N.35 OTTOBRE 2020

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n° 35

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Mensile indipendente di attualità e cultura


n° 35 Responsabile editoriale: Edoardo Bucci Responsabile per lo sviluppo artistico e visivo: Maria Marzano Responsabile contenuti web: Luca Pagani Responsabile contenuti editoriali sui social: Simone Martuscelli Coordinatrice editoriale per Milano: Arianna Preite Coordinatrice editoriale per Torino: Marta Bernardi Responsabili editoriali per la sezione “Attualità”: Susanna Rugghia e Francesco Paolo Savatteri Responsabili editoriali per la sezione “Cultura”: Luca Giordani e Jacopo Andrea Panno Responsabile editoriale per la sezione “Il Plus”: Luca Bagnariol Responsabile “Focus”: Pietro Forti Responsabile strategico per le inchieste editoriali: Pietro Forti

È possibile ideare, stampare e distribuire questa rivista unicamente grazie al lavoro quotidiano di tanti di noi che, pur non collaborando direttamente alla stesura, ne sono una parte fondante ed imprescindibile. Coordinatore esecutivo e responsabile strategico: Tommaso Salaroli Responsabile esecutivo Milano: Tommaso Proverbio Responsabile esecutiva Torino: Samanta Zisa Coordinatore per lo sviluppo economico: Lorenzo Cirino Responsabile dell’amministrazione economica: Chiara Carbone Responsabile della Rete delle librerie indipendenti e dell’area economica di Milano: Alma Fogu Responsabile area economica di Torino: Arianna Campanelli Responsabile Area legale: Ettore Iorio Coordinatrice team delle Risorse Umane: Soda Marem Lo Responsabile per la strategia e il controllo: Francesco Sampietro Responsabile generale per l’amministrazione tecnica e logistica: Carlo Giuliano Responsabile team Bandi e Progettazione: Silvia di Benedetto Responsabile per la comunicazione social e le implementazioni: Giulia di Donato Responsabile per la comunicazione editoriale e le implementazioni: Chiara De Felice Responsabile per le strategie della comunicazione sui canali paralleli: Pietro Antonini Responsabile team ricondivisioni: Giorgia Carlomagno Responsabile strategie e implementazioni advertising: Edoardo Carraro Responsabile acquisizioni e care dei sostenitori: Tancredi Paterra Responsabile della comunità dei sostenitori: Francesco Fumagalli

Un ringraziamento speciale ai nostri partner:


L’EDITORIALE di Pietro Forti

Gli ambiti di studio e condivisione delle conoscenze, non essendo apparentemente utili a niente, sono rimasti senza alcun tipo di guida. Da una parte si è voluto dare ampio spazio all’impressione che non abbiano poi tutto questo bisogno di esperienza e presenza fisica, e quindi pazienza, ci arrangeremo a distanza. Non c’è bisogno di soffermarsi su quanto possano essere superficiali le modalità di chiusura e ri-chiusura dei luoghi di cultura e la privazione fino a data incerta di beni che innalzano la qualità della vita dei cittadini. Tuttavia, dare per assunto che ogni ateneo italiano si adattasse senza grossi danni è stato, probabilmente, il sintomo peggiore di una miopia che pervade ogni aspetto dell’azione dell’ormai “scorporato” MIUR. Infatti, si è data per scontata un’istantanea disinvoltura con i mezzi digitali; perciò tutto risolto, ci vedremo da remoto. Anche in questo caso c’è più d’un trucco: un analfabetismo digitale dilagante, piattaforme private sfruttate senza minimamente problematizzarne l’utilizzo, minimo sforzo nella condivisione dei materiali e, ovviamente, delega totale alle singole università per qualsiasi decisione su laboratori, ricerche, tirocini, con gli atenei incapaci di dare risposte agli studenti. Se per la scuola si è dovuta cercare una soluzione, risolvendo in malo modo più una necessità di baby-sitting che non un’emergenza didattica e sociale, per l’Università si è scelto di riscrivere, in una versione adatta alla pandemia, un copione le cui battute e controbattute sono già note: non ci sono finanziamenti anche se l’Università è stracolma di eccellenze, ci sono e ci saranno sempre meno laureati ma bisogna cercare le competenze, si cerca di proseguire con gli stessi metodi di insegnamento nonostante siano passati cinquant’anni dal Sessantotto, si glorificano i grandi atenei anche se si fa gravare sugli studenti il peso delle diseguaglianze territoriali e finanziarie, e via dicendo. Non c’è indignazione, non c’è un terremoto: l’Università giace. Quando però si dice che l’Università è un settore strategico non si sta facendo della retorica facile, si sta esponendo un fatto. Neanche dando per scontato che la classe dirigente italiana non sappia e non abbia interesse alcuno a individuare i settori Scomodo

strategici dell’economia, o più generalmente della società, si riesce però a spiegare il disastro che si vive negli atenei italiani. In un modello di sviluppo obsoleto e che nonostante ciò ancora non è conosciuto, l’Università pubblica è in gran parte sottofinanziata, con atenei privati in crescita e imprese a sostenere la ricerca. In Italia neanche questo modello è stato replicabile: si è scelto un sistema ibrido, completamente in balìa degli eventi e tutt’al più sostenuto dai pianti di (reale) miseria degli atenei pubblici. Ciò non vuol dire che le grandi e grandissime imprese e aziende non guardino a questo settore con interesse, tutt’altro. Ed è proprio qui il disastro. Si è deliberatamente deciso di lasciare a se stessa l’Università, ora. Un momento in cui esistono studenti italiani convertiti in competenze e conoscenze probabilmente destinate a essere non sfruttate, e in cui, nel contempo, interi equilibri economici e politici si reggono letteralmente su quelle conoscenze. E si è scelto, ancora una volta, di non vedere né disagio né opportunità nella corrente condizione della didattica in Italia. Fatalisticamente, burocraticamente, non c’è stata alcuna iniziativa. Ogni secondo di lezione registrato vale come oro, ogni appunto è letteralmente venduto, ogni minima variazione dal tema della lezione frontale sembra una svolta rivoluzionaria. Tra atenei, professori, studenti non si è mai sentita così la necessità di condivisione di saperi. Nonostante ciò, si sta scegliendo di non vedere e di non vivere un presente così cangevole, stimolante. I luoghi, fisici e non, di condivisioni di sapere sono quasi saturi di sfide e potenzialità, soprattutto oggi. Così pieni che pare impossibile pensare che si sia scelto di non riflettere neanche un secondo, e lasciare gli studenti a rosolare in ogni singola, vecchia contraddizione e assurdità. Pensare che questa immobilità possa continuare a lungo senza che si senta presto odore di marcio rischierebbe di portare all’irreversibilità una condizione già di profonda crisi. Ed è un danno gravissimo non per le generazioni giovani e future, dei cui diritti e interessi a questo punto è evidente che nessuno si farà garante, ma anche per chi già oggi è parte integrante del tessuto sociale. 3


