N. 11 FEBBRAIO

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L’EDITORIALE di Pietro Forti

Dopo queste poche righe, le prime pagine del numero che avete in mano sono dedicate a un approfondimento che, in maniera neanche troppo provocatoria, abbiamo intitolato “Slogan”. All’indomani del voto, il rapporto tra partiti e cittadini è certamente quello che più attira l’attenzione dell’analisi (nostra e, ovviamente, non solo), ma neanche lontanamente l’unico che abbia a che vedere con la distanza tra cittadino e sfera pubblica. Se è la somma dei singoli che fa la società, nessuno si dovrebbe stupire della sempre maggior irrilevanza della politica, del disinteresse in crescita e della disinformazione che, nonostante tutti gli straripetuti richiami all’attenzione su temi come fake news e post-verità, riesce comunque ad essere padrona incontrastata nelle menti dei cittadini. E questo per un motivo ben preciso: la comunicazione di qualsiasi tipo che arriva ai cittadini, dall’informazione alla pubblicità passando per gli spot elettorali, fa affidamento solo e unicamente sugli slogan. Qualsiasi ambito della vita pubblica è ridotta ad avviso o spot e chi vuole far passare un messaggio non si vergogna affatto di arrivare in questa forma al destinatario. Non ha vergogna nemmeno quando redarguisce il cittadino che non vota, annulla la scheda, la lascia bianca o dà il suo voto a qualcuno che promette di mandare al diavolo in sua vece un’intera classe politica. Lo redarguisce ripetendo a pappagallo qualche vecchio e poco convincente paradigma (“il voto è un dovere civico”, “c’è gente che nel mondo muore per avere il diritto di votare”, “chi non vota non può lamentarsi”), citando Gramsci e, dulcis in fundo, qualche volta reclamando l’abolizione del suffragio universale. Lo fa probabilmente neanche rendendosi conto di quel che sostiene, di quanto sia aristocratico e medievale un pensiero del genere, del classismo becero che istilla nella mente di chi crede di sapere più di altri solo perché non crede a complotti e perché magari legge qualche titolo di articolo in più su un qualsiasi social network. Soprattutto, lo fa perché non ha la più pallida idea della realtà che circonda la maggioranza dei cittadini. Che è una realtà di vuoto. Di ogni tipo: vuoto economico, politico, informativo, culturale. Forse, di tutte le colpe che ha chi divide come il Mar Rosso la popolazione in dotti e ignoranti, la più grave è però quella di credere e tentare di far credere che questo vuoto intorno i cittadini

se lo siano scavati da soli. Che giovani studenti, lavoratori o anziani abbiano scelto coscientemente il disinteresse, l’ignoranza, la miseria culturale. Chi dà la colpa di tutto questo a chi ne è vittima non solo accusa implicitamente di suicidio di massa intere generazioni (e quella che si appresta al voto per la prima volta in particolare), ma assolve silenziosamente chi ha smantellato, pezzo per pezzo, la vita politica e culturale di un intero Paese, riducendole entrambe a fenomeni di carosello, destinati a lasciare il tempo che hanno trovato, senza neanche farsene un gran cruccio. E che, come lacrime di coccodrillo, piange in cerca di un voto in più, pescato dal limbo degli indecisi: voto destinato non a cambiare il Paese ma ad aumentare le probabilità di un seggio in più per il partito a cui va, null’altro. Fare tutto ciò e non considerare minimamente responsabili quanti hanno reso l’esercizio di un voto, un articolo scritto, un romanzo letto un accessorio del tutto velleitario ed anzi, considerarli possibili salvatori non è un esercizio di democrazia, ma l’opposto. Perché il vuoto intorno ai cittadini l’ha creato col tempo chi pensava di dover parlare da un piedistallo, di doversi ergere a principe del popolo e suo rappresentante (perché figure del genere non siano rimaste confinate nel sistema feudale è un arcano non facilmente risolvibile), di dover creare “consenso” e non coscienze. E l’ha fatto con metodi sempre più subdoli e pubblicitari per vendere, come prodotti di consumo, idee. Oggi, chi ha svenduto quelle idee si guarda attorno, quasi scandalizzato, chiedendosi che fine abbia fatto quella passione politica e culturale che tanto gli piaceva. In questo numero si prende in analisi il sistema partitico nostrano, che certamente più di ogni altra cosa ha contribuito a questa avvilente svendita. Ma concentrarsi solo su ciò che i partiti, in ogni loro forma, hanno e soprattutto non hanno costituito nella vita degli italiani negli ultimi venticinque anni sarebbe superficiale. E per un’analisi non superficiale la prima cosa che va cercata, molto prima delle cause del disastro odierno, è una propria motivazione per far resuscitare la vita culturale e politica dal baratro in cui si trova. E per passare da un voto casuale e inconsapevole (che sicuramente non gode dell’onestà intellettuale del non voto) a un voto sensato, che contribuisca davvero a creare coscienze politiche e culturali dove ora c’è il vuoto.


FOCUS - SLOGAN • I PARTITI ITALIANI E IL VOTO Il voto vuoto di Leonardo Rosi, Alessandro Cochelli, Riccardo Corsi e Mauro Milano Non è un voto per giovani di Francesco Paolo Savatteri e Riccardo Farnetti L’INFOGRAFICA di Antonio Pronostico Uomini di partito di Pietro Forti e Alessandro Luna Una volta qui... di Flavia Tresalti, Matteo Iapadre e Viola Simonetti ATTUALITÀ La città inamministrabile di Pietro Forti e Francesco Paolo Savatteri Il Rojava di Due studenti di “Sapienza Clandestina” Il gioco dei troni europei di Lorenzo Scotto di Carlo A parità di salario la società cambia di Anna Laura Lozupone, Anita Raponi e Giulia Tomassetti PARALLASSE di Marco Collepiccolo con la collaborazione di Luca Bagnariol MOSTRI - CASALE DELLA CERVELLETTA di Silvia Forcelloni CULTURA LA COPERTINA di Julian Toso La leggenda di San Remo di Maria Marzano Vieni a rilassarti, gioia di Carolina Scimiterna e Emma Fragorzi Dalla spiritual woman alla bad gyal di Francesco Tresalti Tutti insieme appassionatamente di Costanza Fusco Clint Eastwood e la "pussy generation" di Cosimo Maj La cultura dell'antieroe di Francesco Paolo Savatteri Il problema terminologico del cinema d’artista di Alessandra Batini RECENSIONI Musica Di Jacopo Andrea Panno e Nives Giovannetti Letteratura di Maria Marzano e G.G. Cinema di Alice Paparelli IL PLUS La campagna dei meme di Massimo Gordini Bitcoin: non solo speculazione di C.G. Metamorfosi di Alice paparelli Lambda Lambda Lambda di Raffaele Giasi Rinascita urbana

3 4 6 8 10 12 14 16 22 27 30 34 38

Le elezioni politiche che porteranno alla formazione del XVIII Parlamento italiano saranno, più che altro, un esperimento antropologico di rara portata. Ormai definitivamente abortito il sogno del bipolarismo, in Italia l’interesse per la politica è ai minimi storici. Il ricambio generazionale, ancora in fase di compimento, che ha portato nuovi protagonisti alle luci della ribalta nonostante i (pochi) sforzi non è riuscita nell’intento di avvicinare l’elettorato, anzi accelerando il divorzio tra cittadini e Parlamento. I bersagli preferiti, ovviamente, sono i politici. Ma che ruolo hanno invece i partiti di cui fanno parte?

SLOGAN

46 48 50 52 57 59 62 64 67 69 71 72 73 74 78 81 85 87

I PARTITI ITALIANI E IL VOTO 5


Il voto vuoto Vademecum per l’elettore Come già saprete Domenica 4 Marzo 2018 si andrà a votare per rinnovare i seggi nel Parlamento. A ottobre è stata approvata, da una strana maggioranza composta da PD, Forza Italia e Lega, una nuova legge elettorale che si chiama Rosatellum bis, che ha cambiato le regole del gioco per far eleggere ai cittadini italiani i propri legislatori. Si ricevono due schede elettorali: una per la Camera dei Deputati, un’altra per il Senato della Repubblica, quest’ultima solo se avete almeno di venticinque anni compiuti. Se abitate nel Lazio o in Lombardia avrete una scheda aggiuntiva per il voto alle regionali. Per capire il Rosatellum bisogna definire due termini: “Maggioritario” e “Proporzionale”. Maggioritario vuol dire che ogni partito o coalizione candida una sola persona in ciascun collegio uninominale, cioè una divisione interna alle circoscrizioni elettorali, di solito due per regione. Chi prende più voti tra i candidati all’interno di quel collegio ottiene un seggio. Il sistema proporzionale, come dice la parola, fa in modo che i candidati di ogni partito nei collegi plurinominali siano eletti proporzionalmente in base a quanti voti ha preso ogni partito/coalizione. Un terzo dei seggi sarà eletto in confronti diretti nei collegi uninominali, i restanti due terzi con il metodo proporzionale. Al massimo sulla scheda si possono fare due croci: una per il candidato al collegio uninominale e una su una delle liste che lo appoggiano. Non è possibile segnare due partiti o coalizioni differenti, se ad esempio si barra il candidato del PD e la lista del M5S, la scheda viene annullata. Il buon vecchio voto disgiunto, che permetteva di separare il voto per il proporzionale e per il maggioritario, non è previsto dal Rosatellum. Inoltre le liste sono bloccate, ovvero, non si può dare una preferenza a un solo nome all’interno di una lista plurinominale, ma solo la lista stessa. Si può anche scegliere di votare solo per l’uninominale, ma se fate questa scelta comunque voterete automaticamente per la sua coalizione: i voti per il solo candidato saranno distribuiti alle liste che lo appoggiano proporzionalmente al loro risultato locale. Per ogni collegio uninominale, colui che riceve più voti sarà eletto. La legge però prevede anche che candidarsi lì non impedisce di presentarsi nelle liste della stessa coalizione in altri collegi plurinominali, fino a cinque. Questo metodo è stato criticato da moltissimi costituzionalisti, politici di opposizione e 6

di questo tipo e tristemente demotivati. Chi voterà per la prima volta si troverà a farlo in questo spirito.

giornalisti perché genera una specie di ‘paracadute’ per chi perde nel proprio collegio uninominale, che ha ben altre cinque opportunità di essere eletto nel proporzionale. Tutta questa complessità sarà risparmiata se non si supera la soglia di sbarramento. Per eleggere candidati con il proporzionale, una lista deve superare il 3% nazionale, mentre per le coalizioni il discorso è un po’ diverso: per spiegarlo ricorriamo alle letterine. Abbiamo le liste A, B, C e D che hanno fatto l’ammucchiata, per essere considerate devono prendere minimo il 10% insieme, a patto che almeno una di queste prenda il 3% da sola. Se invece una, diciamo la C, prende meno del 3%, allora non può eleggere nessun parlamentare, ma se ottiene più dell’1%, i suoi voti vengono assegnati comunque alla coalizione. Aspetto molto criticato, perchè porta alla nascita di liste civetta, piccoli partiti che arrivano a poco più dell’1%, così da rimpinguare le percentuali dei partiti maggiori. Metodo per niente nuovo, si pensi alle liste di disturbo, inventate da Mussolini nel 1924. Cause e conseguenze Se nel 2013 la coalizione di centro-sinistra si poteva ancora definire tale, quest’anno può essere considerata una brutta copia della Democrazia Cristiana, composta da vari presunti geni incompresi. È vero dunque che Matteo Renzi ha attuato una rivoluzione nel maggiore partito dell’ex centro-sinistra: l’ha fatto diventare definitivamente centro-destra. Fermo restando che per vincere le elezioni si rende necessario conquistare i voti dello schieramento opposto, arrivare a sovrapporvisi porta ad una perdità di identità. Mai in Italia avremmo pensato di considerare appetibile un Massimo D’Alema o di dover rivalutare Pierluigi Bersani. È anche così che il PD ha perso i suoi voti, gran parte in favore dell’astensione. Quel 40,8% ottenuto dal PD alle europee 2014 ora rischia di arrivare ad uno scoraggiante 20-25%. Colpevoli sono le tante promesse mai mantenute e i troppi che non hanno avuto l’onestà di ritirarsi dalla vita politica, dopo averlo annunciato in ripetute occasioni in caso di un evidente fallimento delle proprie politiche. Infine, se un tempo sapevamo discutere senza odiarci, oggi la politica pare consista nell’odiarsi senza realmente discutere. Tutto questo porterà inevitabilmente ad un aumento vertiginoso dell’astensionismo, purtroppo soprattutto tra i giovani, abituati a una dibattito sterile

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Febbraio 2018

Gli “sdraiati” al voto Una generazione digitale è chiamata al voto. Una generazione che più delle altre si è distinta per la distanza dalla politica, per il desiderio di andare via dall’Italia. La generazione figlia d’Europa sta per andare al voto in un’atmosfera di diffusa apatia, distrazione, in cui la noncuranza e il disinteresse regnano sovrani. Alle politiche del 1976, le prime aperte ai diciottenni, votò il 93% degli aventi diritto, il massimo storico. Da tempo si percepisce che l’aria è cambiata, e gli ultimi sondaggi confermano quello che già il rapporto Demòpolis a 30 giorni dal voto rivelava. Se in tutto si prevedono 17 milioni di astenuti, cioè il 33% circa della popolazione, fra i giovani questa percentuale sale al 47%. In sostanza, quasi 1 giovane su 2 non si recherebbe oggi alle urne. Bella risposta agli appelli di Mattarella e company. Forse è il caso che si riveda qualcosina nell’agenda politica dei prossimi mesi, perchè, anche se i sondaggi non sono verità certa, i risultati annunciati sono pessimi. Il Sole 24 Ore, inoltre, ha evidenziato come nel programma politico dei partiti in corsa la popolazione giovanile venga menzionata raramente e perlopiù in relazione al tema del lavoro. Mentre nella carta dei valori della Lega non se ne fa alcuna menzione, nel suo programma “Italia 2020” il Pd afferma di “combattere la disoccupazione partendo da quella giovanile e femminile”, schizzata oltre il 30% negli ultimi anni. Il M5S parla invece di “staffetta generazionale come strumento di riduzione dell’orario del lavoratore vicino alla pensione”. FI prevede delle agevolazioni fiscali per aziende che assumono under 35 e LeU l’azzeramento delle tasse universitarie. Resta da vedere se queste promesse avranno un riscontro fattuale. Più convincenti risultano i candidati del M5S, che stando al rapporto Quorum sono in testa in quanto a gradimento giovanile. Seguono il PD, (sorprendente potrebbe essere il risultato di +Europa, sempre secondo Quorum), poi FI e Lega quasi alla pari. LeU poco sopra le aspettative nazionali. La mancanza di coscienza politica è sicuramente uno dei problemi dell’astensionismo: le nuove generazioni hanno difficoltà ad identificarsi con la classe politica, che a sua volta sembra incapace di instaurare un dialogo non strumentale. Il docente di Sociologia dell’Università di Bologna, Dario Tuorto afferma presso Nanopress che “i partiti non sono più canali di formazione della politica: adesso c’è la rete. I nuovi partiti arginano questo fenomeno di disaffezione ma non possono replicare le dinamiche e le strategie

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Febbraio 2018

del passato. Si spiega così anche il successo tra i giovani del Movimento 5 Stelle nel 2013”. La rete e non la politica reale, delle piazze e di partito. La scarsa voglia giovanile di costruirsi una coscienza politica e di andare al voto è lo specchio di una classe politica mutata, di difficile decifrazione, che vive un periodo transitorio in cui è incapace di riscuotere consensi. Da vedere se i nostri giovani sdraiati avranno la forza di alzarsi in piedi e di esprimere almeno il dissenso per un voto che appare sempre più vuoto.

Il voto vuoto “Il tuo voto. La tua scelta”, dice lo spot della Rai sulle elezioni politiche. Votare vuol dire scegliere, ma anche partecipare, fidarsi. Consegniamo una parte di noi a uomini e donne che non conosciamo quasi mai di persona, a idee che forse non comprendere mai del tutto, a programmi che non riusciremo a leggere per intero. Senza contare tante altre variabili eventuali: simpatia, giochetti strategici, favori, clientele, lobby. I nostri rappresentanti sono una minoranza di tanti, paradossalmente, privilegiati e che talvolta si rivelano inefficienti. Tra loro formeranno il governo e eleggeranno il Capo dello Stato. Starà a noi, alle prossime elezioni, con un’altra croce, riconsegnarci a quelli dell’altra volta, oppure ad altri. Riavviando il meccanismo che così funziona e così continuerà a funzionare, nonostante proposte di riforme più o meno profonde. Il rito si declina in diversi modi e ha diversi significati. Intanto si decide, si partecipa e ci si fida sempre meno. 7


“Voto” deriva dal latino vovēre: promettere in voto, consacrare, dedicare. Siamo nella sfera del sacro, delle promesse rispettose alla divinità. La politica ha profanato il gesto, invertendolo: è a chi ci affidiamo, non più a noi, che ora spettano promesse che non è detto siano mantenute. La votazione è un sistema d’investitura, come altri che la Storia ha conosciuto: nell’Atene del V secolo a.C. le cariche si sorteggiavano, nell’Ancien Régime si ottenevano per nomina o si potevano acquistare. Ora votiamo tutti, ma il cammino del suffragio universale è stato lungo, per l’Italia e per gli altri paesi. La politologia ha individuato alcune categorie di voto. C’è la scelta per appartenenza: è il voto verso il partito che si sente proprio. È frutto d’identificazione sociale, di fiducia e d’ideologia, è più stabile ed è legato ad un’affinità duratura e storica del cittadino con il programma del partito, cosa che magari lo porta a ignorare quelli degli altri, anche se magari sarebbero più vicini alla sua preferenza. Altra cosa è votare secondo un’opinione che si è formata nel cittadino durante la campagna elettorale. Il voto d’opinione, variabile e più incerto, caratterizza soprattutto persone che s’informano e s’interessano di politica con coscienza ma in maniera più saltuaria, risultando quindi più influenzabili da singole proposte e dall’agenda politica. Il voto di scambio, invece, prevede una raccomandazione, una cortesia o addirittura una retribuzione per il disturbo, all’elettore che abbia esaudito la richiesta di un esponente politico locale fin nel segreto dell’urna. Questo rapporto, in cui spesso entrano in gioco anche minacce e associazione mafiosa, è reato.

Dalle elezioni del 2008, quando il bipolarismo ha iniziato a perdere pezzi e i partiti maggiori hanno perso il monopolio della scena politica, si è tornati a parlare di “voto utile”: con due grossi partiti l’uno contro l’altro, si diceva, al netto dello sbarramento, perchè buttare una cosa importante come il proprio voto? Avrebbe senso votare un partito che già si sa non vincerà mai, favorendo magari il nemico peggiore? Ora i contendenti sono addirittura tre, dunque il calcolo machiavellico si prospetta ancor più affilato. Ma l’utilità e l’inutilità non sono cose stabilite dalla legge o da una scienza esatta, e si potrebbe obiettare che ogni scelta ha la sua utilità, compresa l’astensione. Anche la non-scelta significa scegliere qualcosa. Il voto è una conquista, un diritto, un dovere civico, non un obbligo. La scelta va quindi pesata ma dev’essere sentita. Prima di tutto da noi, soli, senza che nessuno ci veda, con una matita che non si cancella e una grossa scheda colorata, con tutti i meme della campagna elettorale che ci passeranno davanti agli occhi. Ma la scelta, come la partecipazione, è sentita sempre meno, svuotata ormai di significato. Quel che sarà alla fine l’esito di queste elezioni è incerto, ma l’unica certezza è che per i giovani, né protagonisti né determinanti, sarà un voto vuoto, privo di valore. E forse, tutto sommato, nessuno li rimpiangerà se migreranno esuli in cerca di fortuna. Ma la politica non è la fisica. E questo vuoto, qualcuno o qualcosa, in qualche modo, lo dovrà riempire.

di Leonardo Rosi, Alessandro Cochelli, Riccardo Corsi e Mauro Milano

Non è un voto per giovani È una città grande quanto Roma e Milano insieme. E’ abitata da 4 milioni di ragazze e ragazzi italiani fra i 18 e i 25 anni. Metà di loro domenica 4 marzo resterà a casa o farà altro, ma probabilmente non andrà a votare. Per “Il Sole 24 ore” infatti il 48 per cento degli 8

under 25, quelli che possono votare solo per la Camera dei Deputati, non è intenzionato a esprimere il proprio diritto di voto. Il doppio rispetto alle politiche del 2013 quando, secondo l’analista politico Luca Tentoni, un quarto degli under 25 non si presentò ai seggi.

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Febbraio 2018

Non è solo disinteresse, ma un sentimento di profonda delusione verso i partiti. Questi stessi ragazzi, da studenti alle superiori, la “politica” l’hanno fatta e vissuta. La percentuale di affluenza alle elezioni scolastiche è infatti ancora molto alta: l’ultimo dato ufficiale del ministero dell’Istruzione risale al 2002, quando l’85 per cento votò per i propri rappresentanti. Ancora oggi, da alcuni controlli a campione su alcune scuole italiane, il dato rimane superiore agli 8 studenti su 10. L'impegno politico della vita studentesca soprattutto nelle scuole storicamente di “sinistra” si traduce anche in collettivi, assemblee e cortei. Ma il problema nasce quando ci si va a confrontare con i meccanismi e le figure della politica tradizionale e quindi con il voto a un partito. A soffrirne sono appunto le sezioni giovanili dei partiti: criticate perché incapaci di influenzare le decisioni dei “grandi”, diventano di fatto un luogo dove i “piccoli” possono divertirsi a discutere fra di loro senza dare troppo fastidio a chi fa la politica che conta. Nel 2016 i Giovani Democratici potevano vantare 35.000 iscritti – secondo dati di Wikipedia – ma alle primarie dei giovani del PD per “Il Fatto Quotidiano” le urne erano vuote, almeno a Roma, con meno di 5 elettori per seggio. “Nel dicembre 2009 venne fondata la Federazione degli Studenti, che si è radicata negli anni in tutta Italia”, sostiene Caterina Conti, coordinatrice dei segretari regionali GD e componente dell’esecutivo nazionale GD con delega all’immigrazione. La Federazione è una rete promossa dai Giovani Democratici per avvicinare gli studenti e essere presenti nella politica scolastica. Ma la pagina Facebook della FDS di Roma è ferma ad aprile dell’anno scorso. L’ultimo post è la condivisione di un evento organizzato dalla Consulta Provinciale degli Studenti. La Consulta infatti è uno dei pochi organi della scuola ancora legati ai partiti politici e alle loro sezioni giovanili. “Quando ero liceale nella Consulta c’erano molti rappresentanti delle giovanili dei partiti”, dice Mattia Iovane, 26 anni, da sempre vicino a Forza Italia Giovani. Federazione degli Studenti, Gioventù Nazionale e Fronte della Gioventù Comunista continuano ad avere vita politica nella Consulta. Distante però dalla vita dei ragazzi. Secondo il sondaggio di Scomodo, pubblicato sullo scorso numero, quasi la metà degli studenti medi non conosce la funzione di questo organo. Da un paio di anni nella Consulta opera anche Simmachia, movimento apolitico “né di destra né di sinistra”, come ha spiegato all’Internazionale il suo ideatore Leonardo Panerai: un fenomeno che indica come la deriva antipolitica stia prendendo piede anche

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dove la “politica tradizionale” sembra continuare a sopravvivere. La controprova è la storia di Alternativa Studentesca. Associazione di studenti di tutta Italia legata a Forza Italia Giovani, fondata nel ’99, aveva il compito di supportare la candidatura a rappresentanti d’istituto dei suoi iscritti. “Aveva una sua importanza - dice ancora Mattia – tanto che il coordinatore nazionale partecipava alle sedute della commissione sull’istruzione della Camera dei Deputati”. Mattia si riferisce agli anni 2008/2009, ma il sito di Alternativa Studentesca è fermo alle candidature dell’anno scolastico 2000-2001, dove ancora oggi ci si può iscrivere con il proprio nome per essere contattati da qualcuno dell’associazione. Nel giro di pochi anni, un movimento studentesco che a quanto pare aveva la possibilità di entrare regolarmente in contatto con la politica nazionale, è sparito lasciando soltanto un sito abbandonato. Una prova del fallimento della politica scolastica dei partiti degli ultimi anni. In questo panorama un po’ desolato, solo l’estrema destra riesce a mantenere a livello scolastico un’organizzazione forte, attiva e capace di essere presente sul territorio. E’ il caso di Blocco Studentesco, sezione giovanile di Casapound. “La militanza è tosta, ci sono due riunioni a settimana, poi c’è il volantinaggio la mattina presto davanti alle scuole, le affissioni” ha raccontato all’Internazionale Rolando Mancini, coordinatore nazionale di Blocco Studentesco. Per il proprio volantinaggio i giovani di Casapound scelgono luoghi strategici: quartieri e scuole considerati abitualmente di sinistra. La propaganda in questo modo diventa ricerca dello scontro, che prima o poi arriva, come infatti è successo spesso davanti a varie scuole di Roma e non solo. Basta cercare su internet per averne conferma. Le ultime notizie risalgono appena al 26 gennaio davanti a una scuola di Torino. Aggressiva e violenta, la tattica dell’estrema destra sembra efficace. Alle ultime elezioni scolastiche oltre 200 appartenenti a Blocco Studentesco sono stati eletti a rappresentanti d’istituto o nelle Consulte di tutta Italia, ottenendo più di 56mila preferenze. Sono numeri annunciati in un comunicato ufficiale, ed è facile immaginare siano stati un po’ gonfiati, ma la presenza del partito di estrema destra all’interno degli organi scolastici viene confermata anche da altre fonti. Basta chiedere a Andrea Licitra, segretario della Consulta: qual è il peso di Blocco Studentesco? La risposta è secca, ma chiara: “Blocco studentesco quest’anno ha preso molti voti”.

di Francesco Paolo Savatteri e Riccardo Farnetti

9


ESTREMA SINISTRA

LEGENDA PARTITO

SINISTRA

CENTRO SINISTRA

CENTRO DESTRA

DESTRA

ESTREMA DESTRA

PLI LEGA NORD

1990

VOTI

1.221.989

1.216.691

5.094.510

1990

1.421.900

1.403.497

6.588.751

1994

1.241.498

1.675.878

8.343.072

1996

1.688.609

1.274.012

9.179.898

2001

439.286

705.868

7.699.104*

2006

485.870

931.445

9.167.245*

2008

395.279

869.892

11.634.228

2013

?

?

?

2018

4.881.005 PSI

7.656.873 PCI

PSDI

10.648.505

PRI

DC

MSI

TERREMOTO:

TANGENTOPOLI, FINE DEI TRE PRINCIPALI PARTITI TRADIZIONALI

SCISSIONI ED EVOLUZIONI

1994

AN

PATTO

RIFONDAZIONE

4.287.172 PPI

BIANCHE

LEGA NORD

7.881.646 PDS

8.136.135 FI

NULLE ASTENUTI

1996

RIFONDAZIONE

LEGA NORD

CCD POPOLARI

1990

7.894.118 PDS

ELEZIONI REGIONALI TENUTESI IN 15 REGIONI SU 20

FINE ANNI ‘90 - 2000

SI ACCELERA LA FRAMMENTAZIONE DEI COMUNISTI. NASCE L’UDC.

7.712.149 FI

AN

2001

RIFONDAZIONE

2006

PDCI

UNICHE ELEZIONI CON DUE POLI “PERFETTI“.

LEGA NORD

5.391.827 LA MARGHERITA 6.151.154 DS

10.923.431 FI 4.463.205 AN

2008

NASCONO PD (ULIVO + MARGHERITA) E PDL (FORZA ITALIA + AN).

2006

RIFONDAZIONE

UDC

LEGA NORD

2013

IRROMPE SULLA SCENA IL M5S. PD E PDL PERDONO PEZZI.

PDCI

11.930.983 ULIVO

AN

2018 ?

9.048.976 FI

2008 Il sistema partitico attuale è il risultato di decenni di evoluzione mai terminata, che ha visto nuovi partiti formarsi dalle ceneri dei vecchi, spesso fondendone e scindendone parti intere. Dalle ultime elezioni con tutti i partiti tradizionali a quelle del 4 marzo, cosa è cambiato?

PCL

LEGA NORD

SINISTRA ARCOBALENO

12.095.306 PD 13.629.464 PDL

2013

PCL

PC

LEGA NORD SEL

8.646.034 PD

RIVOLUZIONE CIVILE

infografica di Antonio Pronostico 2018

PCL

PC

NCD

8.691.406 M 5 S

8.691.406 M 5 S

FRATELLI D’ITALIA 7.332.134

FI

? LIBERI E UGUALI ? LEGA

10

POTERE AL POPOLO

? PD

? M5S

? M5S

?

