N. 32 MAGGIO 2020

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Maggio 2020

n° 32

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Mensile indipendente di attualità e cultura


n° 32 Maggio 2020 Responsabile editoriale: Edoardo Bucci Responsabile per lo sviluppo artistico e visivo: Maria Marzano Responsabile contenuti web: Chiara De Felice Coordinatrice editoriale per Milano: Arianna Preite Responsabili editoriali per la sezione “Attualità”: Susanna Rugghia e Francesco Paolo Savatteri Responsabili editoriali per la sezione “Cultura”: Luca Giordani e Jacopo Andrea Panno Responsabile editoriale per la sezione “Il Plus”: Luca Bagnariol Responsabile “Focus”: Lorenzo Cirino Responsabile strategico per le inchieste editoriali: Pietro Forti

È possibile ideare, stampare e distribuire questa rivista unicamente grazie al lavoro quotidiano di tanti di noi che, pur non collaborando direttamente alla stesura, ne sono una parte fondante ed imprescindibile. Coordinatore esecutivo e responsabile strategico: Tommaso Salaroli Responsabile strategico per Torino: Samanta Zisa Responsabile strategico per Milano: Tommaso Proverbio Coordinatore e responsabile sviluppo economico: Lorenzo Cirino Responsabile generale per la community interna: Corrado Giancoli Responsabile creativo della comunicazione: Emilio Lucchetti Coordinatrice team Twitter: Giulia di Donato Responsabile nazionale per la Rete del Cartaceo: Alma Fogu Coordinatrice sviluppo economico Torino: Arianna Campanelli Coordinatore generale logistica: Carlo Giuliano Responsabile generale per la community dei sostenitori: Tancredi Paterra Coordinatore attivisti: Lorenzo Mollicone Coordinatore sviluppatori web: Claudiu Ivano Responsabile indagine sulla ludopatia minorile: Ettore Iorio Coordinatore architetti e progetto “La Redazione” Roma: Giacomo Florenzano Responsabile video e progetto “Voci”: Lorenzo Vitrone

Un ringraziamento speciale ai nostri partner:


L’EDITORIALE di Susanna Rugghia

Districarsi attraverso i temi, la sintassi e le immagini di queste settimane e restituire un pensiero unitario al lettore non è semplice e probabilmente la forza del dialogo partecipato e condiviso in questo momento si fa ancora più necessaria per ricostruire i passaggi emotivi e materiali degli eventi. Come abbiamo anticipato sui nostri canali social, non abbiamo smesso un minuto di riflettere e discutere delle proteste che stanno infiammando gli Stati Uniti e il mondo a seguito della morte di George Floyd, né abbiamo smesso di essere vigili, di tentare di capire quale potesse essere il ruolo narrativo dei nostri contenuti e che tipo di informazione ci aspettavamo di elaborare. Questo dialogo sta unendo ancora di più una comunità che non può essere ridotta alla redazione di un giornale ma che è una fitta trama di domande, che attraverso questo progetto cerca il proprio spazio e il respiro per formarsi, educare sé stessa, imparare a decifrare la complessità del mondo e costruire il vivere comune. È per questo che abbiamo deciso di dare una forma articolata, che non troverete su questo numero, all’enorme massa critica da cui muove il dibattito relativo alla disuguaglianza a sfondo razziale. Continueremo quindi a pubblicare e a produrre dei contenuti che possano rispondere della molteplicità di implicazioni che necessitano di essere sciolte e sondate perché riteniamo che questo dovrebbe essere il compito del comparto dell’informazione. Molti hanno osservato come la risonanza mondiale delle manifestazioni negli Stati Uniti sia espressione di una globalizzazione della politica interna che non potrebbe realizzarsi senza l’ausilio dei social media i quali permettono di circuire ed anticipare l’attività dei canali tradizionali o l’attivazione della macchina della propaganda nazionale. In questo senso è evidente che il ruolo giocato dai social abbia favorito l’innestarsi di una rete di solidarietà e abbia stimolato la costruzione di un dibattito globale – la possibilità dell’accesso alle opportunità e ai servizi della digitalizzazione diventa una issue di primo piano che abbiamo raccontato nel Focus di questo numero dedicato al digital divide. Ma di certo non si tratta di una novità in termini assoluti e non riteniamo che costituisca il nucleo più intimo alla base della mobilitazione capillare alla quale stiamo assistendo. Scomodo

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La morte di Floyd e l’insurrezione della società civile americana hanno semplicemente toccato quello che rappresenta, con le dovute differenze e cristallizzazioni politico-culturali, un nervo scoperto per molte società occidentali e non solo: è così per l’America Latina in cui, oltre alle recenti denunce arrivate dalla Colombia e dal Brasile per gli omicidi della polizia, la ribellione contro la politica che ha smantellato il welfare di comunità nel 2019 aveva scosso il continente dal Cile al Venezuela; ma anche per la Francia in cui durante il lockdown la situazione delle banlieues, dalle quali è nato il concetto di autodifesa sanitaria che è un riferimento per il panorama del mutualismo in tutta Europa, è tornata a far discutere. Le cifre delle violenze della polizia americana sembrano inconciliabili con l’attuazione di una sana prassi democratica: ogni anno negli Usa si consumano più di mille omicidi da parte delle forze dell’ordine e le vittime afroamericane ne rappresentano il 24% benché costituiscano appena il 13% della popolazione. Ma si tratta solo della punta dell’iceberg di un processo di sistematica penalizzazione nei confronti di comunità vessate strutturalmente dalla disparità delle condizioni sociali e dal razzismo sistemico. Un uomo afroamericano su tre nati finirà in prigione negli States. Il “racial achievement gap” americano mostra l’intima correlazione tra discriminazione razziale e tassi di povertà nell’accesso alle opportunità di formazione e realizzazione professionale e anche le statistiche sui gruppi di potere più importanti del Paese – dall’élite finanziaria, a quella politica e culturale – dimostrano la schiacciante egemonia bianca. Queste evidenze, assieme ad un’altra serie di temi che includono l’insorgere della violenza e l’incidenza del movimento BLM sul lungo periodo, fanno capo ad un’ampia riflessione che lega democrazia, potere e diseguaglianze. Più di un anno fa iniziavano le proteste ad Hong Kong che, pur partendo da rivendicazioni imparagonabili di un milieu sociale agli antipodi di quello afroamericano, si sono consumante seguendo un’analoga curva di violenza, di repressione e di abuso di potere. Laddove la democrazia è vaga, i mezzi del suo potere non sono opinabili e non c’è un’omogeneità sociale che consenta a tutti di avere esigenze simili, si può arrivare a morire. C’è chi muore per la democrazia e chi muore nella democrazia. 1


I N D I C E FOCUS IL DIGITAL DIVIDE • Un'analisi a tutto tondo dei fattori geografioci sociali e culturali Un'introduzione al tema di Lorenzo Cirino La digitalizzazione del comparto statale di Giulio Rizzuti Una realtà composita di Bianca Pinto Internauti naufraghi di Marina Roio Un dialogo sterile di Gionatella

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ATTUALITÀ 16 CPR, detenuti senza permesso di Federica Tessari, Giulia Genovesi, Lucia Necchi, Marta Bernardi, Samanta Zisa e Ugo Annone 18 “Solo il popolo salva il popolo” di Chiara Falcolini, Michele Gambirasi e Carolina Pisapia 24 Perché l’Oms non funziona di Alessandro Mason, Luca Pagani, Bianca Pinto, Giulia Tore e Riccardo Vecchione 30 I CONSIGLI DEL LIBRAIO 36 Parallasse di Luca Bagnariol e Chiara Lettieri 38 INTERNAZIONALE di Manu Callejon

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CULTURA 44 La Copertina di Anna Cassanelli 46 LA MALEDIZIONE DEI NATI SOTTO SATURNO Introduzione di Arianna Preite, Sheila Khan, Camilla de Fabritiis, Giulia D'Aleo e Daniele Gennaioli 48 Arti Visive di Camilla de Fabritiis, Luca Giordani e Alessandro Mason 50 Teatro di Arianna Preite, Sheila Khan e Giulia Falconetti 53 Cinema di Giulia D'Aleo e Carlo Giuliano 56 Musica di Daniele Gennaioli, Ismaele Calaciura Errante e Clara Villani 59 Stereo8 di Jacopo Andrea Panno 62 La diversa identità di Gaia Del Bosco e Carlotta Vernocchi 64 È solo una storia estiva di Cosimo Maj 68 Essere il cavallo nella scacchiera di Marco Ciabini 72 Storia di un popolo e dell'uomo che gli insegnò a ricordare di Anna Cassanelli 73 Oceano Indiano di Carlotta Vernocchi e Alessio Zaccardini 74 PLUS 77 La guerra delle due Italie di Luca Bagnariol, Luis Lombardozzi e Simone Martuscelli 78 Burocrazia: un rapporto complicato di Andrea Calà 83 Le difese immunitarie della fede di Erica Gentili 86

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IL DIGITAL DIVIDE UN'ANALISI A TUTTO TONDO DEI FATTORI GEOGRAFICI SOCIALI E CULTURALI

L’inclusione e l’esclusione digitale sono determinate da una molteplicità e complessità di fattori saldamente interconnessi fra loro di carattere culturale, economico, sociale, geografico. Abbiamo analizzato questo legame, dimostrando come la diseguaglianza nelle condizioni di accesso ad internet e nello sviluppo delle competenze digitali alimenti le disparità economiche e sociali, che a loro volta ampliano il digital divide, all’interno di un circolo vizioso di esclusione sociale.

Scomodo

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Il digital divide Un’introduzione al tema Il digital divide segnala, nel suo significato più generale, la difficoltà di una parte della popolazione di dialogare con gli strumenti tecnologici. Ciò è dovuto d’altra parte a due ordini di problemi : da un lato le differenti dotazioni riguardanti l’accesso alla rete internet, dall’altro la disparità nel grado di "alfabetizzazione digitale", fondamentale per la comprensione degli strumenti digitali e per il loro utilizzo consapevole ed efficiente. L’inclusione e l’esclusione digitale sono determinate quindi da una molteplicità e complessità di fattori saldamente interconnessi fra loro di carattere culturale, economico, sociale, geografico. Le dinamiche territoriali a livello di infrastrutture fanno i conti con una presa di coscienza ancora troppo lenta e superficiale dell’importanza di dirigere i processi di cambiamento e di crescita culturale digitale. Con la pandemia, l’impreparazione delle società contemporanee è emersa palesemente, è venuta sotto gli occhi di tutti, scatenando accesi dibattiti e interrogativi sulla natura complessa e articolata di alcuni fenomeni, forse, con una evidenza inedita. Al vertice delle questioni critiche c’è sicuramente il tema del digital divide. Un primo sguardo ai dati L’Italia è arrivata tardi al digitale, abbiamo aspettato anni prima di investire qualche milione per portare la banda larga fissa su tutto il territorio nazionale, e questo ha causato un ritardo inevitabile nell’adeguamento del pensiero analogico collettivo a quello digitale, soprattutto se si guarda a chi è stato “coperto” più tardi, a chi è stato lasciato indietro nell’educazione digitale, o a quelle imprese che si sono trovate in un contesto ampiamente globalizzato e digitale, ma con una cultura territoriale ancora impreparata agli enormi mutamenti in atto. 4

Se 10 anni fa eravamo indietro sulla banda larga fissa, oggi, che questa raggiunge finalmente quasi la totalità del territorio, siamo indietro su quella veloce, fondamentale per le videochiamate, le conference call, i servizi di cloud, la scuola digitale ; siamo indietro sulle competenze, con una popolazione che per oltre il 40% ha competenze digitali basse, o addirittura minime. Secondo l’Indice Desi, strumento utilizzato dalla commissione europea per monitorare lo sviluppo tecnologico e la sua competitività, l’Italia si colloca al 24esimo tra i 28 paesi membri dell’Unione Europea. Per quanto riguarda la copertura dell'infrastruttura della rete, la posizione dell’italia ha conosciuto un netto miglioramento negli ultimi anni, con una copertura vicina al 100% delle famiglie per quanto riguarda la banda larga fissa, e una prospettiva di sviluppo basata su strategie nazionali di investimento per quanto riguarda la banda larga veloce. Tuttavia tre persone su dieci non utilizzano ancora Internet abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base. Ciò si riflette inevitabilmente sui servizi digitali, che versano in una situazione di stallo e di incompiutezza, con un seguente danno alla produttività delle imprese e alla crescita socio economica del paese. Cultura del digitale e tutela dei diritti Gli interventi legislativi, in particolare quelli che incidono sui diritti, accompagnano i processi culturali. Una nuova cultura del digitale inevitabilmente viene affiancata da un impianto normativo in grado di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo, di proteggere la loro realizzazione. Garantire libertà di connessione significa ormai permettere di esercitare e godere dei propri diritti fondamentali : il diritto alla connettività è divenuto dunque un postulato irrinunciabile per l’esplicazione e la realizzazione materiale di una molteplicità di altri diritti fondamentali, consequenzialmente legati alla rete e che in essa si realizzano. Scomodo

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Il dibattito normativo in merito è particolarmente articolato, sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Alle carte internazionali, redatte a tutela dei diritti connessi ad internet, è da riconoscere il merito dell'immissione negli ordinamenti di quei princìpi che possono essere una base per lo sviluppo di un impianto culturale che diriga i processi di digitalizzazione. In Italia la discussione legislativa risale a circa dieci anni fa, quando si è avvertita l’esigenza di portare internet ovunque. Nel 2010 arrivò una proposta in parlamento, presentata da Stefano Rodotà in occasione dell’Internet Governance Forum, per mettere il diritto di accesso ad internet in costituzione, all’interno dell’art. 21 bis. Nonostante le importanti reazioni a questa proposta, alla fine essa non venne approvata. Successivamente si tenne un dibattito in commissione parlamentare, quando la camera era presieduta dalla Boldrini, per il diritto all’accesso ad internet, che portò alla redazione di una carta di diritti di internet, tuttavia con carattere non vincolante. Nonostante vi sia la possibilità di tutelare il diritto ad internet secondo vie interpretative e giurisprudenziali, basandosi sulla sua congruità con il quadro costituzionale, riteniamo sia rilevante ai fini del risultato sostanziale l’introduzione del comma o di un articolo in costituzione, che possa coniugare la libertà di connessione alla concezione del diritto di internet come un diritto sociale, al pari di altri diritti come l’istruzione e la sanità. Ciò potrebbe concorrere all’obbligo concreto dello Stato di intervenire per far fronte alle concrete esigenze dei cittadini, garantendo uno standard minimo nel servizio di connessione - che oramai è rappresentato sempre più dalla banda ultra larga - e di rimediare gradualmente alle disomogeneità nello sviluppo e nell’utilizzo dell’infrastruttura della rete su tutto il territorio nazionale. In tempi più recenti, alcuni senatori (tra cui di Liuzzi e D’Ippolito) hanno presentato una proposta, per larga parte ispirata e basata su quella del 2010 di Rodotà e sui lavori successivi della commissione parlamentare, per aggiungere un articolo in costituzione,il 34bis. Leggendo la disposizione presentata nella proposta emerge un chiaro riferimento alla concezione di internet come diritto sociale e non come semplice libertà di accesso. Tuttavia ad oggi il disegno di legge si trova in una fase di stallo, depositato in commissione affari costituzionali, incorporato in un’ultima proposta presentata nel 2019 proprio dalla suddetta commissione. Scomodo

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L’iter di approvazione ha tempi lunghi e una natura complessa : si rischia che diventi una maschera a tutela dell'inconcludenza politica, rallentando così i processi di digitalizzazione in atto e soprattutto trascurando la necessità di strumenti di tutela e di cambiamento sociale che richiedono tali trasformazioni. Una disparità nel controllo della rete si traduce inevitabilmente in una diseguaglianza sociale ed economica, nonché in una lesione dei diritti fondamentali per chi è estromesso, direttamente o indirettamente, dai benefici del digitale : le disuguaglianze nelle condizioni di accesso ad internet e nello sviluppo delle competenze digitali alimentano le disparità economiche e sociali, che a loro volta alimentano il digital divide, all’interno di un circolo vizioso di esclusione sociale. La attuale pandemia ha mostrato solo una parte delle tantissime opportunità che il digitale ha ancora da offrire: si parla di uguaglianza, di partecipazione, di competenza; sta a tutti noi manifestare con chiarezza una volontà collettiva di cambiamento e una forte presa di coscienza, far sviluppare una volontà politica di rinnovamento e, allo stesso tempo, arginare e mettere a fuoco problematiche legate alla crescita digitale, adeguando l’impianto delle riforme strutturali e sociali alla cultura del digitale, nell’ottica di una crescita e di uno sviluppo armoniosi della nostra società.

di Lorenzo Cirino

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La digitalizzazione del comparto statale A seguito della liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni avvenuta all’inizio degli anni 90’, è stato introdotta in Europa, e in seguito anche in Italia il cosiddetto “servizio universale” il primo istituto giuridico che imponeva obblighi regolamentari a qualsiasi gestore di servizi telecomunicativi e conseguentemente multimediali di utilità pubblica, fosse esso pubblico o privato. Introdotto in Italia nel 2003 con il Decreto n. 259, conosciuto anche come Codice delle Comunicazioni elettroniche”, questo codice identifica il servizio universale come “l’insieme minimo di servizi di una qualità determinata, accessibile a tutti gli utenti, a prescindere dalla loro ubicazione geografica e offerti a un prezzo accessibile”. Il servizio universale è dunque, secondo alcuni autori, quella parte di presenza pubblica che permane una volta terminato il gioco della domanda e dell’offerta. La fornitura del collegamento alla rete fissa è stato il principale, se non unico obiettivo di questo servizio per gli ultimi 15 anni,concepito dalla legislazione italiana per garantire a tutti l’usufrutto dei servizi telefonici. Questo servizio è stato garantito grazie alla presenza di una infrastruttura preesistente già molto vasta (la rete cosiddetta incumbent di Telecom) cosa che ha permesso di ridurre i costi di gestione e conseguentemente, quelli del servizio medesimo. Tuttavia, il nodo fondamentale del fallimento del servizio universale è sicuramente la mancanza di qualsiasi forma legislativa che garantisca l’accesso alla banda larga, ritenuto un privilegio non essenziale. 6

Per una riduzione del fenomeno del digital divide, l’inserimento di tale obbligo diventa un nodo fondamentale, considerando che l’evoluzione della digital society ha ormai reso l’inclusione dell'accesso alla rete digitale un diritto necessario, aspetto fondamentale per garantire la parità di diritti e accesso ai servizi pubblici nell’era della rivoluzione digitale. Lo stato digitale La digitalizzazione della pubblica amministrazione, chiamata anche con il termine “e-government”, è definito molto vagamente, da una comunicazione dell’Unione Europea del 26 settembre 2003, come «l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle pubbliche amministrazioni (..) al fine di migliorare i servizi pubblici ed i processi democratici e di rafforzare il sostegno alle politiche pubbliche>>. Il processo della digitalizzazione della pubblica amministrazione, definita in Italia come informatizzazione dell'organizzazione e dell'azione amministrativa, comporta l’utilizzo di varie soluzioni informatiche, al fine di consentire una circolazione di informazioni più rapida e diretta tra i vari apparati pubblici, accelerando i processi burocratici interni, e cercando così di garantire un servizio migliore per i cittadini. L’e-government dunque, mira essenzialmente a due scopi principali: l’offerta di servizi più efficaci e diretti per i cittadini e l’incremento dell’efficienza dei processi interni delle singole agenzie della PA. Grazie all'applicazione dell'ICT (Information e communication tecnologies, acronimo che definisce tutte le tecnologie riguardanti i sistemi di telecomunicazione digitale) congiuntamente ad una rielaborazione delle procedure interne: eliminando le operazioni superflue o quantomeno non fondamentali, che non apportano un valore aggiunto, si ottengono processi più rapidi e quindi efficienti; ciò comporta la possibilità di fornire risposte più celeri agli utenti finali. Scomodo

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Inoltre, per la realizzazione dell’e-government è auspicabile che vengano introdotti i principi dell’Open government; una filosofia, ormai diventata prassi nel settore e considerata criterio guida in questo settore, in base alla quale gli enti e le istituzioni pubbliche debbono plasmare il loro operato intorno a tre pilastri di massima importanza: la partecipazione, la trasparenza e la collaborazione. Questi principi devono costituire i pilastri fondamentali di un governo aperto al dialogo e al confronto partecipato con i cittadini, in modo da favorire un controllo diffuso da parte del singolo cittadino sull'operato delle istituzioni e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, semplificando il processo di accesso e consultazioni di documenti governativi. Dove siamo ad oggi? In Italia la normativa più significativa in termini di digitalizzazione ed e-government è figlia della legge 124/2015, la riforma strutturale della Pubblica Amministrazione più recente. Ai sensi dell’art. 1 della l. 124/2015 – rubricato «Carta della cittadinanza digitale» – il Governo è stato delegato ad emanare norme di modifica al CAD (Codice dell'Amministrazione digitale) volte a «garantire ai cittadini ed alle imprese il diritto di accedere a tutti i dati, i documenti ed i servizi di loro interesse in modalità digitale” e «la semplificazione nell’accesso ai servizi alla persona, riducendo la necessità dell’accesso fisico agli uffici pubblici». Rispetto a riforme precedenti, la riforma del 2015 (Riforma Madia) spicca per valore innovativo, specialmente per la volontà di una ridefinizione e semplificazione dei procedimenti amministrativi, mediante una “disciplina basata sulla loro digitalizzazione e per la piena realizzazione del principio innanzitutto digitale” Con una delega del 2016 sono state attuate le prime modifiche CAD; fra quelle di maggiore impatto possiamo trovare le seguenti: - l’istituzione di un’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) che prenderà il posto delle anagrafi dei comuni costituendo un’unica banca dati nazionale - la realizzazione del Sistema Pubblico di gestione dell’Identità Digitale (SPID) che permetterà agli utenti di accedere con un unico profilo e password identificativa Scomodo

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ai servizi online della pubblica amministrazione (art. 64 del CAD); - l’introduzione dell’obbligo per tutte le amministrazioni di accettare i pagamenti spettanti a qualsiasi titolo attraverso strumenti di pagamento elettronico; - la promozione della diffusione del domicilio digitale per le persone fisiche al fine di facilitare le comunicazioni con le pubbliche amministrazioni (art. 3 quinquies del CAD); la diffusione della connettività internet negli uffici e nei luoghi pubblici con free access per gli utenti dei servizi (art. 8 bis del CAD). Tutte le misure introdotte dalla riforma Madia sono accomunate dal desiderio di uno snellimento e della semplificazione che rappresenta un traguardo ancora ben lontano dall’essere raggiunto soprattutto nella realtà della pubblica amministrazione italiana connotata da un forte tasso di burocrazia e complessità che ostacola il conseguimento di risultati significativi in termini di sviluppo sostenibile e competitività del sistema Paese. Il rischio nascosto Tuttavia la difficoltà principale della digitalizzazione della Pubblica amministrazione è sicuramente il problema legato al digital divide, ovvero del divario digitale che si registra fra coloro che conoscono ed utilizzano efficacemente gli strumenti informatici e coloro che ne restano tagliati fuori per le ragioni più diverse. Oltre a questo,sono fattori di rilievo che oltre il 50% della popolazione italiana ha più di 35 annied è stata formata in un epoca dove l’accesso alla tecnologia era sicuramente più limitato, e che meno del 60% della popolazione ha conseguito un titolo di studio superiore alla licenza media. Inoltre, i programmi ministeriali delle scuole dell’obbligo prevedono una formazione sulle materie informatiche assolutamente inadeguata rispetto al progresso delle tecnologie digitali. 7


Per comprendere quanto il digital divide possa impattare le politiche di e-government appaiono eloquenti i dati riguardanti il Digital Economy and Society Index (DESI) reperibili sul sito web della Commissione Europea, aggiornati al 2017: l’Italia occupa la quart’ultima posizione (seguita da Grecia, Bulgaria e Romania) della graduatoria dei paesi europei basata sul tasso di crescita digitale; dall’analisi degli studi effettuati si evince che solo il 56% della popolazione residente in Italia dichiara di utilizzare internet (a fronte di una media europea del 72%) e che il 34% degli italiani dichiara di non avere mai utilizzato internet (a fronte di un dato medio europeo del 21%). Infatti, sebbene il CAD ponga fra gli obblighi delle amministrazioni la promozione di iniziative « volte a favorire la diffusione della cultura digitale fra i cittadini con particolare riguardo ai minori ed alle categorie a rischio di esclusione» (art. 8 del CAD) ad oggi non sono derivate azioni concrete rivolte a questo fine. Il problema del digital divide e il suo rapporto con la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione è particolarmente rilevante perché le Pa sono chiamate a ricercare un ottimale equilibrio tra la digitalizzazione possibile e la tutela degli interessi di tutti, anche di chi a causa del gap sopra indicato non è in grado di interagire telematicamente con le autorità pubbliche. È necessario dunque che la promozione delle politiche di e-government (dichiaratamente ispirate alla massima partecipazione del cittadino alla vita pubblica) non finiscano per paradossalmente per escludere sezioni più o meno ampi della popolazione a causa del digital divide. È inoltre importante tenere a mente che le frange di popolazione maggiormente esposte a questa marginalizzazione sono le categorie fragili della popolazione per eccellenza: anziani, indigenti, immigrati e chi non possiede un livello di alfabetizzazione abbasta elevato. 8

In un paese dove quasi un quarto della popolazione ha dichiarato di aver mai fatto utilizzo di internet per funzioni di attività, diventa inevitabile guardare con una certa perplessità alle riforme di e-government “tanto al chilo” che non tengono in adeguato conto delle peculiarità del contesto territoriale, culturale e socio-economico nel quale vanno ad incidere.

di Di Giulio Rizzuti Scomodo

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La realtà composita del digital divide Questione di banda Il processo italiano di digitalizzazione, non solo per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione ma anche per la diffusione nella popolazione, è stato poco unitario fin dagli esordi. Questa mancanza di omogeneità non è sicuramente un fenomeno unicamente italiano, ma assume delle caratteristiche peculiari di paese in paese, andandosi a scontrare con particolari dinamiche sociali e territoriali. Oggi in Italia l’accesso alla Rete è garantito pressoché ovunque. La maggior parte del territorio italiano è coperto dalla banda larga, ad eccezione di pochissime aree remote che sono totalmente escluse da Internet. Tuttavia, la banda larga non basta per svolgere molte attività online di uso corrente, divenute fondamentali durante il lockdown; per esempio, le video chiamate, la didattica a distanza, lo streaming video. Il termine banda larga ha quindi assunto un valore relativo, per cui la tradizionale banda larga è adesso considerata ‘stretta’. Per poter utilizzare Internet in maniera agevole oggi c’è bisogno della ben più potente banda ultra larga, presente in maniera disomogenea sul territorio. Sotto questo aspetto, l’Italia è molto indietro rispetto agli altri paesi europei: secondo il DESI, l’indice della Commissione Europea che valuta il grado di digitalizzazione su diversi parametri, nel 2019 l’Italia si è classificata ventiquattresima su ventotto. Per rendere più chiara la distribuzione della Rete e lo stato degli investimenti privati, l’Unione Europea ha deciso di dividere il territorio in aree bianche, grigie e nere. Nelle aree nere è presente, o lo sarà nei prossimi anni, più di una rete a banda ultra larga, nelle aree grigie una sola rete a banda ultra larga, mentre le aree bianche sono a fallimento di mercato. Sono principalmente queste zone, dunque, a far scendere l’Italia nella classifica del DESI, e ad essere svantaggiate nell’accesso ai servizi rispetto alle aree nere, in un mondo nel quale il digitale acquista sempre più importanza. Scomodo

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Per colmare questo gap è necessario l’intervento statale, e a tal proposito nel 2015 è stato elaborato il piano BUL, per garantire la connessione in tutte le aree bianche, in atto seppur con qualche ritardo, grazie a fondi europei, nazionali e regionali. Tuttavia, fornire una buona connessione non significa automaticamente che la popolazione sia connessa. Il problema del digital divide è infatti ben più complesso, di carattere non solo infrastrutturale ma anche e soprattutto culturale. Le diseguaglianze nella domanda e nell’offerta È evidente che la divisione in aree sopra citata non sia così netta, ma si tratti invece di una realtà composita. Il grado di digitalizzazione a livello territoriale può quindi variare tantissimo, da regione a regione, ma anche da Comune a Comune. I fattori che acuiscono o mitigano il digital divide a livello geografico-territoriale sono quindi molteplici. Tra questi, il tradizionale divario Nord-Sud, che, seppur meno evidente rispetto ad altri settori produttivi, è riscontrabile anche nell’ambito della digitalizzazione. Secondo i dati ISTAT, se al Nord il 70,6% della popolazione possiede un abbonamento fisso a banda larga, al Sud si scende al 62,5%. Un’altra forte disparità mai colmata è quella tra grandi città e le aree interne. Va da sé che nelle aree urbane l’utilizzo di Internet aumenta, non solo per la Pubblica Amministrazione ma anche tra gli individui e le famiglie. Nelle aree metropolitane il 78,1% delle famiglie ha una connessione a banda larga, valore che scende a 68,0% nei Comuni con popolazione inferiore ai 2.000 abitanti. Inoltre, le regioni più digitalizzate sono Lombardia e Lazio, in quanto hanno le aree urbane di maggiore densità di tutta Italia. 9


Su questo tema abbiamo intervistato Riccardo Luna, giornalista che da anni tratta il tema del digitale e si batte per un accesso universale e un maggior sviluppo della Rete, nominato Digital Champion nel 2014. Commentando i dati afferma che: ‘’Questi dati, facili da intuire, confermano che a uno sviluppo economico e sociale forte corrisponde anche a un forte sviluppo digitale e viceversa. Non avere il digitale è un fattore di povertà, ma la povertà spinge le persone a non avere il digitale. È difficile distinguere quale sia la causa e quale l’effetto in questa correlazione, però sicuramente chi ha di meno è anche escluso dalla rivoluzione digitale, e questo lo penalizza ulteriormente. Il compito dell’istituzione pubblica è essere inclusiva, quindi consentire a queste fasce della popolazione che sono rimaste indietro di avere gli strumenti per mettersi in gioco, per trovare lavoro, cultura e occasione di svago attraverso la Rete come tutti gli altri. Nelle province meno digitalizzate il digital divide è forte soprattutto dal punto di vista culturale’’. La digitalizzazione svolge dunque un ruolo molto importante in queste dinamiche territoriali. Tuttavia, se a livello teorico il digitale potrebbe essere visto come un buon mezzo per contribuire a scardinare le disparità economico-sociali, la rivoluzione digitale si è mostrata molto poco democratica. Le stesse dinamiche sono state replicate nel processo di digitalizzazione. Complice anche la forte presenza dei privati nel settore digitale, le aree interne sono state volutamente trascurate, venendo reputate meno interessanti dal punto di vista del profitto economico. Queste zone sono state dunque lasciate indietro di proposito, a causa della loro marginalità, che però in questo modo è andata solo ad acuirsi. Nel momento in cui anche la connessione a Internet determina la possibilità di accedere ai servizi, una digitalizzazione più deludente rispetto a quella delle aree urbane non è più soltanto il risultato della posizione di marginalità di queste zone ma ne è anche una delle cause scatenanti. Le aree interne comprendono circa il 53% della superficie italiana e il 23% della popolazione. Si tratta dunque di una fascia della popolazione non indifferente, che non può essere ignorata dallo sviluppo digitale. Tuttavia, uno scarso sviluppo della Rete in determinate aree del nostro paese non è imputabile soltanto alla classe politica o alle aziende telefoniche, ma anche a uno scarso interesse verso questo mondo da parte della popolazione, che ha reso queste aree ancora meno appetibili al mercato digitale. 10

Secondo Riccardo Luna ‘’ Quando parliamo di accesso a Internet non parliamo soltanto di digital divide infrastrutturale, ma anche di un digital divide culturale. Ci sono persone che in questi anni avrebbero potuto cambiare abbonamento a Internet per prendere la banda ultra larga, e non l’hanno fatto, e non per motivi prettamente economici, quindi c’è un problema di domanda. La disponibilità di banda ultra larga è maggiore degli abbonamenti effettivi, che si somma a un problema di offerta, quello delle aree bianche, non coperte da banda ultra larga perché per le aziende telefoniche c’è meno business, dove serve un incentivo statale per mettere la fibra. Nelle zone in cui la banda ultra larga è arrivata non c’è stata una domanda sufficiente perché le persone non hanno ritenuto che Internet fosse qualcosa in cui investire. Molte famiglie in questi anni, dovendo scegliere tra una TV più grande e un abbonamento a banda ultra larga, hanno scelto la TV. Ovviamente generalizzando, perché molte famiglie non avevano neanche la facoltà economica per permettersi questo tipo di scelte. Con il lockdown probabilmente le cose sono cambiate, perché tutti ci siamo dovuti adeguare all’uso di Internet per varie esigenze, e tutti abbiamo capito quanto è importante Internet. Per questo motivo con la pandemia non cambierà soltanto l’offerta ma anche la domanda’’. I dati DESI confermano questa tendenza: a fronte di una copertura di banda larga pari a più del 99,5% del territorio, soltanto il 60% delle famiglie ha adottato questo tipo di Rete, valori ancora più significativi per la banda ultra larga: 24% delle famiglie aventi un abbonamento di questo tipo a fronte di una copertura pari al 90% del territorio. È quindi fondamentale un cambio di mentalità non solo da parte della classe politica, ma anche e soprattutto dalla popolazione. Il lockdown potrebbe essere il moto propulsore per il cambio di rotta che avrebbe già dovuto verificarsi qualche tempo fa. Su questo aspetto Luna afferma che ‘’ Il digital divide non è soltanto un tema politico. Se si ha l’opportunità di fare un abbonamento a Internet e non la si accetta è perché non se ne sono compresi i vantaggi. Oggi credo che in tanti abbiano capito quanto Internet sia una tecnologia fondamentale. Basta pensare a cosa è successo in pandemia col commercio elettronico, quando era tutto chiuso. I negozietti di quartiere hanno capito che l’unico modo per sopravvivere era l’e-commerce e il delivery a casa. Prima eravamo tra i paesi più indietro sotto questo aspetto, adesso i piccoli commercianti sanno che senza e-commerce sarebbero morti. Scomodo