I N D I C E FOCUS 3 L’UNIVERSITÀ NUOVA • Nelle facoltà italiane ci sono molte falle, ma altrettante prospettive 3 Introduzione di Marina Roio e Pietro Forti 4 Gli effetti e le prospettive della didattica online di Elena Potitò e Giulia Falconetti 5 Dove nascono i divari tra le università di Chiara Falcolini 7 La vulnerabilità nella didattica di Federica Tessari e Elena Lovato 9 Gli effetti della vulnerabilità sociale nella sfera economica di Federica Carlino, Federica Tessari e Elena Lovato 12 ATTUALITÀ 14 Il grande rientro di Ismaele Calaciura, Anastasiya Myasoyedova, Carolina Pisapia e Lorenzo Sagnimeni 16 Democratici green: il futuro di un Paese liberale di Giulia D'Aleo, Marina Roio, Elena D’Acunto, Eleonora Pizzichelli e Alessandro Mason 22 Sorpasso a destra di Andrea Calà , Alessio Civita e Simone Martuscelli 28 Parallasse di Chiara Lettieri 32 I CONSIGLI DEL LIBRAIO 35 MOSTRI - Ex centro direzionale Alitalia di Lorenzo Bianconi

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CULTURA 44 La Copertina di Alessandro Mason 46 Lo spettatore, un monarca assoluto di Cosimo Maj, Giulia Alioto e Lia Tore 48 Tempo Tenet fuor di sesto di Carlo Giuliano e Claudia Esposito 54 Insieme Festival, il futuro è ibrido di Annachiara Mottola di Amato, Anna Cassanelli e Francesca Lorenzini 60 Stereo8 di Jacopo Andrea Panno 64 Scomodo per Internazionale di Stefanie Röhnisch 66 RECENSIONI 68 Anni Luce 2020 al Romaeuropa Festival, tra performance e attesa di Gaia Del Bosco 68 Ultra Mono degli Idles, quando il punk ha ancora qualcosa da dire di Luca Pagani 70 PLUS 71 Patria Blu o Mare Nostrum? di Luca Bagnariol 72 La cittadinanza italiana vale ben più di 10 milioni di euro di Elena Lopriore, Emanuele Caviglia e Gianluca Braga 77

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L’UNIVERSITÀ NUOVA NELLE FACOLTÀ ITALIANE CI SONO MOLTE FALLE, MA ALTRETTANTE PROSPETTIVE La pandemia di Covid-19 ha avuto effetti sul mondo universitario paragonabili a qualsiasi altro campo: esacerbazione di conflitti già esistenti, consolidamento della crisi, malessere percepito fondamentalmente in tutti i settori lavorativo e sociali che la compongono. Ma se da una parte l’intero sistema-Paese tenta a più riprese di tornare o rimettersi in carreggiata, il mondo universitario è completamente fermo. La voglia di tornare alla “vita di sempre” è forte. L’epidemia, tuttavia, ha messo in evidenza che l’Università italiana può e deve essere riformato. Cogliere gli spunti più innovativi, affrontare le sfide e risolvere le contraddizioni più ovvie: il mondo universitario, anche in Italia, conscio del ruolo che ha e della propria caratura, potrebbe non sprofondare.

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Introduzione Quello tra contenimento e ripresa durante la pandemia di Covid-19 sembra sempre più essere un circolo, ed è sempre più radicata la sensazione che così sarà fino all’arrivo di un vaccino efficace. Nell’ottica che questa condizione emergenziale compia un anno, non si contano i “grandi assenti” tra le tutele fornite dalle istituzioni. In questa prospettiva di scenari mutati, non si dimostrano meno rilevanti le dinamiche di insegnamento-apprendimento. Che il mondo dell’università sia uno di questi assenti non ci sono dubbi. Tuttavia, mentre si consuma furioso il dibattito sull’utilizzo della didattica a distanza nelle scuole, nelle università italiane è ormai data per scontata un’attesa senza fine della “normalità”. L’emergenza epidemiologica ha creato un disequilibrio negli scenari politici ed economici internazionali, con la conseguenza inesorabile di mutamenti consistenti dal punto di vista delle dinamiche sociali e relazionali. In questo modo il mondo si configura come situazione problematica e complessa, con i lineamenti dell’incertezza dovuti dal cambiamento di paradigma della realtà. Il governo ha fornito delle linee guida vaghe, generiche, lasciando di fatto l’intera galassia a (non) risolvere da sola eventuali controversie. Più di altri enti scolastici e accademici, gli atenei hanno dovuto far fronte ad una situazione problematica senza grandi direttive. Come tanti altri comparti, anche esse si sono aperte alle attività a distanza grazie alla possibilità di erogazioni dei corsi online. Questo mutamento può essere considerato senza indugi epocale, ma purtroppo le Università come enti si sono dimostrate poco pronte al nuovo scenario. Per cercare di far ripartire i corsi il prima possibile ci si è affidati a piattaforme private per le lezioni online, con vasta impreparazione nell’utilizzo. Lacune, queste, che spesso non vengono colmate nella già citata attesa della “normalità”. Questa inevitabile apertura alla dimensione online ha infatti creato una serie di problematicità sia sull’approccio didattico che una serie di vantaggi, che sembrano essere questioni poco approfonditi dalle Università stesse. È indubbia l’indole tradizionalista intrinseca delle Università, essendo esse luoghi per antonomasia in cui risiedono delle formalità secolari. Se si aggiunge il poco tempo e forse anche poca voglia di reinventarsi non è difficile da intuire perché l’approccio didattico non sia particolarmente mutato, come invece è stato per le forme di erogazione. 6

In questi scenari modificati, le dinamiche di insegnamento-apprendimento sono state corroborate da un numero incalcolabile di variabili conseguenti al contesto ed al dibattitto (tuttora aperto) sulla pluralità di stili cognitivi e processi di apprendimento degli studenti. La didattica a distanza, oltre ad ovviare al processo di trasposizione didattica, ha colpito il punto essenziale dei tradizionali spazi dell’interazione didattica, che possono essere intesi come la sintesi tra prossemica e comunicazione, come affermano dall’Università di Salerno il prof. Maurizio Sibilio e la ricercatrice Iolanda Zollo. Questi spazi dell’interazione provengono da una lunga tradizione educativa che ha le fondamenta nella paideia, in cui si tiene conto di una distanza interpersonale che a sua volta prendeva spunto dagli elementi che guidano le relazioni private, sociali e istituzionali. Un punto rilevante della suddetta questione è la progettazione didattica, che si configura come strumento flessibile che supporta l’azione didattica nel nuovo ambiente digitale di apprendimento, ma deve incoraggiare nel docente una riflessione costante e che deve continuare anche nelle fasi più delicate come la valutazione. La necessaria virata verso il mondo digitale della didattica ha quindi portato alla luce varie criticità, ma non per questo non potrebbe essere un momento di effettiva apertura per le Università. Il mondo digitale permette una grande flessibilità per incontrarsi e possibilità per imparare nonostante la distanza fisica. Esistono dimostrazioni pratiche di creazioni, grazie al digitale, di “reti” d’insegnamento e di scambio di materiale tra università, vere e proprie ricchezze per le quali il mondo politico, imprenditoriale, aziendale fanno silenziosamente a gara. Si potrebbero risolvere questioni annose come le grandi difficoltà riscontrate dai fuorisede; si potrebbe pensare a una riforma del sistema di erogazione di fondi, motivo per cui esistono atenei che annegano nella propria miseria materiale; si potrebbe fornire un impulso per colmare il gravissimo digital divide sul territorio italiano (che Scomodo affrontava nel Focus del proprio n°32). Ma la risoluzione delle controversie e il cogliere le opportunità sono qualità che non fanno ancora parte del DNA accademico italiano. Oggi, più che mai, questi aspetti sono fatti politici ed esecutivi, ambiti in cui le qualità sopra citate sembrano ancora più scarse.

