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Le isole della felicità
PAESI LE ISOLE DELLA FELICITÀ
Esistono sei buoni motivi per andare nell’arcipelago delle Hawaii: Maui, Kauai, Oahu, Molokai, Big Island e Lanai. Sei isole ai confini del mondo che nell’immaginario collettivo rappresentano il paradiso sulla Terra. Un redattore di GEO e la sua famiglia si sono trasferiti da quelle parti per sperimentare se i sogni possono trasformarsi in realtà.
Testo Florian Hanig
VIVERE ALMENO UNA VOLTA in uno scenario da cartolina: sulla spiaggia di Chang, nella parte meridionale di Maui, ci si sente come Robinson Crusoe.
LO SPETTACOLO DELLE CASCATE DI ONOMEA,
nell’Orto botanico di Big Island, rapisce e contemporaneamente placa i sensi.
IL KILAUEA continua a eruttare: al momento emette fino a mezzo milione di metri cubi di lava al giorno. Il vulcano è una delle principali mete turistiche di Big Island.
GARA DI SURF sulla spiaggia di Waimea a Oahu. Su quest’isola, cavalcare le onde non è solo uno stile di vita, ma anche una materia scolastica.
INIZIA LA GRANDE AVVENTURA:
Naveen, Anuradha e Nikhil con i loro bagagli, che devono bastare per sei mesi.
IL SURF
diventa presto una routine quotidiana per Nikhil e Naveen, subito dopo la scuola e prima di andare a casa a fare i compiti.
Anuradha Seth
L’AEREO romba su di noi, inclinandosi per il volo di ritorno a San Francisco. Le palme ondeggianti sopra le nostre teste sembrano ballare la hula; così alte e slanciate, non hanno l’aspetto di alberi, ma di fiori giganteschi. Ci troviamo nel parcheggio davanti alla nostra auto presa a noleggio: abbiamo due valigie, una borsa da viaggio, una chitarra e poco altro. Un bagaglio di gran lunga più contenuto di quello che la maggior parte dei nostri compagni di viaggio si è portata dietro per una settimana di vacanza da sogno alle Hawaii. Noi invece vogliamo restare per sei mesi. Sei mesi a Maui. Ripensandoci, non abbiamo ancora capito come una pazza idea che ci è balenata in testa abbia potuto trasformarsi in un progetto concreto. Tutto risale a quando nostro figlio Naveen, che aveva appena terminato un corso di windsurf per principianti, ci disse che avrebbe voluto fare una vacanza sul Baltico, poi però cambiò idea e propose le Hawaii, tenendo in mano una rivista che mostrava un gruppo di surfisti fare evoluzioni a cavallo delle onde. A un certo punto nella stanza dei ragazzi fece la sua comparsa una “cassa per le Hawaii”, ossia una scatola su cui mia moglie aveva dipinto fiori, palme e surfisti. Naveen e Nikhil, il fratello maggiore, la riempivano con i soldi (un bel po’ di monete!) guadagnati suonando il violino e il violoncello ai mercatini di Natale. Dopo una serata al liceo, durante la quale un gruppo di studenti aveva raccontato la loro esperienza di un anno scolastico trascorso all’estero, mio figlio mi chiese se potevo scrivere il mio prossimo articolo da qualche altra parte nel mondo. Ed eccoci qua in questo parcheggio, davanti a un furgone scassato prenotato via e-mail. Ci avviamo verso un bungalow nel verde, di cui abbiamo visto solo sei foto su un sito internet di alloggi per le vacanze. Dall’aeroporto prendiamo prima la strada in direzione di un vulcano spento, quindi ci dirigiamo a est dove attraversiamo campi di canna da zucchero e Paia, una cittadina dove sembrano esserci solamente negozi di surf e bikini. Infine a destra appare il cartello Hookipa Beach Park. I ragazzi, 13 e 15 anni, non stanno nella pelle; parcheggiamo sulla scogliera che domina uno dei punti per fare windsurf più famosi al mondo, quello della rivista che Naveen stava sfogliando quattro anni prima. Il sole sta già tramontando, al largo si vede solo una vela. Ci sediamo sugli scogli e ci prendiamo per mano in silenzio: davanti a noi rimbombano le onde della baia, in una luce dorata a intervalli di sei o sette secondi. È come se stessimo osservando il respiro della natura. Mezz’ora dopo raggiungiamo un piccolo bungalow immerso nella vegetazione tropicale, che sarà la nostra casa nei prossimi mesi. Provo a spegnere il navigatore satellitare e, per sbaglio, premo il pulsante di riduzione dello zoom. L’isola si rimpicciolisce in un attimo, finché non resta che il simbolo di un’auto che galleggia in mezzo al Pacifico, a circa 3.700 chilometri di distanza dalla terraferma, con la scritta “Siete giunti a destinazione”.