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Lo stesso per la scuola, che per tanti anni si è riempita la bocca della parola digitale senza mai fare nulla di concreto, o lo smart working. Negli anni non c’è stata una sola manifestazione, un solo corteo studentesco, in cui la gente ha detto ‘’vogliamo Internet’’ ‘’vogliamo la scuola digitale. Oggi invece questo gap, che è culturale prima ancora che tecnologico e politico, probabilmente si è colmato. Essendoci quindi una domanda, mi auguro che ci sarà anche un’offerta, e che la politica sia in grado di accompagnare il processo per cui si farà un’unica società della rete e la fibra venga portata ovunque. Tenete conto però che su questo tema l’Italia parte indietro, per cui non possiamo sperare di diventare delle eccellenze. Se fino ad ora siamo stati tra gli ultimi nelle classifiche europee, non è che possiamo aspettarci che in futuro andrà tutto bene’’. Non c’era domanda, non era visto come qualcosa di sufficientemente importante’’. Le competenze digitali Le infrastrutture non sono l’unico ambito del processo di digitalizzazione a essere penalizzato da uno scarso interesse da parte degli italiani. Un altro grande parametro del digital divide è infatti quello delle competenze digitali, anch’esso fonte di disuguaglianze territoriali. Il capitale umano in materia digitale non è un punto forte dell’Italia in senso lato, se si considera che in Europa siamo ventiseiesimi in questo campo. La media europea di persone tra i 16 e i 74 anni con competenze digitali di base equivale a 57%, mentre in Italia sono solo il 44%. La mancanza di competenze digitali risulta attualmente il maggior fattore discriminante nell’accesso a Internet (56,4% tra le famiglie che non hanno una rete a casa), seguita da un 25,5% di famiglie che non considerano Internet utile e/o interessante. Sebbene le competenze digitali siano insufficienti in tutta la penisola, ciò non vuol dire che non ci sia anche qui una differenza sia tra Nord e Sud sia tra aree urbane e aree interne. A detta di Luna ‘’come si può facilmente intuire la provincia con le maggiori competenze digitali tra la popolazione è Milano, mentre le ultime sono fondamentalmente province del Sud. Nella classifica che avevamo stilato, che ora sarà un po' da rivedere, la più alta regione con competenze digitali è l'Emilia Romagna. In difficoltà erano la Calabria e la Sicilia. Proprio perché sono prevedibili serve un intervento importante. È più grande il digital divide culturale in quelle regioni. Scomodo

Maggio 2020

Per esempio in Calabria e Sicilia, due delle regioni meno digitalizzate d’Italia, si è riscontrato che non solo il numero degli abbonati a Internet è più basso, ma anche che c’è meno domanda’’. Da questo quadro risulta chiara la necessità di agire su più fronti per ridurre il digital divide territoriale: sarebbe sbagliato puntare il dito sulla parte della domanda o su quella dell’offerta, non cogliendo la complessità di questo divario, di matrice fondamentalmente culturale. Se, infatti, da una parte non si è dato a tutti gli italiani i mezzi e le capacità di partecipare alla Rivoluzione digitale, dall’altra anche la popolazione non ha saputo comprendere la potenzialità dei mezzi, seppur non sufficienti, che le sono stati forniti. Adesso che grazie alla pandemia la domanda da parte dei cittadini è verosimilmente aumentata, c’è bisogno di una risposta adatta da parte dell’offerta. Tuttavia, la sfida più grande rimane la ricezione di Internet da parte della popolazione. Come ci fa presente Riccardo Luna, prima della pandemia si erano fatti dei passi in questa direzione: ‘’prima del lockdown stavamo portando avanti un progetto del genere con TIM e altre aziende, andando nei piccoli Comuni ad aprire scuole di Internet. Il progetto riprenderà, ma con modalità differenti per motivi di sicurezza. Bisogna compiere un’operazione per far diventare cittadini digitali anche quelli che per il momento sono esclusi non per loro colpa, ma perché il mondo si è messo a correre e nessuno ha spiegato loro come stare al passo". Per il futuro la priorità non dev’essere esclusivamente fornire l’infrastruttura, ma anche e soprattutto creare le condizioni per far sì che essa possa essere sfruttata al meglio, su tutto il territorio nazionale. È un processo che si sarebbe dovuto verificare già da qualche anno, senza il bisogno di una pandemia.

di Bianca Pinto

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Gli internauti naufraghi Una questione centrale in merito al “digital divide” riguarda l’interiorizzazione a livello sociale delle competenze digitali. Come viene esplicitato dagli ultimi dati Istat sul livello della digitalizzazione citati negli articoli precedenti, emerge un effettivo aumento degli internauti. Tuttavia la problematica è che, tra chi usa internet, quasi la metà ha competenze digitali basse. Analizzando il tipo di connessione a disposizione in relazione ai vari nuclei familiari, diventa evidente uno dei principali aspetti di questo divario. Infatti, se nelle famiglie con almeno un minorenne la quasi totalità è dotata di un collegamento a banda larga (95,1%), tra le famiglie in cui i membri sono esclusivamente persone ultrasessantacinquenni la quota decresce drasticamente (34%). Anche solo con questi semplici numeri diventa lampante che una delle problematiche più rilevanti in Italia è adducibile ad una questione generazionale, fattore non secondario considerando che gli anziani over sessantacinque sono quasi 14 milioni e di questi la metà sono over settantacinque. Discriminanti Ulteriore causa di questo divario è il titolo di studio. Analizzando le persone che dispongono di una connessione a banda larga, questo fattore diventa palpabile, in quanto quasi la totalità delle famiglie con almeno un componente laureato ne dispone (94,1%), mentre, in quelle in cui il titolo più elevato raggiunto è la licenza media, questa percentuale è dimezzata (46,1%). Altre ragioni che alimentano questo divario sono di ordine economico, legate all’alto costo dei collegamenti o degli strumenti necessari, soprattutto per quanto riguarda la banda larga veloce. Dall’analisi combinata per generazione e titolo di studio, si può riscontrare che i laureati della generazione del “baby boom”, ossia le persone che nel 2019 hanno 54-73 anni, sono in gran parte internauti. Se questa generazione di laureati riesce ad avvicinarsi sempre più ai livelli di utilizzo dei giovani di 25-34 anni, i “baby boomers” con titoli di studio inferiori continuano ad essere notevolmente di meno. 12

Spesso le persone che non hanno conseguito un titolo di studio elevato, non sentono il bisogno di una connessione adeguata a causa di una incapacità di utilizzare un mezzo come internet. Questo fatto può diventare un circolo vizioso che si riversa anche sul versante occupazionale. Negli anni, tra gli occupati, si è gradualmente attenuato il divario tra dirigenti, imprenditori, liberi professionisti e operai per quanto riguarda le competenze digitali. Tali competenze sono ormai un aspetto fondamentale del proprio “curriculum”, infatti le “digital hard skills” o le “digital soft skills” stanno diventando tra le competenze più richieste nel mercato del lavoro. È quindi visibile come anche il lavoro si stia sempre più evolvendo verso il digitale, sollevando questioni di disuguaglianza rilevanti. Ad esempio, un fenomeno ormai acclamato è il divario digitale di genere, ossia l’esistenza di differenti “digital opportunities” tra uomini e donne, in particolare riguardo le diverse possibilità di accesso al mondo digitale. Anche in questo caso le motivazioni vanno ricercate nel titolo di studio raggiunto. Dai dati del MIUR emerge che difficilmente le donne frequentano scuole secondarie di secondo grado, rimanendo su un livello di competenze digitali abbastanza basso. Questo problema si rileva anche nell’infimo numero di ragazze che intraprende dei percorsi di studio informatici, dalle superiori all’università. Solo l’1,79% delle immatricolazioni a Facoltà come Ingegneria Informatica sono femminili, mentre per gli istituti tecnici la percentuale è del 16,3%. Le laureate nei corsi STEM sono il 31% per la triennale e 27 % per la magistrale in ingegneria, raggiungendo cifre simili anche nelle lauree per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Solo una minima parte delle donne si laurea in settori legati alla tecnologia, secondo il rapporto “Women Digital Age” della Commissione europea, il divario digitale di genere è su tutti i livelli, nell’educazione, nella carriera e nell’imprenditoria. Piani per il futuro Per tutte quelle persone che sono rimaste fuori dalla digitalizzazione, in particolare per una questione anagrafica, il cambiamento è stato brusco. Scomodo

Maggio 2020


Nel giro di pochi anni tante pratiche e processi prima tramite persona sono virati verso la versione online, rendendo sempre più disagevole il “diritto a non connettersi”. Anche dopo la fine del “lockdown”, per circa un milione di dipendenti pubblici, lo “smart working” continuerà ad essere il sistema di riferimento. Ciò avverrà non tanto per la necessità del distanziamento quanto proprio per lo spostamento di molte pratiche online, ad esempio durante la quarantena la PA ha potuto continuare a operare parzialmente anche grazie al digitale. Come afferma il giornalista esperto in materia Riccardo Luna, serve che la digitalizzazione faccia un passo avanti. Infatti deve poter essere garantito un servizio online, affinché possa essere efficace e accessibile a tutti, non rispettando ossequiosamente le procedure burocratiche, ma grazie all'indipendenza e all’autonomia dei dipendenti.Un passo avanti per la digitalizzazione dei servizi riguarda l’app “Io”, che dovrebbe mettere a disposizione diverse tipologie di servizi pubblici, permettendo ad esempio di pagare multe e tasse o ottenere certificati. Anche se attualmente esiste solo l’infrastruttura a cui agganciare i servizi, lo sviluppo ulteriore dell’app permetterebbe alle persone digitalmente abili di interfacciarsi con la PA tramite cellulare, risparmiando tempo e file. Fin quando però gran parte della popolazione non avrà delle adeguate competenze digitali, non si potranno sostituire i servizi tramite persona. Per cercare di arginare il problema dell’inclusione digitale, una proposta possibile può essere un investimento in corsi gratuiti in cui si insegni l’utilizzo di internet: prima della quarantena, alcune agenzie stavano intraprendendo un progetto del genere, aprendo delle scuole di internet in alcuni piccoli Comuni, che ora potranno continuare le loro attività con le dovute misure di sicurezza. Per far diventare cittadini digitali, anche coloro che non per propria colpevolezza si sono ritrovati al di fuori di un nuovo mondo, un mezzo valido potrebbe essere la televisione. Ad esempio la Rai, in quanto emissione e servizio pubblico, potrebbe e dovrebbe provare a raggiungere questo obiettivo. In particolare la televisione è un oggetto che riesce ad essere un minimo comune multiplo, anche con quelle fasce più problematiche, essendo il “medium” più efficace riguardo a comunicazione ed informazione, come quando negli anni 60 la Rai mandava in onda un programma che ha insegnato per anni a molti italiani a leggere e a scrivere. Scomodo

Maggio 2020

In questo modo la Rai potrebbe implementare una serie di mancanze, mettendo a disposizione un servizio pubblico, soprattutto in un momento come questo in cui la scuola è chiusa e non è possibile organizzare corsi. Auto alimentazione delle diseguaglianze Essendo l’aspetto culturale e l’aspetto socio-economico i principali fattori scatenanti del “digital divide”, tra le fasce di popolazione colpite da questo fenomeno ci sono inevitabilmente le minoranze etniche e gli immigrati. Le difficoltà riscontrate in queste persone sono causate spesso dal fattore linguistico o dal basso grado di scolarizzazione. Per loro potrebbe non essere così semplice colmare questo visibile “gap”. Nei campi nomadi, già colpiti da problemi di tipo sanitario e di mancanza di servizi come l’acqua corrente, i bambini e ragazzi che frequentano la scuola (spesso non oltre quella primaria e secondaria di primo grado), non avendo strumenti tecnici necessari e una connessione adeguata, hanno avuto grande difficoltà a seguire l’attività didattica in un momento di emergenza. Il fatto che nei campi non ci siano le risorse necessarie per stare al passo con la digitalizzazione, non farà che lasciarli ancora di più ai margini della società, così come accade per qualunque altra fascia sociale in queste condizioni. Il futuro del divario digitale è abbastanza incerto, attualmente l’unica certezza è che bisogna percorrere ancora molta strada per abbattere almeno le disuguaglianze 2.0.

di Marina Roio

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AT T UA L I TÀ

Scomodo

Maggio 2020


CPR, detenuti senza permesso La detenzione amministrativa degli “irregolari” in Italia costituisce un buco nero in cui vengono meno diritti fondamentali che prescindono dalla nazionalità

In Italia, un migrante può essere considerato “illegale” per diversi motivi: per avervi fatto ingresso senza un idoneo titolo, per non avere un permesso di soggiorno valido e per aver ricevuto un definitivo diniego della domanda di protezione internazionale. Se sussiste almeno una di queste condizioni il migrante è passibile di un decreto di espulsione e verrà portato in un CPR: un’anticamera dell’espulsione dove vengono perpetrate quotidianamente violazioni dei diritti umani. continua a pag. 18

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CPR, detenuti senza permesso -------------------------------------------------------------------------------------------------------La detenzione amministrativa degli “irregolari” in Italia costituisce un buco nero in cui vengono meno diritti fondamentali

Malik è arrivato in Italia del Senegal 30 anni fa, da allora ha lavorato in fabbrica e poi aperto una partita Iva come commerciante di vestiti e oggetti africani in un mercato a Bari. Allo scadere del suo permesso di soggiorno inizia quello che lui definisce in modo forte come “periodo di schiavitù senza diritti”, viene fermato a Macerata e fatto recludere nel CPR di Bari. Descrive il centro di reclusione come un “manicomio degli anni ‘50” e racconta di un business di persone che gestiscono le strutture di reclusione per ricevere fondi. Esistono posti in Italia dove persone come Malik, a cui scade il permesso di soggiorno, o persone che arrivano nel nostro paese in cerca di asilo o rifugio vengono trattate in modo disumano e degradante. In politica dei Centri di Permanenza per i Rimpatri si parla poco. Il cono d’ombra è anche e soprattutto informativo: non v’è possibilità di avere accesso a dati precisi e informazioni sui casi specifici, e questi luoghi sono descritti dunque attraverso sporadiche testimonianze. Si dà spesso per scontato che dopo l'arresto di migranti irregolari si passi direttamente al rimpatrio, ma in mezzo c'è un passaggio gestito poco e male, un posto dove vengono perpetrate quotidianamente violazioni dei diritti umani: in mezzo ci sono i CPR. 18

Scomodo

Maggio 2020


In Italia, un migrante può essere considerato “illegale” per diversi motivi: per avervi fatto ingresso senza un idoneo titolo, per non avere un permesso di soggiorno valido e per aver ricevuto un definitivo diniego della domanda di protezione internazionale. Se sussiste almeno una di queste condizioni il migrante è passibile di un decreto di espulsione e verrà portato in un CPR. Questo luogo, dunque, nasce come anticamera dell’espulsione: è la riva dell’Acheronte su cui sostare in attesa del rimpatrio nel proprio Paese (che per molti migranti, dopo il sogno del paradiso europeo, rappresenta l’inferno). A volte, i migranti irregolari trattenuti potrebbero esser stati denunciati per il reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”, ma questo non ha alcuna correlazione diretta con il loro trattenimento nel CPR (se non, come detto, generare il conseguente provvedimento di espulsione). La nascita dei CPR e la loro non-evoluzione Se c’è un episodio esplicativo per la nascita del sistema dei CPR in Italia è senz’altro lo sbarco di ventimila migranti albanesi giunti nel 1991 al porto di Bari con la cosiddetta “nave dolce”. Nella confusione istituzionale e nel pieno dell’estate all’italiana, la maggior parte di queste persone viene stipata nello stadio della città, in attesa di visibilità umana e di riconoscimento che andasse al di là della scelta disperata che avevano compiuto. Così, nell’incertezza sul da farsi riguardo alla presenza di migliaia di persone straniere in territorio pugliese, si diede il via allo scellerato progetto della detenzione amministrativa.

Con la legge Puglia del 1995 vengono istituiti i primi centri di accoglienza (CDA), dai quali però non si può uscire. Se il concetto di “accoglienza” era ambiguo e a tratti surreale, lo sviluppo di queste strutture nel corso degli anni si è rivelato fallimentare assecondando solo la propaganda politica della “lotta all’immigrazione” a destra così come a sinistra.

in primis, chi come Malik era irregolare su suolo italiano, ma anche chi wwaveva inoltrato una richiesta di domanda d’asilo. Dal 2005 in poi, l’Italia si ritrova a recepire diverse direttive europee riguardo alla tematica che tendono a trasformare e rimodellare queste strutture: ci saranno i Centri di Primo Soccorso e Accoglienza (volti ad una accoglienza emergenziale di al massimo 48 ore per gli appena sbarcati), i CDI che diventano Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA), ed i controversi CPT che si brutalizzano diventando Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Inoltre all’accompagnamento coatto già in uso come tecnica di espulsione, si aggiunge anche il paradossale “rimpatrio volontario”. Con la legge Minniti-Orlando del 2017 si arriva alla definizione di Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Al loro interno, persone come Malik subiscono un periodo di vera e propria detenzione senza aver diritto ad un processo.

“Nel 1998, durante il governo D’Alema, viene approvata la legge Turco-Napolitano, con cui si normalizza la pratica della detenzione amministrativa nei, così chiamati, Centri di Permanenza Temporanea (CPT).”

Scomodo

Maggio 2020

Nel 1998, durante il governo D’Alema, viene approvata la legge Turco-Napolitano, con cui si normalizza la pratica della detenzione amministrativa nei, così chiamati, Centri di Permanenza Temporanea (CPT) per un massimo di 30 giorni nel momento in cui non era possibile il respingimento alla frontiera, l’espulsione o l’identificazione. Il 1998 è l’anno in cui il cittadino italiano, inconsapevolmente, diventa complice di un sistema incapace di tutelare e accogliere degli irregolari sul suolo italiano, senza dare loro nessun tipo di chance. Durante il secondo governo Berlusconi e con la legge Bossi-Fini, le caratteristiche della detenzione amministrativa si inaspriscono: i tempi di permanenza si allungano e vengono istituiti i Centri di Identificazione (CDI) per trattenere,

Che tipo di struttura detentiva? L’ordinamento italiano e quello delle Corti Sovranazionali considerano la reclusione all’interno dei CPR come un'extrema ratio: una soluzione estrema per l’espulsione di Malik e tutti gli altri individui extraeuropei senza permesso di soggiorno e documenti e che hanno quindi commesso un illecito amministrativo. “Se non ci sono metodi alternativi, come lasciare il Paese in maniera autonoma, questi individui vengono condotti in queste strutture che sono di fatto dei parcheggi”, spiega a Scomodo l’avvocato Gennaro Santoro dell’Associazione Antigone e consulente della CILD, “e che non hanno niente a che fare con l’accoglienza. 19


A mio avviso queste strutture andrebbero totalmente superate”. In questo “parcheggio” di privazione della libertà i reclusi come Malik si trovano in una condizione “nulla”, in attesa di un’identificazione e in seguito di un rimpatrio, che di fatto non si sa se, quando e come avverrà. La collaborazione con i Paesi d’origine non è scontata e più emergono problemi burocratici, più tempo i “detenuti” scontano una pena dovuta ad una irregolarità amministrativa, e non a causa di un reato, il cui provvedimento non può essere neanche considerato una vera e propria sanzione. Il trattenimento nei CPR è giustificato solo per il tempo strettamente necessario ad eseguire il provvedimento di espulsione, e in ogni caso non superiore a 180 giorni. Tuttavia nei fatti ci sono persone che, a causa di continue proroghe del trattenimento iniziale, rimangono detenute in questi luoghi anche più di un anno, senza alcuna possibilità di eseguire il provvedimento di espulsione. Infatti, i costi di un rimpatrio, non solo economici, sono altissimi. Esso inoltre dovrebbe essere effettuato nelle forme del l ’ac c omp ag na mento coatto, con lo Stato tenuto a eseguirlo con un volo charter e ogni migrante accompagnato da due agenti di pubblica sicurezza. Ciò può avvenire solo se ci sono degli accordi bilaterali tra i Paesi coinvolti. L’Italia ne ha stipulati solo quattro: Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria, oltre al terribile memorandum con la Libia. La mancata collaborazione con molti altri Paesi renderebbe illegittimi quasi tutti i trattenimenti nei CPR.

Le differenze con gli istituti penitenziari non riguardano esclusivamente i motivi della reclusione, ma anche l’organizzazione dei luoghi. Anche se equiparabile ad una detenzione penale, il trattenimento nei CPR riguarda il diritto amministrativo, e quindi non prevede le garanzie che il diritto penale riserva agli imputati e ai detenuti.

e non va a sindacare realmente l’operato delle autorità amministrative coinvolte. “I CPR costituiscono un buco nero!”, dice a Scomodo l’avvocato Gennaro Santoro. “Si fa difficoltà a reperire le informazioni e ridottissima è la corrispondenza interna con il mondo esterno, non essendo una detenzione penale”. La società civile non ha accesso a queste strutture fatiscenti, e i reclusi sono lasciati a loro stessi in cameroni affollati, senza poter far appello ad operatori civili la cui presenza è ritenuta fondamentale nei penitenziari. L’Associazione dei Giuristi per la difesa dei diritti fondamentali spiega a Scomodo che non essendo sulla carta i CPR luoghi di detenzione l’uscita all’aria aperta dovrebbe essere disponibile ogni qualvolta un soggetto voglia accedervi. Spesso, però, persistono limitazioni arbitrarie. La vita all’interno dei CPR non è disciplinata: le giornate non sono scandite da attività lavorative, scolastiche o di socializzazione e anche per i pochi individui fortunati, che riescono ad ottenere un permesso di soggiorno, non esiste nulla che faciliti o programmi il reinserimento sociale, invece teoricamente previsto per chi proviene da strutture detentive. Emblematico è il fatto che l’assistenza sanitaria di un certo livello, di cui godono gli istituti penitenziari, in questi centri è mancante e l’emergenza del COVID-19 non ha influito minimamente sulle condizioni di reclusione. La pandemia, come già noto per i casi carcerari, costituisce un rischio ancor maggiore per tutte le strutture chiuse al mondo esterno e affollate.

“I CPR sono un buco nero: si fa difficoltà a reperire le informazioni e ridottissima è la corrispondenza interna con il mondo esterno, non essendo una detenzione penale.”

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Sono i Giudici di Pace a convalidare o prorogare i trattenimenti, e dovrebbero garantire un controllo giurisdizionale sull’espulsione e su ciò che avviene all’interno di queste strutture. Nel concreto, questo controllo risulta essere solo formale,

Scomodo

Maggio 2020


Tuttavia, i CPR continuano a lavorare a pieno regime anche se la legittimazione del rimpatrio in questo momento è pari a zero. Non solo i trattenuti continuano ad essere reclusi per un fine al momento non attuabile, ma gli arresti sono proseguiti determinando costanti arrivi di nuovi soggetti. Servizi al ribasso Se il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno dei centri è di competenza delle forze di polizia, l’erogazione dei servizi primari per i detenuti è affidata a enti privati individuati dalle Prefetture competenti con un concorso al ribasso, premiante l’offerta economicamente più vantaggiosa. Le competenze e i requisiti minimi, in termini di expertise, che devono avere gli aggiudicatari sono senz’altro molto specifici, trattandosi comunque di ruoli delicati che prevedono il relazionarsi con persone private della libertà: tuttavia, tra le varie aziende o cooperative al momento incaricate di gestire i CPR, non è facile individuare un denominatore comune a causa dell’eterogeneità dei contesti da cui esse provengono. Gli enti gestori, infatti, spaziano da aziende come GEPSA (Torino), avente in gestione anche numerose carceri private in Francia, quindi in teoria esperta nell’ambito della detenzione, a cooperative come Versoprobo (Milano, CPR in via di apertura) che si occupano di erogare servizi primari in diversi Centri di Accoglienza Straordinaria, abituate quindi a interfacciarsi con stranieri e richiedenti asilo, ma di certo non in contesti di restrizione della libertà personale.

A fornire delle linee guida per la gestione pratica dei CPR c’è un Regolamento prodotto nel 2014 dal Ministero dell’Interno, preceduto unicamente dalla direttiva Bianco del 2000 e da una Circolare del 2002 che individuavano delle linee guida con lo scopo di fornire un modello standard, per quanto riguardava i costi e le prestazioni minime da erogare.

Nonostante ciò, non esiste a oggi un Codice inequivocabile e avente il valore di legge che normalizzi l’amministrazione dei CPR. Il documento del 2014, infatti, non è mai stato sottoposto al vaglio parlamentare. Il Regolamento pone senz’altro delle garanzie fondamentali per i trattenuti; la sua natura poco vincolante, però, compromette la loro effettiva tutela. Nel suo Rapporto del 2018 sulle visite effettuate nei CPR di Torino, Brindisi, Palazzo San Gervasio e Bari, il Garante Nazionale dichiara infatti di aver riscontrato numerose inosservanze del Regolamento, oltre che vere e proprie violazioni dei diritti umani. Queste ultime sono dovute, in parte, a carenze strutturali: molti dei CPR sono risultati deficitari di una mensa (i trattenuti erano costretti a mangiare nei luoghi di pernottamento) o di servizi igienici adeguati a soddisfare le necessità degli ospiti. Inoltre, nonostante debba essere garantita la salute psicofisica dei trattenuti, risultano quasi inesistenti servizi di assistenza psicologica e mediazione culturale, entrambi estremamente importanti in un contesto dove l’isolamento (linguistico, sociale, culturale) unitamente alla disperazione provata nel veder fallire il proprio progetto migratorio tendono a facilitare l’insorgere di episodi di violenza o l’utilizzo di mezzi come scioperi della fame o autolesionismo per far valere i propri diritti. Il Garante riporta infatti che, assicurando una concreta erogazione dei servizi di supporto e migliorando le condizioni di vita all’interno dei CPR, si ridurrebbero i livelli di stress nelle strutture con conseguente decremento delle manifestazioni di protesta che,

“L’erogazione dei servizi primari è affidata a enti privati individuati dalle Prefetture con un concorso al ribasso, premiante l’offerta economicamente più vantaggiosa.”

Scomodo

Maggio 2020

Come ricorda a Scomodo il Garante Nazionale delle persone private di libertà, “le norme che regolano la privazione della libertà delle persone, ai sensi dell’articolo 13 della costituzione, devono essere leggi di rango primario”.

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stando a quanto riporta Gervasa Pantalone nella risposta al Rapporto del Garante, sono le cause stesse delle scadenti condizioni in cui versano i CPR nonché le ragioni per cui gli Enti gestori sono in molti casi “costretti” all’inadempienza. Se, invece che istituire protocolli di sicurezza estremamente limitanti ai fini di agire sulle manifestazioni di una vulnerabilità esacerbata da condizioni di vita degradanti, si agisse concretamente sulle ragioni alla base di questa condizione si potrebbe uscire dal circolo vizioso che condanna i diritti dei trattenuti a rimanere nell’ombra. Nonostante nel Rapporto si invitino le Prefetture di competenza ad attivarsi per far fronte alle numerose carenze, il Garante dichiara che la situazione è rimasta a oggi pressoché invariata, anche a causa del fatto che “i cambiamenti in questo campo sono molto lenti e faticosi”; alla difficoltà di miglioramento connaturata alle circostanze legate alla detenzione stessa si aggiunge il fatto che con il Decreto Sicurezza si sono ulteriormente ridotti i fondi destinati alle strutture, con il risultato che la già striminzita proposta di attività per i trattenuti è stata ulteriormente risicata. Poiché l’espulsione dal territorio dovrebbe essere l’epilogo di un trattenimento nei CPR, la natura delle modalità di detenzione non ha alcuna ricaduta sulla società. Questa infatti non risente di un’eventuale espansione delle criticità e delle vulnerabilità dei trattenuti, causata da condizioni di vita denigranti né beneficia di eventuali progetti di sviluppo della persona.

I brillanti risultati del Decreto Sicurezza Con la legge Minniti-Orlando oltre al nome cambia il numero di giorni in cui si può essere trattenuti, ridotto a 90.

L’attenzione va posta, ovviamente, sul “Decreto Sicurezza e Immigrazione” del 5 ottobre 2018 dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, finora l’ultima legge che ha modificato i CPR. Viene eliminato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, previsto dal Testo Unico sull’immigrazione, e al suo posto il decreto introduce una serie di permessi speciali per protezione sociale nel caso di sfruttamento o violenze subite, per particolare merito civile, per problemi di salute o per chi proviene da un paese che si trova in una situazione di “contingente ed eccezionale calamità”. Viene ampliata la categoria dei reati la cui commissione annulla la richiesta di protezione internazionale, includendo violenza sessuale, spaccio, furto e lesioni aggravate a pubblico ufficiale. Per quanto riguarda le strutture per l’accoglienza e per il rimpatrio, vengono raddoppiati i giorni massimi di trattenimento nei CPR da 90 a 180 e viene meno lo SPRAR, il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati, il cui ruolo viene pesantemente ridimensionato nonostante il parere di molti avvocati e associazioni operanti nel settore. L’accesso agli SPRAR è dato solo ai solo titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati. A distanza di più di un anno, si può osservare che se l’obiettivo del Decreto Salvini era quello di ridurre il numero di migranti irregolari sul territorio, il risultato è stato esattamente l’opposto. Da un giorno all’altro anche persone “regolari” per anni in Italia si sono ritrovate sostanzialmente prive del diritto di rinnovare il proprio permesso.

“Il Regolamento del 2014 pone delle garanzie fondamentali per i trattenuti, ma la sua natura poco vincolante compromette la loro effettiva tutela.” Vengono previste strutture nuove che dovrebbero essere “di piccole dimensioni, con governance trasparente e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti”, ma il risultato complessivo è sempre un sistema poco dissimile e poggiato sulla mancanza di diritti per i detenuti.

“Da un giorno all’altro anche persone “regolari” per anni in Italia si sono ritrovate sostanzialmente prive del diritto di rinnovare il proprio permesso.”

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L’avvocato Emanuele Ficara dell’associazione StraLi - Strategic Litigation di Torino conferma l’aspetto deteriorante di queste strutture spiegando che, già dopo un anno dalla loro prima istituzione, i centri si dimostrano inadeguati a garantire condizioni di vita decenti e spesso scoppiano rivolte e tentativi di fuga tra i trattenuti.

Scomodo

Maggio 2020


Chi subentra per garantire diritti A fronte di una condizione critica, non sono poche le persone che decidono di impegnarsi ogni giorno per denunciare le violazioni dei diritti umani che avvengono nelle diverse fasi della gestione delle politiche di immigrazione. Francesca Mazzotti, attivista sarda della rete di solidarietà nazionale LasciateCIEntrare racconta a Scomodo che “la rete è nata nel 2011 quando Maroni, allora Ministro degli Interni del governo Berlusconi, fece passare un'ordinanza per impedire l'ingresso degli addetti stampa nei centri di accoglienza, violando esplicitamente la libertà di stampa. Il primo obiettivo della rete è stato proprio di far abrogare l'ordinanza e attorno a questa battaglia si sono radunate molte associazioni, gruppi e singoli attivisti”. Francesca sottolinea che “la lotta per la difesa dei diritti umani non si è fermata e, ad oggi, sono presenti nella rete, associazioni da tutta Italia; non mancano i contatti internazionali per supportare o denunciare dislocazioni di migranti tra stati europei”. La rete agisce facendo pervenire all'interno del centro un numero di SOS attraverso il quale vengono raccolte le segnalazioni provenienti da operatori e detenuti; gli attivisti cercano quindi di ottenere autorizzazioni ad entrare e di fornire assistenza legale, nonché prove delle situazioni di disagio denunciate. Quando riescono ad ottenerle le inoltrano alle autorità competenti, le quali negli anni, come spiega Francesca a Scomodo, si sono dimostrate però sempre meno recettive. Scomodo

Maggio 2020

Gli attivisti della rete solidale organizzano raccolte di beni di prima necessità da poter fare entrare dentro i centri, dove i servizi sono spesso molto scadenti e ai reclusi come Malik non sempre vengono assegnati degli effetti personali igienicamente sostenibili. Dai centri, gli attivisti hanno raccolto diverse testimonianze di distribuzione di psicofarmaci tra i reclusi che spesso li prendono per disperazione con il ben volere del personale, che ha tutto l'interesse a impedir loro di ragionare lucidamente sulla loro condizione e a disincentivare solidarietà e coscienza politica tra i detenuti.

Numerosi attivisti confermano a Scomodo la pratica di sottrarre i cellulari ai reclusi o di rompere la telecamera prima di rinchiuderli. Questo avviene poiché la legge Turco-Napolitano, che tutela il diritto dei reclusi a comunicareconl'esterno, fa riferimento al contesto della fine degli anni ‘90, quando bisognava garantire che i reclusi potessero accedere ai telefoni pubblici.