di Marina Roio e Pietro Forti

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Gli effetti e le prospettive della didattica online In tutto il mondo negli ultimi mesi la maggior parte delle lezioni universitarie è stata condotta in via telematica per contrastare la pandemia, scardinando il rapporto tradizionale tra docente e discenti all’interno della comunità fisica universitaria. Nel passaggio alla formazione online i professori hanno quindi dovuto rimodellare la loro esperienza di trasposizione didattica, un processo in cui la flessibilità e l’adattamento ad un contesto così nuovo sono risultati strumenti fondamentali. Il dibattito sul tema della DAD si è in poco tempo polarizzato tra chi ritiene la didattica a distanza come una modalità non troppo dannosa nei confronti degli studenti e chi invece la considera come un'attività svilente e estraniante. Al di là delle posizioni ideologiche, si tratta comunque di una versione della didattica completamente nuova che con la pandemia ha mostrato sia i suoi lati negativi che i suoi lati positivi. È quindi necessaria una riflessione sul tema per riconoscere le implicazioni, i pericoli e le prospettive di tale innovazione. Quali sono gli effetti della DAD Microsoft Italia ha realizzato, insieme a PerLAB e Wattajob, uno studio sugli effetti delle nuove modalità didattiche dal nome Emotion Revolution: Emozioni e Didattica a Distanza durante l’emergenza Covid-19. Il rapporto evidenzia l’aumento della stanchezza e dello stress, condizione acuita dal fatto che le nuove modalità siano state adottate velocemente e senza un piano preciso e ragionato. Inoltre, lo studio ha mostrato come seguire le lezioni attraverso uno schermo porti a una maggiore distrazione dello studente rispetto alle lezioni dal vivo, risultando svantaggiato nel non poter interagire in maniera tradizionale con il docente da remoto e ancora più tagliato fuori da un contesto sociale già di per sé danneggiato a causa del virus. Da una parte, ad essere determinante è l’impossibilità della didattica online di consentire la componente relazionale, sociale e di contatto diretto fra individui. Scomodo

Le tre indagini promosse da Laboratorio adolescenza e Istituto di ricerca IARD infatti sottolineano come il senso di solitudine e di isolamento dovuto alla mancanza di interazioni nei luoghi di formazione abbia colpito in percentuale maggiore i giovani e le giovani per il 70%, in contrapposizione al 54% riscontrato tra il corpo docenti. Tuttavia, dall’altre parte, ad entrare in gioco vi sono altri fattori significativi. A tal riguardo un’altra ricerca svolta dall’Associazione Nazionale Di.Te. (Dipendenze Tecnologiche, Gap, Cyberbullismo), dal titolo Giovani e Quarantena, ha raccolto un campione di 9000 studenti e studentesse dagli 11 ai 20 anni, riportando gli effetti psicofisici subiti dalle nuove generazioni durante il lockdown e la sospensione della tradizionale attività d’istruzione. Ad un aumento dell’ansia, della depressione e dello stress registrato da molti e molte, sono da aggiungere per l’80% degli stravolgimenti del ritmo sonno-veglia con un incremento dei risvegli notturni e un cambiamento delle abitudini alimentari per il 50%, caratterizzato dal mangiare con più frequenza e a qualsiasi orario. Inoltre, sul versante dell’apprendimento, il 15% individua nella possibilità di usare i devices tecnologici un forte motivo di distrazione che concorre a rendere la didattica ancora più spossante e frammentata. Diversi atenei italiani, nel tentativo di contrastare le ripercussioni a lungo termine sulla salute mentale degli studenti e delle studentesse, hanno implementato i propri servizi di consulenza psicologica traslando le attività in modalità telematica. 7


Un esempio a riguardo è costituito da NoiBene, progetto di ricerca-intervento finanziato dalla Sapienza di Roma, che si delinea come un programma di apprendimento e uno spazio virtuale di promozione del benessere psicologico e per la prevenzione del disagio emotivo. Uno degli ostacoli principali dell’insegnamento a distanza rimane l’inadeguatezza delle infrastrutture e degli strumenti offerti dagli atenei, spesso insufficienti per coprire le necessità di studenti e insegnanti. Le riportate difficoltà di adattamento al nuovo sistema sono state evidenziate da un problema che in Italia esisteva già da ben prima della pandemia, quello del digital divide. Come riportato dall’ISTAT nella ricerca Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi relativa al periodo 2018-2019, il 33,8% delle famiglie non possiede un computer o un tablet e solo il 22% ha un dispositivo di questo tipo per ogni componente. Il quadro relativo al Mezzogiorno è ancora più allarmante: la percentuale delle famiglie prive di un pc o un tablet è pari al 41,6%, a fronte del 30% nel resto della penisola. Inoltre, sempre secondo uno studio ISTAT del 2019, l’infrastruttura informatica non si estende in maniera capillare in Italia, ma al contrario è distribuita in maniera disomogenea, svantaggiando le zone rurali e il Mezzogiorno. Non è difficile pensare che in questo scenario il passaggio improvviso alla didattica online per studenti e universitari abbia de facto accentuato le discriminazioni dei più vulnerabili. L’accesso fisico e materiale alla rete si è d’un tratto tramutato in un aspetto fondamentale del godimento del diritto all’istruzione. Secondo una dichiarazione del ministro dell’Università e della Ricerca Manfredi durante il lockdown circa il 10% degli universitari ha riscontrato difficoltà di accesso alla rete e quindi all’apprendimento e stando ai dati dell’ISTAT ad aprile il 20% degli studenti non aveva ancora accesso alla DAD. 8