PRIMO GIORNO DI SCUOLA. I 20 allievi dell’Haleakala Waldorf High School stanno seduti sotto due enormi “alberi della pioggia” (Samanea saman) che lasciano penzolare le loro radici aeree sul prato verde. Una ragazza hawaiana canta una benedizione con voce profonda, mentre due danzatrici in vesti di lino bianche ondeggiano seguendo il ritmo, poi gli insegnanti mettono un lei, una ghirlanda, intorno al collo
Anuradha Seth
A PAIA, nell’isola di Maui, le case vengono recintate con vecchie tavole da surf. Nel paesino sembrano esserci praticamente solo negozi che vendono surf e bikini.
IL CHIOSCO VARIOPINTO di Julia, che si trova a Maui sulla strada per Honolua Bay, mette chiunque di buonumore.
di ogni studente. Le due aule si trovano in un’ex residenza all’interno di una piantagione dell’Ottocento; anche lo scheletro per le lezioni di biologia è ornato con una corona di fiori. Il complesso scolastico sorge su un’area grande come un parco, dove scorrazzano uccelli mai visti prima. Mia moglie mi sussurra nell’orecchio che il posto è quasi commovente da quanto è bello. Il nostro bungalow dista solo 200 metri da un vecchio stabilimento di ananas, ora sede di varie aziende di surf e windsurf. Già alla prima visita facciamo conoscenza con cinque dei dieci surfisti professionisti i cui poster campeggiano nelle stanze dei miei figli. Francisco Goya, protagonista di un film sul windsurf visto più volte nelle lunghe serate invernali nella nostra casa di Amburgo, ci scrive il codice numerico per aprire la sbarra davanti al suo residence, invitandoci ad andarlo a trovare quando abbiamo tempo. Qualche giorno dopo salva Naveen prima che venga sbattuto sugli scogli di Hookipa con tavola e vela. Goya assicura a nostro figlio che una cosa del genere è capitata anche a un campione del mondo come lui. «Benvenuto nel club!». Gente cortese e aperta, giardini con alberi di papaya e avocado, tre o quattro arcobaleni al giorno, la vista panoramica delle gole del monte Puu Kukui avvolte nella nebbia e l’oceano. È tutto vero? Non vediamo quasi l’ora di passare per il porto fatiscente di Kahului sulla strada per Kanaha Beach Park, dove a volte andiamo a fare windsurf. Una piccola dose di “bruttezza terapeutica”, per così dire.