Oggi la legge risulta anacronistica ed il risultato di questa incongruenza temporale è che ai reclusi come Malik viene consegnata una scheda telefonica da circa 10 ore con cui dovrebbero parlare con avvocati, famiglia, conoscenti e con cui se contattano i numeri di SOS, di solito, hanno modo e tempo di fare una sola domanda: "Come faccio ad uscire?". Malik dovrà tornare in Senegal dopo trent’anni e dove, dice “quasi nessuno mi conosce veramente”. Racconta di aver sempre inviato parte dello stipendio a casa, ma lui si sente “integrato in Italia”. Malik non è considerato un cittadino italiano e probabilmente non lo diventerà mai. Ma non sappiamo se Malik dopo 180 giorni sia davvero uscito dal CPR per tornare in Senegal: potrebbero aver allungato la reclusione in attesa dei documenti. Di sicuro ha chiuso la sua partita Iva e, dice, “non si dimenticherà mai delle atrocità viste nel CPR di Bari”.

di Federica Tessari, Giulia Genovesi, Lucia Necchi, Marta Bernardi, Samanta Zisa e Ugo Annone

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“Solo il popolo salva il popolo” ---------------------------------------------------------------------------------------------------------

Muovendosi sugli assi di mutuo soccorso e dell’autodifesa sanitaria, le associazioni di volontari si sono fatte carico delle fragilità emerse durante il lockdown

L’emergenza sanitaria dovuta all’epidemia di Coronavirus, com’era prevedibile, si è trasformata in una profonda ed inesorabile crisi economica di portata raramente vista prima. I numeri relativi ne restituiscono l’immagine devastante: nel DEF pubblicato dal Governo e presentato alle camere il 28 aprile sono presenti le statistiche sull’andamento dell’economia italiana nel 2020. Qui si registra che nel corso dell’anno il totale del monte ore di occupazione calerà del 6,5% portando il tasso di disoccupazione all’11,6% e con ciò la spesa familiare, destinata a scendere del 7,2%. Secondo l’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro, attualmente 4 lavoratori su 5 in tutto il mondo sono interessati dalle misure di contenimento. Come di consueto, situazioni eccezionali richiedono risposte eccezionali e, se da una parte tali sono state le misure del Governo a partire dal 17 marzo, data di approvazione del primo Decreto Cura Italia, altrettanto straordinaria è stata la risposta e la mobilitazione in tutta Italia e nel mondo di volontari per far fronte alle difficoltà imposte dalla pandemia. Dall’Ecuador, dove nella capitale Quito sono nate le Brigate di Solidarietà Kitu, a Parigi, Bruxelles fino alle nostrane Milano, Bologna o Roma sono nati, o si sono attivati in modo ancor maggiore, centinaia di gruppi di volontari, reti, associazioni. 24

Scomodo

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Nella lentezza e nelle difficoltà con cui l’apparato burocratico statale si è scontrato per fornire sostegno alle persone in difficoltà, essi hanno deciso di rispondere attivamente nei propri territori, spesso organizzandosi e coordinandosi autonomamente. Una costellazione di esperienze che mette in luce una realtà politica e sociale in cui l’incisività dell’azione dei cittadini e delle associazioni sul territorio è spesso molto forte, soprattutto nelle zone delle metropoli dimenticate dallo Stato; tuttavia rimane rara la possibilità per queste realtà di esercitare una effettiva influenza sull’amministrazione pubblica dei territori su cui operano e in cui vivono. Molte di loro esistono da diverso tempo, e portano con sé esperienze di attività politica di lunga durata, volta alla solidarietà e l’aiuto reciproco in contesti di marginalità e di periferia delle grandi città. È il caso del Red Lab Quarticciolo o del Calcio Sociale di Corviale a Roma, così come della rete Libera nella periferia est di Napoli, a Ponticelli. Un’attività politica che rivendica maggiore attenzione da parte dello Stato verso aree caratterizzate da instabilità sociale ed economica, un alto tasso di disoccupazione e lavoro in nero, e talvolta dispersione scolastica. Forme di mutuo aiuto, di impegno dal basso, per costruire realtà di aggregazione sociale o culturale, come le iniziative del Calcio Sociale o del Red Lab che gestisce una palestra popolare e un doposcuola, ma anche per offrire opportunità e competenze per un lavoro, come nel caso napoletano, dove in una vecchia scuola abbandonata sono stati attivati corsi e laboratori utili per l’apprendimento di un mestiere.

Attività che sono dovute necessariamente cambiare con il mutare dei bisogni primari delle persone: una riconversione imposta dalla crisi ma che non cambia lo spirito e le rivendicazioni, anzitutto politiche, che stanno alla base di ogni loro azione. “Abbiamo capito subito che non essendoci la liquidità, non essendoci la spesa, la gente rischiava di morire di fame nel giro di qualche settimana. Così abbiamo pensato che fosse giusto attivarci e trovare un modo per sopperire alle mancanze dello Stato e darci noi una mano con quello che potevamo” ci racconta Fabrizio di Red Lab.

L’aiuto materiale è quindi su tutti i fronti, non soltanto cibo, ma tutto ciò che può essere necessario, come pannolini o giocattoli per bambini. Ma l’azione delle associazioni non si ferma qui: l’isolamento ha creato anche problematiche psicologiche, dovute alla solitudine, alla permanenza forzata in un ambiente in cui ci si può sentire a disagio se non in pericolo, e i volontari hanno cercato di essere presenti anche in questi casi. “Una nostra compagna è una professionista, una psicologa, che si è messa a disposizione” dice Matteo Manenti di Aurelio in Comune, a Roma ovest, e non sono ovviamente i soli a farlo. A Napoli est i volontari della rete Libera consegnano lettere in cui raccontano di sé, per creare una comunicazione con i loro concittadini. Senza contare il fatto che molte di queste realtà creavano servizi ed opportunità nei loro quartieri, in spazi ora inevitabilmente chiusi: è per questo che a Bologna i centri TPO e Làbas hanno “spostato online la parte delle attività di supporto, di sportello: la scuola d’italiano, lo sportello di assistenza legale per i migranti, lo sportello lavoro e il doposcuola”. Ed ancora, Baobab Experience, a Roma, ha tradotto le informazioni sul Covid-19 e sulle misure adottate dal Governo per le persone migranti in transito a Piazzale Spadolini mentre in molti distribuiscono pasti caldi ai senza fissa dimora, come i volontari dello Scugnizzo Liberato a Napoli. Altri gruppi sono nati con lo scoppio della pandemia, subito dopo l’inizio del lockdown: molto spesso in questo caso sono state create reti, instaurando rapporti nuovi o rafforzandone altri tra realtà già esistenti e che si sono trovate a condividere obiettivi a breve termine ma anche visioni politiche comuni di più ampio respiro.

“Una costellazione di esperienze che mette in luce una realtà politica e sociale in cui l’incisività dell’azione dei cittadini e delle associazioni sul territorio è spesso molto forte, soprattutto nelle zone delle metropoli dimenticate dallo Stato.”

Scomodo

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Quello che principalmente viene fatto è consegnare generi alimentari e di prima necessità a chi ne ha bisogno, ma oltre a ciò viene portata la spesa a chi non può uscire di casa, consegnati materiali sanitari come mascherine o gel igienizzanti, reperiti gli strumenti tecnologici necessari per la didattica a distanza dei ragazzi, offerto aiuto legale e in alcuni casi psicologico.

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A Roma hanno deciso di collaborare gli attivisti della già citata Aurelio in Comune, assieme ai ragazzi e alle ragazze di GenerAzione e dell'associazione culturale Argo. Allo stesso modo hanno visto la luce le Staffette Alimentari Partigiane a Bologna, diventate Brigate di Mutuo Soccorso con la Fase 2. E così anche le Brigate per l’Emergenza di Milano, sorte davanti ai cancelli del carcere di San Vittore l’8 marzo: “Mentre c’erano i blocchi in corso e la polizia stava caricando ci siamo guardati, in alcuni di noi, e ci siamo detti: non è possibile rispondere a una situazione di emergenza così grave con quello che abbiamo fatto sempre finora, perché è palese che la situazione è diversa. […] A partire da quella conversazione abbiamo lanciato un appello su internet e ci siamo aggregati immediatamente a un sacco di persone di tutte le aree.” Così racconta a Scomodo Valerio, coordinatore delle Brigate a Milano, composte per lo più da centri sociali del capoluogo lombardo ma che in seguito hanno visto l’affluire di persone e associazioni anche estranee a questi circuiti. Supportati da Emergency, che li ha formati dal punto di vista sanitario, e completamente autofinanziati – come tutti, del resto - distribuiscono cibo a circa 20.000 persone su tutta la zona di Milano, dichiarano. Collaborazioni ed attività politiche prima di tutto, perché “non c’è nulla di più politico di distribuire cibo e ricchezza, in qualche modo benessere, a coloro che sono più colpiti dalla crisi”, che mettono il luce le colpe del sistema economico.

Una rete non solo cittadina, ma transnazionale, connessa ed in contatto con altre brigate in tutta Europa, soprattutto in Francia a Parigi, ma anche in altri Paesi, e che si è dotata di un proprio portale su internet, “brigades.info”.

“Non c'è stato un aiuto dalle istituzioni, che invece dovrebbero farsi carico delle necessità e aiutare le persone in situazioni come questa: emergenze sanitarie, ma soprattutto economiche. Invece sono stati i poveri ad aiutarsi tra di loro”. Le parole di Fabrizio Troya di Red Lab dipingono una periferia di Roma in cui l'assenza di un dialogo istituzionale è stata pressochè totale, mentre altre realtà hanno ricevuto un supporto quantomeno logistico. “La nostra associazione figura come bene comune, esiste quindi non tanto una collaborazione, quanto una forma di riconoscimento da parte del Comune di Napoli, che ci ha aiutato nella sanificazione dei locali” ci riporta Sergio Sciambra, dello Scugnizzo Liberato. La linea generale del comune di Napoli però è stata quella di un accentramento poco efficace: secondo la rete di Libera il comune avrebbe speso 50.000€ a settimana, ma senza creare un coordinamento. La risultante è stata una copertura pari a circa un terzo di quella associazionistica. Il comune di Milano si è spinto poco oltre: non riuscendo a coprire tutti i bisogni dei cittadini, si è rivolto alle associazioni di volontari e ha istituito il centralino Milano Aiuta, cosí da permettere alle associazioni di muoversi sul territorio.

“Non c'è stato un aiuto dalle istituzioni, che invece dovrebbero farsi carico delle necessità e aiutare le persone in situazioni come questa: emergenze sanitarie, ma soprattutto economiche. Invece sono stati i poveri ad aiutarsi tra di loro.”

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Degli interlocutori necessari La solidarietà di quartiere è un fenomeno che si è sviluppato sotterraneamente in tutta Italia, ma per completare il quadro occorre indagare in superficie qual è stato il rapporto con gli organi dello Stato.

Anche dove una comunicazione istituzionale c'è stata, le risorse della solidarietà, molto spesso, sono venute dagli stessi cittadini. Eppure diverse regioni hanno stanziato fondi ed erogato sussidi per le fasce più in difficoltà: la regione Lazio avrebbe stanziato due milioni di euro in supporto agli Enti del Terzo Settore (ETS) che operano sul suo territorio, seguita poi da Marche e Puglia.

Scomodo

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Nei fatti però, quando abbiamo Forti del ruolo che si sono tro- L'impegno politico in molte rechiesto agli intervistati che tipo di vate a ricoprire, Brigate e associ- altà del genere non è una novità, sostegno abbiano ricevuto, la ris- azioni si sono fatte portavoce di ma ne sta cambiando la perceziposta è stata sempre la stessa: non chi vive ai margini. one da parte dei cittadini e delle hanno visto un centesimo. istituzioni. Comune a tutti è Il sostegno economico, vuoi la consapevolezza che nella Amedeo Ciaccheri: alle famiglie, vuoi agli ETS o ripartenza le associazioni “La gestione da parte non è arrivato o è arrivato tardovranno essere degli interdi e in modo disomogeneo. locutori necessari, ma non di Roma capitale ha Secondo Massimo Vallati possono e non devono gecomportato una vera e del Calcio sociale di Roma, da stire il carico sociale, di cui qualche settimana a Corviale deve sobbarcarsi lo Stato. propria assenza di un arrivano dei pacchi alimencoordinamento dell'attività Tra le istituzioni, i maggiori tari dalla Regione e dalla dei municipi. Siamo stati esempi di dialogo sono veprotezione civile, ma “il problema è sempre che la risposta nuti dagli organi più prossisprovvisti di materiali dovrebbe essere immediata, mi alle realtà locali, ovvero o di risorse per degli mentre per tenere tutti gli aci municipi. Così è stato per corgimenti necessari per un interventi economici o per lo Scugnizzo Liberato, ma bando fatto bene, può essere anche nel municipio Roma reperire del materiale da VIII, dove la giunta ha mesanche che nel frattempo sia finita la pandemia”. Anche so in campo tutte le risorse distribuire”. quando arrivano le risorse, logistiche disponibili per rimane la necessità di un incoordinare le trenta associtervento dei volontari per azioni di quartiere nella piintercettare le famiglie e per attaforma Municipio Solidale, coadiuvare la distribuzione. riuscendo così a prestare Un ruolo chiave in queste assistenza a circa duemifalle è sicuramente giocato la persone ogni settimana. dal digital divide: “Sono arPer questo nel futuro rivati dei moduli per i conpost-emergenza proprio i tributi dal Comune, ma c'è Municipi potrebbero esun livello culturale basso, e la sere uno snodo cruciale, ma connessione e i computer che rimangono delle questioni non funzionano bene”. Il dida risolvere nell'apparato vario economico si ripercuote amministrativo. A tal propsu una disparità nell'accesso osito Amedeo Ciaccheri, agli strumenti di sostegno al presidente del municipio reddito. Le ragioni del gap Roma VIII ci ha spiegato tra risorse stanziate ed effettiche “la vera grande quesva soddisfazione dei bisogni tione è che i municipi non quindi, secondo le associazihanno un bilancio proprio", oni, sono spesso da ricercare manca quindi l'autonomia nella strutturale lentezza burocrat- Così nella disillusione di una nella gestione delle risorse fiica e nel digital divide: due patol- periferia che non è mai stata as- nanziarie. "Durante il periodo ogie del sistema amministrativo coltata, Red Lab ha messo in atto dell'emergenza questa vicenda che impediscono di fronteggiare proteste davanti ad un municip- è diventata più problematica adeguatamente un'emergenza. io muto, ma con il sostegno della perché la gestione da parte di comunità locale. Qualcuno poi, Roma capitale ha comportato Tra le istituzioni ed il tessuto so- come Baobab, è riuscito ad arriv- una vera e propria assenza di un ciale emerge allora la necessità di are a sedere in tavoli istituzionali coordinamento dell'attività dei riportare a galla i corpi intermedi, grazie al lavoro messo in campo municipi. Siamo stati sprovvisti per individuare le necessità e per negli ultimi due mesi; le Brigate di materiali o di risorse per degli permettere agli aiuti di arrivare nei di Milano hanno denunciato gli interventi economici o per reperterritori in modo efficace ed equo. errori della regione Lombardia. ire del materiale da distribuire”. Scomodo

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Le città del post-emergenza dovranno affrontare importanti sfide sociali, e il primo passo in questo senso sarà ridisegnare l'architettura amministrativa per completarne il percorso di decentramento . Le realtà associative in questo dovranno essere "il contraltare del municipio nella costruzione di un progetto comune". Mutualismo e prossimità “Gli assi di questo tipo di iniziativa”, afferma Christopher Ceresi, attivista delle Brigate di Bologna, “sono il mutuo soccorso e la prossimità”. Due linee, fortemente interconnesse, accomunano le iniziative di solidarietà dal basso nate con l’emergenza sanitaria. “Il mutuo soccorso”, spiega Christopher, “significa che non andiamo solo a fare un’azione di beneficenza, di carità, di volontariato, ma cerchiamo di far sì che ci sia un ritorno, un aiuto reciproco”. A Bologna, le Brigate di mutuo soccorso operano nell’ambito di una rete di persone che si è costruita negli anni attorno alle attività dei centri sociali Làbas e TPO, come il doposcuola, la scuola d’italiano per stranieri e i vari sportelli per i migranti, per il lavoro e così via. Gli attivisti distribuiscono pacchi spesa, libri e tablet alle famiglie in difficoltà, e in un secondo momento sono queste stesse famiglie a segnalare i bisogni e le problematiche che emergono nel loro quartiere, nel condominio, tra i vicini di casa, e a collaborare alla distribuzione degli aiuti. “La solidarietà”, afferma Maso Notarianni, presidente di Arci Milano, attivatosi nell’emergenza con il progetto AiutArci, è un “prendersi cura degli altri che vuol dire anche prendersi cura di se stessi, che vuol dire anche prendersi cura dell’ambiente in cui si sta”.

Emerge in questo senso il valore politico del mutualismo come riattivazione della partecipazione dei cittadini alla vita di comunità, principio fondante del sistema democratico. Il mutuo aiuto è una rete di pari che si attiva politicamente, in prima persona, per costruire un welfare di comunità, una rete circolare di supporto basata sul do ut des.

Come afferma Valerio Ferrandi, coordinatore delle Brigate volontarie per l’emergenza che operano sul milanese, la solidarietà dal basso è “carica di valori umani”, valori che si perdono col progressivo allontanamento dal territorio imposto da un sistema di Stato sociale a stampo centralizzato. E qui veniamo al secondo asse: la prossimità. Il mutualismo è possibile, secondo Christopher Ceresi, soltanto là dove c’è “un legame di fiducia, una relazione che va costruita con pazienza, con cura: è necessaria un’ottica che sia di prossimità, di vicinanza anche fisica”. La distribuzione di aiuti promossa dalle Brigate bolognesi per far fronte all’emergenza non sarebbe stata possibile se non vi fosse stata una rete preesistente, ben radicata sul territorio, attorno ai nuclei di Làbas e TPO. E questo è un discorso che vale per tutte le realtà che si sono attivate in questi mesi, dalle Brigate di Milano che si sono divise in nove gruppi, ciascuno attivo su uno specifico territorio del milanese, e ciascuno composto da realtà già attive in quell’area, al Calcio Sociale di Corviale, che ha continuato a prendersi cura dei suoi ragazzi spostando parte delle sue attività online e immaginando nuove iniziative di coinvolgimento, come il lancio di un momento musicale condiviso che raccogliesse partecipazione ogni sera attorno alle frequenze di Radio Impegno, come ci racconta Massimo Vallati.

“Le città del postemergenza dovranno affrontare importanti sfide sociali, e il primo passo in questo senso sarà ridisegnare l'architettura amministrativa per completarne il percorso di decentramento.”

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Se l’assistenzialismo si fonda sull’offerta di un servizio in un rapporto di dipendenza passiva individuo-vertice, il mutualismo riattiva la partecipazione, crea aggregazione e solidarietà dal basso. Questa esigenza di cooperazione orizzontale rientra in una tendenza di più ampio respiro che sta prendendo forma in fenomeni di ripensamento urbano in tutta Europa, ad esempio con l’housing sociale. Un caso è il progetto federale tedesco Der Socialen Stadt, volto a promuovere le reti sociali di quartiere e le pratiche di buon vicinato, nel cui ambito è stata finanziata la costruzione di una casa multietnica e multigenerazionale a Kreuzberg, quartiere berlinese, che favorisca la cooperazione e l’integrazione tra i gruppi sociali ed etnici che vivono il quartiere (vedi Presente 2019, Le prospettive della moderna edilizia residenziale pubblica, pagg. 83-84).

Un aspetto fondamentale dell’asse prossimità è la possibilità di conoscere realmente e direttamente i bisogni degli abitanti, aspetto che emerge con chiarezza dall’esperienza di AiutArci. Scomodo

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Maso Notarianni ci ha spiegato come il lavoro di distribuzione degli aiuti abbia permesso ai volontari di entrare a diretto contatto col territorio e con i suoi abitanti, e di realizzare così “una fotografia, un’analisi di questo tessuto sociale della città che poi serve per l’agire strutturale, politico, ricreativo sul territorio”. Conoscere il quartiere significa conoscerne le necessità reali e poter organizzare di conseguenza il proprio agire in risposta ai bisogni, là dove i rami delle istituzioni non riescono ad arrivare. È con una conoscenza capillare e diretta degli abitanti del quartiere, nel caso dei poli urbani, in cui si viene a contatto con coloro che sono esclusi dagli aiuti istituzionali: tra gli altri, i migranti senza permesso di soggiorno, i lavoratori in nero, gli abitanti abusivi delle case popolari, i nuovi poveri, chi ha perso il lavoro con l’emergere della crisi e, di conseguenza, non ha la possibilità di presentare un ISEE che rispecchi le sue condizioni attuali. Sono fenomeni tradizionalmente legati alle periferie, luoghi dove l’azione dei comitati e delle associazioni di quartiere è sempre stata, per naturale conseguenza, più diffusa. Tuttavia, come fa notare Maso Notarianni a proposito della situazione milanese, “mentre la povertà tradizionale era stata un po’ espulsa verso le periferie, questa nuova povertà è diffusa in modo molto più uniforme nella città”. Benché la distribuzione dei pacchi alimentari fosse richiesta soprattutto nelle periferie, gravi problematiche si sono imposte anche verso il centro dei poli urbani. L’azione diretta su un’area di prossimità risolve il problema, già evidenziato, della lentezza della macchina burocratica.

Le famiglie che portavano i ragazzi al doposcuola di Làbas e TPO, ad esempio, con l’insorgere della crisi sanitaria, hanno potuto rivolgersi tempestivamente agli attivisti, molto prima che le richieste di supporto raggiungessero le istituzioni attraverso i canali burocratici. “Dei fondi sull’acquisto di dispositivi tecnologici per i ragazzi”, spiega Christopher Ceresi, “sono arrivati, ma questi soldi ancora non sono stati spesi”. D’altra parte, se – dallo slogan del Red Lab romano, “la borgata salva la borgata”, fino a quello delle Brigades francesi, “seul le peuple sauve le peuple” – l’idea dell’autodifesa popolare e del mutuo aiuto rimangono centrali nel modus operandi di queste associazioni e brigate di quartiere, la costruzione di un welfare di comunità è soltanto il primo passo.

Come afferma Christopher Ceresi, “noi costruiamo una rete dove le persone si sentano al sicuro, un welfare di comunità; ma facciamo questo anche per rivendicare un welfare universale”. C’è comune accordo, tra le associazioni e le brigate, riguardo all’idea che il welfare non vada pensato su base volontaristica, in termini di sussidiarietà. Deve invece essere lo Stato “a garantire una vita dignitosa, al di là del fatto che la gente si aiuti o meno: si devono ricevere sussidi, reddito, spese”, afferma Fabrizio Troya di Red Lab, e la sua posizione si trova ad essere largamente condivisa nel panorama dell’associazionismo. La dipendenza quasi totale di migliaia di persone dall’aiuto volontario non può e non deve essere la normalità. Matteo Manenti sottolinea come questa crisi sanitaria abbia dimostrato la funzione essenziale dei corpi intermedi, e la messa in luce di questo fenomeno deve servire per un ripensamento democratico che prenda le mosse da una riflessione sulla necessità di un maggiore decentramento capace di coinvolgere i quartieri nella partecipazione attiva e diretta alle questioni di comunità. “Deve esserci”, sostiene Matteo Manenti, “una cessione di sovranità da parte delle istituzioni di prossimità alle comunità locali”. Se sono le comunità locali ad essere in grado, riattivandosi in una rete circolare di mutualismo, di far realmente fronte ai propri bisogni, è allora importante portare il dibattito sulla necessità che queste abbiano maggior potere d’azione, in un’ottica di welfare in cui il piano universale e quello locale si compenetrino in un dialogo concreto ed efficace.

Come afferma Christopher Ceresi, “noi costruiamo una rete dove le persone si sentano al sicuro, un welfare di comunità; ma facciamo questo anche per rivendicare un welfare universale”.

Scomodo

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Il mutualismo come autodifesa popolare, infatti, come nota Matteo Manenti di Aurelio in Comune, è una pratica che affonda le sue radici nelle società di mutuo soccorso, associazioni di lavoratori nate nell’ambito della Rivoluzione Industriale e fondate sul mutuo sostegno e l’autodifesa tra lavoratori in situazioni di assenza di tutele istituzionali. Si tratta quindi di una pratica che emerge in un contesto di necessità, per sopperire a una mancanza di tutele e garanzie a livello di stato sociale.

di Chiara Falcolini, Michele Gambirasi e Carolina Pisapia Ha contribuito alla realizzazione delle interviste Anaïs Fontana

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Perché l’Oms non funziona -------------------------------------------------------------------------------------------------------Come la pandemia ha mostrato l'urgenza di una riforma dell'Organizzazione Mondiale della Sanità

Sin dall’inizio di febbraio, periodo in cui il virus apparso in Cina sembrava esser contenuto ad alcune province cinesi e ad alcune nazioni asiatiche, diversi dubbi sono stati avanzati in merito alle linee guida e alla prevenzione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stava mettendo in atto. Dopo poco tempo, parallelamente alla diffusione del virus in altri continenti, i dubbi si sono trasformati in accuse, sia per la gestione dell’emergenza, sia per aver ignorato la gravità della situazione, dimostrando arrendevolezza agli interessi cinesi. Il 15 aprile, dopo aver superato il milione di casi nel mondo, il Presidente americano Donald Trump, oltre che accusare pubblicamente l’Oms di essere filocinese, ha deciso di congelarne i fondi. Nonostante più volte le dichiarazioni di Donald Trump siano eccessivamente politicizzate e propagandistiche, i dubbi rispetto all’amministrazione della crisi rimangono e diventano, con il passare del tempo e con l’aggravarsi della situazione, più attuali e discussi. Più di 100 paesi infatti, hanno richiesto la conduzione di un’inchiesta indipendente rispetto all’operato di Cina e Oms durante l’Assemblea Mondiale della Sanità, tenutasi il 18 maggio scorso. Nonostante ancora non si siano delineate le modalità con cui verrà condotta l'inchiesta, risultano evidenti le necessità di una riforma dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’assemblea mondiale I 194 stati membri dell’Oms una volta all’anno, solitamente a maggio, inviano una delegazione a Ginevra per prendere parte ad una assemblea, della durata solitamente di tre settimane, nella quale vengono definite le principali linee di azione dell’Organizzazione. L’Assemblea Mondiale della Sanità è l’ente legislativo dell’Oms, che oltre a deciderne le politiche, delibera le scelte amministrative.

Un ultimatum di trenta giorni, entro i quali Tedros deve assicurare una radicale riforma dell’ente e il ritorno ad una autorità sanitaria mondiale indipendente. In caso questo non avvenga, Trump ha già fatto sapere che avvierà le procedure di diffida e messa in mora, che significherebbero un definitivo taglio ai fondi che erano stati congelati lo scorso aprile. Dalla Cina, intanto, il Presidente Xi Jinping afferma di essere contrario ad una indagine indipendente sull’operato della Repubblica Popolare in merito al Coronavirus, ma che sono pronti, in collaborazione con l’Oms una volta terminata l’emergenza, a far luce sulla vicenda. Inoltre, mentre Donald Trump progetta una sospensione definitiva dei fondi, Xi Jinping promette un fondo da due miliardi di dollari da investire nella lotta al Coronavirus e promette che nell’eventualità che la Cina riesca per prima a trovare un vaccino, quest'ultimo sarà un “bene mondiale”.

“Nonostante ancora non si siano delineate le modalità con cui verrà condotta l'inchiesta, risultano evidenti le necessità di una riforma dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.”

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È infatti l’assemblea a nominare i 34 membri del CdA e il Direttore Generale, che ha un mandato della durata di 5 anni. La proposta di condurre un’inchiesta sulle presunte colpe della Cina e dell’Oms arriva in un momento di forte tensione geopolitica tra Washington e Pechino che vede, in questo momento, l’Oms come oggetto della contesa. Dopo varie schermaglie occorse tra marzo e aprile, durante l’Assemblea il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di rincarare la dose, inviando una lettera di quattro pagine al Direttore Generale dell’Oms.

Col piede sbagliato Il fatto che dibattito sull'operato e in generale sull'indipendenza dell'Oms stia continuando, deriva da una serie di errori o ambiguità che l'Organizzazione ha permesso durante le fasi iniziali della pandemia. Nel corso del dicembre 2019 si diffonde una nuova epidemia di polmonite a Wuhan, che ben presto viene attribuita ad un nuovo virus, sequenziato e riconosciuto come Coronavirus il 27 dello stesso mese. Scomodo

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La condivisione del genoma con l’Oms e con il mondo, tuttavia, per ordine delle autorità cinesi, non avviene prima del 10 gennaio: evento seguito dai fastosi complimenti del Direttore generale dell’Organizzazione Tedros Adhanom Ghebreyesus, che continuerà a complimentarsi con il lavoro di Pechino anche in seguito. Tedros rimarrà silente, inoltre, davanti al rifiuto della Cina alla richiesta di inviare una squadra sul campo (consentita solo il 14 febbraio). Ma il primo vero passo falso dell’Organizzazione avviene il 14 gennaio, quando con un tweet asserisce che “da indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi, non è stata trovata alcuna evidenza di trasmissione da uomo a uomo del nuovo Coronavirus identificato a Wuhan”. Il Lancet poco dopo pubblicherà un’indagine in cui appariva invece evidente la trasmissione tra uomini fin dallo studio della prima famiglia contagiata. La ragione di questa dichiarazione rassicurante si trova nel fatto che l’immunologa americana Maria Van Kerkhove, responsabile tecnica della risposta dell’Oms al Covid-19, aveva tenuto una conferenza stampa avvertendo del rischio di una diffusione molto rapida del nuovo Coronavirus. Secondo un’attenta ricostruzione del Guardian, dopo la conferenza stampa un funzionario di medio livello dell’Oms, preoccupato che questa valutazione contraddicesse quanto comunicato fino a quel momento dalla Cina, chiese ai responsabili dei social media dell’Organizzazione di scrivere un tweet che bilanciasse le affermazioni di Van Kerkhove. Un’ulteriore prova della volontà dell’Oms di nascondere le colpe Cinesi è stata resa nota grazie ad un’inchiesta condotta dall’Associated Press. Scomodo

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Secondo la quale, parallelamente alle lodi pubbliche fatte dall’Organizzazione, alcune mail e materiale riservato mostravano grande frustrazione da parte dei suoi funzionari, per la lentezza e la scarsa collaborazione che la Cina stava manifestando nel diffondere materiale fondamentale sul virus. Le lodi, a seguito dell’inchiesta, furono un semplice tentativo dell’Organizzazione per spingere Xi Jinping ad una collaborazione internazionale. Il 22 gennaio il comitato di emergenza dell’Oms discusse se dichiarare o no una “emergenza sanitaria di rilievo internazionale”, e su tale questione i membri del comitato si divisero senza prendere una decisione.

Il 23 gennaio c’erano ufficialmente 581 casi di contagio confermati in Cina e 10 all’estero: quel giorno la Cina prese la decisione di isolare Wuhan e altre città della provincia dell’Hubei, nella più imponente quarantena imposta nella storia. Secondo una fonte citata dal Wall Street Journal, la Cina fece pressioni sull’Oms perché non dichiarasse l’emergenza internazionale.

Tedros ha detto che la Cina presentò la sua posizione, ma non fece pressioni: «E se anche le avesse fatte, non sarebbe cambiato niente» ; ma decise intanto di andare di persona in Cina per verificare la situazione, convocando una nuova riunione per dieci giorni dopo. Volò in Cina per incontrare il presidente Xi Jinping il 28 gennaio, lodando pubblicamente la gestione cinese dell’epidemia. Dopo il suo viaggio in Cina, Tedros convocò nuovamente il comitato, che questa volta dichiarò l’emergenza internazionale: era il 30 gennaio. Si registravano già 9.692 persone contagiate e 1.981 decessi. L’ambiguità della posizione dell’Oms nei confronti della Cina trova la sua massima espressione nella figura del suo direttore. Ex Ministro della salute in Etiopia, accusato di aver nascosto tre epidemie di colera, nel 2017 viene eletto direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La Cina è, infatti, il principale partner commerciale etiope e circa metà del debito estero dell’Etiopia è detenuto da Pechino. Inoltre, una delle prime azioni di Tedros da Direttore è stata quella di escludere il governo di Taiwan dalla partecipazione all’Oms. Nella sua decennale esperienza di lotta alle epidemie, l’Organizzazione non si era ancora ritrovata in una posizione così delicata nei confronti di una nazione potente quanto la Cina. Paese che non poteva essere osteggiato nell’ottica di una futura collaborazione. Ulteriore fonte di dubbi è stata la gestione dell’Oms degli asintomatici. Nel report finale della missione dell’istituto dell’ONU in Cina (16-24 febbraio) si sostiene che “la percentuale di persone asintomatiche sembra essere rara e non sembra un fattore trainante della trasmissione”. 31


Esattamente un mese dopo la rivista Science dichiara che gli asintomatici non riconosciuti sono stati la causa del 79% dei casi da infezione. A quel punto, l’Oms fa una serie di passi in avanti e indietro, salvo poi riconoscere il peso degli asintomatici, ma raccomandando in tutte le linee guida fino ad oggi, l'uso di mascherine solo per soggetti malati e personale medico. La dimostrazione dell’errore di queste scelte la danno Corea del Sud e Veneto, che puntando su tamponi a tappeto ed uso sistematico di mascherine, gestiscono molto meglio l’epidemia. E ancora il 24 aprile, il rapporto Immunity passports dell’Oms asseriva: “A questo punto dell’epidemia non ci sono prove sufficienti sull’efficacia di un’immunità mediata dagli anticorpi per garantire l’accuratezza di un ‘passaporto di immunità’ o di un ‘certificato zero-rischi'”. Qualche giorno dopo, il 29 aprile, arriverà una nuova evidenza scientifica che smentisce ancora una volta l’Oms. La rivista Nature Medicine, infatti, pubblica la ricerca Antibody responses to SARS-CoV-2 in patients with Covid-19, dove viene dimostrato che il 100% delle persone testate dalla ricerca, dopo aver contratto il virus, ha sviluppato gli anticorpi.

non ci si aspettava certo un comportamento privo di incertezze e dietrofront; resta tuttavia incomprensibile come un’organizzazione che si occupa da decenni di epidemie non abbia ancora chiarezza su capisaldi della trasmissione infettiva come mascherine e vettori asintomatici.

