass., 1968, p. 405 sq., fig. 391; Strøm, op. cit., flg. 56 e catalogo n. S 34-35) che reca su un lato, resa con la tecnica della granulazione, tra l’altro, una scena di duello tra due guerrieri e un cavaliere armato di lancia di stile greco geometrico, e le frequenti kotylai in metallo prezioso che riproducono alla perfezione la sagoma della kotyle fittile del protocorinzio antico e medio, tra cui è particolarmente significativa quella d’oro della tomba Bernardini di Palestrina (CD. Curtis, The Bernardini Tomb, Mem. Amer. Acad. Rome, III, 1919, tav. 10) perché reca, accovacciata su ciascuna ansa, una coppia di sfingi dello stesso tipo che si ritrova sui fermagli e si rivela dunque prodotta nelle stesse officine di questi. Dallo stile orientalizzante greco delle fasce d’oro attiche (cf. la nota seguente) sembrano derivare invece le lamine d’argento con file di animali e scena di caccia che ricoprono la guaina di pugnale dalla stessa tomba Bernardini. 23 Sulle fasce, o diademi, di sottile lamina d’oro decorate a sbalzo rinvenute a Eretria, oltre che nell’Attica dove sono più frequenti e a Rodi, vedi W. Reichel, Griechisches Goldrelief, Berlin, 1942; D. Ohly, Griechische Goldbleche des 8. Jahrhunderts v. Chr., Berlin, 1953, e l’ampia trattazione di Claude Bérard in Eretria III, l’Herôon à la Porte de l’Ouest, Berne, 1970, p. 36-45 a proposito dell’esemplare contenuto

anteriore a quella dei più antichi esempi delle oreficerie «etrusche» che compaiono invece improvvisamente e con piena perfezione tecnica in Etruria. Le strette relazioni commerciali di Pithecusa con il mondo orientale e in particolare con la Siria settentrionale, sono ormai ben note e documentate attraverso oggetti importati da quelle regioni che sono stati deposti nelle tombe, come i frequentissimi sigilli del Lyre-player Group o l’aryballos configurato con testa femminile24. La conoscenza del repertorio dei motivi artistici greci non ha bisogno di commento e nemmeno quella condizione di libertà dagli schemi tradizionali della madrepatria, di cui è espressione, per esempio, l’adozione di tipi di fibule diverse da quelle usate in Grecia. David Ridgway ha scritto recentemente, riassumendo il succo di una sua conversazione con Maurizio Tosi, «Euboean Pithekoussai was the “missing link” [dell’orientalizzante etrusco] : now that it has been found, we can see that the route from the Near East to Etruria was open from the third quarter of the eighth century onwards»25. Noi crediamo di poter fare ancora un passo avanti formulando l’ipotesi che i primi esempi dello stile orientalizzante che si trova in Etruria siano stati ideati e prodotti a Pithecusa dai coloni euboici. Giorgio Buchner nella tomba 14; sulle fasce d’oro di Rodi Reichel, op. cit., p. 58, n. 51-55 e K. F. Johansen, Exochi, ein frührhodisches Gräberfeld, København, 1958, p. 172 sq. La circostanza che fasce strette e diritte di forma simile, avvolte intorno al capo del defunto, si trovano ugualmente a Cuma (Strøm, op. cit., cat. n. S 2, 3, 4, 5) e a Pithecusa (3 esemplari, cf. supra a p. 76), mentre non compaiono nelle tombe dell’Italia Centrale, come si può facilmente verificare scorrendo il catalogo della Strøm, indica che si tratta di un uso greco. (L’unica lamina dall’Italia Centrale che è certamente un diadema è quella dalla Tomba Polledrara di Vulci (Strøm, cat. n. S 47) ma la sua forma è diversa dalle semplici strisce strette delle lamine greche). Le fasce dalle tombe greche di Cuma e Pithecusa sono tuttavia decorate nello stesso stile delle lamine «etrusche» e costituiscono quindi un ulteriore e non trascurabile indizio a favore della nostra ipotesi. 24 Per i primi cf. supra nota 36. Per il secondo: G. Buchner, Pithekoussai, oldest Greek Colony in the West, in Expedition, 8, 4, 1966, fig. a p. 7; disegno in veduta frontale in Ridgway, The First Western Greeks, op. cit., fig. 2b; J. N. Coldstream, The Phoenicians of Jalysos, in Bull. Inst. of Class. Studies Univ. London, 16, 1969, p. 1-8, tav. II f e testo p. 3 e n. 29. 25 D. Ridgway, Addenda ciclostilate, op. cit., p. 3; ìd., Rapporti dell’Etruria meridionale con la Campania: prolegomena pithecusana, in Atti dell’VIII Convegno Naz. di Studi Etruschi ed Italici, Orvieto, 1972 (1974), p. 281-292. I. Strøm, op. cit., p. 205, 212, 216, invece, è dell’avviso che tanto gli oggetti orientali importati in Etruria quanto i motivi stilistici orientali delle oreficerie dell’orientalizzante antico, piuttosto che attraverso la mediazione greca delle colonie di Pithecusa e Cuma, abbiano raggiunto l’Etruria indipendentemente da queste, mediante l’importazione diretta i primi e attraverso artigiani orientali immigrati i secondi. I suoi argomenti, tuttavia, ci sembrano troppo tenui per essere convincenti.

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Collegamenti (marittimi) dall'Isola d'Ischia al continente L’isola d’Ischia, eruttata dal fondo del mare, secondo alcuni geologi, qualche centinaia di migliaia d’anni or sono, fu colonizzata, in tempi più prossimi a noi, nell’VIII sec. a. C., dai Greci d’Eubea, giunti con “navi zattera” dotate di vele e remi. Si portarono poi nella dirimpettaia Cuma, offrendo presumibilmente il primo collegamento di Pithecoussay con la terraferma. Con l’avvento della Repubblica e dell’Impero Romano, grazie alle “triremi” (a tre ordini di remi) di stanza nel porto di Miseno, avvenne un più rapido spostamento, che andò a migliorarsi col trascorrere dei secoli. A tal proposito ci è piacevole ricordare il viaggio di conoscenza fatto intorno alle isole del golfo dall’imperatore Augusto, come si evince dalla “Vita dei Cesari” di Caio Tranquillo Svetonio al paragrafo XCVIII (“Poi, costeggiati i lidi della Campania e fatto il giro delle isole vicine, dimorò quattro giorni a Capri, con l’animo disteso ad ogni tipo di riposo e di compagnia”). Altra testimonianza storica e iconografica ci viene fornita dalla “Tavola Strozzi”, di fine ‘400, dove si osservano le galee della flotta Aragonese di ritorno vit-

toriose al porto di Napoli, dopo la battaglia d’Ischia del 1464 contro gli Angioini. Tuttavia dobbiamo superare il secolo XVIII (quello della rivoluzione industriale), per poter unire l’isola al continente grazie alle navi a vapore, ottenendo così un servizio più rapido, pur restando in attività grosse barche a remi mosse dalle braccia dei vogatori durante il Grand Tour, per condurre ad Ischia noti personaggi stranieri, alla scoperta delle bellezze naturali e della sua millenaria storia. La prima di questo tipo, che costituì un primato in Italia, fu il Ferdinando I, costruito in Napoli nei cantieri di Vigliena ad opera dello stabiese Stanislao Filosa “mastro di bastimenti”, con le seeguenti caratteristiche: lunghezza mertri 40, larghezza metri 6, dislocamento tonn. 50, potenza 50 CV, velocità 4,5 nodi/h. Nel suo scafo venne installata una macchina a vapore acquistata in Inghilterra dal mercante francese Pierre Andriel, che aveva proposto l’opera all’Istituto Reale d’Incoraggiamento per l’utilità dei bastimenti a vapore. Questi sulle orme dell’ingegnere americano Robert Fulton (1765-1815) che nel 1807 aveva progettato la nave Clermont, mossa dalla forza

La Tavola Strozzi è un dipinto olio su tavola di autore ignoto, forse Francesco Rosselli, databile al 1472 e conservata nel Museo nazionale di San Martino di Napoli. Rappresenta una veduta di Napoli del XV secolo. La tavola era stata rinvenuta nel 1901 a Palazzo Strozzi di Firenze da Corrado Ricci. Benedetto Croce, nel 1904, la interpretò come una rappresentazione del trionfo navale per Lorenzo de' Medici, giunto a Napoli nel 1479 per stipulare un trattato di pace con Ferrante d'Aragona, grazie anche alla mediazione offerta da Filippo Strozzi il Vecchio. Sebbene molti elementi sembrassero suffragare la ricostruzione crociana, Vittorio Spinazzola (forse ispirato da un intervento di Wilhelm Rolfs del 1908[1]) fornì, nel 1910, un'altra interpretazione, storicamente più attendibile, accolta dalla maggior parte degli studiosi (e dallo stesso Croce, che riconobbe il suo errore, attribuendolo al fatto di non aver potuto visionare di persona l'opera, ma di essersi basato su una riproduzione fotografica): si tratterebbe del rientro trionfale della flotta aragonese dopo la vittoria riportata contro il pretendente al trono Giovanni d'Angiò, avvenuta al largo di Ischia il 7 luglio 1465 (da Wikipedia)

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del vapore, con ruote a pale per propulsore, pensò di ottenere più rapide comunicazioni navigando in cabotaggio per il Mediterraneo e le isole, a dispetto dei “pinchi1” e “polacche”. Alcuni anni dopo, con lo stesso nome del sovrano, un nuovo bastimento a vapore iniziava il collegamento tra Napoli e Palermo, con relativo servizio postale, cosa tra l’altro che costituirà un altro primato in Italia. Questo “legno”, mosso dalle solite ruote a pale, durante i giorni di sosta nel porto napoletano non disdegnava escursioni turistiche nel golfo partenopeo, come si viene a sapere dall’opera di Sandro Biondi2, cosicchè i viaggiatori potevano visitare l’isola d’Ischia. Giungiamo verso gli anni ‘40 del XIX secolo e troviamo in servizio di navigazione tre navi di costruzione inglese, il Mongibello, l’Ercolano ed il Furia. Quest’ultimo, di circa 150 tonnellate di stazza lorda, con ruote a pale e macchina termica tipo Maudsley collegava Napoli ad Ischia, con scalo a Procida, ed il costo della traversata era di 80 grane a persona; purtroppo il servizio durò soltanto un paio d’anni e fu soppresso in quanto poco redditizio. Circa un decennio dopo e siamo nel 1852, l’armatore inglese James Close, residente a Napoli, con due “legni” collegava la capitale Napoli a Procida, Ischia e le isole dell’arcipelago pontino, seguito l’anno successivo dall’agente marittimo Giuseppe Ciannelli che acquistò in Inghilterra tre piroscafi ad elica, l’Elba, il Partenope e il Nerva per la rotta di Calabria e Sicilia, ma che durante la stagione dei bagni collegavano Napoli a Casamicciola3. Con l’apertura del lago d’Ischia (1854), divenuto porto sicuro che nuova linfa doveva apportare all’economia marittima, l’armatore Carlo Garavini, con Aniello Galatola, collegavano l’isola al capoluogo campano, ponendo il sito amministrativo nel Palazzo d’Ambra, con lo storico color rosso pompeiano ed appartenuto alla casa vinicola d’Ambra dal 1904 al 2001. Il piroscafo posto sulla linea era il “Golfo di Napoli” che, disgraziatamente, a causa delle pessime condizioni del mare, naufragò sulle coste dell’isola. Lo stesso armatore, coraggiosamente, con la nave Cometa, ripristinò la linea4. Nella seconda metà dell’800 sono ancora presenti sulla rotta per Napoli navi con ruote a pale, come il 1 Pinco = Veliero a tre alberi alquanto simile al galeone. 2 Saverio Biondi, Sul “Real Ferdinando” da Napoli a Ischia il 21 novembre 1824, estratto dal n. 3 “Cose di Napoli”. 3 Era allora la nazione britannica che costruiva macchine a vapore, grazie all’invenzione dello scozzese James Watt (1736-1819). 4 Notizie tratte dal Giornale delle Due Sicilie.

piroscafo Tifeo di proprietà procidana. Proprio il Tifeo doveva traghettare il cardinale Guglielmo Sanfelice a Casamicciola, intento alle cure spirituali e di solidarietà per i sopravissuti al terremoto del 1883. Tra l’altro sono da ricordare, in questo scorcio di anni, la comparsa sulla scena marittima del Casamicciolese Antonio Manzi in società con Procidani, dei cosiddetti “postali” e della linea “Cumana” con partenza da Torregaveta, mentre dal molo dell’Immacolatella v’erano due corse giornaliere, per Procida, Ischia e Casamicciola ed una invernale (“vapori” della Manzi &C) Nei primi decennio del ‘900, già che le corse giornaliere pel continente non sono numerose, entrano come supporto, alcuni barconi, dotati di motori termici, ma che solcano il mare a velocità di poche miglia orarie, trasportando, prevalentemente, merci, bestiame e qualche passeggero. In quella congiuntura annoveriamo, l’armamento di Maurizio Scotto di Procida, che continua la secolare tradizione marinaresca della sua gente, con la flottiglia delle motobarche: Libera, Delfino, S. Michele, Procida5. Queste modeste imbarcazioni per anni trasportarono, tra l’altro, numerosi studenti da Ischia per la scuole nautiche dell’isola cosiddetta di “Graziella”. Un altro armatore presente nel golfo di Napoli, a cui va riser5 Costruito, quest’ultimo, nel 1923 nei cantieri della stessa isola, laddove nel 1891 era stato varato il veliero Teresina Mignani di tonn. 1000.

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vato un posto di rilievo nell’ambito della marineria isolana fu Nicola Monti (1894-1979) di Casamicciola, che fu il primo ad istituire un traghetto comodo, vero, per il trasporto di auto. Aveva iniziato con le piccole motobarche Ondina e Rondine, adibite più che altro al trasporto di merci dal continente, partendo dallo storico scalo dell’Immacolatella6. Per il trasporto dei passeggeri il Monti provvedeva con la M/n Littoria7 al comando del cap. Piro Salvatore con il motorista Jaccarino addetto ai motori. Di poi verso gli anni sessanta, col piroscafo Città di Pozzuoli, fu il primo armatore isolano ad istituire un traghetto per auto; di poco dopo ne rilevò un altro ancora, sempre in Danimarca, ed ugualmente vecchio di molti decenni (il Città di Ischia), dando così il via al “turismo motorizzato” per l’isola. Non si può trascurare inoltre l'attività armatoriale iniziata nella seconda metà dell'ottocento dal foriano Michele Colella con due "bilancelle": la "Luisella” e la “Nunziata", che ca­ricavano vino sulle banchine dell'isola per portar­lo nei porti di Civitavecchia, Livorno, La Spezia, etc...., da dove poi si importavano merci varie. La loro flotta in seguito si ingrandì con 6 Settecentesco edificio in stile barocco voluto da Carlo III Borbone, come quarantena per le navi e costruito dall’architetto Domenico Antonio Vaccaro (Napoli 3-6-1678 - 13-61745). 7 Poi col nome di M/n Vittoria, indi Generale Orsini.

l'acquisto di un veliero in legno a cui fu posto il nome di "Crocifisso" che, al comando prima del capitano Raffaele Amalfitano e poi nel periodo più glorioso, di Giuseppe Colella, figlio di Michele, operò nel nostro golfo e fuori per oltre mezzo secolo. Tuttavia sino agli anni cinquanta del trascorso secolo, pur con l’incremento dei collegamenti, non era raro osservare negli approdi dell’isola qualche imbarcazione a vela trasportante derrate alimentari e materiale per l’edilizia. Vide la luce tra l’altro la S.P.A.N. (Società Partenopea Anonima Navigazione) per il trasporto passeggeri, nel 1925, ad opera dei fratelli Piscitelli di Napoli, che acquistarono ben nove piroscafi dalla cessata Compagnia Napoletana di Navigazione e subito dopo il Saint Elian di costruzione inglese (di poi detto Partenope ed Ischia) che sarà il postale per eccellenza, con scalo a Forio, Lacco Ameno, Casamicciola, Ischia Porto, Ischia Ponte. Qesta compagnia negli anni '70 diverrà Caremar (Campania Regionale Marittima). Non possiamo esimerci dal ricordare che nel periodo del cosiddetto “boom economico” (anni ‘60), l’isola prese ad avvalersi per il trasporto passeggeri degli Hovercraft8, che erano una sorta di elicotteri che avanzavano velocemente a pelo d’acqua su di un cuscinetto d’aria generato da turbine, ammarando (o atterrando) sulla spiaggia di Suor Angela in Casamicciola. Questi, in concorrenza con gli elicotteri delle Elivie, ebbero però poca durata. Oramai il periodo difficile del dopoguerra era lontano e al sorgere di nuove speranze corredate dal graduale incremento del turismo vacanziero, compreso il notevole flusso di persone, che vi si recavano per le cure termali, l’armamento isolano si arricchì con le motonavi della flotta di Agostino Lauro, il quale aveva avuto come prima nave la Freccia del Golfo che non era altro che un mas da guerra adattato al trasporto passeggeri, per poi incrementarsi notevolmente con l’Angelina L., Celestina L., Rosaria L., Anna Maria L., Salvatore L., e la classe veloce degli aliscafi. Questa società, ancora oggi in servizio assieme alla Medmar, Caremar ed altre costituisce il presente per i collegamenti nel golfo e per il Mediterraneo. Domenico Di Spigna

Pagina tratta da Ischia 1950.1999, cinquanta anni di vita e di storia dell'isola d'Ischia di R. Castagna, 2005

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8 L’Hovercraft fu inaugurato il 10 giugno 1967 nel corso di una cerimonia svoltasi alla Rotonda Diaz di Napoli, presenti il ministro per la ricerca scientifica sen. Rubinacci, il prefetto Bilancia, il sindaco Principe, il presidente della Provincia Gava, il console generale della Gran Bretagna R. L. D. Jasper ed altre autorità. Dopo la benedizione dell’Hovercraft, primo mezzo “a cuscino d’aria” entrato in servizio nel Mediterraneo, il dott. Giuseppe Romano, presidente della Società Aeronave, illustrò le caratteristiche della nuova linea di comunicazione.


La navigazione a vapore: un primato delle Due Sicilie

Sul "Real Ferdinando"

da Napoli a Ischia il 21 novembre 1824 * Trattando dei collegamenti marittimi è stato citato Saverio Biondi, autore di un estratto del n. 3 di “Cose di Napoli”, in cui ricorda di aver comprato da un libraio fiorentino un opuscolo dal titolo “Il viaggio di un giorno o la passeggiata da Napoli ad Ischia del dì 21 novembre 1824 sul pacchetto a vapore il "Real Ferdinando” e - scrive il Biondi – “furono proprio la data e il nome del battello che mi fecero desiderare il libretto, pubblicato a Firenze nel 1826” dall’abate Vito Maria De Grandis. Dopo la citazione di alcune notizie biografiche sull’autore, ci si sofferma maggiormente sil “Pacchetto il Real Ferdinando”: - … Si tratta del secondo bastimento a vapore della Marina Borbonica, dopo quel «Ferdinando I» costruito a Napoli, che il francese Pierre Andriel, «esclusivista della navigazione a vapore delle Due Sicilie» e socio di eminenti napoletani, quali Luigi De’ Medici ed il Principe di Satriano Carlo Filangieri, fece navigare, al comando del napoletano Giuseppe Libetta, sino a Marsiglia, nell’autunno del 1818, prima nave a vapore nel Mediterraneo (con buona pace del sabaudo «Eridano»). Il tentativo del «Ferdinando I», anche se tecnicamente brillante e ben riuscito, ebbe scarso risultato pratico; d’altra parte, i moti rivoluzionari del 1820 turbarono gravemente la vita economicoindustriale napoletana: fu perciò necessario al Ministro De’ Medici creare una nuova compagnia, per l’incremento di quella navigazione a vapore che riteneva indispensabile allo sviluppo economico delle Due Sicilie. Sviluppo economico di cui all’epoca ci si interessava veramente, con serietà, e si cercava di raggiungere concretamente con numerose iniziative di largo respiro, fra le altre, quella di incrementare le produzioni del Regno e la loro esportazione, indipendente dalla concorrenza straniera, a mezzo di navi prodotte dalle Officine e dai Cantieri nazionali che, a loro volta, dalla produzione navale dovevano trarre sicurezza di lavoro e di progresso. La seconda compagnia napoletana per la navigazione a vapore, fondata con Real Decreto del 2/12/1823, ebbe quale Presidente il Principe di Butera, Giorgio Wilding, e numerosi soci, fra le personalità più brillanti del Regno ed anche fra i negozianti * Da un opuscolo di Sandro Biondi, estratto dal n. 3 di "Cose di Napoli

e banchieri stranieri residenti in Napoli: a questa Compagnia apparteneva il «Real Ferdinando», di fabbricazione inglese, ma con equipaggio napoletano. La nave era adibita al collegamento con la Sicilia, ed infatti dette fondo la prima volta a Palermo il 21 giugno 1824, e, nelle pause fra i viaggi più importanti, era proficuamente sfruttata dagli armatori in gite nel Golfo di Napoli, che avevano il più largo successo, per la novità del mezzo1. Nel novembre 1824 — il mese del «Viaggio» del De Grandis - il «Real Ferdinando» il giorno 7, domenica, fu a Capri, il 23 e 24 a Castellammare di Stabia, mentre sappiamo bene che il 21, ancora domenica, fu ad Ischia. Negli anni successivi la nave continuò regolarmente il suo servizio, anche se la proprietà della Compagnia cambiò più volte: nel settembre 1830 rientrò a Napoli da Livorno, dopo un viaggio difficile per il mal tempo, con 85 passeggieri a bordo; nell’agosto 1831 era nuovamente adibita alla rotta per la Sicilia, «con le macchine interamente rinnovate» e dopo importanti lavori, che avevano «migliorato il comodo dei passeggieri». Queste le notizie che ho potuto raccogliere, divertendomi nella ricerca che, quando non è troppo impegnativa, costituisce un passatempo stimolante e piacevole: spero di avere, almeno un poco, interessato e divertito anche voi. Ora qualche parola sul «Viaggio», che trascurarlo del tutto sarebbe veramente uno sgarbo al lontano Autore e, forse, alla vostra presente curiosità. Prima di tutto, vi ricordo che la narrazione è in versi, sestine ottonarie di cui è possibile farsi un’idea da quelle che compaiono nella paginetta che riproduco, per mostrare la figura del battello, quasi sommerso fra le onde del mare e le volute del fumo, che prorompono dall’alta ciminiera. 1 Nel suo recentissimo (Warwick 1976 - Bari, Laterza, 1979) «Società e Imprenditori nel Regno Borbonico», John Davis cade in errore a proposito della navigazione a vapore napoletana, dicendo che il «Real Ferdinando» ne fu il primo bastimento e secondo il «Ferdinando I», che, probabilmente, confonde col «Francesco I», nave che la «Compagnia» acquistò successivamente al gennaio 1825, come chiaramente indica il nome. Ho fatto questa precisazione non per amore di critica malignetta, ma per evitare titubanze nei miei lettori che già conoscessero l’opera del Davis.