FI

FRATELLI D’ITALIA

* ESCLUSA LA VALLE D’AOSTA

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Uomini di Partito Da Costituzione, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49). Sorge spontanea una domanda: com’è possibile allora che i partiti siano così distanti dai cittadini? Uno dei modi per scoprirlo è analizzare la composizione dei partiti stessi: in questo modo, è facile osservare delle contraddizioni non da poco tra i “cittadini” che ne fanno parte. Abbiamo preso in esame i principali partiti italiani (Forza Italia, partito “capitano” della coalizione di centrodestra), Movimento 5 Stelle (il non-partito più corposo d’Italia) e il Partito Democratico (unico, nella coalizione di centrosinistra, a superare il 3% nei sondaggi in vista delle politiche del 4 marzo). Forza Italia Il primo esempio illustre di “nuovo partito” in Italia, dai connotati gommosi e totalmente personali, è Forza Italia. Nato dopo la calamità politica per eccellenza, il partito del Cavaliere è talmente composito al suo interno da potersi allargare tanto da agguantare clienti di qualunque tipo, con un solo discrimine: il riconoscimento del capo. Forza Italia è nata da un gruppo, capeggiato da Berlusconi stesso, di imprenditori e professionisti fuoriusciti da Fininvest o gruppi affini. Esempi illustri ne sono Marcello Dell’Utri (imprenditore edile e pubblicitario), Cesare Previti (avvocato) e persino l’attuale presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani (giornalista). L’ingresso in politica di un blocco così imponente di facce nuove, self-made men dal sorriso ampio e dal portafoglio gonfio ha conferito subito un’aura di infallibilità a Berlusconi, pronto a rappresentare in tutto e per tutto la piccola, media, grande ed enorme borghesia in Parlamento. Perché, mentre il centrosinistra si formava sulle macerie del comunismo, la destra liberale scopriva di potersi chiamare col proprio nome solo negli anni ’90, accettando nella sua ala di governo competente e impregnato di libertà. Chiunque, su due piedi, sentiva di potersi riconoscere in Berlusconi. E solo con anni, numeri ma soprattutto certi nomi scritti nero su bianco ci si è resi conto di quanto fosse ampio questo bacino. Il partito di Berlusconi, da una parte, ha continuato a raccogliere proseliti tra più giovani destrorsi (e la quantità di giornalisti tra essi è agghiacciante), mentre dall’altra raccoglieva le macerie della Prima Repubblica 12

sopravvissute a Tangentopoli. L’amicizia con Craxi e la grande vicinanza alla “cultura” socialista della Milano da bere degli anni ’80, oltre ad avergli assicurato tre canali in chiaro, a Berlusconi ha portato anche moltissime menti nel partito: Cicchitto, Brunetta, Tremonti tra i noti più noti e influenti. Allo stesso modo, avendo riempito un vuoto pesantissimo nella vita politica del Paese, Forza Italia ha fatto da collante per forze ex-liberali, ex-repubblicani ed ex-democristiani (accostandoli anche in un primo momento ad exfascisti nella grande famiglia del Popolo della Libertà) in un calderone di contraddizioni mai venute a galla. E tutto questo per un motivo soltanto: la presenza di un leader del calibro di Silvio Berlusconi. Che, dopo infiniti malori, quattro mandati e quasi venticinque anni sotto le perenni luci della ribalta ad illuminargli il sorriso è ancora, statuario, il faro delle forze del centrodestra. M5S Il Movimento 5 Stelle ha, in entrambe le selezioni per entrambe le elezioni cui ha partecipato finora, presentato una selezione “dal basso”. Per candidarsi alle parlamentarie è sempre bastato essere in conformità con poche e generali caratteristiche, come quella di non essere indagato, e la selezione non è stata filtrata dai dirigenti del partito. Gli esponenti sono per lo più impiegati o disoccupati, secondo un procedimento esattamente inverso a quello di Forza Italia, che ha trovato altrove i volti della propria classe dirigente. In questo senso il “popolo” più lavoratore e che un tempo era caro ai partiti di sinistra è pienamente rappresentato nelle file del Movimento. Questo perché manca un filtro dall’alto, se non per le poche prerogative che garantiscono una presunta “onestà” dei partecipanti. O per il tanto citato caso Cassimatis, la candidata a sindaco che vinse sul blog ma che venne messa da parte da Beppe Grillo. Per quasi tutti i ruoli nel partito non è necessaria alcuna formazione politica o esperienza. Basta piacere agli iscritti. L’esempio più lampante è quello dell’attuale candidato premier, Luigi di Maio, che come il governatore della Campania De Luca ama ricordare, non ha avuto esperienze lavorative prima di diventare parlamentare se non quella di steward allo Stadio. Per cui la società civile nel Movimento è pienamente rappresentata secondo un’ideologia, se così la si vuole chiamare, che è stata da sempre uno dei pilastri del grillismo: l’onestà dei cittadini comuni va portata nelle istituzioni per ripulirle. Se questo obiettivo è stato raggiunto, o quantomeno se ci si muove in

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questo senso, lo giudicheranno gli elettori. Il dibattito oggi, però, si è spostato su una nuova questione: è giusto che siano i cittadini stessi a scegliere le proprie leggi? Il sistema di democrazia rappresentativa consiste nel trovare dei rappresentanti del popolo che, basandosi sulle proprie conoscenze politiche, scelgono le leggi che i cittadini da soli non possono conoscere, capire e giudicare. Come ci si affida al medico e ai suoi studi, ci si affida ai parlamentari e alle loro conoscenze. Il Movimento ha sovvertito tutto ciò, abolendo il voto per coscienza, tranne in pochi casi, e facendo scegliere agli iscritti, non presenti in Parlamento, come usare i voti dei loro rappresentanti. Che sono quindi diventati più delle macchine, dei mezzi per il voto, piuttosto che dei politici. Si giudicherà poi tra poche settimane se sarà stato un metodo apprezzato dai cittadini o meno. Ammesso che ciò che è apprezzato dai cittadini sia giusto. Partito Democratico La selezione della classe dirigente a sinistra ha attraversato tre fasi: quella comunista, quella postcomunista e quella renziana. Per quanto riguarda la prima, un partito che prometteva di rappresentare i lavoratori e il popolo era molto democratico dal punto di vista della classe dirigente. Ogni esponente doveva passare per un “cursus honorum” che partiva dalle sedi cittadine del Partito e via via arrivava a convergere nel Comitato centrale. E la spinta aveva una direzione dal basso verso l’alto, e non viceversa. I cittadini sceglievano un segretario per ogni sezione, che poi poteva ambire ad essere segretario provinciale, regionale, fino ad arrivare ad essere un esponente di spicco del partito nazionale. La dinamica è simile, forse, a quella del Movimento 5 Stelle, sicuramente più “democratico” nella selezione, ma con una grande differenza: mentre i deputati 5 pentastellati vengono scelti in maniera indiretta su un blog, gli esponenti del Partito Comunista venivano conosciuti tramite una lunga gavetta sul territorio fatta di relazioni personali e militanza attiva, che veniva poi premiata con cariche sempre più importanti. Dopo il crollo del muro di Berlino e Tangentopoli, i vari tentativi di ricostruzione del centrosinistra non poterono contare su una nuova classe dirigente, che ancora si doveva formare. Le esperienze dei DS, della Margherita e dell'Ulivo contarono su nomi che erano già conosciuti per la loro attività nel PCI, come per Bersani, D'Alema, Veltroni e Occhetto, nel Partito Radicale per Rutelli e nella DC per Prodi. Da quel momento, gli iscritti al partito sono passati dai 1,25 milioni nell’ultimo anno di vita al PCI ai circa 400.000 del PD nel 2016 (ultimo dato certo; molte voci suggeriscono un ulteriore crollo verticale nelle iscrizioni del 2017). Mano a mano, con il mescolarsi delle provenienze politiche il Partito Democratico ha iniziato

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ad avere tra i suoi “affiliati” sempre più indipendenti, soprattutto in area economica (dove economisti e banchieri si sono susseguiti in maniera esemplare), mescolando una tradizione di “politici di professione”, cresciuti e formati nelle sezioni di partito, con una selezione bizzarra dei volti politici in area civile. Che la crisi di identità del PD sia anche nella composizione della sua dirigenza lo si può intuire dalla lista dei ministri dei tre governi dell’ultima legislatura: da Calenda (ex Confindustria) a Josefa Idem (ex canoista) la composizione del Partito Democratico è un misto di competenze, prevalenza della politica sulle stesse competenze e populismo puro.

Quindi? Quanto l’articolo 49 della Costituzione venga effettivamente rispettato neanche gli organi giuridici competenti possono asserirlo con facilità. Certo è che la semplicità che collegava la “base” alla testa del partito prima del terremoto politico avvenuto a cavallo tra anni ’80 e anni ’90 è svanita in un mare di personalismi, opposizioni altrettanto personalizzate, campagne elettorali via via sempre più imbarazzanti: culminando, infine, in assurde rincorse agli elettori, i medesimi cittadini che dovrebbero partecipare alla vita politica tramite i partiti stessi. E si perde in cerchi concentrici di voti utili, voti di protesta, schede bianche, simboli fallici sulla scheda elettorale e, soprattutto, astensioni. di Pietro Forti e Alessandro Luna

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Una volta qui… La campagna elettorale e il grande gioco della propaganda Volendo dare per assunto che politica e cittadini siano due entità distinte, quanto e come interagiscono?

La campagna Nell’era del consumo perenne e della ricerca del benessere trasversale, risulta paradossale il declino incontrato dalle istituzioni democratiche, che appaiono sempre più incapaci e distanti dalle aspirazioni e dalle realtà dei propri cittadini. Di conseguenza l'interesse in merito all’attività politica si affievolisce e, al contrario, aumenta la sfiducia nel cambiamento e nell’effettiva utilità della partecipazione individuale in vista di un obiettivo comune. La sfera politica ricorre dunque a scarne tecniche propagandistiche, rincorrendo freneticamente l'attenzione di chi ne ha ben poca da concedere a una causa in cui non crede affatto, portando ad un circolo vizioso apparentemente non disinnescabile. 14

Un fenomeno strettamente correlato a questo passivo malcontento e totale disinteresse è la personalizzazione delle figure politiche. Tra la metà del ventesimo e il ventunesimo secolo, è cambiata radicalmente la concezione del politico: precedentemente stendardo di ideali, rivoluzioni, valori, ora riconducibile a un’immagine preconfezionata e caratterizzata da tratti psicologici e slogan di facile comprensione e memorizzazione. È facile osservare, a partire dai social network, come la classe politica e le figure di potere in generale improntino la loro opera di propaganda sulla propria persona piuttosto che sulle proprie idee, cercando un rapporto diretto con il votante, persino per mezzo della condivisione di momenti di vita familiare. A una tendenza così spiccata al ricorrere a semplificazioni e limitanti dicotomie consegue la progressiva “presidenzializzazione” della politica, in cui il leader di un partito finisce per risultare più influente del partito stesso, avvicinando la struttura al modello di sistema presidenziale. Tale configurazione dell'azione politica è diretta conseguenza di una generalizzata perdita di fiducia negli idealismi e nella nobiltà della politica stessa, e nel ripiegare degli elettori in pragmatismi e calcoli di voto fortemente caratterizzati da una mentalità individualista. Sono l'utile, l'oggi e l'ora a interessare al votante, e, nello specifico, non l’utile della nazione bensì il proprio. Con queste premesse, e volendo effettuare una propaganda tarata sull’elettore, essa non potrà che essere superficiale, semplicistica e di forma. È sufficiente osservare questa campagna elettorale per averne la prova. La rete Il Partito Democratico ha tratto le sue conclusioni dalla sconfitta referendaria del 4 Dicembre 2016: "Il web è diventato un incredibile luogo in cui noi non siamo riusciti a stare da protagonisti. Noi abbiamo bisogno di strutturarci, di impostare in modo diverso". Ha detto Matteo Renzi nel corso dell’assemblea nazionale tenutasi il 7 Maggio 2017, e alle parole sono

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seguiti i fatti: la presenza del Partito Democratico sui social media è aumentata notevolmente negli ultimi mesi, ma gli stessi metodi di comunicazione sono cambiati: i democratici, che si sono sempre presentati come argine del populismo in Italia, hanno intrapreso campagne di propaganda su internet non dissimili a quelli del Movimento 5 Stelle e della Lega: si passa da “Matteo Renzi News” (pagina Facebook dai toni populisti finita nelle cronache perché, anche se non ufficialmente affiliata al PD, era amministrata da un collaboratore di Renzi), al profilo Instagram ufficiale del Partito Democratico, dove un meme ironizza sui contrasti interni della coalizione di centrodestra, probabilmente un tentativo di accattivarsi l’elettorato più giovane. La propaganda del Movimento 5 Stelle resta puntata sull’indignazione dell’opinione pubblica: si parla ben poco del programma pentastellato per l’Italia, mentre le accuse più varie verso gli esponenti delle altre forze politiche costellano le loro piattaforme, aggiornate di continuo con nuovi post, solitamente accompagnati da incoraggiamenti alla condivisione. Infine, la coalizione di centrodestra è divisa tra la retorica anti-immigrazione di Salvini e Meloni, i quali quotidianamente si lanciano in attacchi contro l’islamizzazione della società e la perdita di identità nazionale, e i toni più pacati di Berlusconi, che basa molto della sua propaganda sulla sua esperienza come figura politica e sull’importanza delle libertà individuali. I soldi Chi riempie le casse dei partiti per poter pagare la campagna elettorale? Nel 1993 viene abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ma non il rimborso per le spese elettorali. In questo modo nel 2013 le spese dichiarate sono state 45,5 milioni e i rimborsi quasi equivalenti. Il Pd spese 10 milioni di euro, Pdl 12 milioni, la Lega 2,7 milioni e un giovane M5S ne dichiarò solo 803.000. Durante quello stesso anno le cose cambiarono e venne abolito anche il rimborso in caso di insuccesso. Il contributo richiesto al candidato non può superare i 72.000 euro nei collegi plurinominali, i più estesi del Senato. In questo modo il Pd può arrivare a 40/50.000 euro, Forza Italia a 20.000 circa, la Lega a 15.000 e Fratelli d’Italia a 5.000. Non essendoci più la possibilità del finanziamento pubblico, si va a far fronte alle donazioni dei privati (detraibili al 26%), alla scelta del singolo di attribuire il due per mille ai partiti, al contributo apportato dalle fondazioni e dai think tank e a un superato tesseramento. In Europa invece, dove la legislazione è mista, si ha da un lato la possibilità di un finanziamento pubblico

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e dall’altra quella di un finanziamento privato, con lo scopo di rendere uguali i cittadini di fronte alla competizione politica.

In Italia le donazioni private sono regolate in questo modo: dagli 0 ai 5.000 euro il partito non è obbligato a dichiararle al bilancio e fino a un tetto massimo di 100.000 euro può essere omesso il nome del contribuente, a seconda della volontà di quest’ultimo. Così le donazioni anonime schizzano: fra il 2013 e il 2016 il Pd ha raccolto 9 milioni di euro senza intestatario, fra il 2014 e il 2016 Forza Italia ha racimolato 1,3 milioni, la Lega Nord 1,1 milioni solo nel 2014. Nel 2016, in totale, sono stati raccolti circa 21,5 milioni. Invece i contribuenti che attribuiscono il due per mille ai partiti sono stati circa il 3% su 40 milioni nel 2017, per un totale di 15 milioni di euro, di cui circa 8 milioni sono andati al Pd, 1,8 milioni alla Lega e 850 mila a Forza Italia. Il M5S ha rifiutato questa forma. I tesorieri dei partiti dichiarano che dalle scorse elezioni del 2013, la spesa elettorale dovrà abbassarsi di almeno due terzi.

di Flavia Tresalti, Matteo Iapadre e Viola Simonetti 15


Il 3 febbraio Luca Traini ha sparato dalla sua auto nelle vie di Macerata ferendo sei ragazzi nigeriani. Il gesto, facilmente e immediatamente riconoscibile come atto terroristico xenofobo, è stato salutato da una retorica di deresponsabilizzazione del colpevole, alzando una cortina di fumo sul contesto in cui sono avvenuti i fatti. Candidato con la Lega alle amministrative del 2017, simpatizzante di vari gruppi neofascisti, Traini è stato dipinto come uno squilibrato mentale in cerca di vendetta e il caso trasformato in un semplice fatto di cronaca nera. Ormai nell’immaginario collettivo occidentale la figura del terrorista è indissolubilmente legata a quella del fondamentalista islamico che grida e spara sui passanti delle grandi metropoli. L’italiano, il bianco, quando uccide degli sconosciuti nelle vie di una città risulta solo un povero pazzo. Basterebbe guardare sul dizionario per sapere che terrorista è colui che utilizza il terrore per recare danno in modo indiretto, con una base ideologica molto chiara. La vittima dell’attacco è per lui un mezzo per arrivare a un terzo soggetto non coinvolto direttamente: il vero destinatario dell’azione è l’opinione pubblica, per fomentare la paura a livello collettivo e creare i presupposti di una deriva reazionaria, sia essa religiosa o politica, come nel caso di Luca Traini. L’ex premier Renzi ha chiesto invece di abbassare i toni, dipingendolo sui social come un pistolero-giustiziere invasato. Carancini, sindaco del PD di Macerata, ha seguito questa linea invitando ad annullare ogni manifestazione nella città, per poi fare un brusco dietrofront quando Fiom, associazioni, centri sociali e realtà autorganizzate hanno ribadito l’intenzione di scendere in quelle strade sabato 11 febbraio.

AT T UA L I TÀ

Costrette ad autorizzare il corteo (partecipato da oltre 30mila persone), le forze politiche hanno vissuto nel giro di pochi giorni un rapido voltafaccia: fatto proprio il baluardo dell’antifascismo, il Comune marchigiano ha chiamato una manifestazione per il giorno successivo, mentre il PD ha lanciato la giornata del 24 febbraio a Roma. E mentre la sinistra istituzionale, in affanno pre-elettorale, strumentalizza la risposta antifascista ai fatti di Macerata, puntando sulla distrazione dell’opinione pubblica per non farsi scrupoli a contraddire le proprie stesse parole nel giro di pochi giorni, l’estrema destra plaude al gesto di Traini. Forza Nuova è arrivata ad offrire - per poi tornare sui propri passi - appoggio legale al terrorista. Intanto dalla Meloni alla Lega i toni apparentemente smorzati nascondono il solito messaggio di odio e paura. L’analisi politica dell’atto di Macerata risulta essere la risposta estrema all'insostenibilità di un immigrazione fuori controllo, un’invasione che porta inevitabilmente allo scontro sociale. Un’analisi che stride con la situazione reale della città, dove il numero già basso di stranieri è ulteriormente diminuito negli ultimi cinque anni e in cui si registra un alto livello di integrazione. A “giustificare” il gesto di Traini vi è anche la presunta vendetta riguardo la morte di Pamela, la cui storia si è persa e modificata nella solita narrazione tossica di giornali, televisioni e social. Sembra essere divenuta prassi affermata da parte dell’estrema destra quella di strumentalizzare il corpo delle donne limitando il problema della violenza alla sola compagine extracomunitaria, ergendosi a paladini delle donne italiane. Questa nefasta retorica

si scontra con una realtà che vede la più grossa fetta degli abusi sulle donne avvenire tra le mura domestiche, per non parlare del numero spaventosamente alto di femminicidi compiuti da esponenti di Casapound, Forza Nuova e altri simpatizzanti di organizzazioni di estrema destra negli ultimi anni in Italia. Il caso di Bellona, avvenuto solo qualche settimana prima della tentata strage a Macerata, dovrebbe essere esemplare. Intanto la destra istituzionale, compreso Berlusconi, è allineata nel ribadire che il fascismo è morto e sepolto, individuando il pericolo comune nell’antifascismo militante che si è riversato nelle ultime settimane a Piacenza, come a Napoli o Bologna. Di fronte a delle così forti contraddizioni e al buco nero che si è generato e che sta risucchiando la nostra memoria storica, il nostro senso critico e la nostra cultura, pensiamo sia necessario prendere una posizione netta ed esprimere solidarietà alle vittime di Macerata. Per questo è la Redazione intera a firmare l'editoriale, partendo da un confronto che ha visto fare fronte unito a decine di giovani redattori, e che non si esclude possa portare ad un lavoro d’inchiesta più approfondito nei prossimi numeri. Nel bivio che oggi ci si presenta, scegliamo di essere antirazzisti e antisessisti, di chiamare le cose con il proprio nome e di opporci a ogni fascismo e ogni terrorismo.

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arrivati noi c’era da fare un enorme lavoro di ricostruzione e bisognava creare una strategia su per ricominciare. Roma ha conosciuto tanti momenti di difficoltà e tante possibilità di rinascita. Non è vero che oggi siamo messi peggio delle altre volte. La città per ripartire oggi ha bisogno di due elementi. Il primo è la coesione. Una maggiore partecipazione critica e attiva da parte dei cittadini. Rispetto a vent’anni fa la sfiducia verso le istituzioni è molto aumentata. Prima in ogni angolo di quartiere c’erano cittadini che si rivolgevano a noi per dare suggerimenti e idee su come rendere migliore

La città inamministrabile CAPITOLO I

La città è un organismo vivente. Può vivere, entrare in crisi e persino morire.

La prima delle cinque interviste ai sindaci eletti direttamente dai cittadini di Roma. Francesco Rutelli e l'espansione di una metropoli.

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oma oggi è considerata “inamministrabile” tanto dai cittadini quanto da chi la governa. Quando era sindaco lei sentiva qualcosa del genere? Le condizioni da allora sono cambiate o questa è una scusa per giustificare un’incompetenza generale? La città è un organismo vivente. Può vivere, entrare in crisi e persino morire. Però può anche

ripartire dal momento più critico. Quando sono diventato sindaco, alla fine del ’93, Roma viveva una crisi molto profonda. La città era stata commissariata in seguito all’arresto di metà della giunta precedente, quella di Franco Carraro. Nel frattempo, si vedevano le manifestazioni di una crisi economica che stava investendo tutti e tre i settori: edilizia, commercio e pubblico impiego. Quando siamo

il luogo in cui vivevano. Così eravamo sempre spinti a fare una politica propositiva e concreta. Il secondo elemento invece è una maggiore ambizione, la capacità di guardare a dei traguardi importanti e riuscire a perseguirli. Oggi sembra che la giunta abbia paura di intraprendere progetti importanti. A una possibilità di rilancio che avevamo, le Olimpiadi del 2024, abbiamo sbarrato la porta perché si temeva che si facesse male. Ma l’amministrazione di una città non può farsi sfuggire un’occasione del genere. Fossi stato la Raggi, avrei detto al Governo: “Sì alla candidatura, ma io mi assumo la responsabilità di come vanno fatte le cose”.

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A proposito di grandi opere, a Roma se ne parla da fin troppo e in termini non ottimistici. L’ultima grande manifestazione in città sono stati i mondiali di nuoto del 2009. Basta andare a Tor Vergata alla vela di Calatrava, incompiuta e abbandonata, per vedere come sia andata la cosa. Mentre il Giubileo del 2000, fatto durante la sua amministrazione, è stato considerato un successo. Oggi un altro grande evento in città è possibile o farebbe solo male? Questi due casi dimostrano proprio come le cose possono essere fatte bene o a volte si possono anche sbagliare. Quando sono diventato sindaco la città veniva dall’esperienza dei mondiali di calcio del ’90, che fu un disastro. Parliamo di decine di morti nei cantieri. Allo Stadio Olimpico c’è ancora da qualche parte una lapide con i nomi degli operai morti durante la sua ristrutturazione. Per il Giubileo del 2000 noi ci ponemmo l’obbligo morale e politico di non avere nemmeno una vittima nei cantieri, e così è stato. Per quello del 2015 invece l’opera principale di miglioramento della città era praticamente la ripavimentazione di Piazza Venezia. La vedi oggi e veramente quando ci passi inizi a pregare di uscire vivo. Un evento di due anni fa e non sono riusciti neanche a fare una ripavimentazione. Le piscine dei mondiali di nuoto, pure questo un progetto fallito. Insomma, in una città ci sono mille cose che si possono fare. L’importante è che vengano fatte bene, con continui controlli, un’organizzazione valida e un gioco di squadra coordinato tra le varie parti.

Quando sono diventato sindaco la città veniva dall’esperienza dei mondiali di calcio del ’90, che fu un disastro. Sempre parlando di grandi opere, lei ha avuto un passato con i Radicali, che oggi vogliono la liberalizzazione del trasporto pubblico. Il dibattito pubblico-privato dei trasporti è una questione con la quale si combatte da molto tempo, soprattutto a Roma. La nostra città non ha avuto un passato recente particolarmente virtuoso nella gestione del bilancio pubblico. Allo stesso tempo le grandi privatizzazioni introducono interessi di portata sconosciuta nel settore dei servizi pubblici. Lei come si pone in questo dibattito? All’interno della sua giunta venne affrontato quest’argomento o non era proprio preso in considerazione? Intanto penso che l’aggettivo “grande” vada usato con parsimonia quando si parla di opere. Le grandi opere sono il Raccordo Anulare o la linea San Pietro – La Storta, che abbiamo costruito in poco più di 3 anni ed è ancora l’ultima nuova ferrovia regionale di questo territorio. Un’opera che ha un grande effetto ma non richiede un importo enorme invece è un investimento che funziona. Il tram 8, che abbiamo ripristinato dopo decenni che erano stati 19


tolti i binari in città, collega il quartiere Gianicolense a Piazza Venezia. Non è una grande opera, è un’opera utile. La stessa cosa vale per lo sfruttamento delle ferrovie già esistenti per migliorare il servizio dei trasporti regionali. Bisogna stare attenti a cosa sia una grande opera. Io per esempio sono molto legato alle centosettanta piazze del programma delle Cento Piazze. Molte sono ancora in buone condizioni, altre sono degradate per scarsa manutenzione. Ma comunque era un progetto che venne discusso a livello locale in tutti i quartieri, per poi modificarlo secondo le aspettative e le idee di chi in quelle piazze ci viveva. In questo caso la somma degli interventi in ogni piazza formano veramente una grande opera.

Anche se si parte con le migliori intenzioni è importante un controllo persistente di ciò che si sta facendo Poi c’è anche un problema di tipo regolatorio. Penso che a Roma ci sia un grande bisogno di concorrenza. Lo scandalo del “Mondo di Mezzo” (Mafia Capitale, ndr) è frutto proprio di questa mancanza. Una serie di affidamenti discrezionali senza 20

gara a cooperative sociali, come quelle di ex detenuti, secondo la normativa nazionale e regionale per la cooperazione sociale. Cosa che aveva un senso e un valore sociale se questo genere di attività avesse occupato il 2% della mole intera di lavori necessari. Invece è diventato il totale sostituto di un sistema che sarebbe dovuto funzionare attraverso gare con regole di concorrenza e procedure di verifica, scaturendo poi nello scoppio del “Mondo di Mezzo”. Questo principio vale anche per il grande servizio urbano e metropolitano. Noi abbiamo messo a gara una parte molto importante del servizio dei trasporti. La società vincitrice è stata “Roma TPL”. Il problema è stato che nel lungo periodo successivo la TPL, anziché trascinare in positivo gli standard di costo ed efficienza dell’Atac, paradossalmente si è avvicinata sempre più pericolosamente al livello della seconda. Per cui, nonostante la spesa per i trasporti inizialmente fosse diminuita di molto, a poco a poco la situazione è diventata di nuovo critica. Allo stesso tempo l’ipotesi di una privatizzazione totale del servizio è molto pericolosa perché può portare a una discrezionalità nella scelta delle tratte e della modalità del servizio. Per questo anche se si parte con le migliori intenzioni è importante un controllo persistente di ciò che si sta facendo. Un esempio è il progetto “Punti Verdi Qualità”, adesso in crisi profonda. L’idea di fondo non era sbagliata, anzi. Solamente non è stato monitorato a dovere. Come diceva l’intellettuale Leo Longanesi, che cito nel mio libro: “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”.

Il Nuovo Piano Regolatore Generale doveva essere fondato su tre grandi “temi”: “ferro” (con cui ci si riferisce alle rotaie su cui passano tram e metropolitane, ndr), “verde” e “centralità”. Dopo la sua amministrazione, c’è stato qualche fattore “snaturante” nell’attuazione del piano regolatore? Eravamo coscienti che andava dato un nuovo approccio nella stesura del Piano Regolatore, e la logica da cui siamo partiti era secondo me ineccepibile, e cioè partire appunto da questi tre “assi”. Sapevamo benissimo, durante la nostra amministrazione, che non avremmo fatto in tempo ad approvarlo, adottarlo ed attuarlo. In compenso, cercavamo di procedere seguendo la filosofia del “pianificare facendo”, cercando di dare intanto degli indirizzi attuativi con progetti come le cento piazze o il piano del Giubileo, che si sposavano con le necessità territoriali. Sull’attuazione successiva, certamente ci sono delle ombre. La missione più difficile è quella della creazione di nuove centralità: una pianificazione urbana al livello metropolitano impone un dialogo col territorio e l’arrivo di servizi, infrastrutture e qualità urbana anche al di fuori del territorio comunale, perché in moltissimi casi la periferia e i comuni dell’hinterland si allacciano in maniera quasi osmotica. Il senso di creare nuove centralità è quella di portare funzioni pregiate, socialità, opportunità aggregative. Ciò deve farlo il pubblico, ma anche il privato ha la sua parte. E se queste funzioni si limitano ad essere grandi centri commerciali manca qualcosa. Ci

deve essere una regia pubblica, nella creazione di queste centralità, perché devono avere una fisionomia di interesse del tutto pubblico. Anche laddove l’attività imprenditoriale possa trovare nella creazione di queste funzioni un’attività conveniente, esse devono e possono avere anche una funzione sociale, creando ad esempio spazi polifunzionali. La chiave è nel governare questi cambiamenti fuori dal centro e dalle aree che già sono ricche di socialità. Questo è mancato in tutti questi anni: una regia pubblica. E’ mancata l’ambizione di creare queste nuove centralità, è mancata l’ambizione nelle trasformazioni, è mancata l’individuazione delle priorità.

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Quanto è possibile una maggiore autonomia territoriale a Roma, dentro e fuori dal Raccordo? Città come Milano possono permetterselo, perché hanno intorno una corona di comuni con una loro identità, quasi autosufficienti anche nei servizi, pur con i loro problemi di mobilità. Il vero problema di Roma è che ha intorno un’area enorme di edilizia cresciuta abusivamente, quartieri macroscopici privi di servizi. Quello che per noi è significato il “piano delle certezze” (variante al P.R.G. che costituisce il primo passo verso il piano regolatore del 2008, ndr) e il sopra citato “pianificare facendo” significava per noi soprattutto una cosa: bloccare le previsioni folli del precedente Piano Regolatore. E l’abbiamo fatto eliminando quasi 60 milioni di metri cubi di cemento: non un processo semplice, considerando che di fatto bisognava togliere il diritto Febbraio 2018

di edificabilità a chi già l’aveva acquisito, non è qualcosa che si può cancellare con un tratto di penna. Ma si è fatto, perché quelle decine di milioni di metri cubi in più avrebbero reso ancora più difficile dare servizi a quelle zone.

Ci deve essere una regia pubblica, nella creazione di queste centralità, perché devono avere una fisionomia di interesse del tutto pubblico. Non le sembra che queste premesse siano state poi disattese? Da una parte a Roma si è visto un processo di accentramento delle competenze amministrative e non di decentramento d e l l ’a m m i n i s t r a z i o n e cittadina. I municipi, ad esempio, sono stati diminuiti ed allargati, arrivando ad avere una media aritmetica di 200.000 cittadini per circoscrizione e ad essi vengono assegnati fondi evidentemente insufficienti per amministrare il proprio territorio. Inoltre, a Roma si è costruito moltissimo negli anni successivi alla sua amministrazione, e sembra quasi che quei milioni di metri cubi di cemento decurtati siano poi rientrati dalla finestra.

Ognuno può dare il suo giudizio. Resta il fatto che i tre assi del Piano Regolatore siano sacrosanti: prima cosa, non si costruisce nulla se non c’è contestualmente una infrastrutturazione su ferro. Secondo poi, è assicurata non solo la salvaguardia, ma anche la riqualificazione delle grandi infrastrutture verdi: un esempio è il parco dell’Appia, al centro dell’area metropolitana di Roma, vissuto quasi come un impaccio dal mezzo milione di cittadini che ci vivono intorno. Infine, le già citate centralità: su questi tre punti, ripeto, una regia pubblica debole è stata un danno. In un territorio di 130.000 ettari come Roma, cresciuta quasi esclusivamente in maniera speculativa e disordinata, la chiave è applicare questi tre grandi principi e declinarli localmente, anche dando potere ai municipi. Questi hanno preso questo nome proprio durante la mia amministrazione, a simboleggiare un innalzamento delle funzioni che svolge: ma se gli togli queste stesse funzioni e soprattutto gli tagli le risorse, la conseguenza è una ricentralizzazione assolutamente incongrua delle politiche urbane. Bisogna avere dei veri municipi, delle effettive deleghe. Le linee da seguire devono essere decise in Campidoglio ovviamente, ma se i municipi non hanno le risorse nemmeno per riparare le buche non si va lontano.

di Pietro Forti e Francesco Paolo Savatteri 21


Quando stavamo per lasciare il Rojava, fra abbracci e strette di mano, il monito era sempre lo stesso:

“Quando Kobane resisteva tutti quanti parlavano di noi.