Pozzo senza fondi In seguito alle decisioni di Donald Trump di congelare i fondi concessi dagli Stati Uniti all’Oms, si è creato un dibattito anche in merito ai metodi di finanziamento con cui l’Organizzazione opera. Sul finire degli anni ‘70, in un periodo in cui, in diversi paesi, l’Oms stava programmando le tappe dell'obiettivo “Salute per tutti” entro il 2000, le prerogative del nuovo ordine economico delle Nazioni Unite andarono a scontrarsi con quelle sanitarie. Le politiche neoliberiste di quegli anni penalizzarono l’Oms portando il profitto come unico obiettivo sociale di una nazione, anche in campi come la salute e la sanità. Ciò è osservabile dall’evoluzione della gestione e composizione dei fondi dell’Oms. L’intento originale insito nelle costituzioni delle agenzie specializzate dell’ONU (come l’Oms) era che i budget approvati derivassero dai contributi degli Stati membri, e che i fondi volontari rappresentassero un’eccezione. Durante l’inizio degli anni ‘80, Ronald Reagan e il primo ministro britannico Margaret Thatcher iniziarono a congelare il bilancio dell'Oms e a causa di ciò, l’agenzia fu costretta a affidarsi sempre di più a contributi volontari. Oggi è compreso tra l'80 e l'85% il rapporto tra finanziamenti strutturali e finanziamenti volontari. La salute globale, attualmente, è guidata dalla legge di mercato, dove a tirare le fila sono i donatori volontari. Dal 2000 le entrate dell’Oms sono raddoppiate, ma solo grazie alla crescita esponenziale dei fondi volontari.

“La salute globale, attualmente, è guidata dalla legge di mercato, dove a tirare le fila sono i donatori volontari. Dal 2000 le entrate dell’Oms sono raddoppiate, ma solo grazie alla crescita esponenziale dei fondi volontari.”

Al di là delle accuse di asservimento nei confronti della Cina, tutto ciò sottolinea come l’istituto non sia stata al passo con le principali evidenze scientifiche. In una situazione di crisi mondiale con probabili conseguenze economiche disastrose, scatenata da un patogeno sconosciuto, 32

Se trasgredendo le sue regole si raggiunge un miglior risultato, ci si chiede su quale fiducia potrà contare l’Organizzazione in vista di future emergenze.

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Per quanto riguarda i contributi statali, questi ultimi vengono calcolati in base alla popolazione e alla ricchezza di ciascun Paese e sono biennali. La prima tranche viene versata in dollari, la seconda in franchi svizzeri. Nel 2020, gli USA dovrebbero versare 115,8 milioni di dollari (nel 2021 118 milioni di franchi), la Cina 57,4 milioni, l’Italia 15,8, e il Brasile 14,1 (fonte Oms). Fino ad oggi, il maggior contribuente dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sono proprio gli Stati Uniti: infatti, nel biennio 2018-2019, il finanziamento americano ha rappresentato quasi il 15% del bilancio complessivo dell'Oms. Tuttavia, il budget dell’Oms è sempre stato modesto, con un incremento dai circa 900 milioni di dollari nel 1998 ai 2,2 miliardi di dollari nel 2017. La Bill & Melinda Foundation (del fondatore di Microsoft Bill Gates e moglie) è dal 2015 il primo donatore privato volontario. Nel 2017 circa l’80% dei fondi ricevuti dall’Oms erano stanziati dai privati finanziatori, destinati cioè a coprire specifici progetti selezionati dai donatori. Spesso questi progetti non rispecchiano né la pianificazione dell’organizzazione, né le esigenze prioritarie dell’agenda internazionale della salute. Tutto ciò espone l’Organizzazione all’influenza dei privati e delle aziende, offuscando i principi che ne hanno ispirato la nascita settanta anni fa. Tra le sua priorità vi è proprio il riformare l’Oms consentendogli di smettere di operare come service provider di singoli donatori. Come ha evidenziato Nicoletta Dentico, direttrice dell’Health innovation in Practice (HIP), nel suo articolo Il finanziamento all’OMS:

la sfida di Tedros, la mancanza di ottemperanza dei principi dell’istituto è riscontrabile anche dalle sue manovre nei confronti dell’ebola del 2014 che ha evidenziato l’inadeguatezza e intempestività dell’azione dell’Oms nell’epidemia. Ad illustrare come i finanziatori abbiano delle priorità nel momento in cui contribuiscono mediante i fondi volontari è osservabile nel World Health Emergency Programme (WHE), creato nel 2016 dalla necessità di dare risposte più adeguate alle emergenze sanitarie proprio dopo l’epidemia di ebola nello stesso anno.

Il finanziamento doveva aumentare i fondi per il personale sanitario di base. In ottobre 2016, Margaret Chan, ex Direttrice Generale, fece notare la flagrante contraddizione: “Mentre si chiede all’organizzazione di fare di più, soprattutto tramite il WHE, i contributi volontari all’Oms non sono aumentati, e quelli obbligatori sono persino diminuiti”. Non per questo i governi sembrano intenzionati ad erogare più fondi strutturali. Margaret Chan spezzò questo silenzio nel 2015, con la richiesta di incrementare del 5% i contributi obbligatori dei 194 stati membri. La risposta dei governi fu che non erano disposti a aumentare gli investimenti in tempi di tagli alle spese. Questa mediazione si concluse con un incremento dell’8% dei contributi volontari, lasciando così immutata l’incapacità dell’Oms di controllare il proprio budget. Tedros alla 71ma Assemblea Generale, ha lanciato un accorato appello per la riduzione dei fondi volontari, cercando anche di evidenziare il fatto che i finanziamenti volontari permettevano la realizzazione di progetti privati a scapito del compito dell’Organizzazione stessa, la quale vede limitata la sua libertà d’azione, ma non venne e non viene ascoltato. La salute non può essere considerata un bene economico, ma un bene primario con caratteristiche uniche e peculiari che dovrebbe essere tutelato dall’Oms, che vede però negli anni sempre meno libertà decisionale a causa di prerogative talvolta alienate dal principio della costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

“Nel 2020, gli USA dovrebbero versare 115,8 milioni di dollari (nel 2021 118 milioni di franchi), la Cina 57,4 milioni, l’Italia 15,8, e il Brasile 14,1 (fonte Oms).”

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Questo programma doveva rafforzare le capacità nelle aree a rischio, garantendo un’efficace azione di allerta, analisi e risposta anche per un’altra eventuale emergenza.

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Prospettive future Appare evidente che l’Oms non resterà incolume dallo stravolgimento generale provocato da questa pandemia, tanto più se si pensa al ruolo chiave che l’Organizzazione ha inevitabilmente avuto e sta avendo nella gestione del virus. È servito un avvenimento di tale portata per rendersi conto delle fragilità insite nell’istituto specializzato, e sarebbe molto poco realistico credere che una volta finita l’emergenza possa tornare tutto come prima. Il futuro dell’Oms è legato allo scenario geopolitico che andrà a delinearsi con la fine del Coronavirus, a simboleggiare quanto l’Oms non si limiti ad essere una comunità medico-scientifica, ma assolva anche e soprattutto funzioni istituzionali e politiche. Finita l’emergenza, si potrà valutare, con il distacco e l’obiettività necessari che al momento non possiamo avere, cosa è andato bene e cosa invece non ha funzionato nella gestione del virus, ma soprattutto quanto i successi e gli insuccessi siano dovuti all’Organizzazione, alle relazioni tra gli Stati, o quanto invece ai singoli. “È giusto che la pandemia determini la fine dell’Oms, almeno per come è configurata allo stato attuale”, spiega a Scomodo la professoressa e ricercatrice di governance in ambito sanitario Kelley Lee. “Quando a fine emergenza si andrà a rianalizzare l’operato dell’Oms, sarà importante capire quale sarà il motivo di questa revisione e da chi sarà portata avanti. Idealisticamente parlando, la motivazione sarebbe capire cosa bisognerà migliorare per il futuro, focalizzandosi quindi sul costruire un sistema di gestione della sanità mondiale tale da non doverci trovare nuovamente ad avere a che fare con una pandemia della portata del Covid-19.

Il risultato potrebbe essere un rafforzamento di determinate parti dell’Organizzazione, una riprogettazione su larga scala o anche la sua sostituzione con una nuova organizzazione. Quello che sicuramente bisogna evitare è una caccia alle streghe di motivazione politica, in cui ognuno cerca di scrollarsi di dosso le responsabilità delle proprie decisioni sbagliate. Una situazione del genere sarebbe estremamente controproducente e ci renderebbe ancora meno preparati per i futuri problemi’’.

Queste funzioni sono a disposizione di tutti gli Stati membri, che poi possono decidere se farne uso o meno. Dire che l’Oms dovrebbe avere un raggio d’azione più ampio dal punto di vista pratico non significa sminuire questo suo ruolo consultivo, che sostiene i sistemi sanitari degli Stati membri e che, soprattutto, non fa nessun altro oltre all’istituto. Tuttavia all’Organizzazione si critica spesso di non essere abbastanza orientato all’azione e che dovrebbe avere la possibilità di mettere in atto direttamente le raccomandazioni che pubblica. Per fare questo, però, servirebbe che gli Stati membri investissero più risorse nell’Oms e le dessero più autorità costituzionale per agire al loro posto, anche al di sopra della loro autorità di Stati sovrani. Tutto questo non è mai successo e quindi l’Oms continua a dare supporto, consigliare e coordinare all’interno dei parametri limitati della sua Costituzione. Adesso urge chiedersi se questo modello corrisponde alle esigenze del nostro tempo. Abbiamo bisogno di un’organizzazione che dia consigli o che agisca in prima persona?’’. Un Organizzazione Mondiale della Sanità più forte gioverebbe sicuramente ai Paesi meno sviluppati, che avendo un sistema sanitario più debole a livello nazionale dipendono molto dall’istituto stesso. Tuttavia, abbiamo visto come, nonostante le evidenti criticità dell’Oms, una cooperazione unitaria a livello globale sia di beneficio per tutti, ed estremamente necessaria nel contesto attuale. Per potenziare il suo ruolo, però, sarebbe necessario un cambio di rotta significativo da parte degli Stati membri, che fino ad ora hanno anteposto altre priorità e interessi alla sanità pubblica.

“Sarebbe necessario un cambio di rotta significativo da parte degli Stati membri, che fino ad ora hanno anteposto altre priorità e interessi alla sanità pubblica.”

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La pandemia potrebbe dunque spingerci a rivalutare la cooperazione internazionale in ambito medico-scientifico, o al contrario a depotenziarla ulteriormente, favorendo un approccio statale alla sanità. Una delle problematiche dell’Oms, infatti, è proprio la sua condizione di subalternità agli Stati membri dal punto di vista attuativo. Riguardo ciò la professoressa Lee afferma che ‘’la funzione dell’Oms consiste più nel permettere che nel fare. Il suo compito principale è quello di riunire e diffondere informazione, di raccogliere esperti in ambito sanitario e promuovere la ricerca, di creare linee guida e protocolli, e in linea generale di dare consigli in materia.

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‘’Senza dubbio ci vorrà molto tempo per riprendersi dalla pandemia a livello economico. I prossimi anni saranno caratterizzati con ogni probabilità da politiche di austerity, che in passato hanno portato a un restringimento del welfare e di conseguenza della sanità pubblica. Poi è arrivata la pandemia e abbiamo visto come un virus può fermare la società intera. Sarebbe quindi poco lungimirante non investire sul sistema sanitario, sia a livello nazionale che globale, anche per trovarci preparati a situazioni come quella attuale, che con ogni probabilità si verificheranno nuovamente’’. di Alessandro Mason, Luca Pagani, Bianca Pinto, Giulia Tore e Riccardo Vecchione

L’Oms in due parole Alla fine della Seconda Guerra Mondiale le Nazioni Unite si resero conto della necessità di fondare una nuova organizzazione per la sanità e nel 1946 ne venne firmata la Costituzione. Dopo diverse campagne contro la malaria, la tubercolosi e diverse malattie sessualmente trasmissibili, le complicazioni che l’Oms si trovò ad affrontare tra gli anni Sessanta e Ottanta, erano associate all’urbanizzazione, alla tempestiva industrializzazione e alla veloce riproduzione umana. Viene creato così l’HRP, uno speciale programma di ricerca sulla sanità dei rapporti a scopo sessuale e riproduttivo. In questi stessi anni, l’Organizzazione iniziò a sponsorizzare e a promuovere programmi nazionali di vaccini ed educazione sanitaria che furono fondamentali per la battaglia contro l’AIDS e la tubercolosi, che ancora oggi sono priorità, insieme all’ebola e alla malaria. L’Oms dovette combattere anche contro il vaiolo, debellato nel 1980 dopo una campagna durata dodici anni. Molta attenzione è stata data, inoltre, alla rimozione delle barriere finanziarie per garantire, soprattutto ai paesi e alle popolazioni più povere, un accesso ai servizi sanitari essenziali.

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I CONSIGLI DEL LIBRAIO

Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso la carta. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno delle città in cui operiamo.

LIBRERIA CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM

“La scoperta dell’ambiente. Una rivoluzione culturale” di Stefano Nespor Editore: Laterza

Il MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM

“Un anno in Barcastop” di Erica Giopp Editore: AlpineStudio

LIBRERIA DONOSTIA Via Monginevro, 85/A 10141 Torino TO

“La canzone di Colombano” di Alessandro Perissinotto Editore: Sellerio 36

Federica, Michela e Rossella consigliano: l’Autore, avvocato specializzato da decenni in diritto dell’ambiente, ha scelto di presentare e commentare alcuni libri che rappresentano tappe significative nella formazione della coscienza collettiva rispetto all’ambiente. Indispensabile per le nuove generazioni, ottimo promemoria per chi c’era. Da Primavera silenziosa a Una scomoda verità, dal 1962 al 2006, da Rachel Carson a Al Gore in cinque tappe. Cinque libri che hanno accompagnato e stimolato la nostra comprensione del mondo circostante. Cinque volumi che hanno fatto scricchiolare l’antropocentrismo tradizionale, i cui termini erano stati fissati dalla filosofia ellenica - il mondo al servizio dell’uomo – ed erano tradotti, nella pratica, con lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali. Marco consiglia: L'autrice ha 26 anni quando parte per il suo viaggio in barcastop. Un racconto tra la cronaca e il manuale ci descrive le 17.000 miglia affrontate ottenendo passaggi in barca in cambio del suo lavoro a bordo. Un anno in viaggio attraverso oceani, isole e persone. Tutto descritto con un linguaggio ironico e privo di preconcetti. Un’ esperienza formativa che dovremmo affrontare tutti per comprendere come la quotidianità a bordo di una barca ci riporta a stili di vita essenziali che appartengono a tutti e che sono veri come i legami che nascono in mezzo al mare, malgrado non si parli la stessa lingua e si abbiano gusti completamente differenti se non opposti. Questo diario di bordo molto poco convenzionale, perché non è scandito da un susseguirsi di date, ma con continui salti temporali riesce anche a divertire con i suoi molti aneddoti spiritosi. Un libro che cerca di trasmettere oltre all'esperienza diretta alcuni messaggi universali senza retorica.

Rinaldo consiglia: “La canzone di Colombano” è un vecchio romanzo di Alessandro Perissinotto ambientato nel ‘500 in valle di Susa che ricostruisce la vicenda di Colombano Romean, uno scalpellino che costruì un tunnel tuttora esistente e funzionante per far defluire l’acqua verso il versante arido del monte. Il tutto parte da frammenti di una canzone popolare che ricordavano alcuni anziani della zona e la storia si tinge anche di giallo.

Scomodo Scomodo

Maggio Aprile 2020


LIBRERIA TRA LE RIGHE Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM

“Stoner” di John Williams Editore: Fazi

Paola consiglia: Eccoci di fronte a un grande autore, a un classico del Novecento, a una scrittura limpida, colta, implacabile. La storia è apparentemente semplice: uno studente di origini contadine approda all’Università del Missouri nel 1910, e per tutta la vita vi rimarrà a insegnare Letteratura. Stoner si presenta come un uomo qualunque, vessato dalla moglie e dalle leggi non scritte del sistema, anche nell’ovattato mondo universitario, intristito dalla routine, passivo e raramente in grado di agire per sé, con scelte forti. Ma la figura che emerge lentamente è più complessa di quanto ci aspettavamo – quasi infastiditi dal suo torpore – e ne scopriamo valori, sentimenti, stati d’animo, anche attraverso minimi dettagli: una luce, un particolare ambiente, l’espressione di un volto. È un personaggio che rimane impresso nella memoria anche dopo aver letto l’ultima riga, e con lui ci si commuove entrando in una strana e contraddittoria empatia.

Il libraio vi augura una buona lettura Ci sostengono anche:

OTTIMOMASSIMO

TLON

Viale dei Promontori, 168 00121 Roma RM

Via Luciano Manara, 16/17 00153 Roma RM

Via Federico Nansen, 14, 00154 Roma RM

SIMON TANNER

LIBRERIA TRASTEVERE KOOB

PUNTO SCUOLA

Via Lidia, 58 00179 Roma RM

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Piazza Gentile da Fabriano, 16, 00196 Roma RM

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MINERVA

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LIBRI & BAR PALLOTTA Piazzale di Ponte Milvio, 21 00135 Roma RM

ODRADEK Via dei Banchi Vecchi, 57 00186 Roma RM

LIBRERIA PANTALEON Via Giuseppe Grassi, 14, 10138 Torino TO

Piazza Fiume, 57, 00198 Roma RM

Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM

ALTROQUANDO

EQUILIBRI

Via del Governo Vecchio, 82, 00186 Roma RM

Piazzale delle Medaglie d’Oro, 36b 00136 Roma RM

TOMO CAFFÈ

LIBRERIA DEL GOLEM

Via degli Etruschi, 4 00185 Roma RM

IL PONTE SULLA DORA Via Pisa, 46, 10153 Torino TO

Via Gioacchino Rossini, 21/c, 10124 Torino TO

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LIBRERIA LINEA DI CONFINE TEMPORITROVATO LIBRI LIBRERIA POPOLARE Via Antonio Ceriani, 20, 20153 Milano MI

Corso Garibaldi, 17, 20121 Milano MI

LIBRERIA ISOLA LIBRI

LIBRERIA MUSICALE GALLINI

Via Antonio Pollaiuolo, 5, 20159 Milano MI

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Maggio 2020

Via Alessandro Tadino, 18, 20124 Milano MI

Via Gorani, 8, 20123 Milano MI 37


Parallasse

-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

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L’acquisizione del Gruppo Editoriale GEDI da parte di Exor ha sconvolto il panorama dell’informazione nazionale: se in precedenza i giornali del gruppo, specialmente Repubblica, hanno dimostrato di soffrire molto i cambi di gestione, con l’arrivo della holding guidata dagli Elkann stiamo assistendo ad uno stravolgimento senza eguali della linea editoriale delle varie componenti del gruppo, ora totalmente asservite agli interessi economici della nuova proprietà. Questo primo mese di gestione della nuova proprietà ha già creato molte criticità sulla nuova linea imposta, che rischia di minare la credibilità di uno dei pilastri dell’informazione italiana. Dei cambi di gestione mai semplici C’è stato un tempo in cui Repubblica era una meravigliosa macchina da guerra. Alla prima parte della sua storia, quella della direzione di Eugenio Scalfari, per la nostra età non abbiamo avuto modo di potere assistere, mentre la seconda parte della “stagione felice” di Repubblica, quella in cui fu direttore Ezio Mauro, è stata probabilmente per molti di noi quella in cui abbiamo scoperto il giornalismo. Gli anni in cui Berlusconi guidava il Paese attraverso la più grande crisi economica dopo quella del ‘29, concedendosi ciò nonostante festini e cene che molti trovavano inconciliabili con la posizione di Presidente del consiglio che ricopriva e ricorrendo spesso a leggi “ad personam”

che più che rispondere a problemi del Paese avevano come obiettivo quello di allontanare o far cadere i processi che lo riguardavano. Corrado Guzzanti, in un programma di Rai 3, scherzava: “Berlusconi: ‘scopo tutto il giorno, vi dà così fastidio se la sera lavoro un’oretta?’”. L’atmosfera era quella. Repubblica la raccontò come nessun altro giornale, mantenendo sempre uno sguardo corretto ed obiettivo ma senza fare sconti al governo. Soprattutto, scegliendo di portare avanti una linea chiara ed efficace che raggiunse il culmine con la pubblicazione delle famose “10 domande di Repubblica” a Berlusconi. Ogni giorno venivano pubblicate nelle prime pagine e si spiegava che non sarebbero state tolte fino a che Berlusconi non avesse risposto a tutte e dieci. Berlusconi denunciò il direttore Ezio Mauro per la pubblicazione “reiterata ed ossessiva” delle domande, ma perse la causa perchè i giudici decisero che erano “di interesse generale”. Fu Repubblica a scoprire che Berlusconi aveva partecipato alla festa dei diciott'anni di Noemi Letizia, e da lì partirono poi tutte le inchieste su Ruby e sui Bunga Bunga. Repubblica cavalcò legittimamente l’antiberlusconismo diventando quasi uno strumento di resistenza, il simbolo di una lotta politica e di una opposizione che c’era nel paese e che poi si concretizzava e materializzava nelle enormi piazze del “popolo viola” che chiedeva le dimissioni di Berlusconi. Scomodo

Maggio 2020


Le vendite erano molto alte e il giornale aveva un’identità chiara e convincente. Nel 2011 era il giornale più venduto d’Italia e superava i 3 milioni di lettori. Poi, nel 2012, il proprietario Carlo de Benedetti lasciò ai figli le quote del gruppo editoriale di Repubblica e da lì cominciò il declino. Complice anche l’imbarazzo che coglie chi vede finalmente cadere il nemico che ha combattuto per anni, interrogandosi sul “cosa fare dopo”: la stagione di Monti e Letta non offrì granchè spunti interessanti ma il giornale raccontò, grazie anche ai resoconti e ai retroscena dei uno dei migliori cronisti politici del paese, la scalata di Renzi al potere con un certo favore, ma sempre con sguardo obiettivo. Fino a che i giovani de Benedetti non decisero di sostituire Ezio Mauro con l’ex-direttore della Stampa, Mario Calabresi. Una scelta che sorprese molti, perché in un giornale che sentiva di aver perso la sua forte e caratterizzante capacità di individuare una linea politica e servirsene per generare interesse, la scelta di un direttore che, pur essendo stato un buon amministratore della Stampa, non corrispondeva a pieno alla figura dirompente e scalmanata rappresentata dai predecessori Scalfari e Mauro. E infatti le copie non ebbero la ripresa tanto sperata, per quanto il giornale rimase sempre uno dei più completi ed obiettivi del paese. Sorprese ancora di più, e denotò allora una chiara direzione presa dai figli di de Benedetti, la scelta di consegnare la carica di Calabresi, che è durata per un tempo di gran lunga più breve rispetto alla media dei precedenti direttori, all’ex-direttore della Gazzetta dello Sport. Scomodo

Maggio 2020

All’occhio di molti lettori è sembrato chiaro come il corso di Repubblica negli anni delle direzioni Calabresi e Verdelli sia stato caratterizzato quasi da una ricerca di non avere una linea editoriale: con il tempo sono cominciate a comparire sempre meno inchieste o prese di posizione coraggiose, salvo alcune libere iniziative di qualche firma singola. Ma ai due direttori forse è mancato il carattere e la coraggiosa esuberanza che aveva reso Repubblica il giornale più letto d’Italia.

Fa un po’ dispiacere pensare a come un giornale con il carattere della Repubblica degli anni di Berlusconi avrebbe forse affrontato l’anno e mezzo di governo gialloverde. Nel periodo in cui in Italia abbiamo avuto forse uno dei governi più a destra della storia repubblicana, trovarsi in mano un giornale timido e spento un po’ ha fatto male. Non è stata certo questa timidezza del nuovo direttore Verdelli ha portare al suo licenziamento, frutto invece di una precisa volontà da parte dei nuovi proprietari del gruppo GEDI: il gruppo Exor.

Quanti guai in un solo mese di gestione L’operazione di acquisto annunciata da Exor il 2 dicembre 2019 si è conclusa il 23 aprile, data in cui il gruppo ha ufficialmente ottenuto il controllo di GEDI, società editrice di Repubblica, la Stampa e Secolo XIX. Le quote di Cir, società della famiglia De Benedetti e precedente azionista di maggioranza, sono diventate di proprietà della famiglia Agnelli-Elkann, che porta avanti la sua attività imprenditoriale attraverso la holding Exor della quale fa ora parte anche la casa editrice del secondo più diffuso quotidiano italiano (Repubblica). Il gruppo GEDI va così ad arricchire un portafoglio di società in cui è FCA a fare la parte del leone, con un fatturato che nel 2019 ammontava a 108,187 milioni di euro sui 143,755 totali realizzati da Exor. Le altre controllate del gruppo non sono da meno: stiamo parlando di giganti come CNH Industrial (25,033 milioni di fatturato nel 2019), l’agenzia di riassicurazioni PartnerRE (7,034 milioni) e Ferrari (3,766 milioni). A queste si va ad aggiungere Juventus, che ha chiuso il 2019 in perdita e da questo aprile anche GEDI, che con 603,5 milioni di fatturato nel 2019 e un risultato finale negativo probabilmente non è entrata nel portafoglio del gruppo per i ricavi che ne possono derivare. Una considerazione che è stata avallata anche dalle prime decisioni della nuova proprietà, che nel giro di pochi giorni ha completamente riorganizzato le direzioni dei maggiori quotidiani, licenziando in modo sbrigativo il direttore di Repubblica Carlo Verdelli e mettendo al suo posto Maurizio Molinari. 39


Massimo Giannini, ex vicedirettore di Repubblica, è stato invece messo a capo de La Stampa. Un cambiamento inaspettato, soprattutto nel mezzo di una pandemia mondiale e con una crescente attenzione all’informazione, che può potenzialmente aumentare la platea dei lettori dei giornali. Questi momenti rappresentano un’opportunità di crescita per i quotidiani, in cui è cruciale il ruolo del direttore di redazione, che deve garantire un’informazione precisa e corretta. Repubblica ha sempre avuto una linea editoriale che rispecchiava posizioni ben precise, come ribadito dallo stesso Verdelli nel suo primo editoriale da nuovo direttore, un anno fa, e anche nell’ultimo, apparso sul giornale lo scorso 23 aprile. Il timore che con la nuova proprietà la linea editoriale possa essere stravolta è stato già confermato dai pochi fatti che siamo stati in grado di osservare in questo mese. Prima di guardare al principale quotidiano del gruppo, meritano attenzione due vicende che hanno riguardato il Secolo XIX, quotidiano della regione Liguria. La prima riguarda la scelta della Regione di acquistare tutti gli spazi pubblicitari presenti sull’edizione di lunedì 4 maggio del quotidiano, nella quale erano anche presenti diversi articoli che celebravano la capacità dell’amministrazione regionale di gestire la crisi. La scelta risulta più comprensibile se consideriamo che le elezioni regionali dovrebbero tenersi quest’anno e che il presidente in carica, Giovanni Toti, si appresta a ricandidarsi contando su un largo consenso. 40

L’utilizzo di denaro pubblico per l’acquisto degli spazi pubblicitari è così servito a garantire visibilità all’operato della giunta in carica, piuttosto che per la promozione del turismo su altre testate italiane.

La seconda vicenda riguarda due inserti di otto pagine proposti l’11 e il 18 maggio dal Secolo XIX nei quali viene raccolta la testimonianza di un medico ligure impegnato in prima linea nella lotta contro il virus, con la prefazione nel primo caso del viceministro alla salute Pierpaolo Sileri e nel secondo di Silvio Brusaferro, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. Gli inserti sono firmati da Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell’Ospedale San Martino, membro della task force regionale sul Coronavirus e stretto collaboratore di Toti. Le sue frequenti apparizioni televisive nell’ultimo periodo, spesso insieme al presidente della regione, lo hanno reso un volto noto, garantendogli una visibilità che potrebbe sfruttare per candidarsi come assessore alla sanità alle prossime elezioni regionali (ipotesi confermata da alcune fonti).

Sebbene i due episodi siano diversi tra di loro, entrambi sono riconducibili alla volontà dei personaggi coinvolti di mettersi in mostra in vista delle prossime elezioni e sottolineano che i giornali siano ancora uno dei mezzi principali per inf luire sull’opinione pubblica. La potenzialità dei mezzi di informazione è ben chiara anche alla famiglia Elkann, che non ha esitato a stravolgere la linea editoriale del principale giornale del gruppo, che fino ad oggi ha avuto una precisa collocazione politica. La “nuova” Repubblica è un giornale che si posiziona più verso il centro dello spettro politico, là dove il suo maggiore concorrente, il Corriere della Sera, è sempre stato. Ed è proprio il quotidiano del gruppo RCS, di proprietà di Urbano Cairo, a mostrarci la differenza tra l’approccio scelto John Elkann e quello adottato da un “editore puro”, ovvero un imprenditore per cui l’editoria rappresenta la principale attività. Dopo l’acquisto di RCS Mediagroup, infatti, Cairo ha lasciato alla direzione del quotidiano Luciano Fontana, figura di spessore che gode del sostegno del comitato di redazione, e non ha provveduto alla riorganizzazione interna dei giornalisti, come è nei piani di John Elkann. Il licenziamento di Verdelli è stato invece un passaggio necessario per attuare i cambiamenti che sono previsti dalla nuova gestione. Un direttore deve, tre le altre cose, fare da tramite tra la redazione e la proprietà, mediando tra gli interessi di quest’ultima e le necessità del giornale. Scomodo

Maggio 2020


Nel caso di tagli e riorganizzazioni è sempre sua responsabilità farsi portavoce di queste decisioni con i giornalisti, ma un personaggio come Verdelli si sarebbe permesso di dissentire e non eseguire in modo acritico qualsiasi richiesta avanzata dagli Elkann. Per le decisioni che saranno prese nei prossimi mesi da Exor è necessario un direttore fedele che porti avanti la loro linea, a cominciare dal cambio di toni, già evidente nei titoli fortemente critici verso il governo usciti sulle prime pagine di inizio maggio. Ma il caso più lampante riguarda la notizia del finanziamento concesso a FCA Italia e garantito dallo stato. Il 17 maggio è uscito sulla prima pagina della Stampa un editoriale (“La collera nel paese dei sussidi”) a firma del neodirettore Giannini, che scrive in difesa della decisione del governo italiano di aiutare la casa automobilistica. Lo stesso giorno sulla prima pagina di Repubblica si trova un articolo che inneggia alla “Formula Innovativa” che servirà da “modello per tutta l’economia Italiana” adottata per il prestito chiesto a Intesa Sanpaolo e garantito dalla Sace (quindi dal governo italiano). Senza entrare nel merito tecnico della questione (che comunque non farebbe che peggiorarne il quadro), è però sorprendente come la notizia sia stata trattata senza un minimo di oggettività, lasciando spazio soltanto ad un eccessivo entusiasmo. Si viene così a delineare chiaramente il conflitto di interesse tra le attività imprenditoriali degli Elkann e il dovere di un giornale di garantire un’informazione corretta e trasparente. Scomodo

Maggio 2020

La perdita di credibilità causata dalla pubblicazione di un articolo del genere ha spinto il comitato di redazione di Repubblica a preparare a un comunicato da pubblicare il giorno dopo. La nomina di Molinari si è rivelata in questo una scelta vincente di Exor: in seguito alla scelta del direttore di bloccarne la pubblicazione è stata convocata un’assemblea dei giornalisti per discutere delle possibili dimissioni del comitato di redazione. L’esito di diverse ore di riunione non sono state le dimissioni del comitato, ma un comunicato in cui i giornalisti ribadiscono l’importanza di essere cauti quando si trattano vicende in cui gli interessi economici sono in conflitto con l’informazione di qualità che Repubblica ha sempre cercato di offrire e che la redazione si impegna sempre a garantire.

La questione FCA ha però reso evidente la nuova impostazione del giornale, che ne stravolge la linea editoriale e rischia di comprometterne l’imparzialità. A confermare questi timori è arrivata anche

la decisione di una delle firme più note di Repubblica, Gad Lerner, che nella stessa giornata di domenica 17 maggio ha annunciato di aver interrotto la sua collaborazione col giornale. La scelta è legata al modello scelto dalla nuova proprietà, che, a detta del giornalista, ha esposto fin da subito un progetto editoriale vago, ma che si è delineato del corso delle settimane ed ha portato Repubblica a grandi cambiamenti. Talmente grandi da renderla a stento riconoscibile, come afferma lo stesso Lerner. Il secondo giornale italiano per diffusione cambia così ufficialmente narrativa. Il nuovo strumento nelle mani degli Elkann sarà un ottimo spazio per rendere note le meraviglie realizzate dalle altre società controllate dalla famiglia, per avere maggiore influenza sull’opinione pubblica in modo da sostenere quelle posizioni e scelte politiche che garantiscano prosperità al gruppo industriale. Il risultato per il mondo dell’informazione è la perdita di una voce critica che ha garantito negli anni un punto di vista diverso su molte questioni, arricchendo così il panorama del giornalismo italiano. Se fino ad oggi leggendo Repubblica si aveva la consapevolezza di leggere un giornale con una posizione politica chiara, ora i suoi articoli forniranno invece un’idea ben precisa delle strategie imprenditoriali del gruppo Exor.

di Luca Bagnariol e Chiara Lettieri 41


[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Riguarda tra le altre cose: la relazione tra stati diversi; l’interesse comune di più nazioni; ciò che si estende a più paesi e che oltrepassa i confini del proprio stato.

L'ARTISTA: Manu Callejon, ha studiato all’Università di Belle Arti di Granada. Dopo gli studi si è dedicato per vari anni al Graphic Design e alla direzione artistica, per poi intraprendere recentemente la carriera di illustratore. Al momento lavora come artista indipendente nel soleggiato sud della Spagna, dove vive con la sua famiglia.