VIVERE IL SOGNO. Una frase che, nelle prime settimane, sentiamo quasi tutti i giorni. È il mantra di tutti quelli che sono arrivati qui, per esempio un neurochirurgo di Pittsburgh, negli Stati Uniti, che è andato in pensione a 50 anni e si è trasferito a Maui con i suoi sei figli. Durante la festa in piscina, alla quale ci invita, siamo gli unici a non indossare bermuda e bikini. La madre di un compagno di scuola dei miei figli, ex olimpionica di pallavolo statunitense, ci spiega che nel bagagliaio della macchina ha sempre maglietta e due pezzi da mettere in caso di qualche party improvvisato. Poi posa il suo bicchiere di chardonnay e si tuffa a testa in giù nella piccola cascata in fondo alla piscina. In seguito uno dei figli ci indica il doppio garage, pieno zeppo di tavole da surf e windsurf, vele, biciclette da corsa e moto: un paradiso agli occhi di un adolescente. Vivere un sogno! È il desiderio anche di una giovane francese, che insegna yoga in un gazebo di bambù circondato dalla giungla sulle colline di Haiku e ci fa mettere in posizioni nelle quali le nostre schiene scricchiolano pericolosamente. Ed è quello che si è riproposta la famiglia italo-americana che ha venduto il proprio ristorante a Los Angeles, dove il figlio obeso veniva preso costantemente in giro. E noi, non stiamo forse vivendo il sogno dei nostri figli? E anche il nostro sogno, che ha preso corpo nelle interminabili e grigie giornate d’inverno?
Jen Judge
MAUI È UN’ISOLA DI SOGNATORI. All’interno di Mana Foods, il negozio di prodotti biologici di Paia, ci sono decine di manifesti che pubblicizzano cerimonie di purificazione buddiste, sedute psicoterapeutiche, meditazioni con campane tibetane, massaggi tantrici del corpo astrale. Su quasi tutti compare la tipica formula di saluto hawaiana aloha, che, come ci spiega un cameriere del Colorado, significa «Vedo in te la presenza di Dio». Un termine che indica il concetto di amore incondizionato. Anche noi impariamo presto a rispondere al telefono dicendo «Aloha!» oppure a fare il segno dello shaka (il saluto dei surfisti, che significa “Va tutto bene”) con disinvoltura dal finestrino se vediamo un guidatore imbranato che parcheggia la sua macchina davanti alla nostra. Il proposito, quasi ossessivo, di vivere i propri sogni carica l’isola di un ottimismo inebriante e ci tiene uniti in modo indissolubile. Il giardiniere del nostro
FRUTTA IN ABBONDANZA:
gli ananas che avanzano vengono venduti nel giardino di casa.
Anuradha Seth
PORTE E FINESTRE SEMPRE APERTE
in un’atmosfera meravigliosamente tranquilla, che invoglia a fare yoga o a rilassarsi.
vicino ci mette delle banane sulla veranda e noi ci “vendichiamo” con il pane appena sfornato. Eppure a volte nella nostra mente si insinua anche una strana sensazione, perché tutti i sogni restano sospesi uno accanto all’altro come cangianti bolle di sapone, senza mai legarsi a questa nuova cultura. E qui l’importazione di tradizioni straniere assume forme singolari: quando gli studenti di seconda superiore della nostra scuola mettono in scena il Ramayana, il grande poema epico indiano, i genitori fanno addirittura arrivare musicisti dalla California, ma la spiegazione dell’opera nel volantino è così riduttiva e inesatta che mia moglie, nata in India, quasi inorridisce. Durante la prima settimana tutti ci salutano con il classico «Aloha». Sono per lo più forestieri come noi o discendenti dei lavoratori stranieri giunti nell’arcipelago a partire dal 19° secolo e provenienti dalla Cina, dalle Filippine, ma anche dal Portogallo. Quando incontro il primo hawaiano “autentico”, mi urla contro. È in acqua e sta pescando, e io mi sono impigliato nella sua lenza con il windsurf. L’uomo, che ha occhi piccoli e arrossati, tipici di chi fuma erba, inizia a colpirmi, gridando che era lì prima di noi e che dobbiamo andarcene. Tornato a riva, penso se chiamare la polizia o no, ma gli altri surfisti, tutti bianchi americani, mi dissuadono, perché i poliziotti sono hawaiani come il mio aggressore e non gli farebbero niente. Allora torno vicino al pescatore, che mi guarda con un ghigno provocatorio, e gli mormoro sottovoce: «Aloha!». Da dove scaturisce questa rabbia? Una settimana dopo, sul nostro divano è seduto un uomo, membro del “Regno indipendente delle Hawaii”. Un sacerdote guerriero, dalla cui fronte parte una linea di triangoli neri che passa sopra la palpebra e la guancia e arriva fino al collo. Anche il resto del corpo è coperto di tatuaggi che incutono timore, in forte contrasto con il suo sorriso amichevole. Ci spiega che le Hawaii hanno un’economia basata sullo sfruttamento