Ora tornerete in Italia, continuate a parlare di Kurdistan. Che una volta sconfitto Daesh ci attaccheranno tutti.� Non capivamo bene, sembrava troppo presto.

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Il Rojava l’attacco turco e la mala informazione

Si dice che in Italia ci siano solo due argomenti sui quali ogni mente, più o meno pensante, si senta in dovere di esprimere giudizio: il calcio e il Medio oriente. E con l'Italia non qualificata ai mondiali e la Roma oramai esclusa dalla lotta scudetto ci sono rimaste solo le profonde analisi geopolitiche con le quali i Pulitzer nostrani si dilettano. Ma partiamo da una banalità. Il medio oriente è complicato, molto complicato. Noi per provare a capirlo meglio ci siamo stati per due mesi, fra Iraq e Siria, e comunque molto è rimasto nebuloso. Oramai la pretesa di conoscere i 24

territori dei quali si scrive sembra essere diventato anacronistico, o perlomeno molto costoso: non conveniente all'informazione S.p.A. E quando nella polveriera mediorientale ad essere trattata è la Siria e la terribile guerra civile che da sette lunghi anni imperversa, i media mainstream vanno del tutto in tilt. Oppure semplicemente si sforzano di essere in malafede. Ma facciamo un esempio. Eravamo in un villaggio intorno Kobane quando, in uno dei rari momenti nei quali avevamo accesso ad internet, veniamo a conoscenza del grande misfatto a suon di titoloni.

LA STAMPA - LO SPORCO SEGRETO DI RAQQA <L’accordo per l’evacuazione di centinaia di combattenti dello Stato islamico, con le loro famiglie, aveva gettato un’ombra sulla vittoria a Raqqa delle Forze democratiche siriane (Sdf), guidate dai guerriglieri curdi dell’Ypg. […] Nuovi, inquietanti, dettagli sull’ intesa che ha permesso di accelerare la caduta della capitale del Califfato in Siria, un mese fa, ma ha messo in salvo almeno 250 combattenti, comprese decine di stranieri, anche europei. Terroristi che sono stati portati negli ultimi territori ancora in mano allo Stato islamico, nella provincia di Deir ez-Zour e da lì, perlomeno alcuni, hanno imboccato le vie dei trafficanti di esseri umani fra la Siria e la Turchia.> E ancora… <Come si temeva a metà ottobre, quando erano trapelati i primi dettagli dell’ intesa, l’evacuazione ha permesso la conquista di Raqqa un mese prima del previsto, ma ha lasciato a piede libero centinaia di terroristi, decine europei.> Nessuno di noi è un giornalista professionista (per fortuna, oserei dire) ma ci è voluto pochissimo tempo e pochissime testimonianze, queste sconosciute, per capire che l'accordo fra Forze Democratiche Siriane (coalizione militare composta da curdi, arabi, assiri, turcomanni, yazidi e tanti altri) e ISIS era tutt'altro che un mistero da tenere celato. Ogni singola persona intervistata sapeva benissimo qual era l'obbiettivo della trattativa: impedire a ISIS di prendere in ostaggio la popolazione che non era riuscita a fuggire da Raqqa, salvare delle vite, evitare il massacro. Sarebbe interessante spiegare

al giornalista Giordano Stabile (inviato da Beirut, come se Libano e Siria fossero la stessa cosa) che in ogni guerra si scende a trattativa con la controparte, anche se terribile e impopolare.

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Ogni singola persona intervistata sapeva benissimo qual era l'obbiettivo della trattativa Lo facevano i romani con le popolazioni germaniche; l'hanno fatto tante, troppe, volte gli americani con i nazisti; l'hanno fatto i curdi con ISIS. Nessun segreto, nessuno scoop. Le opzioni sono quindi due. O l’articolo è frutto dell’incompetenza e dell’ignoranza del giornalista, oppure “la Stampa” strumentalizza le vicende siriane per screditare l'esperienza di autogoverno curdo. Forse entrambe. Esperimento che non solo sta costruendo un modello politico e sociale che ha come pilastro la liberazione della donna, l'ecologismo radicale, la convivenza pacifica fra nazioni e culti, la partecipazione diretta degli abitanti alla cosa pubblica; ma ha anche sconfitto sul campo il più grande fenomeno di jihadismo salafita degli ultimi trent'anni. I media occidentali dovrebbero perlomeno ringraziare la Federazione della Siria del Nord (nuovo nome che il Rojava, la parte occidentale del Kurdistan, ha adottato per includere le popolazioni non curde) e le Forze Siriane Democratiche. Invece solo bugie e maldicenze. Febbraio 2018

Quando stavamo per lasciare il Rojava, fra abbracci e strette di mano, il monito era sempre lo stesso: “Quando Kobane resisteva tutti quanti parlavano di noi. Ora tornerete in Italia, continuate a parlare di Kurdistan. Che una volta sconfitto Daesh (nome che i popoli avversi danno a ISIS) ci attaccheranno tutti.” Non capivamo bene, sembrava troppo presto. Raqqa era appena stata liberata e il secondo fronte, quello di Deir-El-Zor, era agli sgoccioli. Ovunque Daesh retrocedeva e le FSD avanzavano. E invece a neanche due mesi di distanza tutti i timori sono stati confermati. La Turchia ha sconfinato nella Federazione della Siria del Nord, precisamente nel cantone di Afrin (la parte più occidentale). Non c'è stato causus belli, se non quello fittizio riguardante un'ipotetica collaborazione fra il PYD (partito di maggioranza della federazione) e il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che Turchia, Usa, Nato, UE (su richiesta statunitense) e Iran considerano organizzazione terroristica. La storia del PKK si intreccia fittamente con quella della Turchia. Il partito nasce nel '78 a Istanbul, negli ambienti universitari. Di ispirazione marxista-leninista si forma dietro la rivendicazione della formazione di uno stato curdo. Nel 1980 la Turchia è scossa da un golpe militare, che porta al potere il generale Kenan Evren che in pochi mesi abolisce il senato, mette fuori legge tutti i partiti preesistenti e sposta tutto il potere sulla presidenza del consiglio. Il PKK coglie l'importanza

politica di queste vicende e quattro anni dopo abbraccia la lotta armata. Il leader e teorico, Abdullah Öcalan, è costretto a lasciare la Turchia e, dopo esser passato per Siria, Russia e Italia (che non gli riconosce l'asilo politico), viene arrestato nel '99 a Nairobi, in Kenya, fuori dall'ambasciata greca. Da allora Öcalan risiede in isolamento in un carcere di massima sicurezza ad İmralı, un'isola del Mar di Marmara, dove è l'unico detenuto. In prigione, Apo (soprannome del leader curdo) teorizza il cosiddetto nuovo paradigma, abbandonando il teorema marxista-leninista dello statonazione e abbracciando la teoria del Confederalismo Democratico.

Il PKK coglie l'importanza politica di queste vicende e quattro anni dopo abbraccia la lotta armata. Quest'ultimo si inserisce nel grande mosaico delle rivisitazioni e modernizzazioni del marxismo classico, traendo spunto sia da presupposti municipalisti di stampo libertario sia da pratiche organizzative di stampo leninista. Öcalan teorizza una forma di modernità che si stacca da quella liberale che è racchiusa nel binomio positivista progresso-sviluppo. Il pensatore curdo ridefinisce questa visione riscontrando 25


nell'età precivilizzata (nel Neolitico per l'esattezza) l'unico periodo nella storia umana puramente egualitaria, priva di prevaricazione dell'uomo su altri uomini e dell'uomo sulla donna. Con la civilizzazione, la nascita della classe sociale maschile sacerdotale e lo sviluppo delle città stato (periodo storico che Apo identifica nell'era sumera) la mentalità liberale e il capitalismo irrompono ferocemente nella serena vita di uomini e donne, provocandone la degenerazione. Öcalan usa l'esempio di un fiume: il lento e naturale scorrere del fiume della “Società” viene deviato dalla diga che costruiscono capitalismo e patriarcato, creando l'artificiale emissario dello “Stato” fatto di individualismo, proprietà privata e oppressione dell'uomo sulla donna. Obiettivo del partito è inserirsi nella sempiterna lotta fra “società” e “stato”, nell'ambizione di creare quella “modernità democratica” che si rifaccia a quei valori che caratterizzavano l'epoca precivilizzata e precoloniale, quali mutualismo, generosità, collettivismo e operosità. Queste, brevemente, sono le principale sfide dell' Apoismo, com'è stato definito il nuovo paradigma dai curdi. Attualmente il PKK prosegue la lotta nei territori a maggioranza curda del Sud-Est turco (che conta circa venti milioni di curdi). Ma è in Siria che il confederalismo democratico trova la sua prima applicazione pratica. Nel 2011 scoppia la guerra civile fra l'esercito governativo di Bashar Al-Assad (sostenuto da Russia, Libano e Iran) e le truppe del cosiddetto Esercito Libero Siriano (appoggiato da 26

USA, Turchia e Israele) dentro il quale, in poco tempo, trova spazio d'agibilità Al Nusra, equivalente siriana di Al Qaeda, e numerose altre milizie jihadiste e salafite.

Ma è in Siria che il confederalismo democratico trova la sua prima applicazione pratica. Il PYD (partito d'unità democratica) sfrutta l'instabilità politica per cacciare i soldati di Assad e liberare la parte siriana del Kurdistan, il Rojava. Da allora si sviluppa quell'entità politica che si rifà alla teorie di Öcalan e che riesce a resistere all'offensiva di Isis fra il 2014 e il 2015. Nonostante l'assenza di rapporti ufficiali fra PYD e PKK, la comunanza ideologica fra i due partiti è bastata a giustificare l'offensiva che il dittatore turco Recep Tayyip Erdoğan ha provocatoriamente denominato “Ramoscello d'Ulivo” nei primi giorni del 2018. Offensiva portata avanti nel nome della modernità, della civilizzazione e della democrazia, in pieno stile occidentale, da parte di un Paese che compie una sistematica repressione dei diritti civili e umani più basilari sui propri cittadini. Arriviamo così ai nostri giorni, nei quali in centinaia e centinaia muoiono per le bombe turche (fabbricate anche in Italia), che colpiscono campi profughi, siti storici e archeologici, scuole ed

ospedali. Ad oggi sono 180 i civili uccisi e 480 i feriti. Dopo l’8 febbraio i bombardamenti si sono intensificati colpendo anche siti di purificazione dell’acqua, mentre i confini con la Turchia rimangono chiusi alle migliaia di sfollati, molti dei quali provenienti Idlib, Aleppo e altre zone disastrate della Siria. C'era da immaginarsi che, data la grande attenzione mediatica data alle Forze Siriane Democratiche nella vicenda di Raqqa, giornalisti e reporter si scuoiassero le mani a forza di scrivere articoli sul tema. I titoloni glieli avremmo potuti anche consigliare noi: “BREAKING NEWS, LA TURCHIA DICHIARA GUERRA AI CURDI DEL ROJAVA”, “ULTIM'ORA, UNA POTENZA NATO SCONFINA IN UN TERRITORIO NEUTRALE E BOMBARDA CAMPI PROFUGHI”. Sì, esatto. Potenza NATO. Perchè non va scordato che la Turchia non solo è uno storico alleato statunitense, ma fa parte anche dell'alleanza militare Nord Atlantica, come ne fanno parte Italia, Usa, Francia, Germania, Regno unito e altri venti paesi del cosiddetto occidente. Inoltre il governo di Ankara fa parte del Consiglio d'Europa che si autodefinisce come “organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la democrazia, i diritti umani, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa”. Ed è giusto ricordare che in Turchia sono permessi matrimoni con bambine di nove anni, le prigioni sono piene di

giornalisti e dissidenti politici, i rapporti con ISIS sono stati più e più volti palesati dai media curdi. Inoltre il partito di Erdoğan, l'AKP, è stato a lungo osservatore esterno (quindi alleato) del Partito Popolare Europeo (coalizione di partiti di centrodestra fra i quali Forza Italia e il CDU di Angela Merkel). In poche parole Erdoğan e il governo turco sono ottimi partner politici dell'Italia (per non parlare delle partnership commerciali, che per questione di spazio non possiamo approfondire; basta sapere che Finmeccanica, società partecipata dal Ministero dell'economia e delle finanze italiano, vende gli elicotteri che bombardano in Rojava) e dell'Europa.

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Ed è per questo che tutti quei titoloni che prima dicevano non li abbiamo visti. Sfidiamo chiunque a citarci un telegiornale che abbia parlato, anche di sfuggita, della notizia per più di una volta. In Siria del nord, ora come ora, è in corso una guerra. E nessuno ne parla. E per di più quando se ne parla, sempre con articoli in ultima pagina, se ne parla in maniera vergognosa. Su Repubblica Nazionale, il 23 gennaio 2018, a firma di Febbraio 2018

Giampaolo Cadalanu. “Le autorità del Rojava hanno lanciato una vera e propria chiamata alle armi, rivolta anche ai civili: "Annunciamo una mobilitazione generale ed esortiamo i figli del nostro popolo a difendere Afrin", dice l'appello. Dopo lo scontro con Bagdad, che ha di fatto neutralizzato i risultati del referendum sull' indipendenza del Kurdistan nel nord Iraq, l'offensiva turca nel nord della Siria è destinata a spazzar via anche l'entità para-statale costruita nei fatti con l'assenso americano. Sarebbe l'ennesima delusione per le speranze curde, dopo che i peshmerga e le altre milizie hanno speso vite ed energie per combattere lo Stato Islamico.” E ancora.. “[…] A fianco dei soldati turchi ad Afrin stanno combattendo anche i ribelli dell'Esercito libero siriano, la cosiddetta opposizione laica al governo di Damasco”. Sono molte le semplificazioni e le inesattezze presenti in questo articolo. Innanzitutto il Rojava non è nato con nessun assenso americano: non c'è stato alcun rapporto politico dal 2011 in avanti con gli americani, se non quelli militari relativi ai rapporti fra Forze Siriane Democratiche e Coalizione Internazionale contro lo stato islamico. Il PYD ha sempre definito esclusivamente strategico il rapporto militare con gli USA, comunque definito una forza imperialista e capitalista, quindi nemica. Le Forze Siriane Democratiche hanno collaborato con gli States come lo hanno fatto con la Russia in chiave anti turca negli anni precedenti. Confondere un patto militare con un'alleanza politica è folle, sarebbe come considerare Stati Uniti e Unione Sovietica alleati politici durante

la seconda guerra mondiale. Il referendum per l'indipendenza del Kurdistan Iracheno non ha poi nulla a che fare con il Rojava e la Federazione della Siria del Nord: la tornata elettorale è stata patrocinata dal PDK, partito di Massud Barzani filo turco e filo americano, da sempre ostile al PYD e al PKK. Il referendum in questione riguardava un altro territorio, quello del Bassur, la parte curda dell'Iraq. Basterebbe infine una minima osservazione sul campo per capire che dell'Esercito Libero Siriano, per come si era formato, non ne rimane più nulla. Ciò che è sopravvissuto alla guerra civile è una sequela di milizie sunnite jihadiste che fanno, vagamente, riferimento ad Al-Nusra. Definire l'ESL laico è semplicemente errato. Sono migliaia e migliaia i miliziani salafiti, in molti ex soldati ISIS, che stanno ad oggi combattendo assieme alle truppe di Erdoğan. Questo è solo un esempio di mala informazione. Ma sono veramente tanti. Sempre un articolo di Repubblica, non firmato, del 20 gennaio 2018 (circa due settimane dopo l'inizio dell'offensiva) annuncia l'attacco turco proponendo ben tre dichiarazioni del governo di Ankara, una russa e una americana. Neanche una delle Forze Siriane Democratiche, lasciando trapelare esclusivamente l'equazione curdi-terroristi. Il velo di complice disinformazione che avvolge Erdoğan e il suo governo sembra non legarsi esclusivamente all'operato a cavallo del confine turco-siriano. Il 5 Febbraio, il “sultano”, è stato ricevuto da Papa Francesco 27


(lasciamo a voi i confronti con le strette di mano fra Wojtyła e Pinochet del 1987). Dopo aver ricevuto un angelo della pace da Sua Santità, il dittatore turco ha sfruttato il soggiorno nel Belpaese per conferire con Mattarella, Gentiloni e per una cenetta al lume di candela con Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, e alcuni dei più importanti brand italiani come Pirelli, Snam, Ferrero, Astaldi, Unicredit, Caltagirone, Fincantieri e Barilla. In fondo come si fanno gli affari in Italia… Non una parola su Afrin, non una parola sulla guerra in corso. Da parte di nessuno, Papa, istituzioni, media. Il Sole 24ore si limita a elencare le potenzialità dell'economia turca, facendo giustamente presente che Ankara è il terzo partner commerciale dell'Italia.

Non una parola su Afrin, non una parola sulla guerra in corso. Da parte di nessuno, Papa, istituzioni, media. Gli esempi sono tanti, troppi. Il silenzio uccide, la disinformazione anche. Silenzio e disinformazione non solo dei media italiani, ma anche dei governi europei e di tutto il mondo. Silenzi complici, disinformazioni strategiche. Quando gli Stati Uniti invasero il Vietnam a fermare bombe e proiettili, oltre ai corpi dei Vietcong, furono le 28

manifestazioni in tutto il mondo e la netta presa di posizione dell'opinione pubblica. Oggi c'è un nuovo Vietnam, con nuovi invasori e nuovi resistenti. Ma manca una coscienza comune al riguardo, mancano i cortei, le dimostrazioni. Mancano le azioni che tentino di riportare la causa curda e la rivoluzione confederale sulla bocca di tutti. Questo muro di silenzio è il primo nemico della Federazione della Siria del nord, più della Turchia, più del tacito assenso russo, più dell'imbarazzo statunitense. Distruggere questo muro di silenzio che toglie cibo, acqua, medicinali e munizioni alla rivoluzione del Rojava dev'essere il nostro obiettivo. Parlarne il più possibile. Parlare dei curdi, parlare del confederalismo democratico e dell'esperimento della Siria del Nord, parlare di quanto tutto ciò stia terrorizzando il sultano Erdogan che a un mese dall'inizio dell'offensiva non è avanzato di un solo centimetro. Il suo esercito e i suoi sgherri islamisti si sono trovati davanti un'idea di un mondo nuovo. E non è solo retorica. Informarsi e parlarne più forte che possiamo. Che in fin dei conti, non ce ne vogliano giornali e televisioni, è una storia bellissima da raccontare.

di Due studenti di “Sapienza Clandestina”

Sapienza Clandestina è un collettivo universitario autonomo romano, slegato da firme partitiche e sindacali. Fra il settembre e il novembre del 2017 parte insieme alla Delegazione Nazionale di Infoaut, portale dell'antagonismo italiano, in Rojava e a Maxmur. Aderisce a Rete Kurdistan Italia. Un ragazzo e una ragazza della Delegazione Nazionale hanno deciso di non tornare in Italia per rimanere nella Federazione della Siria del Nord: Jacopo, al momento della stesura dell'articolo, si trovava ad Afrin per portare solidarietà attiva alle popolazioni colpite dall'offensiva turca e per tentare di offrire un’informazione adeguata ai tempi che corrono. Eddi ha deciso invece di arruolarsi nel battaglione internazionalista delle YPJ, unità di protezione delle donne, esercito femminile curdo che aderisce alle Forze Siriane Democratiche. A loro il più grande degli abbracci che siamo in grado di dare.

Il gioco dei troni europei La crisi dei partiti tradizionali e del corpo elettorale mutano le forme di un assetto politico che sta rivoluzionando l'Europa

2 1978 • Fondazione del PKK in Turchia 1999 • Arresto di Ocalan 2003 • Fondazione del PYD in Siria del Nord 2011 • Scoppio del conflitto siriano 2012 • Dichiarazione di autonomia del Rojava (Federazione della Siria del Nord) 2014-15 • Resistenza all’ISIS a Kobane e inizio della controffensiva 2017 • Liberazione di Raqqa, capitale del califfato islamico 20 gennaio 2018 • Inizio operazione “Ramoscello di Ulivo” ad Afrin 2 L’articolo che avete appena letto non vuole essere un articolo di cronaca ma uno spunto di riflessione. Inevitabilmente dalla sua chiusura alla sua pubblicazione saranno molti gli sviluppi della situazione ad Afrin. Vi invitiamo quindi ad informarvi ulteriormente, con uno sguardo critico a ciò che leggete e evitando di affidarsi solo ai media mainstream.

Il prossimo 4 marzo gli italiani saranno chiamati al voto per le elezioni legislative. Poche sicurezze sul futuro governo (l’ipotesi più forte è quella di un 2013 2.0): campagne elettorali molto confuse e astensionismo alle stelle sembrano essere gli ingredienti della prima elezione con la nuova legge elettorale, il Rosatellum bis. Dopo quattro Governi senza una diretta legittimazione popolare (l’ultimo fu quello Berlusconi nel 2008), la fiducia e l’interesse degli italiani nella politica sono al minimo storico. La completa scomparsa della sinistra e la mancata presa sociale dei liberismi hanno favorito l’ascesa di partiti prima Scomodo

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marginali, come il Movimento 5 Stelle (M5S) e la Lega (ora, almeno nel simbolo, non più Nord). Ma è possibile rivedere lo stesso film in gran parte dell’Europa occidentale. Dalla Brexit alla perdita di consensi della Merkel, dalla disfatta dei due partiti principali francesi alla vittoria dell’estrema destra in Austria il panorama politico europeo sta continuando a mutare, con l’incertezza e la confusione degli elettori sempre più protagoniste delle tornate elettorali. Per poter far luce sui motivi scatenanti di quest’irrefrenabile crisi del corpo elettorale, è necessario fare un passo indietro.

L’impatto economico-sociale della crisi La crisi finanziaria del 2008 ha segnato un punto di rottura per l’economia europea e mondiale. Davanti alle istituzioni continentali e alla Banca Centrale Europea (BCE) si è palesato il loro più grande incubo, una possibile inflazione dilagante. La reazione è stata di correre immediatamente ai ripari: per ripristinare la stabilità finanziaria sono state adottate politiche di subordinazione sul piano economico per gli Stati membri nei confronti dell’Ue. Le norme previste garantiscono meno controllo dei singoli Paesi in materia di bilancio, debito e disavanzo pubblico. La decentralizzazione delle politiche economiche per la salvaguardia della moneta ha avuto ripercussioni molto incisive sull’aspetto politico e sociale degli Stati, che hanno approvato leggi volte a far ripartire l’economia gravando sulle classi più basse, come il Jobs Act e la Legge Fornero in Italia, la Loi Travail in Francia o la riforma del lavoro in Spagna del 2012. Decentralizzazione non accompagnata da una copertura del deficit democratico che caratterizza le istituzioni europee: gli organi che hanno più potere legislativo (Commissione e Consiglio) sono quelli non eletti direttamente dal corpo elettorale e prevedono meccanismi decisionali che permettono forti influenze da parte di gruppi di pressione e lobby. Italia: ricambio generazionale o ritorno delle vecchie glorie? Nell’Europa occidentale gli scarsi risultati delle riforme hanno fatto ulteriormente 29


abbassare il grado di fiducia nei governi di stampo liberista. In Italia il Partito Democratico (PD) guidato dal premier Matteo Renzi sembrava avere il paese sotto controllo: dopo pochi mesi dall’insediamento del nuovo governo il paese ha confermato la fiducia verso l’ex sindaco di Firenze, superando il 40% all’elezioni del Parlamento europeo del 2014. Forte di questa fiducia, Renzi si è mosso subito all’attacco, prima all’interno del suo partito, centralizzandone le politiche e provando a dimostrare di essere l’unico timoniere possibile alla guida, poi riformando il mondo della scuola e del lavoro. Pensando superbamente di poter dirigere le sorti dell’Italia ha tentato di far passare la riforma costituzionale, accettata in Parlamento ma bloccata dal voto referendario. Il 4 dicembre 2016 il 59% degli italiani ha votato No, costringendo Renzi alle dimissioni. Sul carro dei vincitori è salita l’opposizione, rappresentata principalmente dal M5S, Lega e Forza Italia. L’all-in di Renzi è stato quello di caricarsi sulle proprie spalle un paese trovandosi, però, da solo, colpevole di aver puntato tutto con una mano non abbastanza forte. Il PD si è scisso nel 2017 e il centrosinistra arriverà al voto del 4 marzo come terzo polo, dopo centrodestra e M5S, con una netta perdita di consensi. Questo calo vertiginoso dimostra il fatto che gli elettori di sinistra abbiano perso fiducia nella figura di Renzi. I due poli di opposizione, però, colpevoli di continui cambi di posizione repentini per assicurarsi più voti, si sono dimostrati poco adatti alla missione di creare un governo stabile. Il M5S è sempre 30

stato chiaro sulle politiche interne al partito, ma il vento che tira nei 5 stelle sta cambiando: le loro prese di posizione si sono rivelate raramente nette e incisive come vorrebbero gli elettori, e Luigi Di Maio ne è la più chiara rappresentazione. Il candidato premier, infatti, non gode pienamente dell’appoggio politico del suo Movimento, ma è chiaramente l’unica figura politica candidabile per il M5S. Discorso analogo vale per la destra di Salvini, il rivoluzionario della Lega Nord sganciatosi dalle storiche velleità secessioniste padane, e della Meloni, che nel 2015 sfilavano per le vie dell’Italia con Casapound e tre anni dopo si ritrovano alleati con Berlusconi. La tendenza di far perdere l’identità al proprio movimento e di affermarsi come figura singola di politico più moderato risulta sempre più forte in Italia, e rafforza la generale trasformazione delle forze politiche in partiti catchall (“pigliatutto”). Gli elettori fedeli, quindi, si ritrovano in un limbo di estrema crisi dove le uniche uscite sembrano essere o un cambio di casacca o l’astensionismo. La grande confusione del corpo elettorale innesca forti incertezze su una formazione del Parlamento con potere polarizzato, alimentando quindi un ritorno glorioso di Forza Italia o una rivoluzione del M5S, anche se l’opzione più quotata è quella di scendere a compromessi. Come già successo nel 2013. La fine del bipolarismo francese Dall’inizio della V Repubblica francese (caratterizzata da un semipresidenzialismo a presidente forte) sembrava

essersi definitivamente affermato un bipolarismo tra il partito socialista e partito gollista, protagonisti indiscussi dei ballottaggi presidenziali, salvo rare eccezioni. Bipolarismo durato fino al 2017, quando la Francia si è trovata a dover scegliere tra il Front National guidato da Marine Le Pen e il partito indipendente di Emmanuel Macron, La République en Marche!, scegliendo quest’ultimo. La causa della crisi di questi due partiti coincide con il fallimento delle politiche adottate dagli ultimi due presidenti, Sárközy e Hollande. Il secondo ha provato, con l’appoggio di Renzi, a ridimensionare le politiche di austerità imposte dal precedente presidente gollista, fallendo a pieno e costretto in fine a piegarsi ai diktat europei come dimostra la Loi Travail, sorella maggiore della riforma italiana sul lavoro, il Jobs Act. Le misure post-crisi applicate fino ad oggi hanno diffuso una sostanziale sfiducia verso i due principali partiti, arrivati alle ultime elezioni ad ottenere solo il 19% (i gollisti) e uno scarso 6% (i socialisti), registrando il minimo storico per entrambi. Gli elettori hanno quindi preferito dare la fiducia ad un partito nato appena un anno prima, puntando su una possibile innovazione della politica francese. Si è consolidato inoltre un sostegno al partito nazionalista della Le Pen, perfettamente in linea con l’avanzata del populismo in Europa. Il Front National sembra però continuare a scontare il meccanismo di elezione a doppio turno, che rende estremamente improbabile la salita all’Eliseo di un partito estremista come quello della Le Pen.

Indignación In Spagna lo scenario è stato analogo: crisi di governo, instabilità, barcollamento del sistema bipolare messo fortemente in dubbio dal dilagante sentimento di indignación. Dal movimento degli Indignados, appunto, nel 2011 nasce Podemos, ormai celebre movimento della sinistra “populista” anti-austerità; negli stessi anni (nonostante la fondazione risalga al 2005) inizia a raccogliere importanti consensi su base nazionale Ciudadanos, meno famoso partito di “centro radicale”, ma altrettanto importante elemento nel processo di smembramento dei due poli di destra e sinistra. Da una parte il partito di Pablo Iglesias col suo stabile 20% ha messo in crisi la sinistra spagnola, costringendo il PSOE ad abbandonare la “terza via” degli anni zero e forzandola a posizioni più nette contro l’austerity imposta da Rajoy, nonostante l’astensione e il tacito assenso alla formazione di un nuovo governo dopo le nuove elezioni di fine 2016. Al contempo, Ciudadanos ha sottratto col tempo un’importantissima mole di voti anche allo stesso Partito Popolare, rinnovandone le istanze liberali in una gran confusione di socialdemocrazia e liberismo in materia di mercato. I due “nuovi” partiti che hanno demolito il sistema bipolare sono quindi nati, di fatto, da un’emorragia della politica tradizionale. Emorragia derivante dalle politiche di austerità e dall’incapacità di reagire alla crisi in maniera popolare ma anzi agevolando i licenziamenti e tagliando gli stipendi (tredicesima compresa).

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Brexit o non Brexit? Questo è il dilemma Il 23 giugno 2016 il corpo elettorale britannico ha preso la clamorosa decisione di uscire dall’Unione Europea, manifestando così il malcontento popolare verso le manovre imposte dalla UE, parte delle quali la Gran Bretagna non ha firmato. Si sono dunque aperte con le istituzioni europee le trattative, guidate dal Primo ministro Theresa May, dopo l’addio al 10 di Downing Street da parte di David Cameron, per portare a termine l’effettiva uscita. Sentendo di non aver abbastanza appoggio in Parlamento, la conservatrice ha deciso di sciogliere le Camere, indicendo nuove elezioni per consolidare la forza del governo a fronte delle trattative. Ma i risultati ottenuti non sono stati quelli previsti dalla May, con l’elettorato che non ha confermato a pieno la fiducia nel partito conservatore, mentre il partito laburista di Jeremy Corbyn ha rafforzato la propria posizione in Parlamento. Un passo indietro per le trattative che stanno facendo sorgere non pochi timori al popolo britannico, sempre più conscio della forza dell’Ue. La tattica della May è di temporeggiare, portando ai tavoli misure non applicabili, ma si sta rivelando fallimentare, perché intanto la sterlina sta raggiugendo uno dei minimi storici e gli imprenditori inglesi stanno iniziando a brontolare, minacciando il trasferimento delle aziende. Si sta formando un panorama in cui la disapprovazione nei confronti della May sta continuando a crescere e sembra non arrestarsi, instaurando così un circolo vizioso tra la

sfiducia verso il governo e le difficoltà del bra,ccio di ferro con l’Ue che giova solamente alle istituzioni europee. Nonostante tutti gli ostacoli alla fine la Brexit si farà; ma non è quello ciò che intimorisce il popolo d’oltremanica, quanto le modalità, che scalderanno ancor di più gli animi degli inglesi, oltre a gravare pesantemente sull’economia statale.