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Scomodo

Maggio 2020


L ' A RT I STA :

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti underMaggio 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare Scomodo 2020 43 una parola che descrive e contiene moltissimi significati.


CULTURA

Scomodo

Maggio 2020


LA MALEDIZIONE DEI NATI SOTTO SATURNO Gioie e soprattutto dolori di chi ha scelto di dedicare la sua vita a lavorare per la cultura

Saturno, si sa, in astrologia ha la nomea di non rendere le cose facili e, probabilmente per questo, fin dalla Grecia Antica veniva associato alle arti . Tuttavia se in passato la sua era una maledizione ”caratteriale” che creava individui lunatici, egocentrici e un po’ ribelli, ai nostri giorni è diventata una maledizione lavorativa. Il lockdown non ha fatto altro che portare all’attenzione dell’opinione pubblica i problemi endemici del lavoro culturale. Partendo dalle caratteristiche comuni - non ultima quella di avero lo stesso ministero come riferimento - l’articolo delinea poi quattro diversi “quadri astrali”, che vanno a fare il punto ognuno su una produzione culturale diversa. continua a pag. 48

Scomodo

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Faro

Emanuele Cantoro è nato nel 1997 a Roma, dopo qualche anno e qualche scarabocchio è nato Faro. Nel 2017 stampa le sue prime autoproduzioni e nasce una collaborazione con la rivista Scomodo, nel 2018 fonda la rivista Profondissima, con la quale dal 2019 gira i festival di tutta Italia. Attualmente confinato nella propria stanza a Bologna, continua a disegnare non accorgendosi di niente.

Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 46

Scomodo

Maggio 2020


Hai frequentato il Liceo Artistico ora studi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, quando hai deciso che nella vita avresti fatto l’artista? Scegliere di fare l’artista non dipende sicuramente dal percorso di studi che si intraprende, ma è uno stile di vita che deve essere scelto ogni giorno. Non ti svegli una mattina da artista, ma lo diventi. Diversamente da quello che credono in molti non è un “tutto subito”, ma una conquista lenta. Nel mio caso il percorso è iniziato sentendo un’intervista a Gipi nella quale diceva che fare l’artista è un privilegio, essere un artista significa appartenere ad un'elite che ha la fortuna di poter vivere in maniera diversa. Essere un artista invece è una cosa di cui ancora non posso parlare, non ne so niente! Da disegni sparsi, a Scomodo, a Profondissima ti sei quasi sempre occupato di lavori brevi. Come è stato gestire un progetto più lungo e complesso come quello del libro “Nuns”? In realtà “Nuns” è solo la conclusione di una riflessione artistica che avevo sviluppato nel tempo e la realizzazione del libro in sé mi ha preso un giorno solo. Diverso è stato poi adattarlo per renderlo riproducibile, perché era tutto su carta velina. Paradossalmente è molto più lungo il lavoro con Profondissima. Lì è come se ogni volta dovessi realizzare il miglior libro possibile coordinando i lavori di molti artisti diversi, ognuno con il suo carattere. Il mio ruolo in Profondissima è principalmente di coordinare e più che disegnare scrivo. Sto anche lavorando ad un nuovo libro, molto diverso da “Nuns” e quello sì che è un lavoro molto lungo, lo avrò riscritto almeno dieci volte! Scomodo Scomodo

Maggio Maggio 2020 2020

I tuoi disegni presentano spesso immagini distorte e a volte grottesche, vieni ispirato da qualche creativo in particolare? La verità è che siamo spugne, ogni disegno è figlio di un percorso lunghissimo e nel mio caso non c’è nessun artista la cui influenza sia stata tale da poter dire che mi sono ispirato a lui. Ho sempre odiato i disegni puliti e dettagliati, perciò ho cominciato a muovere la mano sul foglio e le distorsioni sono venute da sole. Ho sicuramente guardato tanto all’arte e alla scultura moderna, più che al fumetto, ma alla fine ogni mio disegno deriva da un insieme di conoscenze che vanno anche al di là del solo campo artistico. Quindi è possibile che qualcosa derivi anche da miei approfondimenti del momento: sull’uomo nello spazio, sui lombrichi, sui Beatles o quant’altro! Nella copertina compare una città destrutturata, lontana dallo stereotipo della città moderna. Sembra quasi raffigurare un mondo digitale incapace di collegare le persone. È un’interpretazione corretta? Cosa ti ha portato a concepire in questo modo la tematica del focus, quella del digital divide? Il discorso è lungo, ma proverò a fare una sintesi. Ogni volta che c’è la possibilità di connettersi, di collegarsi, c’è anche quella di dividersi. Così come nel passato si facevano guerre per il petrolio o per il nucleare, oggi si combatte per il virtuale, la causa del conflitto è sempre la ricerca di uno strumento. La presenza di disparità tra chi non ha e chi ha troppo è una costante storica. Così ho deciso di rappresentare persone imprigionate da trappole diverse, c’è chi è imbrogliato tra i fili, chi è

immerso nella rete e chi incastrato in uno schermo, sempre tenendo a mente le forti disparità di fondo. Cosa ti aspetti dal tuo futuro come artista in questo periodo incerto in Italia? Non ho mai affidato le mie competenze al paese in cui vivo. L’artista, come ho detto prima, è chi sceglie di esserlo quotidianamente, l’unico fallimento è non fare più quella scelta. Personalmente non sono nato in un paese che fa di te un artista, perciò non ho mai avuto questo sogno, e nemmeno in un paese che mantenga lo status di artista una volta arrivati all’obiettivo, anche perché non c’è modo di arrivare, si continua sempre a crescere. E poi essere artista è uno status che va guadagnato, è per pochi, se così non fosse l’arte si ridurrebbe a qualcosa di dozzinale e il museo all’ennesima pagina su un social network con l’hashtag #art. Diciamo che mi fido dei cervelli, troveranno un modo.

di Anna Cassanelli

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n° 32

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Mensile indipendente di attualità e cultura

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La maledizione dei nati sotto Saturno

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I lavoratori del settore della cultura sono stati i grandi assenti all’interno del dibattito pubblico sulla tutela del lavoro in stato d’emergenza, nonostante abbiano subìto tra i primi le conseguenze della chiusura totale e saranno probabilmente tra gli ultimi a poter riprendere a lavorare. Nella cornice dell’ambito culturale, la mancanza di tutele non è però una novità: l’emergenza sanitaria ha solo reso più evidenti delle criticità che erano già all’ordine del giorno per i lavoratori del settore. Molto spesso, infatti, si fatica ancora a riconoscere l’attività culturale come un vero e proprio lavoro, che, al contrario, viene considerato più che altro un passatempo, anche nel caso di grandi professionisti del settore. Emblematiche sono state le parole di Conte che, durante la conferenza stampa di presentazione del decreto li ha definiti “gli artisti che tanto ci fanno ridere e appassionare”, definizione che non lascia spazio a dubbi su quanto sembri ancora faticoso chiamarli “lavoratori e lavoratrici della cultura”, continuando così ad alimentare quel vecchio adagio per cui “con la cultura non si mangia”. Il loro mancato riconoscimento come veri e propri lavoratori non avviene soltanto da parte dello Stato, ma spesso anche da parte degli stessi professionisti del settore. Basti pensare che il 90% di questi non è iscritto al sindacato. Il vero fulcro della controversia riguarda però i contratti: 48

è infatti il datore di lavoro che può scegliere il contratto collettivo da applicare e che spesso non rispetta le tipologie previste dal CCNL (Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro), questo perché le figure del comparto culturale prevedono spesso mansioni particolarmente soggette a flessibilità e peculiarità specifiche a seconda della sfumatura di ruolo ricoperto. Inoltre nella maggior parte dei casi le collaborazioni sono piuttosto brevi o al massimo stagionali, elemento che rende ulteriormente complessa la loro regolarizzazione all’interno del mercato del lavoro. Importanza cruciale avrà in questo senso la riorganizzazione post-emergenza del settore, proprio per quanto riguarda le tipologie di contratti, che dovranno essere – come ci spiega Elisa Rebecchi, sindacalista SLC-CGIL, comparto produzione culturale – “meglio ritagliate sulle specifiche peculiarità dei lavoratori della cultura, che rappresentano una categoria spesso priva di rapporti continuativi e che necessita quindi di molti più ammortizzatori sociali e sostegni al reddito”. Un esempio emblematico di tutto il quadro appena dipinto è il caso del bonus INPS previsto dal Decreto Cura Italia. per accedervi era necessario aver versato almeno trenta giornate di contributi e infatti il 45% dei lavoratori del settore non ha potuto richiederlo, in quanto non raggiungeva la quota di giornate versate necessaria.

Trenta giornate di lavoro possono sembrare poche, ma il mancato rispetto dei contratti lavorativi e il lavoro in nero hanno impedito alla maggior parte di questi lavoratori di accedere al bonus. Il report dell’INPS sui lavoratori dello spettacolo esemplifica questo problema con i numeri, un esempio: gli attori iscritti sono 72.997, la loro retribuzione media (annuale!) è pari a 2.836 euro e la media giornate lavorative (sempre annuale) è 16. La mancanza è stata poi rilevata dal Governo, che con il Decreto Rilancio ha abbassato le giornate contributive da 30 a 7, grazie anche alle pressioni di diverse realtà associative e sindacali di settore. Oggi infatti, ma ancor di più in questo momento di emergenza, autonomia e autosufficienza sono ardui obiettivi da raggiungere per i lavoratori operanti nel mondo della cultura. L’associazionismo, inteso come formazione di un ente no profit, si è rivelato molto efficace per numerose realtà; ha permesso loro di rimanere attive sul territorio, contribuendo così allo sviluppo sociale, ma anche economico del Paese. Queste reti operano spesso in collaborazione con i sindacati, e non in forma di sostituzione o contrasto, ma sono enti fondamentali per la sopravvivenza del settore. In molti casi sono cruciali proprio per incoraggiare i lavoratori al sostegno reciproco e all’aggregazione, che spinge anche ad una maggiore sensibilizzazione sul tema dei diritti, e verso un’unione più coesa per dare voce alla rivendicazioni comuni. Scomodo

Maggio 2020


Durante l’emergenza sanitaria, il fatto di saper innescare dialoghi capaci di ripensare e progettare, immaginando strade realisticamente percorribili, ha rappresentato il tema centrale per fronteggiare una vulnerabilità lavorativa che da tempo ha messo in ginocchio il mondo dei creativi. Per questo, sono nati gruppi a sostegno di professionisti, spesso inermi dinanzi ad un contesto caotico e frammentario, che si sono aggregati all’interno di una cornice solidale e democratica per prendere parte alla lotta comune. Un esempio è AWI (Art Workers Italia), che lotta per il diritto al riconoscimento dello stato dei lavoratori delle arti, o Attrici Attori Uniti, che contribuisce a ripensare i diritti dei lavoratori dello spettacolo, cooperando con il sindacato SLC-CGIL. L’aggregazione rappresenta un appiglio non di poco valore per dar voce ai bisogni impellenti causati dalle forti lacune di politiche inconsistenti. La dimensione della collettività si rivela indispensabile in questo senso non solo tra colleghi, ma anche e soprattutto all’interno della dinamica relazionale tra pubblico e prodotto artistico, che costituisce senz’altro il cuore pulsante del settore culturale, nonché quel ponte che è venuto a mancare con il sorgere dell’emergenza. Si sta discutendo, quindi, di come poter dare vita a una “restituzione” del prodotto artistico al pubblico, cercando di instaurare e immaginare nuovi percorsi che possano diventare punto d’incontro tra artista e fruitore seppur con il permanere di misure restrittive di distanziamento sociale. La restituzione è individuabile in quel momento di contatto tra le due compagini di chi crea e chi fruisce, che sia questo in forma astratta, come la musica che ascoltiamo nelle cuffiette, o in forma fisica, come quando ci ritroviamo nel bel mezzo di un concerto. Scomodo

Maggio 2020

L’aspetto della restituzione in forma fisica è sicuramente tra i più cruciali: qualunque sia il contesto, gli assembramenti tipici delle sale cinematografiche, dei teatri, dei locali e delle gallerie d’arte sono inimmaginabili allo stato attuale delle cose, con ovvie ricadute anche sull’economia di questi settori. In un campo che è infatti caratterizzato da periodi di lavoro discontinui, la necessità di mettere in atto norme più stringenti in primavera ed estate ha colpito nei mesi che generalmente garantiscono maggiori opportunità. L’arresto di ogni attività culturale ha registrato, nella sola prima settimana di blocco, una perdita di circa 108 milioni di valore aggiunto. Durante le prime settimane non era di fatto stata emessa alcuna ordinanza che limitasse direttamente la produzione, ma principalmente la distribuzione nelle sale e la fruizione di spettacoli e concerti dal vivo. Nei settori in cui era però centrale la fisicità degli artisti, ci si è resi conto immediatamente della necessità di rimandare i lavori. Le misure attualmente avviate per fronteggiare le difficoltà dell’industria di produzione culturale sono state principalmente indirizzate all’ambito cinematografico, tramite incremento delle risorse del Fondo per lo sviluppo destinato agli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo e l’allentamento dei criteri di accesso alle risorse del Tax credit sulla produzione. Tuttavia, mentre per il cinema il Tax credit può rappresentare uno strumento concreto di supporto al settore, la proposta di applicare la stessa manovra allo spettacolo dal vivo potrebbe rivelarsi insufficiente, dati i costi estremamente più elevati per la riproduzione piuttosto che per la realizzazione del prodotto culturale.

Allo stesso tempo, rispetto al cinema, i settori della musica, teatro e arti visive sono stati intaccati in maniera minore sul fronte della produzione, non richiedendo la presenza di un elevato numero di lavoratori nello stesso luogo. Nonostante tutti questi ostacoli molte realtà si stanno attivando e stanno progettando, attraverso un ampio dialogo, delle proposte per il futuro della vita culturale che cerchino di non rinunciare l’imprescindibile rapporto tra pubblico e prodotto artistico, pur preservando la sicurezza di entrambe le parti. Ruolo da protagonista ha avuto in questo senso internet e la progettazione di nuove piattaforme sul web, che ha generato un proficuo confronto tra diverse collettività, permettendo di fornire delle possibili alternative di fruizione a distanza ma anche di elaborazione comunitaria sul futuro della cultura. Molti di questi immaginari saranno possibili però soltanto colmando le molteplici lacune derivate da politiche inconsistenti di sostegno al settore, che con tanta forza sono venute a galla nel corso di quest’emergenza. Iniziando, una volta per tutte, a considerare queste figure come veri e propri lavoratori e garantendo loro i diritti che meritano: Istituendo sostegni al reddito, sostegni alla formazione, riconoscendo lo status di professionisti agli esperti dell’ambito culturale e dando lo spazio, i fondi e il supporto che di cui la cultura necessita, in un paese dove spesso si parla di quanto questa sia al centro della nostra storia, ma altrettanto spesso ci si dimentica di non farla cadere nell’oblio.

di Arianna Preite, Sheila Khan, Camilla de Fabritiis, Daniele Gennaioli e Giulia D’Aleo 49


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Scomodo

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Un lavoro vero - Che lavoro fa tuo padre? Mio padre non dipinge, non fa l’artista, fa un lavoro vero. Questo scambio di battute è purtroppo realmente accaduto: bambini, voci della verità… Non essere riconosciuti come dei veri lavoratori, rappresenta nel mondo della cultura un fardello a tratti invalicabile. Il mercato del lavoro in questione si nutre di un sentimento di incertezza e di insicurezza, frutto di una biopolitica il cui risultato si traduce non soltanto in una strumentalizzazione del volontario e del lavoratore, ma anche in un autosfruttamento. L’arte si presta perfettamente a questo schema, visto che la domanda con la D maiuscola ancora oggi risulta inevasa: che cos’è l’arte? Se non siamo ancora in grado di definirla, come potremmo stabilire chi è a crearla e ne sia, quindi, un lavoratore? Ma soprattutto, siamo certi di poter parlare di lavoratori? L’art. 4 della Costituzione dice: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. “Progresso”, non “lavoro”. Come ci racconta Numero Cromatico, centro di ricerca sulla relazione fra arte e scienza, l’artista immagina il futuro, il suo lavoro non sedimenta nella produttività di artefatti e nella mera esposizione di “decorazioni”. Le ragazze di OTTN, gruppo di giovani curatrici alla ricerca di nuovi formati per raccontare l’arte contemporanea e le sue connessioni con le persone, seppur sottolineando Scomodo

Maggio 2020

la criticità del rapporto fra produttività e valore monetario, non hanno dubbi: <<quando ti dedichi con professionalità, serietà 12+ ore al giorno a qualcosa è lavoro!>> Tuttavia sentimento comune che affligge chi lavora nelle arti visive è quello di una forte precarietà. Soprattutto gli artisti si ritrovano in bilico, costretti a cedere a qualsiasi ricatto del sistema pur di ottenere finanziamenti per investire il loro tempo sia nella ricerca che nell’attuazione della loro pratica, che poi spesso è la stessa cosa. L’arte visiva è un mondo che in questi secoli è riuscito a rendere visibile l’invisibile, ma oggi, il processo si è invertito rendendo invisibili coloro che rendono possibile questo processo di cui l’umanità necessita ogni giorno. Non è un Paese per vecchi... e artisti... e donne... I tentativi per risanare questa condizione sono stati, ad esempio, la creazione dell’Italian Council (2017) e dell’Art Bonus (2014). Il primo, con un budget di 1.700.000 euro finanzia progetti che prevedono la promozione internazionale di artisti, curatori e critici, oltre che l'incremento delle collezioni pubbliche. L'Art Bonus prevede, invece, importanti benefici fiscali sotto forma di credito d’imposta per chi effettua donazioni spontanee in denaro per il sostegno dei beni culturali. Entrambi gli strumenti, però, non sono sufficienti a garantire una continuità di ricerca artistica. Come ci ricordava Numero Cromatico, il problema potrebbe essere di una natura più radicale, e forse si dovrebbe superare la visione dell’artista come lavoratore. Il sentimento di precarietà risulta ancora più accentuato se si prende in considerazione un over 35, donna e madre. Per molti bandi, infatti, l’arte ha una data di scadenza.

Non è possibile parteciparvi in caso si fossero superati i 35 anni di età, come si rammarica l'artista e scenografa Francesca Torricella: <<Non è solo l’età, in alcuni casi vengo respinta da lavori o residenze d’artista perché ho una figlia e quindi, “non mi potrei concentrare pienamente sul lavoro”>>. Una nuova speranza A combattere per questi diritti e a fronteggiare il grande vuoto lasciato dai sindacati sono alcune organizzazioni, come AWI (Art Workers Italia). Nata dai <<soliti discorsi>> che quattro “colleghi” facevano da anni e che in questa emergenza sanitaria hanno trovato la giusta spinta e adesione, ha come obiettivo quello di dare agli operatori culturali degli strumenti validi, che li aiutino a prendere coscienza dei propri diritti. Il COVID 19 ha aperto gli occhi a molti sulle necessità legate all’essere riconosciuti come lavoratori e avere, di conseguenza, una serie di strumenti a disposizione. La strategia di lavoro che hanno adottato è ben strutturata e basata su una ricerca approfondita che vada a supporto di proposte univoche da parte di un gruppo ampio e universalmente riconosciute durante questa emergenza. Hanno costituito sette tavoli di discussione, ma sopratutto di lavoro, formati a loro volta da “sottotavoli”, all’interno dei quali si sviluppano diversi discorsi pratici e teorici legati al lavoro, come la ricerca di modelli esteri, circa la risposta alla pandemia, ma non solo. C’è poi il tentativo di contatto e unione di realtà attive le cui difficoltà risultano tangenti alle loro e una ricerca sia storica sia di come, burocraticamente, funzioni oggi l’Italia. 51


No Profit Al 31 dicembre 2015 le istituzioni no profit attive in Italia erano 336.275: l'11,6% in più rispetto al 2011, ma il trend continua a salire. A “mandarle avanti” 5.529.000 volontari e 788 mila dipendenti. Questo significa che per ogni lavoratore ci sono 7 volontari, persone che, gratuitamente, si impegnano a lavorare nel settore della cultura. La quasi totalità delle realtà contattate sono “no profit”, tuttavia questa non è una scelta di convenienza: come ci racconta Rossana Ciocca di Art City Lab, l’esigenza di fondarla è nata non tanto da una scelta, ma dalla volontà di volersi occupare di arte contemporanea con una missione di progettazione all’interno dello spazio pubblico, percorso fiscalmente insostenibile agendo tramite gallerie private. Tuttavia se non con le tasse, il bisogno di fare ricerca si scontra con la mancanza di fondi per sostenerla. Molte no profit si sostengono grazie a finanziamenti esterni, e se già in una situazione di normalità faticano a esistere, con l’emergenza attuale si sono ritrovate sull’orlo del collasso. Numero Cromatico, no-profit ibrida che si muove tra cultura, arte e scienza prova a prendere fondi da tutti e tre i settori, ma è riuscita, dopo 10 anni di attività, a raggiungere una certa autosufficienza, solo grazie a un public program di eventi e incontri che ora sono, però, sospesi: <<dal punto di vista della nostra attività siamo diventati principalmente progettuali, immaginiamo e creiamo a lungo termine, ma ovviamente è difficile se non sai come pagare l’affitto>>. Certo ci sono anche realtà che hanno scelto di non avere uno spazio fisico, come OTTN: <<non per risparmiare, ma per oltrepassare l’idea che c’è un dentro e un fuori, un qui e un lì. 52

La nostra generazione, che è anche la vostra, sa che il mondo contemporaneo è ibrido, globale, incerto - quindi è bene essere dentro al presente e viaggiare sulla sua stessa onda>>. Tuttavia quello dell’affitto è un problema comune, CASTRO, spazio per la formazione e produzione d’arte contemporanea di cui abbiamo già parlato su Scomodo, ci racconta di aver perso la gran parte dei sostenitori e ora non sa se potrà tenere la sede di Piazza dei Ponziani 8. Il problema non è certo solo pratico per realtà come queste, in cui lo spazio è al centro della loro attività di ricerca e scambio. CASTRO ha provato un programma digitale in interim nell’attesa di poter tornare ad abitare la sede fisica, ma dopo cinque settimane ha deciso di sospenderlo, perché si sono resi conto che non tutto può essere digitalizzato. Il problema del lavoro dell’arte, sottolinea Numero Cromatico, è che trattandosi di inventare futuro, spesso la contemporaneità non riesce a riconoscerlo in un sistema che reitera schemi standard del tempo. Talvolta agli artisti non manca la consapevolezza di esserlo, ma il riconoscimento, impossibile senza la possibilità di condividere. “Non si può fare il fritto di paranza con l’arte!” AWI, MI RICONOSCI e NUMERO CROMATICO hanno scritto, in difesa della ricerca artistica in Italia, tre lettere aperte per farsi ascoltare. La richiesta è riassumibile nella creazione di un “Sistema Culturale Nazionale” che raccolga e coordini, ma soprattutto finanzi in un’ottica collaborativa e organica tutti gli istituti e spazi culturali del Paese. Al Sistema Culturale Nazionale i lavoratori delle arti chiedono “che gli stanziamenti previsti dal ministero a beneficio di progetti ed eventi la cui realizzazione era

prevista per il 2020/2021 (come l’Italian Council, Grand Tour d’Italie, Creative Living Lab) siano confermati, destinando questi specificamente a sostegno dell’attività di ricerca e di produzione, rivedendo i termini e le condizioni che potrebbero confliggere con la necessità di contenimento della pandemia ed elaborando norme che mirino ad accelerare le procedure di partecipazione e assegnazione. L'obiettivo è la crescita sociale e culturale della comunità locale e nazionale. Il principio alla base è che ogni cittadino abbia diritto alla cultura, indispensabile per rafforzare rapporti sociali e democratici. Lavorando anche per facilitare le possibilità lavorative e le opportunità di carriera attraverso la regolamentazione di dinamiche, oggi troppo carenti e discontinue. Se gli artisti venissero riconosciuti sarebbero tutelati, avrebbero sindacati, ma ogni forma d’arte dovrebbe essere riguardata a sé. Esistono artisti visivi, critici, storici dell’arte che richiedono tutele adeguate per il proprio lavoro. Non è possibile ottenere tutele che siano univoche per il macro mondo dell'arte. Bisogna sensibilizzare le istituzioni in modo tale che si rendano conto che nel mondo dell’arte esistono molteplici sfaccettature che chiedono di essere rispettate come lavoratori.

di Camilla de Fabritiis, Luca Giordani e Alessandro Mason Scomodo

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Scomodo

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I sipari di tutti i teatri italiani sono calati fin dall’inizio dell’emergenza sanitaria, ma cercando di risalire alla fonte della gran parte dei problemi che, ad oggi, gravano sulle spalle del settore dello spettacolo, tutto aveva già iniziato a crollare nel 2013, dopo la riforma del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo). Il FUS è un fondo statale istituito nel 1985 a sostegno di tutti i settori dello spettacolo dal vivo. Nel 2013 è stato riformato dall’allora ministro per i Beni Culturali, Dario Franceschini. Da questa riforma i problemi dei professionisti dello spettacolo hanno iniziato a sedimentare, fino a diventare strutturali. Con la riforma sono stati stabiliti nuovi criteri per l’assegnazione dei finanziamenti, rendendo un’operazione funambolica presentare un piano che li rispetti tutti: da una parte si richiedono alti standard di produzione, dall’altra bilanci in perdita. Paradossalmente bisogna presentare una stagione commerciale e di qualità, ma che faccia andare il teatro in passivo di bilancio. Ma non solo. Con la nuova riforma si disincentiva la tournée sul territorio nazionale e si chiede ai teatri di restare inevitabilmente legati a enti locali. In parallelo il FUS diminuisce ogni anno, e sembra che lo Stato stia spingendo i teatri a rendersi economicamente indipendenti dal finanziamento pubblico statale. Al momento, però, la maggior parte dei teatri sopravvive, comunque, solo grazie a questi ed è difficile immaginare cosa potrebbe succedere senza. Di sicuro per riuscire a districarsi tra parametri e normative, grandi numeri da far quadrare e bilanci triennali, spettatori e artisti sono praticamente ininfluenti nel processo decisionale. Il grande burattinaio diventa il direttore.

Gli artisti diventano, paradossalmente, accessori del teatro. Questo fatto è comprovato anche dalla loro situazione lavorativa: il personale non artistico ha contratti regolari e riceve solitamente lo stipendio a fine mese, potendo contare sulle stesse tutele della maggior parte degli impiegati in altri settori. Non si può dire lo stesso del personale artistico: i contratti, quando ci sono, prevedono pagamenti a 30, 60, 90 giorni, e/o salari da fame. Il tema delle tutele per i lavoratori dello spettacolo è sicuramente uno dei tasti più dolenti; a questo si aggiunge una sindacalizzazione molto bassa: tra gli attori si stima che il 90% non sia iscritto ad alcun sindacato.

A fronte di questi limiti evidenti, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo hanno iniziato a muoversi, anche con i sindacati. Nasce Attrici e Attori Uniti (A2U) che, in concerto con SAI-CGIL, pensa a un nuovo modo di tornare in scena: nuovi contratti, sensibilizzazione sul diritto del lavoro, maggiori tutele, richiesta di un reddito di quarantena – racconta Edoardo Rivoira, attore partecipante a A2U. Si chiede inoltre che i rappresentanti del settore spettacolo, dai tecnici fino al settore produttivo, siano invitati ai tavoli delle trattative con i sindacati e il Governo per definire cosa succederà dopo e portare avanti istanze concrete. Anche per i lavoratori del comparto tecnico-culturale la mancanza di tutele è all’ordine del giorno, i contratti (quando ci sono) vengono il più delle volte firmati direttamente al termine della collaborazione e poi retrodatati, lasciando quindi i soggetti privi di garanzie fino alla conclusione del periodo di lavoro. Un lavoratore del comparto falegnameria - Laboratori Ansaldo (dove prendono vita le scenografie del Teatro alla Scala), ci racconta di come la realtà sindacale del teatro milanese sia molto attiva e abbia permesso loro di ottenere celermente un accordo con la direzione. Il fulcro del problema in questo senso sembra essere però quello dei lavoratori cosiddetti “stagionali”, che nella maggior parte dei casi lavorano con due contratti stagionali annui della durata di circa sei mesi ciascuno. Molti di loro però, seppure con contratti temporanei, collaborano con il teatro da numerosi anni, e si trovano ora nell’incertezza rispetto a quanto potrà accadere terminato il contratto, considerando che al momento non esistono previsioni certe in merito alla ripartenza delle programmazioni.

“Gli artisti diventano così accessori del teatro, completamente privi di tutele, con contratti che, quando ci sono, prevedono pagamenti a 30, 60, 90 giorni, o salari da fame.”

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Questa scarsa adesione ha due cause: la prima è l’ignoranza riguardo i propri diritti e gli strumenti di tutela esistenti, dovuta anche al fatto che nelle accademie il tema non sia minimamente toccato; in secondo luogo l’attore (e come lui gran parte dei lavoratori dello spettacolo) è spesso una figura ricattabile, che fa fatica a rivendicare i suoi diritti per paura di non essere più chiamato, e smettere di lavorare. Nonostante questo, naturalmente, una maggiore sensibilizzazione di tutto il corpo teatrale farebbe senz’altro la differenza, e renderebbe impossibile per le produzioni discriminare i lavoratori sulla base di chi accetta o meno di lavorare senza contratto.

Scomodo

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Numerosi anche i festival costretti a ripensarsi. Fabrizio Grifasi, direttore generale e artistico del Romaeuropa festival, racconta che loro come primo gesto significativo per dare positività e sostegno ai professionisti dello spettacolo hanno deciso di pubblicare ugualmente il programma della trentacinquesima edizione del festival per come era stato elaborato in precedenza. La parola chiave della locandina è “Contatto”, termine che fa riferimento alla necessità di un dialogo che si vuole mantenere “con-tatto”, ossia attraverso la sensibilità come presupposto di base della solidarietà. Maura Teofili, curatrice dell’osservatorio “Anni Luce” sugli scenari emergenti, a proposito della capacità dell’arte di interrogare l’attualità, riflette su come le restrizioni vigenti possano costituire dei fattori di innesco di potenzialità creative “al di là della paura e dell’appiattimento che oggi ci sembra possano adombrare lo spettacolo dal vivo”. Sebbene le possibilità di movimento e di interscambio siano state congelate, le libertà di pensiero e di espressione, elevate da Romaeuropa come bandiera della propria comunità internazionale, si manifestano comunque attraverso il web e la presenza in rete. L’abbassamento dei prezzi e l’ipotesi dello streaming rientrano tra le soluzioni avanzate per mantenere ampia la platea. Romaeuropa quindi continua ad alimentare la comunità abbracciando modalità differenti, perché il senso dell’arte e della cultura sta nella capacità di comprendere e rispondere ai fenomeni, emergenze incluse. Altra prospettiva interessante è quella di Ilaria Mancia, responsabile del master annuale di II livello in Arti Performative e Spazi Comunitari (Pacs) del Mattatoio di Roma, che ci informa Scomodo

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di come questo polo artistico-culturale pubblico, abbia sì, come tutti, sospeso le lezioni, ma contemporaneamente la comunità degli artisti e la direzione del Mattatoio abbiano avviato un processo di riflessione critica sul lavoro di ricerca e di esplorazione dei linguaggi performativi, delle arti visive e dell’architettura finora svolto, nell’ottica di immaginare nuovi modi di interazione, collaborazione, fruizione con i professionisti e con il pubblico. Far emergere spunti creativi innovativi può diventare un’occasione per proporre una restituzione al pubblico che sia intesa come “un attraversamento dei luoghi della ricerca”, ci racconta Ilaria. Nel mentre gli artisti e gli operatori culturali del Mattatoio non rinunciano al rinnovamento dei canali social per lanciare progetti come “Tracce”, un taccuino virtuale condiviso. Al momento i teatri sono autorizzati a riaprire dal 15 giugno, anche se saranno pochi quelli che lo faranno. In primis perché le misure di sicurezza da rispettare comportano un ingente costo, che al momento solo le strutture più grandi possono permettersi. In secondo luogo, queste misure compromettono la natura stessa del teatro: prove e attori a distanza di un metro e spettatori contingentati rendono difficile immaginare il teatro come rito e vicinanza. Altra tematica calda è quella delle programmazioni, che spesso prevedono collaborazioni con diversi artisti stranieri e che dovranno essere completamente ripensate. Questo, nonostante ad un primo colpo d’occhio non sembri essere un particolare problema, prevede però un’esigenza totale di riorganizzazione anche di tutto il comparto di lavoro tecnico e scenografico, che richiederà diversi mesi per arrangiare una nuova partenza.