Si intravedono vantaggi? Se il digital divide (a cui Scomodo ha dedicato il Focus del n°32) crea delle oggettive difficoltà, non è possibile imputare ogni colpa del disagio nell’insegnamento a distanza alla DAD. Il binomio insegnante-cattedra non può più essere indicato per la generazione dei “nativi digitali” e il distance learning ha semplicemente messo in evidenza i limiti dell’insegnamento tradizionale, basato su un’assimilazione passiva di informazioni a ogni livello. Quando la crisi sanitaria sarà finita, il mondo dell’istruzione non sarà più lo stesso e questa potrebbe essere l’occasione per un cambiamento radicale: nel mondo universitario, tra gli aspetti positivi della didattica a distanza c’è senza dubbio la possibilità di avere orari molto più flessibili potendo seguire le lezioni registrate quando si preferisce, dando modo agli studenti di organizzarsi di conseguenza. Così facendo sono stati agevolati molti studenti-lavoratori che in condizioni normali non potrebbero assistere alle lezioni. Negli Stati Uniti è stata infatti riscontrata una elevata adesione ai corsi universitari online proprio perché molti giovani lavoratori hanno trovato il modo di conciliare gli orari flessibili dei corsi alla propria professione. Se da un lato la DAD ha facilitato l’accesso all’istruzione per queste persone, dall’altra ha però svantaggiato gli atenei tradizionali che, secondo una stima dell’American Council of Education, avranno una perdita del 15% delle iscrizioni a favore di quelli telematici, i quali già registrano il 76% delle immatricolazioni dei fuori sede. C’è da aggiungere però che grazie a corsi ed esami online molti studenti fuori sede che, secondo quanto riportato dall’Anagrafe degli Studenti, rappresentano il 22% degli universitari, hanno potuto risparmiare sui costi di trasporto e/o di vitto e alloggio. Se le nuove modalità dovessero essere adottate anche in futuro, potrebbe essere l’occasione per molti giovani con poche risorse economiche di frequentare l’università altrove, portando a un minore divario nell’accesso all’istruzione.

di Elena Potitò e Giulia Falconetti

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Dove nascono i divari tra le università Per comprendere gli effetti che la digitalizzazione forzata della didattica universitaria ha prodotto ed ipotizzare le nuove prospettive che questa può aprire, possiamo partire da due assunti piuttosto scontati: la crisi sanitaria ha evidenziato le fragilità di settori, come quello accademico, che hanno subito numerosi tagli nell'ultimo decennio; esiste un sensibile divario tra il punteggio di università meridionali e settentrionali. Il sistema di valutazione degli atenei e la conseguente ripartizione dei fondi pubblici si inseriscono da ormai più di dieci anni in un circolo vizioso che ostacola il rilancio delle università del sud, con poche eccezioni. Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) infatti è diviso in due macro-voci: la quota base, che dipende dal personale ed è commisurata alla spesa storica, e la quota premiale, in poche parole quella destinata agli atenei con un ranking più alto e ai dipartimenti di eccellenza. Dal 2009 il rapporto fre le due quote si è progressivamente ridotto a vantaggio della premiale (ad oggi quasi il 30% del fondo, a fronte di un 19% nel 2014), aumentando di fatto le distanze tra gli atenei; il fattore territoriale non è secondario se si considera che i dipartimenti di eccellenza della sola città di Milano (20) equivalgono quasi al numero di dipartimenti di eccellenza decretati in tutto il meridione (25). Gli stessi criteri su cui si fondano i ranking sono ancora lontani dall'essere imparziali. Fra tutti, il Censis si basa su “internazionalizzazione”, “Borse assegnate” e “Occupabilità”. Se i primi due lasciano un certo spazio di intervento alle Università, il livello di occupazione finisce per essere un chiaro fattore di disparità in quelle regioni dove la crisi del 2008 non è ancora stata pienamente superata. Sono queste valutazioni che, sebbene influenzino solo in parte la distribuzione della quota premiale, determinano l'attrattività di un ateneo, con una ricaduta indiretta anche sulla quota base. Scomodo

Calata in un quadro del genere, la didattica post-Covid non poteva non far sorgere il timore di un drastico calo delle iscrizioni, specialmente nel mezzogiorno, tanto che lo Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno) a luglio stimava una riduzione del tasso di proseguimento dal liceo all'università di 3,6 punti nel Mezzogiorno e di 1,5 nel Centro-Nord. Eppure, gli interventi del decreto rilancio pare abbiano sortito un certo effetto con: l'allargamento della no-tax area da 15.000 a 20.000 euro, il sostegno alle fasce ISEE più basse e l'aumento dei fondi destinati alle borse di studio, portando così ad un sensibile aumento delle immatricolazioni. In particolare nel mezzogiorno, il ministro Manfredi ha riportato un incremento tra il 5% e il 10%. Sicuramente poter contare su un maggior numero di iscritti è un primo, timido, passo verso un appianamento del divario ma non è detto che questo basti a tirare un sospiro di sollievo. Gli stanziamenti rimangono un intervento isolato, soprattutto se non verranno riconfermati nella legge di bilancio, e il rischio maggiore della DAD sta nel drop-out degli studenti già immatricolati. Tutto dipenderà da come gli atenei riusciranno a sfruttare le opportunità della DAD per vincere l'effetto alienante degli schermi. In questo senso, la didattica digitale offre degli spunti non trascurabili in un discorso di disparità territoriale: Francis Verillaud, della Sciences Po di Parigi, riporta in una rivista accademica come la Francia sia riuscita, durante e dopo il periodo di lockdown, a creare un network funzionante tra gli atenei locali, in cui hanno giocato un ruolo centrale la conferenza dei presidenti universitari (CPU). 9


Questi network, a parere di Verillaud, hanno reso possibile uno scambio di buone pratiche e soluzioni durante la crisi, oltre ad aver aperto la strada ad un sistema di lezioni online in collaborazione tra gli atenei locali. Riuscire ad attivare un simile network nel nostro Paese potrebbe aprire la strada ad un maggiore scambio accademico tra regioni con una rete di ricerca ed insegnamento nazionale, evitando la necessità di una migrazione verso il nord. Questa l'opportunità; il rischio, tuttavia, è che gli investimenti avviati non si confermino come impegni a lungo termine. Il timore è che potranno sfruttare a pieno queste potenzialità gli atenei già predisposti, a maggior ragione considerando che i sopracitati fondi del decreto Rilancio sono stati distribuiti seguendo lo stesso FFO, che ha contribuito a rafforzare le disparità geografiche. Non da meno, sono da considerare il diverso livello di alfabetizzazione digitale e la prospettiva territoriale del digital divide: al nord l'85% delle famiglie hanno accesso alla banda larga, poco sotto la media europea, mentre al sud questa percentuale scende di oltre dieci punti percentuali (ad esempio, è il 74% in Sicilia). D'altronde la questione dell'accesso alle tecnologie si è dimostrata già da mesi prioritaria, tanto da far entrare il termine “digital divide” nel lessico comune e da spingere TIM e Cassa Depositi e Prestiti a firmare un accordo con cui dar vita ad AccesCo, la società della rete che dovrà portare la fibra ad alta velocità in Italia. In questo senso, investire congiuntamente sulla didattica online e su una rete uniformata al livello nazionale avrebbe una ricaduta positiva sulla realtà accademica, permettendo anche nelle aree interne di accedere ad un adeguato livello di istruzione senza per questo accrescere i flussi migratori interni. I tempi, però, si prospettano lunghi. Nell'attesa, non ci resta che vedere se il lancio della didattica online potrà essere un'occasione per armonizzare la qualità dell'insegnamento o sarà l'ennesima opportunità colta solo da chi ne ha i mezzi. 10