coloniale. I missionari cristiani e i primi commercianti hanno sottratto la terra e l’acqua, beni che in passato erano proprietà comune, agli abitanti locali e hanno creato grandi piantagioni, i cui prodotti, all’inizio l’ananas e da 20 anni soprattutto la canna da zucchero, vengono esportati negli Stati Uniti via mare. Il consumo idrico delle piantagioni e dei campi da golf nel sud di Maui, per esempio, lascia poco o niente per le coltivazioni di colocasie o banane. Gli hawaiani non sono più autosufficienti e sono costretti a importare merci dall’estero; in questo modo gli americani guadagnano due volte, grazie alle esportazioni e alle importazioni, e i mercantili non devono viaggiare vuoti. In effetti, quando facciamo la spesa ci accorgiamo che quasi niente di ciò che mangiamo è di provenien-
FORESTE DI BAMBÙ sulla strada verso Hana, lungo la costa settentrionale. Con il vento forte se ne sente sempre il fruscio.
LE SPADE D’ARGENTO (Argyroxiphium sandwicense) possono raggiungere i 50 anni di età, ma fioriscono solo una volta. Si tratta di una specie endemica di Maui: nella foto si vedono numerosi esemplari di queste piante sul cratere dell’Haleakala.
za locale: l’acqua di cocco viene dalla Thailandia, il succo d’arancia dalla Florida, le patate dalla California. Esiste ovviamente anche un altro punto di vista: sull’aereo una giovane statunitense, direttrice di una catena di grandi magazzini, ci ha detto che gli hawaiani non hanno alcuna voglia di darsi da fare. Sam, l’elettricista che deve sostituire i nostri ventilatori da soffitto con altri più potenti, ha con sé il suo cane, ma non le pinze. Fissa il cavo con del nastro adesivo, chiacchierando con mia moglie sull’India, sull’induismo e su Nelson Mandela. Poi ci racconta che la sua famiglia acquisita lo ha cacciato di casa. Nel frattempo va a fare un po’ di surf, infine mi chiede di dargli una mano a spostare il letto. Gli faccio notare che è avvitato alla testata, al che lui si gratta la testa. A fine giornata i ventilatori sono finalmente in funzione, peccato solo che girino più lentamente di quelli vecchi... In qualche modo possiamo anche capire che gli hawaiani non credano al sogno americano di arricchirsi lavorando duramente, perché in questa parte del mondo il benessere non dipende certo dal lavoro. La ricchezza del nostro locatore si fonda su un sito internet di medicina omeopatica per cani. Uno dei padri degli studenti della scuola ha venduto – pare per diversi milioni di dollari – una casa discografica specializzata in canti delle balene e suoni della natura. Una coppia australiana racconta che, durante il boom economico cinese, ha centuplicato i propri investimenti alla Borsa di Hong Kong nel giro di pochi anni e che è venuta a investire qui per mettere al sicuro tutto il denaro. Quella in cui spesso ci si imbatte a Maui è una sorta di ricchezza irreale, come irreali sono i tramonti di colore arancio, rosa e porpora, con le nuvole infuocate, spettacolari come in nessun’altra parte del mondo perché tra gli ultimi raggi del sole e il Pacifico non ci sono montagne o case. Vivere un sogno senza soldi in tasca però è molto più faticoso. Veniamo a sapere che l’insegnante di nostro figlio arrotonda lo stipendio durante i fine settimana lavorando come parcheggiatore in un albergo a cinque stelle; tra i clienti ci sono anche i genitori dei suoi studenti, che gli danno la mancia. Altri cercano di rivendere il “paradiso promesso” che li ha spinti a venire quaggiù. Infatti dopo ogni festa abbiamo le tasche piene di biglietti da visita di nuovi amici, agenti immobiliari di professione o come secondo impiego. Alle Hawaii i nuovi venuti servono per finanziare chi è arrivato prima di loro. Ma per fortuna non tutti sono così scorretti come il nostro vicino Steve, un colosso con la barba bionda che guida una Land Rover molto rovinata, sulla quale è attaccato un adesivo del Fronte di liberazione dei delfini. Tempo fa Steve si è introdotto di nascosto in un centro oceanografico come guardiano, per poi liberare i delfini che vi erano ospitati. Un giorno entra in casa nostra senza bussare e ci accusa di essere andati a sbattere contro la sua macchina. L’ammaccatura non presenta segni di vernice e Steve non intende chiamare la polizia, ma pretende 2 mila dollari di danni dal nostro padrone di casa. Nella nostra strada non si possono affittare alloggi turistici per brevi periodi, quindi Steve ci ricatta: non dirà niente, ma vuole una parte della quota di affitto. Dopo che gli abbiamo dimostrato di avere un regolare contratto di locazione, ci fa solo qualche cenno con il capo brontolando.