Conclusioni La crisi economica del 2008 è stata quindi la madre della profonda crisi politica che stiamo vivendo a causa delle scarse gestioni sociali ed economiche dei governi europei. Italia, Francia, Inghilterra, Spagna, Grecia hanno avuto reazioni analoghe da parte delle rispettive popolazioni, dimostrate da uno stravolgimento totale alle urne. Mai erano andati così in crisi i sistemi bipartitici europei, ormai tripolari o addirittura quadripartitici, come in Spagna. Anche la Germania, che è uno dei paesi protagonisti delle manovre europee, ha risentito della svolta politica post-recessione: i due partiti principali, il CDU/CSU guidato dalla Merkel e il SPD di Schulz, hanno subito una diminuzione di consensi che ha visto giovare il partito di estrema destra Alternative für Deutschland. 31


A parità di salario la società cambia Per quale motivo nel 2018 fa più scalpore una notizia sull’eguaglianza rispetto ad una sulla diseguaglianza?

È chiaro come l’elettorato si sia polarizzato dopo le misure economiche di austerità adottate per la salvaguardia della moneta. Estremizzazione che si è protesa verso sinistra solo in Grecia, con la salita al governo di SYRIZA, timonato da Tsipras. Il quale, però, non ha mantenuto la volontà popolare espressa dal referendum e si è dovuto piegare ai piani dei creditori. Negli altri paesi invece protagonista indiscussa è stata la destra, che è riuscita a sfruttare a pieno la rabbia sociale per la povertà dilagante e la mala gestione dell’immigrazione da parte dei governi competenti. In questo quadro storico avanza prepotentemente il disinteresse nei confronti della politica da parte dell’elettore medio che, trovandosi di fronte a dinamiche estremamente confuse, preferisce non votare.

di Lorenzo Scotto di Carlo 32

L’avvento dell’8 marzo, come ogni anno, ricorda a tutti e a tutte che nel 2018 c’è ancora una forte disparità di genere. Per questo “Non una di meno”, rete femminista italiana, ha indetto per questa giornata uno sciopero nazionale contro la violenza sulle donne e la disparità di genere. “Non una di meno” riprende il movimento “Ni Una Menos” nato nel 2015 in Argentina a seguito di un appello di giornaliste, attiviste e artiste per contrastare i femminicidi e la violenza maschile sulle donne. Si è diffusa in tutto il paese e in tutto il modo come spazio politico di autodeterminazione delle donne, per la costruzione di una società libera dal sessismo e dalla violenza. Arrivato in Italia nel 2016, oggi in un appello invita tutte e tutti a scendere in piazza l’8 marzo. “Sarà sciopero femminista perché pretendiamo una trasformazione radicale della

hanno portato ad un progresso sociale, mentale e culturale in tutto il mondo. I passi avanti si stanno compiendo, spesso con lentezza sia burocratica che mentale. Uno dei più recenti esempi di progresso culturale in questo campo viene dall’Islanda.

Queste e molte altre manifestazioni con il tempo hanno portato ad un progresso sociale, mentale e culturale in tutto il mondo.

società: scioperiamo contro la violenza economica, la precarietà e le discriminazioni. Sovvertiamo le gerarchie sessuali, le norme di genere, i ruoli sociali imposti, i rapporti di potere che generano molestie e violenze. Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale, garantito e accessibile. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sui nostri corpi e sulle nostre vite, vogliamo essere libere di muoverci e di restare contro la violenza del razzismo istituzionale e dei confini.” Uno dei tavoli tematici del “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere” (presentato il 25 novembre a Roma), riguarda infatti l’essere libere dalla violenza economica, dallo sfruttamento e dalla precarietà. Queste e molte altre manifestazioni con il tempo

“Per quale motivo nel 2018 fa più scalpore una notizia sull’eguaglianza rispetto ad una sulla diseguaglianza?” Il 2 febbraio all’uscita degli articoli presenti su varie testate è stata questa la domanda che si è posta la maggior parte dei lettori. Il primo dell’anno, infatti, in Islanda è entrata in vigore una legge, già approvata nel marzo 2017, che prevede il ricorso a sanzioni legali per aziende o uffici pubblici con più di 25 dipendenti che non documentino nero su bianco che le loro dipendenti vengano pagate tanto quanto gli uomini. Nella lotta per il raggiungimento e il rispetto di questa norma è emersa in prima linea la figura della leader di sinistra Katrin Jakobsdóttir che si era battuta anche in passato per eliminare le disparità retributive. L’Islanda negli ultimi nove anni ha detenuto il primato mondiale per il maggior tasso di partecipazione politica ed economica delle donne,

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Febbraio 2018

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posizionandosi al primo posto del Global Gender Gap Report. Nonostante ciò, sono tuttora presenti delle disparità salariali che hanno portato la nazione al quinto posto del Gender Pay Gap (differenziale salariale donna/uomo) europeo, secondo statistiche relative al 2017. All’interno dell’Unione Europea sono infatti presenti disparità salariali che si aggirano intorno al 16%, senza contare le condizioni e le scelte di lavoro. Per venire a capo di questa condizione inaccettabile sono stati presi dei provvedimenti a lungo termine, come ad esempio la “Trio presidency joint declaration on equality between women and men”: documento contenente le direttive da applicare in 18 mesi (divisi in tre semestri, da qui “triade”), stilato e proposto dinanzi alla Commissione europea sotto forma di collaborazione tra tre nazioni dell’Ue (Estonia, Bulgaria e Austria). L’obiettivo è fare della parità di genere una priorità all’interno dell’Unione basandosi anche sul recepimento e l’applicazione di leggi fondamentali quali gli articoli 2 e 3 del Treaty on European Union, che enunciano il principio di eguaglianza e denunciano qualsiasi tipo di discriminazione. L’articolo 23 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union stabilisce invece più in particolare l’uguaglianza di genere e il dovere di assicurarla in ogni campo, incluso quello dell’occupazione, del lavoro e del salario. L’Europa prevede, tramite provvedimenti proiettati verso il futuro, di ottenere entro lo scadere di questi due anni il raggiungimento di un tasso di occupazione generale del 75%.

Il gap-gender in Italia Nel nostro Paese l’uguaglianza di genere è sancita dall’articolo 37 della Costituzione. “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. Parole chiare, semplici che esprimono il concetto fondamentale della nostra società. Nonostante tanta chiarezza, solo raramente lo si vede applicato. Come dimostra uno studio compiuto da Jobpricing nel 2015, il reddito medio dichiarato per gli uomini è di 24 euro mentre quello delle donne di 16 euro. Si registra così una differenza salariale del 26% per le dipendenti e del 28% per le lavoratrici autonome. Rispetto ai dati inerenti alla disparità di genere di dieci anni fa, che vedevano l’Italia al 77esimo posto, le cose sono migliorate. Il nostro paese è salito al quarantunesimo posto, principalmente grazie ad un aumento della presenza femminile in parlamento.

Questo però non ha prodotto un adeguato miglioramento delle politiche sociali, ancora non in grado di incidere sulla discriminazione della donna nei più diversi ambiti della sua esistenza. In una società evoluta come la nostra, dove è possibile mandare il proprio ologramma 33


in qualunque luogo del pianeta connesso, la lavoratrice continua a guadagnare meno del lavoratore e a incontrare difficoltà nell’avanzamento di carriera, con una rappresentanza femminile nei posti dirigenziali inferiore di ⅓ rispetto quella maschile. Non finisce qui. Nella ricerca del lavoro, le donne sono costrette ad affrontare quotidianamente colloqui inappropriati e sessisti: “Lei è sposata? Ha intenzione di avere figli? Ha in programma di costruirsi una famiglia? Frequenta qualcuno/a? Ha un compagno o una compagna?” Domande standard, normalizzate da una società patriarcale che riesce a mascherarle come innocue, ma che risuonano nella testa della maggior parte delle donne degradandole.

“Lei è sposata? Ha intenzione di avere figli?" A condannare questi inappropriati colloqui ci sarebbe l’Articolo 8 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) il quale dice espressamente: “è fatto divieto al datore di lavoro ai fini dell’assunzione (...) di effettuare indagini (...) sulle opinioni politiche, religiose o sindacali, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.” Il colloquio di lavoro si incentra anche su un’altra “domanda cardine” dalla quale dipende l’assunzione: “È incinta?”. È, per motivi biologici, una domanda che agli uomini non viene fatta, come tutte le precedenti, mai. 34

Forse perché gli uomini non hanno “impegni biologici” che coincidono con le fasce d’età in cui iniziano a lavorare, forse perché a pochi padri e ad ancor meno datori di lavoro interessa avere o dare il congedo di paternità. Ma perché nella società odierna si pensa ancora che solo le madri debbano educare e crescere i propri figli e le proprie figlie? La maternità e la paternità sono valori sociali e sono obblighi di ambedue i genitori. A causa della cultura machista della società italiana i tempi lavorativi sono organizzati su “tempi maschili”, che non tengono conto dei compiti di cura in cui tutte le persone dovrebbero essere coinvolte. Non solo non si tiene conto delle attività produttive, ma neanche di quelle riproduttive. Spesso le donne durante i colloqui preferiscono mentire, sono portate a mentire, pur di avere un posto di lavoro. Ma ancor più spesso sono costrette a firmare le dimissioni in bianco, pratica illegale ma ancora molto frequente. Le dimissioni vengono fatte firmare in anticipo alle lavoratrici, al momento dell’assunzione, e viene poi completato l’iter in casi di gravidanza. La donna viene infatti considerata “meno affidabile” dal datore di lavoro, proprio a causa di una potenziale gravidanza.

Questo gap sociale nasce nel mondo del lavoro e si evidenzia soprattutto paragonando quest’ultimo al mondo dell’istruzione, nel quale le donne vengono considerate più formate e più performanti. Per quale motivo, allora, pare che il curriculum non conti più nulla nel mondo del lavoro? Alla base di tutto vi è un discorso di stereotipo culturale, che parte dal sessismo verbale e arriva alla discriminazione e all’idea di “donna oggetto” che si trova in molte campagne, pubblicitarie e non, nel nostro paese.

La maternità e la paternità sono valori sociali e sono obblighi di ambedue i genitori. Per cambiare la situazione sociale della donna è imprescindibile eliminare la sua subalternità economica, eliminare quindi la disparità salariale tra i sessi ed equipararne il “lavoro di cura”, il lavoro in famiglia. Per abbattere la cultura discriminante attualmente dilagante è necessario riconoscere il lavoro delle donne come tale ed è doveroso considerare le donne come lavoratrici vere e proprie, non come lavoratrici meno affidabili o meno capaci. Un primo passo per l’autonomia della donna è la conquista dell’indipendenza economica e l’abbattimento delle forme sessiste di subalternità.

Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto Superiore di Sanità. Studia una tossina batterica come potenziale strumento terapeutico per patologie del sistema nervoso centrale (come l’Alzheimer e la sindrome di Rett). Cosa pensa della legge che è stata approvata in Islanda? E secondo lei perché fa più notizia una legge sull’uguaglianza, rispetto al fatto che non tutti i paesi ne abbiano una? “Chiaramente a me sembra assurdo che a parità di mansione e a parità di competenza ci sia una differenza maschio/femmina. Certo questa situazione sembra avere il carattere di altri tempi, fare una legge su qualcosa di così naturale sembra quasi surreale. Se si conoscesse bene la nostra costituzione si saprebbe benissimo che le donne a parità di lavoro sono uguali agli uomini. Bisognerebbe solo seguire le norme che ci sono già, non fare altre leggi che ribadiscano il fatto che le donne e gli uomini debbano avere parità di diritti. A me ha sempre meravigliato che nel nostro paese si debba sempre ribadire che il ruolo della donna da un punto di vista lavorativo non è diverso da quello dell’uomo. Dovrebbe contare solo la competenza.

Intervista a Carla Fiorentini, primo ricercatore del Centro

Il suo primo riscontro con la disparità sul lavoro? Dal punto di vista salariale no, perché qui (nel settore pubblico) non c’è questa differenza. Però sicuramente essere donna non mi ha favorito e in alcuni casi è stato un problema. Purtroppo, anche se in maniera velata c’è sempre il problema: tu sei donna , hai una famiglia, hai dei figli, quindi puoi dare meno . È una cosa che un po’ vivi sulla

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tua pelle, in maniera subdola. Quando ero incinta mi ricordo che era un costante: quando torni? cosa fai? Anche se io non ho mai interrotto il lavoro (ai limiti del possibile). Ho avuto come esperienza all’estero un lavoro in Svezia, lì è così: se hai un figlio non è una cosa in meno ma una cosa in più, perché sei una persona più realizzata, quindi lavori meglio. L’opposto di quello che succede qui.

"Quando ero incinta mi ricordo che era un costante: quando torni? cosa fai? Anche se io non ho mai interrotto il lavoro (ai limiti del possibile)." Ci sono stati dei cambiamenti nel corso della sua carriera? Beh, sì, qualcosa è successo, però non abbastanza, non è così determinante. Ti potrei raccontare degli aneddoti. Quando sono arrivata qui, si tratta di molti anni fa, veniva criticato il fatto che io avessi i capelli lunghi, addirittura quando andavo a fare delle presentazioni mi veniva “consigliato” di farmi la treccia. Chiaramente se ci penso ora divento una furia. Ma in quel momento ero giovane, appena arrivata, l’ultima ruota del carro, quindi un po’ subivo queste aggressioni. Adesso questo non c’è più, anche se la differenza non è indubbiamente sparita. Se ci fai caso agli apici

molto, troppo spesso ci sono gli uomini. Una donna all’apice non è ben vista, sia dagli uomini che dalle donne, purtroppo non c’è molta solidarietà tra noi. È una mentalità molto diffusa, che forse ci siamo così tanto abituate a sentirci dire che ormai è inculcata nel nostro cervello. Mi ricordo che mi veniva detto “se insegni è meglio, perché hai più tempo” ma io voglio fare quello che mi piace, volevo fare la scienziata e infatti è quello che ho fatto. La disparità uomo/ donna è ancora diffusa ed è pesante da sopportare. Non molti anni fa lo stupro era un crimine contro la morale, non contro la persona. Nel 96, vent’anni fa. Assurdo. Un uomo che ha una famiglia e lavora da più stabilità, è una persona con i piedi per terra, la donna no. Su questo dovete lottare voi. Ciò che ci manca è una forma di rispetto per la donna come persona.

di Anna Laura Lozupone, Anita Raponi e Giulia Tomassetti 35


Parallasse La rassegna stampa critica di Scomodo

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

Il panorama editoriale italiano tra gennaio e febbraio è stato molto animato da violenza comunicativa e strumentalizzazione editoriale. I fatti estremamente violenti che hanno caratterizzato le scorse settimane hanno dato modo alle testate di sprigionare appieno il potenziale di indignazione, tra baby gang, l’omicidio di Pamela e l’attentato di Traini. Si è rotto un clima di tranquilla - per quanto tranquilla possa essere - campagna elettorale. Puntellando le prime pagine con notizie che si prestano a toni comunicativi estremamente violenti si appiana e si omogeneizzano tra loro la violenza dei fatti di cronaca e le violenze dei toni che caratterizzano la battaglia della campagna elettorale. A proposito di Macerata Il fulcro dell'attenzione mediatica del Paese nel corso delle ultime settimane è stato certamente Macerata, teatro

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dei due fatti di cronaca che maggiormente hanno scosso l'opinione pubblica: la morte di Pamela Mastropietro, il cui corpo è stato rinvenuto smembrato all'interno di due trolleys il 31 Gennaio 2018, e l'attentato di matrice neofascista compiuto da Luca Traini il 3 Febbraio 2018. Per quanto concerne il primo episodio, la morte della giovane ragazza romana, ricoverata presso un centro di recupero per tossicodipendenti di Macerata, da cui si era allontanata il 29 Gennaio, non ha destato particolarmente l'attenzione dei quotidiani nazionali, forse troppo incentrati sulla campagna elettorale in corso per concentrare le proprie prime pagine su di un fatto di cronaca. Il ritrovamento del cadavere smembrato della giovane compare solo sulle prime pagine di Messaggero, Corriere della Sera e Il Tempo del giorno 1 Febbraio 2018, mentre gli altri giornali paiono totalmente disinteressati al dramma della Mastropietro. La musica cambia totalmente con l'uscita della notizia del fermo di uno spacciatore nigeriano, che smuove l'attenzione dei giornali dalla linea editoriale maggiormente radicata a destra. Il giorno seguente infatti, 2 Febbraio 2018, quotidiani come Libero, Il Giornale e Il Tempo (con i primi due che il giorno precedente non avevano riportato in alcun modo il fatto) lanciano sulle proprie prime pagine titoli come "Il Nigeriano che ha fatto a pezzi Pamela non poteva stare qui". Il perseguimento della linea editoriale di questi quotidiani li ha portati dunque ad analizzare la vicenda come un punto a favore della loro crociata contro

l'immigrazione clandestina, considerando immediatamente colpevole il nigeriano fermato dalla polizia, sottolineando immediatamente nel titolo la sua nazionalità (elemento mai riportato nelle prime pagine della stampa estera). Altro aspetto interessante è che nei titoli possiamo notare come questi giornali abbiano voluto analizzare la vicenda non nel singolo, ma come espressione di una incompatibilità di fondo fra la popolazione italiana e quella immigrata. Il Giornale ha infatti parlato della gestione del traffico di stupefacenti da parte della mafia nigeriana a Roma (sfruttando dunque l’attività criminale dell'indagato) mentre il Tempo ha fatto notare in prima pagina l'assenza delle viscere della vittima, additando questo fenomeno ad un rito Voodoo, come volendo sottolineare l'ampia differenza culturale fra l'Occidente civilizzato e la barbara popolazione africana ancora legata a rituali disumani. In un clima comunque di generale tensione per questa vicenda, il 3 Febbraio la popolazione di Macerata si sveglia sotto i colpi di pistola di Luca Traini, che apre il fuoco sulla popolazione inerme, ferendo 6 immigrati. Un attentato in piena regola. Anzi no. Per i giornali, da Repubblica alle testate minori come L'Unione Sarda, il gesto è solo una follia xenofoba da condannare. Posizione condivisa anche dai quotidiani "cugini" di Destra (che possiamo quasi andare a definire "La triade anti-straniero", composta da Il Giornale, Libero e La Verità), che decidono però di scagliarsi contro la sinistra buonista che ha armato la mano di Traini permettendo questa invasione

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incontrollata. A tali accuse le altre testate maggiormente diffuse non di destra hanno risposto indirettamente indicando il leader della Lega Matteo Salvini come il mandante morale della tentata strage, a causa della sua politica anti-immigrazione fomentatrice d'odio e per i suoi legami politici con l'attentatore, candidato al consiglio comunale di Corridonia per l'ex-Carroccio. Eccezion fatta per queste "minime" differenze ideologiche, tutte le testate hanno concordato su un elemento della vicenda: la correlazione fra la morte della Mastropietro e la tentata strage di Traini, data da tutti per certa. I giornali hanno visto infatti nella morte di Pamela l'evento che ha scatenato la furia del "pistolero razzista" (così definito dall'ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi), stufo delle aberrazioni compiute dagli invasori stranieri e dunque pronto a scendere in strada armato per difendere la memoria della giovane e il sacro tricolore. L'unica voce fuori dal coro è stata quella del giornale online Il Post, che analizzando la dinamica dell'attentato (da notare che questa sia stata l'unica testata abbastanza coraggiosa da definire il gesto per quello che effettivamente è), ha fatto notare che Traini avesse colpito anche una donna, che secondo la ricostruzione condivisa dagli altri non avrebbe dovuto far parte dei bersagli del “tiro al nero” del 28enne, portando dunque a pensare che non ci fosse alcun tipo di correlazione fra i due eventi. Proprio questo aspetto della vicenda ha portato il Post ad invitare gli altri "colleghi" alla calma e ad attendere le dichiarazioni di Traini, che hanno infine confermato la

correlazione fra il dramma della Mastropietro e la sua decisione di aprire il fuoco sui cittadini immigrati di Macerata, a causa di suoi trascorsi personali poco felici con spacciatori di nazionalità africana. In conclusione, il vero dramma che sta vivendo Macerata in questo momento è che la città sia diventata l'oggetto bramato da tutti gli organi di informazione italiani, ma non perché essi siano interessati a svelare la verità dietro a questi terribili fatti di cronaca, ma solo per sfruttare la vicenda per i propri interessi ideologici e condizionare pesantemente il dibattito pubblico legato alle elezioni. A proposito di campagna elettorale In clima di campagna elettorale la strumentalizzazione è un mezzo potente per veicolare consenso. I fatti di Macerata sono un esempio lampante e la questione migratoria in generale rimane di grande rilevanza nel dibattito dell’opinione pubblica. E’ palese in quasi ogni quotidiano che se non parla giornalmente dell’immigrazione trova comunque un modo per legarsi alla questione. In un clima del genere le parole di Luca Fontana trovano una grande eco mediatica. Il candidato alla presidenza della regione Lombardia della coalizione di centrodestra ha fatto riferimento esplicito ad un pericolo che corre la “razza bianca”; parole esecrabili che tuttavia sarebbero frutto di un lapsus ma che non hanno trovato una condanna corale da parte del mondo giornalistico. Non viene biasimato soprattutto da giornali con una linea editoriale di destra, come Libero 37


o Il Giornale, relativamente in sintonia su molti temi. Si tratta di testate in cui avviene una progressiva legittimazione di posizioni sempre più radicali attraverso toni apologetici. Titoli come “Razza di ipocriti, Fontana: «difendere la razza bianca». La sinistra lo azzanna” oppure “Razza bianca a rischio e siamo seccati. L’allarme estinzione di Fontana è fattuale” sono presenti rispettivamente su Il Giornale e Libero. Nel primo caso si contestualizza la notizia nel panorama della campagna elettorale, non si entra nel merito delle parole di Fontana ma, attraverso la costruzione dello scenario di polemica alle dichiarazioni, si assumono toni difensivi, che forniscono una legittimazione delle parole non esplicita. L’immagine violenta della “sinistra che azzanna”, proposta dal titolo del Giornale, ha proprio la funzione di ribaltare i ruoli, da Fontana che attacca a Fontana attaccato. L’impatto delle dichiarazioni di Fontana viene inoltre mitigato dal sottotitolo “Livorno, sindaco grillino indagato per omicidio” che dovrebbe fornire un vettore di indignazione più forte, lasciando in secondo piano il “difendere la razza bianca”. Libero invece vuole dare autorità alle parole di Fontana attribuendogli direttamente lo stato di dichiarazioni ‘fattuali’. La prima pagina del Fatto ha la notizia in taglio basso e la approccia con toni sarcastici “Razza padana. Fontana delira: “Noi bianchi siamo a rischio.” e subito dopo “I fascisti 2.0 roba da ridere: se ne fregano pure del duce”. Le dichiarazioni di Fontana forniscono una contestualizzazione anche per un altro articolo non 38

necessariamente legato all’agenda del giorno. Si tratta di uno schema ripetuto in più prime pagine in cui si trovano titoli come quelli di Avvenire o Stampa che modellano i propri titoli per creare sintonia con il resto delle notizie: “Ma che razza di politica”; “Il razzismo è una gaffe”. Le voci di biasimo non mancano e si identificano nelle testate più tradizionalmente di sinistra o centro. Corriere, Repubblica e la Stampa hanno in prima pagina le dichiarazioni di Fontana con note di biasimo inserite in una cornice interpretativa più ampia che coinvolge la campagna elettorale. Il titolo della Stampa fornisce una visione generale delle dichiarazioni radicali della Lega con “Razza e prostituzione, Lega choc. Fontana: noi bianchi a rischio per gli immigrati. Salvini: riaprire le case chiuse” mentre la Repubblica si fa portavoce di un appello di Gori a Liberi e uguali: “Difendo i bianchi, scontro su Fontana. Appello di Gori a LeU: non deve vincere”. Lo scambio di battute tra Raggi e Gentiloni sulla questione dei rifiuti a Roma, poiché in clima di campagna elettorale, ha avuto una speciale risonanza mediatica altrimenti poco probabile, che ha spalancato le porte a molteplici costruzioni interpretative. Corriere e Messaggero riportano la notizia in prima pagina, assieme al Fatto che però non si fa scrupoli a tracciare esplicitamente una volontà propagandistica dietro quelle dichiarazioni. Nei giorni precedenti alla presentazione delle liste la fanno da padrone titoli che attaccano le varie parti politiche vicendevolmente, spesso con

una retorica particolarmente aggressiva se non ironica, dalle controversie nelle parlamentarie del Movimento alle esclusioni delle candidature nelle liste PD e Forza Italia. Il restyling del blog di Beppe Grillo è stata un’altra notizia di grande importanza e che permette di leggere la linea editoriale dei quotidiani. Tutti hanno in prima pagina un riferimento alla vicenda, eccetto il Fatto che invece titola con “Salvini si fa un’altra Lega”. Il restyling del Blog quindi non viene nominato poiché, per il Fatto, non ha alcuna implicazione politica, anzi è il restyling del simbolo della Lega ciò che fa veramente notizia e che quindi rende vano, se già non lo fosse, il nuovo blog di Grillo. Uno stesso approccio del Fatto, apologetico nei confronti del Movimento, sono i rimborsi spese dell’Unione Europea finiti a finanziare la campagna elettorale di Luigi Di Maio, di cui non c’è traccia nel Fatto, giornale che di scandali del genere fa la sua punta di diamante, mentre compare con più eco nelle testate che sono politicamente avverse al Movimento. A partire dal Giornale della famiglia Berlusconi.

che generano questi fenomeni, richiamando un tema frequente nell’ideologia cattolica, con “Più soli, più violenti”. Il Mattino invece lancia un monito: ”Napoli feroce, fermiamo le babygang” e, in maniera opposta agli altri quotidiani, dedica poco spazio alla campagna elettorale.

A proposito di baby gang Nello stesso periodo si svolgono le aggressioni a Napoli da parte delle “baby gang” che trovano spazio relativamente piccolo nel generale clima di campagna elettorale. Il quotidiano cattolico Avvenire ed il quotidiano del meridione Il Mattino tuttavia dedicano maggiore spazio per la prossimità ideologica e geografica del fenomeno. Da una parte Avvenire mette in luce le situazioni di disagio

A proposito di esteri Le dichiarazioni di Trump delle scorse settimane hanno scosso il mondo mediatico accendendo un’ampia polemica sulle parole che un presidente americano sia autorizzato a pronunciare. Definire le nazioni africane e altre, come Haiti ed El Salvador, ‘shitholes’ ha scatenato una parte dell’opinione pubblica americana che di riflesso viene intercettata dai quotidiani nazionali e che possiede posizioni molto critiche. Tuttavia, come prevedibile, i giornali che da sempre hanno una retorica più aggressiva non hanno espresso particolari critiche, anzi lo sdoganamento del politically correct e di un linguaggio violento rappresentano per loro una conquista, in quanto legittimano delle strategie comunicative che invece appaiono a buona parte dell’opinione pubblica come inadatte se non pericolose. Libero titola: “Severo ma giusto, Donald la spara: i paesi africani

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sono cessi”, utilizzando anche l’espressione “severo ma giusto”: un meme. Allentare la presa di un linguaggio alto e autorevole, anche se per poco, contribuisce a normalizzare pian piano cose che in passato sarebbero state considerate semplicemente volgari. Fatti che invece fanno emergere in maniera più sottile la linea editoriale si trovano nell’interpretazione data alla volontà di Trump di vietare l’importazione di merci tecnologiche dall’Asia. Nelle giornate successive al forum economico di Davos tutti i principali quotidiani riportano la notizia con titoli che presentano parole appartenenti al campo semantico della guerra, presagiscono un evento negativo se non catastrofico. Si tratta di fatto di strumenti che Trump mette in campo nel suo progetto di una guerra economica contro le potenze asiatiche, in particolare la Cina, e questa immagine emerge soprattutto nel quotidiano cattolico Avvenire che titola con “La guerra dei dazi, Trump va a Davos con chiusure per Cina e Corea, ecco le barriere protezionistiche alzate nel mondo”. Anche il Corriere utilizza toni affini con: “Trump alla battaglia dei dazi”. Il Sole 24 Ore utilizza un approccio sobrio e successivamente entra nel merito della questione “Nuovi dazi contro l’Asia”. Dopo un primo silenzio dei quotidiani di destra, il giorno successivo il Giornale riporta la notizia come editoriale del direttore Alessandro Sallusti che titola: “La lezione di trump ai nostri politici, la promessa dei dazi e la rabbia dell’Europa”. Non si entra più di tanto nel merito della manovra economica, quanto invece fa il Sole 24 Ore,

ma semplicemente elogia, come Libero per ‘shithole’, la figura di Trump come uomo schietto e senza mezze misure. Non essendoci una vera e propria politica editoriale per questioni economiche i giornali presentano la questione in maniera familiare per i loro rispettivi lettori. Gli eventi si riducono a chiave di lettura per un nuovo modo di intendere la politica, più forte, apparentemente coerente con le promesse effettuate e libera dal politically correct, entrando per nulla nel merito della notizia e quindi rendendola un simulacro per presentare istanze anche apparente slegate.

di Marco Collepiccolo con la collaborazione di Luca Bagnariol

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di Silvia Forcelloni Foto di Emma Terlizzese

SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA Via della cervelletta 33

CASALE DELLA CERVELLETTA Superficie dell’area occupata: 5.000 m2 Superficie totale della tenuta: 259 ettari Data di costruzione: (primo stabile) 1200 Proprietà: Comune di Roma Anno definitivo di abbandono: 2015

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CUSTODISCE ANCORA I SUOI TESORI MALTRATTATI E ABBANDONATI: UNA BIBLIOTECA DI 7000 VOLUMI, MODERNI E ANTICHI, OPERE D’ARTE E UN MUSEO DELLA CIVILTÁ AGRO-PASTORALE IN 5 SEZIONI

I

l Casale della Cervelletta si erge precario con la sua torre di merlatura guelfa del XII secolo alta circa 30 metri su una tenuta di 259 ettari. Sottratto al pubblico illegittimamente nel 2014, custodisce ancora i suoi tesori maltrattati e abbandonati: una biblioteca di 7000 volumi, moderni e antichi, opere d’arte e un museo della civiltà agro-pastorale in 5 sezioni.