di Chiara Falcolini

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La vulnerabilità nella didattica Il “migliore dei mondi possibili” non è quello degli universitari italiani nell’era del Covid-19 Gli studenti universitari italiani hanno dovuto fronteggiare diverse sfide imposte dall’emergenza: dapprima il grande esperimento della didattica online “auto-organizzata” senza distinzione della facoltà d’appartenenza o di ateneo, e poi la convivenza con quest’ultima. Alcune università italiane hanno predisposto per l’inizio dell’anno accademico 2020/2021 l’erogazione di quasi ogni corso in modalità da remoto, altre “le più coraggiose” hanno invece predisposto servizi di prenotazione in aula per poter sostenere le lezioni dal vivo evitando l’accalcamento (o meglio, l’assembramento). Nella macro-categoria degli studenti universitari ci sono delle sottocategorie degne di nota: gli studenti fuori sede, gli studenti affetti da DSA e coloro che hanno inserito nel proprio piano studi accademico un tirocinio curriculare da svolgere in presenza. “Io dico il peggio non è certo. Ci sono delle forze che vanno nella direzione del peggio.”, affermava R. Castel... Il concetto complesso di vulnerabilità ci catapulta immediatamente nelle sue sfere d’azione per poterla comprendere: da una parte una dimensione individuale e propriamente umana e dall’altra, invece, la dimensione sociale. Entrambe intercorrono tra i binari comuni di fragilità e di debolezza, e le studentesse e gli studenti universitari italiani ne hanno dimostrato le conseguenze durante il viaggio dei tre mesi di lockdown sperimentato per la prima volta tra marzo e maggio di questo anno. L'imprevedibilità di un avvenimento – quale è stata l’emergenza coronavirus – nella propria vita quotidiana costringe a confrontarsi con l’insicurezza della società in cui si vive, oltre che con la propria, individuale e intima. Paolo Raciti, pedagogista e ricercatore nell’ambito delle politiche sociali, afferma che la riflessione riguardo la vulnerabilità nella sua accezione di sociale possa interpretarsi Scomodo

come una «riduzione costante delle risorse necessarie a vivere tale condizione, e la contrazione delle capacità individuali e collettive necessarie a trasformare tali risorse in progettualità». Di fatto, la vulnerabilità sociale emerge, si mette a nudo, quando si attua un indebolimento di tre sfere principali: il mercato del lavoro, la famiglia e il welfare state. La domanda dunque sorge spontanea: il Covid-19 non ha forse indebolito tutte le connessioni tra le tre sfere? Quali risorse e quale progettualità sono state messe in campo per il mondo universitario italiano post-lockdown? Se il lavoratore fragile non è abbastanza Considerato il concetto di vulnerabilità sociale, secondo le parole presenti all’interno della circolare n.13 interministeriale (emanata lo scorso 4 settembre) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero della Salute, il lavoratore fragile diventa una categoria propriamente sociale. In particolare, si afferma che «il concetto di fragilità va dunque individuato in quelle condizioni dello stato di salute del lavoratore o lavoratrice rispetto alle patologie preesistenti che potrebbero determinare, in caso di infezione, un esito più grave o infausto e può evolversi sulla base di nuove conoscenze scientifiche sia di tipo epidemiologico, sia di tipo clinico. Con specifico riferimento all’età va chiarito che tale parametro, da solo, anche sulla base delle evidenze scientifiche, non costituisce elemento sufficiente per definire uno stato di fragilità nelle fasce di età lavorative». 11


Si aggiunge, inoltre, che la condizione di fragilità non vada accertata tramite espediente clinico. Se la tutela normativa avviene nel mondo lavorativo, perché questo concetto di fragilità non può essere declinato anche per tutte e tutti coloro che frequentano gli atenei italiani? Inoltre, il concetto di “studente fragile”, esonerato dall’obbligo di frequentare in presenza le lezioni per motivi di salute fisica, non sembra contemplare all’interno del sistema universitario quella parte di studenti che presentano difficoltà cognitive o emotive nell’apprendimento. Nel Rapporto riguardante gli impatti del Covid-19 sugli universitari italiani di Talents Venture, società specializzata nello sviluppo di soluzioni sostegno dell’istruzione universitaria, si osserva una forte preoccupazione da parte della maggioranza degli studenti in merito alla qualità di una didattica poco inclusiva come quella da casa, invece molto apprezzata dagli universitari affetti da DSA (Disturbi Specifici dell'Apprendimento). Per questo motivo ad ottobre 2020, con la ripresa delle lezioni in presenza per molte università, l’Associazione Italiana Dislessia non ha gradito le affermazioni di Francesco Sinopoli, segretario generale della FLC-CGIL (Federazione Lavoratori della Conoscenza), dettosi contrario all’utilizzo di videoregistrazioni per la didattica a distanza. Sinopoli aveva espresso il suo dissenso inviando una lettera ai Rettori delle Università italiane in cui contestava l’obbligo imposto da alcuni atenei di registrare le lezioni tenutesi didattica a distanza. Secondo il segretario la scelta di quale metodo didattico utilizzare dev’essere a discrezione del professore o, nel caso delle lezioni registrate e condivise online, limitata a una situazione emergenziale (quale è stato ad esempio il lockdown). Al contrario l’AID evidenzia come la didattica a distanza abbia giovato agli allievi con DSA e debba essere considerata uno strumento insostituibile per garantire loro il diritto a poter fruire dell’apprendimento con accorgimenti e mezzi adeguati attraverso la videoregistrazione obbligatoria non limitata alla sola emergenza attuale. B.B., pedagogista clinica, nell’illustrare a Scomodo la situazione, sottolinea quanto per uno studente con DSA possa risultare difficile e/o impegnativo seguire un percorso di studi universitario, sentendosi spesso scoraggiato in partenza dall’intraprendere il cammino verso la laurea. Il lockdown e, nello specifico, la didattica a distanza adottata dagli atenei italiani durante 12