VIVIAMO IL NOSTRO SOGNO E, DOPO QUATTRO
MESI A MAUI, SIAMO DAVVERO ESAUSTI delle dieci ore di sole al giorno, che abbiamo rimpianto una volta tornati ad Amburgo, ma che adesso ci sentiamo sulla pelle malgrado la crema solare con fattore di protezione 50. Siamo stanchi dei 25 gradi di notte che ci tolgono il sonno, stanchi di viaggiare, perché Maui sarà anche una piccola isola, ma le distanze sono notevoli. A volte torniamo a casa la sera e ci accorgiamo di aver fatto 100 chilometri solo per accompagnare i figli a scuola, per essere andati a fare acquisti e un po’ di surf. Ma i nostri ragazzi sono come rinati e non sembrano diversi dai giovani di Maui: hanno i capelli schiariti, la carnagione abbronzata e la pelle sempre salata. Dopo la scuola li portiamo in spiaggia, dove si mettono a cavalcare onde che a noi fanno venire il batticuore, mentre a loro fanno impazzire. Partecipano all’Aloha Classic, la mitica competizione internazionale di windsurf, e sognano di fondare una società come quella di David Ezzy, che prima disegnava vele per una grande azienda, ma non poteva più sopportare che gli operai dello Sri Lanka fossero esposti a gas tossici. Con loro ha quindi formato un collettivo per continuare a produrre secondo lo spirito di Maui, ossia nel rispetto dell’uomo e della natura. O magari i nostri ragazzi sognano di diventare come il loro idolo Francisco Goya, che fa sempre di corsa gli ultimi metri dal furgone all’acqua perché non vede l’ora di provare le sue nuove tavole. In alternativa potrebbero immaginarsi una carriera di musicisti reggae come il nostro amico Mishka, nel cui appartamento prendiamo parte a una rilassata e
UNA MEGATTERA salta fuori dalle acque del canale di Auau, al largo di Maui. Uno spettacolo unico per chi ha la fortuna di assistervi.
piacevolissima festa del Ringraziamento, con tacchino di tofu per i vegetariani, tacchino tradizionale per gli altri e torta di zucca per tutti, mentre di sera i bambini giocano a nascondino tra gli alberi di banane e papaya e si inviano messaggi segreti in codice Morse con le torce elettriche.