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I passeggieri furono centrotrenta, e Là la lingua del Tamigi, là si parla l’alemanna, s’ode quella di Parigi. Non erano certamente i visitatori stranieri che mancavano alla Napoli Capitale, che faceva parte — con Venezia, Firenze e Roma — del «grand tour», obbligo di ogni «personaggio distinto». La gita fu allegra, piacevole, spensierata: L’un passeggia, l’altro parla, chi sta in poppa, chi sta in prora, e chi ride, o siede, o ciarla, e chi inchina alla signora: viaggia insomma ognun contento senza remi, o vele, o vento. A vedere si discende del vapore l’officina; e ciascuno stare intende di Vulcano alla fucina: non dà noia quel fragore, né del fossile l’odore. La Villa Reale, non ancora allontanata dal mare dal terrapieno di Via Caracciolo, mostrava al navigante i suoi monumenti marmorei, mentre il Vesuvio dava spettacolo, fumando e rimbombando, ed il Golfo era, come è pure adesso, bellissimo dalla Campanella a Nisida, a Pozzuoli, e più oltre si mostravano Procida, Ischia, Ventotene e lontana, la città di Gaeta. La navigazione durò due ore e mezza, dal Molo di Napoli all’insenatura di Casamicciola, dove il «Rea! Ferdinando» gettò l’ancora: l’attuale, bellissimo porto di Ischia era ancora un laghetto pescoso, che solo nel 1854 doveva essere aperto al mare dal grande Ferdinando II. Dopo qualche ora di sosta, e dopo il ritardo di qualche incauto turista sceso a terra, e richiamato con lo sparo del cannone di bordo, il battello prese la via del ritorno, mentre i passeggieri si divertivano con uno strano gioco: correre per le scale di corda su per gli alberi della nave, inseguiti dai marinai, «i marini», premiati con una piastra, la maggiore fra le monete d’argento borboniche, del valore di dodici carlini e del peso di più di ventisette grammi di buon metallo. Il viaggio finisce dopo sette ore e mezza di divertimento (Sandro Biondi). Leggiamo le sestine 29- 33: Ma già l’ancora si gitta; Già si affollan le barchette: Chi a sinistra, e chi a dritta, E chi in mezzo lì si mette: Ad un tratto tutti tutti Piglian terra, e sani e asciutti. Se a taluni venisse brama 24 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

Di saper dove andammo, Casamicciola si chiama Il villaggio e bello e gaio, Saria bene averne un paio. Chi può dire le risate Delle Ischiane contadine, Nel vedere disbarcate Più Signore e Signorina? Il Pacchetto senza fallo Par di Troia il gran cavallo. La brigata si divide In più crocchi: l’uno prende Il cammino che più ride, L’altro pel più erto ascende; V’ha chi al tempio prende lena Sacro a Santa Maddalena. San Nicola non si osserva, E neppur si osserva Lacco: Colà sale un piè di cerva, Qua chi scende torna stracco: Sol vagheggian la bella Vista della Campanella.

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Un opuscolo del Dott. Luigi Scotti del 1925

Note illustrative sul bacino idrico dei Maronti presentate

II Convegno Regionale del Comitato dell’Italia Meridionale dell’Associazione Medica Italiana di Idrologia, Climatologia e Terapia fisica nell’Isola d’Ischia (6 - 7 ottobre 1925) Napoli, Stabilimento Tipografico Michele D’Auria Calata Trinità Maggiore, 52, 1925

Gli illustri relatori del Congresso parleranno ampiamente delle acque termo-minerali, dei fanghi e delle stufe di Porto d’Ischia, Casamicciola, Lacco Ameno e Forio e di ciò che si è fatto e si vuol fare per migliorare gli stabilimenti di cura sorti sulle diverse sorgenti. Ma è questa tutta la ricchezza idrica dell’isola incantata? sono queste tutte le “miniere d’oro„ tanto decantate dagli antichi e dai contemporanei, in Italia e fuori? Perché i Congressisti, venuti di lontano, lasciando l’isola verde, abbiano a riportare conoscenza piena come delle bellezze panoramiche - uniche più che rare - che avranno agio d’ammirare nel giro per i vari paesi, così anche di tutti i tesori che la natura ha con prodigalità veramente divina nascosti nel sottosuolo isolano, fa d’uopo richiamare la loro attenzione su un altro bacino idrico, che è dei più interessanti, se pur non voglia dirsi il più interessante: il bacino dei Maronti. Sito a mezzogiorno dell’isola comprende i territori di Barano e Serrara ed è ricco di stufe, arene, fumarole ed acque per grado di calore uniche al mondo. Acque, fumarole, arene, stufe non di scoperta recente ma note anche ai Romani dell’età repubblicana, come attestano iscrizioni latine e greche, monete, statue, bassorilievi rinvenuti a Testaccio e conservati nel Museo di Napoli. E però bene scrisse il d'Ascia: “Quella rinomanza che più tardi acquistò Casamicciola per le sue acque di Gurgitello allora ignote e neglette la sosteneva Barano per le sue acque... Da Cesare alle incursioni dei barbari questo primato le acque e il territorio di Barano conservarono„. Il prof. De Petra, il grande Archeologo dell’Università di Napoli testé scomparso, venendo da Napoli a Ischia, ebbe un giorno a dire, sul piroscafo, ad un suo alunno, studente universitario: “Peccato, che questi luoghi siano oggi abbandonati! Se si facessero degli scavi a Testaccio ed ai Maronti, quanti

tesori verrebbero fuori! quanti ruderi di abitazioni e di stabilimenti di vario genere vedrebbero la luce del sole e rivelerebbero il grado di civiltà raggiunto in quei luoghi al tempo dei Romani!„ Sulle virtù curative delle quattro acque sanitari antichi e recenti sono unanimi nel dire che tutta una serie d’infermità trova in esse il rimedio efficace, infallibile. Eppure di esse, fatta eccezione per l’Olmitello conosciuta più che per se stessa per i “Sali Olmitello„ il mondo medico conosce solo l’esistenza, perché ne trova registrati i nomi in qualche manuale d’idrologia. Non è il caso che mi attardi qui a ricercare le cagioni del capovolgimento che tolse a Barano il primato delle acque. A me preme ricercare quali acque davano il primato alla plaga dei Maronti e a Barano. Erano quattro le sorgenti principali di questo bacino : Olmitello, Nitrodi, Cavascura, Succellaro. Uno sguardo alle singole. Olmitello. — A voler credere a quanto di questa acqua è scritto nei libri, la si dovrebbe dire il rimedio di tutti i mali, vera panacea; secondo alcuni scrittori ridarebbe anche l’udito ai sordi — donde il nome di “bagno della sordità„. Senza dubbio alcuno eccellentissima — l’aggettivo è del prof. Cardarelli — è nella diatesi urioa; e questa virtù le riconosce il chiarissimo prof. De Giaxa, il quale, quando n’ebbe fatta l’analisi, scrisse che l’acqua dell’Olmitello “previene e guarisce... tutte le manifestazioni dell’alterato ricambio (diatesi urica, gotta, renella, calcoli renali e vescicali)„. Ed io, per l’esperienza fattane nella non breve carriera professionale, posso dire che l’acqua dell’Olmitello nella diatesi urica, è semplicemente prodigiosa, e sono convinto che questa virtù specifica le fu riconosciuta fin dai tempi più remoti e le diede rinomanza e forse, anche il nome. Perché fra tutte le etimologie della parola Olmitello io preferisco quella che la deriva dalle due radici greche ὄλμος - pietra rotonda, ciottolo - e τέλλω - faccio - e che vorrebbe dire “l’acqua che fa rotonda, liscia, la pietra", ossia l’acqua che i calcoli, la renella, rende tali che possano volversi e... uscire. Che se non da ὄλμος e τέλλω si voglia derivato il nome “Olmitello,, ma piuttosto da ὄλμος e τελ radice del verbo τελέω che, oltre il significato di condurre a termine, finire, compiere, ha anche quello traslato di guarire, il significato sarebbe lo stesso “l’acqua che guarisce la pietra,,. Non ignoro che le si potrebbe assegnare altra derivazione, come ὁλ - tutto - e μέλδω — liquefaccio, fo liquefare. Ma anche, in questo caso chi non vede disvelata dal nome “Olmitello„ la virtù specifica dell’acqua che scioglie, liquefa tutto? La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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– bruciare - Da νιβ deriva νιπτὴρ - vaso, bacino da lavare - e νίβτρον passato in νίπτρον - acqua da lavare mani e piedi — Νίβτρον unito con δα (verbo δαίω - brucio, ardo) dà νιβτρο-δη), per la caduta di β divenuto νιτροδη, che significherebbe acqua calda da lavare le mani e i piedi. Anche facendo derivare Nitrodi da νιβτρο e ωδή “il canto delle lavatrici„ si avrebbe una conferma di quanto dicevo, giacché il nome Nitrodi, in tal caso, alluderebbe alle donne che solevano recarsi alla sorgente per lavare i panni nella vasca costruita per il bucato accanto a quella per i bagni, e il lavoro disposavano al canto.

Nei libri antichi l’acqua Olmitello è detta “dolcissima, chiara ecc.„ È alcalina e la si beve con gusto grande e - particolare non trascurabile - mescolata con un po’ di vino diviene acidula, effervescente. Nulla dico dell’efficacia di quest’acqua usata per bagno. Nitrodi. — L’acqua Nitrodi - secondo l’analisi fattane dal Laboratorio d’Igiene della Direzione di Sanità - non sarebbe potabile, ma i Baranesi la bevono e - dicono - con grande utilità. Innegabile è la sua efficacia sulle piaghe di qualunque natura. In questo vanno d’accordo popolino e sanitari, confermando, in tal modo, il giudizio che ne fu dato da’ secoli più lontani; giacché Nitrodi era già conosciuta prima di Augusto, (cf. Iscriz. Museo Naz. di Napoli). Lasciando da parte le Ninfe Nitrodi e Apollo protettori della sorgente, il nome stesso indica quest’azione specifica sulle piaghe. Nitrodi - è vero - si fa derivare da νιτρὼδες - pieno di nitro - e però qualcuno afferma essere nitroli diminutivo di nitro - accennando così ad incrostazioni e sedimenti lasciati nel suo corso dall’acqua; ma a me pare più esatta la derivazione dalle due radici νιβ - lavare - e δαF 26 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

Cavascura. — È l’acqua più calda del mondo: raggiunge i 101° C. e viene usata con successo in svariate affezioni. Anticamente la chiamavano anche Aratro, non saprei dire se “perché - come afferma qualche scrittore - aveva la virtù col suo vapore di drizzare il legno, dandogli qualunque forma„ oppure perché - come penso io - aveva la virtù di raddrizzare e far levare su le persone rattrappite da reumatismi, sciatiche, fratture ecc. La radice αρ (αἴρω), donde ἄρατρον significa appunto alzare, levare. Il nome Aratro avrebbe indicato l’effetto prodotto da quest’acqua: e la causa? L’avrebbe indicata l’altro nome più comune Cavascura. Se si guarda l’etimologia, una luce vivissima vien fuori e rischiara di splendori meridiani la sorgente. Trovo, invero, nel greco la radice aF (καιω - brucio, ardo) - da cui deriva καῡσις - abbruciamento, causticazione - e καῡσος - calore estremo. Trovo pure nel greco κούρη - forma ionica invece di κὸρη - ragazza, figliuola (cf. Διὀς κουρος figliuolo di Giove). Unendo καῡσις e meglio καῡσος con κούρη si può avere benissimo καυσ-κούρη – Cavascura - a significare l’alta temperatura, la temperatura dell’ebollizione, detta grecamente e metaforicamente la figlia - κούρη - del calore estremo (καῡσος). Quest’acqua fu analizzata, alcuni anni fa, nel Gabinetto Chimico medico dell’Ospedale Militare di Napoli. Succellaro. — L’acqua di Succellaro - scriveva il Iasolino - “oltre gli altri effetti benefici, fa lustri e lunghi i capelli, guarisce le fessure delle labbra, toglie i difetti dei denti, delle gengive e della faccia, le lentiggini e tutte le macchie brutte,,. Per questo fu da qualcuno definita “l’acqua della bellezza,, e da altri la quintessenza - succo, donde Succellaro delle acque medicinali dell’Isola d’Ischia„. Speciali attrattive doveva possedere la sorgente di Succellaro e su questo concordano gli storici isolani. Essa esercitava un fascino singolare per cui accorreva gente d’ogni parte. Non potrebbero gli antichi aver voluto accennare a quel fascino e a


quell’accorrer continuo di gente col nome Succellaro, sia formandolo con συγ e κελέω - affascino - sia con συγ-καλέω - chiamo, invito? *** Le acque mirabili di questo bacino, anche da sole, sarebbero sufficienti a richiamare l’attenzione del mondo intero: esse, invece, hanno un sussidio terapeutico di primissimo ordine nelle stufe naturali o sudatori. Ce ne sono due, l’una a Testaccio, nota nei secoli come “il primo sudatorio del mondo,, l’altra a S. Angelo. E quasi la natura avesse dato poco con l’acqua e le stufe, vi ha disteso una spiaggia ricca di fumarole attivissime e di arene chiudenti nel seno acqua bollente. Ancora. I Maronti, baciati perennemente dal sole e da apriche colline, difesi dai venti freddi, hanno clima primaverile anche d’inverno: il che rende quella plaga stazione climatica invernale impareggiabile. Sole, clima asciutto e mite, colline incantevoli, vicinanza del mare, che altro si desidera per una magnifica stazione elioterapica? Greci e Romani conoscevano appieno i tesori di quella plaga, la prediligevano e la chiamavano per questa sua speciale condizione Maronti Mάροντες - luogo caldo per eccellenza, luogo che splende, che brilla perennemente, da μαρ (μαίρω - splendo, μαίρα canicola) e ὅντες (εἰμί, sono). E questi tesori, che il bacino meridionale dell’Isola rinserra nel suo seno, giacciono negletti !!!. Si è tentato , è vero, talvolta di dar valore ai Maronti, ma il tentativo è fallito; e destinati a fallire

sono quanti tentativi si potranno fare, ove non si tolga l’unico, vero ostacolo: la difficoltà dell’accesso. Come accedere ai Maronti d’inverno, se l’approdo per mare, in quella stagione, vi è quasi sempre impossibile, e la via di terra è disagevole a non dirsi ? È follia sperare che vi provvedano gli abitanti del luogo. Non fa difetto il buon volere, ma la capacità finanziaria. Solo se il Governo Nazionale vi rivolgerà la sua attenzione, i grandi tesori potranno riacquistare l’antica rinomanza e la scienza medica potrà disporre dei potenti mezzi di cura che offrono quelle acque, quelle stufe, quelle arene fatate. E il buon volere al Governo Nazionale di S. E. Mussolini non manca. Ne è prova l’interessamento che han preso finora l’Alto Commissario S. E. Castelli e i dirigenti la Federazione Provinciale fascista. Essi han promesso di già la strada rotabile dei Maronti. La nuova di tale avvenimento ha suscitato in tutti il più grande entusiasmo. Ciò che sembrava utopia si avvia a diventare realtà: e al nostro sguardo desioso già s’inalba il giorno fortunato in cui Testaccio e i Maronti, dai colli solatii ad anfiteatro, saranno restituiti allo splendore e alla grandezza dei tempi in cui vi accorrevano per i bagni e la villeggiatura la Vestale Cecilia Metella e le Matrone Romane.

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Hans Christian Andersen a Napoli e a Ischia di Carmine Negro

“In mezzo al mare l’acqua è azzurra come i petali dei più bei fiordalisi e trasparente come il cristallo più puro; ma è molto profonda, così profonda che un’anfora non potrebbe raggiungere il fondo; bisognerebbe mettere molti campanili, uno sull’altro, per arrivare dal fondo fino alla superficie. Laggiù abitano le genti del mare. Raggiungemmo Napoli, proprio mentre il Vesuvio era in piena attività: la lava scendeva dal monte oscuro, tracciando radici di fuoco al pino di fumo. Andai a vedere l’eruzione con Hertz e qualche altro scandinavo: la strada sale tra i vigneti e oltrepassa edifici isolati. Ben presto la vegetazione diede luogo ad arboscelli non più grandi di giunchi, e il crepuscolo era una meraviglia per gli occhi”. (Hans Christian Andersen) Hans Christian Andersen (1805 – 1875), figlio di un ciabattino di Odense conquistò l’Europa con le sue innumerevoli fiabe, frutto di viaggi immaginari e reali; altrettante tappe necessarie per portare a compimento il destino annunciatogli da una fattucchiera che, dopo aver letto i fondi del caffè, aveva detto al padre: “Suo figlio diventerà un grand’uomo!“. Un sogno inseguito e realizzato, la vita che si tramuta in una fiaba, raccontata dallo stesso Andersen nell’autobiografia “La fiaba della mia vita“ nella quale lo scrittore rinnova l’amore per l’Italia, “paese delle mie aspirazioni e felicità”, a partire dal primo soggiorno nel 1833. A Napoli giunse nella primavera del 1834; l’umore di Andersen era cupo, stravolto dalla notizia della morte della madre, fiaccato nello spirito per le critiche all’opera teatrale “Agnete e il Tritone” conosciuto anche come “Agnese e l’uomo del mare”. La visione del Vesuvio in piena attività gli provoca slancio, desiderio di scoperta, un senso di rinascita “La sera era infinitamente bella, incantevole 28 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

Hans Christian Andersen (1805-1875)

da vedere” tanto bella da ispirarlo, fargli comporre una poesia: “Tra i monti viola dorme, Napoli bianco vestita, Ischia sul mare fluttua. Come nube purpurea; La neve tra i crepacci. Sta come studio candido di cigni; Il nero Vesuvio leva il capo, cinto di rossi riccioli.” Riacquistata fiducia e sospinto dall’aria primaverile s’incammina con l’amico Henrik Herzt verso il cratere, affondando nella cenere. Lo scenario che incontra è quasi irreale, favolistico e spettrale (“a ogni eruzione la lava veniva nascosta dal fumo, e allora era notte fonda“), la salita è un’avventura tra vapori sulfurei, costeggiando un fiume di fuoco dove la crosta solidificata è fragile. “Vedevamo intorno l’abisso di fiamme, dal cratere saliva un rombo come quando si leva da un bosco un grosso stormo di uccelli��������������������������������� “, scrive Andersen come sotto incantesimo. Nel suo primo viaggio a Napoli visita Pompei, Ercolano, Paestum dove resta colpito da


“una povera fanciulla cieca, vestita di stracci, ma bellissima, una statua vivente“. L’immagine della fanciulla, ciò che ammira a Napoli e la voce del mezzosoprano Maria Malibran al Teatro San Carlo (“ridevo, piangevo, mi sentivo elevato e trascinato; in mezzo all’entusiasmo, in mezzo al giubilo“) confluiranno nell’ “L’improvvisatore“, il primo romanzo moderno danese, nel quale trasfigura se stesso in Antonio, figlio del popolo che giunge a Napoli e tra mille peripezie ottiene il successo conquistando il palcoscenico del Lirico napoletano. Lo scrittore si innamorò a prima vista del capoluogo campano dove trascorreva le sue giornate a zonzo per la città. Riusciva a rientrare dalle sue peregrinazioni solo a notte fonda rifugiandosi in una locanda gestita da una signora tedesca dove si pagavano due carlini per il letto e tre per un lauto pasto; fu senza dubbio un viaggio felice quello di Hans Christian Andersen. L’opera “L’improvvisatore” gli darà il riconoscimento tanto inseguito e la possibilità di viaggiare ancora. Dopo aver inaugurato il ciclo delle grandi fiabe, “La principessa sul pisello“, “La sirenetta“, “Il soldatino di stagno“ tornò a Napoli per una breve sosta nel 1841 in una gelida primavera. “Faceva freddo a Napoli, il Vesuvio e i monti circostanti erano coperti di neve, io avevo la febbre nel sangue, soffrivo nell’anima e nel corpo“. Nella zona a sud di via Toledo, nello specifico tra via Ferdinando del Carretto e via dei Fiorentini, c’era un albergo chiamato dell’Aquila d’oro. Fu proprio questa struttura ad ospitarlo tra il 1840 e il 1841.

Il famoso scrittore e poeta danese non si arrese a questa gelida esperienza e, cinque anni dopo, durante la Pasqua del 1846, mise di nuovo piede in quel di Napoli annotandolo nella “La fiaba della mia vita“. Soggiorna a Santa Lucia: “Erano splendide serate, notti di luna, era come se il cielo fosse stato alzato e le stelle si fossero allontanate“. Subisce l’incanto della luce del faro sull’acqua che a tratti illumina, poi fa ripiombare nel buio il mare. Tutto è magico e reale. Di giorno girovaga ansiosamente tra i moli e i vicoli, tormentato dall’afa: “Come se il sole mi affondasse negli occhi, i suoi raggi mi entrarono nella testa e caddi svenuto“. Visita Capri, poi Ischia, anche Madonna dell’Arco per assistere alla processione; il caldo non gli dà tregua. “I bagni in mare non davano refrigerio, sembravano indebolire più che ristorare; cosa me ne venne da tutto questo? Una fiaba!“. Ispirato da un’atmosfera allucinatoria scrisse “L’ombra“, storia sul riflesso di sé che si distacca dalla propria persona nel trambusto napoletano. Il legame con Napoli fu sempre vivo e presente nel cuore del poeta a tal punto da spingerlo a scrivere queste parole, nel corso del suo soggiorno a Roma: “Dio mio che città calma e spenta in confronto a Napoli“. Leggenda vuole poi che Andersen suggellasse in una frase l’impronta durevole del rapporto d’amore stretto con il capoluogo campano sin dal primo sguardo. “Quando sarò morto, tornerò a Napoli a fare il fantasma perché qui la notte è indicibilmente bella“.