questo periodo ha dimostrato come un metodo d’insegnamento più inclusivo e adeguato alle necessità di coloro che hanno un disturbo dell’apprendimento possa essere un incentivo a proseguire gli studi dopo il diploma. Chi siamo e cosa non saremo Gli studenti “fragili”, dunque, costituiscono una fascia ampia. In molte e molti, per il conseguimento di conoscenze e competenze inerenti al proprio percorso di studi, necessitano di esami e corsi in presenza. Alessandra è studentessa di Medicina a Salerno, e racconta che «da febbraio a giugno non si è svolta alcun tipo di attività di tirocinio in presenza, soltanto online. A luglio si è sbloccato qualcosa, ma non più di tanto. Da poco ci è arrivata la comunicazione che sarebbero cominciati i tirocini online ma del quando-come-e-perché non sappiamo nulla. Il nostro corso prevede a partire più o meno dal terzo anno per ogni esame una quantità di numero di ore da dedicare al tirocinio che noi chiamiamo “FP”. Quindi, in pratica, in base al numero di crediti formativi ne consegue un numero di ore per il tirocinio. Il problema è che da febbraio non abbiamo fatto nulla, zero. Ovvero, le lezioni che si sarebbero svolte normalmente in presenza sono state ampiamente sopperite con la didattica da remoto che ha funzionato comunque bene. Per quanto riguarda i tirocini invece è un discorso pratico. Non potendo accedere al reparto, sono stati sospesi e non si è fatto nulla, e adesso ci ritroviamo a dover recuperare tutti i tirocini dell’anno scorso, oltre a quelli di quest’anno con, se va bene, il doppio delle ore. Io mi immedesimo anche nella difficoltà del docente nel portarsi il computer o il tablet in reparto o nelle stanze ai piedi dei pazienti, ti rendi conto che è una situazione piuttosto infattibile e non praticabile. Certo, aver saltato tutte queste ore di tirocinio non è stato un bene perché non è all’altezza dell’offerta formativa, anche se durante le ore di lezione comunque i professori hanno presentano dei casi clinici. Un poco di pratica te la fanno fare; certo che è diverso dall’entrare in reparto e vedere con i tuoi occhi cosa succede». Denise, invece, è studentessa di Infermieristica a Catanzaro, ed è stata tra le studentesse a contattare Scomodo in prima persona, raccontando la sua personale esperienza riguardo al tirocinio necessario previsto per tutti i tre anni di studi. Scomodo


Ribadisce poi che a causa del lockdown ha avuto modo di intraprendere un’unica settimana di tirocinio perché, ironia religiosa a parte, nel suo settimo giorno di tirocinio l’intero Paese è stato “chiuso” e la sua università ha scelto di sospendere i tirocini fino a data da destinarsi, per salvaguardare studenti che per decreto ministeriale avrebbero potuto continuare la formazione. «Ci hanno lasciati in balia del niente: ci hanno dato delle slide da leggere da cui poi sviluppare dei casi clinici sui quali ci avrebbero valutati oralmente. Essendo noi matricole non avevamo neanche idea di cosa fosse un caso clinico. Il fatto di non svolgere una formazione pratica per noi infermieri è un grosso limite. Come ci hanno indirizzato non è andata bene e la preparazione ottenuta non è adeguata; non abbiamo imparato niente di quello che avremmo dovuto imparare». Beatrice, studentessa di Scienze motorie (Asti), spiega a Scomodo la sua esperienza didattica e ciò che è stato fatto per sopperire all’impossibilità di “praticità accademica”. «Il nostro percorso di studi prevede molte materie pratiche, quindi eravamo noi a filmarci e inviare ai professori i video per far vedere che avevamo capito gli esercizi. L’unico modo era quello. Anche un esame che doveva essere sostenuto con la pratica è diventato un test riguardante delle domande plausibili su una qualche attività da svolgersi. Non avendo tuttavia ricevuto le basi per noi era impossibile avere un’adeguata conoscenza pratica». Riguardo al tirocinio prosegue Beatrice: «fortunatamente io avevo 250 ore da conseguire e le ho finite subito. Ho iniziato a settembre in una palestra di CrossFit, ho lavorato fino alle vacanze di Natale comprese e ho ripreso appena hanno riaperto le palestre, ma per i miei compagni che hanno fatto tirocinio nelle scuole… hanno bloccato tutto. Alcuni stanno recuperando adesso il tirocinio dello scorso anno di 250 ore congiuntamente a quello del terzo di 200 ore». Data l’inadeguata risposta a tutte queste necessità diventa cruciale capire se e come siano stati applicati dei “metodi alternativi” per conseguire la formazione curricolare, e se la didattica possa essere stata efficace e adatta al conseguimento delle necessarie conoscenze e competenze. Elisa, studentessa di Restauro e Conservazione per i beni culturali (Como), al terzo anno del suo percorso quinquennale, afferma che aldilà di alcuni corsi – quattro su undici in totale – rimandati al periodo estivo, la didattica svolta a distanza è stata adeguata, aggiungendo che: «Non si poteva fare altrimenti. Scomodo

Per esempio, la nostra professoressa di doratura ha provato a proporre due lezioni online, ma purtroppo per quel corso mancava la parte pratica. La professoressa ha fatto del suo meglio ma, se tu mi parli di una sostanza con una densità o un odore particolare, come faccio a percepirlo attraverso uno schermo?». La percezione della tutela accademica tra le studentesse e gli studenti intervistati da Scomodo è stata univoca, e negativa. Tra le varie critiche, viene sottolineata la poca chiarezza e comunicazione tra gli atenei e i propri ospiti universitari. A tal proposito Denise afferma che «adesso vociferano che il tirocinio sarà al 70% online e 30% in presenza. Non abbiamo ancora capito però come si possa tenere il tirocinio in presenza tutelando la salute degli studenti, visto l’aumento di casi di Covid-19». Inoltre, l’ateneo di Denise, così come altri, ha suggerito l’introduzione di una clausola riguardante gli studenti residenti fuori dalla regione che saranno esonerati dalle lezioni in presenza. Non solo, allo stesso tempo saranno esonerati dal tirocinio e «di conseguenza perdi l’anno. Perciò chi abita fuori dalla Calabria, che sia uno studente fragile o meno, viene discriminato e privato del proprio diritto da studente, non potendo sostenere il tirocinio di quest’anno. E dunque gli studenti, noi, mandiamo mail per lamentarci, per chiarire la situazione. Non tutti possono affrontare il viaggio, che sia per motivi economici, di fragilità, o per tutelare la propria salute e quella dei propri parenti. Ma non rispondono neanche alle mail, ci stanno probabilmente ignorando».