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Un po’ di storia Insieme alla Torre della Sapienza nasceva come vedetta per il controllo di un territorio paludoso e malarico dalle incursioni saracene, che in epoca medievale era un fondo di proprietà ecclesiastica. La tenuta della Cervelletta viene in seguito rilevata dalla Famiglia Sforza e passa nelle mani del cardinale Scipione Borghese, che ne fa una residenza di campagna e avvia lo sviluppo agricolo del fondo. Ma sarà solo nel 1835,

quando la tenuta e la zona di Tor Sapienza passeranno alla famiglia Salviati che verrà realizzata la bonifica di tutto il territorio. Nel 1898 viene inaugurata alla Cerveletta la prima stazione sperimentale sulla malaria. La lotta per la Cervelletta Negli anni ‘80 i residenti del neonato quartiere di Colli Aniene iniziano a organizzare lotte per la Cervelletta, allarmati dall’ipotesi di trasformare il “castello” e l’area circostante

in un albergo di lusso. La straordinaria partecipazione civile, che ha visto impegnati i singoli cittadini e numerose associazioni in sinergia con il tessuto culturale, sociale, politico e istituzionale del luogo, ha portato negli ultimi 30 anni a risultati eccezionali. La Cervelletta viene “adottata” nel ’95 dall’Istituto Tecnico per il Turismo Livia Bottardi di Tor Sapienza nell’ambito del progetto “La scuola adotta un monumento”, grazie al quale vengono organizzati percorsi educativi e di promozione sociale.

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PASSATI 13 ANNI, A CAUSA DI UN PROGRESSIVO ALLONTANARSI DELLE ISTITUZIONI, L’ATTIVITÁ DEL CASALE E MESSA IN “STANDBY”

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D 44

ue anni dopo il casale è oggetto di vincolo dei Beni Culturali e nello stesso anno grazie all’approvazione di una legge di iniziativa popolare della Regione Lazio viene istituito il “Parco della Cervelletta” e inserito nella riserva naturale della Valle dell’Aniene. Viene poi acquisita nel 2001 dal patrimonio pubblico di Roma che l’affida all’associazione “Insieme per l’Aniene”, guidata dal prof. Domenico Pietrangeli detto Mimmo Cervelletta, che cura la realizzazione

del “museuccio” della civiltà agro-pastorale e una biblioteca con apertura permanente al pubblico, oltre che diverse presentazioni di libri, mostre, concerti di musica, incontri, teatro e cinema. Passati 13 anni, a causa di un progressivo allontanarsi delle istituzioni, l’attività del casale è messa in “standby”. Tra la fine di giugno e l’inizio di novembre 2014 un gruppo di associazioni con a capo “Insieme per l’Aniene” presenta alla conferenza urbanistica del IV municipio il progetto

“Una seconda vita della Cervelletta”, in cui denuncia l’instabilità di parte della struttura e propone di restituire la Cervelletta al quartiere lanciando una petizione. E’ a questo punto che salta fuori l’associazione di promozione sociale “La Cervelletta” che nel settembre 2014 richiede in assegnazione il casale e i terreni circostanti al fine di salvaguardarli e proteggerli dall’incuria. Il presidente del IV municipio Emiliano Sciascia sottopone così la richiesta agli organi competenti.

Con inusuale celerità l’architetto Mirella Di Giovine (poi indagata per corruzione nel processo “Mafia Capitale”), al tempo Direttore del dipartimento Patrimonio Sviluppo e Valorizzazione, firma la determina dirigenziale del 27 Novembre che conferisce all’associazione l’incarico di presidio temporaneo della tenuta, con lo scopo di evitare possibili usi impropri e atti vandalici in attesa dei lavori di recupero previsti dal Piano di Investimenti 20142016.

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"LA CERVELLETTA" SI APPELLA AL TAR CONTRO LA REVOCA DELL’INCARICO, MA I GIUDICI RESPINGONO LA RICHIESTA

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ella stessa determina la Cervelletta viene dichiarata in stato di abbandono, contrariamente a quanto risulta dall’impegno del gruppo “Insieme per l’Aniene”, che non viene mai citato anche se ha il casale in affidamento dal 2001. L’associazione “La Cervelletta” secondo la determina dirigenziale svolgeva da diversi anni attività rivolte alla tutela e alla valorizzazione della tenuta, ma a una più attenta verifica dei fatti questa risulta

essere stata creata ad hoc nel 2013 e sconosciuta agli abitanti del quartiere. In beffa all’incarico di presidio affidatogli, “La Cervelletta” non solo pubblicizza serate a scopo di lucro, ma effettua anche una serie di interventi edilizi abusivi senza considerare il vincolo dei beni culturali a cui il casale è sottoposto. Solo un anno dopo, in seguito a numerose segnalazioni di altre associazioni e cittadini e alla denuncia dello status quo, viene revocato l’affidamento della tenuta della Cervelletta. Successivamente,

“La Cervelletta” si appella al TAR contro la revoca dell’incarico, ma i giudici respingono la richiesta. Dopo pochi giorni viene indetta, dal coordinamento “UNITI PER LA CERVELLETTA”, una manifestazione pubblica con vari cortei da Tor Sapienza e da Colli Aniene per restituire all’uso sociale e culturale il patrimonio storico e ambientale del casale. Nel dicembre 2015 l’edificio viene dichiarato inagibile dal Comune e chiuso senza alcuna vigilanza. La nuova amministrazione municipale pentastellata

ad oggi è ancora in cerca di fondi privati per recuperare l’immobile. In attesa del bando per l’assegnazione, il coordinamento continua a lottare per una riapertura temporanea con lo scopo di recuperare la biblioteca e il museo. Recentemente i ragazzi del Cinema America hanno annunciato per quest’estate proiezioni ad ingresso gratuito nei pressi del casale. Nel frattempo la Cervelletta se ne sta lì, abbandonata tra i rovi e le erbacce, in attesa di tempi migliori.

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Vieni a rilassarti, gioia Intervista all’Angelo dall’occhiale da sera: M¥SS KETA

Cosa si ottiene mescolando un flow al vetriolo, una presenza scenica conturbante e una mascherina di Marcelo Burlon? Ve lo raccontiamo in quest’intervista: un viaggio guidato attraverso l’immaginario di un’artista controversa, a metà tra la formosa protagonista di un cinepanettone anni ’80 e il Gabibbo. Caotica, irriverente, senza peli sulla lingua ed incredibilmente alla moda: questa è M¥SS KETA. continua a pag. 52

CULTURA

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Antonio Pronostico, 30 anni

Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 50

Antonio Pronostico è un artista, illustratore e visual designer: tra i suoi numerosi progetti può vantare una mostra personale allestita dalla “Galleria Parione9” e collaborazioni con riviste del calibro di Left e Test Magazine. Ma la sua è anche la mano che ha disegnato la copertina di questo numero. Ci siamo incontrati nel suo studio di via Ascoli Piceno, sotto l’ombra degli alberi del Pigneto. Entrando in questo locale, piccolo ma accogliente, lo sguardo cade subito su un elemento molto particolare, un’imponente scala blu che porta a un soppalco dello stesso colore. Seduto su uno dei gradini c’è Antonio che, sigaretta accesa tra le dita, risponde ad alcune nostre domande.

Vorrei partire da un’esperienza che ci accomuna. Nel 2008, ben prima che nascesse Scomodo, hai co-fondato una rivista autoprodotta di letteratura e fumetto, il Collettivomensa. Perché c’è la necessità di realtà cartacee come la tua e la nostra? In realtà fino a pochissimo tempo fa pensavo che non ci fosse alcun bisogno di produrre una rivista cartacea. A un certo punto ero convinto che l’autoproduzione fosse morta, pensavo che i miei coetanei, una generazione vicina alla vostra, non leggessero più le riviste. Infatti il Collettivomensa è morto da parecchio, abbiamo stampato l’ultimo numero nel 2012. Autoprodurre una rivista, come sapete bene anche voi, è un investimento di energie e di soldi e da quel momento mi è sembrata una cosa inutile. Ma forse ero io che mi trovavo in un mondo un po’ chiuso. In realtà quando sono venuto a Roma ho notato che non è così, c’è gente interessata, e forse ultimamente più persone si sono riavvicinate alla carta. Cosa ti ha spinto quindi a regalarci la tua mano per la copertina di questo mese? Questa è una domanda bellissima. All’inizio Frita (il nostro impaginatore, ndr) mi aveva coinvolto nel disegno della “S” all’interno del vostro numero estivo e poi, proprio perché anche io ho avuto a che fare con una realtà come la vostra, sono sempre stato sensibile a questi progetti e ho continuato a contribuire con i miei lavori. Da voi non prendo soldi e sono felicissimo di farlo. Però ricordo che quando abbiamo creato la prima infografica l’abbiamo fatta tutta in un giorno e ci

siamo fatti un bucio de culo! Mi ero detto che le prossime volte vi avrei chiesto anche solo una piccola somma. Chiamai Edoardo (Bucci, redattore del giornale, ndr), spiegandogli che ci dovevamo vedere per parlare di una cosa; gli proposi di vederci il giorno successivo alle 11, e lui mi rispose: “Eh no alle 11 non posso, a quell’ora sto a scuola”. Quell’episodio mi ha fatto riflettere: siete tutti giovanissimi, la maggior parte di voi va ancora a scuola, e quindi sticazzi siete bravissimi e vi do piena disponibilità! Come è nata la copertina? Abbiamo discusso a lungo se fare o meno una copertina legata al focus sulle elezioni, che era qualcosa che non volevo fare, quindi parlando un po’ abbiamo deciso di restituire un’immagine in cui non viene detto niente e si lascia a ognuno la propria interpretazione, che secondo me è la cosa migliore. All’inizio l’idea era di raffigurare in Piazza del Parlamento una classica situazione fantozziana: la partita di calcio tra scapoli e ammogliati - che è sempre stata usata come metafora per qualcosa che viene fatto a cazzo di cane; ma questo era troppo legato al tema e comunque molti non l’avrebbero compreso, perché è un immaginario forse più mio che vostro. Io non volevo comunicare qualcosa di preciso, volevo piuttosto trasmettere una sensazione. Quindi ho alzato lo sguardo sopra Montecitorio: le nuvole, il condor e un personaggio solitario.

dei 24 Grana, Introdub: “Lasso tutto e addivento ‘na pace / resta ‘o scuro che è mmeglio e ‘na luce / […] / perdo colore e perdo ‘e contuorne / lasso ‘a sustanza pe’ ddiventà ‘n’ombra”. Comunica qualcosa di torbido, nuvoloso, confuso. Come se quel fascio di luce che penetra il cielo grigio e denso annunciasse qualcosa che sta per succedere, anche se non si sa bene cosa. Poi è normale che si possa associare al tema: si parla di politica, si parla di elezioni. In ogni caso l’unica opzione è fermarti un momento a guardare quel cielo nuvoloso e pensare a ciò che potrebbe succedere. Infatti anche quell’unico personaggio, il roscio che voi utilizzate un po’ come elemento scomodo, alla fine non fa niente, sta seduto e guarda, mentre magari altre volte stava sempre facendo qualcosa.

di Julian Toso

E che sensazione ci hai voluto trasmettere? La copertina mi fa venire in mente le parole di una canzone 51


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La Leggenda di San Remo di Maria Marzano

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U

n giornalista, o comunque qualcuno che almeno una volta nella vita si è ritrovato a scrivere per passione, vocazione, o compito scolastico, ha come minimo in un’occasione sognato ad occhi aperti riguardo alle personalità note che avrebbe avuto il piacere, nonché l’onore, di intervistare: il mio chiodo fisso è sempre stata M¥SS KETA. Fin da quando ho sentito Milano Sushi & Coca ho avuto una sfrenatissima ammirazione per quella ragazza dal marcato accento meneghino e dai temi forti, tant’è che ogni volta che il suo tour la portava a Roma, ho sempre sperato in un rendez-vous. L’occasione mia e di Emma è arrivata questo gennaio e non appena abbiamo avuto l’ok per intervistarla ci siamo subito abbandonate all’euforia e all’ansia pervasiva. Arrivate

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davanti agli Spin Time Labs di Via Statilia ci siamo dovute far forza a vicenda, considerando il carico di emozione: oddio, entriamo o non entriamo? E se alla fine è una stronza? E se poi ci rimaniamo male? Fortuna ha voluto che in M¥SS KETA abbiamo trovato la nostra gemella mancante: spigliata, eccessiva ed incredibilmente gentile, siamo riuscite a discutere di temi importanti come di cazzate. È stato come parlare con un’amica con la quale c’è un grado spaventoso di intesa e con la quale le affinità elettive sono alle stelle. L’Angelo dall’occhiale da sera ci ha permesso di tracciare una panoramica esaustiva del suo percorso musicale, della sua infanzia esotica e della sua indole combattiva e scanzonata. Gli interrogativi che ci ha lasciato, tuttavia, sono molteplici: di che

segno zodiacale è? Come è stata la sua esperienza lavorativa alla Rovagnati? Chi può dirlo! Poche cose hanno contorni ben delineati per quanto riguarda questa personalità fuori dalle righe: l’innovazione da lei apportata al panorama musicale italiano, il magnetismo della sua figura, i suoi capelli biondissimi e le sue “tette d’assalto”, per citarla. Tutto il resto lo comunica attraverso ogni canzone: la sua cifra stilistica, oltre ad una connotazione estetica quasi preponderante, è l’uso smodato di riferimenti alla pop culture italiana degli anni ’80 in particolar modo, senza tuttavia disdegnare il trash contemporaneo, dal quale attinge a piene mani. M¥SS KETA riesce a stupire ogni volta senza mai risultare banale: negli ultimi giorni ha fatto uscire un nuovo singolo, UNA VITA IN CAPSLOCK, che si può senza problemi definire il suo “manifesto”. Il video è disturbante, il latex nero e i burqa fluo la fanno da padrone, la sua voce conturbante ed ipnotica descrive all’ascoltatore l’essenza stessa di M¥SS KETA: capslock, autostima a go go e la voglia di prendere a capocciate sul naso chiunque si metta tra la nostra eroina e i suoi obiettivi di vita. Iniziamo da quelle domande che sicuramente ti avranno fatto centinaia di volte: perché M¥SS KETA? Qual è la ragione della scelta del lettering e dello yen all’interno del tuo nome?

TERRA DEL SOL LEVANTE E IL LETTERING PERCHÈ NON CREDO DI POTERMI ESPRIMERE SE NON IN CAPSLOCK.

Come hai conosciuto le altre ragazze di Porta Venezia? E quanto è importante per te questa girl gang che ti accompagna ai live? LE HO CONOSCIUTE TUTTE IN VARIE OCCASIONI. LA PRADA L'HO CONOSCIUTA AD UNA SFILATA, LA MIUCCIA L'HO CONOSCIUTA AL PARCO, LA IBAN L'HO CONOSCIUTA AL BANCOMAT DI CORSO BUENOS AIRES, LA CHA CHA L'HO CONOSCIUTA ALL'ORATORIO MENTRE VENDEVA I DOLCI, E POI CI SONO LA BLANCA PARAISO, CHE HO CONOSCIUTO DURANTE UN PICCOLO VIAGGIO CHE HO FATTO NEL SUD DELLE AMERICHE, MENTRE LA COLETTE L’HO CONOSCIUTA IN SOGNO. LA MIA GIRL GANG È CERTAMENTE FONDAMENTALE PERCHÉ DI BASE C’È UNA PROFONDA AMICIZIA, ED OGNUNA SI È POI RITAGLIATA IL SUO PICCOLO RUOLO; SIAMO PARTITI TUTTI CON MOTEL FORLANINI E ADESSO SUPPORTIAMO IL PROGETTO M¥SS KETA.

Raccontaci la tua infanzia e la tua giornata tipo.

IN REALTÀ PERCHÈ LA MIA GEMELLA, CHE CONOSCERETE TUTTI, MYSS KITTIN, MI AVEVA RUBATO IL NOME E SONO DOVUTA ANDARE PER M¥SS KETA. LO YEN PERCHÉ ESSENDO NATA IN GIAPPONE HO UN LEGAME MOLTO PROFONDO, QUASI VISCERALE, CON LA

NELLA MIA INFANZIA HO SALTATO L'ASILO E SONO ANDATA DIRETTAMENTE ALLE ELEMENTARI PERCHÉ HO IMPARATO A LEGGERE A TRE ANNI E QUINDI NON HO FATTO LA PRIMINA MA LA TERZINA, APPUNTO. LA MATTINA INIZIAVO CON LA LETTURA DI QUALCHE CLASSICO DI DOSTOEVSKIJ E UN PO'

Scomodo

Scomodo

Febbraio 2018

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DI YOGA: DOVETE SAPERE CHE ALL'EPOCA VIVEVO IN INDIA, QUINDI FACEVO DEI CORSI SPIRITUALI UN PO' PARTICOLARI, MA COMUNQUE SI TRATTA DELLA NORMALITÀ PER LE RAGAZZE MODERNE. LA MIA È STATA UN’INFANZIA CANONICA.

Abbiamo notato con immenso piacere che in Courmayeur ad esempio, per fare un nome fra i tanti, ti riferisci esplicitamente sia come sonorità sia come immaginario al mondo dei cinepanettoni. Puoi dirci il tuo preferito? QUESTA E' DIFFICILE! (La M¥SS a questo punto si rivolge a Dario, un amico presente durante la nostra intervista ndr) DARIO, QUAL È IL CINEPANETTONE DI “SOLE WHISKY E SEI IN POLE POSITION”? NON MI RICORDO IL NUMERO MA È QUELLO LÀ! (Era Vacanze di Natale ’83 ndr).

Come scegli i tuoi outfit? Cosa ti guida: cuore o cervello? CAZZO, NESSUNO ME L'AVEVA MAI CHIESTO! PERÒ TI DIREI CUORE. QUANDO LE SCELTE SONO FATTE DAVVERO COL CUORE SONO FATTE ANCHE COL CERVELLO E NON È DETTO IL CONTRARIO, CREDO.

Quanto è importante il tuo corpo in quello che fai considerando che non mostri il viso? SICURAMENTE IL CORPO È MOLTO IMPORTANTE PER ME, DAL MOMENTO CHE INDOSSO UNA MASCHERA E GLI OCCHIALI, E QUINDI LA MIA COMUNICAZIONE FACCIALE È TOTALMENTE ANNULLATA. PERCIÒ L'UNICO MODO DI COMUNICARE CHE HO È PROPRIO QUELLO DELLA

MIMICA DEL CORPO. DIVENTA COMUNICAZIONE IL CORPO STESSO ANCHE PERCHÈ, NON AVENDO FORME PERFETTE, ED ESSENDO IL MIO UN CORPO NORMALE, RIUSCIREBBE A COMUNICARE MOLTISSIMO, ANCHE QUALORA NON MI MUOVESSI. MA IN REALTÀ QUALUNQUE CORPO COMUNICA QUALCOSA, SOPRATTUTTO SE SI STA SU DI UN PALCO.

Cos’è per te il Femminismo nel ventunesimo secolo? È un valore trasversale nel tessuto sociale umano? È UNA DOMANDA CHE MI PONGO FONDAMENTALMENTE TUTTI I GIORNI ED È MOLTO DIFFICILE LA RISPOSTA. PENSO ASSOLUTAMENTE CHE SIA DI VITALE IMPORTANZA, E DEL RESTO LO È SEMPRE STATO, ANCHE SE NON CE NE RENDEVAMO CONTO; IL FEMMINISMO NEL VENTUNESIMO SECOLO È ESSENZIALMENTE ESSERE SE STESSE COME PERSONE, CONTRO OGNI FORMA DI RUOLO IMPOSTO MA ANCHE, SE SI VUOLE, SAPER ATTINGERE DA RUOLI E CLICHÉ A PIENE MANI. LA DONNA NON DEVE ESSERE LA MADRE, LA FIGLIA, L’AMANTE. LA DONNA PUÒ E DEVE ESSERE QUELLO CHE VUOLE. COSÌ COME ANCHE OGNI UOMO! ANCHE L'UOMO

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DOVREBBE POTERSI LIBERARE DALLE CATENE DEL RUOLO DI MASCHIO ALFA DOMINANTE. LA VIA DEL FEMMINISMO È LA VIA PER LA LIBERAZIONE DAI RUOLI IMPOSTI, SIA PER L’UOMO CHE PER LA DONNA. PER ME IL FEMMINISMO È CONSIDERARE CHIUNQUE SULLA FACCIA DELLA TERRA COME UN ESSERE UMANO PIUTTOSTO CHE IDENTIFICARLO CON IL GENERE O I SUOI GUSTI SESSUALI... QUANDO ARRIVEREMO A CAPIRE QUESTO SAREMO A BUON PUNTO. SARÀ IL 2400 PERÒ SAREMO A BUON PUNTO.

Sicuramente avrai seguito la bufera generatasi attorno alla figura di Asia Argento, importantissima negli sviluppi del caso Weinstein. All’estero è stata prontamente difesa, mentre nel nostro Paese è venuta a crearsi una vera e propria “caccia all’uomo” nei suoi confronti. Perché secondo te, e perché proprio qua? IO OVVIAMENTE SUPPORTO ASIA AL 100% ED È UNA DELLE MIE EROINE PERSONALI. RISPONDENDO ALLA DOMANDA, PERCHÉ PURTROPPO IL VATICANO CE L'ABBIAMO QUI E LA RELIGIONE CATTOLICA HA ROVINATO TANTISSIMO LA NOSTRA MENTALITÀ ANCHE NELL’ASSEGNAZIONE

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DEI RUOLI DI DONNA E UOMO, OVVERO CIÒ CHE DOVREBBERO ESSERE PER LA SOCIETÀ, SECONDO ME. PERCHÉ UNA PERSONA CHE DICE “VABBÈ, TANTO È SOLO UNA PACCA SUL CULO” , CON TONO GIUSTIFICATORIO, PER ME È VERGOGNOSO. ESSERE DONNA IN QUESTO PAESE È MOLTO COMPLICATO: TU SALI SULL’AUTOBUS E TI SUCCEDONO DELLE COSE. VOGLIO DIRE, ANCHE SE SI PARLA DI UNO SGUARDO O UN FISCHIO È COMUNQUE QUALCOSA CHE ANDREBBE PUNITO, POICHÉ LEDE LA DIGNITÀ DI CHI LO SUBISCE. B I S O G N E R E B B E SEMPLICEMENTE ASCOLTARE, PERCHÉ LE PERSONE NON ESAGERANO, LA SITUAZIONE È DAVVERO COSÌ GRAVE. QUI È VERAMENTE UNA MERDA. E FINCHÉ NON CI SARÀ UN’EDUCAZIONE MASCHILE E SI CONTINUERÀ A CHIEDERE “MA COM'ERI VESTITA?” “MA ERI UBRIACA?” NON ANDREMO DA NESSUNA PARTE. CAZZO RAGA STO DIVENTANDO SERISSIMA: M¥SS KETA PER IL SOCIALE.

In riferimento a Kanye West che si presenterà alle elezioni del 2020, tu hai mai considerato una carriera in politica? CI STO PENSANDO SERIAMENTE, L'UNICO ESEMPIO PRIMA DI ME È CICCIOLINA. CON IL PARTITO DELL'AMORE IN REALTÀ PREDICAVA SOLO COSE BUONE. CI PENSO E VE LO DICO… MAGARI LO FACCIO CON VALENTINA NAPPI.

Come vedi il panorama musicale romano, oggi? BEH, STATE MESSI PARECCHIO BENE, DIREI CHE È UN PO'

ESPLOSIVO. IO SONO LEGATA FONDAMENTALMENTE ALLA CREW 126 E ALLA DARK POLO GANG, PER VICINANZA DI STILE E VICINANZA EMOTIVA. CREDO CHE ROMA IN QUESTO MOMENTO STIA MACINANDO MOLTO PIÙ DI MILANO.

MAGARI DA LÌ PUÒ PARTIRE QUALCOSA, CHE SI TRATTI DI UNA CATCHPHRASE O PIUTTOSTO DI UNA QUARTINA. SE POI L'ARGOMENTO È FORTE LA CANZONE SI INCENTRA INTERAMENTE SU QUELLO.

Come nascono i tuoi testi e come avviene la scelta di tutti i riferimenti che fai nei tuoi pezzi?

Abbiamo fatto caso a molta corrispondenza tra la base e i testi: ad esempio, in Xananas, il mood che hai voluto offrire all’ascoltatore è molto rilassato e disteso, pur mantenendo una ballabilità di fondo, ampiamente tutelata e valorizzata in tutta la tua prima fase di produzione musicale: ci viene subito in mente la tua hit più celebre, Milano Sushi & Coca.

NASCONO DALLA VITA QUOTIDIANA DI NOI RAGAZZE DI MOTEL [Forlanini ndr], IN GENERALE ALLE COSE CHE CI SUCCEDONO: MAGARI SI TRATTA DI SLOGAN FORTI COME “LO VOGLIO FARE” O “MILANO SUSHI E COCA”, DI BASE C’È SEMPRE IL FATTO CHE SONO COSE CHE NASCONO MOLTO NATURALMENTE, QUASI RAGAZZATE. MILANO SUSHI E COCA, IN PARTICOLARE, È NATA VERAMENTE DELIRANDO IN MANIERA CONSISTENTE, ERA SUPER AGOSTO, AGOSTO MEGA INOLTRATO. SUPER AGOSTO VUOL DIRE CHE FACEVA MOLTO CALDO. IN GENERALE TUTTO NASCE DA DELLE PRESSIONI APPARENTEMENTE PRIVE DI SENSO CHE, IN REALTÀ CELANO TUTTO UN MONDO DIETRO. AD ESEMPIO “BURQA DI GUCCI”: C'È TUTTO UN MICROCOSMO CHE VIENE APPROFONDITO NELLA CANZONE! IO SON SEMPRE A SEGNARMI LE COSE CHE CI VENGONO IN MENTE, PERCHE'

OLTRETUTTO XANANAS, DEVO DIRE LA VERITÀ, ERA IN FASE EMBRIONALE DA UN ANNO, PRIMA CHE LA FACESSIMO EFFETTIVAMENTE CON POPULOUS. DI INVARIATO È SICURAMENTE RIMASTO IL NOME: AVEVAMO GIÀ STABILITO CHE SI DOVESSE CHIAMARE COSÌ, SUCCESSIVAMENTE ABBIAMO SOLO RIMANEGGIATO IL SOGGETTO. DOPO, CON CARPACCIO GHIACCIATO, CI SIAMO MOSSI VERSO UN’ALTRA DIREZIONE: ABBIAMO CERCATO DI SEGUIRE LO STESSO MOOD, UNA SORTA DI FIL ROUGE CHE, NONOSTANTE LA VARIETÀ DI TEMI TRATTATI, SI È MANTENUTO PER TUTTO L’EP, RISPETTO INVECE AGLI ALTRI SINGOLI CHE ERANO UN MOOD, UN TESTO, UN MOOD, UN TESTO. DICIAMO CHE ABBIAMO CERCATO DI FARE UN'OPERAZIONE UN PO' PIÙ ALLARGATA PER ESPLORARE COSE NUOVE, PUR MANTENENDO L’IDEA DI

Scomodo

Scomodo

Noi, pensandoci, ti abbiamo vista come una sintesi tra Cardi B e Donatella Rettore, ti ci rivedi? MADONNA RAGA! MI FATE PIANGERE! BELLISSIMO, MAGARI FOSSE!

Febbraio 2018

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FONDO CHE OGNI CANZONE È UNA SORTA DI “GIOCHETTO” TRA ME E L’ASCOLTATORE: ALLA FINE CERCHIAMO SEMPRE DI DIVERTIRCI E FARE ROBE DIVERSE. ANCHE PER NOI E PER LA NOSTRA CRESCITA PERSONALE.

A questo punto ci siamo mosse verso l’analisi della tua figura, della tua personalità da palcoscenico: sei una che vive il lusso, ma non lo ostenta, perché fondamentalmente lo ruba. È una roba controcorrente, rispetto all’immaginario rap contemporaneo, che invece fa del lusso pagato attraverso i proprio sacrifici una sorta di bandiera da esibire con fierezza. Come ti è venuto in mente? MINCHIA, È VERO! OLTRETUTTO NON È CHE MI È VENUTO IN MENTE: È COSÌ! RAGAZZE, QUA C’È DA DIRE UNA COSA SOLA, E TENETELA BENE A MENTE: IL LUSSO NON È LUSSURIOSO, SE NON È LUSSO RUBATO. QUESTA È UNA MIA MASSIMA DI VITA CHE USO COME FARO PER MOTIVARMI E PRENDERE LE DECISIONI DI TUTTI I GIORNI. CI SONO LA MODA, LE SFILATE, LE COSE ESCLUSIVE, I PARTY E LE FOLLIE, E POI CI SONO IO. SOLO IL LUSSO CHE RUBO È IL LUSSO AUTENTICO CHE VIVO

APPIENO. IL LUSSO CHE RUBO È VERO LUSSO.

Nella tua evoluzione artistica abbiamo notato che man mano che si va avanti nel tempo, le tue canzoni diventano sempre più visual: sono immagini che vengono create dal nulla, come una sorta di cortometraggi. Come vedi questa tua tendenza? Come interpreti tutti i cambiamenti che hai attraversato? IN MANIERA MOLTO NATURALE SIAM PASSATI A TUTTO CIÒ CHE SONO ORA. PER QUANTO RIGUARDA LA PARTE MUSICALE AD OCCUPARCENE SIAMO IO E RIVA, IL MIO PRODUTTORE, E ALL’INIZIO CI MUOVEVAMO MOLTISSIMO SEGUENDO L’ISTINTO: MI VIENE IN MENTE, AD ESEMPIO, IL BEAT DI MILANO SUSHI & COCA PROPRIO DA DISCOTECA, QUELLA BECERA PERÒ. POI SIAMO ANDATI ALLA RICERCA DI TUTTI QUEI SUONI CHE CI PIACEVANO E ABBIAMO IMPARATO A DIVERTIRCI CON CIÒ CHE FACCIAMO. PER ME LA CRESCITA VERA STA NELL’OCULATEZZA CHE ABBIAMO INIZIATO AD AVERE NEL TROVARE TUTTE LE REFERENCES CHE POI USIAMO NEI PEZZI, NELLE SPINTE CHE STIAMO TENTANDO DI FAR CONVIVERE NEL NUOVO ALBUM, AD ESEMPIO. È SICURAMENTE MOLTO BELLO IL FATTO DI CREARE DELLE IMMAGINI NELLA MENTE DEL FRUITORE, PERCHÉ DEL RESTO M¥SS KETA È TANTO IMMAGINE: SE ASCOLTASSI SOLO LA MUSICA NON RIUSCIRESTI A COMPRENDERE APPIENO IL PERSONAGGIO, COME DEL RESTO SE VEDESSI SOLO ME NON CAPIRESTI CHE TIPO DI MUSICA FACCIO.

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È UN PUZZLE PERFETTO: LA PARTE ISTINTUALE È ASSOLUTAMENTE RIMASTA, MA ADESSO C’È MOLTA CURA AL DETTAGLIO.

UN’ENORME AGENZIA PUBBLICITARIA, QUINDI PER ME È MOLTO NATURALE PARLARE CON QUESTI TERMINI. SPERO SIA TUTTO CHIARO RAGA!

Perché la r in “Pisapiar” (cfr In gabbia)?

NASCERE UNA CANZONE COSÌ. CE LA SENTIVAMO TROPPO.

Ma il CV a Prada l’hai più mandato? GUARDA… NO! ADESSO ME LO DEVE MANDAR LEI, VOGLIO PROPRIO VEDERE!

PERCHÉ QUANDO L’HO CONOSCIUTO CREDEVO FOSSE INGLESE.