È anche vero che il teatro è sopravvissuto 3000 anni, superando ogni catastrofe e reinventandosi ogni volta, plasmandosi sulla realtà. Ma cosa succederà adesso? “Se le misure restassero le stesse anche a settembre, sarebbe interessante vedere cosa succede – racconta Edoardo Rivoira di A2U– Nascerebbero delle regie apposta per rispettare il distanziamento, magari con pochi attori, o spettacoli nuovi per parlare di questa situazione o pensati su misura. Mi piacerebbe vederla come un’opportunità. Il teatro è nato adattandosi sempre a quello che la storia gli metteva davanti: non tiriamoci indietro”.

di Arianna Preite, Sheila Khan e Giulia Falconetti 55


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Scomodo

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Lockdown forzato anche per l’industria cinematografica, che, seppur tra le principali interessate dai sostegni economici, ha in questi mesi subito una notevole battuta d’arresto. La paralisi ha investito in modi e tempi differenti quasi tutte le fasi del processo, prima fra tutte lo step finale, la distribuzione in sala, che il decreto dell’8 marzo ha bloccato sull’intero territorio nazionale. In tutto 1.600 sale cinematografiche hanno sospeso la loro attività, per un totale di 4.200 schermi spenti. E sono proprio le sale ad accusare maggiormente il colpo, mentre le perdite economiche interessano in misura minore produzioni e comparto creativo. Pessimo tempismo per il cinema italiano, che, dopo il lieve rialzo che aveva opposto il 2019 al “terribile” triennio precedente, si preparava a conoscere un ulteriore e decisivo slancio nel 2020, i cui guadagni a gennaio - il 22% in più rispetto all’anno scorso – lasciavano ben sperare. Oltre ai mancati incassi dei mesi da marzo ad oggi, la chiusura ha causato lo slittamento di molte uscite economicamente rilevanti – come Si vive una volta sola di Verdone – dai cui ricavi avrebbe giovato l’intero settore, incluso il comparto produttivo. Ai danni economici causati dalla sospensione delle produzioni già avviate - il maggior numero delle quali interrotto tra la fine di febbraio e l’11 di marzo - e da una distribuzione in attesa, si aggiunge anche la fuga delle produzioni internazionali, che hanno fermato o annullato le riprese in Italia, lasciando a casa più di mille lavoratori e determinando una perdita di circa cento milioni di investimento nel Paese.

L’attuale situazione d’emergenza ha inoltre contribuito a rivelare contraddizioni e problematiche che da sempre caratterizzano l’industria cinematografica: un impero sorretto da operatori e professionisti di ogni grado che lavorano privi delle più basilari tutele e assicurazioni. Anche le misure previste dai più recenti decreti per il sostegno ai lavoratori del settore risultano inadeguate.

Un quarto dei lavoratori, però, non ha i requisiti e il numero di giorni lavorativi necessari ad accedere ad alcun tipo di ammortizzatore, nemmeno la disoccupazione. I bonus mensili e i sussidi sociali non possono inoltre sopperire la mancanza di un lavoro che non si sa ancora quando sarà nuovamente disponibile. Secondo un delegato del sindacato Lavoratori delle Troupes, solo il 30% del settore ripartirà a breve. Tutto il comparto tecnico è attualmente bloccato, ad eccezione della sceneggiatura e del doppiaggio cui, rispettando precise indicazioni sanitarie, è permesso continuare a lavorare secondo le disposizioni del codice Ateco. Un problema non meno rilevante, già presentatosi per queste categorie non colpite dal lockdown, è quello della sicurezza sul lavoro, che ha già interessato quei doppiatori che per mesi hanno continuato a lavorare in piccole sale chiuse, a contatto con altri tecnici. La questione coinvolgerà, probabilmente a breve, anche le altre categorie, dato che la tendenza sembra essere quella di ripartire presto con le produzioni. Nessuna società assicurativa, però, garantisce la copertura delle troupes in caso di covid-19, lasciando la responsabilità alle produzioni, che, dovendo soppesare i rischi di ogni progetto, saranno probabilmente scoraggiate dalle condizioni di lavoro imposte. Particolarmente stringenti saranno infatti le norme da seguire sui set, probabilmente più restrittive di quelle indicate nella Nordic Film Guide, rivolta alla Svezia e Danimarca, che nelle direttive generali per gestire l’emergenza si erano mostrate già più morbide dell’Italia.

“Un quarto dei lavoratori non ha i requisiti e il numero di giorni lavorativi necessari ad accedere ad alcun tipo di ammortizzatore, nemmeno la disoccupazione.”

Scomodo

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L’indennità di 600 euro prevista per il mese di marzo e rivolta agli iscritti al Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo, rappresenta un valido supporto economico oltre che un importante simbolico riconoscimento della categoria; eppure sono in troppi ad esserne tagliati fuori. In particolare, una delle restrizioni per l’accesso al bonus – l’adempimento di almeno 30 giornate lavorative nel 2019 - non tiene conto della precarietà che contraddistingue gli impieghi in ambito culturale. Inoltre, nonostante il ministro Franceschini avesse garantito l’accesso senza limitazioni alla cassa integrazione, soltanto due produzioni italiane non hanno licenziato nessun dipendente.

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In una prima esperienza di allestimento di un set dopo l’emergenza, Alessandro Tomassetti, assistente scenografo, riporta come le location, fornite alla produzione da aziende specializzate, debbano essere sanificate ore prima dell’utilizzo; è necessaria anche la presenza di diversi prodotti per la pulizia degli oggetti di scena, prima e dopo ogni impiego da parte degli attori. Si ipotizza anche un controllo giornaliero della temperatura per tutti i lavoratori chiamati sul set e il frequente ricorso a tamponi. Le misure potrebbero inoltre parzialmente influenzare la dimensione strettamente creativa, data la possibilità che sia ammessa la presenza di una sola macchina da presa e che venga limitato l’utilizzo di comparse e il contatto fisico tra gli attori. Inevitabilmente queste condizioni condurranno anche ad una dilatazione dei tempi di ripresa, che faranno ulteriormente lievitare i costi per la produzione. Nonostante le restrizioni possano apparire ingombranti, Nicoletta Romeo, produttrice cinematografica e direttrice artistica del Trieste Film Festival, ritiene che il cinema, in quanto arte, sia flessibile e in grado di adattarsi alle necessità richieste dall’attuale emergenza, che non costituirà, pertanto, un ostacolo alla creatività della produzione. Diversa la condizione dei festival, anch’essi luoghi vivi di aggregazione sociale oltre che culturale, molti dei quali sono stati rimandati a data da destinarsi, e, rimanendo in attesa di condizioni più proficue, dovranno evitare l’accavallamento una volta che la situazione si sarà sbloccata. 58

È ancora incerto, e probabilmente lo sarà fino all’autunno, se la prossima edizione del Trieste Film Festival, che si terrà a gennaio 2021, si svolgerà in presenza, totalmente online o in modalità mista, con proiezioni dal vivo ed eventi – masterclass, interviste – online. Le difficoltà primarie vanno però oltre le modalità di fruizione. A preoccupare è in misura maggiore il piano contenutistico, perchè lo slittamento dei grandi festival, come quello di Cannes, di Karlovy Vary o di Locarno, mantiene congelate le anteprime dei film, rendendo “vuoti” i mercati internazionali da cui attingere per riempire il palinsesto e generando una domanda maggiore dell’offerta. In alcuni casi, invece, altri festival hanno deciso di salvaguardare l’edizione spostandola su piattaforme online, come il Far East Film Festival, dedicato al cinema asiatico, e lo ShorTS International Film Festival di Trieste, entrambi ospitati da MYmovies. Sebbene l’abitudine alla visione online sia ormai consolidata, questi mesi di lockdown non hanno scalfito la centralità della sala nel processo di fruizione dei film. La riapertura delle sale italiane è prevista, secondo decreto del 16 maggio, per il 15 giugno, nel caso in cui queste siano in grado di rispettare specifiche misure di sicurezza, come il distanziamento tra le sedute e l’utilizzo di termoscanner all’entrata per il rilevamento delle temperature. La necessità di rispettare determinate condizioni andrà certamente a scapito dei piccoli esercenti, che non potranno nemmeno guadagnare dalla vendita al dettaglio di alimenti e bevande.

Nonostante il blocco delle produzioni e il lancio online delle anteprime di alcuni film, per cui sarà necessario adottare le strategie più adatte a riproporli efficacemente in sala, molte altre valide pellicole sono in attesa di uscire, in un periodo dell’anno che non è però il più prolifico. Dopo mesi di distanziamento sociale e lockdown, che hanno modellato le abitudini psicologiche degli spettatori, l’ostacolo più grande al ritorno in sala potrebbe però essere rappresentato dalla mancanza di fiducia nelle misure di sicurezza adottate e nel timore di ritrovarsi in uno spazio chiuso e affollato.

di Giulia D’Aleo e Carlo Giuliano Scomodo

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Tra le realtà considerate, la restituzione risulta un elemento prominente in una categoria di attività colpita ferocemente dalle restrizioni delle due fasi di quarantena: le attività musicali, tenute in piedi dalle professioni degli organizzatori, degli imprenditori e dei tecnici del suono e delle luci. In termini di movimenti economici, solo i concerti nel 2018 hanno incassato una cifra record di 423 milioni di euro netti, con una tendenza positiva in aumento nel caso dei concerti di musica leggera, che rappresentano ben l'86% degli incassi delle biglietterie. Decine di migliaia di persone, professioniste del settore, hanno perso di punto in bianco un lavoro che non può riconvertirsi nella logica dello smart-working, oltre al fatto che in molte si ritrovano a dover sostenere le spese che già prevedeva la loro attività, come ad esempio gli affitti dei locali e dei magazzini per i service. Per capirle meglio, ci siamo avvicinati a una delle piattaforme più significative sorte fino ad ora: La Musica Che Gira. Lo scopo della piattaforma è quello di far sottoscrivere ai lavoratori dello spettacolo interessati una raccolta di richieste, in forma di documento, per risanare la situazione disastrosa del settore e per proporre alle istituzioni garanzie per la sopravvivenza dei lavoratori in considerazione e per una prossima ripartenza. “E’ nata un mese fa, è un coordinamento, è informale, non ci sono iscritti e riguarda gli addetti ai lavori: tra di loro c’è chi ha montato palchi per lo stesso evento, chi ha condiviso l’albergo, chi ha fatto colazione insieme a Sanremo e c’è chi non si è mai visto dal vivo”.

Sono queste le parole iniziali della nostra intervista con Jambo, uno dei registi del coordinamento. Fin dalla prima lettura del documento simbolo della campagna del progetto, ci è subito chiaro come il progetto miri a rappresentare tutte quelle realtà che compongono la filiera del mercato della musica. Non c’è un’organizzazione sindacale che li rappresenti a pieno, proprio perché in questo momento nonostante alcuni nomi si siano interessati a certi aspetti di tutela della situazione generale, questa problematica è passata in secondo piano rispetto ad altre.

Al giorno d’oggi infatti il contratto di un tecnico è inquadrato come quello di un bagnino, portando a dei gravi squilibri sia in termini di tutela del lavoratore che in termini di contributi pensionistici. Questo inaugura un circolo vizioso che porta l’imprenditore-organizzatore, datore di lavoro per il tecnico, ad arrivare a pagare cifre poco convenienti con i costi delle tasse e, incentivando il nero, si genera così un sommerso gigantesco che poi va a gravare sia allo Stato che allo stesso sistema. Ad ogni modo, il documento ufficiale riprende molte delle ideologie espresse da altre dimensioni virtuali sorte negli ultimi mesi, come ad esempio i gruppi per regione di Lavoratori e Lavoratrici dello Spettacolo, che insistono proprio sul messaggio che deve passare agli occhi dello Stato: gettare le basi per una riforma del settore che possa portare dei reali cambiamenti in futuro. La burocrazia italiana è complessa su certi temi e tra i lavoratori dello spettacolo c’è chi convive con l’opprimente sensazione di potersi ritrovare in una situazione di non tutela da parte dello Stato. Come Jambo ci riporta, la preoccupazione più grande che ci viene detta è proprio che, di questo passo, la cultura possa diventare un lusso. Infatti – continua Jambo - il ritorno economico con la musica dal vivo è basso proprio perché la musica è artigianale e non è un prodotto scalabile; chi spesso non riesce a trarne vantaggio sono proprio coloro che fanno piccole produzioni. Proprio perché si stanno facendo grandi sforzi per tirare a campare, ci si deve preparare ad una possibile convivenza col virus, nell’ottica che questo nel prossimo autunno ritorni a diffondersi in modo massiccio.

“Al giorno d’oggi il contratto di un tecnico è inquadrato come quello di un bagnino, portando a dei gravi squilibri sia in termini di tutela del lavoratore che in termini di contributi pensionistici.”

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Inoltre, c’è stata un’intercettazione di tutte quelle misure di tutela applicate in altri paesi, tra tutte la Germania e la Francia, le quali potrebbero essere un modello per l’Italia in un prossimo futuro. Sull’intenzione di colmare questo gap normativo, ci viene illustrato come il documento sia diviso in quattro parti proprio per rivolgersi alle singole problematiche che rappresentano le singole professioni nel modo più ampio possibile, con un forte riguardo ai lavoratori ad intermittenza e al problema conseguente del nero, che in Italia costituisce una gran fetta delle remunerazioni nel settore.

Scomodo

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“La responsabilità della diffusione non può dipendere esclusivamente dalle misure di contenimento adottate dai locali e dagli eventi musicali, ma deve provenire innanzitutto dall’autocontrollo delle persone e dal rispetto del distanziamento sociale” conclude Jambo. Dopo aver individuato le maggiori problematiche e le possibili risposte a questa situazione, abbiamo pensato di sentire direttamente un lavoratore a intermittenza, per avere una conferma della sua condizione e per avere un parere parallelo a quello dei coordinamenti e delle proposte sorte in merito. Il confronto con Cristiano, un fonico di Roma, offre una prospettiva più pragmatica del problema: le sue inquietudini e constatazioni sull’avvenire del suo settore sono previsioni che devono essere necessariamente centrali nel processo di crescente tutela professionale che è auspicabile diventi realtà concreta nell’Italia post-Covid. Tra marzo e aprile, mesi importanti per la presenza di eventi live e festival pre-estivi, il nostro interessato ha sempre avuto un guadagno tra i 3 e i 4 mila euro, adesso invece non avendo garanzie e non potendosi rifare ad alcuna partita Iva si ritrova ad attingere ai risparmi messi insieme negli anni. Al vaglio dell'ipotesi di riapertura per metà giugno dei concerti di musica leggera, Cristiano ci rassicura che come situazione non cambierà granché rispetto al lockdown, in quanto il lavoro sarà sicuramente di meno e il pubblico, oltre ad avere delle limitazioni nei posti prenotabili, non potrà più spendere quanto spendeva prima in questa fase di crisi. In più da parte dei locali e delle aziende è sempre tenuto in conto di dover rinchiudere a fine autunno, mantenendosi quindi stretti in assunzioni e pagamenti. Scomodo

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La preoccupazione è dovuta in primo luogo dall'incertezza, soprattutto sul piano macroeconomico. Se a lavorare e guadagnare era già difficile prima, prosegue Cristiano, ora lo sarà molto di più. Con un debito pubblico alle stelle, sicuramente si dovranno prevedere dei tagli al mondo dello spettacolo, anche sotto forma di decreti sulla sicurezza come quello Gabrielli. Un decreto che ha fatto fallire centinaia di sagre di paese, impossibilitate a trovare dei responsabili legali per le nuove norme di sicurezza dei palchi e i finanziamenti per poter comprare al minimo le transenne degli impianti. Alla domanda sull'esistenza del nero, la risposta è stata fulminea: “i tecnici del suono non sono una classe di professionisti riconosciuti, e non ci sono i soldi perché accada, sembrerebbe”. Gli stessi tecnici non sono sempre pagati in nero, nel momento in cui si lavora per realtà grandi, istituzioni della cultura, è impensabile lavorare senza contratto regolare, in questo caso le famose ritenute d’acconto”. Nel momento in cui si parla di locali, invece, è impensabile affrontare una spesa che corrisponde a più del 20% del totale. Al datore un fonico regolarizzato, ci spiega Cristiano, costa 200 euro, mentre in nero 150, quel 20% e passa corrisponde a 50 euro di tasse. Una categoria fortemente colpita da non dimenticare, aggiunge, è quella dei facchini, che spostano il materiale. Ora che attraverseremo tutti ristrettezze molto pesanti, che succederà ai facchini? Sono quelli che sgobbano, che si sporcano le mani perché funzioni un evento. Anche se il loro lavoro è replicabile da noi stessi tecnici, queste persone non potranno più avere altro genere di opportunità.

La questione di fondo non è quindi solamente quella di salvare una categoria precisa di professionisti, ma un'intera classe di lavoratori stagionali, il quale carico lavorativo è concepito in maniera completamente diversa dai dipendenti pubblici o dai lavori di mestiere, che hanno bisogno solo della richiesta per poter tirare avanti. Il risultato di questa incursione è stato quindi quello di ritrovarci davanti un sistema di piccole economie già allo sbando, fragili a causa una burocrazia come quella italiana che affossa le proposte di impresa e che incentiva le persone ad evadere, piuttosto che a credere in un futuro in cui il proprio lavoro sia tutelato e garantito. I dati della quotidianità lavorativa di Cristiano illuminano dall’interno la questione del nero, dell’intermittenza come quella della struttura economica che tiene in piedi il mondo della cultura. Ricordiamo che la musica può essere considerata un mercato anche perché una gigantesca fetta degli utili che produce l'industria sono direttamente collegati alle esibizioni e ai concerti, come accennato all’inizio. Lo spaccato che ci descrive coincide perfettamente con quello che ci ha dato Jambo. Il caso del Covid è stato, come in passato quello degli attentati terroristici o degli incidenti di sovraffollamento, l'ennesima prova che sotto stress la catena degli eventi a sfondo culturale si spezza, gettando lavoratori, imprenditori e artisti sulla strada, in attesa di risposte inattendibili.

di Daniele Gennaioli, Ismaele Calaciura Errante e Clara Villani 61


STEREO8 Negli anni '70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta per maggio da mettere in play anche su Spotify.

Nick Hakim CRUMPY Da WILL THIS MAKE ME GOOD Frequenze: Psychedelic rock

Nick Hakim è sempre stato un artista che non ha mai lesinato a sperimentare, arrivando anche a stravolgere la propria formula, sull’onda di influenze molto variegate tra loro, come Curtis Mayfield, i Funkadelic e D’Angelo. CRUMPY è la standout track del suo ultimo album, un brano concreto e senza fronzoli, che anche a livello melodico prende una sterzata decisa verso un convincente cantautorato dalla forte impronta black.

Yonic South – On Da Twix And Drive Frequenze: Garage punk revival

ss Madneuse o Our H e & Fall Ris ska Da The : Two-tone e nz Freque

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Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 quattro ragazzi da Camden Town, i Madness, diventarono gli ambasciatori dello ska nel Regno Unito, portando una ventata di aria fresca e una rinnovata sensibilità verso la musica etnica nel panorama inglese. Our House è una delle loro hit più famose e racchiude in tre minuti tutti quegli elementi in grado di fargli dominare le classifiche, tra cui il racconto ironico della vita della working class londinese e i riff melodici impossibili da mandare via dalla testa.

Un trio “di strafatti, alla guida di una Citroen Picasso e in cerca di un kebabbaro”: così si descrivono gli Yonic South (sì, il nome è parodico di Kim Gordon & co) e in questo modo suona anche il loro ultimo ep Twix And Drive, un trip punk allucinogeno – e allucinante – nella provincia lombarda. On, in particolare, è un crescendo di assoli casinisti e rullanti arroganti, che però riescono a convivere con un cantato riverberato che in alcuni momenti ricorda gli Oasis di Definitely Maybe.

Scomodo

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Danjlo Quando sarà possibile un completo isolamento? Da Sette Domande da Fare allo Specchio Frequenze: Pop elettronico

Compositore e ingegnere del suono, autore di colonne sonore per webserie e di remix con i quali si è fatto notare nell’affollatissimo panorama SoundCloud italico, il napoletano Danjlo è un artista poliedrico e sempre capace di reinterpretare le suggestioni del momento. Non è quindi una sorpresa che durante questo periodo di isolamento sia uscito con un album pop sperimentale, intimo e casalingo, un prodotto di questi tempi, che in Quando sarà possibile un completo isolamento? riesce a racchiudere tutti gli scazzi e le incertezze dei nostri ultimi mesi.

ARIETE Amianto Da Spazio Frequenze: Bedroom pop

Il 2019 è stato (anche) l’anno di Charli XCX, che con l’album omonimo ha cementato il suo posto nell’olimpo del pop di oggi, un genere mai come adesso fluido sia livello di identità che di immagine e sound. Con how i’m feeling now l’artista britannica ha voluto dipingere un affresco sintetico e pitchato della sua quarantena e con anthems è riuscita a raccontare perfettamente quelle giornate vuote che hanno riempito le nostre routine recenti.

Polo G DND Da THE GOAT Frequenze: Street rap

Scomodo

Maggio 2020

Ariete è una cantautrice romana classe 2001, che dopo un breve percorso a X-Factor ha proseguito per una strada priva di quella classica inespressività plasticata tipica di molti dei prodotti usciti dai talent show. Il suo ep di debutto Spazio è infatti un prodotto già maturo, sia a livello di direzione sonora che di songwriting, nonostante la sua atmosfera adolescenziale: l’opening track del progetto è una ballad intrisa di un malessere tipicamente teen, che però grazie all’arrangiamento acquista una profondità inaspettata.

Cha rli Da h anthe XCX Freq ow i’m fe ms uenz e: El eling now ectro pop

Lean Yung eart Iceh rz a Da St loud rap C : e z en Frequ

Die A Legend, l’album di debutto di Polo G, è stata una delle sorprese più inaspettate dello scorso anno: un disco rap potente e consapevole, fatto da un artista capace di realizzare pezzi conscious in cui racconta dei suoi amici morti tanto quanto party banger in cui minaccia di spararti in testa. Il seguito di questo piccolo capolavoro è un prodotto che conferma tutte le qualità del ragazzo di Chicago, che in DND (acronimo per Do Not Disturb) grida al mondo tutta la sua ambizione, perché “Once we start a riot we can’t keep quiet”.

Era il 2013 quando l’allora sedicenne svedese Jonatan Hastad, in arte Yung Lean, sfondava i 20 milioni di visualizzazioni con il singolo Kyoto, diventando uno dei primi emo/cloud rapper capaci di imporsi nel mainstream. Sette anni e innumerevoli identità artistiche dopo, l’artista scandinavo è rimasto una promessa un po’ incompiuta, ma in brani come Iceheart è ancora capace di ricordarci quanto la sua legacy abbia contribuito a plasmare molte delle tendenze del rap contemporaneo.

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di Jacopo Andrea Panno 63 63


La diversa identitá --------------------------------------------------------------------------------------------------------Le lotte di rivendicazione della comunità colombiana de Las Traviesas

Le comunità indigene Embera si stanziano nella zona del Pacifico, principalmente tra Panama, Colombia ed Ecuador. In quanto comunità amerinde, si trovano ben distanti dai centri urbani: nella maggior parte dei Paesi dell’America Latina, infatti, così come in alcune zone degli USA, le comunità indigene, in accordo con gli Stati in cui risiedono, abitano nelle cosiddette riserve naturali, ben distanti dalla città. Sono frequenti i casi in cui alcuni indigeni, per motivi spesso lavorativi, si spostino dalla comunità verso i centri abitati: in queste circostanze, però, è il singolo a muoversi, al massimo col proprio nucleo familiare perciò l’individuo “emigra” ma la comunità come realtà ed ente (anche istituzionale) rimane nella riserva. Tuttavia, nella foresta della Colombia Nord-Occidentale, a una manciata chilometri dalla cittadina di Santuario, si è da poco insediata una comunità impegnata nella lotta per il proprio riconoscimento identitario: la Comunidad de las Traviesas. Questo è il nome che le giovani donne di questa comunità hanno scelto per sé e per la cui affermazione stanno lottando; nella loro comunità d’origine, invece, sono chiamate werapa. La cultura indigena Embera trova le proprie radici nel Mito e nei Riti, secondo i quali, una bambina è considerata tale non dal momento della nascita, bensì in seguito al rito della aulaciòn.

Tale rito consiste nel taglio del clitoride: qualora ci si dimenticasse di tagliare il clitoride alla bambina o l’operazione subisse degli errori, nella loro credenza a questa crescerebbe il pene e in età adulta maturerebbe un maggiore desiderio sessuale rispetto alle altre donne.

Gli spostamenti sono andati aumentando, anche grazie al rapporto di amicizia che lega le ragazze, e ora presso Santuario abitano tra le 40 e le 50 indigene werapa: sono ormai una fortissima comunità, così solida da voler essere riconosciuta come comunità indipendente. Lo Stato colombiano, poichè casa di moltissime comunità indigene, si riconosce come polietnico e nella sua Costituzione afferma, in virtù di questo fatto, il proprio dovere nel salvaguardare le varie culture che abitano il territorio colombiano. Alla richiesta di queste ragazze di essere riconosciute come comunità indipendente, però, lo Stato ha risposto negativamente, principalmente per motivi giuridico-economici che regolano il rapporto tra Stato e Comunità - primo fra tutti il fatto che lo Stato debba erogare finanziamenti alle tribù, per cui “tribù in più sono più finanziamenti da erogare”. Capita poi che gruppi attivisti si muovano per aiutare queste ragazze, ma approcciandosi loro come a ragazze transgender in attesa di aiuto e istruzione sui diritti che spettano loro in quanto trans. Questo, tuttavia, è un termine appartenente alla cultura Occidentale bianca, che ha una costruzione binaria del genere: le ragazze di Santuario non sanno cosa significhi transgender, non è un termine – e dunque un concetto – che appartiene alla loro cultura, e non hanno alcun interesse nell’apprenderlo.

“L'eurocentrismo, parlando a livello globale, è sicuramente causa e conseguenza di una sola narrativa del mondo, un pregiudizio etnocentrico che vede il mondo diviso tra "popoli che hanno fatto la storia" e "popoli passivi, inutili".”

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Sarebbe una werapa, che nella lingua amerinda significa “falsa donna”: assumerebbe i doveri che spettano alle donne all’interno dell’assetto culturale della comunità, ma allo stesso tempo verrebbe considerata falsa, in quanto mancante di un fondamentale rito di iniziazione. Moltissime werapa si sono negli ultimi anni spostate verso zone più vicine alla città, allontanandosi dalla propria comunità di origine. I motivi sono molteplici e di origine pragmatica, come ad esempio conflitti con el Governador della comunità, o maggior vicinanza al posto di lavoro.

Scomodo

Maggio 2020


Imporre un’etichetta simile significa scavalcare la loro cultura e imporre una propria concezione della realtà e, nel contesto colombiano, andare contro un principio costituzionale, soprattutto se si vuole far fronte ad un problema che coinvolge una mancata presa di responsabilità da parte dello Stato. Le ragazze però sono strettamente legate alla loro cultura indigena, si identificano, prima che in qualsiasi altro modo, come indigene: per questo vogliono essere una comunità. Allo stesso tempo, si trovano tra due fuochi: non si sentono werapa, come le riconosce la comunità Embera, perché non vogliono essere false donne, ma semplicemente donne; dall’altra parte, non si riconoscono come transgender perché è un concetto che non appartiene loro e identificarsi come tali significherebbe rinnegare la propria cultura indigena. Fanno quindi un salto identitario: cercano, trovano e richiedono il proprio riconoscimento come Traviesas, culmine di un processo di autodeterminazione. Il nome deriva dal gergo contadino, precisamente dai campi di caffè, dove lavora la maggior parte delle indigene nei due principali periodi di raccolta: ad aprile/ maggio e a ottobre/novembre; a volte, dipendendo dall’anno, può capitare una raccolta intermedia, meno corposa delle due principali ma altrettanto redditizia, e nel gergo contadino questo periodo prende il nome di “cosecha traviesa”, il raccolto birichino, proprio perché non segue alcuna regola. Prima di stabilirsi definitivamente nel campo, le ragazze venivano chiamate per raccogliere durante la traviesa, motivo per cui gli altri contadini le chiamavano “las traviesas”. Scomodo

Maggio 2020

Da qui il loro riconoscersi in questo nome, che mette le radici nella loro fonte di sostentamento, a strettissimo contatto con la natura, tipicamente indigena, ed è allo stesso tempo metafora della loro condizione: due raccolti fissi, l’essere werapa e l’essere trans gender, e tra questi si posizionano loro, appartenenti a entrambi i mondi ma insieme a nessuno di questi. L’essere quindi semplicemente se stesse e come ci si sente, sentimento non solo individuale ma di un’intera comunità, la comunità de las Traviesas.

Jairo Tabares, giovane antropologo di Caldas che ha passionalmente raccontato a Scomodo la situazione de las Traviesas, scrive nella propria tesi di laurea: <<Essere Traviesa è il risultato di sentirsi rappresentata e identificarsi metaforicamente con i fenomeni naturali, come esseri che nascono in medias res, nell’ accadimento puro e non da categorie spontanee.[...] E’ il risultato di pensare alla possibilità di chiamarsi in relazione al territorio e alla propria relazione con esso come elemento centrale

per comprendere il corpo e per intendersi come gente Embera; un esercizio che comprende osservare attraverso i principi concettuali locali>>. L’esistenza del concetto di werapa dimostra come il problema delle traviesas non sia legato alla biologia, poiché il mito si apre a quella che noi chiamiamo disforia. È previsto, in un certo senso, che il sesso biologico non corrisponda all’identità di genere ma non è previsto che si esca dal binarismo culturale. Le werapa sono false donne, ma devono rispettare le regole che codificano i comportamenti femminili accettati. La lotta de las Traviesas è quella per l’autonomia, l’autodeterminazione, l’emancipazione dalle aspettative sociali e il riconoscimento della loro identità. Secondo Richard Jenkins, sociologo inglese, l’identità è “la capacità umana, radicata nel linguaggio, di sapere chi è chi. Ciò significa sapere chi siamo, sapere chi sono gli altri, sapere che essi sanno chi siamo noi, sapere che noi sappiamo cosa essi pensano che noi siamo e così via.” Da questa definizione possiamo considerare le identità come “identità sociali”, perché si formano nel rapporto con l’altro. Le identità sono costruite e non sono date: in parte individuali, in parte collettive, sempre embodied, materializzate, incarnate; Jenkins infatti sostiene che “le identità prive di corpo non hanno senso in termini umani”. La rivendicazione collettiva di un’identità individuale crea aggregazione ed essere riconosciute come parte del gruppo delle Traviesas diventa la master identity, ovvero la caratteristica che definisce maggiormente una persona. 65


Le identità marcano differenze, esattamente come i nostri nomi o somiglianze, come in questo caso, e possono essere motivo di orgoglio, solidarietà, vergogna o discriminazione. Il genere è un’identità primaria, perché si forma nei primi anni di vita ed è facilmente osservabile: da una donna ci aspettiamo che abbia degli atteggiamenti femminili così come dagli uomini ci si aspetta che si comportino in modo stereotipicamente maschile. Viene spontaneo pensare che questi atteggiamenti siano biologicamente determinati, che la forza, l’aggressività e la fermezza siano caratteristiche tipicamente maschili e che la grazia, la dolcezza e l’affabilità siano femminili. Secondo Judith Butler, filosofa statunitense, non esistono identità biologicamente determinate sottostanti alle espressioni culturali del genere, non esiste una base naturale o biologica del genere che influenza il comportamento delle persone: l’identità di genere è performativa, non è una questione di chi sei, ma di come ti comporti. Luigi Gariglio, professore di sociologia all’università di Torino, ci ha spiegato che la dimensione binaria maschio-femmina è una costruzione sociale, “si tratta di un binarismo culturale”- afferma- “ decidiamo di identificarci con dei pattern, dei modi di stare al mondo che possono essere orientati verso un’ideale femminilità o mascolinità”. La performance che un individuo sceglie non è determinata dai suoi organi genitali o dalle sue preferenze sessuali, ma è il contesto sociale e culturale che norma le pratiche ritenute legittime. Sebbene esistano dei tratti biologici che ci identificano in modi diversi, anche la natura, in realtà, si sottrae alla dimensione puramente binaria: gli ermafroditi sono sempre esistiti.

Il corpo come materia dimostra che sono possibili più combinazioni. “L’identità di genere, l’orientamento sessuale e il nostro corpo sono chiaramente collegati reciprocamente, ma non è una relazione statica, bensì fluida, mutevole, ibrida” conclude Gariglio.

La disforia, infatti, comprende una dimensione di desiderio di uscita dai limiti imposti dal binarismo, ma se il binarismo non è contemplato nella società in cui si vive, è impossibile che si verifichi disforia. L’identità si costruisce in relazione con la società e la cultura, di conseguenza, culture diverse produrranno etichette e identità differenti. Invece, spesso, l’identità viene ancora vista in un’ottica funzionalista: si costruisce attraverso le interazioni sociali, ma “è fissa, stabile e ce n’è una giusta, funzionale alla struttura sociale”. Tutto ciò che non è conforme agli standard è considerato deviante e si pensa che vada curato. È esattamente ciò che accade con la disforia di genere, si medicalizza l’alterità. Il professor Gariglio sostiene che “riflettiamo sulle esperienze altrui quelli che sono i canoni normativi valoriali occidentali. Diamo una dimensione di indirizzo morale alle scelte degli altri, se non sono congrue con le nostre, sono scelte patologiche. È importante imparare a riconoscere la legittima scelta altrui in una realtà culturale diversa, dove non possiamo usare i nostri metri di giudizio”. Esistono forme eterogenee di stare al mondo, sia che si appartenga alla stessa comunità sia che si viva in una cultura profondamente diversa. Se si vuole essere d’aiuto in qualche modo, sono necessarie un’empatia, una comprensione dell’altro, una sintonizzazione sulle nuove realtà molto maggiori, rispetto all’offerta di supporto, secondo le regole delle cultura occidentale. Come si verifica la naturalizzazione di alcuni specifici elementi all’interno di una stessa società, allo stesso modo anche la cultura viene naturalizzata, e ciò che è altro dalla civiltà europea viene spesso condannato o quantomeno è vittima di una univoca, e quindi limitante, narrazione, quella strettamente occidentale.

“L’identità si costruisce in relazione con la società e la cultura, di conseguenza culture diverse produrranno etichette e identità differenti.”

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Il genere è una convenzione umana costruita per avere un’organizzazione sociale che conti su alcuni ruoli e comportamenti specifici. Esso è organizzato in modo diverso in ogni società, come dimostra l’esistenza delle werapa, o l’esistenza, presso i nativi americani, della possibilità di avere due spiriti, non riconoscendosi nei ruoli di genere. In queste realtà non esiste la disforia di genere, perché queste organizzazioni sociali hanno previsto la possibilità di essere “altro” rispetto all’opzione standard uomo o donna.