Andersen - Eruzione del Vesuvio – 1834 Napoli, Museo Nazionale di S. Martino La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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Andersen lo scrittore che colorò la vita con le fiabe di Carmine Negro

Nel 1898 lo scrittore George Bernard Shaw ebbe a dire «Tutte le autobiografie sono una menzogna». Quella dello scrittore irlandese è una provocazione, ma nasconde un fondo di verità. ���� Ciascuno di noi, quando si racconta, dice solo ciò che vuole dire per trasmettere una certa immagine di sé o sottolineare un certo pensiero. Molto probabilmente anche Hans Christian Andersen lo fece nella sua autobiografia1, forse omettendo vicende spiacevoli, per sottolineare con forza il suo messaggio: nella vita è possibile il riscatto anche quando si parte da una situazione svantaggiata. Hans Christian Andersen, figlio di un calzolaio, nasce il 2 aprile 1805 a Odense, in Danimarca, nell’isola di Fionia. La famiglia Andersen, che vive in una singola stanza della nonna materna, in condizioni di estrema povertà, conta anche una sorellastra, Karen Marie, avuta da una precedente relazione della mamma. I genitori di Hans hanno una bisnonna in comune: la nonna materna Anna Sørensdatter, che ha avuto tre figli fuori dal matrimonio tra cui la madre di Hans Christian. Il nonno paterno è disturbato psichicamente e lo scrittore temerà a lungo di aver ereditato tale tara, mentre la zia materna gestisce un bordello. Andersen vive in una città ancora legata ai “tempi passati”, dove sopravvivono antiche superstizioni e radicate tradizioni. Grazie al padre, uomo generoso, stravagante e amante della musica, i primi anni di Hans Christian sono ricchi di 1 Hans Christian Andersen La fiaba della mia vita, meledonzelli (2015)

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frequentazioni letterarie e sollecitazioni fantastiche; conosce la letteratura danese dell’epoca, Shakespeare e la lirica in tedesco. La madre, pur essendo analfabeta, intrattiene molto spesso il figlio con racconti popolari e narrazioni di leggende tradizionali. Crede, come il padre, nelle possibilità del figlio e lo ritiene segnato dal destino in ragione della profezia di una vecchia strega del paese che le ha predetto: “Un giorno Odense si illuminerà a festa per ricevere tuo figlio”, una predizione di cui Andersen è a conoscenza. In cerca di fortuna il padre abbandona la famiglia e si arruola nell’esercito per partecipare alle campagne militari di Napoleone. Quando torna è gravemente ammalato e nel 1816 muore. A soli undici anni Andersen rimane orfano; la madre vedova dopo poco si risposa e inizia a lavorare come lavandaia; ben presto diventa alcolista. Hans è lasciato pienamente a se stesso, impara stentatamente a leggere e a scrivere durante le scarse e brevi esperienze scolastiche nelle scuole di carità della città natale. Di indole schiva e con una sensibilità accesa e morbosa, raramente frequenta i propri coetanei. Preferisce restare sdraiato in solitudine all›ombra del cespuglio di uvaspina del cortile di casa, seguire il corso dei ruscelli, aggirarsi per la campagna, fantasticare in assoluta libertà. Spesso si ferma incantato ad ascoltare le storie popolari, le fiabe e le leggende che le vecchie dell'Ospizio di Odense amano raccontarsi. Sembra quindi che il genere della fiaba sia qualcosa di programmato nell’opera e nell’esistenza dello scrittore: costruirsi un mondo fiabe-

sco per sfuggire alla miseria e alla grettezza della vita quotidiana. Quando compie quattordici anni Andersen si trasferisce a Copenaghen con il desiderio di calcare le scene, come cantante, attore e ballerino ma sono anni pieni di difficoltà e per guadagnarsi da vivere si adatta a fare il garzone di bottega e l’operaio in una fabbrica di sigarette. È il tenore italiano Giuseppe Siboni, cantante del Teatro Reale di Copenaghen e futuro fondatore e direttore del Conservatorio, ad accettare di fargli un’audizione e ad adoperarsi per l’ammissione alla Reale scuola di canto e ballo del Teatro Reale Danese come soprano, un ruolo che deve ben presto lasciare quando il timbro della sua voce cambia. Quando viene chiamato casualmente poeta, si scatena in lui un cambiamento di piani: “Mi trapassò l’anima ed il corpo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Sapevo che, da questo momento, la mia mente si era risvegliata alla scrittura e alla poesia”. Jonas Collin, uno dei direttori del Royal Theater ed influente ufficiale del governo, fece una donazione ad Andersen per permettergli di continuare gli studi. Ipersensibile, troppo alto, goffo, in ritardo negli studi, sospettato di dislessia e stupidità attira su di sé le attenzioni degli altri allievi tutti molto più giovani. Un corso di lezioni private,������ ����� organizzato da Collin appositamente per lui, gli consente l’ammissione all'università di Copenaghen, presso la quale completa gli studi. Dopo gli esordi incerti, segnati da una costante ricerca alla scoperta delle vere, personali attitudini, seguendo svariati generi, riesce a ottenere una borsa di studio, per affrontare quel Grand Tour tanto desiderato, vero viaggio iniziatico, che lo porterà, dal mese di


aprile e fino all’agosto del 1834 in Francia e soprattutto in Italia. È proprio nel 1834 che comincia a scrivere il romanzo L’improvvisatore (Improvisatoren) completato al rientro in patria, in cui narra dei suoi viaggi in Italia, che lo rende famoso in tutta Europa. A differenza di Goethe che scende a Sud per possederlo (“Roma è mia”), Andersen si fa possedere non solo dal genius loci ma anche dai personaggi e dai luoghi incontrati nel suo viaggio. La trama narra di Antonio, giovane talento illetterato e ambizioso, alter ego di Andersen, che dopo essere stato adottato, colpevole, per aver investito la madre sotto le ruote della sua carrozza, scappa di nascosto da Roma verso Napoli. La fuga2 con la compagnia di attori, gli amori per donne misteriose e ambigue, ora sensuali ora “anime belle”, la trasgressione dall’autorità familiare, in questo caso adottiva, che lo vorrebbe impegnato in professioni utili, il tentativo di vivere in libertà, la figura di una fanciulla cieca e struggente nella sua malinconica bellezza sono altrettanti aspetti di una realtà umana incontrata nel viaggio. Allo stesso modo nel romanzo sono rilevanti le preziose descrizioni delle campagne intorno a Napoli, l’eruzione del Vesuvio, l’infinitamente blu del mare» nel quale penetrano le montagne della penisola sorrentina e “���� nuotano” isole come Capri. «Ho visto e sentito il paradiso – scrive a Henriette Wulff – dovrò sognarlo, dovrò cantarlo». Camilla Miglio3 ci ricorda che la sua “nascita a sud” avviene a Napoli, quando decide di frequentare il teatro San

Carlo e di entrare nei salotti-bene come “improvvisatore”. Riccardo Reim4 scrive nella postfazione: “quello dell’improvvisazione poetica è un curioso fenomeno letterario italiano che coinvolge in un unicum gesto, espressione, parola, tono e timbro della voce. L’uditorio proponeva uno o più temi su cui il poeta avrebbe dovuto sviluppare la sua improvvisazione, e subito veniva letteralmente ‘catturato’ e chiamato a testimone di una vera e propria epifania della poesia”. L’intero romanzo utilizza l’“improvvisazione”: i luoghi descritti si aprono ad una visione fiabesca anzi a delle “improvvisazioni fiabesche”, storie nelle storie, dove non è mai chiaro se si tratti di sogno o realtà, dove le visioni hanno una spiegazione atmosferica o naturale e il dubbio che si tratti di magia non è mai fugato. Il grande successo de L’Improvvisatore e la possibilità di coinvolgere nella scrittura la propria esperienza presente e passata ci dice che l’incertezza degli esordi è superata. Nell 1835 appare la prima pubblicazione di Fiabe (Eventyr), (L’acciarino; Il piccolo Claus e il grande Claus; La principessa sul pisello; I fiori della piccola Ida), che costituiranno la sua produzione più importante, sebbene non subito riconosciuta come tale. Nei successivi quarant’anni scrive 156 fiabe; sono queste a renderlo famoso fino alla sua morte nel 1875. Nello scriverle utilizza ora motivi della tradizione popolare scandinava, ora rivisitazioni di altre fiabe, come per esempio quelle delle Mille e una notte che aveva conosciuto da bambino grazie al padre. In esse fa parlare animali, piante, oggetti comuni e addirittura il vento con un

2 Camilla Miglio Hans Christian Andersen, L’improvvisatore http:// www.studigermanici.it/images/ Foto_Iniziative/Andersen_Berni.pdf

4 Hans Christian Andersen, L’improvvisatore, a cura di Bruno Berni, traduzione e introduzione di Alda Castagnoli Manghi, postfazione di Riccardo Reim, Elliot edizioni, Roma 2013

3 Camilla Miglio opera citata

linguaggio diretto e quotidiano. Le sue storie5 raccontano quanto ha appreso dalla vita: la consolazione che danno le piccole cose, la straordinarietà della poesia, la felicità che si può provare anche quando si è privi del minimo indispensabile alla sopravvivenza. Narra, con gentilezza, cose difficili: la morte, l’amore non corrisposto, la vanità, mescolando, tra le altre, storie che raccontano le sue difficoltà a trovare la propria realizzazione nella vita e nell’amore. Le narrazioni sono pervase dal profondo spirito popolare danese, un insieme di bonomia, modestia, allegria, monelleria, fierezza ingenua, caratteristico della terra natia, in cui dominano le sfumature e permeate, da uomo realista ma al contempo fiducioso, da un candore infantile nell’abbandono alle proprie sensazioni ed emozioni. Andersen crede che ciò che si anima nelle trame che viene creando, sorridendone, ma ugualmente convinto della loro “possibile” esistenza, è un mondo governato, da una realtà positiva. Per Gianni Rodari6 “La cosa che egli crea e che non esisteva prima di lui (...) è la fiaba nata dall’incontro diretto tra uno scrittore e il suo pubblico, nel quale la fiaba tradizionale non agisce da modello (sono scomparsi i maghi, le fate, le streghe), ma solo da pretesto …. quelle di Andersen nascono nella storia e nella letteratura direttamente, quasi tutte senza aver prima attraversato millenni e frontiere per incarnarsi nella lingua danese … ci aiutano a conformare criticamente la mente e ad affrontare la realtà con occhio spregiudicato”. 5 Maria Saitta Enciclopedia dei ragazzi Treccani 2005 6 Fiabe, prefazione di Gianni Rodari, traduzioni di Alda Manghi Castagnoli e Marcella Rinaldi, I ed., Torino, Einaudi 1970, pp. XX - 326

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Andersen a Ischia (da Ospiti a Ischia (Gast auf Ischia) di Paolo Buchner, versione italiana di Nicola Luongo, pubblicata da Imagaenaria Edizione Ischia, 2002) Dieci anni dopo - 1834 - incontriamo a Ischia Hans Christian Andersen. Questo primo viaggio gli fu consentito da una borsa di studio statale. Purtroppo si tratta di un’escursione molto breve che fu interrotta probabilmente dalle cattive condizioni atmosferiche. Nella sua autobiografia Mit Lius Euentyr si trova una sola frase a riguardo. «Ischia è tra le isole quella che mi ha colpito di meno; ripetute visite non l’hanno innalzata allo stesso rango dell’Isola Tiberina». Ma, grazie ai suoi diari e ad una lettera scritta il 18 marzo 1834 alla sua amica Henriette Wulff, ci possiamo fare un’idea del corso di questa escursione. Dopo la conclusione del carnevale romano Andersen venne in contatto col drammaturgo Henrik Hertz, che aveva anche ricevuto una borsa di studio e già a Roma aveva stabilito con lui di fare un viaggio a Napoli. A Terracina e a Formia i due per la prima volta vissero il fascino del Sud, i giardini di limoni e di aranci, i fichi d’India rigogliosi, le numerose palme. Andersen, incantato dai colori, gettò allora nel luccicante mare azzurro un’arancia matura e riuscì a stento a separarsi da tutta quella meraviglia. A Napoli li aspettava l’avventura di una violenta eruzione del Vesuvio. Quando i due lo scalarono, furono attratti dalla vista sul golfo occidentale non meno che dalla lava rovente che rotolava verso il mare. «Tra le montagne blu sogna la città di Napoli risplendente di bianco. Ischia posa, orlata dal mare, come una foglia purpurea». Quando i due poeti visitarono Paestum, Andersen fu così profondamente colpito da una ragazza cieca, coperta di stracci, seduta sui gradini di un tempio, che essa vive ancora nella figura di Lara del suo Improvisator. A Capri fu la volta della Grotta Azzurra, i cui colori magici incantarono tanto Andersen che la fece conoscere anche ad altri. Infine il 14 marzo fu anche la volta di Ischia. Oltre ad Hertz si unirono altri tre connazionali e così furono in cinque quando a Pozzuoli presero, malgrado il mare molto agitato, una barca che doveva portarli prima a Precida. Andersen scrive: 32 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

«Il sole andava calando, il vento e la corrente erano contro di noi; dovemmo ammainare la vela; era quasi impossibile combattere contro le onde che sollevavano in alto la barca e la orlavano colla loro schiuma bianca; mi tenevo forte ai due lati e vacillavo così continuamente che mi sentii quasi male. La costa mi appariva sempre molto lontana, ad un tratto vedemmo come in direzione di Gaeta emergesse dal mare una tromba d’aria e i marinai ci spiegarono come si possa essere ingoiati o trascinati in alto da essa come in un imbuto. Remavano con tutte le forze, ma era come se le onde ci respingessero indietro. Ad un tratto la tromba d’aria diventò rosso sangue, malgrado il sole fosse già tramontato; non mi sentivo affatto bene». Il progetto di approdare a Precida fu presto abbandonato e furono contenti quando alla fine arrivarono col buio al Borgo d’Ischia. «Trovammo qui alloggio tra persone semplici che ci diedero quello che avevano, salumi, insalate, uova e frutta; il vino era abbastanza buono, tutta la famiglia ci stava a guardare. Venne un ufficiale e ci fece visita. Gli offrimmo da bere, al soldato regalammo un carlino, poiché non avevamo documenti. Il vasellame si riduceva ad una brocca di vino. Zeuthen, uno degli accompagnatori, era ubriaco e furioso. Ci addormentammo tutti e cinque in una camera immersa in un buio pesto». Che in questi casi si possa sistemare tutto con una mancia, lo si sperimenta sempre. August Mayer (1834) racconta ad esempio che, quando fece una visita a Paestum, nel lasciare la città non potè esibire alcun documento, su consiglio del suo carrozziere premette sulla mano dell’agente di polizia cinque grani e questi ringraziò con un profondo inchino. Nel diario di Andersen è inoltre scritto: «Come soffrii la sete quella notte! La mia bocca si screpolò. Alle 7 prendemmo altri asini, io preferii andare avanti. Era una via disagevole, verso l’alto attraverso vigneti, di notte era nevicato, tanto che ci trovammo in pieno inverno. Alberi e cespugli spogli; tutt’intorno un sottile strato di neve; scalammo il vecchio cratere bruciato e scorgemmo la lava sino alla spiaggia». Questo è tutto quello che Andersen ha da dire della cima e della sua vista. Quando poi si avviò a


discendere l’impervio sentiero per Casamicciola, si rallegrò che gli altri di tanto in tanto dovessero scendere dall’asino. Arrivati a Piazza Bagni, visitarono l’ospedale del Monte della Misericordia con i suoi nuovi impianti per sudatori e sabbiature. Doveva essere una compagnia piuttosto strana quella tra cui si trovò Andersen. Ascoltiamo quello che viene eternato nel diario: «Ci fermammo in una mediocre trattoria, dove, per salire al secondo piano, fummo condotti attraverso alcuni corridoi. La donna aveva nove bambini, abbastanza graziosi. Zeuthen, che già la sera precedente era furioso e ubriaco, si diverti-

va a infilare il suo bastone nella bocca di uno dei bambini. Poiché avevo veramente paura per il piccolo, dissi: “Attento”. “Oh - rispose - questa è la stupida fantasia!” Noi lo abbiamo deriso. Ognuno mi pagò allora per la cassa comune un mezzo scudo, si posò il denaro sul tavolo e calcolai le spese; quando volli raccogliere gli scudi, ne mancava uno. Hertz, Lendel e Berg conoscevano le loro monete e Zeuthen affermò che lui aveva depositato anche la sua, perciò una doveva essere stata rubata. La situazione diventò imbarazzante, pregai di rimanere calmi, la perdita sarebbe stata coperta da me, ma penso che in fondo Zeuthen non l’avesse posato, ma solo creduto di averlo fatto».

Roma - Mostra La bellezza ritrovata

etrusca a figure nere del VI secolo a.C, entrambi frutto di brillanti recuperi. Costituiscono il cuore della prima sezione i dipinti cinquecenteschi di proprietà del Museo Nazionale San Matteo di Pisa, anch’essi recuperati dal Nucleo di Firenze nel 2014, a conclusione di una complessa e serrata attività d’indagine. La seconda sezione presenta opere provenienti dal territorio marchigiano colpito duramente, a partire dall’agosto del 2016, dal terremoto che ha devastato il Centro Italia. I manufatti provengono in parte dalle collezioni dei Musei di Force e Comunanza, chiusi al pubblico per i danni ricevuti dal sisma e in corso di ristrutturazione. La terza sezione infine focalizza i danni provocati al patrimonio artistico dalla stessa mano dell’uomo, in particolare dai confitti tra i popoli, un tema questo, purtroppo, di grande attualità. Come esempio significativo abbiamo voluto ricordare il caso della Cattedrale di Benevento, colpita dalle bombe degli alleati nel settembre del 1943 e quasi completamente rasa al suolo. Vengono così esposti gli elementi superstiti dei due amboni dell’inizio del XIV secolo, nonché alcuni oggetti del Tesoro della Cattedrale egualmente recuperato dalle macerie.

Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori 2 giugno - 26 novembre 2017 Il nostro patrimonio artistico è continuamente sottoposto a furti, vandalismi e danneggiamenti dovuti a disastrosi eventi naturali come per la mano dell’uomo. Ma l’arte negata, mortificata, obliterata - proprio per la stessa volontà dell’uomo, con il suo impegno, la sua caparbietà a ricomporre, a ricostruire — può risorgere dalle macerie come la fenice, si può rivelare di nuovo. Non è impossibile dunque recuperare la bellezza perduta. La mostra che si propone è costituita da tre sezioni esemplificative della tematica sopra esposta. La prima è dedicata all’attività di recupero e tutela svolta dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale. Si apre con due straordinari reperti archeologici, un cratere a volute lucano del V-IV secolo a.C. e un hydria

Fuggire Fuggire lontano dal mondo da patimenti, dolori. Fuggo alla ricerca di vita, quella vera, da tempo sognata, e la ritrovo al canto del mare, mia culla, mia strada, mia origine. Gaetano Ponzano La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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Serrara - Il 25 settembre 2017