Dalla spiritual woman alla bad gyal Jah9 e Shenseea: la nuova femminilità nel Reggae e nella Dancehall

Culo o tette? TETTE, RAGA. DICIAMOLO!

I tuoi lo sanno che musica fai? Come hai conosciuto gli altri ragazzi di Motel Forlanini? BEH, OVVIAMENTE ALL’ASILO, IN INDIA.

Utilizzi tantissimi termini anglosassoni nei tuoi pezzi, con massicci riferimenti al mondo delle pr e della pubblicità, roba tipicamente da fighetti milanesi. Tu pensi di vivere immersa in questo ambiente o lo vedi da fuori come osservatrice esterna? ALLORA, VI DICO, HO LAVORATO ANCHE IN PUBBLICITÀ: ERANO GLI ANNI ’90, GLI ANNI DOPO GLI ANNI ’80. BEI TEMPI. IL MIO PERCORSO SI È STAGLIATO TRA LA MODA, LA PUBBLICITÀ E POI UNA BREVE PARENTESI ALLA ROVAGNATI, MA QUELLA È UN’ALTRA STORIA. NO, BEH, DEL RESTO AVENDOCI LAVORATO È UN AMBIENTE CHE SENTO MOLTO MIO, SEBBENE ADESSO MI STIA RENDENDO CONTO DI UNA DERIVA MOLTO SOCIAL DEL MONDO DELL’AGENZIA PUBBLICITARIA: I CREATIVI SI STANNO PORTANDO VIA TUTTO IL JET SET MILANESE. MILANO STA DIVENTANDO

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…INTENDI MADONNA MICHAEL JACKSON? SÌ, SANNO. E MI SPINGONO.

E LO

Che liceo hai fatto? Come andavi a scuola? ANDAVO A SCUOLA RIGOROSAMENTE IN MOTORINO E HO FATTO IL LICEO CLASSIC, RINOMATO PER I SUOI PIACERI PROIBITI, ANCHE SE MICA TANTO PROIBITI…

Come ti sono venute in mente le barre di Camalow? MAH, FONDAMENTALMENTE ERAVAMO IO E LE RAGAZZE DI PORTA VENEZIA QUANDO AD UN CERTO PUNTO ABBIAMO VISTO LA CLIP DEL GF VIP E ABBIAMO TIPO RISO PIÙ DI UNA GIORNATA INTERA, SENZA ANDARE A LETTO PROPRIO PER RIDERNE. NON RIUSCIVAMO A STACCARCI DA QUEL MOOD. IL CAMALOW È UN SENTIMENTO CHE TUTTI ABBIAMO PROVATO ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA. CI UNISCE TUTTI, È UN SENTIMENTO BELLISSIMO: È CIÒ CHE PROVI QUANDO SEI NELLA MERDA E TI RENDI CONTO DI POTER RIMEDIARE SOLO ATTRAVERSO UNA STRONZATA EPOCALE. DOVEVA

di Carolina Scimiterna e Emma Fragorzi

ASCOLTI CONSIGLIATI: UNA VITA IN CAPSLOCK 2 Milano Sushi & Coca 2 Courmayeur 2 Xananas 2 Burqa di Gucci 2 Le Faremo Sapere 2 In Gabbia 2 #fighecomeilpanico 2 Xananas 80 (Riva Rework)

Scomodo

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Con la complicità dei nuovi mezzi di condivisione, nella musica sta diventando sempre più importante il ruolo dell’immagine. A dirlo sono i colori e gli outfit esagerati, sono le coreografie di ballerini professionisti, sono i videoclip degli artisti che in tutto il mondo Scomodo

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vengono visualizzati da milioni di fan. E se l’impatto visivo riveste un ruolo centrale, l’artista deve lavorare su due fronti: da una parte l’aspetto musicale, dall’altro la cura della propria immagine: nomi, nomignoli, gadget, fisici curati … tutto è utile alla causa. L’artista in

questo modo fa emergere se stesso, ma allo stesso tempo diventa vittima della propria immagine, o peggio, dei modelli che si trova accanto. Nella Dancehall, per esempio, la figura centrale è contemporaneamente quella del sex symbol e del “bad man”; per le donne la questione è meno estrema, ma il modello di femminilità espresso è comunque forte, inflessibile, sovrano e provocatorio. A questo mondo si contrappone la musica Reggae, al momento in forte calo nella produzione musicale caraibica. A tenere alta la sua bandiera ci pensano tuttavia alcuni giovani cantanti, sia donne che uomini, che si fanno portavoce di messaggi spirituali molto elevati: in particolare la spiritualità della figura femminile è ancora più forte di quella dell’uomo, almeno per quel che riguarda gli artisti attuali. “A spiritual woman is the greatest threat to the Status Quo” Se in prima impressione Jah9 possa sembrare l’ennesima artista che suona un genere vecchio, senza offrire nulla di nuovo alla musica, un’analisi più attenta delle sue liriche vi farà cambiare idea. Il messaggio contenuto nella musica di Jah9 infatti è molto profondo, e non si ferma ai dogmi e ai valori contenuti nella tradizione rastafariana. La fede in Dio è espressa in ogni suo brano, e anche nel nome d’arte: Jah è Dio nella cultura locale, mentre il vero nome di Jah9 è Janine. Nata in una piccola città della Giamaica nel 1983, Janine si trasferisce ancora bambina a Kingston, la capitale. Cresciuta nella scena musicale 59


underground, oggi è un’artista di fama mondiale, con un recente tour in Nord America, varie visite in Europa e all’attivo due album: New Name (2013) e 9 (2016) In New Name è espressa la sua concezione di musica come mezzo per diffondere valori individuali e collettivi, come la cura del proprio spirito e la denuncia degli abusi di potere. La musica quindi non è fine a se stessa, ma un mezzo, è questa non è una novità per il Reggae. Se in “Gratitude” dichiara che la priorità è concentrare la meditazione in Dio, in “Preacher Man” Jah9 pone l’attenzione sul ruolo della religione nell’inviluppo di un popolo; rivolta al predicatore, canta: “religion is the tool of the oppressor, ‘cause they never plan to set the people free”. La musica Reggae è sempre stata molto religiosa: per alcuni cantanti addirittura è più importante l’aspetto religioso che quello artistico. Jah9 invece è più moderna e libera dai vincoli imposti, denuncia i crimini commessi dal Cristianesimo e soprattutto critica la religione come strumento di oppressione. Il suo è un messaggio di spiritualità e libertà che attacca il predicatore sull’incoerenza tra ciò che proclama la Domenica e le sue azioni. Con “9” si ritorna ad una dimensione più individuale, e sono date alcune possibili soluzioni alla crisi dei valori che vediamo intorno a noi. In “Humble Mi” si fa sentire l’insegnamento cristiano di umiltà e di invito a non essere schiavi dell’ambizione. In “Greatest threat to the status quo” Jah9 va oltre il Cristianesimo, sostenendo che la visione che 60

abbiamo del mondo è una semplice percezione soggettiva che non può spegnere la brama di Verità. Questo concetto appartiene più alle tradizioni politeiste precolombiane che a quella ebraico-cristiana, e rappresenta la vera spiritualità odierna, i cui valori sono: rifiuto di una religione come unica vera dottrina, fede incondizionata in Dio e nel creato, meditazione come via per la redenzione e il benessere. Quest’ultima canzone citata sintetizza il messaggio universale di Jah9, secondo cui una donna spirituale è la più grande minaccia allo status quo di una realtà in cui la fede è un valore sempre più in crisi. Shenseea, la giovanissima cantante giamaicana ultima promessa della Dancehall Chinsea Lee - in arte Shenseea - è probabilmente la più grande scoperta musicale di quest’ultimo anno per quel che riguarda la musica giamaicana. Nata nell’Ottobre del 1996 da una famiglia molto cristiana, a 3 anni si trasferisce dagli zii nella capitale Kingston, in cui si diploma e inizia a studiare turismo presso l’università. Il suo forte carattere si fa strada tra i dogmi e i vincoli della religione, sebbene la cantante abbia sottolineato di non aver mai rinnegato il proprio credo, come testimonia anche la croce tatuata tra i seni. Le sue doti canore, che fino ad allora non erano uscite dalla chiesa in cui era corista, conoscono alle superiori la Dancehall di Beenie Man, e prima dei vent’anni Shenseea ha già abbandonato gli studi, pubblicato il suo primo singolo, “Jiggle Jiggle”, ed è diventata mamma. In poco più di un anno

è arrivata a competere a livello di qualità e notorietà con i maggiori artisti giamaicani, complici un carattere determinato e una voce potente quanto intonata, molto versatile anche nel free style con basi Hip Hop. In “Nothing Dem Nuh Have Ova Me” Shenseea si confronta con le coetanee che vivono con un uomo al proprio fianco, cosa che non la riguarda né la interessa. L’artista caraibica, oltre ad essere una giovane madre, è anche la sola a crescere il proprio bambino, il che dà ancora più spessore alla sua persona. In “Reverse” si rivolge a chi desidera il suo amore senza misura, elevandosi poi a sex symbol quando canta: “Him a say mi have the bestest body inna di tropic , him a say mi pussy a him favourite topic”. Ed è proprio tramite questa figura di sex symbol che Shenseea si è fatta conoscere in tutto il mondo, grazie alla visibilità ottenuta dalla collaborazione con Vybz Kartel - il più influente artista Dancehall del momento - nel singolo “Loodi”. Nel videoclip, Vybz Kartel - poiché in carcere - compare solo su uno schermo o come murales, mentre la figura centrale è Shenseea. E’ lei la “loodi” (trad. “idolo”) della folla, che “attrae gli uomini al solo passare”: il cantante, da mero spettatore, si limita ad ammirare il suo stile, il suo modo di ballare, tanto da volerla filmare. Lei non si fa problemi a mostrare le sue curve e il suo twerk, ma scaccia chi prova ad approcciarla. Oltre alla collaborazione con Vybz Kartel, Shenseea ha condiviso il microfono con altri artisti importanti: primo fra tutti Sean Paul - vera istituzione della Dancehall, anche se negli

ultimi anni un po’ sotto tono - Tommy Lee Sparta - della stessa crew di Vybz Kartel - e altri artisti minori. Tra essi vale la pena citare il featuring con Nailah Blackman nel singolo “Badishh” in cui la figura della donna spirituale del Reggae è completamente ribaltata nella “bad gyal” della Dancehall. Recentemente - l’8 Febbraio - ha pubblicato il suo primo singolo Hip Hop, partendo da alcune strofe lanciate in freestyle sul suo profilo Instagram lo scorso Dicembre. La traccia, che si intitola “Solo”, rappresenta la disposizione di Shenseea a mutare e sperimentare. Mette in risalto la propria qualità musicale, e al tempo stesso mostra la vicinanza all’interno della Black Music tra la produzione Hip Hop e Dancehall. Shenseea ha una voce potente, un carattere energico, ed una vita davanti a sé per portare la figura della donna in primo piano nella Dancehall e, in generale, nella musica mondiale. Va quindi considerata già un’artista di punta e da tenere sott’occhio per le prossime registrazioni: nonostante la discreta quantità di singoli prodotti manca, al momento, un album.

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Febbraio 2018

di Francesco Tresalti Febbraio 2018

Tutti insieme appassionatamente Massa, folla e etnia nel cinema: una traduzione per exempla

Il cinema, fin dalle sue origini, ha avuto una funzione sociale e collettiva: i primi film dei fratelli Lumière rappresentavano grandi masse anonime nel loro dinamismo, specchio di un’epoca di innovazioni. Le potenzialità di questa funzione empatizzante e condizionante si sono presto staccate dal solo “voler stupire” per proiettarsi verso altri intenti, più o meno inquietanti. Il cinema coinvolge un gran numero di soggetti, in una o nell’altra prospettiva, porta in sé il potere che può avere l’agglomerato di migliaia di voci ideali riunite da poche menti sceneggiatrici e con esso, una grande opportunità o un grande “pericolo”.

La nascita di una nazione “La nascita di una nazione” di Griffith, del 1915: un film vomitevole, controverso, eppure il primo lungometraggio inteso in senso esclusivamente narrativo. Da una parte riesuma lo stupore dei Lumière; in questo caso dovuto alle capacità tecniche e al budget messo a disposizione per le maestose scene di battaglia; mentre dall’altra c’è la scabrosa rappresentazione xenofoba della comunità nera e l’eroizzazione sconsiderata del Ku Klux Klan. Nonostante sia datato, “La nascita di una nazione” è un film emblematico se si parla di rappresentazione di una 61


comunità sul grande schermo. Prima di tutto, perché è la dimostrazione di quanta rabbia possa il cinema innescare in persone predisposte al condizionamento (dopo la proiezione, in molti cinema i neri presenti in sala vennero malmenati) e poi perché è uno dei primi casi cinematografici ad essere stato oggetto di rettifica. La pellicola fece tanto scandalo, infatti, che Griffith girò appena un anno dopo “Intolerance”, un film sostanzialmente apologetico che condanna ogni forma di violenza e intolleranza nel tempo. L’influenza de “La nascita di una nazione” e la rappresentazione di un’intera comunità come “bisognosa” di padroni non venne totalmente superata fino agli anni ‘60. Oltre ai danni provocati al tempo di ascesa di registi come Burnette Parks, che lavoreranno sulla comunità e sullo scardinamento degli stereotipi hollywoodiani, film come quello di Griffith hanno parte integrante nel fatto che l’UCLA (Università della California, Los Angeles) nonostante la sua interfaccia liberista, non mostrò film girati da neri fino a quando Elyseo Taylor non divenne il primo insegnante di colore del dipartimento (stiamo parlando di 60 anni dopo l’uscita del film) e ricordò ai colleghi l’esistenza di un certo Ousmane Sembene. IL CINEMA DELLA FOLLA Sicuramente meno negativi sono quei film che cominciano ad avvertire la dimensione collettiva come un modo per comunicare un desiderio comune e che rappresentano l’emergere della città come insieme di cittadini e visioni di insieme. 62

Una delle pellicole più importanti da questo punto di vista è sicuramente la distopia futuristica di “Metropolis” di Fritz Lang. Come anche “La Folla” di King Vidor, il più importante film con sfondo sociale della fine degli anni ‘20, primo contenitore dell’immagine ormai archetipica dell’ufficio con tutte le scrivanie uguali, a comunicare la passività lavorativa di una comunità. Scena che verrà poi citata anche da Orson Welles, regista di “Quarto Potere” : una pellicola in cui la comunità subisce le azioni compiute in vita dal protagonista in maniera esterna alla trama, ma la cui curiosità è la forza motrice stessa di tutto il lungometraggio. Questi film sono globali e universali, rappresentano una folla comprensiva del generale. IL CINEMA ETNICO Ma il cinema è anche strumento di conoscenza del mondo lontano, irraggiungibile, di una cultura a noi estranea. L’Europa e l’America negli anni ‘50 non conoscevano bene neppure i loro vicini, non è difficile immaginare che dalle terre lontane non arrivavano che stereotipi e visioni semplicistiche. Questo fino al 1955, anno di uscita de “Il lamento sul sentiero” di Satyajit Ray. Era la prima volta che veniva mostrato un vero villaggio indiano sul grande schermo, una delle prime in cui la comunità era intesa come un intero paese. Il film stupì così tanto da rimanere per sei mesi in programmazione a New York. Ray riesce a dare quel sentore di tradizione non univoco, trasmette ogni sfumatura, che sia anche solo desiderativa: come la voglia di modernizzazione per un paese che si è sentito lasciato

fuori. Nonostante sia decisamente più curato a livello visivo, il film di Ray presenta analogie con altri tipi di rappresentazione realistica di una comunità. E’ il caso, per esempio, di “Rio, 40 gradi” di Nelson Pereira dos Santos, sempre del ‘55 e di “I figli della violenza” di Luis Bunuel, del ‘50. Entrambi i film sono ambientati in strada e subiscono evidenti influenze neorealiste. Nel caso di Dos Santos, il percorso è realizzato con tecniche avanzate, mentre nel caso di Bunuel con pellicole ad alto contrasto, a Messico City, nel corso di un mese. Bunuel diventa poi più che “etnico”: non si accontenta di rappresentare ma sente anche l’impellente bisogno di deridere la religione e la cultura che sta rappresentando, incarnando in realtà in qualche modo lo spirito del tempo in relazione ad essa. Non si limita a rappresentare le immagini, ma rappresenta anche lo spettatore e i suoi morbosi feticismi. Un esempio tutto nostro di cinema etnico è riconoscibile sicuramente nella filmografia dei fratelli Taviani, che si ritrovano spessissimo a raccontare la storia di un popolo attraverso storia, tradizione e novelle novecentesche, dando una dimensione di empatia collettiva come anche di sacralità agraria e di legame con il passato, storico o circoscritto alla propria ereditarietà familiare. L’etnia dei Taviani è, prima di ogni altra cosa, cultura e tradizione.

emblematico è “Roma città aperta” di Rossellini, che non ha bisogno di presentazioni. Padre del filone, doveva essere un documentario su un prete a Roma durante la II guerra mondiale invece si trasforma in corso d’opera in un ritratto della città nella sua lotta contro il nazismo e il fascismo. L’utilizzo del 50mm, la messa a fuoco imperfetta, non sono che lo specchio visivo di un bisogno: quello di una rappresentazione collettiva. E’ un cinema che nasce dalla necessità. Come trova la sua genesi in essa, seppur diversissimo, il cinema di Kusturica, in parte etnico e in parte bellico, legato alla vivacità e al carattere tragicomico di una popolazione. E’ un realismo, quello sonorizzato da Bregovic, che si concretizza nell’espressione più profonda di una cultura dai tratti surrealisti. La guerra dimenticata di un paese che non esiste più, il bisogno di mostrare nel momento in cui ciò che viene mostrato da ogni emittente televisiva viene ignorato perfino da chi si era proclamato protettore. In “Underground” è rappresentato lo straniamento dalla distruzione della propria comunità che viene ricreata in un seminterrato tra la bugia e la promessa di un’eternità da vincitori di una guerra che non ha e che finisce, come il film di Kusturica, tra le fiamme degli illusionisti che si ritrovano a dover affrontare il popolo che avevano rinchiuso in una scatola di rievocazione e attesa.

IL CINEMA POST BELLICO Un altro tipo di rappresentazione di una comunità, in questo caso martoriata, è il cosiddetto “Cinema delle rovine”. L’esempio

Oggi Cosa è rimasto di tutto ciò? Il cinema xenofobo non ha più le facoltà di essere esplicitamente offensivo e degradante; nelle tradizioni ci si riconosce ormai

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Febbraio 2018

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in pochi; il nazionalismo è immediatamente razzismo a meno che non sia edulcorato e giustificato da un dramma esistenziale. Il cinema LGBT, punta di diamante della rivalsa e della rivoluzione, è diventato cinema di genere: Wikipedia, nonostante la sua conoscenza parziale e frazionata, segnala 718 pellicole, riconoscibili addirittura in due sottogeneri: il dramma individuale e quello collettivo. E per quanti film d’autore possa vantare la filmografia, in relazione al numero rimangono troppo pochi, la loro valenza sociale e politica svanita tra Grand Prixes e statuette. Se parliamo poi di rappresentanza etnica e di drammi a sfondo sociale, basta riferirsi a “Sono tornato” di Miniero. Miniero è lo stesso regista di “Benvenuti al nord” e “Benvenuti al sud”, denominato “l’uomo dei remake” in quanto allergico alle sceneggiature originali. “Sono tornato” infatti, che si presenta da trailer e manifesti come film impegnato nella sua comicità e quasi tragico nel rappresentare una situazione attuale nel suo neofascismo, oltre che il rapporto di un’intera comunità e di un’intera popolazione con il suo passato, è il remake di “Lui è tornato”, film tedesco sul ritorno di Hitler in Germania. E neanche troppo rielaborato: stessi discorsi, stesso schema narrativo, stesso raffronto con chi ricorda, reazioni contrastanti della gente al ritorno di “Lui” o “Io, che sia. Mette inquietudine, in questi giorni, attraversare Piazza Venezia trovandosi davanti, ad affacciare quasi su via dei Fori Imperiali, il manifesto enorme

del film. Come mette inquietudine che un dramma collettivo, quello del neofascismo, debba essere rappresentato da un remake, il cui co-protagonista è un’esca commerciale per giovani. L’ambiguità sfrontata della pubblicità, l’approccio alla questione, le finalità: pare una sconfitta non solo per il panorama cinematografico sociale, non solo uno sfregio ai film nostrani che di fascismo e nazismo parlavano sul serio, dall’interno, in maniera viscerale; ma anche per chi, senza dover appesantirsi in contrasto alla leggerezza di certe pellicole, riesce e vuole capire la complessità di una storia nazionale che ha lasciato i segni in tutto ciò che noi, Romani, ci vediamo attorno, spesso senza capirlo o conoscerlo. La dimensione prettamente collettiva del cinema è andata persa dagli anni ‘70, quella prevalentemente collettiva, invece, è stata distrutta dall’avvento di Internet. Così come è quasi solo “la nicchia” a vedere i film in una dimensione collettiva, sono solo “di nicchia” i film che parlano di collettività in determinati termini. Tutto il resto, tremendamente e invisibilmente, è remake o solo genere.

di Costanza Fusco 63


Clint Eastwood e la "pussy generation" verso il tramonto dell'ultimo grande del cinema del classico

L’influenza che ha la figura dell’eroe nella storia del cinema americano è fondamentale quanto quella dell’epica greca. Il cinema statunitense si è sempre nutrito di figure esemplari, non sempre eroe nel senso classico del termine, ma di personaggi dalla statura morale ineccepibile, sempre pronti a “fare la cosa giusta”. Possiamo pensare a dei classici come Mr Smith va a Washington. Clint Eastwood è un autore affezionato all’idea di eroe, afferma che fin da bambino veniva affascinato dai vari Superman e Batman, ma che ciò che lo colpiva di più erano le storie della gente comune, dei poliziotti, dei pompieri. E questo sostanzialmente c’è alla base dei suoi ultimi tre film, in cui la figura dell’eroe risulta alquanto centrale. E soprattutto eroi che prima di tutto sono 64

persone qualunque, che grazie alla devozione in quello che fanno quotidianamente riescono a compiere imprese eccezionali. Forse gli eroi per Clint Eastwood sono ancora la speranza in quella che lui ha definito in un’intervista durante le elezioni, “the pussygeneration”, generazione di fighetti e leccaculo che stanno sempre attenti a quello che dicono per paura di dire la verità, lodando Trump per la sua attitudine a non avere peli sulla lingua. La “trilogia”, se cosìvogliamo definirla, con una certa attenzione alla memoria di Leone, insieme a Don Siegel maestro di Eastwood, segue i percorsi, seppur brevi, che hanno portato i personaggi dall’essere uomini comuni a eroi. American Sniper, la storia del più grande Clint Eastwood e il suo rapporto con la “pussy generation”.

L’influenza che ha la figura dell’eroe nella storia del cinema americano è fondamentale quanto quella dell’epica greca. Il cinema statunitense si è sempre nutrito di figure esemplari, non sempre eroe nel senso classico del termine, ma di personaggi dalla statura morale ineccepibile, sempre pronti a “fare la cosa giusta”. Possiamo pensare a dei classici come Mr Smith va a Washington. Clint Eastwood è un autore affezionato all’idea di eroe, afferma che fin da bambino veniva affascinato dai vari Superman e Batman, ma che ciò che lo colpiva di più erano le storie della gente comune, dei poliziotti, dei pompieri. E questo sostanzialmente c’è alla base dei suoi ultimi tre film, in cui la figura dell’eroe risulta alquanto centrale. E soprattutto eroi che prima di tutto sono persone qualunque, che grazie alla devozione in quello che fanno quotidianamente riescono a compiere imprese eccezionali. Forse gli eroi per Clint Eastwood sono ancora la speranza in quella che lui ha definito in un’intervista durante le elezioni, “the pussygeneration”, generazione di fighetti e leccaculo che stanno sempre attenti a quello che dicono per paura di dire la verità, lodando Trump per la sua attitudine a non avere peli sulla lingua. La “trilogia”, se cosìvogliamo definirla, con una certa attenzione alla memoria di Leone, insieme a Don Siegel maestro di Eastwood, segue i percorsi, seppur brevi, che hanno portato i personaggi dall’essere uomini comuni a eroi. American Sniper, la storia del più grande cecchino della storia bellica americana, soprannominato dai commilitoni “The Legend” e dai fondamentalisti islamici “il

Satana di Ramadi”, che per molti critici è un passo indietro rispetto a opere antiguerrafondaie come Letters from Iwo Jima, era uno strano prodotto che viaggiava tra il celebrativo e il riflessivo o il polemico, che ha diviso parecchio e in patria si è preso diverso critiche, soprattutto dall’immancabile Michael Moore, a cui tra l’altro Eastwood aveva promesso di sparare in mezzo agli occhi se fosse venuto a intervistarlo per Bowling a Colombine (documentario di Moore sull’abuso delle armi in America). Sully racconta la storia del pilota di linea Chesley “Sully” Sullenberg, che la mattina del 15 Gennaio 2009 decolla dall’aereoporto LaGuardia di New York e va ad impattare contro uno stormo di uccelli, perdendo entrambi i motori e rischiando di andare a schiantarsi contro i grattacieli di Manhattan. Il pilota riesce a compiere un ammaraggio sulle acque del Fiume Hudson salvando la vita ai 155 passeggeri sull’aereo. In seguito viene posto sotto indagine dall’ente dell’aereonautica mentre l’opinione pubblica lo celebra. Il film è il processo interno che si scaturisce in Sully, che non è ancora del tutto convinto di essere un eroe. Ore 15:17 Attacco al treno è una storia ancora più minimale, la storia di tre amici, che fin dall’infanzia condividono le angherie dei compagni e le punizioni scolastiche, e che poi, una volta cresciuti, due di loro divenuti Navy Seals, si riuniscono per fare un viaggio in treno per l’Europa. Sul treno Amsterdam-Parigi un uomo armato di kalashnikov è nascosto nel bagno. I tre insieme ad un connazionale lo disarmano e salvano la vita a quest’ultimo

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Febbraio 2018

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ferito da un colpo di pistola del terrorista. Il fulcro del film si concentra lì, un evento della durata massima di 5 minuti che cambia le loro vite. Il film è interpretato dai veri eroi della storia. Ne esce fuori una sobria e misurata ricostruzione che riesce a celebrare l’eroismo dei suoi personaggi senza troppi clamori, con i temi cari al regista, con la presenza spiccata della religione. Questa sua nuova tendenza, non in linea con l’andamento del cinema mainstream americano, ma quasi colto da uno spirito indagatore giornalistico, cerca di raccontare in modo asciutto e conciso piccole pillole di eroismo, storie di cronaca da cui sono scaturiti best sellers. Eastwood sembra passato da una visione del mondo pessimista ad un barlume di speranza, che ripone in questo tipo di storie, in quegli eroi in cui ha sempre creduto. La trilogia, per quanto presenti dal punto di vista prettamente tecnico le qualità registiche note a tutti di Eastwood, dal punto di vista tematico è un passo indietro rispetto a quel cinema che nella messa in scena rispettava la tradizione statunitense nel modo di fare i film, ma che nel contenuto andava contro tutto la retorica hollywoodiana e i suoi principi morali, tralasciando quello che è stata la New Hollywood e tutte le tendenze degli ultimi trent’anni, ma considerando che Eastwood operava in quella Hollywood dei sani principi, a partire dal primo serial che lo ha reso famoso, Rawhide. Fece un film che parlava apertamente di eutanasia, Million Dollar Baby, o ancora nel ’93 fece Gli Spietati, ultimo grande classico western della storia, in cui racconta quanto la violenza sanguinaria

sia alla radice della nascita e sviluppo geografico della sua patria, in controtendenza ad una visione del cowboy bonacciona e superomistica. Definendosi tuttavia spesso come un autore politicamente scorretto e sfrontato, Eastwood sembra non conferire più alle sue opere la forza di sbattere in faccia lati brutali della società e i ritratti delle umanità più disperate, lasciando intravedere di questa caratteristica qualche sprazzo in American Sniper. Il fascino della figura eastwoodiana derivava proprio dal suo essere uomo di “destra”, definito addirittura fascista tempo addietro dalla nostra stampa, ma fare film di “sinistra”, conservatore e aperto a raccontare gli ultimi più che i primi. All’interno dell’establishment cinematografico americano rappresentava una voce unica nel raccontare con una umanità incredibile storie non facilmente digeribili. La voce veniva da un uomo cresciuto in mezzo alle galline, che aveva trovato una sua sensibilità artistica all’interno di un cinema non indipendente ma prodotto da delle major. Ora apparentemente sopita, tramontata in uno sguardo leggero e fuggevole dalle cose belle che sono rimaste nel “suo” mondo.

di Cosimo Maj 65


La cultura dell’antieroe Crimine e cinema, tra fiction e realtà

“Gomorra mette la guerra in testa alla gente”. Il ragazzino di 11 anni parla davanti alle telecamere di Piazza Pulita. Ha un coltello in tasca e i suoi coetanei dei Quartieri Spagnoli lo vogliono ammazzare, lui e tutti gli amici suoi. Sangue Blu è il suo personaggio preferito della serie e ne spiega le ragioni. “E’ mio cugino – dice – il personaggio è ispirato a lui. Ma non posso dire chi è, l’hanno ucciso.” Mentre nel libro di Roberto Saviano – e soprattutto nel film per il cinema girato da 66

Matteo Garrone - alcuni piccoli delinquenti venivano attratti dalla figura di Tony Montana di Scarface, le nuove leve pensano proprio ai protagonisti della serie Gomorra. La Napoli delle “baby gang” è un mondo particolare: amare il personaggio di un camorrista vuol dire ispirarsi a lui nella vita quotidiana. Ma anche in situazioni meno estreme chi guarda Scarface o Il Padrino non può far altro che subire il fascino dei loro protagonisti. Perché?

La risposta è semplice: guardiamo i personaggi e non le figure reali a cui sono ispirati. In una sceneggiatura è inevitabile che venga a galla il profilo psicologico del personaggio, caratteristica che distingue un racconto, costruito per intrattenere il pubblico, da un documentario il cui scopo principale è di informare. Attraverso una forte caratterizzazione psicologica lo spettatore inizia a “conoscere” l’anti-eroe, i suoi vizi e le sue paure, sviluppando un’empatia che lo porta ad amare il protagonista del film e a prenderne le parti o quantomeno a comprenderne le ragioni, anche se torbide e spietate. Conosciuto un personaggio, infatti, seppur consapevoli che è un assassino criminale, iniziamo a percepirlo come un uomo qualsiasi, simile a noi. Ci chiediamo: come agirei se mi trovassi nella stessa situazione che sto vedendo sullo schermo? E ci convinciamo che probabilmente avremmo agito allo stesso modo. Potenza suggestiva del cinema e di ogni narrazione romanzesca della realtà. Peccato che spesso il lato umano e sentimentale di questi “geni del male” sia solamente il frutto dell’immaginazione di sceneggiatori e registi. “Mio padre era molto più crudele del Pablo Escobar di Netflix”, ha spiegato Juan Pablo Escobar, che alla morte di suo padre aveva 16 anni, in un’intervista al quotidiano spagnolo El Paìs. “Ha sottomesso un paese con il terrore. Quando guardavamo la tv, mi diceva: quella bomba l’ho messa io”. La figura di Pablo Escobar descritta dal figlio è decisamente più spietata di quella che ci viene raccontata dalla casa di distribuzione americana. Non

c’è da stupirsi però: il pubblico non riuscirebbe a digerire delle immagini così crude come quelle del vero mondo della criminalità, quindi c’è bisogno di romanzarle e addolcirle con un po’ di sentimenti di lealtà, amore e martirio, valori che nella finzione scenica del mondo criminale vengono portati all’esasperazione.