Scomodo

Maggio 2020


Edgardo Lander, economista e sociologo venezuelano, afferma che ci troviamo di fronte a un discorso egemonico che legittima una forma storicamente determinata di civiltà. La solidità di tale discorso risiede nella naturalizzazione delle relazioni sociali asimmetriche prodotte dal colonialismo e nella costante riaffermazione della necessità delle ragioni storiche che hanno portato a quegli squilibri. Lo sforzo intellettuale e politico teso a sovvertire questa narrazione non può che essere pensato in termini di decolonizzazione. La definizione stessa di decoloniale, a livello politico e istituzionale, si distanzia da postcoloniale: non vuole essere un proseguimento di ciò che è stato il colonialismo, come indica il prefisso “post”. Bensì, col “de” privativo, cerca quasi di eliminare questo concetto, di trovare una propria identità, che si allontani il più possibile dalla cultura imposta dai colonizzatori. Anibàl Quijano, sociologo peruviano, sottolinea la facilità con cui i colonizzatori sono diventati il gruppo egemone che, in linea con la teoria di Lander, normalizza alcuni elementi – in questo caso culturali – e, per estensione, ne patologizza altri. Nelle Americhe, gran parte delle popolazioni indigene furono sterminate dai conquistadores. Questo permise ai colonizzatori di insediarsi nel territorio senza incontrare la resistenza dei nativi, come avvenne invece in altre parti del mondo. Il processo di incorporazione, dunque, si concretizzò non tanto nella ricostruzione e trasformazione delle istituzioni preesistenti quanto piuttosto nell’avvio ex nihilo di una massiccia opera di ingegneria sociale. Società e cultura che si sono poi evolute con gli anni, continuando a creare automaticamente un rapporto di subalternità con alcune realtà, ciò che Quijano chiama colonialismo interno, che è

ciò che possiamo dire si stia verificando per quanto concerne il caso de las Traviesas e dello Stato colombiano. Si può parlare quindi di eurocentrismo anche in Sud America: esso ormai è quasi un sentire, proprio della cultura egemone.

Questo tipo di narrazione è ancora oggi molto diffusa: BBC Mundo ha pubblicato a ottobre 2019 un breve documentario su las Traviesas, nel quale mai si accenna, nel parlare di loro, a questo nome. Il documentario presenta la situazione facendo intendere che il cuore del problema sia un loro quasi obbligato allontanamento dalla comunità in quanto trans-gender e per questo discriminate. Questo tipo di narrazione romanticizza la realtà indigena relegandola al mondo rurale, lontano dalla giurisprudenza, come fosse inferiore. Inoltre, è anche sintomo di superficialità, perché non coglie l’importanza della costruzione collettiva della propria identità. Si tratta di un’azione violenta che strappa a queste donne la possibilità di autodeterminarsi. Il nostro filtro eurocentrico non solo spoglia l’oggetto in questione di ogni dignità, ma limita anche i fruitori degli studi rispetto a un mondo molto più ampio, ricco e sfumato di quello che ci viene raccontato.

“Le ragazze di Santuario non sanno cosa significhi transgender, non è un termine - e dunque un concetto - che appartiene alla loro cultura e non hanno quindi alcun interesse nell'apprenderlo.”

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Maggio 2020

Si potrebbe quasi accennare, razializzando, a un biancocentrismo. L’eurocentrismo, parlando a livello globale, è sicuramente causa e conseguenza di una sola narrativa del mondo, un pregiudizio etnocentrico che vede il mondo diviso tra “popoli che hanno fatto la storia” e “popoli passivi, inutili”, basando molto spesso l’utilità sulle sole conoscenze tecnologiche di quella cultura, non curandosi di moltissimi altri aspetti, quello di organizzazione sociale, ad esempio.

di Gaia Del Bosco e Carlotta Vernocchi 67


È solo una storia estiva

----------------------------------------------------------Summertime, un romanzetto popolare tra Sapore di mare e Tre metri sopra il cielo C’è un vecchio aneddoto che racconta del sogno ricorrente di uno sceneggiatore il quale ogni notte trova nel sonno l’idea perfetta per un film. Ogni mattina, appena sveglio, cerca di ricostruire l’idea del sogno, che però, puntualmente, sfuma. Dopo giorni che si ripete la stessa cosa riesce finalmente ad appuntare uno schizzo dell’idea su un pezzo di carta: lui incontra lei. Questo è il grande archetipo fondante della maggior parte delle storie, sia lette, che viste, o ascoltate e il topos diventa chiaramente ancora più centrale se parliamo del romance. In questo caso, nella sua declinazione comedy, diventa la rom-com, uno di quei generi dalle regole chiare seguente quasi sempre lo stesso schema, nonostante i film che ne fanno parte siano spesso i più difficili da scrivere. Tuttavia se ne scrivono tanti, e pochi buoni. Questo genere affonda le radici nella commedia brillante della Hollywood classica, in particolare nella sua declinazione di screwball comedy, traducibile in italiano come “commedia svitata”, ma piu solitamente definita “commedia sofisticata”, ripresa dai fratelli Coen per il loro film del 2003 Intolerable Cruelty, tradotto seguendo la pessima abitudine di rovinare i titoli originali, Prima ti sposo poi ti rovino. Elevatore della romantic comedy in tempi moderni è stato Woody Allen, che a partire dal capolavoro Annie Hall, si è affacciato 68

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nell’arco del tempo al genere, traendone quasi sempre qualcosa di interessante, soprattutto nella costruzione di personaggi femminili tra i più belli di quest’ultimo mezzo secolo di cinema. In Italia il romanticismo sembra abitare più dalle le parti della musica nazional-popolare che al cinema, dove nel caso della commedia all’italiana prevaleva l’asprezza, mentre nei film con Nino D’Angelo scadeva nel melò più trash. La convivenza tra romanticismo e commedia non è un binomio così classico del nostro cinema e da ciò deriva l’affermazione del sentimentalismo più ridondante: un esempio su tutti, un romanzo, il primo, di Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo. Lo scrittore romano pagò di tasca sua la prima edizione del libro, nel ’92.

“La convivenza tra romanticismo e commedia non è un binomio così classico del nostro cinema e da ciò deriva l’affermazione del sentimentalismo più ridondante.” Scomodo

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“La regia celebra l’aria festosa del luogo in cui è ambientata la storia con riprese e skyline vertiginosi, svalutando invece il potenziale malinconico del luogo.” 70

Bisogna aspettare i primi anni ’00 per vedere il libro diventare un bestseller, che viene ripubblicato da Feltrinelli adattato dall’autore dalle atmosfere anni ’90 a quelle dei primi duemila. Il romanzo ha un tale successo da essere tradotto persino in Giappone. Soprattutto, lancia la moda dei lucchetti a Ponte Milvio, che da lì in poi si sparge in tutto il mondo. Moccia va a creare un simbolo, quello del lucchetto, che per le coppie diventa il suggello dell’amore. Il suo adattamento al cinema del 2004 diretto da Luca Lucini è invece il capostipite di una breve ma redditizia saga cinematografica, definita da Morandini del “moccia-muccinismo”. È anche il film che sancì l’affermazione di Scamarcio come vero primo divo degli anni 2000: “Piaccio, anche più di Scamarcio”, pensando alla rima di Gue Pequeno in Puro Bogotà dei Club Dogo di Vile Denaro. Nel 2020 Moccia è un ricordo sbiadito, e Scamarcio non è Carmelo Bene, ma è un buon attore. Tuttavia anche nel caso di Summertime, quarta serie italiana originale Netflix, prodotta da Cattleya, scritta a otto mani (!), e diretta da Lorenzo Sportiello e Francesco Lagi, la storia è quella di una lei che incontra un lui. Intorno troviamo un mosaico di personaggi, tutti sulla falsariga del moccia-muccinismo che appunto afflisse la nostra cinematografia ormai quasi un decennio fa, e a cui la serie si ispira esplicitamente. Summertime, fotografato con una patina estiva da farlo sembrare un lunghissimo spot di qualità dell’Algida, o di un Acquapark, è la storia di Summer, interpretata da un’esordiente e misurata Coco Rebecca Edogamhe,

che allarga le narici quando è arrabbiata, una liceale di Marina di Cesenatico, cittadina sulla riviera romagnola, che, nonostante il nome e il luogo in cui abita, odia l’estate. La odia, forse perché più profonda rispetto ai suoi coetanei annebbiati dalla salsedine e dalla figa, o forse soltanto perché in estate si ripropone il fantasma della separazione dei genitori. Decide di esorcizzare la noia estiva facendosi assumere in un hotel abbastanza lussuoso, dove la direttrice è, però, la madre di Ale (che, grazie a Dio, non si chiama Alex), un John Travolta malinconico, pilota motociclistico che, dopo un incidente, entra in una crisi esistenziale ed è incerto se rimettersi in sella, con un padre classicamente pressante e duro, un po’ come quello di Troy Bolton in High School Musical. I due inizialmente si scontrano: lui appare un po’ troppo spavaldo, bullo (per poi dimostrarsi un bonaccione della Garbatella) rispetto a lei che ostenta una certa lucidità e risolutezza, poco avvezza a festini in costume. Fatto sta che bisogna attendere un boato di tempo, farcito di banali fraintendimenti e ancora più deboli intrecci tra gli altri personaggi, per vedere sti due scopare, quando è palese che lo faranno fin dall’inizio. Ludovico Tersigni è probabilmente lo Scamarcio degli anni ’20 del 2000, data la mole di ragazza con cui va a letto nei film e nelle serie, ed è allo stesso tempo un attore dalla recitazione naturalistica che forse potrebbe fare di più. La regia celebra l’aria festosa del luogo in cui è ambientata la storia con riprese e skyline vertiginosi, quasi a dare a Marina di Cesenatico un’aura da California; Scomodo

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svalutando invece il potenziale malinconico del luogo, appena accennato nell’ultima puntata, in cui assistiamo ad uno dei pochi momenti in cui i dialoghi non sono stucchevoli o ridondanti, nel caso precipuo della scena in cui Thony (la madre di Summer) dialoga con il suo capo guardando la pioggia che si porta via l’estate, la mattina dopo ferragosto. In quella scena emerge la circolarità di un posto che vive solo da giugno ad agosto, in cui le villeggianti che si susseguono vengono sì purgate ma ti possono anche spezzare il cuore, come insegna il rustico padre di Edo, interpretato da Giuseppe Giacobazzi, redivivo dallo Zelig di Bisio, della Incontrada e di Zalone. “Abitiamo in un luogo di sfigati, dove vengono a fare le vacanze sfigati da tutto il mondo”: le parole del personaggio di Edo fortificano ancora di più l’idea che probabilmente l’unico punto di forza papabile di questo reboot mocciano risieda in quelle figure caratterizzate, classicamente all’italiana, in chiave strettamente regionale, e provinciale, in grado però di ricondurci (molto alla lontana) alla scena finale del terzo film di Federico Fellini, I vitelloni, ambientato in una riviera romagnola ritrovata dal regista riminese nel litorale romano. La scena in cui Franco Interlenghi decide di fuggire dalla noia di un luogo in cui la mediocrità è un po’ il destino di tutti. Nel caso di Summertime gli autoctoni si fanno travolgere sentimentalmente dai forestieri, per poi tornare alle loro vite piccole ed insignificanti, da cui, forse, vorrebbero fuggire. Con la leggerezza e l’aria di mare, gli otto autori (!!) e i due registi, Sportiello e Lagi ci regalano un romanzo popolare di infima categoria, Scomodo

Maggio 2020

dove la regia patinata vuole nascondere le grosse carenze di una sceneggiatura fiacca, in cui abbondano cliché narrativi, la prevedibilità fa da padrona e la gran parte delle scene sono un vagare senza meta. La serie rappresenta soprattutto un notevole passo indietro rispetto a teen drama come Skam Italia, dove la qualità degli attori è finalmente buona e la regia funzionale alla storia segue i personaggi con disinvoltura. Qua la prima è scarsa, ai minimi storici, e la seconda va in overload. Più che il riadattamento del romanzo di Moccia, Summertime sembra essere riconducibile al filone vacanziero estivo lanciato nel ’83 dai Vanzina con Sapore di mare, dove perlomeno, anche nella forma di commedia più bassa, potevi intravedere una vaga forma di satira di costume. Non che dalle parti di Summertime sia richiesta, ma i personaggi fin troppo macchiettistici (il motociclista tormentato, il romano bamboccione, la lesbica ribelle e la figlia matura perché la madre ha la sindrome di Peter Pan) fanno pensare che quelle otto mani, colpevoli della sceneggiatura, si siano sforzati ben poco per rendere questo Summertime perlomeno più godibile, più intrigante. Inoltre la combinazione tra dialoghi alla Disney Channel e le canne e il sesso non fa capire bene il target a cui la serie è rivolta. Ma comunque, in fondo, “è solo una storia estiva”.

“La serie rappresenta soprattutto un notevole passo indietro rispetto a teen drama come Skam Italia, dove la qualità degli attori è finalmente buona e la regia segue i personaggi con disinvoltura.”

di Cosimo Maj 71


Essere il cavallo nella scacchiera --------------------------------------------------------------------------------------------------------e altri insegnamenti di Germano Celant

Il 29 Aprile è scomparso Germano Celant, anche lui colpito da questo virus di cui non vogliamo nemmeno sentir più parlare. Le vaste conquiste da lui lasciateci, come quelle dei primi imperatori, i quali le hanno viste cadere, chi lentamente (vedi Augusto) chi velocemente (vedi Alessandro), sembrano destinate a essere prive di eredi. Nel caso di Celant, però, abbiamo il compito di valorizzare e preservare i doni della sua ricerca e dei suoi insegnamenti. Secondo Averroè, «È cosa nota che la fama di molti predecessori è spesso causa di errori in molti successori» e, dunque, più che continuare il suo percorso, dovremmo forse crearne uno nuovo, accompagnati da quegli splendidi punti interrogativi su cosa verrà e chi seguirà che contraddistinguono il futuro. La perdita di un protagonista, indagatore, innovatore e profondo conoscitore dell’arte contemporanea del XX e XXI secolo come Celant, può e deve, come in tutti i casi del genere, essere da noi ristretta solamente alla sua persona, rendendo invece immortali le sue lezioni e continuando, quando necessario, le sue lotte. Parlarne significa forse troppo spesso parlare d’Arte Povera, limitando ingiustamente il suo ineguagliabile lavoro. Non dobbiamo infatti dimenticare le diverse mostre e allestimenti per i più grandi musei del mondo, ma anche le riflessioni ed i saggi che, oltre a tentare di offrire una via di fuga dal mondo moderno, hanno costituito un fondamentale passaggio per l’insegnamento e le indagini del mondo artistico. Germano Celant non è stato e mai sarà riducibile alla sola Arte Povera, così come l’Arte Povera non è da ridurre al solo Celant. La sua personale concezione “inter-espositiva”, per cui ogni mostra rappre72

sentava un tassello di un più lungo percorso continuativo e la sua tipica volontà di armonizzare architettura e opere, ambiente e contenuto, erano sempre volte a rendere il visitatore parte di una riflessione e di un confronto ulteriore alla sola mostra. La sua visione, rimasta rivoluzionaria ora, ma ancor di più negli anni del Boom Economico, ci ha mostrato come l’univocità possa solo appartenere all’uomo e mai ai suoi prodotti, così da distaccare creatore e creazioni e attaccare la nemica coerenza che tutt’ora ci viene imposta dal mondo industriale. Amante dell’arte in tutte le sue infinite forme, ha poi lottato contro quella legge nata nel secondo Novecento e ancora viva oggi per cui, a suo vedere, l’opera in arte, così come l’idea e l’azione nella vita, debba essere sempre e comunque seguita e giustificata dal suo creatore. Egli, quindi, non potrà mai abbandonarla. La sua risposta fu dunque valorizzare tutto ciò che si rivela inaspettato ed imprevisto alle sistematiche convenzioni. L’uomo non doveva nel ‘67 e non deve nel 2020 accettare di diventare strumento, ma combattere per tornare ad essere «Fulcro e fuoco della ricerca». InAppuntiperunaguerriglia,l'ufficiale manifesto dell’Arte Povera scritto da Celant stesso nel 1967, possiamo analizzare parte della sua ampia visione. Essa ci appare universalmente vera e drammaticamente attuale: alla comoda assunzione del sistema, dobbiamo opporre la necessaria volontà di esprimerci liberamente. «Scegliere, mai lasciarsi scegliere». Simbolico inoltre fu il fortuito caso di avere in quegli anni di sommosse Torino, città dell’Industria e del prodotto, oltre alla sua Genova, come centro dell’Arte Povera. Essa, infatti, fu simbolo di reazione al moderno e al tecnologico, di lotta alla mercificazione del gesto artistico,

nonché di rievocazione del naturale e del preindustriale. Non identificatasi come una corrente, bensì come «un modo di comportarsi» per cui l’opera deve tornare ai dimenticati valori simbolici e l’artista stesso deve ritrovarsi, liberandosi dall’opprimente mercificare ed esaltando il proprio stile e le singolari differenze. Non solo nell’arte, ma anche nella vita quotidiana, possiamo esaltare questo messaggio, che risulta ancora più importante nell’era digitale della popolarità da cercare e mantenere a tutti i costi. Nel mondo, dunque, c’è stato, c’è e sempre ci sarà bisogno dei ribelli. Tuttavia per diventarlo non basterà dichiararsi tali, ma sarà necessario intraprendere un lungo e impegnativo percorso. Capiamo allora come esserlo voglia dire uscire dagli schemi, superare il sistema, eliminando il bisogno di giudicare, di interpretare e di ottenere consenso in ogni caso. Tutti i restanti tentativi ancora soggetti al convenzionale, infatti, sono da considerare come sole sperimentazioni. Rimane comunque essenziale «porre in crisi le affermazioni» su cui viviamo, «per ricordarci come ogni cosa rimanga precaria». Quindi, «basta infrangere il suo punto di rottura ed essa salterà». Appurati questi troppo spesso dimenticati concetti, egli si chiedeva poi: «Perché non proviamo col Mondo?» Che sia proprio questo imprevedibile momento storico la giusta opportunità da cui rinascere e il giusto momento per far saltare ciò che ci opprime? In attesa di scoprirlo, dobbiamo rimanere «il cavallo nella scacchiera, imprevedibili e guerriglieri.»

di Marco Ciabini Scomodo

Maggio 2020


Storia di un popolo e dell'uomo che gli insegnò a ricordare --------------------------------------------------------------------------------------------------------Luis Sepulveda e la forza militante della parola

Luis Sepulveda non è di quegli autori che si studiano sui libri di scuola e forse non lo sarà mai, eppure ci ha regalato molti insegnamenti. Quando si apre un libro di Sepulveda la prima cosa che si nota è che è un giornalista, lo testimonia la sua scrittura fluida che ha come unico obiettivo quello di inviare un messaggio. La seconda è che è un uomo che scrive solo di ciò che conosce, di ciò che ha vissuto in prima linea. La terza è che la sua vita deve essere stata terribile e meravigliosa, ma soprattutto ricca di cose da raccontare. Non è necessario parlare nel dettaglio di questa vita, ma sarà sufficiente un breve focus per comprendere l’eredità che ci ha lasciato. Abbiamo visto che era un giornalista, ma prima ancora che iniziasse a scrivere era un militante. Nacque in Cile e visse il golpe che portò Pinochet al potere, le sue idee decisamente scomode all’infame regime lo portarono prima al carcere, poi alla tortura e infine all’esilio. Da esule in cerca di patria si stabilì in Europa, che visitò e dove lavorò come giornalista. La libertà di parola di cui poteva godere nel vecchio continente divenne la sua arma contro la dittatura. Il Sepulveda scrittore infatti non si lasciò mai alle spalle il Sepulveda partigiano, ma anzi permise a tutti di conoscere ciò che in troppi ignoravano. L’intera poetica dello scrittore cileno può forse essere sintetizzata in poche righe: Scrivo perché ho memoria e la col-

tivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che, sconfitti in mille battaglie, continuano a preparare i prossimi combattimenti senza paura delle sconfitte. Sepulveda non ha mai voluto scrivere racconti di fantasia, persino le sue favole con gatti e gabbiani che parlano sono storie militanti. Sepulveda è riuscito in qualcosa

di raccontare la realtà non come un’unica verità generalizzata, ma piuttosto come un puzzle. Ogni pezzo è la memoria di uno solo, sta poi al lettore unire il tutto per trarne un quadro completo. Così facendo lo scrittore è riuscito a depurare ogni racconto da inutili nozionismi che avrebbero allontanato il lettore dall’immedesimazione totale nel personaggio narrante. Questa è senza dubbio una caratteristica fondamentale della poetica di Sepulveda, nonché un suo grande insegnamento. Attraverso una coinvolgente storia-letteratura, Sepulveda impedisce la comoda alienazione del lettore che è invece obbligato a immaginare e fare propri i ricordi di una nazione. È il caso di libri come Le rose di Atacama e Patagonia Express nei quali, attraverso le storie di più singoli, il lettore è obbligato a ricostruire la memoria storica di un popolo privato di ogni diritto civile, di ogni libertà, della verità. Il ricordare diventa da dovere morale a conseguenza inevitabile di un percorso che si intraprende con la lettura e che porta a concepire un concetto diverso di ricordo stesso. La memoria storica cessa di essere un cliché invocato dai più, ma mai davvero compreso, e diventa parte integrante del lettore, uno scomodo fardello di cui è impossibile liberarsi.

“Sepulveda è riuscito in qualcosa che in pochi prima di lui avevano ottenuto: fondere storia e letteratura in modo tale che non fosse mai troppo chiaro dove finisse una e iniziasse l’altra.”

Scomodo

Maggio 2020

che in pochi prima di lui avevano ottenuto: fondere storia e letteratura in modo tale che non fosse mai troppo chiaro dove finisse una e iniziasse l’altra. La storia raccontata per com’è, senza inutili giri di parole e la fantasia, che poi è quello che rende la storia letteratura, sempre subordinata a un progetto più grande: raccontare la tragedia di un popolo che poi è il suo popolo. La prima missione è stata quella

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OCEANO INDIANO il racconto a puntate di una nuova convivenza Nei piani originali si trattava di un nuovo modo di vivere l’esperienza teatrale. Il progetto Oceano Indiano è nato dal desiderio di portare l’attenzione sul legame che il teatro ha con la città, sulla funzione sociale che svolge. E noi di Scomodo siamo stati chiamati per raccontare questo progetto, la sua costruzione e la sua evoluzione. Cinque compagnie romane invitate a ripensare, reinventare la funzione degli spazi di Teatro India. Avrebbero dovuto abitare il teatro insieme: un luogo che tipicamente è vivo e abitato solo durante gli spettacoli. La convivenza sarebbe dovuta diventare un catalizzatore di nuove forme di teatralità, di creatività e una continua ricerca sull’essere umano, grazie a questo dialogo continuo. Poi sono subentrati il coronavirus, i decreti, l’isolamento e Oceano Indiano ha dovuto cambiare forma, per il tempo del lock down. Le compagnie si sono spostate nel mondo radiofonico, dando vita a Radio India. Con la radio, si mantiene e forse si amplifica il legame con il pubblico, perché entra nella quotidianità degli ascoltatori.

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Il progetto radiofonico non si chiude con la fine della quarantena, però. A giugno ricomincerà una programmazione articolata in modo diverso: si cercherà di registrare dal teatro, anche in un’ottica di rieducazione alla performance dal vivo. La novità più interessante è che le compagnie di Oceano Indiano delegheranno un po’ la programmazione, aprendosi ad altri artisti che porteranno i loro contenuti. È un modo di tornare a interagire con il mondo esterno, accogliendo più novità possibili. È un’apertura ideologica, in linea con il progetto teatrale originale, che prevedeva l’ospitalità di lavori esterni a Oceano Indiano. Anche il pubblico ha dimostrato il suo entusiasmo, con circa 20 mila download dei programmi e circa cinquemila ascoltatori live. Il forte legame, forse, si è sviluppato anche grazie a un tipo di comunicazione nuova, più organica, rispetto al semplice avviso di spettacolo. Le compagnie sono riuscite a guadagnarsi l’affetto dei propri ascoltatori, proponendo ogni volta contenuti differenti. Questo tipo di esperienza si discosta in parte da quella teatrale, dove il contenuto rimane sempre lo stesso per mesi. Nonostante la nuova declinazione radiofonica, però, la voglia di tornare a esibirsi, a una forma artistica dal vivo. Ormai sono mesi che seguiamo questo progetto, i suoi autori e autrici, la sua evoluzione. Quindi possiamo sentirci sicuri nell’atto dello sbilanciarci affermando che gli artisti di Oceano Indiano ci lasceranno ben più di una piacevole esperienza. Il successo della loro trasformazione sottolinea come la cultura non sia altro che un contenitore in costante evoluzione; anche se sempre più dispersa tra gli innumerevoli adeguamenti e restrizioni imposti dalla nostra società. Viviamo in un mondo veloce, un mondo dove una pandemia può minacciare la sopravvivenza stessa di un’arte antica come quella del Teatro. E, per qualche istante, giorno, mese possiamo anche illuderci che non sia più tempo di sperimentare su un palco; e, sicuramente, qualcuno avrà deciso di abbandonare la sua passione, spinto da un governo che dimentica i suoi artisti. Eppure la squadra di Radio India non hanno mollato. Sono riusciti a dimostrarci che basta riplasmare la “classica” scintilla creativa per riformarsi, reinventarsi, rinnovarsi e continuare a sperimentare. Perché si sta su quel fantomatico Palco ogniqualvolta uno spettatore decida d’impegnare il suo tempo per lasciarsi coinvolgere da qualcosa di diverso dall’ordinario. E lì, proprio in quel momento, il Palco viene calcato. Scomodo

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E se l’iniziativa è sostenuta dalla forza della propria passione… beh, in quel caso forse gli applausi non saranno in diretta (o in platea) ma ci saranno. La squadra di Radio India questo l’hanno capito e non hanno avuto paura di tornare a sperimentare, a rischiare. Radio India è stato un successo che non morirà con la fine del lockdown. Evolverà, migliorerà. Grazie al sostegno di quei 20.000 download che vi accennavamo e della sempre maggiore fetta di pubblico coinvolto nella ricerca del bello. Volevamo provare a riassumere la realtà che hanno costruito con parole nostre, ma abbiamo deciso di prendere in prestito un pensiero di Fabio Condemi, autore di Specie di spazi, che a sua volta si rifà a Georges Perec. Non perché nella storia è già stato detto tutto e quindi siamo costretti a copiare dai grandi, ma perché lasciarsi contaminare dal passato o dagli altri è la miglior strategia per costruire un futuro che riesca a ricordare il passato, contribuendo ad evolvere una cultura sempre più guerrigliera, completa e innovativa. Radio India per me è uno spazio immateriale che si modifica, si svuota e si riempie senza sosta. Ho capito, grazie allo scrittore che ho scelto come compagno di viaggio per la mia trasmissione (Georges Perec), che:''Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi. E che quello che rimane è ''Cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno.'' Sentiamo non ci sia niente da aggiungere. Per il resto potete star certi che quando I teatri riapriranno, il 15, saremo in prima fila. A restituire tutti quegli applausi che non abbiamo potuto fargli dal vivo. di Carlotta Vernocchi e Alessio Zaccardini

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Nel percorso, poi, l’uomo contemporaneo, che comodamente si proclama postmoderno, che si sente superiore ed escluso dalla memoria storica, dovrà rivedere tutti i saldi valori su cui si basano le sue convinzioni e non lo farà per scelta, ma perché costretto dalla lettura stessa. Vi è poi un’ultima caratteristica che rende gli scritti di Sepulveda unici. Lo scrittore si pone sempre come obiettivo quello di obbligare il lettore ad immergersi in racconti al limite dell'onirico, come se fossero racchiusi in un’atmosfera fiabesca. Gli orrori della dittatura vengono narrati tramite storie spesso innocenti, così lontane dal terribile mondo dei desaparecidos denunciato dallo scrittore, da sembrarne quasi estranee. Così facendo il racconto diviene a tal punto chiaro da non poter essere ignorato e il messaggio dello scrittore arriva a tutti, anche a coloro che vorrebbero non intenderlo. Sepulveda è morto, se l’è portato via il COVID-19 il 16 aprile, il giornalista militante sopravvissuto a Pinochet si è spento in un letto di ospedale europeo. Però, abusando di un piccolo cliché, Sepulveda è una di quelle persone che non morirà mai, i suoi libri hanno superato ogni confine geografico, i suoi insegnamenti ogni età. E così come lui rendeva immortale con le sue parole un popolo, noi rendiamo immortale lui attraverso il ricordo e facendo in modo che i suoi scritti ci accompagnino come il pane e il vino.

di Anna Cassanelli 76

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LA GUERRA DELLE DUE ITALIE / BUROCRAZIA: UN RAPPORTO COMPLICATO / LE DIFESE IMMUNITARIE DELLA FEDE Scomodo

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LA GUERRA DELLE DUE ITALIE

COME IL COVID-19 HA RIACCESO LA MAI SOPITA “QUESTIONE MERIDIONALE”

La gestione dell’emergenza COVID-19 da parte del Governo italiano ha riacceso la contesa fra le due parti che compongono il nostro Paese: Nord e Sud. Il culmine della tensione è stato raggiunto con l’entrata in vigore del DPCM del 26 Aprile 2020, con la decisione da parte dell’esecutivo Conte di non procedere con una riapertura differenziata in base allo stato di salute delle regioni, sfavorendo così in modo netto le attività produttive del Meridione, che ancora una volta non hanno sentito rappresentati i propri interessi da parte del governo centrale. Questa crisi di rappresentanza ha radici profonde nella storia politica di questo Paese, ma il COVID-19 l’ha resa ancora più evidente: quello che appariva come un problema ormai superato ha trovato nuova forza e si pone nuovamente al centro del dibattito politico nazionale. Prima di poter analizzare le implicazioni politico-economiche attuali, bisogna per forza di cose partire dalla nostra recente storia politica, per capire al meglio dove abbia origine questa crisi di rappresentanza del Sud Italia

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TANGENTOPOLI E LA MORTE DI UNA CLASSE POLITICA DIRIGENTE MERIDIONALE La crisi di rappresentanza politica delle regioni meridionali trova la propria origine nel terremoto politico rappresentato da Tangentopoli, lo scandalo che ha segnato (direttamente ed indirettamente) la fine dei due partiti più rappresentativi della prima lunga era della storia repubblicana italiana: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Queste due formazioni politiche avevano al loro interno non solo una grande presenza di influenti esponenti che venivano dalle regioni del Sud Italia, ma per lungo tempo sono stati guidati direttamente da politici provenienti dal Meridione: gli esempi più celebri sono ovviamente Enrico Berlinguer per il PCI e Aldo Moro e Ciriaco de Mita per la DC, con il secondo denominato “il padrino” e capace di essere allo stesso tempo sia segretario del partito che Presidente del Consiglio. Lo stesso De Mita fu uno dei pochi membri della DC a cercare di porre fine al regno quasi incontrastato della corrente andreottiana, sfruttando una grande cerchia di esponenti provenienti come lui dall’avellinese e definiti da Marco Pannella come “il Clan”, come riportato da Filippo Ceccarelli all’interno del suo libro “Invano”. Con la deflagrazione di questi due partiti, non solo sono sempre venute meno figure di spicco all’interno delle nuove conformazioni politiche che provenissero dal Sud, ma si sono anche imposti sulla scena politica e soprattutto al governo del Paese dei partiti di chiara trazione settentrionalista, che facevano dell’aperta contestazione nei confronti del degrado economico del Sud e della volontà di staccarsi per evitare che le proprie tasse finissero nelle mani dei meridionali, il loro cavallo di battaglia principale. L’esempio cardine è la Lega Nord che, per quanto oggi vada sempre più aprendosi nei confronti del bacino elettorale del Sud, ai tempi aveva fatto della secessione la sua battaglia politica principale. Dal 1994, ogni legislatura ha di fatto aumentato la sensazione da parte degli abitanti del Mezzogiorno di non essere rappresentati dai partiti principali: sensazione divenuta realtà a partire dal Governo Berlusconi III, che nel 2005 ha creato il Ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, con il chiaro intento di trattare le questioni inerenti alle regionali meridionali come qualcosa di distaccato rispetto al resto del corpus politico italiano. Questa crisi di rappresentanza ha causato, negli abitanti del Meridione, una forte avversione verso i partiti cardine della Seconda Repubblica e una forte attenzione verso le nuove proposte politiche del Parlamento, come il Movimento 5 Stelle, che ha costruito la propria vittoria elettorale nel 2018 proprio grazie al successo al Sud. Questa situazione è stata la cifra politica del Meridione fino a ad oggi, con nessuna forza politica che ha cercato di farsi realmente carico degli specifici interessi e problematiche del Sud e con gli stessi esponenti politici locali che hanno preferito dare vita ad una politica di stampo personalistico, piuttosto che agire in blocco, come era successo nel caso del “Clan” degli avellinesi della DC, per cercare di imporre la propria linea all’interno del proprio partito (battaglia oltremodo impossibile all’interno dei partiti la cui classe dirigente risulta totalmente a trazione settentrionale, come Forza Italia e Lega). Questo lungo ventennio di silenzio politico degli interessi del Sud rischia ora di scoppiare, lasciando all’attuale Governo Conte II il difficile compito di doversi confrontare con la nuova esplosione della “Questione Meridionale”.