Festa di Santa Maria della Mercede di Giulia Colomba Sannia Come sempre in pochi giorni i fontanesi con passione, entusiasmo, molta fatica, si sono prodigati a rendere la festa settembrina bellissima. Cercherò di spiegare il motivo per il quale, oltre ad essermi commossa come sempre, quest’anno mi sono incantata. Ho sentito il divino in ogni fase della cerimonia. E non solo perché col passare degli anni le emozioni diventano più intense. Il divino è indicibile: �������������������������������������� si può avvertire come emozione attraverso la luce, la musica, l’amore, tre esperienze così familiari, ma anche così inafferrabili. Nel ciel che più della sua luce prende fui io e vidi cose che ridire né sa né può chi di là su discende dice Dante che, dopo l’Inferno e il Purgatorio vorrebbe “spiegare il Paradiso” Ma è impossibile spiegare Dio. Non basta il crescendo di luce e di musica che c’è nel Paradiso: divino ed umano restano più che mai lontani. Solo la fede e l’emozione conducono a Dio, attraverso il figlio Gesù. Perciò Dante conclude il suo viaggio con la famosa preghiera alla “Vergine Madre” la quale, riunendo in sé divino e umano, può condurlo ad un’esperienza indescrivibile con la sola forza della parola. Lo stupore di fronte al Divino Ma dov’è il divino? S. Agostino dice che il divino è bellezza assoluta. Questa bellezza non è solo nell’incanto di un paesaggio, nella musica, nelle luci, nel silenzio, nei canti, nelle processioni. È soprattutto nell’uomo quando ha una mente serena e un cuore in pace. Questa interiorità rende bellissimi i volti stanchi e rugosi degli anziani, i volti dei giovani ridenti e felici nell’orgoglio di portare a spalla le tre statue della Madonna e dei Santi nonostante l’impervio percorso rituale. C’era un’atmosfera di amore in tutti. Qualcuno nella processione reggeva un figlio, altre donne commosse e forti avevano un nipotino sulle spalle perché vedesse meglio, o se molto piccolo nella carrozzina. Altri davano il braccio per i più deboli. La verità era che la grande gioia che vibrava nell’aria, produceva un’inconsueta allegria perché si camminava veramente insieme non solo con le preghiere e i canti. Sì, insieme. Ero stanchissima per molti motivi, ma comunque 34 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

ero lì, venuta come sempre in tempo per la festa. Volevo fermarmi alla prima tappa, ma persone più anziane e più sofferenti di me mi hanno incitata a continuare e mi dicevano: M’hai riconosciuto? Sai chi songh io? Sì. Certo, Sì ti riconosco T’aiuto, vieni, che te manteng’. Era perentorio l’invito: impossibile rifiutare. Sono molto autorevoli le donne del paese, specie le più anziane. E così ho seguito un poco esitante, preoccupata, i tre percorsi della processione e cioè: 1) Salire dalla chiesa verso l’Epomeo, girare per casa Mattera, come ogni anno, e scendere sulla statale per fermarsi a metà strada di fronte alla croce. Qui c’è stato un grande silenzio: Chinate solo il capo per ricevere la benedizione dalle mani del sacerdote. Nessuno si è inginocchiato, nessuno ha rotto l’incanto con un gesto, con un movimento. Sullo sfondo il mare e il cielo stellato. Piccole luci sul muretto indirizzavano verso la seconda tappa a Casapane. 2) Scendere la ripidissima strada che porta a Casapane fino alla piazzetta, gremita di gente e non un solo posto a sedere, nonostante la quantità delle sedie sistemate in bell’ordine come non rivedevo da anni. Così, seduta su di uno scalino umido e basso, desideravo tanto ritornare sulla piazza. Ma le amiche forti nonostante un poco anziane mi hanno detto di aspettare. Quando è iniziato lo spettacolo, ho dimenticato tutto, grata a chi mi aveva convinta a scendere. Avevo di fronte uno scenario meraviglioso, nuovo, ricco di simboli, frutto di particolare creatività che ha messo insieme ogni competenza. Il termine di moda del linguaggio politico è sinergia. Qui avevano lavorato intelligenze rare e di grande cultura. Mi è sembrato di poter leggere una sorta di lotta tra il male e il bene. In fondo c’era l’altare e sul retro dell’altare si alzavano verso il cielo splendidi fuochi colorati secondo la tradizione, che salivano da una specie di nuvola di nebbia. La nostra “amata” nebbia fontanese. Poi la lettura di alcune terzine dantesche: la preghiera di Dante alla Vergine Maria del canto XXXIII del Paradiso. “Vergine Madre Figlia del tuo figlio… Infine la musica suonata con la tromba antica di legno a forma di corno; che cosa abbiamo ascoltato? La colonna sonora del film Il Gladiatore. Non so se ho capito bene, ma ho pensato ad un collegamento con la vicina festa di S. Michele Arcangelo, la cui sta-


tua porta l’armatura di soldato romano. Dall’età romana al medioevo di Dante, dalla grandiosa tecnologia dei fuochi colorati del ‘900 alla cinematografia contemporanea. Perché il Gladiatore, il soldato romano per eccellenza? Che cos’è, infatti, la nostra fede se non una lotta continua e coraggiosa contro il male fuori di sé e dentro di sé? 3) La processione si avviava a concludere il percorso in ring composition cioè ad anello, dalla Parrocchia a Noia e da Noia alla Parrocchia da dove era partita: un percorso rigorosamente tradizionale con le preghiere, la benedizione, tra i canti e i fiori dai balconi e poi l’arrivo nella piazzetta di Noia, la piazzetta dei bambini con le panchette degli anziani. Qui la benedizione finale, ancora preghiere, canti, musica e soprattutto la solita pioggia di petali di carta colorati che, volteggiando nell’aria rigida, sembravano fiocchi di neve o potevano essere anche visti come petali di rose. Un’allegoria del Paradiso? Difficile per le mamme molto pazienti convincere i bambini a non metterli in bocca. Intanto le fiaccole accese, rette dai fedeli, illuminavano la salita per il ritorno nella chiesa calda e accogliente. Appena arrivati, ancora fuochi di straordinaria bellezza, e assordanti suoni per allontanare le forze del male chiudendo una festa che lasciava spazio ancora a tanta energia e al desiderio di continuare senza sentire più stanchezza. “La festa non deve finire”, cantavano un tempo i giovani fontanesi… Tre santi, tre direzioni, tre tipi di musica. In chiesa e per via, la Madonna, S. Nicola, S. Vincenzo dei Paoli. Anzitutto la Madonna della Mercede che ha tra le mani una “catena spezzata che ci lega a Lei con la “catena” dell’amore, colla “catena”del rosario e scioglie i “nodi” della nostra vita come la Madonna dei Nodi di Ausberg a cui il Papa raccomanda di rivolgere preghiere per essere liberi da ogni dipendenza di cui non siamo consapevoli o a cui non riusciamo a sottrarci. Riprendono sempre i canti: Tu dalle vie stellate scendesti ai nostri lidi... Tu sei l’orgoglio di Fontana… A te sciogliamo il canto, Vergin della Mercede, all’ombra del tuo manto, viva serbiam la fede… Il popol di Fontana grato e fedel s’inchina. Ho citato volutamente senz’ordine alcune strofe, perché quello che stupisce è la memoria di tutti i fontanesi che accompagnano il canto senza aiuto della lettura. Il codice linguistico è aulico, difficile e forse non è necessario che sia chiara ogni parola, specie per gli anziani. È questa memoria storica che commuove. Così come quando ho sentito la messa in latino cantata da tutti. Una fede semplice che viene dal cuore

simile al silenzio. Dio sa ascoltare. Due santi generosi. San Nicola, il santo pugliese che dette il suo aiuto a tre ragazze poverissime di Bari lasciando cadere dalla finestra delle loro case tre globi d’oro come dote per potersi maritare. Poi divenne S. Nicolaus confuso con Babbo Natale. Simbolo, quindi, di generosità e di soccorso per tutti coloro che hanno bisogno. Come vescovo di Mira è patrono della Russia per averla difesa dalle invasioni turche (di qui anche l’allusione nel canto alla Madonna della Mercedes. San Vincenzo dei Paoli, fondatore delle Orsoline, ugualmente impegnato ad aiutare le donne povere che volevano divenire suore. Il lamento dei cuori: un’ultima riflessione. Andrea Bocelli ha scritto un libro autobiografico “La musica del silenzio”. “Il silenzio è difficile da imparare. Il silenzio è musica. Il silenzio che qui di tanto in tanto accompagnava i canti, le soste per le benedizioni, lasciava spazio al fascino del paesaggio stellato, il mare, i monti, la luna nel buio della notte, le luci delle fiaccole che oscillavano nella salita e le installazioni in cui prevaleva il blu e il verde, due colori che non stancano l’occhio. Soprattutto diventava preghiera. Tu ascoltasti il lamento dei cuori. La bellissima strofa che si canta durante la discesa della Madonna dall’altare, ripetuta per tutto il tragitto ci ricordava che solo lei, la Madonna a cui tutti sono devoti fin da bambini, poteva curare le ferite dell’anima. Nella notte stellata, più delle parole, è stato questo silenzio lungo, concentrato, a diventare lacrima, a diventare preghiera. Tutti hanno bisogno di Dio inconsapevolmente: ogni storia, ogni vita porta dentro la ferita, sente male e dolore nascere nel cuore. La Madre Amorosa è stata ritta ai piedi della Croce - stabat Mater e ha visto morire straziato Gesù, suo figlio bambino -. E Gesù le ha affidata l’umanità intera, perché lei che è madre di tutti insieme col redentore suo figlio ” corredentrice”, aiutasse a capire come percorrere la via della salvezza. Non a caso l’iconografia talvolta presenta alcune immagini di Maria senza il bambino in grembo, come ad esempio la Madonna di Lourdes, la Madonna di Pompei, la Madonna di Fatima ecc. In tal caso come madre dell’umanità, ci accoglie tutti come figli per darci Gesù. Il perdono libera il cuore e, quindi, ci rende liberi da tutte le catene. Ma è Gesù che opera in noi e non ci lascia soli nello sforzo di dimenticare e perdonare.

Giulia Colomba Sannia

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Il racconto

Un parcheggio contestato L’ automobile è diventata da anni diffusissima; più o meno dagli anni 1970 anche a Ischia è in uso in ogni famiglia, anzi in molte, specialmente in quelle numerose, più di un’auto e spesso bisogna aggiungere qualche vespa o motorino. Il che ha apportato certamente vantaggi, garantendo alle persone una spedita e comoda mobilità. Ma per il numero eccessivo, soprattutto nei piccoli paesi, le auto occupano lo spazio libero, rendendo problematica la circolazione anche pedonale. Sono diventate perciò un motivo di forte contenzioso sulle strade, nei condomini, e non solo. Spesso le liti sfociano addirittura in violenza e non è esagerato dire che in molti casi c’è scappato anche il morto. I rapporti tra vicini, che per generazioni sono stati idilliaci, si sono alterati per il posto-macchina fino ad una accesa inimicizia ed addirittura odio. In ogni caso non si capisce per qual motivo molte persone pretendono di parcheggiare davanti alla proprietà altrui piuttosto che alla propria. Bene, succede a volte anche questo. In una strada, o piuttosto in un vicolo, con circolazione a senso unico perché consente appena il passaggio di un'auto e di non grossa cilindrata, un tratto di pochi metri si allarga di tanto da contenere il parcheggio di due macchine strettamente accostate al muro, con l’accortezza di ritirare gli specchietti da ambo i lati. In verità l’antico muro che delimitava in quel tratto la proprietà dalla strada fu sostituito da un cancello largo diversi metri per consentire l’ingresso di un furgone che riforniva un’attività commerciale nelle vicinanze che oggi non c’è più. Oggi i due posti da tempo vengono occupati con una certa prepotenza da un “signore”, che ha la casa sull’altro lato della strada, di fronte al cancello, giustificando il suo comportamento, tra l’ altro, con l’affermazione che un tempo c’era un muro e non un cancello così lungo. Il proprietario del cancello e dello spazio interno, non avendo modo di parcheggiare a sua volta e forse neppure di entrare, si lamenta spesso nei riguardi di un uomo che interpreta tutto a suo vantaggio e non ha nessuna disponibilità al dialogo per raggiungere una soluzione concordata. Si sviluppa così un clima di inimicizia che porta a liti al momento per fortuna soltanto verbali. Un giorno si notò che sulle auto erano stampate alcune macchie bianche e marrone o anche più scure. In effetti in zona si posavano sul cavo della linea telefonica, teso tra due pali, due colombi che dall’alto, lasciavano cadere i loro escrementi sulle auto. Allora un contendente ebbe un’idea: “e se invece di due, i colombi fossero dieci o venti e magari anche con qualche gabbiano? Ma come fare??:” Forse in questo poteva esserci la soluzione del problema!! Quindi pensò di rivolgersi a qualche esperto di volatili che, conoscen36 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

done le abitudini, avrebbe potuto dargli qualche valido suggerimento. Infine si prestò per questo un signore che faceva parte dell’associazione di protezione degli uccelli, che facendo un sopraluogo, volle osservare anche dall’alto la zona e individuò il tetto in “asteco battuto” di una vecchia cantina che era nelle vicinanze della strada, ma soprattutto del cavo telefonico. “Allora - disse - forse qualche risultato potremo ottenerlo: “distribuisci il cibo ai colombi sul lastrico solare della cantina che opportunamente è tua. Sempre alla stessa ora”. Proprio in quel momento le campane della vicina chiesa parrocchiale squillarono per annunziare il mezzogiorno. “Ecco, prendi come riferimento il suono delle campane a mezzogiorno perché tutto sia disposto e pronto”. La consulenza e le diverse visite dell’esperto ornitologo costarono circa mille euro al cliente che subito si recò al consorzio per acquistare una buona provvista di mangimi appetibili dai colombi. I gabbiani ormai si erano abituati a mangiare di tutto. L’indomani, pochi, minuti prima di mezzogiorno, versò il mangime in diversi contenitori ed inoltre anche riso che aveva bollito ed insaporito con salsa di pomodoro. Disposto tutto sul posto stabilito, il pranzo era servito, si attendevano i commensali. Il nostro uomo si ritirò nella sua casa e stando dietro la persiana del soggiorno osservava la situazione. Pochi secondi ed un primo gabbiano atterrava in tanta abbondanza, poi un secondo ed un terzo, ed ancora decine di colombi. Intanto squillarono le campane di mezzogiorno. Il primo passo era riuscito. E dopo pochi minuti un gabbiano, evidentemente sodisfatto dell’inaspettato pasto prese il volo per posarsi in cima al palo che reggeva il cavo, seguirono alcuni colombi che preferirono posarsi sul cavo ben allineati uno dopo l’altro. Ed ecco che finalmente incominciarono a far cadere dall’alto grossi medaglioni bianchi e marrone ed alcuni più scuri che si stampavano sulle due auto parcheggiate. L’evento voluto ed atteso si era verificato superando ogni aspettativa. Intanto il proprietario delle auto, accortosi di quanto stava succedendo, dalla strada brandendo una scopa minacciava i volatili anche con urla per allontanarli. Ma invano, continuavano a cadere medaglioni che si stampavano sulle auto. Infine dovette ritirarsi. Dopo uscì con secchio e straccio per lavare le auto, con tante imprecazioni, da tanto sudiciume. Ben presto però si rese conto che era un lavoro inutile perché quella pioggia speciale non cessava e dovette ritirarsi. Sono passati mesi, le auto sono lì, nonostante l’evento si verifichi ogni giorno. Sempre sulla carrozzeria ci sono tanti medaglioni lasciati dai colombi. Gli espedienti a cui ha fatto ricorso il parcheggiatore non hanno sortito effetto. Negli ultimi giorni è comparsa su un’asta alta verso il cavo dove posano i colombi addirittura una “civetta” che dovrebbe allontanarli. Finora però non si è avuto nessun risultato. Giuseppe Silvestri


Rassegna Libri

I dipinti delle pareti e della volta della stanza 1.1 della Torre Guevara Die Wand- und Gewölbemalereien in Raum 1-1 im Torre Guevara Ischia - Untersuchung und Erarbeitung eines Konservierungs- und Restaurierungskonzepts Maria Grünbaum

Dal 2011 i restauratori della Università di Dresda guidati dal Prof. homas. Danzl e dalla Prof.ssa Monica Castaldi Martelli hanno condotto varie campagne di restauri nella Torre Guevara di Ischia. Tra loro un ruolo molto importante ha svolto la D.ssa Maria Grünbaum che ha partecipato all’individuazione dei disegni originari-nascosti anche sotto venti altri strati di pittura - ed al loro recupero. Ha poi prodotto una dettagliatissima tesi di specializzazione con un quadro completo delle operazioni condotte e delle

modalità più adatte alla ripulitura e conservazione dei dipinti, nonché degli interventi necessari per la migliore fruizione di questo importante monumento ischitano. La tesi è stata consegnata al Comune di Ischia, alla Soprintendenza di Napoli ed una copia è conservata nella Biblioteca Comunale di Ischia. Il Circolo Sadoul d’Ischia ha curato una prima traduzione provvisoria, soggetta a revisione da parte di tecnici del restauro, della parte descrittiva della tesi in tedesco, pubblicata sul proprio sito (www.

Un'area costiera

di incomparabile bellezza paesistica di Ilia Delizia È trascorso molto tempo da quando alcuni membri del direttivo del Circolo Georges Sadoul di Ischia vagheggiavano la possibilità di proiettare la torre Guevara, un’architettura residenziale turrita di chiara matrice rinascimentale, in imprese culturali di respiro internazionale. L’idea si rafforzava, da una parte, in considerazione dello stato di trascuratezza in cui veniva lasciato l’immobile, manchevole non solo delle cure appropriate a garantire la sua integrità materiale nel tempo ma anche privo di una destinazione d’uso compatibile con il suo valore storico-ambientale; dall’altra l’idea prendeva vigore dal riconoscimento incondizionato dell’unicità del contesto: un’area costiera di incomparabile bellezza paesistica dove sopravvivono i segni di quel giardino di delizie in cui in origine la torre si immergeva, ed ancor

sadoul.it). In introduzione è presente un intervento della prof.ssa Ilia Delizia, che qui gentilmente ci è stato permesso di pubblicare.

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più per quel gioco sottile di corrispondenze che contrappone in serrato dialogo la casa turrita e il Castello, l’isolotto abitato e fortificato che vi si para dinnanzi. Ebbene, se quanto vagheggiato non si è ancora raggiunto per la scarsa considerazione che nel nostro Paese gode la sorte dei nostri beni culturali, nel frattempo si è venuto accumulando sulla torre e intorno alla torre un tale patrimonio di informazioni, di conoscenze, di narrazioni, ma anche di attese, da farci credere che l’obiettivo sperato non solo si possa ma si debba raggiungere. Con l’accordo di programma La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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promosso e gestito dal Circolo Sadoul e sottoscritto tra enti e strutture interessate (il comune d’Ischia quale ente proprietario e le Soprintendenze quali organi di tutela) è stato possibile infatti portare avanti un programma di azioni conoscitive e di interventi conservativi su volte e superfici parietali della torre, le quali celavano, sotto strati eterogenei (intonaci, scialbi, incrostazioni di vario tipo) una complessa e ricca stratificazione figurativa e materica. L’intesa, maturata con l’Università di Belle Arti di Dresda, nello specifico con il Corso di Pitture Murali e Policromia Architettonica diretto dal prof. Thomas Danzl, nel coinvolgere competenze e professionalità di indiscusso profilo, ha visto impegnati nell’operazione “torre Guevara” specializzandi del corso che, a gruppi, con campagne di studio e di lavoro applicativo, distribuite nell’arco temporale 2011-2016, hanno dissepolto e restituito alla collettività pitture nascoste e cicli figurativi di grande interesse storico e artistico. L’operazione di ricognizione, partita con una campionatura a tappeto su pareti e volte della torre, si è poi subito concentrata su una delle sale del piano nobile, esattamente quella in angolo ad est, aperta immediatamente sulle scale, individuata dopo i primi sondaggi quale sala di rappresentanza della famiglia proprietaria. Muovendosi con metodo comparativo e confronti stilistici, il lavoro di squadra ha infatti rin-

tracciato qui le matrici formali che hanno fatto da modello all’impianto originario dei dipinti ischitani, consentendo di collocare Ischia nei circuiti europei della cultura figurativa del tardo Rinascimento. In questo contesto di singolare esperienza didattica e formativa è nata la tesi di specializzazione della dott.ssa Maria Grünbaum che ha come oggetto I dipinti delle pareti e della volta della stanza 1.1 della torre Guevara – Ischia. Presente nei vari cicli operativi, la Grünbaum ha potuto sperimentare direttamente sul campo tutto il percorso delle analisi e le scelte operative adottate per la liberazione delle pitture. Svolta sotto la guida del prof. Thomas Danzl che ne è stato il relatore e con la correlazione del prof. Christoph Herm, la tesi viene ora presentata presso la sala consiliare del comune d’Ischia con l’intervento dello stesso relatore e della prof.ssa Monica Martelli. Proposta come trasposizione, riveduta ed ampliata, dei risultati registrati durante il soggiorno formativo sul campo, questa tesi racconta tutta l’esperienza di rilevazione e valutazione delle pitture scoperte nella sala in esame, dei danni su di esse riscontrati e delle cause che li hanno prodotti, come pure dà conto della natura della materia pittorica, della sua organizzazione formale e delle misure di conservazione individuate per il suo recupero. Corredata da una ricca appendice in tre volumi, la tesi raccoglie e custodisce i resoconti delle numerose analisi effettuate: dai rilievi me-

Ischia - Torre Guevara o detta di Michelangelo 38 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017


trici e descrittivi alle foto, dalle rilevazioni dei dati fenomenologici, agli esami radiologici e alle analisi di laboratorio, dai protocolli ai test. Si tratta, in sostanza, di un lavoro ampio, minuzioso e puntiglioso che, se da una parte si può leggere come il protocollo del Corso di formazione in Pitture Murali e Policromia Architettonica di Dresda, dall’altra offre un esempio del riscontro di conoscenze pratiche dirette richieste ad un’aspirante professionista del settore. Un’esperienza, quella della tesi sui dipinti della torre, che si rivela, perciò, un esempio alto di rigore metodologico e di approfondita conoscenza ed esperienza della pratica applicativa. Realizzata in lingua tedesca questa tesi, grazie a Rosario de Laurentiis, è stata tradotta in italiano, ad eccezione degli allegati, per essere offerta a quanti sono interessati alla conoscenza del lavoro svolto in questi anni alla torre e alle potenzialità fruitive che da esso ne possono e debbono scaturire; per questo essa si potrà leggere in rete sul sito del Circolo Sadoul. Tale modalità, mentre risponde all’esigenza di una divulgazione diffusa, è anche testimonianza della sinergia che il Circolo Sadoul, attraverso i suoi membri più ‘volenterosi’, ha saputo stabilire con il gruppo di lavoro, con cui ha condiviso momento per momento la sorpresa delle scoperte, gli interrogativi di decodificazione delle pitture, l’impegno alla collaborazione. Basta ricordare come, allo scoprimento di due pannelli di plausibile soggetto storico, che interrompono la composizione a grottesche, sempre De Laurentiis si sia tuffato immediatamente in una operazione appassionata di decodificazione iconografica e storica che lo ha portato a scavare lontano, nell’alto medioevo, tra i cavalieri bretoni, dove “trova” i capostipiti della famiglia Guevara, il cui legame con la torre ischitana, confermato anche dal ritrovamento di riferimenti araldici, è un elemento di assoluta importanza per chiarire la storia della famiglia proprietaria, le ragioni di un ciclo decorativo databile a cavallo la metà del Cinquecento, l’uso e le trasformazioni dell’immobile nel tempo. Ritornando al contenuto della tesi, e a conferma dei suoi meriti in ordine allo stretto rapporto tra rigore metodologico e approfondita conoscenza degli aspetti tecnico-applicativi, mi piace richiamare l’approccio analitico alle superfici dipinte. Esso non si ferma al riconoscimento della sovrapposizione di strati afferenti ad epoche diverse e quindi anche a mani diverse ma, entrando nel merito degli aspetti tecnici di dettaglio (composizione delle malte e delle vernici, materiale co-

stitutivo di ciascun colore e sua interferenza con additivi, tecnica esecutiva, specifiche di reazione chimica agli agenti esterni, ecc.) qualifica di elevatissima professionalità gli interventi conservativi. Il dialogo continuo tra il dato che emerge dalle indagini sul monumento e l’analisi stilistica dei dipinti, che utilizzano, nella volta come sulle pareti, disegni a grottesca di artisti fiamminghi e tedeschi come modello, a tratti coperti da successivi interventi, suffragano con forza le ipotesi interpretative, le quali così (e solo così) diventano dati storici. L’azione conservativa, realizzata con il consolidamento dell’intonaco rinascimentale e degli strati di pittura che coprono tutte le stratificazioni della fabbrica, viene valutata, da una parte, in ragione del proposito di restaurare le pitture rinascimentali sottostanti, dall’altra essa è condizionata al risanamento statico e funzionale della torre. Difatti le due azioni, quella conservativa dei partiti decorativi e quella del risanamento del manufatto architettonico, sono fortemente connesse, tant’è che nella tesi si legge: “quest’azione è al primo posto dal momento che condiziona tutti gli ulteriori lavori”, visti i danni che il suo stato di trascuratezza e di abbandono hanno provocato e continuano a provocare a volte e pareti dipinte. Se la correttezza metodologica ha rappresentato una garanzia per gli interventi conservativi alla torre, tanto si sono tenuti insieme l’analisi diretta e quella filologica, la previsione delle azioni successive pone una serie di interrogativi risolvibili solo attraverso una scelta critica della traduzione provvisoria e soggetta a revisione tecnica da parte della HfBK di Dresda. Sebbene pare si possa condividere l’orientamento di privilegiare la presentazione delle pitture grottesche, sia per il loro stato di conservazione e di leggibilità complessiva di un ciclo pittorico rinascimentale, che per la scarsa consistenza e frammentarietà delle sovrapposizioni successive, ciò nonostante occorre grande discernimento nelle azioni di pulizia per evitare di liberare completamente i dipinti dalle patine, espressione di grande valore storico. Degli interrogativi legati a queste questioni ovviamente la tesi fa solo un accenno, tanto esse sono scelte che riguardano il progetto di restauro. Ilia Delizia

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Ischia l’isola di Mussolini Dalla visita del Duce all’esilio di Rachele

di Benedetto Valentino Valentino editore, pagine 206, maggio 2017

Benedetto, dopo attenti studi e approfondite ricerche in vari archivi (quelli comunali dell’isola d’Ischia e quello centrale di Roma), oltre che in giornali d’epoca, racconta la storia “del ventennio fascista sull’isola d’Ischia, un periodo che, nel bene e nel male, ha plasmato tutto ciò che accadrà nel dopoguerra”, espressione di un periodo in parte già rivissuto attraverso le pubblicazioni di Albanelli1 e Silvestri2. Il libro si incentra sul legame particolare tra il cittadino onorario Benito Mussolini e Ischia, tra il fascismo e gli isolani, un rapporto profondo che ha inciso nella società locale un segno indelebile. Con la pubblicazione di questa ricerca vi sono nuove certezze storiche. L’Italia in questi anni, pur riuscendo a diventare la terza nazione del mondo per espansione del settore turistico, è spaccata a metà: al Nord si registra un grande incremento di hotel e pensioni, al Sud invece le strutture sono poche. Escludendo Taormina e Mondello in Sicilia e la Costiera Amalfitana in Campania, tutto il resto non presenta alcun insediamento turistico di rilievo. Il fascismo comprende che Ischia è una delle poche realtà del Mezzogiorno dove il turismo ha grandi potenzialità inespresse ed emana ben tre leggi ad hoc: nel 1938 riunisce tutti e sei i comuni in un unico municipio, nel 1939 crea l’Ente Valorizzazione e nel 1941 approva una legge “per l’antico comune di Lacco Ameno”. Presentatore del progetto di legge per la valorizzazione dell’isola è Benito Mussolini in prima persona, che pone Ischia come località privilegiata rispetto a tutte le altre stazioni turistiche italiane, memore di una antica promessa fatta agli ischitani che da subito avevano aderito al fascismo e che furono tra i primi in Italia a concedere le chiavi della città al futuro Duce. La legge di valorizzazione dell’isola nasce quindi come “legge Mussolini”. Fu intuita anche la necessità di avere un piccolo ospedale, la prima struttura sanitaria moderna dell’isola, la “Casa delle Gestanti” di Via Alfredo De Luca, che rappresenta anche l’ultima opera costruita dal fascismo in tutta Italia. Solo la guerra impedisce che si concretizzino tutti i progetti elaborati per la valorizzazione dell’isola. 1 Albanelli Nunzio, Largo Croce, diario di uno scugnizzo al tempo dell’occupazione anglo-americana, Massa, Napoli 2011. 2 Silvestri Giuseppe, Ischia base navale inglese1943-1946, Valentino editore 2005.