di Federica Tessari e Elena Lovato

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Gli effetti della vulnerabilità sociale nella sfera economica Secondo lo stesso rapporto di Talents Venture, il 91% degli intervistati crede che ci saranno delle grosse difficoltà economiche da parte delle famiglie per finanziare l’istruzione degli stessi. Al di là dell’eterogeneità di risposta riguardo alla difficoltà finanziaria, è presente un 32% del campione intervistato che sostiene che la pandemia influirà sulla scelta dei futuri immatricolati rispetto all’iscrizione all’università. Tra le motivazioni che sono state date per la rinuncia universitaria sono presenti mancanza di speranza nel futuro, didattica di scarsa qualità e poco inclusiva, ragioni economiche, rischio sanitario ed infine il blocco agli spostamenti. Per quanto riguarda la sfera economica, nella Legge di Stabilità del 2017 era stata istituita una nuova manovra finanziaria con lo scopo di favorire e migliorare l’accesso all’università da parte dei giovani: lo Student Act. Il Governo ha fissato la No Tax Area per gli studenti universitari che si applica a tutte le istituzioni universitarie (e AFAM) che consente - nel dettaglio - l’esenzione totale dal pagamento delle tasse universitarie per coloro che hanno un ISEE inferiore a 13.000€ e per le matricole, per coloro che invece superano detta soglia e hanno un ISEE compreso tra i 13.000€ e i 30.000€ è prevista comunque una riduzione delle tasse universitarie, che per legge non possono ad ogni modo superare il 7% della differenza tra ISEE e la soglia di esenzione a 13.000€. Per gli studenti del secondo anno e per tutti gli anni a seguire, l'agevolazione è mantenuta solo se vengono raggiunti determinati requisiti di merito. Quest’anno però, secondo il D.M. n. 234 del 24/06/2020 a seguito dell’emergenza Covid-19, è stata prevista un’estensione della No Tax Area per chi ha un ISEE fino a 20.000€ portando i beneficiari della nuova estensione a quota 230.000, con l’aggiunta di circa 300.000 destinatari della scontistica, per un totale di circa 820.000 studenti beneficiari di agevolazioni economiche (stimando per eccesso). La manovra sarà finanziata con 165 milioni di euro, ai quali si aggiungono altri 115 milioni di euro stanziati dal MIUR per supportare l’incremento di beneficiari; finanziamento che tuttavia, secondo le osservazioni effettuate da Talents Venture, non basterebbe a 14

coprire il mancato incasso dalla contribuzione studentesca che quest’anno potrebbe superare i 163 milioni di euro, non tenendo poi in considerazione un possibile scenario in cui le famiglie degli studenti accademici possano aver registrato una forte contrazione del proprio ISEE. La situazione potrebbe essere decisamente peggiore rispetto a quella analizzata da Talents Venture, che sottolinea la mancanza di un interlocutore importante: gli studenti con un ISEE superiore a 30.000€. Secondo la società di consulenza, «nelle università pubbliche nell’anno 2018/2019, chi pagava una retta annua superiore ai € 1.200 – ISEE superiore ai 30.000€ – era pari al 50% dei paganti che contribuivano per l’80% degli incassi da rette universitarie per i corsi di laurea percepite dagli atenei. Questo mezzo milione di studentesse e studenti, appartenente ad un ceto medio troppo ricco per ricevere un’agevolazione economica e neppure così autosufficiente per completare senza troppi problemi un investimento rivolto all’istruzione universitaria, potrebbe subire un forte contraccolpo per due ordini di ragioni: la prima, perché resterebbe abbastanza scoperto da sussidi economici, e la seconda perché gli atenei potrebbero decidere di scaricare, in parte o in toto, proprio su di loro i mancati incassi provenienti dai ceti più bassi». Le prossime vittime del mercato del lavoro Che la situazione lavorativa nella fascia giovanile sia drammatica non è un mistero. Che però questa sia stata oggetto di un vertiginoso declino causato da una pandemia globale più che sorpresa potrebbe destare molte preoccupazioni. Come ricorda Talents Venture nel suo report, «all’interno dell’attuale dibattito pubblico si stanno tralasciando i laureati dell’anno 2020, i quali potrebbero rappresentare l’ennesima generazione perduta». Ciò che è più evidente è che ad essere maggiormente colpiti siano i giovani appena laureati, privi e privati della possibilità di stabilizzare la propria situazione economica ed anche secondo AlmaLaurea, i dati che si riferiscono ai primi mesi del 2020 rivelano un forte calo nell’occupazione dei laureati (precisamente del -9%). Scomodo


Attualmente il tasso di occupazione giovanile a livello europeo, infatti, è il più basso, con meno del 57% contro una media europea del 76% riguardante la fascia di età dai 25 ai 29 anni. Gli universitari, dopo aver subìto il colpo della pandemia che ha fatto emergere a più livelli (economico, familiare e accademico) la propria situazione personale, sono stati e continuano ad essere le “vittime” preferite di un mercato del lavoro in panne. Nello specifico, il riferimento alle conseguenze dello studente o della studentessa si identificano con l’aumento sensibile degli affitti delle case, il blocco delle lezioni di presenza e il fenomeno del grande ritorno nei “paeselli” natali. Ecco che in questo scenario prende forma e cresce con più facilità il fenomeno NEET ossia, come definisce sapientemente Treccani, dei “giovani alla ricerca attiva di occupazione che non lavorano ancora, inattivi, cioè giovani che non cercano e non sono disponibili a lavorare, gli scoraggiati, vale a dire i giovani che hanno definitivamente rinunciato a cercare un'occupazione e sono usciti dal mercato del lavoro”. L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) ha evidenziato le perplessità dei giovani con gli occhi spalancati sullo scenario post-pandemico. Negli ultimi venti anni, i giovani – i Millenials e la Generazione Z – sono stati abituati sia a convivere con una certa instabilità economica (basti pensare prima allo shock monetario con l’ingresso dell’euro e poi con lo shock finanziario dovuto alla crisi del 2008), sia a saper scegliere il “mestiere” in maniera poco astratta e irrazionale ma in modo più plastico. Tutte queste premesse hanno dato vita ad una scelta fondamentale per approcciarsi al mondo lavorativo: il percorso di studi da intraprendere. Non rifacendosi quindi al mito del “sogno nel cassetto” ma piuttosto a ciò che le dinamiche del mercato del lavoro richiedono e alla quantità di individui specializzati in quel determinato settore. La crisi europea del 2012 ha portato la disoccupazione giovanile a sfiorare il 45% e a distanza di otto anni le sorti dei più giovani non sono ancora state rassicurate da alcun tipo di mossa istituzionale. E la pandemia sembra aver riportato in luce un nervo scoperto. L’ultimo rapporto dell’OECD ha rilevato come una delle preoccupazioni maggiori dei giovani durante la pandemia sia l’aumento del debito pubblico e le statistiche della Banca d’Italia, infatti, hanno mostrato un’impennata ad agosto: il debito delle amministrazioni pubbliche è balzato a quota 2.578,9 miliardi di euro, precisamente 18.3 miliardi in più del mese precedente. L’opinione prevalente è sicuramente che qualsiasi misura di politica economica sulla ripresa Scomodo