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“Mio padre era molto più crudele del Pablo Escobar di Netflix” Fuori dallo schermo, invece, questi valori non sono sempre rispettati. E la vita di una delle famiglie più ricche della Colombia si mostra in realtà molto meno sfarzosa e piacevole di quella che vediamo su Narcos. “Non è vero che nei periodi di fuga vivevamo nel lusso” ha ricordato Escobar junior. “Vivevamo nel terrore, e al contrario di quanto si vede nella serie, non eravamo circondati da scagnozzi, eravamo soli. Papà ci faceva viaggiare con gli occhi bendati, così se ci avessero preso e torturato non avremmo saputo dire dove fosse.” Il fatto che la vita degli Escobar non fosse così lussuosa come ci viene raccontata non è affatto strano. L’idea del boss criminale che si gode la vita è ormai uno stereotipo, che viene assecondato sia perché piace al pubblico sia perché è addirittura incoraggiato dai veri capimafia e narcotrafficanti. La realtà in questo caso è molto più deludente: per la Febbraio 2018

maggior parte della loro vita, i signori della droga e i boss delle organizzazioni criminali in generale sono costretti a scappare continuamente, a nascondersi e spesso a vivere lontani dalla propria famiglia, mangiando cibi scadenti e circondati da gente pronta a tradirli in cambio di denaro. Paradossalmente la vita di un boss è più simile a quella che vediamo nella commedia del 1991 di Roberto Benigni Johnny Stecchino che, pentito, è costretto a vivere nel buio di uno scantinato, fra un tavolo da pingpong e cianfrusaglie varie. E’ evidente che il mondo criminale abbia tutto l’interesse ad alimentare lo stereotipo del lusso derivante dalla malavita e di essere mitizzati dal mondo del cinema. I contatti fra l’universo del crimine e quello di Hollywood sono la conferma dell’esistenza di questi interessi. Nel 1932, Al Capone mandò alcuni suoi uomini a controllare le riprese dello Scarface di Howard Hawks, film ispirato alla vita del mafioso italoamericano e del quale Brian de Palma mezzo secolo dopo farà il famoso remake con Al Pacino. Gli scagnozzi abbandonarono il set solo quando gli sceneggiatori, mentendo, dissero che non c’era nulla di reale, ma solo pura fiction. El Chapo, re dei narcos messicani, nell’autunno 2015 incontra segretamente l’attore Sean Penn mentre è ricercato dalle autorità sia messicane che americane, per discutere di un film. Durante l’intervista il messicano si vanta così: “Fornisco più eroina, metanfetamina, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo. Possiedo un esercito di sottomarini, aeroplani, camion e barche”.

Tutto questo mostra proprio come i grandi criminali vogliano essere mitizzati e ammirati.

Un film capolavoro come Scarface di De Palma, dove è difficile non identificarsi con Tony Montana, sicuramente raggiunge questo scopo.

Tutto questo mostra proprio come i grandi criminali vogliano essere mitizzati e ammirati. Un’esaltazione tale ovviamente ha delle ripercussioni: le nuove leve della piccola criminalità vengono ispirate e imitano le figure degli antieroi del grande e del piccolo schermo. Come racconta Roberto Saviano (anche lui finito al centro di molte polemiche dopo il boom della serie Gomorra, accusata di enfatizzare comportamenti violenti) a Casal di Principe due killer minorenni prima di sparare recitavano una delle battute più famose del cinema, pronunciata da Jules Winnfield in Pulp Fiction: 67


“Ezechiele 25,17. Il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte dall'iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi". Pietro Grasso, magistrato palermitano antimafia, invece racconta, in un’intervista al giornale siciliano Malgrado Tutto, di alcuni boss mafiosi che decisero di uccidere un loro avversario in una corsia di ospedale dopo aver visto il film “Il Padrino”, dove c’era un agguato con killer travestiti da medici.

I gangster movie sono un genere di film nati insieme al cinema stesso. Molti dei classici del grande schermo raccontano proprio il mondo malavitoso e i suoi protagonisti. L’importanza di questa categoria cinematografica però ha sempre rappresentato un problema morale sia, come abbiamo già visto, per lo spettatore, sia per chi sta dietro la macchina da presa:

Le polemiche su questo argomento sono e saranno sempre tante. 68

si può raccontare il crimine, o si finisce inevitabilmente

per esaltarlo agli occhi dello spettatore? Le polemiche su questo argomento sono e saranno sempre tante. In Italia per esempio fu molto contestata la serie televisiva di Romanzo Criminale, ispirata all’omonimo libro di Giancarlo de Cataldo sulla banda della Magliana, dove secondo alcuni gli attori erano troppo belli ed eleganti per non dare un fascino alla figura del bandito. Ovviamente i pareri sono contrastanti. Scrittori, sceneggiatori e registi rispondono alla questione in maniera diversa. “Vuoi o non vuoi, il romanzo finisce col nobilitare anche i personaggi più indegni”, sostiene lo scrittore Andrea Camilleri, spiegando come mai nei suoi libri non ci siano figure particolarmente importanti di mafiosi. E’ ovvio che Enzo Monteleone e Alexis Sweet, registi de Il capo dei capi, serie tv che racconta la vita di Totò Riina, non la pensavano allo stesso modo: tanto che fra gli sceneggiatori hanno voluto anche i giornalisti Attilio Bolzoni e Claudio Fava (figlio di Pippo, ucciso nel 1984 da Cosa Nostra), entrambi di dichiarata fede antimafiosa.

E’ evidente che non si può considerare tutto il cinema sul mondo criminale come un incoraggiamento a farne parte poiché sarebbe insensato e impensabile. Si può dire però che in un ambiente già propenso e vicino all’universo malavitoso, tutto questo non aiuta. La soluzione ovviamente non è non parlare della storia di Al Capone, di El Chapo o di qualsiasi altro re del crimine, anzi. Citando nuovamente il figlio di Escobar, “certe storie vanno trattate con responsabilità, perché stanno creando l’idea che essere un narcotrafficante è cool”. Forse basterebbe attenersi di più alla realtà, che spesso non ha bisogno della fantasia, perché quando vedi al cinema i cartelli messicani che scuoiano i loro nemici, usano le teste decapitate delle loro vittime come palloni e ci giocano a calcio, magari non è più così cool.

di Francesco Paolo Savatteri Scomodo

Febbraio 2018

Il problema terminologico del cinema d’artista la distribuzione narrativa delle immagini in movimento

Per molto tempo si è cercato di dare una definizione di cinema. In diverse occasioni queste definizioni partivano dalla componente fisica, fino a poco tempo fa la pellicola. Ma il cinema non è mai stato solo una pellicola, e tantomeno una sala buia. Il cinema è stato su pellicola, l’abbiamo esperito all’interno di sale buie. Oggi le cose sono cambiate molto, ma il cinema continua a far parte della nostra quotidianità. Ha cambiato supporto e luogo, ma la sua natura, quella di essere un raccontare storie attraverso immagini in movimento, è immateriale ed eterna come la letteratura. Si tratta di tener conto di un quadro più ampio, nel quale la tecnologia non è l’unico elemento determinante. In questo quadro emerge con nettezza il fatto che un medium sia un modo di vedere, di sentire, di riflettere e di reagire e che non sia legato necessariamente Scomodo

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a una singola “macchina”. È il caso appunto del cinema: nato come invenzione tecnica, si è ben presto identificato in un particolare modo di rapportarsi al mondo attraverso le immagini in movimento. Il film è un modo di vedere, e sebbene riempire col concetto di esperienza il termine medium possa sembrare un poco forzato, il ragionamento funziona perfettamente nel discorso della videoarte in relazione al “cinema d’arte”. Fa riflettere il modo in cui si è sviluppata la terminologia nella storia, al sopraggiungere di un cambio di strumenti, il “cinema d’arte” è diventato “videoarte”, ma il discorso non è così semplice: sotto l’etichetta di videoarte si nasconde in realtà molta - più in generale - arte elettronica, la nebulosità che avvolge la nascita del termine rende difficile una trattazione accurata. Questo perché il termine si è mosso, nel tempo, con grande autonomia, alimentato dal mercato e dalla pubblicità.

La nascita di un fenomeno così particolare, variegato e difficilmente classificabile è da recuperare in un ambiente, più che in un personaggio, avendo come promotori artisti che usavano in maniera creativa la tecnologia elettronica. Difatti, la rivoluzione della videoarte è l’avvicinamento alla tecnica che è anche un avvicinamento alla forma (il video), la quale cerca di svincolarsi dal dialogo storico con il contenuto e la valenza espressiva. Sembra che l’attenzione non sia stata posta principalmente sul linguaggio - linguaggio di un nuovo mezzo per produrre immagini in movimento - ma che tutto il movimento artistico, su entrambe le sponde dell’Oceano (da Fluxus, a Cage, Paik, Viola, il Living Theatre, la body art, l’arte cinetica e programmata, le esperienze italiane della Rai e di Fontana) abbia concentrato i propri sforzi sul nuovo rapporto instaurato con l’arte stessa e con i nuovi mezzi, in particolare i media elettronici e il sistema di condivisione (anti)televisivo. E sebbene l’accostamento delle due matrici arte/video funzioni come catalizzatore dell’attenzione sul cambiamento del pensiero dell’arte nei confronti della tecnica, il neologismo risulta scorretto, non si possono scambiare o confondere le arti elettroniche con la videoarte. Un’opera in cui è presente un video potrebbe sembrare necessariamente elettronica; eppure un video trasmesso con un proiettore meccanico non ha nulla di elettronico. Poco sensato è dunque considerare qualsiasi opera elettronica all’interno dell’insieme con l’etichetta di “video”. Con questi presupposti l’opinione a cui si può giungere 69


è che esistano degli aspetti più propriamente legati alla radice etimologica del termine ed altri meno: nel secondo caso si tratta di quelle caratteristiche derivate per osmosi dall’ambiente, dalla storia, dalla critica, quei riferimenti vaghi nel definire la nuova tecnica ma “ottimali” per lo studio della corrente artistica. Così sono le associazioni tra arte video e arte elettronica. Nel senso più stretto, la videoarte dovrebbe etimologicamente essere legata alla produzione artistica cominciata a metà del secolo scorso - con tecnologia videotelevisiva. Ma cosa produce la tecnologia video-televisiva? Nient’altro che immagini in movimento e ne consegue che la videoarte sia in qualche modo quella produzione artistica che utilizza le immagini in movimento. Tale affermazione la mette in diretto contatto per non dire che la inserisce concettualmente all’interno - del cinema. Svincolando la possibilità di produrre immagini in movimento dalla tecnica utilizzata sembra particolarmente evidente il legame tra le sperimentazioni di un certo cinema astratto, non commerciale o d’intrattenimento, spesso non narrativo, e la produzione videoartistica della seconda metà del Novecento. La cesura fra il cinema delle avanguardie storiche sperimentale, indipendente, underground - e poi la videoarte, non è così netta. Rimane il problema di come chiamare questo soprainsieme artistico delle immagini in movimento: “cinema”, sarebbe la scelta prima, ma vi sono una serie di ragioni per cui non è più possibile utilizzare questo termine. Jean Mitry in “Storia 70

del cinema sperimentale” ci tiene particolarmente a precisare che tutto il cinema «dal 1910 al 1920 che ha contribuito alla scoperta dei suoi mezzi può considerarsi sperimentale», eppure in pochi hanno parlato di un’esperienza unitaria dagli anni Dieci-Venti fino ad oggi, uno di questi è Gene Youngblood:

Quello che intendiamo con il termine videoarte quindi è cinema sperimentale praticato elettronicamente “Quello che intendiamo con il termine videoarte quindi è cinema sperimentale praticato elettronicamente - un’impresa personale più che istituzionale, che rappresenta la forma poetica del cinema opposta alla forma in prosa della narrazione di storie. In altre parole, è la vera arte del cinema, il contrario dell’intrattenimento, se con arte intendiamo un processo di esplorazione e ricerca” La distinzione tra arte e intrattenimento è fondamentale nella logica e Youngblood identifica un cinema superficiale, vuoto, dannoso, commerciale, contro cui si staglia il cinema “‘d’arte”, sinestetico: un cinema che arricchisce, in cui lo spettatore deve porsi attivamente, senza farsi cullare da schemi che già conosce, da narrazioni semplici e complete. Poco tempo dopo l’invenzione del cinema, ha cominciato a diffondersi un’esigenza narrativa

tra gli autori e gli spettatori del neonato spettacolo. Nel giro di un paio di decenni comincia a comparire un codice, un linguaggio riconoscibile ed interpretabile - o meglio, “leggibile” - con cui le opere di narrativa cinematografica costruiscono le proprie storie. L’apice indicativo di questo sviluppo è quello che viene denominato cinema classico. Hollywood ne diventa il cuore ed il volto. Tuttavia dal 1910 al 1920 ogni film che ha contribuito alla scoperta dei suoi mezzi può considerarsi sperimentale. Non è quindi necessario attendere il cinema d’avanguardia o underground: il cinema delle origini possiede già i requisiti per essere considerato esperimento linguistico e artistico. In questo senso, ogni esperienza di ricerca e sviluppo del linguaggio cinematografico può essere definita come sperimentale. Un’alterità difficile da individuare e che costruisce l’identità di un magma eterogeneo di esperienze: Il rifiuto della rappresentatività e della narratività lineare del cinema ufficiale - anche se non è l’aspetto primario del cinema d’avanguardia - ha un’evidenza e una forza d’impatto e di opposizione estremamente violente che lo spettatore percepisce immediatamente come una determinazione assolutamente anormale. L’organizzazione di questo cinema pone subito il fruitore davanti alla necessità di costruire dei modelli di decodificazione e di lettura diversi da quelli a cui è stato abituato dal cinema ufficiale. Questo non può valere solo per la pellicola: sicuramente la scelta di uno strumento rispetto ad un altro incide sulle

prospettive, sulle poetiche, sui risultati, ma non può essere un elemento di rottura. Anche da un punto di vista di poetiche ed intenti, possiamo vedere come alcuni aspetti siano alla base delle ricerche avanguardistiche degli anni Venti così come degli artisti degli anni Sessanta, in primis il confronto con la musica. Quest’ultima rappresenta la chiave che accende il motore videoartistico: con la sua capacità di non-denotazione, di ritmo, di purismo astratto ha influenzato molta arte del Novecento nel suo divenire. Il suo apporto è così fondamentale che John Cage è quasi annoverato tra i fondatori della video arte. Per concludere, in seguito all’evoluzione che il termine video - analogico e digitale - ha subito negli anni, sotto la definizione di videoarte è possibile riunire quelle esperienze che utilizzano le immagini in movimento come espressione di un fare artistico in un solo insieme. Tale insieme si contrappone a quello del cinema d’intrattenimento, narrativo e commerciale, più tradizionale. L’insieme prende quindi l’etichetta di Videoarte, con la finalità pratica di un trattamento unitario nello studio e nella fruizione, museale e non, continuando a valorizzare le singolarità e le differenze tra un’opera e l’altra.

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di Alessandra Batini Febbraio 2018

Recensioni Musica

Migos Culture II L’ultima fatica dei Migos, sequel del pluripremiato Culture, è un progetto imponente, composto da 24 tracce e dalla durata di 105 minuti: il trio di Atlanta ha realizzato un prodotto che va oltre la tradizionale concezione di disco, in bilico tra un classico mixtape e una playlist “This Is” di Spotify. Ma se il predecessore era un album curato e essenziale, capace di ridefinire i canoni del rap negli USA e di elevare Quavo,

Offset e Takeoff allo status di superstar mondiali, Culture II è al contrario eccessivo, talvolta ripetitivo e quasi arrogante. L’ascolto del disco è un’esperienza estenuante, dovuta alla sua lunghezza fuori scala rispetto agli standard attuali, anche a causa dei molti brani riempitivi presenti. Nonostante tra i produttori figurino nomi del calibro di Pharrell, Metro Boomin e Sua maestà Kanye West, alcune tracce appaiono sottotono e in generale si ha l’impressione che i Migos si siano un po’ adagiati sugli allori durante la realizzazione dell’album, senza sperimentare come in passato. 71


I brani più riusciti sono quelli in cui i tre provano a uscire dalla loro comfort zone, come Stir Fry, hit dalle atmosfere che richiamano l’Asia, Narcos, con dei bei chitarroni, e Autopilot, in cui Takeoff fa sfoggio della sua tecnica: altri pezzi invece danno la sensazione di essere puramente riempitivi, tra ennesimi ego trip autocelebrativi (Too Much Jewelry) e singoli poco esaltanti (Supastars su tutti). I featuring prestigiosi con i big del genere, come Drake, 2Chainz, Big Sean e Gucci Mane, contribuiscono a risollevare le sorti del disco e a dare più verve a canzoni altrimenti piatte (ottima la prova di Travis Scott in White Sand), mentre Quavo non spicca come Takeoff e il redivivo Offset, apparendo stanco e poco coinvolto. Complessivamente Culture II non è un brutto disco, anzi, ma sembra quasi un’aggiunta posticcia al suo prequel, un progetto privo di una sua anima e incapace di portare una vera ventata di aria fresca in un panorama trap americano che appare saturo e bloccato a un’impasse: ha senso continuare a evolversi all’infinito rischiando di non incontrare più i gusti del pubblico o forse è meglio fermarsi per non venire fagocitati dalla selezione naturale del mercato musicale?

Di Jacopo Andrea Panno 72

Skasso Il paese degli orrori Non sono etologi né animalisti. Eppure dichiarano di vivere nella giungla e di sentirsi come il saggio felino Bagheera ma la loro foresta è urbana e si chiama Roma. Qui gli Skasso suonano e scrivono i loro pezzi. L'ultimo lavoro si intitola Il paese degli orrori e verrà presentato il 24 febbraio a Spin Time, nel cuore dell'Esquilino. Dodici i brani dal Sound dinamico che spazia dallo ska al reggae. Molte le contaminazioni che arrivano dall'estero ma anche dalla musica tradizionale con un’attenzione agli arrangiamenti nei quali ben risaltano gli strumenti a fiato. La trama che si viene a formare è tessuta da temi prettamente legati alla politica e al sociale, con un’attenzione particolare al tema spinoso del lavoro, la sua mancanza e la sua precarietà, le poche prospettive che attendono i giovani. Ma anche il gusto di raccontare storie, solo apparentemente, leggere e scanzonate. Questo lavoro è il punto d'arrivo di un percorso musicale iniziato nel 2008 con cover, come per molte altre band, per poi rapidamente virare sulla produzione di brani propri.

Un cammino arricchito da molti autorevoli compagni di viaggio come Zulu dei 99 Posse, Adriano Bono & the Reggae Circus, Cisco dei Modena City ramblers, Roy Paci, Banda Bassotti e le band romane Il Muro del Canto, L'Orchestraccia e le Radici nel cemento. Sicuramente un disco per gli appassionati del genere, ma non solo. Si fa ascoltare non solo dai giovani adulti ma anche dagli adolescenti essendo la musica orecchiabile e allo stesso tempo sofisticata e i temi affrontati con convinta passione civile. Album quindi dai molti volti e risvolti che richiede una riflessione per essere compreso appieno, quindi da sentire e riascoltare più volte per apprezzarne le mille sfumature. Fermo restando che tutto il lavoro ci è piaciuto proprio per la sua ricchezza e varietà segnaliamo “Il paese degli orrori” , pezzo dal ritmo incalzante che apre l'album come l’arrivo di una banda per la festa del paese, e “la ballata dai venti” brano che come da titolo è un invito, come popolo, a ridere e a danzare, nonostante le problematiche di ogni giorno.

di Nives Giovannetti Scomodo

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Recensioni Letteratura

Il cacciatore Gracco Martoz Coconino Press -FandangoUn racconto incompiuto di Kafka, che trova il suo compimento nell’innovativa grapich novel di Martoz: Il cacciatore Gracco. New entry in squadra Coconino Press, casa editrice di Ratigher, Alessandro Martorelli in arte Martoz, disegnatore giovanissimo, rappresenta l’avanguardia sul mercato del fumetto italiano. Nella top ten di Repubblica, 5 stelle su Rolling Stone, pluripremiato, pluridiscusso, e la pluralità è l’aggettivo che calza a pennello ai piedi di Martoz. Gracco, il più formidabile cacciatore della Foresta Nera, è il protagonista di un’avventura post mortem, ma sulla terraferma. A causa di un “falso colpo timone” lungo il viaggio nell’aldilà, il suo Caronte lo traghetta tra i vivi, Scomodo

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avvenimento illegale, per il quale il cacciatore viene perseguitato in tutto il Regno. Una morte definita imbarazzante, e un camoscio bianco che va vendicato fanno da fil rouge nella narrazione. Oltre alla trama plurintrecciata da mille avventure surreali e altrettanti strani incontri e duelli, è un caos stilistico baroccheggiante, satollo di riferimenti allegorici, mitologici, letterari, formule magiche e matematiche, una lingua storpia contaminata da dialetti e scomposizioni onomatopeiche, un disordine circoscritto in un racconto dal forte impatto grafico. Un viaggio senza tempo nell’iperreale, di un predatore-preda, tra i meandri incomprensibili della mente dell’uomo. Un romanzo a fumetti avanguardistico, che rompe gli schemi della nona arte. Non solo un contributo, ma un’interpretazione acuta e

barocca, di Kafka. Un circolo virtuoso dell’interpretazione: un nuovo linguaggio di narrazione per il pubblico, che presenta una stratificazione di livelli di lettura, è dunque l’intuizione dell’autore che diventa un’interpretazione libera e diversissima, quasi unica per ogni lettore, e per ogni lettura. Una perfetta padronanza di logica e istinto è evidente nel dialogo fluido tra i due emisferi celebrali dell’autore. Tutto è contornato da un’atmosfera di teatralità, uno spettacolo d’improvvisazione dove i soggetti sono i saltimbanchi al centro della scena. Questo caos surreale nasconde una fine e ironica critica della “burocrasia”, quando un burocrate accusa il protagonista di parlar strano. Il cacciatore Gracco è quindi una passeggiata nell’iper-reale, che rispecchia il suo personaggio principale: un fumetto che parla strano, senza schemi, ribelle.

di Maria Marzano

L’aiuto a non morire Arianna Vartolo Cultura e Dintorni In uscita a breve, per Cultura 73


e Dintorni Editore, uno degli esordi più promettenti degli ultimi anni; L’Aiuto a non morire di Arianna Vartolo – classe 1998. La silloge, composta da poco più di quaranta poesie, è un raro equilibrio di Luce. Stupisce la grazia impressionista della giovane autrice. Nei versi di Vartolo, l’Eros diviene materia lunare; i corpi sono ombre intraviste sul fondo di uno stagno. E che lo stagno sia di latte o di fluidi corporei poco cambia; certo non è acqua. Tre parole sono il filo conduttore dell’intera raccolta: Vento / Desiderio / Silenzio. Attorno a questi nuclei tematici Vartolo celebra una ipotetica primavera della carne; un breviario del corpo e dell’Attesa. Nessun percorso iniziatico, però. Piuttosto, come scrive l’autrice in una nota, un’opera di esordio che raccoglie frammenti di un processo salvifico. Un necessario sfogo salvifico; mediato però da una lingua controllata e precisa; asservita al martirio della voce recitante. Martirio; e Salvezza, infine.

di G. G. 74

Recensioni Cinema

Egon Schiele Dieter Erben Egon Schiele, distribuito in Italia come film evento a fine novembre 2017, è la pellicola biografica sull'omonimo artista, espressionista austriaco e pupillo di Gustav Klimt, che si inserì a pieno titolo nella corrente artistica della Secessione viennese. Il lungometraggio ricostruisce, romanzando quanto basta, i momenti salienti della brevissima e travagliata vita di Egon (1890-1918). Il regista indaga a fondo l'identità dell'artista, e la narrazione del film è scandita dagli incontri con le sue muse. Dapprima l'ambiguo rapporto con la sua prima modella, la sorella Gerti, incrinato dall'incontro con l'attrice Moa Mandu. Poi la sua maturità sentimentale e artistica, indissolubilmente legata a Wally, suo più grande amore e sua principale musa. Le sequenze più intime con quest'ultima sono accompagnate da un erotismo espresso con

spiccata sensibilità artistica, che mostra tutta la bellezza e complessità del rapporto uomodonna vissuto dai due giovani, fatto di grande complicità e assoluta libertà, privo di gelosia, possesso o controllo. La loro storia è però intramezzata da un ingiusto processo a cui fa seguito la drammatica vicenda della Grande Guerra, che si insinua subdolamente nella vita dell’artista... La pellicola tornerà sul grande schermo il 26, 27 e 28 febbraio e la proiezione verrà eccezionalmente prolungata nella sala del "Live Alcazar" a Trastevere, dal 26 febbraio al 15 marzo 2018.

PLUS

il

LA CAMPAGNA DEI MEME / BITCOIN: NON SOLO SPECULAZIONE / METAMORFOSI / LAMBDA LAMBDA LAMBDA / RINASCITA URBANA

di Alice Paparelli Scomodo

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LA CAMPAGNA DEI MEME Come e perché parte delle elezioni italiane del 2018 sarà decisa da meme non solo su Facebook Un virus del pensiero. Meme è un neologismo coniato da Richard Dawkins nel 1976 per il suo libro The Selfish Gene, derivato dalla parola greca mimetes, “imitatore”. Un meme, inteso nel senso più generale e non solo di internet, è una minima unità comunicativa che trasmette idee culturali, e la cui caratteristica fondamentale è l’essere replicabile. Il paragone viene dalla genetica postDarwin: chi è capace di adattarsi all’ambiente circostante, vincere le sfide, evolversi continuamente e soprattutto replicarsi all’infinito, è adatto alla sopravvivenza. Così come i geni, i meme seguono un percorso simile: le idee, i comportamenti, gli stili che si adattano all’ambiente si diffondono e persistono, e tanto più sono semplici, immediati e facili da riprodurre e variare, tante più persone riusciranno a influenzare. Internet è ovviamente il luogo prediletto per la diffusione di qualsiasi idea, e tanto più breve e incisiva è, tanto meglio. Le ragioni sono molteplici: è facile e veloce inviare qualcosa a qualcuno; sul computer è semplice creare contenuti - video, immagini, suoni, testi - da propagare; si può raggiungere un pubblico molto numeroso se non mondiale; soprattutto, pressoché chiunque dovunque ha accesso a ciò che si trova su internet, e può diventare creatore e propagatore di contenuti. Già agli albori della rete si condividevano meme su internet, tramite email e newsletter, e il fenomeno ha gradualmente conosciuto sempre maggiore popolarità con l’avvento e la crescita dei social network. Un meme di internet non dev’essere per forza un’immagine con testo: può essere anche solo un’immagine, o un video, o un testo, una citazione, un errore voluto, letteralmente qualsiasi cosa si possa replicare all’infinito con qualche variazione. I meme si possono diffondere a velocità incredibile - anche se di solito se un meme è troppo veloce tende a morire presto - e possono anche “collaborare” con altri meme, reinventandosi e assicurandosi longevità.

Semplicità, banalità, familiarità

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Quale tipo di meme - sia esso di internet o no - può sopravvivere al meglio? Come già detto, quello che si adatta meglio all’ambiente. Ora, l’ambiente primario di un meme è la mente umana, e quello secondario è la società. Per fare presa, un meme dev’essere facilmente riconoscibile, in generale avere un significato identificabile e semplice, che possibilmente non metta in discussione la mentalità di chi lo riceve. Perché sia appetibile, dev’essere originale nella banalità: deve avere una piccola variazione che lo renda interessante ma non può scardinare il sistema di valori e di pensiero di chi ci interagisce. In termini politici, questo significa che i meme in generale promuoveranno le fazioni o i candidati che riescono a riassumere tutto in poche espressioni e concetti chiave - il semplice vince sul complesso, il ripetibile su ciò che è da spiegare. In piccola parte, l’estrema sinistra può beneficiarne: meme come seizing the means of productions (appropriarsi dei mezzi di produzione) di chiara origine marxista sono ormai popolari, e pagine come Humans of Late Capitalism, con la loro ironicamente tragica galleria di tristezze del “tardo capitalismo”, possono diffondere sdegno e astio contro il capitalismo e le ingiustizie sociali. Ciò detto, la vera vincitrice è però la destra, specialmente quella estrema. La destra è conservatrice, cioè parla un linguaggio già esistente, pensa attraverso categorie già affermate, ha valori che tutti conoscono molto bene. Il mondo che la sinistra, che i progressisti vogliono costruire - per la nozione stessa di progresso - è in divenire, futuro, non esiste ancora. Il mondo della destra è quello in cui viviamo, o in cui vivevamo (almeno nel pensiero e nell’ideologia). Essendo quindi un mondo già conosciuto, quello della destra si presta a essere perfetto materiale memico. Il termine più rappresentativo è edgy, parola che ad oggi significa “inusuale, provocatorio, qualcosa che esce dagli schemi, d’avanguardia”. Edgy assume questo significato nel 2011 sul noto portale 4chan, e di lì a poco si diffonde a macchia d’olio divenendo un aggettivo tipicamente associato ai meme: un meme edgy è un meme che va contro il “politicamente corretto”. Il termine nasce vago, includendo anche semplice black humor: qui però interessa come la lotta contro il politicamente corretto sia diventata spesso una falsa bandiera sotto cui la destra fa passare messaggi d’odio di vario genere razzismo, sessismo, transfobia, etc. La destra si fa passare come vittima di una prepotenza culturale delle élite liberali che vanno contro il “senso comune” imponendo la dittatura del “politicamente corretto”, contro cui i meme edgy sono una reazione. Trump, ad esempio, ha vinto grazie a questi meme. Non solo i meme di internet, sia ben chiaro, ma grazie ai meme come fenomeno antropologico, sociale. Hillary Clinton era noiosa, non incisiva, percepita da molti come un candidato improponibile, elitario, e il caso estremo di radical chic: una sinistra ricca, preoccupata solo di lgbt e minoranze, disinteressata alla sorte della classe povera bianca. Trump, invece, ha dato al popolo quello che il popolo voleva: messaggi chiari, semplici, conservatori, in poche parole, meme. Il muro col Messico è un meme; grab them by the pussy, “afferratele per la fica”, è un meme; Make America Great Again è un meme.