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Come Giano bifronte il fascismo manifesta però anche l’altra faccia: ogni aspetto della vita pubblica è sottoposto a censura e controllato. In tutta l’isola gli antifascisti sono soltanto nove, ma solo due di loro, un contadino e un marittimo, pagano per tutti con il confino. Proprio perché l’isola è, per definizione, un territorio circoscritto e quindi facilmente controllabile, sotto la copertura della società “Società Anonima Vinicola Meridionale” operano decine di agenti dell’Ovra, il servizio segreto, che nel nostro territorio vigilava rifugiati politici e artisti provenienti da tutta Europa. Va sempre ribadito che il fascismo si macchia del crimine più grande contro l’umanità: le leggi razziali e i campi di concentramento. Se è vero che gli ebrei “italianizzati”, proprietari di alberghi a Casamicciola, sono risparmiati dalla repressione, va sicuramente ricordato il caso di Edgar Kupfer-Koberwitz3 che proprio da Ischia, dopo una “soffiata”, è prelevato e consegnato alla terribile Gestapo. Dopo il soggiorno isolano sarà trasferito a Dachau, dove sarà condannato a morte. Un altro episodio ci fa comprendere le ragioni militari del bombardamento anglo-americano dell’8 settembre su Forio. Nel 1942 i tedeschi avevano montato come sistema di difesa nella base militare dell’Epomeo 3 Di Edgar Kupfer – Koberwitz la Casa Editrice Imagaenaria d’Ischia ha pubblicato nel 2003 la versione italiana (traduzione del prof. Nicola Luongo) di Die Vergessene Insel. Erlebnis eines Jahres auf Ischia col titolo di Ischia l’isola dimenticata.


un “disturbatore sperimentale” di segnali radar che impediva agli aerei anglo-americani di centrare gli obiettivi. Il sistema fu distrutto dal bombardamento, ma quella che doveva essere una “operazione mirata” su un obiettivo militare strategico si trasformerà in una strage di civili innocenti. Segue il capitolo sulla drammatica occupazione inglese che procura molti più danni della guerra, riducendo alla fame la popolazione. Per contrastare i soprusi dei militari inglesi, da Ischia parte persino un appello alla Società per le Nazioni per il rispetto dei diritti umani e delle convenzioni sottoscritte da Winston Churchill. L’ultimo capitolo è dedicato alla presunta apparizio-

ne del fantasma di Mussolini nella casa di Forio, dove si trovano in esilio la moglie Rachele e i figli. L’obiettivo di questa ricerca rimane la verità documentale, quella che emerge dalle carte dei vari archivi, con il fine ultimo di colmare un vuoto nella storia, che va anche al di là di quella locale. Poiché non mi è mai piaciuta la ricostruzione postuma dei vincitori, né quella descritta dai vinti, tanto meno potevo arrendermi alla totale cancellazione e alla distruzione di ogni memoria. La storia merita sempre di essere trasmessa ai posteri e poiché è trascorso quasi un secolo dagli avvenimenti descritti, essa può solo costituire motivo di studio e non più ragione di divisione politica (Prefazione).

Specchi riflessi di Luciano Castaldi Progetto grafico di Alcast Grafica & Marianna Coppa, 2017 Luciano Castaldi riporta in questo libro “note, articoli, emozioni, ricordi…, materiale già pubblicato”, precisando, però, che il tutto “è stato ampiamente rivisitato, corretto, approfondito, tagliato e cucito”, per cui si può dire che, a leggere le varie pagine, ci si trova dinanzi a qualcosa di nuovo, di inedito: visitazione e non rivisitazione. Ed ecco che rivivono momenti di vita vissuta, partecipati ad un pubblico, noto o meno non importa, attraverso la “concretezza e la fedeltà di un libro, scritto con la passione e l’amore” che hanno sempre guidato l’autore nelle cose che ha fatto. I momenti positivi e negativi sono visti e considerati nella massima coerenza e compostezza, lungi dall’esaltare gli uni e sprezzare gli altri, magari per ottenere plausi e consensi in un senso e giustificazioni nell’altro. Ci piace riportare dal libro di Castaldi la pagina relativa al Vico Annunziata di Forio, relativa ad un periodo non troppo bello di Forio (e non solo di Forio) Sono tornato in vico Annunziata, il vicolo del centro storico di Forio dove sono nato. Sono tornato lì per farmi un po’ di male. Per vedere da vicino quanto già sapevo. Vico Annunziata: non so se sia storia o leggenda ma pare che si chiami così a ricordo di una «ruota» per neonati abbandonati. Ricordo bene il «buco» attraverso il quale venivano passati i bambini: una pietra ben lavorata che mi ha sempre intenerito e suscitato mille domande. Quel foro nel muro, insieme ovviamente all’edicola votiva dedicata alla Madonna, erano i nostri unici motivi d’orgoglio. In effetti, il «nostro» non è mai stato un vicolo pulito, ordinato, profumato o particolarmente «solare»; la sua caratteristica di essere non soleggiato suscita in chi lo percorre un’ombrosa, crepuscolare, malinconia. Non ci abbiamo mai giocato a pallone in quel vicolo cieco.

Da bambini, di giorno, ci passavamo svelti. Zigzagando tra gli escrementi dei cani. Di notte invece, se l’unico lampione si fulminava, volavamo per evitare le cacche e i brutti incontri con le ombre e i rumori che forse sentivamo solo noi. Di corsa, a gambe levate, chiamando mamma ad altissima voce fin su le scale e pregando la Madonnina del vicolo di farci la grazia di arrivare a casa senza dover cenare e penare a causa dello stomaco rivoltato dal fetore delle «delizie» calpestate. A parte questi dettagli, vico Annunziata - modestamente - vantava la presenza dell’ultimo pollaio (serio) che la storia di Forio ricordi. In pieno centro storico, centinaia di coccodè dal fetore insopportabile La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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Forio : Vico Annunziata e "buco" attraverso il quale si passavano i neeonati (Foto Antonio Schiazzano)

circondati da un esercito di topi. A furor di popolo, con una raccolta firme, si decretò la chiusura del pollaio. Firmarono tutti, non mia madre. Per doverosa riconoscenza verso chi quel pollaio teneva in piedi, la signora Maria D’Ascia che ci «restituì» l’acqua corrente negata dai padroni di casa. Ora, di fronte a quel che accade lì, nessuno parla, protesta, propone petizioni. Insomma, vico Annunziata era tutt’altro che il nostro orgoglio di ragazzini timidi e pure (diciamolo) un po’ problematici. Orfani di padre in una casa che, seppure molto dignitosa, ci sembrava sempre troppo

piccola, troppo alta, troppo vecchia, col cesso e la cucinina fuori al terrazzo. Non vedevamo l’ora di cambiare. Eppure, quando finalmente abbiamo lasciato quella casa, ci venne un magone inspiegabile. E anche ora, se ci penso... L’altro giorno dunque sono tornato in quel vicoletto. Mi avevano detto di altri scempi all’edicola votiva dedicata alla Madonna di Pompei. Ho trovato come prevedibile la «mia» Madonnina tra cumuli di fetida munnezza e nuovi, scandalosi lavori abusivi… (…).

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Si odono le Muse

Corso basilare di comunicazione giornalistica scritta di Massimo Coppa

Manuale pratico, in forma di lezioni, di comunicazione giornalistica scritta, con particolare riferimento ai quotidiani (cartacei ed on line) ed ai siti Internet d’informazione. Consigli semplici per scrivere un articolo giornalistico e qualsiasi testo in generale

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Ischia

nelle arti visive francesi dell’Ottocento di Nicoletta D’Arbitrio, Luigi Ziviello Editrice “ad est dell’equatore”, giugno 2017; in copertina: Lancelot Théodore Turpin de Crissé, Il Monte Epomeo nell’isola d’Ischia.

Nell’Ottocento, al seguito del Grand Tour — o indipendentemente da esso — l’isola fu “riscoperta” e minuziosamente esplorata al suo interno da artisti e architetti provenienti dai vari paesi europei, e in particolare dalla Francia: Hébert, Corot, Michallon, Robert, de Crissé, Blouet, Bodinier, Bonnefond, e… numerosi altri, le cui tracce costituiscono il motivo di questa ricerca. “Ed è di eccezionale valore artistico e storico la rappresentazione inedita della realtà ambientale dell’isola con i suoi abitanti, così come si presentava agli occhi dei pittori nell’attraversare territori impervi e di struggente bellezza. È a partire da Valenciennes e da Denis che l’isola, benché nota per le sue acque termali, viene vista ed esplorata nell’incanto dei luoghi e nell’intimità culturale dei suoi abitanti, nei quali ritrovare i naturali discendenti del mito classico, come affermava il critico Etienne-Jean Delécluze a proposito della pittura di Léopold Robert. Una dimensione inedita che pittori e scrittori racconteranno nel corso dell’Ottocento; Ischia diviene il centro dell’attenzio-

ne e quello degli artisti sarà un viaggio emozionale, un trasporto intenso e coinvolgente come riporterà Turpin De Crissé nel libro Souvenirs du golfe de Naples. Si deve agli artisti che si avvicendarono sull’isola, ai loro album, ai loro incantevoli disegni, se non è andata del tutto dispersa l’immagine del suo passato” (interno di copertina).

Misteri di Ischia (terreni e ultraterreni) Enigmi , suggestioni ed inquietudini dell’Isola Verde di Massimo Coppa Youcanprint Editrice, maggio 2017. In copertina, Arnold Boöckling: L’isola dei morti (terza versione)

Indagine condotta su fatti misteriosi e inquietanti che, direttamente o indirettamente, vedono coinvolta l’isola d’Ischia. Una prima parte riguarda fatti che “pur essedo oscuri, sono riconducibili a prosaiche situazioni naturali e materiali”; nella seconda sono invece raccolte “circostanze caratterizzate dall’ambigua ed impalpabile sostanza dei fenomeni soprannaturali”. Abbiamo così da leggere e da ricordare circostanze, a volte non troppo lontane, su eventi su cui

si è scritto in vario modo nel tempo, ma che possono sempre “incontrare l’interesse delle persone” e costituire ancora materia di riflessione e interrogativi e perplessità. Una questione variamente interpretata, anche da parte di famosi archeologi e studiosi, è per esempio la famosa frase di Strabone circa la presenza dell’oro sull’isola d’Ischia, di cui in questa sede si può leggere in parte quanto riporta Massimo Coppa (testo riportato a parte con autorizzazione dell’autore); desta curiosità La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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ancora la domanda se fosse ischitana la “Gioconda”; piacevole leggere notizie e avvenimenti che hanno come riferimento la “dama nera” di Lacco Ameno (1953); sconcerto e amarezza suscitano la vicenda dell’aereo britannico che si schiantò contro un versante dell’Epomeo (1947) ed il comportamento che ebbero alcuni isolani. Si trovano citati nel libro fatti e personaggi del periodo bellico; vi si parla delle basi militari dell’Epomeo, delle apparizioni di Zaro e tanto altro ancora: siluri nucleari sovietici, armi chimiche, spie britanniche, profezie mariane, presenze maligne, riti segreti, vescovi profeti, templi solari…

Oro nel sottosuolo dell’Isola Verde Da Strabone in poi, cercando di raggiungere un miraggio (...)

A parlare per primo di oro ischitano è l’antico geografo greco Strabone. Questi, nel libro quinto della sua “Geografia”, scrive. “Pitecusa fu colonizzata da Eretriesi e da Calcidesi che, benché vivessero nella prosperità grazie alla fertilità della terra e alle sue miniere d’oro (cruseia), abbandonarono l’isola a seguito di lotte e anche perché cacciati da terremoti e da eruzioni di fuoco, di mare e di acque bollenti”.

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In realtà, questa affermazione di Strabone è stata in seguito sempre minimizzata, se non ridicolizzata, perché si partiva dal presupposto che ad Ischia non si fosse mai sentito parlare, successivamente, di miniere d’oro ed anche perché, come detto, secondo i geologi di un tempo, un’isola vulcanica non presenta le condizioni per la formazione di questo minerale. Già Patrizia Mureddu, in un articolo comparso nel n. 27 del 1972 de “La parola del passato”, benemerita rivista di studi antichi, rilevava che l’espressione greca che sta per “miniere d’oro”, usata dallo Strabone, fosse una corruzione (dovuta a trascrizioni successive?) e che significasse, all’origine, “fonderie di bronzo” o, addirittura, botteghe ceramiche”: una cosa completamente diversa, dunque! E che Ischia sia luogo di ceramiche è storicamente notorio; e forse anche di fonderie di bronzo (anche se su quest’ultimo punto c’è una controversia che dura da decenni). Comunque è assodato che si tratti di un luogo dove il bronzo, ed i metalli in genere, anche d’oro, venivano lavorati: ed in questo si viene confortati dagli studi di Giorgio Buchner (archeologo di fama mondiale, scopritore dell’insediamento greco a Lacco Ameno), il quale sostenne di aver ispirato questa tesi alla Mureddu. Giustamente Giuseppe Pipino, in un interessantissimo e documentatissimo saggio comparso su “La Rassegna d’Ischia” n. 6/2009, a cui queste righe sono enormemente debitrici, nota icasticamente che “l’attitudine ad attribuire ad errori delle fonti i particolari che non si riescono a spiegare è piuttosto comune, ma, fortunatamente, il progresso delle conoscenze porta talora a riconoscere la giustezza di notizie in precedenza ritenute prive di fondamento”: è il caso, occorso allo stesso autore, della convinzione che non fossero mai esistite miniere d’oro in Sardegna, per cui decreti di regolamentazione del settore emanati dagli imperatori Valentiniano, Graziano e Valente sarebbero frutto di un errore, di un equivoco. Invece sarà lo stesso Pipino a dimostrare che di oro, in Sardegna, molto probabilmente ce n’era: e la stessa tesi l’applicherà ad Ischia,, confortando le sue ricerche con un’indagine sul territorio e scrivendo, nel 1989: “Nell’isola di Ischia sono state riscontrate, al momento, soltanto lievi anomalie (d’oro) in alcuni livelli piroclastici e ai contatti tra vulcaniti ignimbritiche e sedimenti marnosoarenacei: locali arricchimenti superficiali stanno forse alla base dell’antico ritrovamento aurifero citato da Strabone”. In realtà di oro ischitano parlano anche Elisio (personaggio di cui non si sa quasi nulla, medico alla Corte Aragonese di Napoli), nel 1500, e Giulio Iasolino nel 1588: e la localizzazione del giacimento viene indicata in un punto preciso. Ovviamente ogni ricerca è oggi impossibile, essendo la zona in questione (di cui dirò il nome fra poco) totalmente urbanizzata: però la suggestione resta. Giuseppe Pipino si è preso doverosamente la briga di verificare alla fonte: ha rintracciato e studiato una copia dell’opera di Giovanni Elisio presso la Biblioteca Nazionale di Bologna. Probabilmente pubblicato postumo nel 1519, dedicato al principe Bernardino Sanseverino di Bisignano, il libro censisce sinteticamente i “bagni”, cioè le fonti termali e sorgive, di tutta la Campania, con le malattie che essi guariscono. Dopo un articolato excursus critico sulla storia, le vicissitudini e le contaminazioni dell’opera di Elisio, il Pipino scrive: “Nell’esemplare preso in esame, i ‘bagni’ di Ischia sono gli ultimi ad essere enumerati e, alla fine, si trova una breve nota sull’eruzione del 1301, interessante perché è una delle prime e perché l’evento è esattamente datato. Segue l’indice (rubrica) e, dopo di questo, un breve commiato diretto al solito principe Sanseverino, nel quale l’Autore vanta, oltre alla bontà medi-


cinale delle acque, la fertilità del suolo e la presenza di prodotti naturali: dice, fra l’altro, tradotto dal latino, che l’isola ‘... abbonda di solfo, allume e oro, come fu in passato accertato dagli eccellenti e perspicacissimi veneti’”. Ecco una conferma! L’isola “abbonda di solfo, allume e oro”. Della presenza ed estrazione, nonché lavorazione, dello zolfo e dell’allume c’è assoluta certezza storica. Quindi, l’affermazione sembra fondata e se ne dedurrebbe che valga anche per la presenza dell’oro. Lo stesso Pipino conferma che, nel Quattrocento, le miniere di allume ischitane erano gestite da mercanti veneziani. Anche Scipione Mazzella, nel 1586, nella sua “Descrittione del Regn0 di Napoli” scrive che “nell’isola d’Ischia, detta anticamente Aenariaa vi è la miniera dell’oro, e dell’allume, le quali le ritrovò Bartolomeo Perdice Genovese nel 1465”; e ancora, in un libro basato sull’Elisio e pubblicato nel 1591, il Mazzella scrive che ad Ischia vi sono “miniere d’oro, di allume e di solfo, che furono scoperte nell’anno 1465 dal genovese Bartolomeo Perdice”. Tuttavia lo stesso Pipino getta acqua sui facili entusiasmi, ricostruendo fatti, circostanze e date da cui risulterebbe che, in effetti, il Mazzella abbia equivocato alcuni punti cruciali. D’altro canto, di questo fantomatico “Bartolomeo Perdice” non si sa praticamente nulla, essendo arrivati a noi solo alcuni riferimenti presenti in qualche libro antico. Il medico calabrese Giulio Iasolino, nella sua celeberrima opera “De rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi detta Ischia”, del 1588, scrive: “(...) e sono in essa miniere d’oro, come è manifesto non solo per quello che lasciò scritto Strabone, ma anche col testimonio de’ moderni: sì come si dimostra con l’autorità di Giovanni Elisio: il quale nel suo libro, che scrive de’ Bagni di Terra di Lavoro, e dedicato al serenissimo Bernardino Sanseverino, principe di Bisignano, dice che l’isola d’Ischia è abbondante e ferace di frutti, di eccellentissimo grano e vino generoso, di solfo, di allume e d’oro, come ancora l’hanno ritrovata e sperimentata i nobilissimi e ingegnosissimi Signori Venetiani”. Ed aggiunge: “Vi è anco la miniera dell’oro a Campagnano vicino la cappella di Santo Sebastiano; e questa credo sia quella che scrisse Strabone, e ancor quella che avessero gli anni a dietro esaminata, e fattone pruova i Signori venetiani, secondo quanto si legge appresso a Giovanni Ellsio, come abbiamo detto”. Abbiamo dunque, finalmente, anche l’individuazione della zona: la frazione ischitana di Campagnano! E l’esatta indicazione della miniera: “vicino la cappella di Santo Sebastiano”. Questa chiesa esiste ancora oggi? Non è forse proprio la chiesa che affaccia nella piazzetta principale di Campagnano? Essa si chiama, attualmente “dell’Annunziata”, ed è stata realizzata dopo il 1600; quindi in apparenza, non dovrebbe essere quella a cui si riferisce lo Iasolino Tuttavia, come si legge in una sezione del sito Internet della “Rassegna d’Ischia” dedicata agli edifici religiosi isolani, “nel secolo XVII esisteva nella zona una chiesa dedicata a S. Sebastiano in cui si venerava l’Annunciazione di Maria. Non si sa se in seguito questa abbia cambiato titolo oppure, abbandonata, ne sia stata costruita un’altra sotto il titolo dell’Annunziata, che fu restaurata ancora nel 1792”. Quindi, la chiesa di cui parla lo Iasolino può perfettamente essere quella odierna; o un’altra, ma comunque in zona. Nota Giuseppe Pipino nel suo articolo che “la localizzazione della miniera d’oro a Campagnano fu probabilmente suggerita a Iasolino da ricordi ancora vivi sul posto e, a quanto dice, egli poté vederne le tracce (‘... e chiaramente se ne vede una, in quel luogo, dove dicono Campagnano’)”. E ancora:

“La miniera d’oro è indicata, in latino (‘Auri fodina’), sulla carta topografica allegata alla pubblicazione dello Iasolino, carta eseguita nel 1586 dall’incisore romano Mario Carfaro su incarico del medico napoletano e su sue precise indicazioni. Nella carta, orientata a sud, è riportata la legenda dei bagni e dei toponimi, in latino e in italiano, con riferimento alla Fodina auri, miniera di oro”. Ancora lo Iasolino ci sorprende affermando che a Casamicciola, in zona Ombrasco, vi è “un fonte non molto grande, ma di copiose e abbondanti acque chiare, e dolci e senza nessun odore ingrato. Quivi, non senza grande stupore, s’osserva una bellissima meraviglia della natura: perocché quando il fonte è pieno, e ben netto, quelle acque mostrano nella loro superficie uno escremento d’oro, che fa una tela sottile, quasi un sottil velo d’oro finissimo di più di ventiquattro carati.... noi l’abbiamo voluto chiamare bagno Aurifero: perché mena seco l’oro, siccome si legge fanno molti fiumi; anzi abbiam più volte sperimentato e particolarmente quest’anno, 1583, abbiamo fatto vedere a molti signori (...) che accostando leggermente la pianta della mano sopra la superficie dell’acqua vi si attacca quella tela d’oro... È la miniera di questo bagno (per quello che si può raccogliere dalla sua distillazione e dall’essamine della terra e del sale) di oro: ma (per quello che io giudico), mescolato con qualche parte di rame, e con alcuni pochi vapori di solfo...”; concludendo significativamente, come detto: “Né si deve meravigliare niuno di sì fatto bagno, poiché Strabone, e altri, scrivono in quella isola essere miniere d’oro, e chiaramente se ne vede una, in quel luogo, dove dicono Campagnano”. Lo Chevalley de Rivaz, nel 1831, nel suo libro “Précis sur les eaux minérothermales, et les étuves de l’île d’Ischia”, si occupa dell’argomento, asserendo che non è impossibile che ci sia stato dell’oro sull’isola d’Ischia, anche se non se ne trova più, perché “la ricca miniera di Nagyac (oggi ‘Najac’, in Francia, NdA), posta nel cratere di un vulcano spento, prova che non è impossibile la presenza di una miniera d’oro in un paese vulcanico”. Ed oggi la scienza ci dice che, in effetti, è possibile. È ancora il Pipino a tirare le somme del discorso: “E, infatti, le condizioni geologiche dell’isola d’Ischia, secondo le conoscenze più recenti e contrariamente alla vecchia opinione, sono favorevoli alla presenza dell’oro e alla sua precipitazione sotto forma di particelle submicroscopiche di origine epitermale (oro invisibile). Particolarmente indiziati sono l’attività vulcanica recente, l’ambiente acido, la presenza di campi di fratture (faglie), di fenomeni di alterazione delle rocce (caolinizzazione, alunitizzazione e argillificazione), la diffusione di solfo, di solfati di potassio e di alluminio (allume e allumite) e di solfato di rame (calcantite). Mancano però, o sono scarsi, i fenomeni di silicizzazione e, quindi, la formazione di potenti banchi silicei necessari per ospitare importanti concentrazioni aurifere, ma non è detto che non ce ne fosse stata qualche vena, e proprio a Campagnano dove è evidente la presenza di estese faglie allungate in direzione NE-SW. D’altra parte, la presenza di silice è segnalata in varie parti dell’isola, sotto forma di stalattiti di natura silicea e di incrostazioni silicee sulla superficie di ammassi di pozzolana (De Siano, 1801), nonché di opale stalattitico (Jervis 1874). Dunque, in conclusione, l’oro, ad Ischia, può esserci stato. Non tantissimo, non da sguazzarci dentro, ma un pochino, magari, sì. Ora però, non ce n’è più: mettiamoci l’anima in pace (Massimo Coppa).

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Archivio Diocesano di Ischia Cronache religiose dell’episcopato di Felice Romano

Dal diario del cerimoniere vescovile di Ischia Canco Aniello Sassone A cura di Agostino Di Lustro ed Ernesta Mazzella Cronaca del 15 Aprile 1855 in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata [ff.11-19] [f. 11] - 15 Aprile 1855 Notizia in ordine alla Solenne Pubblicazione del Dogma sull’Immacolata Concezione della Nostra Gran Madre di Dio, e Nostra Gran Signora Maria, avvenuta in questa Città d’Ischia sotto gli auspici del Sempre prelodato Monsignor D. Felice Romano Vescovo di questa Diocesi d’Ischia. Ogni onore, che mai dar si potesse in questa Valle di lagrime alla Nostra Gran Signora Maria è un nulla in paragone di quello, che gli si deve; quella Potentissima Maria, cui servono per corona le stelle, per ammanto il Sole, per trono di Sua magnificenza la luna, per cui volendo descrivere la Solenne Processione, avvenuta in questa Città per la pubblicazione del Dogma sullo Immacolato Concepimento di Maria, non faremo Altro, che mettere a’ Suoi venerati Piedi un piccolo buché di fiori in segno di riconoscenza, e di filial venerazione: quindi essendosi destinata la đ (detta) Processione pel giorno 15 di questo corrente Aprile 1855. [f. 12] Domenica in Albis per tale avventuroso avvenimento da farsi con tutto lo splendore della Nostra Sacrosanta Religione, era all’iscopo necessario della istessa, quindi questo Vescovo in accordo col Comandante di questa Piazza Signor Maggior D. Francesco Testa, e col Sindaco di questo Comune Signor D. Leonardo Mazzella il giorno 10 di detto mese percorsero tutta la Città per raccogliere delle largizioni da’ fedeli per maggiormente accrescere la sontuosità della festa: lo che in realtà ebbe luogo in un modo prodigioso, atteso le critiche circostanze di tempi, particolarmente in quest’isola, per la mancanza del ricolto del Vino, unico di lui prodotto a causa della malattia da più anni sofferta, pur tuttavia la gente di ogni classe, divota, e fervorosa verso la S. Vergine a gara si cooperava ad accrescere la somma da servire a tale opportunità, tanto che in meno di una giornata si cumularono circa D. 160 dopo di che si diedero delle disposizioni per tutto quello, che avrebbero abbisognate per accrescere il lusso della festa medesima. Infatti essa ebbe luogo nel modo seguente. Verso le ore 22 del giorno 14 corrente uscì processionalmente dalla Congregazione di Santa Maria di [f. 13] Costantinopoli di questa città la statua della Vergine 46 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

riccamente addobbata, preceduta dalla banda municipale di Forio, dalla Congrega medesima, dal Seminario, e da due Capitoli, cioè quello della Collegiata, e quello della Cattedrale col suo Vescovo, quest’ultimi tutti in Cappamagna, percorrendo i vicoli interni della Città colla strada del Ponte, ed era bello il vedere le Case tutte addobbate a festa non solo, ma ancora si osservano le strade tutte pulite, atteso gli abitanti di quei luoghi da giorni antecedenti si erano a ciò a gara occupati dopo di che la statua della Vergine Immacolata fu introdotta nella Cattedrale, la quale era ornata totalmente nelle sue parate, e fornita a sua dovizia di cere e situata la Statua sotto un magnifico dosello, furono cantati degli’Inni in onore della Vergine, un Sermone pronunziato dal Vescovo analogo alla circostanza, indi fu impartita al popolo fedele la benedizione col SS.mo Sacramento colla Sfera. Verso poi la sera si vide il paese come una face, giacché non vi era tugurio, né abitazione di persona agiata, che non si vedeva fornita di lumi a ribocco, distinguendosi tra le illuminazioni quelle della Cattedrale, [f. 14] del Castello, della Casa Comunale, del Corpo di Guardia Urbana, e delle Case di alcuni Signori particolari, non escluso l’Episcopio, quali illuminazioni si erano eseguite con particolari intrecci da rendersi incantevoli in una serata placida, ed amena, come fu quella del 14, che si rendeva più gioiosa per i diversi concerti eseguiti dalla detta Banda fino ad ora avanzata. L’alba del giorno 15 fu annunciata ai fedeli collo sparo di centinaia di mortaletti, e fattasi l’ora conveniente fu nella Regia Cattedrale celebrata da Monsignor Vescovo Solenne Pontificale Messa con essere intervenuti tutte le autorità Militari e Civili. Verso le ore pomeridiane si vide il moto di più migliaia di persone, che da tutte le parti dell’Isola venivano a salutare la Gran Madre di Dio, mentre alle tre p.m. era destinato il primo movimento della Processione in parola. Indi nella indicata ora cominciò a sfilare la Processione con lo stendardo della Cattedrale, sotto cui erano tutti i galantuomini del paese, non che i Corpi municipali, i Capi Urbani di tutte le pubbliche Amministrazioni dell’Isola, seguito da un trofeo allusivo alla cerimonia accompagnato da un Coro di ragazzi uniformemente vestiti, e fornito ciascuno: di un gi[15]glio simbolo della Verginità di Maria, i qual cantavano degli Inni sul suono della musica paesana. Dappresso venivano le Congreghe situate in questo modo. La Congregazione


di Spirito di S. Luigi di Forio tutti ragazzi quasi dell’istessa età vestiti di sacco. La Congregazione Laicale Arciconfraternita di Visita Poveri di Forio (che quantunque l’avrebbe spettato l’ultimo luogo ad insinuazione del Vescovo cederono a quella di questa città). La Congregazione Laicale di Serrara, quella di Fontana, quella di Testaccio, quella di Barano, quella di Lacco, quella di Casamicciola, e finalmente quella di questa Città medesima. In prosieguo erano piazzati i Monaci de’ Minori Riformati di S. Francesco di Forio; Gli Agostiniani di Lacco, perché ciò non li spettava furono licenziati indi venivano i Cleri dell’Isola piazzati nel modo seguente. Il Clero di Fontana e Serrara cui due Parrochi colla Croce di Fontana. Il Clero di Barano, Testaccio e Moropano coi tre Parrochi colla Croce di Barano. Il Clero di Casamicciola, e Lacco coi suoi Parrochi colla Croce di Casamicciola. Il Clero del Comune di Forio coi suoi Parrocchi [16] colla Croce del Clero medesimo. Il Clero di S. Domenico di Campagnano col suo Parroco, e Croce, essendo il Parroco vestito di Mozzetta, perché Canonico Onorario della Collegiata. Il Capitolo della Chiesa Parrocchiale, e Collegiata dello Spirito Santo, e S. Vito Martire di questa Città colla Sua Croce, che ci intervennero ancora tutti quei Preti della Parrocchia di S. Vito, appartenenti. Finalmente il Capitolo della Chiesa Cattedrale col suo Vescovo Pontificalmente vestito, come anche i Canonici vestiti di pianeta sotto il Rochetto, appresso la Croce del Capitolo ci era l’intero Seminario Diocesano. In fine la Vergine Immacolata sotto il Pallio, che veniva portato da distinti galantuomini del paese col seguito di tutte le Autorità locali Militari, e Civili, le quali venivano chiuse dall’insieme forza Militare qui esistente, e da cento uomini della Guardia Urbana proceduti dalla banda musicale di Forio. La Processione in tal modo organizzata percorreva le principali strade consolari del Comune in mezzo al continuato fuoco di mortaletti, prese la direzio[17]ne verso la villa de’Bagni con traversare tutto il circuito del Porto, ove era bello il vedere, non solo nel suo ordine, che in un cerchio più centinaie di persone si osservavano, ma ancora nell’ammirare particolarmente di un passaggio di un ponte all’oggetto fatto costruire alla bocca del porto medesimo dal Cavalier Quaranta, qual direttore di esso Porto, onde far si che la stessa avesse potuto percorrere da un lato all’altro a piedi asciutti, ove ancora era del pari ravvisare un bel Altare ivi formato con corrispondente piramide per far ivi sostare la Venerabile Statua, e dar luogo al Vescovo di far sentire all’immensa calca di gente colà radunata le lodi della Vergine con un apposito sermone analogo alla circostanza, ed impartire la benedizione colla Reliquia della Vergine, lo che fu ripetuto nella nuova Chiesa di S. Maria di Porto Salvo, che si sta costruendo alla parte opposta dell’imboccatura del Porto medesimo, ove similmente era stato eretto ben formato sacello sotto di

cui fu accolta la Vergine Immacolata. Era bello il vedere, che nell’uscire, che fece la Statua della Vergine dalla indicata Chiesa tutte le barche, e battelli, che ivi si rattrovavano facevano de’fuochi di gioia, che da per ogni dove si eseguivano. Dopo tanta novità unica fino al momento nell’Isola, la Processione faceva ritorno nella Regia Cattedrale fra il continuato sparo di più migliaia di mortaletti. Arrivato lo stendardo al cominciar della strada Terrazappata, e terminando gl’individui tutti delle anzidette Congreghe divisi in due ali sino allo spiazzo della Cattedrale stessa di modo, che i due Capitoli, il Seminario, la Vergine, e tutto il corteggio passarono in mezzo a doppia fila di persona, e di lumi, qual cosa verso le ore 24 facevano veramente una vista assai sorprendente. Nella medesima Chiesa Cattedrale, collocata la Statua nel suo apposito trono fu impartito dal Vescovo al popolo fedele la benedizione del SS.mo colla sfera; dopo di che tutta la gente di fuori Comuni colla medesima tranquillità, e pace benedicendo il Signore, e la SS.ma [19] Vergine Maria se ne ritornarono né propri focolari, e quella del paese a godere della descritta illuminazione, e del suono della banda municipale. In ultimo nel mattino del giorno 16 fu riportata processionalmente la Statua della Vergine, donde era uscita nell’istesso modo, come il giorno 14. Ad perpetuam rei memoriam Agnello Can.co Sassone Canllre Vescovile

L’Immacolata L’Immacolata è il titolo mariano più conosciuto e venerato tra i tanti presenti sulla nostra Isola. Ben quattro chiese ancora oggi presentano questo titolo e quasi in ogni chiesa vi è un altare o almeno una immagine, sia essa scultura o pittura. Tra le feste mariane, quelle dell’Immacolata e dell’Assunta, che oggi ha perso molto della sua spiritualità e importanza riducendosi a una festa “vacanziera” (il Ferragosto), erano le feste mariane più importanti per il popolo dell’isola d’Ischia; oggi è rimasta solo la prima nel suo autentico valore spirituale. Non fa meraviglia, quindi, che la proclamazione del dogma l’8 dicembre 1854 adopera del beato Pio IX, abbia suscitato negli isc hitani tanto entusiasmo e abbia rinnovato e incrementato il culto e la devozione verso Maria Immacolata. Ciò si verificò anche attraverso vari festeggiamenti come ci viene tramandato dal can. co Aniello Sassone e come quelli che si svolsero anche a Forio, e ripetuti ancora una volta nel primo centenario, nel giugno del 1954, come ben riLa Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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cordiamo perché vi abbiamo assistito di persona, anche se allora eravamo bambini. Volendo brevemente presentare la forte presenza di questo culto nella nostra Isola, dobbiamo sottolineare che esso si diffonde particolarmente a partire dal secolo XVI. Prescindendo dal tratteggiare le vicende della lunga discussione teologica che nel corso dei secoli, soprattutto medioevali, si è sviluppata intorno a questa verità di fede conosciuta da tutta la chiesa ma non ancora accettata da tutti perché non ancora proclamata come dogma, sottolineiamo che queste si sono intrecciate intorno a questo privilegio mariano con grandi figure di santi e teologi che, intorno ad esso, hanno battagliato per secoli. Le più antiche tracce a Ischia di questo titolo e culto mariani non sono documentarie, bensì iconografiche e si riscontrano in tre tavole dipinte tra la fine del XVI secolo e il terzo decennio del successivo. Le troviamo nella basilica di S. Maria di Loreto e nella chiesa di S. Francesco a Forio (a dire il vero questa seconda tavola, oggi collocata nell’abside della chiesa, è più antica dello stesso convento dei Fratti Minori Osservanti che fu fondato solo nel 1646, quindi è una tavola sicuramente portata qui dai Francescani) e una terza nella chiesa di Sant’Antonio di Padova a Ischia. Queste tre tavole presentano una caratteristica comune: intorno alla figura della Vergine sono dipinti i vari simboli biblici che la pietà cristiana, spesso ricavandoli dalla Bibbia e in particolare dal Cantico dei Cantici, ha attribuito all’Immacolata. Nel corso dei secoli XVII e XVIII le chiese dell’Isola si sono arricchite di molteplici quadri che raffigurano l’Immacolata, 48 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

né sono mancate le sculture. Tra queste ultime dobbiamo ricordare quella della basilica di S. Maria di Loreto, firmata e datata da Nicola de Mari nel 1734. Essa presenta una iconografia particolare. L’Immacolata, in genere, viene rappresentata senza Bambino, con la mezza luna sotto i suoi piedi e il serpente al quale schiaccia il capo. A S. Maria di Loreto, invece, è presentata con il Bambino in braccio il quale scaglia la lancia sul capo del serpente che si dimena ai piedi della Madonna, raffigurata con la mezza luna sotto i suoi piedi. Questa iconografia è un chiaro riferimento al capitolo III, 15 del libro della Genesi che ci presenta la donna la cui stirpe, cioè Gesù, schiaccerà il capo al serpente, cioè al diavolo, e quindi costituisce un chiaro riferimento alla Redenzione operata da Gesù. Un cenno particolare merita la chiesa della Sentinella, oggi santuario diocesano, e la statua dell’Immacolata ivi venerata. Questa fu incoronata il 3 ottobre 1954 dal card. Celso Costantini per decreto del Capitolo Vaticano. Assistemmo anche noi a questo evento sulla Piazza Marina a Casamicciola. Oggi, purtroppo, la chiesa è ancora una volta vittima dell’ennesimo terremoto. Tra le statue dell’Immacolata di maggiore rilievo, bisogna ricordare quella della basilica di Santa Restituta, proveniente dall’antica chiesa del Rosario di Lacco di Sopra rovinata per il terremoto del 1883, e quelle della chiesa di S. Francesco e della basilica di S. Vito a Forio, opera di Antonio Marotta realizzata nel 1858. Tra le opere pittoriche ricordiamo l’Immacolata di Paolo de Matteis del 1713 nella congrega dell’Immacolata di Serrara, e

Immacolata Sentinella di Casamicciola

quelle di Alfonso di Spigna in diverse chiese. Intorno al culto all’Immacolata si è prodotta sulla nostra Isola una particolare fioritura di preghiere e canti che la pietà popolare ha saputo formulare in modo veramente straordinario. Tra queste va ricordato l’inno che viene cantato nelle chiese di Forio che, da solo, vale un trattato di mariologia sull’Immacolata. Non possiamo chiudere questa breve scheda sull’Immacolata, senza ricordare le Immacolate dei nostri scultori, i fratelli lacchesi Gaetano e Pietro Patalano. È vero che queste statue non si trovano sulla nostra Isola, ma è nostra opinione che la devozione mariana presente sull’Isola, ab-


Immacolata Chiesa di S. Restituta (Lacco)

Immacolata Chiesa di S. Francesco (Forio)

bia segnato la mente e il cuore, nonché l’arte, dei due fratelli scultori. Di Gaetano dobbiamo ricordare la Immacolata dell’omonima confraternita di Sarno, realizzata nel 1696, che costituisce l’antesignana dell’arte rococò a Napoli ed è uno dei suoi capolavori. Di Pietro dobbiamo ricordare l’Immacolata di Montesano di Lecce del 1737, forse una delle sue

ultime opere, che presenta i segni della fusione tra i cronografi religiosi e la moda rococò nella originale veste di evidente lampasso di colore bianco ornato a racemi di piccoli fiori, simili agli abiti delle donne del tempo. Agostino Di Lustro Ernesta Mazzella rizzazione di musei e aree archeologiche, biblioteche, poli museali e attrattori culturali. Il Piano prevede 17 interventi che si sommano ai 18 interventi dal valore di 68,8 milioni di euro della Programmazione Strategica Nazionale del Mibact che ha anch’essa ricevuto l’ok del Consiglio Superiore dei Beni Culturali la scorsa settimana.