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UNA NUOVA SPERANZA O SEMPLICI CALCOLI? Attualmente, non si può sostenere che in Italia comandino i terroni (come sostenne Libero in un articolo dello scorso gennaio): infatti per quanto le più rilevanti cariche dello Stato siano affidate ad una maggioranza meridionale, i reali poli del potere, quindi la direzione dei vari partiti, per il potere parlamentare, e il controllo delle aziende più rilevanti a livello strategico, per l’economia nazionale, rimane in mano ai settentrionali. Il Movimento 5 Stelle si contrappose alla tendenza di una direzione di partito settentrionalista (prima Di Maio e Di Battista, da Avellino e Roma, poi Crimi, da Palermo) e, fino alla prima crisi di governo del Conte I, si è creduto che il Movimento 5 Stelle potesse finalmente riportare il potere del Meridione in mano ai meridionali. Tuttavia con il risultato delle ultime amministrative e regionali, dove la Lega e le coalizioni di destra hanno vinto nella maggior parte dei seggi. Ad oggi le coalizioni di destra controllano tutte le regioni del Sud ad eccezione di Campania e Puglia, regioni dove le elezioni, previste per il prossimo autunno, non si sono ancora svolte. In questa crisi pandemiologica si è palesata la situazione di assoluta mancanza di autonomia regionale rispetto al governo centrale, che a sua volta non tiene conto delle necessità delle regioni allo stesso modo: il Governo infatti ha prolungato e mantenuto il lockdown anche nelle regioni meridionali, le quali presentano tuttora un numero di contagiati e di decessi da COVID-19 generalmente basso, soprattutto rispetto alle regioni centro-settentrionali. I vari governatori regionali del Mezzogiorno si sono dichiarati talvolta addirittura stupefatti dall’intenzione del governo trattare nello stesso modo situazioni completamente differenti. Il Nord, polo produttivo e finanziario del paese, congelato in una situazione di insicurezza sociale ed economica, insieme agli investitori, connazionali e stranieri, non sarebbe mai riuscito a sopportare, oltre alla chiusura delle attività produttive, anche una concorrenza, più o meno sleale, proprio sul territorio nazionale, da parte delle aziende industriali e manifatturiere meridionali. Per questo motivo, secondo rumors di governo, sembrerebbe che sia gli industriali che gli amministratori regionali abbiano fatto non poche pressioni all’esecutivo affinché si prevenisse quella particolare concorrenza, applicando uguali misure di prevenzione. Il potere esercitato dal Centro-Nord ha quindi avuto un effetto completamente diverso da quello che i governi regionali del Sud a loro volta hanno provato ad esercitare. Un esempio calzante è il caso Jole Santelli, governatrice della Calabria, che, senza approfondire la legittimità delle sue azioni, ha provato ad opporsi alle decisioni prese dal governo centrale, prima con dichiarazioni che trasmettessero il suo dissenso e poi con un decreto, tempestivamente bloccato dal TAR. Un tentativo di opporsi lo ha pure fatto Vincenzo De Luca, governatore campano, che ha dichiarato di non aver sottoscritto l’intesa stato-regioni per la gestione della crisi sanitaria, nonostante le precedenti richieste di De Luca fossero state completamente ignorate. Queste opposizioni al governo centrale potrebbero però non essere frutto della volontà dei governatori meridionali di portare dinanzi allo sguardo cieco del Governo gli interessi delle proprie regioni, ma potrebbero essere figlie di precisi calcoli politici.

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Prendiamo il caso del Governatore De Luca: nel 2020, la Campania sarà una delle regioni che andrà al voto per rinnovare il proprio Consiglio Regionale e, prima dell’emergenza sanitaria, la riconferma dell’attuale governatore appariva sempre più improbabile. Con lo scoppio della pandemia, la linea dura adottata da de Luca, condita dalla sue conferenze stampa divenute immediatamente virali, ha permesso al governatore di ottenere ben l’89% dei consensi per il suo operato nella gestione del COVID-19 (secondo il sondaggio redatto dall’Università di Siena e l’Istituto Affari Internazionali), secondo solo al governatore Luca Zaia, che è riuscito nella difficile impresa di contenere l’epidemia in Veneto scongiurando l’esito di una “seconda Lombardia”. Il leader politico campano sta ora cercando di capitalizzare su questa ondata di consensi positivi, spingendo molto con il governo centrale per far tenere il prima possibile le elezioni regionali nella sua Campania. Se quella di de Luca potrebbe essere una strategia dettata da calcoli elettorali, lo stesso non si può dire per quanto concerne il caso della Santelli e della Calabria. La neo eletta Governatrice, rappresentante della lista di centrodestra, potrebbe agire non per volontà propria, ma seguendo le indicazioni del suo schieramento politico, sempre pronto allo scontro politico con il Governo Conte, anche durante questa situazione emergenziale, e che potrebbe aver visto nello scontro fra le proprie regioni e l’amministrazione centrale, rappresentata dal Ministro per gli Affari regionali Boccia, un’arma vincente per consolidare la propria posizione e cercare di abbassare la fiducia nel Governo. Che si tratti di meri calcoli utilitaristici o meno, è innegabile che la mancanza di un reale peso politico degli interessi specifici del Sud sta impedendo un pieno sviluppo economico delle regioni meridionali, che, unito alla crisi generalizzata causata dal COVID-19, rischia di aggravare ancor di più la disparità economica sussistente fra il Nord e il Sud del Paese.

TUTTO CHIUSO, TUTTO FERMO Esattamente un anno fa, nel maggio 2019, sul numero 22 di Scomodo si parlava di un tema che all’epoca infiammava il dibattito pubblico: il regionalismo differenziato. Questa parentesi autoreferenziale serve solo a dare un’idea di quanto il discorso del diverso peso economico di Nord e Sud, e delle conseguenti pretese sul piano politico, venga da lontano. Ma l’arrivo del coronavirus ha sparigliato le carte in tavola, creando una situazione in cui non esistono “ricchi” o “poveri”, ma interessi più specifici. In principio fu il lockdown e, di conseguenza, la chiusura di tutte le attività non essenziali. Una restrizione che però, paradossalmente, rischia di colpire maggiormente l’economia del meridione meno colpito dal virus rispetto a quella del settentrione, almeno in proporzione. Secondo l’ultimo rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) del 2019, la produttività industriale del sud vale il 71,8% di quella del nord, e l’occupazione industriale nell’ultimo anno ha fatto segnare un +1,8% nel centro-nord opposto a un -0,2% al sud. L’unico settore che riesce a tenere botta con il nord è quello dei servizi, ovvero il terziario: in questo settore la produttività del nord vale l’82,5% di quella del nord, e nell’ultimo anno le due aree d’Italia hanno fatto registrare tendenze pressoché identiche per quanto concerne l’occupazione (+0,5 al sud, +0,7 al nord).

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Nella fase di lockdown l’industria ha ovviamente subito il colpo più duro: l’ISTAT ha calcolato che due imprese su tre, pari al 46,8% del fatturato del settore, siano state costrette alla chiusura. Nel terziario invece il 43,8% delle aziende, corrispondenti al 37,2% del fatturato, è stato fermato dalla pandemia. Ma mentre per la produzione industriale è più probabile un rimbalzo più rapido, con la ripresa pressoché totale delle attività, i settori che fanno da traino per l’economia del Sud, come il turismo e la ristorazione, subiranno effetti negativi destinati a durare molto più a lungo. Oltretutto, questa crisi si inserisce in un momento già di per sé non semplice per il Mezzogiorno. Svimez prospetta un crollo del PIL pari a -7,9% per il sud Italia, rispetto al -8,5% del nord; ma il Sud sconta ancora in maniera molto più tragica gli effetti della crisi del 2008, con un PIL che è ancora inferiore di 15 punti rispetto ai livelli del 2007 (per il nord è -7%). Di tutto ciò va tenuto conto nel valutare le operazioni di graduale uscita dal lockdown. Nord e Sud si trovano ad affrontare situazioni totalmente diverse dal punto di vista sia sanitario sia economico. Le regioni del nord, colpite in maniera dura dal contagio, ma non abbastanza da pensare ad un effetto “immunità di gregge”, hanno bisogno di liquidità perché le imprese possano restare aperte e riprendere il proprio ruolo nella catena produttiva. Inoltre hanno bisogno di tutele sanitarie per i lavoratori, per evitare una recrudescenza del virus. Il Sud invece, che a dispetto dei timori di tanti analisti e di alcuni governatori ha tenuto molto bene alla prova del contagio, ha bisogno di vedere allentati alcuni provvedimenti antivirus, che risultano eccessivi se messi a confronto con l’effettiva forza della pandemia nell’area. L’EIEF (Einaudi Institute for Economics and Finance) elabora ogni giorno una proiezione sulla data in cui le diverse regioni raggiungeranno il traguardo “contagi zero”: al 12 maggio, Basilicata, Calabria e Sardegna sono prospettate a zero contagi già prima del 20 maggio, mentre per la Lombardia la data indicata nella migliore delle ipotesi è quella del 6 luglio: una differenza troppo evidente per poter essere ignorata. I soldi di cui invece avrebbe davvero bisogno il sud, oltre a dei sostegni una tantum per le imprese più colpite dal lockdown, sono quelli degli investimenti strutturali. E ancora il rapporto “Svimez 2019”, citato precedentemente, evidenzia come negli ultimi dieci anni sia crollata la quota di investimenti pubblici al Sud, in maniera ancora più palese rispetto al resto d’Italia. La spesa in conto capitale è passata dai 20,1 miliardi del 2007 ai 10,3 del 2018; nel 2007 la quota investita nel mezzogiorno era corrispondente al 33,8% della spesa totale italiana, mentre nel 2018 questa percentuale è scesa al 29,8%. Ma il problema non è solo la volontà politica del governo centrale, ma anche la capacità di applicazione da parte dei governi locali a causa della burocrazia. Dei 20 milioni di fondi europei strutturali 2014-2020, in dotazione alle regioni del Sud, la spesa certificata è stata solo di 3,5 milioni: il 17,5% del totale. La via d’uscita dalla crisi attuale, insomma, è la stessa che il Mezzogiorno aspetta da decenni ormai: infrastrutture, trasporti, investimenti che lo aprano e lo colleghino al resto d’Italia e d’Europa. Mai come prima, il Sud ha bisogno semplicemente di normalità. di Luca Bagnariol, Luis Lombardozzi e Simone Martuscelli

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BUROCRAZIA: UN RAPPORTO COMPLICATO

GUIDA PER POTER CAPIRE AL MEGLIO LA MACCHINA BUROCRATICA ITALIANA Il 23 Maggio, Giuseppe Conte in un'intervista a Milano Finanza ha espresso la volontà del governo di procedere con un grande piano di semplificazione della macchina burocratica statale, presentando questo piano come “la madre di tutte le riforme”.L'emergenza COVID di questi mesi ha nuovamente acceso il dibattito in Italia sulla necessità di riformare un sistema burocratico considerato all’unanimità lento e inaffidabile: un banco di prova importante per il Governo, che solo tramite una semplificazione dell’apparato potrà facilitare il processo di ripresa economica del Paese.

LA BUROCRAZIA È UN MODELLO CHE APPARTIENE AL PASSATO Già fin dalla creazione del termine, avvenuta per volontà dell’economista francese de Gournay , la parola “burocrazia” ha avuto sempre un senso dispregiativo: il “potere degli uffici”,che riguarda concretamente con l'organizzazione dello stato e dovrebbe avere in se, come anche scritto da M.Weber, le caratteristiche di una divisione del lavoro e dei compiti che sia il più possibile scaglionata per fasi e per competenze. Sostanzialmente il concetto vitale è che ognuno amministri il suo compito con professionalità ed imparzialità, secondo incarichi assegnati gerarchicamente e tramite una selezione del personale che sia il più possibile basata sulle competenze per garantire efficienza, trasparenza e legalità delle forme. Questo modello organizzativo tuttavia si presenta oggi nel nostro paese, ma anche in molti altri paesi Europei, piuttosto carente se pensiamo alla qualità del tipo di servizio che offre. Il grado di efficienza che questo modello rappresenta risulta ulteriormente degradante se rapportato alle spese in termini di freno imposto al progresso sociale ed in termini di concreta tutela dei diritti del singolo cittadino.

COME UN'OMBRA CHE CI SEGUE TUTTI I GIORNI L'ufficio studi della CGIA di Mestre, associazione di artigiani e di piccole imprese, pubblica il 18 Aprile 2020 un lavoro sull'impatto in termini di spesa che la burocrazia ha sulle imprese italiane, che secondo la ricerca ammonterebbe a circa 57 miliardi annui su tutto il territorio nazionale, di cui ben 32 miliardi spesi dalla piccola e media imprenditoria italiana, che rappresenta il cardine economico del nostro Paese. In ordine Milano, Roma e Torino sono le città che più ne risentono: le vetrine che l’Italia usa per mostrarsi al mondo sono quelle maggiormente soffocate dal peso della macchina burocratica. Come avviene in concreto questo? L'Italia ha, rispetto agli altri stati europei, una quantità di materiale normativo che fa rabbrividire: il “The European House – Ambrosetti” stima una normativa che conta le 160 mila norme contro le 7 mila e le 5 mila e cinquecento di Francia e Germania. Il sovrapporsi di legislazioni di vario livello su medesimi temi fa si che ogni attività che opera nei limiti della legalità si trovi a fronteggiare problemi prima di tutto di comprensione e, in seconda battuta, attuativi non indifferenti.

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Si pensi soltanto che in questi mesi, sempre secondo quanto riportato dalla CGIA di Mestre, consulenti del lavoro, commercialisti ed associazioni di categoria sono stati letteralmente sommersi dalle telefonate degli imprenditori, incapaci di slittare le tasse (causa Covid) e di ricorrere alla CIG (vecchia cassa integrazione). Una tale confusione ed una così eccessiva procedimentalizzazione e ripetizione di passaggi, anche solo considerando il fattore economico “tempo” per l'adempimento, incide sia sull'operatività dell'apparato produttivo che sulle stesse vite dei cittadini,costretti a battersi fra uffici dalle non meglio specificate competenze e costanti scarichi di responsabilità fra le varie componenti dell’amministrazione pubblica. Questo labirinto normativo viene reso ancora più complesso da una divisione delle materie concorrenti tra stato e regioni (art.117 Cost.) mai ben delineata, con problemi di sovrapposizione legislativa che mettono in confusione sia gli operatori pubblici che quelli privati. In tutto ciò, non va sottovalutato neanche il largo e scriteriato uso che in questi anni si sta facendo dei decreti-legge, che attuabili (secondo Costituzione) in via di straordinaria urgenza e necessità, hanno fisiologicamente bisogno di esser seguiti da ulteriori decreti attuativi, concorrendo così ad un sistema legislativo tutt'altro che snello e flessibile e senz'altro non rispondente ad un'economia (oltre che ad una società) estremamente globalizzata. L'artificiosità con la quale un'azienda ha la possibilità di entrare nel mercato italiano e sostenere la sua attività in modo legale poi, produce influenze anche e soprattutto verso gli investitori esteri, che di fronte ad adempimenti ripetitivi e troppo onerosi (138 mld all'anno tra tasse e burocrazia) si trovano a dover scartare l'opzione italiana.Questo aspetto è testimoniato dall'ultimo rapporto Doing Business 2020 (organizzazione di rilievo internazionale che compie annualmente comparazioni tra 190 economie nel mondo), che pone l'Italia al 58esimo posto nella classifica degli stati nei quali risulta più facile creare “business”, posizionato appena sotto Kosovo Kenya e Romania. Nello stesso rapporto, all'Italia viene dedicato il 98esimo posto per facilità di iniziare un'attività di impresa (considerati tempi, costi e numero di procedure necessarie, queste ultime pari a 7 circa) ed il 128esimo posto per l'efficienza del sistema fiscale, con 238 ore annue impiegate mediamente per adempiere.

UFFICI, FLIPPER ARRUGGINITI. Ad un sistema legislativo pieno di incrostazioni vecchie e nuove, si aggiunge un sistema di gestione del personale che potrebbe quantomeno essere rivisto, con l'attività del burocrate che nonostante la sua ormai reputazione negativa, potrebbe potenzialmente giocare un ruolo fondamentale nelle sorti della nazione. Il burocrate è il dipendente statale che opera nel variegato settore dell'amministrazione pubblica, colui che si occupa di amministrare affari di interesse generale, che vanno dalla semplicissima richiesta per la carta d'identità alla resa esecutiva delle norme di legge nei singoli ministeri. Molteplici sono quindi formalmente i gradi di responsabilità dell'autorità pubblica, che deve costituzionalmente garantire il suo buon andamento ed il principio di legalità, che se infranto può voler dire un risarcimento dovuto di diritto al singolo cittadino. Le responsabilità si fanno nello Stato di Diritto giustamente pressanti nei confronti di un'amministrazione pubblica che nel concreto operare, si ritrova impelagato al pari del cittadino negli infiniti Enti e procedimenti. Tutto questo non fa altro che incentivare quella propensione alla deresponsabilizzazione del singolo impiegato che piuttosto che correre il rischio di una scorrettezza amministrativa si ritrova a rimandare o delegare le pratiche ad altri, rendendo i procedimenti, già di per sé lunghi, ancora più sfinenti. Anche il livello di digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni, seppur migliorato notevolmente, non risponde ancora al processo potenziale che una riconversione telematica di determinati procedimenti potrebbe causare, complici una generale arretratezza dei mezzi tecnologici a disposizione degli uffici pubblici oltre che di un personale statale fin troppo anziano, che crediamo costituisca un ulteriore freno all'apertura dell'innovazione. Secondo ultimi dati elaborati dall'ARAN, agenzia statale che si occupa del pubblico impiego, l'età media dei dipendenti che compongono l'apparato pubblico avrebbe superato i 50 anni di età (50,4). Questo dato dimostra come alla problematica di un sistema arretrato concorrano anche fattori più ampi, come assunzioni e pensionamenti, entrambi aventi a che fare con il ricambio generazionale, questione pressante per rilanciare un processo che sia realmente evolutivo nell'amministrazione.

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LA “CASTA” DEGLI UFFICI Ma la burocrazia che forse maggiormente blocca arbitrariamente la possibilità di cambiamento di un paese è quella ministeriale,composta da tecnici che sopravvivono ai costanti cambi di governo e ed esperti di tutti i regolamenti e norme necessari per smuovere la macchina statale. Esemplare ed emblematico è l'esempio che Francesco Giavazzi, economista e professore ordinario di economia politica alla Bocconi di Milano, racconta nel suo libro “I signori del tempo perso”, dove narra di essersi trovato in prima persona ad essere commissionato dal governo Monti, insieme ad altri due professori, per operare su centri evidentemente colmi di interessi confliggenti con la pubblica amministrazione. L'incarico riguardava il taglio dei sussidi pubblici alle imprese. In quell'occasione venne elaborato dai professori sostanzialmente un piano per tagliare, da 30 miliardi di sussidi che erano destinati ad imprese pubbliche e private, 10 miliardi di euro, interamente destinati alle sole imprese private. Giavazzi racconta come con quella manovra si sarebbe potuto diminuire il carico fiscale per tutte le imprese, e di come, con Confindustria favorevole, non si fossero presentati limiti neppure da parte di chi quei sussidi li avrebbe persi. Eppure, in quel caso furono proprio i burocrati, secondo quanto riportato dallo stesso coautore del libro, a frenare la manovra, essendo loro stessi i gli i incaricati di amministrare e gestire quei sussidi: erano stati costituiti per l'occasione dei tavoli di lavoro composti dagli alti dirigenti dei ministeri coinvolti e dalla ragioneria di Stato, per portare alla chiusura di metà degli uffici del Ministero dello Sviluppo Economico. Dopo una serie di riunioni inconcludenti dovute a forti opposizioni interne si arrivò alla chiusura del progetto stesso: quella volta, il paletto non venne da chi quei soldi li riceveva ma da chi li amministrava. Nel contesto sopra descritto, i problemi relativi al potere dei burocrati risultano piuttosto mal inquadrati se anche nel primo governo Conte, come anche nei precedenti e nei successivi, ci si è fatti portatori di rivoluzioni “concrete” e vicine al cittadino facendo riferimento in modo contraddittorio alla norma astratta, senza passare mai per una riforma sulla pubblica amministrazione che portasse reali soluzioni ad un problema che è ormai evidente e condiviso: le leggi sono buone e le idee pure, manca il passo finale, quello esecutivo, quello sostanziale.

GESTIRE LA PA È COME GESTIRE UN'AZIENDA. Più di recente si è sviluppato e si continua a sviluppare un discorso che riguarda nuove possibilità di gestione della pubblica amministrazione, le quali consistono nella miscelazione e nell'applicazione al settore pubblico di principi organizzativi tendenzialmente affidati al ramo privatistico d'impresa. Non si sta facendo ovviamente quì riferimento a qualche specie di privatizzazione del pubblico, ma ad un concetto che ha a che fare con l'efficacia che la scienza dell'organizzazione stessa ha sviluppato in questi decenni nell'ambito dell'impresa. Hanno caratterizzato e stanno caratterizzando questo settore evoluzioni sempre più tendenti a modelli partecipativi, che coinvolgano l'azione dei singoli individui in tutte le fasi di produzione, incentivando il più possibile la responsabilizzazione dell'operatore al perseguimento dei fini societari. Il dibattito sulla burocrazia passa ora nelle mani del Parlamento italiano, con tutte le forze politiche che dovranno impegnarsi per cercare di semplificare un apparato amministrativo che rischia di schiacciare sotto il proprio peso la speranza delle aziende italiane di poter ripartire dopo questa tremenda crisi. . di Andrea Calà

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LE DIFESE IMMUNITARIE DELLA FEDE COME LE RELIGIONI AFFRONTANO IL CORONAVIRUS L’82% della popolazione italiana dichiara di essere credente: questo è quello che risulta dall’indagine Doxa effettuata per l’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) fra gennaio e marzo del 2019; all’interno di questo gruppo, i cattolici occupano il 66,7% dei casi e le altre confessioni il 15,3%, mentre il restante è coperto da atei ed agnostici. Questi dati ci mostrano come le religioni e tutte le dimensioni ad esse collegate abbiano un ruolo sicuramente importante nel nostro paese, ruolo che vale la pena di osservare anche in questo periodo eccezionale che stiamo vivendo. La religione, per chi la professa, sembra essere più necessaria che mai attualmente come sostegno per affrontare la pandemia e tutte le sue implicazioni spirituali, ma in questa particolare circostanza si trova messa anch’essa in discussione e in difficoltà perché privata di una delle sue dimensioni più forti: quella comunitaria. I lockdown, le restrizioni e il distanziamento sociale hanno portato alla separazione fisica di diverse comunità che, pur non riducendosi a semplici manifestazioni collettive, devono ad esse una fetta importante della loro forza. Inoltre, eventi di questa portata inducono spesso le persone a porsi grandi domande dalle difficili risposte e molti di questi “perché” restano spesso irrisolti; dipende allora da come ognuno risponde a modo proprio a questi quesiti che la fede risulta rafforzata o indebolita. Se le diverse collettività di fedeli saranno in grado di sopravvivere intatte o, come probabilmente ogni altro aspetto delle nostre vite, non torneranno ad essere esattamente come erano prima e se questo cambiamento si rivelerà positivo o negativo non possiamo ancora saperlo. Si può tuttavia iniziare a considerare come in questi mesi le diverse religioni (monoteiste) abbiano reagito alla situazione corrente, per poterne immaginare le conseguenze.

LA RISPOSTA CRISTIANA: LIBERTÀ RUBATA O RINNOVATA, FRA DILIGENZA E RIBELLIONE La comunità che in Italia è più ampia e radicata e che, di conseguenza, ha fatto sentire maggiormente la sua voce è quella cristiana (in prevalenza, cattolica): Papa Francesco si è posto come leader di riferimento forte e la Chiesa ha saputo offrire delle risposte e delle strategie chiare. Eppure, quella del Papa non è stata l’unica risposta, ma si sono alzate quanto parecchie voci discordanti. La chiusura delle chiese e la conseguente sospensione delle celebrazioni hanno fatto parecchio discutere sul tema della libertà di culto.

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Il gruppo telematico sui diritti umani della KEK, ovvero la Conferenza delle Chiese europee (associazione ecumenica fra le chiese cristiane europee), ha pubblicato un documento articolato in quattordici punti che tratta proprio della libertà di culto durante la lotta contro il coronavirus; questo trattato spiega in modo chiaro e puntuale perché le misure adottate dai paesi soggetti a lockdown siano non solo legittime ma anche necessarie, anche secondo la religione. In esso si considera l’eccezionalità della situazione nella storia della Cristianità e come di conseguenza vadano prese misure altrettanto eccezionali; si ribadisce la priorità di difendere la vita prima di ogni cosa e ad ogni costo, proteggendo soprattutto i soggetti più a rischio. Il diritto alla libertà di culto, fondamentale nelle democrazie, stabilisce che ogni persona sia libera di esercitare la propria fede da soli o in comunità, in pubblico o in privato. Ma la Convenzione Europea per i diritti umani specifica che la salute pubblica è una ragione valida e legittima per limitare la libertà di culto, a maggior ragione nello stato di emergenza dichiarato; non bisogna quindi considerare queste misure una discriminazione, soprattutto se applicate equamente a tutte le confessioni religiose. Molti fedeli però, non trovandosi d’accordo con queste considerazioni, hanno deliberatamente deciso di violare le regole in vigore durante il lockdown, per continuare a praticare i riti religiosi come messe e processioni: in provincia di Roma un prete è salito sul campanile della propria parrocchia per radunare i fedeli con un megafono, a Frascati un parroco ha aperto le porte della sua chiesa per celebrare la messa delle palme nonostante i divieti. Questi sono solo alcuni dei molti atti di disobbedienza civile avvenuti in questi giorni e commessi da chi ritiene la pratica religiosa più importante delle norme sanitarie: alcuni episodi si intrecciano anche con la politica, come nel caso di un gruppo di militanti di Forza Nuova che ha tentato di organizzare una marcia verso San Pietro per rivendicare la libertà di celebrare la Pasqua. Anche a livelli più alti della politica, alcune personalità si sono espresse a riguardo, come l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini che ad inizio aprile proponeva la riapertura delle chiese per Pasqua, proposta accolta con grande dissenso. E’ noto anche come la CEI (conferenza episcopale italiana) con il sostegno del Partito Democratico, abbia esercitato forti pressioni sul presidente del consiglio Giuseppe Conte, affinché venissero riaperte il prima possibile le porte delle chiese ai fedeli. Gli esempi di violazione delle regole sanitarie e sociali da coronavirus prima citati non sono gli unici avvenuti nel mondo, anzi, fuori dall’Italia ci sono stati episodi molto più eclatanti, che hanno avuto conseguenze gravi sulla diffusione del virus; fra questi ce ne sono alcuni avvenuti o per incoscienza o per cieca convinzione. Uno dei più celebri esempi è quello della Chiesa di Gesù Shincheonji in Corea del Sud, caso che ha avuto risonanza mondiale per la sua portata. La Chiesa di Gesù Shincheonji è una setta segreta che conta circa 240 mila seguaci in 29 Paesi; secondo il suo leader e fondatore, il coronavirus rappresenterebbe una forma di peccato che non debba essere curato con i farmaci, bensì con le preghiere, tenendosi per mano anche fra malati. Inoltre i fedeli sono tenuti a rispettare la segretezza anche con i propri familiari. La Corea fino al 17 febbraio contava solo 30 malati, tutti identificati e registrati, e nessun decesso: la situazione era sotto controllo, l’epidemia poteva essere evitata. La paziente numero 31 però era membro di questa setta e dopo che la donna, con la febbre alta, si è recata ad una messa e ad altre celebrazioni con più di mille credenti, il virus è esploso anche in Corea del Sud e si stima che più del 60% dei casi sia riconducibile a quel focolaio. Dopo una timida rimostranza a condividere le informazioni sui propri membri, il leader del gruppo ha collaborato con le autorità e chiesto pubblicamente scusa, gesto tardivo rispetto ai danni causati dal suo operato.

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IL DIGIUNO E LA RETTITUDINE ISLAMICA SOTTO IL REGIME ANTICOVID La Chiesa cattolica non è stata l’unica, ovviamente, a fare i conti con il coronavirus; anche l’Islam è stato colpito duramente. Anche per l’Islam è la prima volta nella storia che i propri riti e culti vengono stravolti così brutalmente; ha una carica altamente simbolica l’immagine della Kaaba, l’edificio sacro meta di pellegrinaggi alla Mecca, completamente deserta a causa della sospensione dei pellegrinaggi. Ricorda per analogia quella di piazza San Pietro vuota sotto la pioggia durante la celebrazione della via crucis: due Chiese che si sentono sole. Fin da inizio marzo, l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) e la Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS) hanno seguito le linee guida imposte dalle autorità locali. La pandemia è arrivata inoltre a coincidere con il momento più importante e delicato della vita di fede musulmana: il Ramadan, la pratica che impone il digiuno dall’alba al tramonto e invita ad azioni di beneficienza ed autodisciplina per 30 giorni. In Italia sono circa 1,5 milioni i musulmani, il 2,3% della popolazione, che dal 23 aprile stanno vivendo il Ramadan secondo regole diverse dal solito: non c’è la preghiera collettiva al tramonto, chiamata tarawih, né la cena che segna la fine del digiuno, l’Iftar. Le moschee sono chiuse e si cerca di rimediare con lo streaming: l’atto di culto rimane anche se perde della sua valenza sacra e rituale perché la Jumua, ovvero la preghiera del venerdì, significa proprio “riunione” ed è quindi essenziale la compresenza fisica. Secondo il Corano e la Sharia, preservare la vita umana è un dovere di ognuno, quindi la scelta di chiudere i luoghi di culto e sospendere le celebrazioni è stata accolta in tutto il mondo. In Italia questa regola, per scelta delle comunità musulmane stesse, rimarrà in vigore fino al 24 maggio ovvero la fine del Ramadan. Non stupisce il fatto che, anche all’interno della comunità musulmana, esistano estremisti e imam radicali che hanno interpretato inizialmente il covid come una punizione divina per gli infedeli per poi, quando il virus ha raggiunto anche l’Arabia, trasformarsi in una prova di fede a cui Allah sottopone il suo popolo. Ma più in generale, i musulmani si lasciano ispirare dalla loro famosa espressione “Inshallah” che significa che si realizzerà la volontà di Dio, non in segno di rassegnazione ma di fiducia in un piano superiore.

GLI EBREI E LA PERSECUZIONE NON SOLO DEL VIRUS Oltre alla Pasqua cristiana e al Ramadan musulmano, un altro importante momento della vita di culto si è svolto durante la pandemia: la Pesach ovvero la Pasqua ebraica. Anch’essa è stata vissuta a porte chiuse sono state sperimentate anche tecniche di comunicazione alternative, bloccate però dagli haredim (ebrei ultraortodossi) dopo un lungo mese di consultazione a riguardo all’interno della comunità italiana. L’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) ha da subito aderito alle norme governative e collaborato alle consultazioni attraverso la sua presidente Noemi di Segni. Adesso con la fase 2 e l’allentamento del lockdown, anche le comunità ebraiche potranno tornare a riunirsi per le preghiere collettive chiamate minian. Particolarmente rigide sono state le norme restrittive in Israele, dove si temevano gravi violazioni dei diritti fondamentali, soprattutto durante la Pasqua; questo periodo però ha dato vita anche a occasioni di distensioni nei confronti della comunità palestinese: in Israele il 17% dei medici è palestinese e questa situazione difficile per tutti ha aperto la strada a collaborazioni fianco a fianco. Purtroppo in tutto il mondo si sono registrate nuove voci anti-sioniste legate proprio alla pandemia: ad Amburgo sono stati trovati nella metropolitana degli adesivi raffiguranti stelle gialle di David con all’interno il simbolo di rischio biologico; il giornalista giordano Al-Azouni ha pubblicato, sul sito web del giornale Donia al-Watan, la notizia che il coronavirus sia il risultato dell’odio ebraico nei confronti del mondo; sul famoso social network Tik Tok sono presenti diversi video di neonazisti americani e suprematisti inglesi, che utilizzano la piattaforma per fare propaganda e hanno diffuso l’utilizzo del termine “holocough”: crasi dei termini inglesi “holocaust”(olocausto) e “cough”(tosse). C’è addirittura chi sostiene che il virus sia una falsa notizia messa in giro, ovviamente, proprio dagli ebrei. A leggere queste dichiarazioni sembra di fare un enorme balzo indietro e tornare al 1347, quando gli ebrei furono accusati di essere la causa della peste nera. di Erica Gentili

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Copertina Faro Art director Maria Marzano Artwork Frita

Illustratori Gionatella pag. 14 / 15 / 44 / 50 / 53 / 56 / 59 Dadinski pag. 18 / 20 / 21 / 23 Spesimo pag. 24 / 26 / 27 Gabriel Vigorito pag. 31 / 32 / 33 / 65 / 66 / 67 Luogo Comune pag. 39 / 40 / 41 Maria Marzano pag. 62 / 63 / 68 / 69

Registrazione Tribunale di Roma N.218/2016 Direttore Responsabile Barnaba Maj Stampa O.Graro. Srl Vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma Chiuso in tipografia 09/06/2020

Redattori Lorenzo Cirino • Giulio Rizzuti • Bianca Pinto • Marina Roio • Luis Lombardozzi • Simone Martuscelli • Andrea Calà • Erica Gentili • Luca Giordani • Ismaele Calaciura Errante • Daniele Gennaioli • Arianna Preite • Carlo Giuliano • Clara Villani • Giulia D’Aleo • Sheila Khan • Giulia Falconetti • Camilla De Fabritiis • Cosimo Maj • Gaia Del Bosco • Carlotta Vernocchi • Anna Cassanelli • Marco Ciabini • Jacopo Andrea Panno • Alessio Zaccardini • Luca Bagnariol • Chiara Lettieri • Alessandro Mason • Luca Pagani • Bianca Pinto • Giulia Tore • Riccardo Vecchione • Federica Tessari • Giulia Genovesi • Lucia Necchi • Marta Bernardi • Samanta Zisa • Ugo Annona • Chiara Falcolini • Michele Gambirasi • Carolina Pisapia • Anaïs Fontana


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