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L’Italia In Italia il più avvantaggiato è Salvini: la sua pagina, aggiornata costantemente, è una fucina interminabile di meme. Si va dal maiuscolo usato in tutti i testi - semplificazione perfetta - alle foto della sua faccia, dalle immagini di lui con famiglia e amici ai video di programmi compiacenti, fino a slogan rimasti nella mente di tutti come ruspaaaa un po’ la versione italiana del muro di Trump. Egli ha volontariamente e coscientemente fatto di se stesso un meme - Salvini è ora sinonimo di ritorno all’ordine, grande pulizia, forza al potere, opinione dell’italiano medio finalmente ascoltata. Salvini, dalla sua, ha anche un folto gruppo di pagine di destra “mascherate”: pagine che non professano ufficialmente un’affiliazione politica, ma riempiono comunque Facebook di contenuti edgy e reazionari. Le più note sono Sinistra, Cazzate e Libertà; Figli di Putin; Saveryø Tœmmasy; La Via Culturale. Queste sono le pagine che hanno lanciato il meme del “buonismo” e fatto di Laura Boldrini il meme di sfogo dell’odio della destra.

Salvini, dalla sua, ha anche un folto gruppo di pagine di destra “mascherate”: pagine che non professano ufficialmente un’affiliazione politica, ma riempiono comunque Facebook di contenuti edgy e reazionari Meno avvantaggiato su internet, a causa dell’avanzata età media del suo elettorato, Silvio Berlusconi si è rilanciato aprendo una pagina Facebook, il cui tono è notevolmente più istituzionale di quello del segretario del carroccio. Tuttavia, Berlusconi punta più sulle proprie televisioni che sulla rete: è infatti proprio nelle televisioni che il Cavaliere lanciò se stesso come un meme su due gambe: egli fu l’incarnazione del successo, di ciò che tutti volevano essere - ricchi, potenti e pieni di belle donne - e che tutti ammiravano. I suoi videomessaggi, la massiccia copertura pubblicitaria garantita dalle agenzie di pubblicità e marketing a sua disposizione, l’onnipresenza in televisione: Silvio Berlusconi riempì questi mezzi con la propria accattivante personalità, regalando al pubblico una serie di tormentoni, dall’innocuo mi consenta ai politicamente significativi magistratura rossa, rivoluzione liberale, l’Italia è il paese che amo, unto del Signore e tantissimi altri. Una menzione va fatta anche per il Partito Democratico, che, nel tentativo di catturare il voto della gioventù, il punto forte del “giovane” Matteo Renzi, ha tentato in vari modi di salvaguardare l’immagine youth friendly del segretario - dalla famosa ospitata da Maria de Filippi nelle vesti di un redivivo Fonzie all’opinabile cover di Coez - ma finora non riesce ad avere mordente nella guerra dei meme per il 2018.

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è infatti proprio nelle televisioni che il Cavaliere lanciò se stesso come un meme su due gambe Il Movimento 5 Stelle, invece, ha fondato la propria intera esistenza e diffusione su internet e sui social, espandendosi grazie a una robusta rete di suoi siti d’informazione e di pagine che postano a ripetizione i suoi messaggi - un impero del clickbaiting ruotante intorno al blog di Grillo e alle pagine di TzeTze, un circuito chiuso di informazione autoreferenziale che serve al movimento per fornire ai propri simpatizzanti una versione del mondo integrale e alternativa a quella dei media fuori dal suo controllo. La semplicità del messaggio grillino è estrema: tutti sono disonesti, tranne noi. L’onestà “andrà di moda”. I problemi dell’Italia non sono strutturali né conseguenza del capitalismo, ma solo colpa di individui venuti prima e disonesti. Con chi non è con noi, non esiste dialogo, solo “vaffanculo”.

I problemi dell’Italia non sono strutturali né conseguenza del capitalismo, ma solo colpa di individui venuti prima e disonesti. Con chi non è con noi, non esiste dialogo, solo “vaffanculo”. Grillo, con le sue sparate e il suo talento di comico ha fornito molto materiale memico e slogan semplici da ricordare. Casaleggio, coi suoi video semiprofetici ha fornito una base storiosofica per il movimento. Il Movimento 5 Stelle riuscì nel 2013 a far saltare il banco e superare ogni pronostico proprio grazie alla sua onnipresenza sui media tradizionali e non: Grillo era ogni giorno in tv senza farsene invitare, mantenendo così un’apparenza di antagonismo contro il potere; il movimento era quotidianamente sui social a promuovere le sue notizie e le sue idee. I meme grillini sono semplici, fatti con Paint, perché l’importante è solo che mandino il messaggio a un pubblico già pronto a coglierlo e, soprattutto, che siano sempre generici nella pars construens, di modo da soddisfare sempre tutte le anime del movimento. Infatti se si guarda l’elettorato del movimento, che riscuote successi presso entrambi i generi e non soffre cali di rendimento a seconda del grado di istruzione o della professione, il vero crollo si ha in base all’età: superati i 55 anni, Grillo non riesce a conquistare consensi. Appare evidente come questa bassa performance sia dovuta allo scarso accesso a internet dei più anziani. di Massimo Gordini

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BITCOIN: NON SOLO SPECULAZIONE La genesi della criptovaluta e perché, a scapito della speculazione, non ha perso il suo potenziale rivoluzionario “Una versione puramente peer-to-peer di denaro elettronico permetterebbe di spedire direttamente pagamenti online da un'entità ad un'altra senza passare tramite un'istituzione finanziaria.” Con queste parole si apre il documento pubblicato nel 2008 su internet da Satoshi Nakamoto, pseudonimo sotto cui si cela l'identità del creatore di Bitcoin, la moneta virtuale che negli ultimi anni sta emergendo maggiormente tra le oltre 1500 criptovalute esistenti sul web. Nonostante il suo sistema particolarmente sicuro e funzionale abbia indotto molti speculatori e piccoli risparmiatori ad investire il proprio denaro in Bitcoin, causandone il vertiginoso aumento di valore e attirando così sul solo lato profittuale l'attenzione della società, il principio alla base di questa valuta virtuale, esposto nella frase citata, è ben diverso da quello venale e si ispira al sogno della creazione di un mercato tra pari alternativo a quello classico, tradizionalmente gestito o supervisionato da organi superiori quali banche o governi. Attivo dal 2009 Bitcoin, nel tempo il principio di Satoshi Nakamoto è stato minato alla base dalla speculazione e dall'inserimento di intermediari nelle transazioni, ricreando così nel sistema la gerarchia propria del mercato tradizionale finché, il 1 Agosto 2017, ha avuto luogo un vero e proprio scisma etico con la nascita di un “fork” (diramazione) chiamato Bitcoin Cash e formato da chi voleva rimanere fedele agli ideali bitcoin. Questa nuova criptovaluta, indicata con la sigla BCH, differisce dal venale ramo principale (BTC) nel suo essere l'unica totalmente decentralizzata ed utilizzabile come moneta. BTC, infatti, oltre ad avere elevate tariffe di commissione (in BCH quasi nulle) causate dall'inserimento di intermediari, presenta dei lunghissimi tempi di transazione che non ne consentirebbero l'uso nella vita quotidiana.

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Per queste ragioni, BTC è risultato essere sterile e, per ora, ha portato innovazioni solo nel campo dell'investimento monetario (altamente rischioso, tra l'altro, in quanto a causa della sua non spendibilità il suo valore è puramente speculativo e potrebbe calare a picco in caso di disinteresse dovuto, per esempio, a una perdita di fiducia causata da grandi furti o al nascere di una nuova criptovaluta giudicata più appetibile). Bitcoin Cash, al contrario, aprendo la possibilità di un vero e proprio nuovo mercato, ha un potenziale rivoluzionario macroeconomico che comincia a non essere più un'utopia. Le prime avvisaglie di un futuro per BCH si stanno moltiplicando a macchia d'olio e, a titolo d'esempio, a febbraio 2018, solo sei mesi dopo la sua nascita, in Danimarca oltre 1200 ristoranti lo accettano già come forma di pagamento. Per quali motivi, per i sostenitori di BCH, dovrebbe essere auspicabile la realizzazione del progetto di Nakamoto? La chiave del messaggio del creatore di Bitcoin sta nelle parole “senza passare tramite un'istituzione finanziaria”. Un mercato tradizionale, infatti, è posto sotto la supervisione di un organo governativo o bancario che solitamente permette e, anzi, normalmente facilita le operazioni di scambio monetario. Tuttavia, per le motivazioni più varie, quest'organo può esercitare il suo potere sul mercato per congelare un conto o annullare una transazione, così come, nel caso di una nazione, può immettervi una quantità eccessiva di denaro causando inflazione. In questo modo, la libertà del singolo in campo monetario, per quanto solitamente abbastanza ampia, è soggetta a varie limitazioni. In un mercato basato su una rete paritaria (peer-to-peer) decentralizzata, senza gerarchie e per di più facentesi garante di anonimato, al contrario, la libertà individuale riguardo l'utilizzo del proprio denaro (nel bene o nel male) è assicurata. Senza organi supervisori nessuna operazione può essere annullata, a nessun wallet può essere bloccato l'accesso e, grazie a un algoritmo matematico, l'aumento dei Bitcoin in circolazione è regolato in modo da non poter causare inflazione. Ovviamente l'idea di un sistema con tali libertà individuali solleva interrogativi legali di entità non trascurabile, così come (problema comune a tutte le criptovalute) ne solleva il suo essere virtuale, e quindi alla mercè di hacker malintenzionati per quanto riguarda furti o sabotaggi. Tenendo ben a mente casi di forzatura di sistemi considerati altamente sicuri (saltano subito alla memoria casi come quello di Wikileaks del 2010) ci si chiede se sia desiderabile un futuro in cui i nostri averi potrebbero essere presi di mira da tutte le persone particolarmente versate nell'arte dell'hacking, considerando anche che un grosso furto di denaro virtuale influenzerebbe tutti i risparmiatori, non solo i derubati, in quanto causerebbe necessariamente un calo di fiducia con conseguente perdita di valore. In merito a questo argomento, bisogna tuttavia tenere a mente che ad oggi non è mai stato forzato il sistema in sé, ma solo i dispositivi da cui i privati vi accedono: con le giuste precauzioni (ad esempio cellulari usati su internet solo per bitcoin) si potrebbe evitare l’hacking.

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L'interrogativo più comune che Bitcoin Cash solleva è senza dubbio quello legale: è infatti pacifico che il ruolo di controllo di enti come la Guardia di Finanza o le polizie nazionali e internazionali è svolto, nell'enorme maggioranza dei casi, nell'interesse dei risparmiatori, in caso di frodi, ma soprattutto in quello della società, quando questi supervisori rivolgono l'attenzione sui conti e le relative transazioni dei malintenzionati. Una rinuncia alle istituzioni equivarrebbe dunque non solo all'emancipazione dal potere incontrastato, ma anche alla perdita dell'ala protettiva dello stesso: in sostanza, la condivisione o il rifiuto del progetto di Nakamoto sta nel decidere se dare la precedenza alla libertà del singolo, con una buona dose di fiducia nell'essere umano, o se diffidare della sua natura egoistica che, in caso prevalesse, porterebbe a un mondo ingestibile. Alle tesi degli scettici che affermano che l'anonimato, l'immediatezza e l'inarrestabilità di una transazione, cavalli di battaglia di BCH, siano proprio ciò che più potrebbe invogliare i criminali ad utilizzarlo per le loro attività illegali, i sostenitori di questa criptovaluta oppongono un argomento in buona misura solido, ovvero l'impossibilità dell'anonimato assoluto nel web. Anche operando nel modo più accorto, un malvivente lascerebbe sempre qualche traccia che, seppur con difficoltà, sarebbe risalibile per un gruppo di hacker esperti; al contrario, una valigia piena di contante è sempre stata il metodo più utilizzato per il traffico di droga, armi ed esseri umani (si veda ad esempio la decisione della BCE di fermare l'emissione di banconote da 500 € per contrastare il narcotraffico). Se è vero dunque che Bitcoin Cash, come altre criptovalute, può essere usato per transazioni illecite, è improbabile peró l'affermazione che esso alimenti il crimine, in quanto quest'ultimo ha sempre prosperato, anche senza sussidi virtuali (si potrebbe anzi dire che esso sia antico quanto la specie umana).

«Scuola e salute mentale: un ponte da costruire» Attraverso interviste a psichiatri e psicologi, Metamorfosi indagherà i fenomeni caratteristici dell'età evolutiva e della primissima età adulta. Andando a caccia di risposte chiare ed esaustive, cercheremo di proporre un’indagine che scavalchi gli stereotipi e i preconcetti sul mondo dell’adolescenza e indirizzi quei fenomeni che molto spesso sono comunemente intesi in maniera grossolana ed inesatta.

Vorrei iniziare chiedendoti qual è la differenza di significato tra le parole "educare" e "istruire", dato che questa distinzione mi sembra uno dei presupposti più importanti sui quali si basa il monografico.

In sintesi, Bitcoin è un argomento che, come tanti altri, va affrontato con eguali dosi di apertura mentale e giusto sospetto. Come ogni invenzione dell'uomo può essere usato per scopi sia buoni che cattivi, e forse Satoshi Nakamoto l’ha creato proprio per mettere alla prova la natura umana dandole fiducia. Senza dubbio conviene andare coi piedi di piombo nell'investire in criptovalute il proprio denaro per evitare spiacevoli inconvenienti che, malgrado ogni misura di sicurezza, potrebbero accadere; dall'altro lato, però, conviene anche non guardare con troppo sospetto a un'invenzione indubbiamente rivoluzionaria e che, magari in forme diverse, potrebbe rappresentare il futuro dell'economia. Del resto, anche Internet qualche decennio fa sembrava essere cosa da poco. di C.G.

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(RUBRICA)

Il primo numero del 2018 della rivista trimestrale di psichiatria e psicoterapia “Il sogno della Farfalla” (edita dall’Asino d’oro Edizioni) è un monografico sul mondo dell'adolescenza in relazione alla scuola e alla prevenzione della malattia mentale, curato dalle psichiatre e psicoterapeute Alice Masillo, Nella Lo Cascio, Martina Brandizzi e Elena Monducci. Per capire le numerose implicazioni reciproche tra scuola e salute mentale abbiamo intervistato una delle curatrici, la Dott.ssa Alice Masillo.

In sintesi, Bitcoin è un argomento che, come tanti altri, va affrontato con eguali dosi di apertura mentale e giusto sospetto.

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METAMORFOSI

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L'educazione è un concetto che di per sé non riteniamo valido, noi come tutti gli insegnanti che hanno contribuito alla stesura del numero. In apertura abbiamo deciso di ripubblicare un'intervista del 1987 allo psichiatra Massimo Fagioli. Lui fa questa grande distinzione, dicendo che il concetto di educazione presuppone una sorta di coartazione dei bambini: dover inculcare nella loro testa qualcosa che altrimenti non sarebbe presente, come se il bambino fosse una tavoletta di cera da plasmare, o peggio, cattivo. Non è solo l'idea che il bambino da solo non potrebbe fare nulla di valido, ma che il bambino da solo potrebbe fare cose da matto. Fagioli con la sua teoria ha sempre affermato e dimostrato l'esatto contrario, ovvero che alla nascita tutti siamo sani, sia nel corpo - salvo malattie congenite - che nella mente e che ci si ammala dopo. Per una naturale sanità, i bambini se lasciati liberi sono creativi, di certo né auto né etero lesivi. Sono proprio i condizionamenti esterni che possono generare dei vissuti di frustrazione che poi possono sfociare in dei comportamenti alterati. Istruire invece è impartire delle nozioni: un sapere che ovviamente un bambino o un adolescente non può avere di per sé.

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Quali implicazioni hanno dunque i maestri e poi i professori nella vita dei loro studenti? Fagioli lo dice bene nell'intervista, c'è una grande differenza tra un maestro delle elementari e un professore del liceo o universitario. Di professori un po’ “strani” ne abbiamo avuti tutti a scuola, ma un adolescente o un giovane adulto hanno già una propria identità, in qualche modo formata anche se da completare. È chiaro che invece un maestro o una maestra che non stanno bene e che devono passare tante ore al giorno con i bambini possono avere effetti molto più deleteri, se non devastanti. Bisogna cambiare il modello culturale per diffondere idee diverse sulla realtà umana. A volte le maestre hanno l'idea che i bambini siano animaletti selvatici da addomesticare, distruttori per loro natura. I professori di scuola superiore talvolta hanno un atteggiamento di veri e propri guardiani degli adolescenti: stanno attenti a non farli ribellare, a non farli agitare, a tenerli sotto controllo. Spesso e volentieri c'è l'idea di doverli “riempire”, che deriva dal preconcetto che gli adolescenti non abbiano ideali. Non è assolutamente vero! È chiaro che le generazioni cambiano, ma nessuno si svuota di contenuti, anzi. E dunque qual è il loro ruolo per la salute mentale dei ragazzi? È un dato assodato che il 75% delle patologie psichiatriche hanno il loro esordio in adolescenza. Avere degli insegnanti attenti, sensibilizzati e informati sulle problematiche del cosiddetto “disagio” giovanile è fondamentale perché sono loro i primi a potersi accorgere di alcuni segnali di malessere. Si tratta appunto di prevenire l'insorgenza delle malattie. Ci sono più livelli di prevenzione: la prevenzione primaria consiste nell’informare una popolazione sana sui fattori di rischio per una determinata malattia. Ovviamente in psichiatria questo è molto più complicato, la prevenzione primaria è qualcosa che dobbiamo ancora raggiungere, non avendo quasi la secondaria (ovvero il riconoscimento precoce delle malattie, ndr). La formazione degli insegnanti su tematiche riguardanti la salute mentale dei ragazzi, e la loro collaborazione con i professionisti della salute mentale sono degli interventi di prevenzione primaria. Gli insegnanti si possono accorgere di come sta un ragazzo meglio e prima dei genitori: il genitore, oltre ad essere spesso e volentieri la causa inconsapevole di un malessere, superata una certa età passa meno tempo con i figli. L’intervento degli insegnanti è fondamentale per indirizzare il prima possibile un ragazzo in difficoltà a fare "due chiacchere" allo sportello d'ascolto, se c'è, oppure ad un presidio territoriale. Da quel punto in poi sarà lo specialista a determinare se si tratta di un malessere passeggero, fisiologico, oppure di un campanello d'allarme per qualcosa di più serio. Passiamo al tuo punto di vista di psicoterapeuta. Come distingui la crisi che hai definito fisiologica da una crisi che invece sottintende l'esordio di una patologia vera e propria?

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Questa è una domanda molto difficile. Sono state fatte scale di valutazione, test, per trovare la linea di demarcazione tra i fisiologici su e giù dell'umore adolescenziale, sempre molto mutevole, e i segnali invece tipici di una crisi più patologica. Nell'introduzione del numero facciamo l’esempio di un ragazzo, magari normalmente allegro, che d'un tratto è più solitario, giù di morale; in questo caso i motivi possono essere i più vari: una delusione amorosa, e quindi per un periodo non ha grande appetito o voglia di chiacchierare; o magari deve dare un esame importante, e sta un po' più sulle sue. D'altro canto, l'adolescente potrebbe cominciare ad avere delle vere e proprie difficoltà a rapportarsi con gli altri e questo è già qualcosa di diverso: potrebbe nascondersi dietro all'esame per non mostrare un malessere più profondo. Oggettivamente c’è lo stesso comportamento, ma quello che è importante è la realtà più profonda che sta sotto a questo comportamento. Solo con un colloquio più approfondito e instaurando un rapporto si può cercare di capire cosa c'è dietro. Spesso neanche i ragazzi stessi lo sanno, sentono solo di non star bene. Che mi puoi dire invece sulla svogliatezza nello studio che hanno molti adolescenti? Quello che viene fuori dagli articoli della rivista è che la non-voglia di studiare di per sé non esiste e nasconde quasi sempre qualche problema. Ovviamente non è l’avere qualche voto basso ad essere qualcosa di patologico ma se la svogliatezza nello studio si allarga a tutte le materie e non c'è nessun campo di interesse, non c'è niente che appassioni, lì arriva il campanello d'allarme. Questi ragazzi possono cominciare ad apparire freddi, distaccati in generale, fino ad arrivare a decidere di lasciare la scuola. Come dice lo psichiatra Martino Riggio nel suo articolo all’interno del monografico, la dispersione scolastica talvolta è il sintomo di un distacco che può assumere i caratteri di una vera e propria anaffettività che comincia a manifestarsi. Questi ragazzi arrivano a mollare quello che poi dovrebbe essere il loro mondo - non solo quello del sapere - ma quello degli affetti, delle amicizie, di una realizzazione della propria identità. D'altro canto ci può essere anche una non-voglia di studiare che nasconde un vissuto depressivo, la convinzione di non avere le capacità, di non poter raggiungere un livello ideale di successo. Talvolta è una convinzione dei genitori, anche senza che essi lo esplicitino. Ovviamente non si può mai generalizzare ma l'ho notato spesso nel passaggio che molti fanno alla scuola privata: esso talvolta nasconde una noncuranza dei genitori che non si imputano e non dicono: “No, tu ce la fai, perché non dovresti riuscirci?”. Un genitore che ti dice “Fai come ti pare, questi sono i soldi, prenditi sto benedetto diploma” è un genitore che non crede abbastanza nelle capacità del figlio. Il contrario è invece lo studiare “troppo”, a volte anche questo può rappresentare un sintomo, l'idea che si debba raggiungere il massimo può nascondere una grossa fragilità. Quella super media scolastica diventa un'impalcatura che ti tiene su. Questo bisogno continuo di riuscite materiali è poi la necessità di tappare dei buchi interni, più umani. Spesso sono poi ragazze e ragazzi che non hanno una grande vita sociale o sentimentale. Spostano tutta la loro energia sullo studio, perché senza di quello crollerebbero.

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Un'ultima domanda: gli sportelli d'ascolto. Che importanza hanno? Che cosa succede in uno sportello d'ascolto? Lo sportello d'ascolto psicologico rientra nel discorso di prevenzione che facevamo prima. Purtroppo a Roma non tutti gli istituti ne hanno uno, salvo le scuole di determinati municipi che hanno un centro specifico che si occupa della salute mentale degli adolescenti e che quindi offrono uno sportello gratuito effettuato da un operatore della ASL. La maggior parte delle altre scuole di Roma se hanno uno sportello lo autofinanziano o si affidano ad alcuni progetti di volontariato fatti da tirocinanti, di qualità non sempre garantita. Quella degli sportelli è una realtà che dovrebbe essere molto più diffusa. Costituiscono una prevenzione secondaria: si fa quella differenziazione che dicevamo prima tra crisi fisiologica e crisi patologica. Sono colloqui che durano in media una mezz'ora e magari uno solo non basta, servono più incontri per rendersi conto della portata del problema. Potrebbe arrivare un ragazzo che non mangia, che ha perso un sacco di peso, che ha attacchi di panico, che fa uso di sostanze in maniera smodata o mille altre cose. Allo sportello si inquadra la situazione e si fornisce una risposta adeguata. Se ce n'è bisogno si contattano i genitori per attivare un percorso terapeutico, al di fuori ovviamente dello sportello che è solo un servizio di consulenza. Si tratta di un presidio fondamentale e sebbene alcune scuole facciano molto per assicurarsi che sia presente, troppo spesso si preferisce aspettare che la situazione precipiti. di Alice Paparelli

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LAMBDA LAMBDA LAMBDA (RUBRICA) La confraternita degli ormai post-nerd Grazie ad una collaborazione con la redazione di Stay Nerd, curatori di staynerd.com e dell’omonima pagina facebook, nasce Lambda Lambda Lambda, una rubrica che aprirà ogni mese una finestra sui temi caldi della nerd culture, i fenomeni sotterranei o mainstream della cultura pop di internet, videogiochi e serie tv, nelle numerose implicazioni che ne derivano.

Benvenuti nella parte più nerd di Scomodo. Un lato della rivista che forse non conoscevate ma che, credeteci, imparerete ben presto a conoscere. Proveremo a farvi da guida, da questo mese, in quello che è il sottobosco della cultura nerd, che dai videogame passando per il cinema e le serie TV, sarà foraggiato dalla bella presenza di Stay Nerd, o per meglio dire “dei brutti ceffi di Stay Nerd”. Chi siamo? Cosa ci facciamo qui? Non basterebbero tutti i manuali sull'esistenzialismo a queste domande; per ora vi basti sapere che Stay Nerd è un portale di cultura nerd a 360° che dal 2014 si prefigge l'arduo compito di offrire un profilo diverso del giornalismo di settore. Stay Nerd è indipendente, al 100%, e come Scomodo si prende la briga di raccontare le cose così come sono. Senza fronzoli, senza cazzate annesse, senza null'altro che l'onere di voler fare le cose per bene. Ecco perché una collaborazione tra due realtà, indipendenti, ma così allineate nella loro filosofia comunicativa, è sembrato ad ambo le parti un'idea geniale, quanto meno da provare. Da questo mese, quindi, la sezione Plus di Scomodo si arricchisce dei contenuti di altra gente decisamente “scomoda”. Tutti nerd di razza, con un pedigree composto da anni ed anni di presenza in quella che è una sottocultura che oggi è esplosa, ma che ai tempi era appannaggio di comunità piccole, silenziose, che mai e poi mai avrebbero manifestato con orgoglio il loro essere nerd. Siamo dalle parti degli Steve Urkel di una volta, della confraternita “Lambda Lambda Lambda” de La Rivincita dei Nerd. Di robe che, insomma, buona parte di voi non avrà la più pallida idea di cosa siano. Ecco perché vi servirà una guida. Ecco che ci facciamo qui.

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Ci penseremo noi ad orientarvi per bene, a spiegarvi che oggi non val la pena parlare di nerd, ma semmai di “post-nerd”, a sottolineare come i tempi siano cambiati e il mondo sia andato avanti. Perché i nerd di oggi non sono veri nerd. Come potrebbe essere diverso del resto? Siete arrivati tardi. Siete arrivati tardi perché il fenomeno dei nerd è radicato altrove, in un altro tempo. Per antonomasia agli anni ’70, passando per gli ’80, nella meravigliosa Silicon Valley. Da lì, il termine è stato riesumato, finendo ben presto sulla bocca di tutti, passando tra le labbra di un gran numero di persone che per una questione di “gusti” si sentono nerd. Perché il nerd è “pop”, ma paradossalmente non potrebbe esserlo, perché “essere nerd” dovrebbe significare “essere impopolari”, il che significa che c'è stata, nel tempo, una qualche forma di rottura con lo schema originale, che prevedeva tutto fuorché popolarità e diffusione, figurarsi poi divenire una sottocultura nella sottocultura. Siamo dinanzi ad una rimonta che, arrivata tremendamente in ritardo, pesca dal passato come farebbe un autore post-moderno. Ecco, diremmo che i nerd di oggi sono post-moderni, e proprio come Pynchon si rifaceva a Joyce, così noi ci rifacciamo ad un tempo passato, imitandolo nel miglior modo possibile, tenendo presente quella che è la nostra realtà. Rielaborando il tutto, facendolo nostro, trasformandolo in qualcosa di nuovo. Un meccanismo che è dovuto ai tempi che corrono, dove l’iper-connettività, la super-comunicazione, la “smartphonia” ci hanno resi creature connesse, informate, interattive.

Ecco, diremmo che i nerd di oggi sono post-moderni Termini da romanzo cyberpunk che a malapena si sposano con quello che era il significato originale di “nerd”. Eppure, nonostante tutto, ai nerd di una volta ci ispiriamo. Ci rifacciamo ad essi trascendendo in altre variegate “mitologie”, come l’otaku, che in qualche modo giustificano la nomenclatura che ci siamo affibbiati… o che ci hanno affibbiato. E dunque non siamo “post-nerd” semplicemente perché siamo venuti dopo, ma lo siamo perché ci siamo evoluti, ci siamo disinvolti e, metti, persino disinibiti. Abbiamo compiuto il salto della scimmia dall'albero e, come i protagonisti di uno schema darwiniano, abbiamo perso gli occhiali e siamo usciti alla luce del sole. Non ci sono parole diverse per dirlo: tutto ciò è bellissimo. A questo punto che cosa fare? Come muoversi? Partiamo dal presupposto più semplice. La cultura “post” di cui facciamo parte è pur sempre cultura, ed in quanto tale può avere ragione se, e solo se, sa identificare esattamente sé stessa. Ma siamo noi capaci di identificarci adeguatamente? Come potremmo farlo all'interno di una scatola i cui confini, come avrete intuito, sono labili se non indefiniti? Non c'è una risposta, solo una sfida che – indovinate un po' – cercheremo di raccogliere tra le analogiche pagine di questa meravigliosa rivista.

RINASCITA URBANA Questo mese, il nuovo numero di Scomodo verrà accompagnato da un allegato. La redazione tutta è orgogliosa di dare il proprio sostegno ad una delle realtà che maggiormente ci ha sostenuto nell'ultimo anno e mezzo: Spin Time Labs. La nostra realtà si è infatti immediatamente imbattuta con questo modello sociale nato nel pieno centro di Roma, che riprende una delle battaglie più importanti per le comunità cittadine moderne: la riqualificazione urbana. Scomodo è così entrata in contatto con un progetto di riqualificazione urbana unico al livello nazionale, nato dal basso e pronto a restituire alla cittadinanza una parte di città (ex uffici) oramai morta. Proprio da questo concetto, Spin Time, da semplice occupazione a fini abitativi è divenuta una realtà sociale unica nel suo genere, massima espressione inoltre di una società basata sui valori della condivisione, della multietnicità e della lotta agli sprechi urbanistici. L'allegato di questo mese dimostra quanto una realtà come Spin Time possa elevarsi al livello di una nuova tipologia di abitare, attraverso una lunga serie di studi architettonici. Troverete infatti nello stesso, un progetto creato da un comitato scientifico (di cui fanno parte esponenti di tutte le università romane) per rendere Spin Time non più un modello fine a se stesso, ma applicabile a livello nazionale, trasformandolo da un bene occupato ad un bene pubblico di riqualifica urbana. Un modello innovativo, che mira a creare un precedente a livello nazionale di restituzione di suolo pubblico abbandonato tramite una rivalutazione degli spazi capace di tener conto delle esigenze della popolazione e di dare nuova luce a zone di città morte, sia a livello sociale che a quello di servizi. Scomodo non poteva fare altro che supportare un simile progetto, poiché in esso vediamo rispecchiati tutti i nostri punti cardine nella lotta all'abbandono urbanistico e un metodo risolutivo per tutta quella serie di "mostri" urbani di cui abbiamo raccontato per un anno e mezzo. Con questo allegato, Scomodo sottolinea la propria vicinanza a questa battaglia e l'importanza della stessa, per poter così sfruttare appieno tutte le potenzialità inespresse dell'urbanistica romana e nazionale.

di Raffaele Giasi

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Spin Time Labs Spin Time Labs, realtà di riqualifica urbana sita in Via Santa Croce in Gerulasemme 55, è una realtà socio-culturale abitativa di 16800 mq complessivi. Nello spazio di 7 piani ospita 168 nuclei familiari di 18 nazionalità diverse. Il primo piano e il piano terra sono invece destinati a servizi utili per la società.

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