Franceschini: cultura fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo dei territori La conferenza unificata Stato-Regioni e il Consiglio Superiore dei beni Culturali hanno dato parere favorevole al Piano Strategico “Grandi Progetti Beni Culturali” proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, che prevede investimenti per 65milioni di euro per il restauro e la valo-

L’investimento complessivo risulta pertanto pari a oltre 133 milioni di euro e risponde a una visione organica che considera strategico il ruolo del patrimonio culturale nelle politiche di sviluppo e promozione dei territori. I 35 interventi hanno l’obiettivo di mettere in sicurezza, restaurare e valorizzare i parchi archeologici e i giardini storici, creare nuovi spazi museali e ampliare quelli esistenti, recuperare e destinare alla fruizione culturale importanti edifici appartenenti al demanio dello stato, promuovere interventi territoriali per lo sviluppo sociale e turistico, investire su parchi della musica, sulle biblioteche e sui luoghi della memoria. (mibac)

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Colligite fragmenta, ne pereant

Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro

Il discorso ai giovani di San Basilio Magno e il Parroco Morgera «La Dottrina Cristiana, io credo, non va insegnata solamente da sé giusta le diverse forme dei catechismi, delle scuole e delle accademie: ma fa uopo s’insinui nella letteratura, nelle scienze naturali, nella filosofia e, principalmente nella pratica della vita, apparisce, com’ella è in sé stessa, allo intelleto degli uomini similissima all’etere, il quale penetrando in tutti gli atomi della materia , gli attempera ai suoi modi e li rende luminosi. Per fermo, che cosa mai sono tutte le umane scienze se non un’eco del Verbo di Dio, pel quale il tutto fu cavato dal niente, ed in cui si appunta ogni luogo ed ogni tempo onde stanno condizionate le cose? La stessa moralità naturale non può sussistere senza la interna voce della Legge imperante, la quale in fondo non è altro dalla voce dello stesso Verbo. Ora perché la Eterna Sapienza assunta per infinita degnazione la umana natura si adora dalle intelligenti creature nell’adorabilissimo Nome di Gesù Cristo Signor Nostro, forsechè ha cessato di essere la Creatrice e la Conservatrice dell’universo nell’ordine fisico, intellettuale e morale? Pera la insana bestemmia dell’empio che volesse così affermare! Che anzi in ogni cosa creata dobbiamo salutare le diverse sussistenze come altrettante copie, più o meno perfette della Eterna Idea e come altrettante note di potente armonia che si leva insino al trono della Sapienza del Padre. Basta solamente dichiarare la diversità e la immutabilità della specie dei viventi per condannare al più obbrobrioso silenzio gli ateisti, e dotare nel cuore degli studenti il più bel candido amore alla Eterna Sapienza di Cristo Signor Nostro. Dio che tutte ( le scienze ) del sapiente catechista possono farsi apparire, quali sono in se stesse, vere ancelle, che per una via e per un’altra,ci chiamano e ci conducono alla Rocca della Rivelazione ed alle mura della Santa Città di Dio, secondo il detto dell’ispirato scrittore: misit ancillas suas ut vocarent ad arcem et ad moenia civitatis. Questa salutare verità fu ben conosciuta dai Santi padri, i quali non peraltro si affrettarono ad imbeversi delle umane scienze se non per farsi capaci di renderle una manoduzione alla studio della dottrina cristia50 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

na, e darle a dividere come altrettante scintille che sprizzano dal divino diamante che è Gesù Cristo Signor Nostro». Non sembri lunga e fuori posto questa citazione della introduzione che il Venerabile Giuseppe Morgera, parroco di Casamicciola, premette alla traduzione dal greco di una omelia di San Basilio Magno (330- 379), uno dei tre grandi cappadoci dottori della Chiesa del IV secolo. Questa omelia, intitolata: «Ai giovani sul modo di trar profitto dalla letteratura pagana», fu tenuta dal Santo tra il 370 e il 375. Con essa si rivolge ad alcuni giovani che frequentano la scuola, presumibilmente suoi nipoti, anche se successivamente la tradizione ha voluto intendere trattarsi di giovani in genere. Non è mia intenzione mettere in luce in poche righe l’importanza di questa omelia, né il suo contenuto pedagogico, ma solo lanciare, per così dire, una pietra nello stagno per dare l’avvio a una ricerca, seria e approfondita, sull’attività catechistica del Venerabile Giuseppe Morgera. Il 30 gennaio 1991, insieme con il prof. Giovanni Castagna, fui nominato dal vescovo Antonio Pagano componente la commissione dei periti «in re storica» nella causa di canonizzazione del parroco Morgera. Il processo diocesano iniziò il 14 aprile successivo e noi «storici» ci mettemmo subito al lavoro con la massima premura nel visitare gli archivi e le biblioteche non solo dell’Isola, ma anche di altre località della terraferma per «raccogliere la documentazione e gli scritti del e sul Morgera e redigere una relazione sul valore e l’autenticità di tali documenti e sulla forza probativa della santità e la vita del Morgera». Personalmente, che fino a quel momento non sapevo molto della figura e dell’opera del Morgera, e avevo acquisto una conoscenza molto parziale della spiritualità e dell’attività pastorale e culturale del personaggio. L’incarico conferitomi dal vescovo mi costringeva a mettermi subito al lavoro con buona lena, oltre tutto perché era l’occasione per conoscere una nuova importante figura della nostra storia e avventurarsi in un interessante filone di ri-


Frontespizio della voluminosa documentazione sul parroco Giuseppe Morgera

cerca storica e bibliografica. Partito quindi da una posizione personale piuttosto scettica sulla santità di questo sacerdote, fui «costretto», per dovere d’ufficio, non solo a ricercare le testimonianze storiche sulla vita, ma anche a studiare le sue opere. Questo per me costituì una vera e propria illuminazione non solo perché mi convinse sempre di più della santità del Morgera, ma anche dello spessore culturale e pastorale della sua personalità. Così mi sono sempre più radicato nella convinzione che il Morgera in tutta la sua attività di sacerdote, di teologo e di scrittore è stato sempre, ed essenzialmente, un catechista. Vissuto in un periodo storico in cui la problematica catechistica veniva acquistando sempre più forza fino a giungere alla pubblicazione del catechismo di S. Pio X, il Morgera non fu solo un compilatore di catechismi, ma venne ad inserirsi a pieno titolo nel movimento catechistico nazionale promosso dal vescovo di Piacenza Mons. Giovan Battista Scalabrini. Tra i due, anzi, non ci fu solo un semplice scambio epistolare, ma il parroco di Casamicciola divenne un collaboratore prezioso de «Il Catechista Cattolico» di Piacenza fondato proprio dal vescovo Scalabrini. Tale collaborazione si interruppe solo per la morte così improvvisa e prematura del Morgera. Infatti tra il 1890 e il 1894 il Morgera pubblicò a puntate proprio su Il Catechista Cattolico la traduzione del Discorso ai giovani e dell’Esemeron di San Basilio

Magno, e dopo qualche anno, iniziò a pubblicare le puntate di «Esposizione dialogica della Fede e della Morale Cattolica coordinata con la vita di Nostro Signore Gesù Cristo». In questi stessi anni però il parroco Morgera lavora anche ad altre opere, come «La vita di N.S. Gesù Cristo compilata sul Vangelo e sulla tradizione cattolica», pubblicata nel 1896. Questa opera costituisce la seconda edizione completamente riveduta e accresciuta della: «Vita di Nostro Signore Gesù Cristo ricavata dal Vangelo e dalla tradizione della Chiesa Cattolica, con osservazioni apologeticodommatico-morale» pubblicata nel 1877. Inoltre pubblica vari piccoli catechismi a uso soprattutto dei suoi parrocchiani e ancora diverse altre opere. L’ultimo decennio del secolo XIX, per il parroco Morgera non costituisce solo l’ultimo decennio della sua vita, ma soprattutto il periodo di più intensa attività di ricerca teologica e letteraria che venne ad aggiungersi all’intensa opera di apostolato nella sua parrocchia di Casamicciola e nella formazione dei giovani, soprattutto degli alunni del seminario d’Ischia, che costituivano il suo assillo quotidiano. Tutto ciò avveniva alla luce della tormentata vicenda della ricostruzione della chiesa parrocchiale di Casamicciola crollata per il terremoto del 28 luglio 1883 che per il Morgera doveva diventare il punto di aggregazione e il simbolo del risorto popolo di Casamicciola, risorto nello spirito prima ancora che dalle macerie del terribile terremoto. Per questo motivo egli volle che la nuova Casamicciola fosse fondata nel «Cuore adorabile del Redentore» al quale intitolò la nuova chiesa, insieme a Santa Maria Maddalena Penitente, titolare dell’antica chiesa parrocchiale e patrona della cittadina termale. Ma prima ancora della chiesa materiale, egli volle consacrare al Cuore di Gesù la comunità di Casamicciola e lo fece incidere anche su una delle campane della nuova chiesa sulla quale si legge: «Casamicciola nova in Corde Iesu fundata». A questo punto ci domandiamo perché il Morgera abbia scelto di tradurre dal greco e commentare due opere di San Basilio Magno per svolgere la sua attività di catechista. A mio giudizio le risposte sono molteplici. La prima ci viene dal fatto che il Servo di Dio Morgera innanzi tutto conosceva bene possedeva sia il latino che il greco insieme a una buona conoscenza delle opere dei Padri della Chiesa, sia latini che greci, e anche di parecchi scrittori sacri e teologi medioevali e moderni. Prove ne sono le citazioni che troviamo nei suoi libri delle opere di Agostino, Giovanni Crisostomo, di Ambrogio, di Tertulliano, di Girolamo, di Beda il Venerabile, Tommaso d’Aquino e di tanti altri, passando per Dante Alighieri del quale conosceva a memoria quasi tutta la Divina Commedia, per parlare solo dei nomi più grandi. La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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La cultura del Morgera non si ferma alla patristica o alle opere dei teologi antichi e moderni, ma comprende anche una buona conoscenza delle opere degli scrittori classici latini e greci, e quelle dei moderni, in modo particolare di quelli che si sono occupati di problemi di carattere scientifico. Dobbiamo sottolineare che l’amore che egli nutre per Basilio Magno e la sua opera riveste una particolare importanza sdal punto di vista sia spirituale che culturale. Si è detto da qualcuno che subito dopo il terremoto, il Morgera fu preso da una crisi mistica e avrebbe voluto ritirarsi in monastero, forse in quello di Grottaferrata che è appunto un monastero di monaci basiliani e quindi di lingua greca. Per questo si sarebbe rifugiato per qualche mese presso l’arcivescovo di Gaeta Nicola Contieri, che era un monaco basiliano di Grottaferrata. Niente di più falso! L’amicizia tra questi due «santi» è anteriore al 1883, anno del terremoto, come pure i brevi periodi di soggiorno del Morgera a Gaeta e la loro amicizia si è prolungata anche negli anni avvenire per tutta la vita come pure nel parroco di Casamicciola il desiderio di poter entrare in monastero proprio a Grottaferrata. Questo suo desiderio, rimasto semprevivo nel suo amino, lo possiamo scorgere da quanto il Contieri gli scrive in una lettera datata 13 dicembre 1882. Noi non possediamo più la lettera del Morgera al Contieri, ma quella dell’arcivescovo di Gaeta al parroco nella quale tra l’altro leggiamo: «Quando poi, piacendo 52 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

al Signore, avremo agio di abboccarci, tratteremo della sua vocazione per Grottaferrata: sarei davvero contento, se, non avendola potuto ottenere a mio cooperatore qui, mi riuscisse di inviarla a sorreggermi nell’amato mio monastero: ove ora più che mai hanno bisogno di soggetti per corrispondere all’impegno particolare spiegato dal santo padre, perché ivi si richiami in vigore laperfetta osservanza del rito greco». Mi sembra questa una esplicita affermazione che già nel 1882 il Morgera stava accarezzando l’idea di seguire l’ideale di perfezione cristiana suggerito dalla regola basiliana, in un monastero basiliano, appunto quale è quello di Santa Maria di Grottaferrata. Il desiderio della vita monastica, sebbene sia rimasto semprevivo nell’animo del Morgera, non l’ha mai potuto realizzare perché la responsabilità della cura delle anime degli abitanti di Casamicciola, affidatagli con la nomina a parroco nel dicembre 1883, lo ha reso consapevole che la missione che era stata riservata da Dio per la sua vita non era solo la vita di preghiera, magari nel monastero, ma soprattutto quella di spendere la sua esistenza per il bene delle anime a lui affidate, anime di un popolo che aveva bisogno di un pastore che desse la propria vita per il bene spirituale materiale delle sue pecorelle. Ma se il terremoto e la nomina a parroco di Casamicciola nel 1883, non gli permise di seguire l’ideale di vita suggerito da San Basilio Magno, non si affievolì in lui l’entusiasmo per la figura e l’opera del grande cappadoce. Questo lo portò a servirsi proprio della sua opera di teologo e di scrittore per svolgere la sua attività catechetica, soprattutto tra la gioventù, alla formazione della quale, dal punto di vista sia spirituale che culturale, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, egli dedicava tanta parte delle energie e delle sue giornate. Il «Discorso ai giovani» di San Basilio agli occhi del Morgera sembrava lo strumento adatto a dimostrare che le scienze non sono altro che «un’eco del Verbo di Dio, pel quale il tutto fu cavato dal niente» come abbiamo già citato. Per questo egli non si limita alla semplice traduzione dell’omelia di San Basilio perché «non basta aver inteso i soavissimi consigli di San Basilio intorno allo studio sopra gli autori profani in relazione alla verità rivelata; fa uopo metterli in pratica, dimostrando come ciascun classico profano, o in un modo o in un altro, rende alcuna testimonianza in favore della fede, della virtù e della religione cristiana…. laonde, seguendo le orme dell’insigne Dottore Orientale, in tre capitoli ci faremo a distinguere questo trattatello: e, pe’ due primi dedicati allo studio dei principali classici profani sì greci che latini mireremo la verità cristiana qual sole riverberato quasi nel raggio diretto che a


noi da essa, pel mezzo dei Santi Padri, si deriva». Quindi, attraverso le opere dei grandi poeti e scrittori dell’antichità, da Omero ed Esiodo, attraverso i grandi tragici greci, gli storici, i filosofi, gli oratori e i poeti, fino a quelli latini quali Virgilio, Orazio e Tacito, Cicerone e Lucrezio e tutti gli altri, il Morgera dimostra che la letteratura pagana «ci mena, come di rimbalzo, alla contemplazione delle cose divine….Ombre della verità anzi che la verità stessa devono dirsi le ragionate opinioni di quei sommi, come a dire di Platone, di Aristotele, di Tullio, i quali non essendosi elevati al concetto di creazione, non poterono ben precisare e distinguere i concetti dell’Uno Necessario e dei contingenti: nella quale precisione e distinzione si dispiega la sincera vista della verità. L’ombra del bello, anzi che il bello stesso, ritrassero ne’ loro poemi e Omero e Pindaro e Virgilio ed Orazio, come quelli che fissi, immobili ed attenti alla cose sensibili, le seppero sì nobilissimamente contornare, ma non metterle a riscontro del raggio divino che partendo dal Creatore illumina le creature. Donde avviene che in tanto oggi ci piacciono quei lavori di arte, in quanto noi cristiani, col rifatto sentimento, aggiungiamo loro, leggendoli, il meglio di che vanno privi, la bellezza sovrasensibile illuminataci dal Cristianesimo». Nella letteratura patristica e in quella ecclesiastica il Morgera vede quale «oggetto totale», quindi come centro e fine, «Dio Uno-Trino vivo vero, provvidentissimo, il suo Cristo», ma al tempo stesso anche «l’uomo vivente per creazione dalla mano di Dio, la natura tendente al miracolo il pensiero insublimato dalla fede, l’amore immenso nel celeste pelago della grazia». Se il tesoro della scienza divina avesse «dovuto comparire nella forma attillata e speciosa del greco e del latino pagano, lo spirito dell’uomo, come trattenuto dall’eleganza del velo, non sarebbe stato degnamente colpito dalle sante verità di Dio. Era dunque uopo che la semplicità del dettato, facendo quasi contrasto con la nobiltà della Idea divina, destasse per ciò la mente umana dal letargo, e le facesse conoscere la divina Rivelazione». Quando poi la Chiesa poté godere della libertà di predicare apertamente il Vangelo, «volle ornarsi di casta solenne eloquenza. Ed ecco i Santi Padri, i quali fanno piegare la lingua e l’arte greca e latina alle ispirazioni sacre, e ad esprimere la novità della fede, senza punto sminuire in esso il verbo e la venustà che avevano in bocca Demostene, a Socrate, a Cicerone». Per questo il Venerabile Giuseppe Morgera sente il bisogno di rivolgersi ai giovani e dare loro un suggerimento che li possa invitare a «mirare la luce del sole riflessa nell’onda, poscia fissare lo sguardo nella stessa ruota di quell’astro sfolgoreggiante».

Rivolgendosi direttamene ad essi, egli così esprime la sua ansia per la realizzazione della loro formazione culturale e cristiana: «questa salutare verità fu ben conosciuta dai Santi Padri, i quali non peraltro si affrettarono ad imbeversi delle umane scienze se non per farsi capaci di renderle una mano allo studio della dottrina cristiana, e darle a divedere come altrettante scintille che sprizzano dal divino diamante che è Gesù Cristo Signor Nostro….. Non poche ragioni mi persuadono, figliuoli miei, a darvi de’ consigli quelli che io credo migliori, e che confido ritorneranno utilissimi, se vorrete tradurli in pratica. Per fermo la mia presente età, le innumerevoli prove per le quali sono passato, l’avere più che bastevolmente assaggiato diverse vicende da cui tutto s’impara, mi hanno bastevolmente assaggiato bene esperto delle umane cose che mi trovo di aver buono inmano da mostrare a voi, che pur mo’ entrare nella vita qual sia delle strade, che menano al bene, la più sicura. Senzachè, per legge naturale, tocca a me verso di voi il primo luogo dopo de‘ vostri genitori, né l’amore che vi nutro cede un tantino al loro amore, e voi stessi, se io ho bene appreso i vostri sentimenti, voi stessi, quando volgete lo sguardo verso di me, sembra che più non rimpiangete la lontananza da coloro che vi hanno generato. Che sevi farete ad accogliere amorosamente i miei consigli, vi mostrerete di appartenere alla seconda schiera di coloro che loda Esiodo. Altrimenti, io non vorrei dirvi nulla che vi offenda, ma voi stessi vi ricorderete delle parole del poeta: Ottimo essere colui che da sé stesso vede ciò che gli è mestieri; buono chi segue gli altrui consigli; melenso poi essere chi né l’una né l’altra cosa è capace di eseguire. Non vi meravigliate adunque se a voi che ogni giorno usate a scuola e che conversate con gli antichi savii per mezzo degli scritti da essi lasciatici, io affermo di aver trovato qualche cosapiù utile di ciò che essi hanno insegnato. Vengo adunque consigliandovi che voi non dobbiate seguire costoro ciecamente né far dirigere ad essi là dove vogliano la navicella della mente vostra; ma se fate tesoro dell’utile che v’ha ne’ loro libri, sappiate anche discernere ciò che fa uopo mettere dall’un de’ lati». Ho cercato di cogliere in poche frasi dello stesso Morgera, le ragioni delle sue scelte non tanto per esporre in poche battute il risultato di una indagine su questo aspetto dell’attività catechetica del Morgera, ma solo per indicare agli estimatori del parroco santo di Casamicciola un filone di ricerca sulla sua opera che resta ancora tutta da esplorare. Agostino Di Lustro

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Ex Libris The classic and connoisseur in Italy and Sicily by Rev. George William Davis Evans, London, 1835

Il classico conoscitore d’Italia e di Sicilia del Rev. Giorgio William Davis Evans, Londra, 1835

ISCHIA Inarime, Jovis imperiis imposta Typhaeo (Virg.)

Ischia Inarime, Jovis imperiis imposta Typhaeo - Virg.

This island, which, together with Procida, shuts in the Bay of Naples to the west, was formerly no less famed for its eruptions than Vesuvius is at present. Some al­lowance, perhaps, ought to be made for the exaggerated details of historians. Strabo and Pliny not only speak of earthquakes, torrents of lava, and showers of ashes and cinders, the usual accompaniments of volcanic erup­tions; but they talk also of flames issuing from the yawn­ing ground, and spreading devastation over the whole island; of boiling water inundating the fields; of mountains suddenly shooting up, and as suddenly subsiding. (Stra­bo, lib. V; Plin. lib. II.). With such accounts detailed in sober prose, no wonder that the poets should have gone a step further, and have placed Typhaeus himself under the island; ascribing its agitations to his convulsive movements. Though the hot springs with which the island abounds still attest the presence of subterranean fire, no eruption has taken place since the terrible one of 1302, which swept off the greater part of the inhabitants, and well nigh made a desert of the whole island. Viewed in its present renovated state, Inarime, as Berkeley observed in a letter to Pope, «is an epi­tome of the whole earth, containing, within the compass of eighteen miles, a wonderful variety of hills, vales, rug­ged rocks, fruitful plains, and barren mountains, all thrown together in the most romantic confusion. The air is, even in the hottest season, constantly refreshed by cool breezes from the sea. The vales produce excellent wheat and Indian corn; but are mostly covered with vineyards, intermixed with fruit-trees. Besides the com­mon kinds, cherries, apricots, peaches, &c, they pro­duce oranges, limes, almonds, pomegranates, figs, water­melons, and many other fruits unknown to our climates, which lie everywhere open to the passenger. The hills are the greater part covered to the top with vines, some with chestnut-groves, and others with thickets of myrtle and lentiscus. The fields on the northern side are divided by hedge-rows of myrtle. Several fountains and rivulets add to the beauty of this landscape, which is likewise set off by the variety of some barren and naked rocks. But that which crowns the scene is a large moun-

Questa isola che, insieme con Procida, circonda la Baia di Napoli ad ovest, era un tempo famosa per le sue eruzioni non meno di quanto lo sia il Vesuvio attualmente. Alcune considerazioni, forse, dovrebbero essere fatte per i dettagli esagerati di storici. Strabone e Plinio parlano non solo di terremoti, torrenti di lava, e piogge di scorie e ceneri, che accompagnano di solito le eruzioni vulcaniche; ma anche di fiamme che emanano dalla terra fratturata e che diffondono la devastazione sull’isola intera; di acque bollenti che allagano i campi; di montagne che s’elevano improvvisamente, e improvvisamente si abbassano (Strabone lib. V, Plinio lib. II). Con tali resoconti dettagliati in sobria prosa, nessuno si meraviglia che i poeti siano andati ben oltre, e abbiano messo Tifeo stesso sotto l’isola; attribuendone le agitazioni ai movimenti convulsi del gigante. Sebbene le sorgenti calde, delle quali ancora abbonda l’isola, attestino la presenza del fuoco sotterraneo, nessuna eruzione ha più avuto luogo da quella terribile del 1302, che fece fuggire la maggior parte degli abitanti e inoltre rese un deserto l’isola intera. Vista nel suo nuovo stato attuale, Inarime, come osservò Berkeley in una lettera a Pope, “è un’epitome dell’universo”, contenente, all’interno del circuito di diciotto miglia, una varietà meravigliosa di colline, valli, aspre pietre, piani fruttiferi, e sterili montagne, il tutto messo insieme nella confusione più romantica. L’aria, anche nella stagione più calda, è continuamente rinfrescata dalla brezza del mare. Le valli producono grano eccellente e mais indiano; ma sono coperte soprattutto con vigneti, misti con alberi da frutta. Inoltre i comuni generi, ciliegie, albicocche, pesche etc.; producono arance, limoni, mandorle, melagrani, fichi, angurie, e molti altri frutti ignoti ai nostri climi e che sono dovunque esposti al passeggero. Le colline sono in gran parte coperte in cima con vigneti, a volte con boschetti di castagno o con folti alberi di mirto e lentischio. Sul lato settentrionale i campi sono divisi da siepi di mirto. Parecchie fonti e ruscelletti s’aggiungono alla bellezza di questo panorama che è similmente caratterizato dalla varietà di alcune pietre sterili e nude. Ma quella che corona la scena è una grande monta-