NATALE A MAUI. Davanti alla caserma dei vigili del fuoco di Paia è stata collocata una gigantesca palla in plastica trasparente, nella quale una slitta è avvolta da fiocchi di neve; a Hookipa alcuni surfisti indossano cappucci di Babbo Natale in neoprene e nei giardini si vede la neve artificiale, così abbagliante sotto il sole dei Tropici da costringere i guidatori che passano di lì a indossare gli occhiali scuri. Sarà forse per via del Natale che ci sentiamo improvvisamente così stranieri qui? Siamo colpiti dal culto del corpo sulla spiaggia, dalle ragazze, tutte uguali, che si tirano indietro i capelli biondi guardando i loro smartphone attraverso occhiali da sole quasi più grandi dei bikini che hanno addosso. Gli argomenti di conversazione sono sempre gli stessi: l’altezza delle onde, il moto ondoso e così via. La televisione trasmette notizie che parlano per mesi esclusivamente della riforma sanitaria di Obama. Qui c’è anche il mito degli autoveicoli extralarge, incarnato in modo incredibilmente pacchiano dal celebre surfista Robby Naish, che ha un camion di cinque tonnellate, il cui motore aspira la benzina da un serbatoio della capacità di ben 590 litri. Non possiamo mandare i nostri figli nemmeno all’ex stabilimento di ananas, distante solo 200 metri, perché la strada tortuosa non ha un marciapiede e agli automobilisti locali piace tagliare le curve. Al termine del nostro soggiorno i ragazzi non vedono l’ora di tornare a prendere la bicicletta e la metropolitana ad Amburgo, liberi di andare a trovare gli amici senza dover essere sempre accompagnati in macchina dai genitori. Dopo cinque mesi l’ebbrezza liberatoria di essere lontani, dall’altra parte del pianeta, si trasforma nella sensazione di essere caduti nel vuoto, di restare tagliati fuori dal mondo, ma proprio nel momento in cui il nostro amore per Maui ha toccato il fondo, l’isola riesce a sorprenderci ancora una volta... Nel viaggio da Paia a Haiku mia moglie comincia improvvisamente a gridare. Fermo l’auto sbandando, poi seguo la sua mano protesa dal finestrino e vedo una femmina di megattera e i suoi due piccoli. A neanche 100 metri dalla battigia saltano in alto e ricadono all’indietro, sollevando in aria enormi fontane d’acqua. Tutti i surfisti hanno rivoltato le tavole e lasciano passare le onde migliori: sono troppo presi dalla leggiadria del “balletto” di questi cetacei. Tre giorni dopo è Capodanno. Qui a Maui sono vietati fuochi d’artificio e razzi, e si respira una strana atmosfera. Molti dei nostri nuovi amici sono andati a trovare le famiglie sulla terraferma. Ci sentiamo un po’ soli e, poco prima di mezzanotte, scendiamo in strada portando solo qualche bicchiere e una bottiglia di spumante. Notiamo che, sopra di noi, c’è un meraviglioso cielo pieno di milioni di stelle così lucenti, così lontane e allo stesso tempo così vicine che quasi ci fanno girare la testa. Si vedono la Via Lattea e Andromeda in tutta la loro eterna e immobile magnificenza, al cospetto della quale la nostra vita appare misteriosa e piccola come un granello di polvere. Poi arrivano alcuni vicini di casa mai visti prima. Da una borsa estraggono delle lanterne cinesi, che i nostri figli guardano con gli occhi sgranati. Gli sconosciuti ce ne regalano un paio e mostrano ai ragazzi sempre più eccitati come accendere lo stoppino imbevuto di petrolio per riscaldare l’aria contenuta nell’involucro fatto di carta di riso. Con cautela, i ragazzi rilasciano le lanterne volanti, che salgono in cielo insieme ai loro desideri per il nuovo anno, diventando due punti che brillano di una luce gialla e rossa. Le lanterne oltrepassano di poco la linea elettrica, arrivano a 30-40 metri di altezza, quindi vengono spinte in direzione del mare. «Aloha», dicono i nostri vicini. «Aloha», rispondiamo noi, mentre guardiamo le due “lucciole del cielo” che vagano nella notte. I ragazzi non ci svelano i loro desideri, ma noi sappiamo che un giorno vorrebbero ritornare alle Hawaii.
Anuradha Seth Il redattore di
GEO Florian Hanig, 46 anni, oltre a scrivere questo reportage su Maui, ha scoperto una nuova vocazione: quella di “portatavole” dei figli, grandi appassionati di surf.