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tain rising out of the middle of the island (once a terrible volcano, by the ancients called Mons Epopeus); its lower parts are adorned with vines and other fruit trees; the middle af­fords pasture to flocks of goats and sheep; and the top is a sandy pointed rock, from which you have the finest prospect in the world, surveying at one view, besides several pleasant islands lying at our feet, a tract of Italy about three hundred miles in length, from the Promontory of Antium to the Cape of Palinurus: the greater part of which hath been sung by Homer and Virgil, as making a considerable portion of the travels and adventures of their heroes. The islands Caprea, Prochyta, and Parthenope, together with Caieta, Cumse, Monte Miseno, the habitations of Circe, the Syrens, and the Laestrigons; the Bay of Naples, the Promontory of Minerva, and the whole Campagna Felice - make but a part of this noble landscape. This coast, indeed, unites the attractions of the pic­ turesque with the charms arising from poetic fiction and historical records. It has been well observed, that, without some such mental association, without some connexion with other regions, or retrospect to other times, the bright­est exhibitions of the material world produce but a transi­ent impression: they are unable to inspire permanent in­terest, or genuine enthusiasm. How different is the feel­ing experienced in surveying the shores of Italy from the summit of the San Niccolo. “In contemplating a pro­spect thus adorned by nature, and ennobled by genius; the theatre of the most sublime and instructive fables ever invented by the human mind; we may be allowed, as we bewilde fourselves in the mazes of classical illusion, to indulge a momentary enthusiasm: ...........Audire, et videor pios Errare per lucos, amoenae Quos et aquae subeunt et aura. - Hor. Od. lib. III 4. Through hallowed groves I stray, where streams beneath From lucid fountains flow, and zephyrs balmy breathe. - Francis. The summit of the San Niccolo is composed of a grey or whitish lava, in the midst of which the form of the crater is still distinguishable. A few hermits inhabit this solitary spot, and occupy cells cut out of the solid rock. An anchorite, indeed, could hardly select a more appro­priate abode, either for the grandeur of the scene, so well fitted to inspire devotion, or the moral lessons it is no less calculated to convey. In contemplating the op­posite coasts of Puteoli, Baiae, and Misenum, and con­trasting their past splendour with their present destitu­tion, the hermit may find as much food for reflection as the classic; and nowhere will he meet with a more strik­ing instance of the frailty of human power, and the tran­sitory nature of worldly magnificence.

gna che sorge al centro dell’isola (una volta un terribile vulcano, dagli antichi chiamato Monte Epopeo); le sue parti più basse sono adornate con viti e altri alberi da frutta; la parte mediana offre pascolo a greggi di capre e pecore; e la vetta è un masso aguzzo e sabbioso dal quale si ha la prospettiva più meravigliosa del mondo, contemplando in una visione unica, oltre a molte piacevoli isole che giacciono ai nostri piedi, un tratto d’Italia di circa trecento miglia di lunghezza, dal Promontorio di Anzio al Capo di Palinuro: la maggior parte del quale è stato cantato da Omero e Virgilio, come luoghi dei viaggi e delle avventure dei loro eroi. Le isole di Capri, Procida, e Parthenope, insieme con Gaeta, Cuma, Monte Miseno, le dimore di Circe, delle Sirene, e dei Lestrigoni; la Baia di Napoli, il Promontorio di Minerva e l’intera Campagna Felice - fanno parte di questo nobile panorama. Questa costa, invero, unisce le attrazioni pittoresche col fascino che proviene dalla narrazione poetica e dai documenti storici. È stato ben osservato che, senza alcuna associazione mentale, senza alcun legame con le altre regioni o sguardo retrospettivo ad altri tempi, le brillanti esposizioni della documentazione mondiale producono un’impressione passeggera: esse non sono capaci di ispirare interesse permanente, o entusiasmo genuino. Come diversa è l’emozione provata nell’osservare i lidi d’Italia dalla cima di San Niccolo (sic). “Nel contemplare una prospettiva così adornata dalla natura, e nobilitata dal genio; il teatro delle più sublimi e istruttive fiabe mai inventate dalla mente umana; noi possiamo essere indotti, come confondiamo noi stessi nei labirinti della classica illusione, ad indulgere ad un entusiasmo momentaneo”: … Audire, et videor pios Errare per lucos, amoenae Quos et aquae subeunt et aurae. Hor. Od. lib. III. 4. (Mi sembra) … Di udire, mi sembra di vagare nella foresta sacra, dove amene scorrono l’acque e spirano le brezze. La cima del San Niccolo è composta di lava grigia o biancastra, nella cui parte mediana è ancora distinguibile la forma del cratere. Alcuni eremiti abitano questo luogo solitario, ed occupano celle scavate nella solida pietra. Un anacoreta non potrebbe proprio scegliere una più appropriata dimora, per la grandiosità della scena, così adatta ad ispirare devozione o lezioni morali non meno importanti da illustrare. Nel contemplare le opposte coste di Puteoli, Baia, e Miseno, e ponendo in contrasto il loro passato splendore con il presente stato di miseria, l’eremita può trovare molti motivi di classica riflessione; e in nessun luogo potrebbe incontrare un più chiaro esempio della fragilità del potere umano e della natura transitoria della magnificenza mondana.

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The town of Ischia, from which the island takes its present name, is situated on a small inlet about two miles from the nearest point of Procida. . This bay is defended by a castle perched on a precipitous rock, connected with the island by an isthmus of sand. The other principal towns are Foria, Pansa, and Casamiccio; the latter seated nearly on the top of the San Niccolo. All these towns have their medicinal waters, or hot baths, to recommend them. The island, which is well cultivated, produces a white wine held in considerable repute; and the beauty of the scenery, added to the advantages of me­dicinal springs, and a cool and healthy air, attracts a con­siderable number of visitants during the summer months. Such is Ischia, presenting a picture widely different from that of the ancient Inarime - “the shattered mountain tumbled of old by Jupiter on the giant monster, for ever resounding with his groans, and inflamed by his burning breath: .............................. Quae turbine nigro Fumantem premit Japetum, flammasque rebelli Ore ejectantem. - Sil. lib. XII. 148. .......... :............. Whose load o’erwhelms The rebel giant, from whose mouth expire Eddies of lurid smoke, and ruddy fire. Of the climate different travellers have given very dif­ferent representations. Moore calls it the native country of the zephyrs, where the heat is tempered by the sea-breeze, and by gales wafting the perfumes of the Campagna. Mathews tells you that the winter is much colder here than at Rome, notwithstanding the latitude; that the sea-breeze is keen and biting; that frequently with a hot sun there is a winter wind of the most pierc­ing bitterness; and that a pulmonary invalid had better avoid Naples at any time, but certainly during the win­ter, unless he wish to illustrate the proverb, “Vedi Napoli, e po’ mori”. If such be the case, I was fortunate in the time of my visits. To me it seemed the veritable land of ze­phyrs; nor do I think that Forsyth’s picture of it, whether as regards the climate, the country, or the inhabitants, is at all overdrawn, “ What variety of attractions!” he exclaims; - “ a climate where heaven’s breath smells sweet and wooingly - the most beautiful interchange of sea and land - wines, fruits, provisions, in their highest excellence - a vigorous and luxuriant nature, unparal­leled in its productions and processes - all the wonders of volcanic power spent or in action—antiquities differ­ent from all antiquities on earth - a coast which was once the fairy-land of poets, and the favourite retreat of the great. Even the tyrants of the creation loved this alluring region, spared it, adorned it, lived in it, died in it. This country has subdued all its conquerors, and continues to subvert the two great sexual virtues, guardians of every other virtue - the courage of men and the modesty of women.” 56 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

La città di Ischia, dalla quale l’isola prende il suo nome attuale, è situata in una piccola insenatura distante circa due miglia dalla vicina Procida. Questa baia è difesa da un castello appollaiato su una ripida roccia, collegato con l’isola da un istmo di sabbia. Le altre città principali sono Foria, Pansa, e Casamiccio; questa ultima si trova vicino alla cima del San Niccolo. Tutte queste città hanno le loro preziose acque medicinali, o bagni caldi da raccomandare. L’isola, che è ben coltivata, produce un vino bianco tenuto in considerevole reputazione; e la bellezza dello scenario, aggiunta ai vantaggi delle sorgenti medicinali ed un’aria fresca e sana, attira un numero notevole di visitatori durante i mesi estivi. Tale è Ischia, che presenta un aspetto del tutto diverso da quello dell’antica Inarime - “ la montagna fu fatta cadere a pezzi al tempo dei tempi da Giove sul mostro gigante, che echeggia per sempre coi suoi gemiti ed infiamma col suo alito ardente: Quae turbine nigro Fumantem permit Japetum, flammasque rebelli Ore ejectantem - Sil. lib. XII. 148. ((di fronte c’è Inarime)…. che preme Giapeto esalente neri vapori e che ribelle vomita fiamme dalla bocca Del clima molti viaggiatori hanno dato differenti descrizioni. Moore chiama l’isola il paese natio degli zeffiri, dove il calore è temprato dalla brezza del mare, e dai forti venti che diffondono i profumi della Campagna. Mathews dice che l’inverno è molto più freddo qui che a Roma, nonostante la latitudine; che la brezza del mare è acuta e pungente; che c’è frequentemente con un sole caldo un vento di inverno della più pungente asprezza; e che un infermo polmonare fa bene ad evitare Napoli in ogni tempo, ma certamente durante l’inverno, a meno che non intenda giustificare il proverbio”: Vedi Napoli e po’ mori” Se tale è il caso, io fui fortunato al tempo delle mie visite. A me sembrò la vera terra degli zefiri; né penso che il ritratto di Forsyth, riguardante il clima, il paese, o gli abitanti, sia molto esagerato. “Che varietà di attrazioni!” - lui esclama; - “un clima dove l’alito del cielo profuma dolcemente e amorosamente - il più bel interscambio di mare e terra - i vini, i frutti, i viveri nella loro eccellenza più alta - una natura vigorosa e lussureggiante, impareggiabile nelle sue produzioni e processi - tutti i prodigi del potere vulcanico esauriti o in azione - antichità differenti da tutte le antichità della terra - una costa che era una volta la terra fatata dei poeti, e il rifugio favorito dei grandi. Anche i tiranni dell’universo amarono questa allettante regione, la risparmiarono, adornarono, qui vivendo, qui morendo. Questo paese ha soggiogato tutti i suoi conquistatori, e continua a sovvertire. I due grandi poteri sessuali, custodi di ogni altra virtù - il coraggio degli uomini e la modestia delle donne”.


Viaggi in Italia

Per Francesco Gandini Vol. III, Cremona 1836 (…)

ISCHIA - Nota agli antichi sotto i nomi di Aenaria e di Pitecusa. È situata al N. O. della baja di Napoli, e divisa dalla costa col mezzo di un canale di due leghe di larghezza, in cui si trova l’isola di Procida. Appartiene alla provincia di Napoli ed al distretto di Pozzuolo, di cui forma due cantoni, quello d’Ischia e l’altro di Forio, dal quale dipende l’isola di Vandotena situala all’O d’Ischia; lunga due leghe e mezza sopra una lega e mezza di larghezza e circa otto leghe di circuito. Sembra essere un risultamento di qualche grande commozione della natura, ed il vulcano Epomeo che ne occupa il centro a circa 3oo tese al di sopra del mare, si può riguardare come il nodo; dodici vulcani accessori cingono questo gran cratere., e si trovano ovunque delle materie vulcaniche vetrificate e calcinate. L’ ultima eruzione vulcanica accadde nel 1302; nel giorno 2 febbraio 1828 un terremoto vi rovesciò diversi villaggi. Le valli che dividono questi vulcani sono di una fertilità straordinaria, come pure la pianura situata nell’interno. Le coste sono formate di rocce scoscese. Ischia offre uno dei più deliziosi soggiorni dell’Europa; il cielo vi è sereno e l’aria dolce e salubre tanto nell’inverno quanto nell’estate; la vegetazione, in tutto il suo splendore, vi spiega le più ricche produzioni; ovunque s’innalzano cotonieri, gelsi, granati ed aranci; mirti ed altre piante odorifere vi crescono con profusione e senza coltura. Si raccoglie in abbondanza principalmente vino molto apprezzato, olio, frutti, legumi e seta. Sonovi boschi, ripieni di castagni e buoni pascoli. La sua principale produzione minerale è lo zolfo. Varie sorgenti termali scaturiscono in molti punti ed i bagni che vi furono stabiliti, divenuti rinomatissimi, vi chiamano un gran numero di ammalati e convalescenti a farne uso; i più frequentati sono quelli dei villaggi di Casamicciola e di Lacco; si prendono pure bagni a vapore a Forio e bagni caldi a San Lorenza, chiamati la stufe di S. Lorenzo. Gli allettamenti che riunisce quest’isola la fanno essere frequentata da un gran numero di viaggiatori, e soprattutto dai regnicoli. L’isola di Ischia conta 24.000 abitanti, e nel 1807 fu presa dalle truppe inglesi e siciliane che poscia l’abbandonarono. La citta d’Ischia ne è il luogo principale, posta sei leghe e mezza O. S. O. da Napoli e a quattro leghe e mezza S.O. da Pozzuolo, sulla costa N. E. dell’isola ove ha una piccola baia. Sopra una roccia di basalto, alta circa 600 piedi

ed unita all’isola da una diga artificiale, evvi una fortezza quasi in rovina, ove nel 1493 ritirossi Ferdinando re di Napoli allorché Carlo VIII conquistò il Regno. Ischia rinchiude una cattedrale, due chiese parrocchiali, e fabbriche di stoffe di seta e di stoviglie. La pesca è attiva sulla sua costa e vi si fa qualche commercio di vino ed altre derrate dell’isola. Questa antichissima città che contiene 31oo abitanti, secondo Strabone e Plinio avrebbe avuti per fondatori i Calcedonj dell’Eubea. Cadde in potere dei Greci e dei Romani; i Goti, i Lombardi ed i Normanni l’occuparono altresì successivamente. Piccolissima isola è S. Martino, situate presso la spiaggia di Baja; ed una anche più piccola le sta dirimpetto presso una punta dell’Ischia. Continuando al S. O. trovansi dapprima un’altra isoletta nè abitata, né coltivata, ma tutta boschiva, e che ha due miglia di circonferenza, cui si dà il nome di Santo Stefano. Poco da lei distante è il porto di Vendutena, anticamente detta Ventotiene, isola di due e più miglia quadrate di superficie, con tre sorgenti di ottima acqua, suolo assai fertile, un porto accessibile a piccoli bastimenti, e più di 5oo abitanti. È questa l’antica Pandataria, luogo d’esilio ai tempi di Roma, dove furono rilegate Giulia figlia d’Augusto, Agrippina moglie di Germanico, Ottavia moglie di Nerone, e parecchi illustri senatori, Avvi una torre con presidio per opporsi ai Barbareschi, che un tempo solevano porsi ivi in agguato. Le Botte sono due scogli a fior d’acqua, anzi che due isole, e trovansi più innanzi circa otto miglia. Piegando alquanto al N.O. evvi l’isola montuosa di Santa Maria che nessuno visita, perché le stanno in faccia verso ponente le isole Ponzie che sono undici, di cui Ponza è la principale e vi sta nel mezzo. Sì esse che le quattro sunnominate spettano a quella parte del Tirreno che dicesi il mare di Gaeta. Eccetto Palmaruola e Zannane (oltre Ponza) le altre otto appena si conoscono; anzi quattro di queste, benché separate e lontane, hanno tutte il nome di Faraglione, o sia di Scoglio, distinte in Scoglio grande, Scoglio piccolo, Scoglio Cavicchio, una non ha nome, una è detta la Parata, una l’isola della Guardia ed una Gabbia. L’isola di Ponza è situata tredici leghe al S. O. di Gaeta. Questo ammasso di rupi, esposto al furore de’ flutti e soggiaciuto ab antico alle vulcaniche eruzioni, presenta un orrido aspetto, dacché una quantità immensa di scogli, de’ quali il maggiore chiamasi la Botte, ed il gruppo più numeroso appellato le Formiche, impedisce l’accesso al suo lato meridionale. Da borea poi il flagellar contiLa Rassegna d’Ischia n. 5/2017

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nuo dell’onde disgiunse l’estremità dal rimanente dell’isola, e quel sasso separato dicesi la Gabbia. Offre Ponza l’immagine di un’alta trincea lunga una lega e mezza dal S. al N. mentre per larghezza non giunge a mezza lega dall’E. all’O., e in qualche sito si contano appena cento passi in linea retta dall’una all’altra riva. Tagliata perpendicolarmente da ogni banda, di agiato declivio, riesce nel suo lato occidentale che è la parte abitata, e si apre all’oriente, dietro la punta della Madonna, una vasta baia in fondo alla quale approdasi all’unico porto dell’isola. Il suo circuito è di sei leghe. Sovrasta al S. O. del porto il più alto suo monte e si prolunga una valle insino al picciol seno occidentale chiamalo Chiaja di Luna, che serve di comodo e delizioso passeggio, avendo l’aspetto di un continuato giardino, spalleggiato da alberi fruttiferi, e riparato da’ venti per le colline rivestite di viti pampinose. Le terre sono feraci e la coltura le ha poste siffattamente a profitto che non lasciansi oziosi neanche i piccioli tratti delle parti montuose. Vi si vede un seguito d’archi che costituivano il romano acquedotto, oggi abbandonato per la comodità di più vicine sorgenti, come altresì grandiosi avanzi di mura reticolale e varie grotte artificiali che servirono per bagni. Il porto è formato da una lingua di terra che sporge verso il N. e da un molo che l’arte vi ha costruito; quindi offre la maggior sicurezza, e le più grosse navi, anche in numero di cinquanta, vi possono ancorare ed accostarsi tanto alle rive, che dalle medesime si scenda a terra senza aiuto di ponte o schifo. Il Palazzo Governativo sta sulla rada, e più innanzi incontrasi una fila di magazzini d’eguale larghezza ed altezza sopra i quali si passeggia, essendovi un lungo e ben lastricato terrazzo. In sito più elevato sono parallelamente costruite molte case a foggia di semicircolo, ed altre si trovano qua e la sparse verso l’eminenza della Punta della Madonna, in cima alla quale sorge la fortezza o torre quadrata a tre piani, che domina e il porto e la baia, suscettibile di sufficiente guarnigione, ed ora convertita in bagno dei forzati. La chiesa parrocchiale di S. Maria, da cui ha nome il paese, venne edificata alle falde di questa medesima montagna. Fuori del descritto recinto poche case si veggono costruite dì materiale, che gli abitanti della campagna sono ancora Trogloditi, e dimorano nelle sotterranee grotte, le quali però sono mantenute con molta nettezza, e lungi dall’esser umide offrono una dolce temperatura nel verno e nella state molta freschezza. Ve ne ha un gruppo lungo la costa, vicino ad una punta che sporge in mare, e che dal nome dato a queste singolari abitazioni chiamasi la Punta dei Forni. Sebbene non vi manchino pascoli, pure pochissimo bestiame vi si alimenta, e raro vi è l’uso delle 58 La Rassegna d’Ischia n. 5/2017

carni fresche, supplendosi coll’abbondevole varietà del pesce e della selvaggina, giacché soprattutto nell’autunno straordinaria è la copia di beccacce che vi fanno l’ultima stazione prima di passare il mare. Oltre l’industria della pescagione vi è quella del cuocer la calce, essendovene cave inesauribili, ove lavorano i servi di pena, e legna sufficiente ad alimentare le fornaci. Altri suoi prodotti sono il vino ed i fichi, non che il sale, genere di esportazione. Ponza riguardasi per mitologica tradizione come il soggiorno della maga Circe. Servì di porto ai Fenici ed agli avventurieri che navigavano per afferrare le ausonie terre. La tennero i Volsci; quindi vi fu stabilita una colonia romana. I Romani poi la destinarono a luogo di relegazione per distinti personaggi. L’imperator Tiberio vi confinò la propria madre, e Giulia sua sorella; l’anno 3o di G. C. vi fece poscia perir d’inedia Nerone figliuolo del prode Germanico; Caligola vi trasse, dopo averle violate, le sue sorelle Giulia e quell’Agrippina, che fu poi madre dell’imperatore Nerone. Flavia Domitilla, parente di Domiziano, una delle prime cristiane, quivi conseguì la palma del martirio. Nell’epoca descritta, che è la più memoranda per l’isola, sorsero quelle moli onde si ammirano gli avanzi; e dopo la caduta dell’impero, del tutto abbandonata, si ridusse a dannoso nido di Saraceni, e, nei tempi a noi più vicini, delle potenze barbaresche. L’avvenimento di Carlo Borbone al trono di Napoli cangiò faccia ai destini di Ponza. Sotto di lui incominciaronsi le fortificazioni contro le orde africane, ed il re Ferdinando suo successore allettò i Torresi, abitatori della Torre del Greco, a popolarla siccome bravi agricoltori e marinai, offrendo loro gratuita abitazione, terreno a dissodare e pecuniari sussidj; né l’esito lasciò di corrispondere esattamente all’aspettazione che tale divisamento prometteva. Durante il governo dei Napoleonidi gli Anglo-Siculi vi si mantennero e ripararono colla flotta, accrescendone i propugnacoli, e di colà molestando il litorale napoletano e romano. Presa finalmente dagli Inglesi il 26 febbraio 1813, la rimettevano questi l’anno seguente ai Napoletani. Il comune di Ponza, che tutto comprende il gruppo insulare annovera da 1300 abitanti, ma soli 300 stanno racchiusi nel paese di S. Maria. La sua distanza dal promontorio Circeo è di cinque leghe e mezza al S. e di 16 leghe al N.O. da Ischia, colla quale isola, che ne’ dì chiari si vede ad occhio nudo, mantiene frequenti relazioni di traffico, servendo di stazione media l’altra isola di Ventotene che s’incontra per via. Anche la cima del Vesuvio è visibile a Ponza, e vi si gode lo spettacolo delle sue notturne fiamme.



In autunno gli eroi del fumetto conquistano l'isola verde

Come si scrive un fumetto? Da dove vengono le idee? Quali sono le tecniche di scrittura nella moderna era digitale? Come è cambiata nel tempo la fruizione delle opere letterarie? ...... di questo ed altro si parlerà con lo sceneggiatore Massimo Rosi, moderato da Marco Ferrandino, nella sala conferenze della biblioteca comunale Antoniana.


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