del bilancio mirata a ridurre il deficit pubblico colpirà maggiormente i giovani, che portavano già sulle spalle un debito pubblico nel 2019, secondo i dati della Banca d’Italia, pari 2.409,2 miliardi. Ebbene, gli universitari italiani sono consapevoli che questa crisi sarà un ulteriore limite alla ricerca di un lavoro adeguatamente retribuito e con un contratto a tempo indeterminato (oltre la metà degli intervistati da Talents Venture la pensa in questo modo). La generazione dei non-essenziali In Italia, secondo l’analisi del portale di informazione economica Lavoce.info, più del 25% degli occupati nelle cosiddette “attività non essenziali” durante il lockdown iniziato lo scorso marzo, ha un’età compresa tra i 20 e 29 anni e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha sottolineato che più di quattro giovani lavoratori su dieci erano impiegati, prima della crisi, in uno dei settori considerati tra i più colpiti dal Covid-19. La riflessione conseguente alla lettura di questi dati emersi potrebbe vertere su due punti: il primo potrebbe essere che molti giovani erano quasi obbligati a impiegarsi in determinati ambiti, svolgendo le più svariate mansioni (cameriere e camerieri, commesse e commessi, tutor privato, baby-sitter o altro) cercando di conciliare al meglio studio e lavoro, per far fronte all’elevato costo di vita richiesto nella maggior parte delle città universitarie. Il secondo aspetto rilevante potrebbe essere invece il fronte di chi aveva già in origine deciso di dedicarsi interamente al lavoro, per guadagnarsi dopo i primi anni della maggiore età un’indipendenza economica, ma è stato ora accompagnato in maniera forzata a ritornare al proprio punto di partenza e richiedere un sostegno “momentaneo” al proprio nucleo familiare, sapendo che l’avverbio usato si presta ad un arco temporale più ampio del solito. Il “nostro tempo” richiede un forte senso di ri-adattamento, di flessibilità mentale, di abbandono delle proprie abitudini: la richiesta è un approccio di forte responsabilità e senso civico. Sicuramente l’intera condizione di emergenza ha destabilizzato e continua a destabilizzare indipendentemente dalla fascia d’età; in particolare, quella giovanile è tra le più ferite, ma è anche la categoria che meglio si presta ad accogliere un cambiamento celere al fine di rappresentare quel quid pluris che potrebbe determinare la creazione di una scialuppa di salvataggio per l’intero Paese.

di Federica Tessari, Federica Carlino e Elena Lovato

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AT T UA L I TÀ


Il grande rientro La scuola è uno dei temi che più di tutti polarizza e infuoca le opinioni di questo periodo, ora che il Governo sta aumentando le misure restrittive per arginare la diffusione del virus.

Al di là dei giudizi di valore sulle singole misure, su cui è decisamente difficile discutere con lucidità, i dibattiti di questi mesi e le problematiche del rientro a scuola rendono evidente una cosa: la profonda crisi che sta colpendo la scuola pubblica italiana in questo periodo ha fatto emergere le sue criticità strutturali. continua a pag. 16

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Il grande rientro -------------------------------------------------------------------------------------------------------Come l’inizio del nuovo anno scolastico mostra i problemi strutturali dell’istruzione italiana

Tra i temi più dibattuti in questo periodo, la scuola è uno di quelli che più di tutti ha polarizzato e infuocato le opinioni. E’ stato così per tutta l’estate e lo è ancora di più nel momento in cui si scrive, ora che il Governo sta aumentando le misure restrittive per arginare la diffusione del virus. Al di là dei giudizi di valore sulle singole misure, su cui è decisamente difficile discutere con lucidità, i dibattiti di questi mesi e le problematiche del rientro a scuola rendono evidente una cosa: la profonda crisi che sta colpendo la scuola pubblica italiana in questo periodo ha fatto emergere le sue criticità strutturali. In particolare, sono tre gli ambiti in cui le mancanze croniche della scuola italiana si fanno più esplicite: la disparità nell’offerta formativa, la pessima condizione degli edifici scolastici e la mancanza di attenzione verso le fasce più fragili. Disuguaglianza formativa Per quanto riguarda il primo tema, ciò che viene fuori è un quadro altamente parcellizzato. Sul territorio italiano esiste una forte disparità nella qualità dell’offerta formativa che i vari istituti sono riusciti ad assicurare in queste prime settimane. Si tratta di disuguaglianze distribuite in parte secondo un classico discrimine tra zone ricche e zone povere, in parte in maniera più casuale. E le ragioni di tutto ciò si trovano in tendenze risalenti a ben prima della pandemia. 18

Scomodo


Dal 2000 l’autonomia scolastica prevede un margine piuttosto largo di indipendenza amministrativa: concepito come strumento organizzativo quasi sperimentale nel dinamizzare la dialettica tra istituti e Miur, tutelando le scuole da un controproducente e ingessato assolutismo ministeriale, si è rivelata un’arma a doppio taglio. Se da un lato lascia spazio alla legittima competenza di ogni istituto rispetto al proprio territorio specifico, con le sue peculiari esigenze e i suoi problemi, dall’altro proprio le richieste differenti dovute al divario socio economico tra le scuole d’Italia meritano e necessitano attenzione particolare per i bilanci delle scuole come per le assunzioni in organico. Lo svantaggio in partenza degli istituti di provincia e periferia ha reso l’autonomia scolastica occasione di uno scaricabarile politico, un vuoto istituzionale. Tale incongruenza è stata rilevata anche da diversi studi a livello accademico. In un paper scritto da Francesca Cognetti, professoressa associata del Politecnico di Milano di Architettura e Studio Urbano, basato su dati risalenti al periodo 2009-2012, si nota come “attraverso il decreto ministeriale sull’autonomia scolastica, che ha liberalizzato i bacini di utenza, si è dato avvio a una sotterranea competizione tra istituti scolastici in cui i dirigenti cercano di orientare le iscrizioni, attraverso politiche di attrattività o di allontanamento di alcune tipologie di utenti”. L’elemento di vuoto istituzionale viene poi sottolineato anche in un passo successivo, in cui si mostra come “a tutte le scale di intervento quindi, alla liberalizzazione dei bacini di utenza e alla spinta alla autonomia delle scuole primarie e secondarie, non è seguita una visione strategica pubblica rispetto alla quale fare riferimento”.

Tuttavia, come ha spiegato alla redazione Anna Maria Santoro, la responsabile nazionale dipartimento scuola della FLC CGIL, in questa fattispecie l’autonomia non è la causa di tutti mali. A questo, infatti, si aggiunge una forte mancanza di trasparenza. Gli Uffici Scolastici Regionali (USR) che hanno dovuto distribuire le risorse eccezionali in vista dell’emergenza sono stati poco chiari sui criteri di ripartizioni dei fondi messi a disposizione dal Ministero - che a sua volta non ha agito in trasparenza - negando al sindacato gli esiti dei monitoraggi effettuati presso le scuole per rilevare i loro fabbisogni.

(la stessa della Santoro) Francesco Sinopoli, scritto a fine giugno, ma non arriva a quelli usati da sindacati come l’USB o i Cobas. Il punto è che nella contabilità delle scuole statali il finanziamento pubblico svolge un ruolo sempre più marginale, o quantomeno la sua importanza varia molto da istituto a istituto. Nel bilancio del 2019 del liceo Mamiani di Roma, in centro, i finanziamenti di origine privata (includendo le spese per viaggi d’Istruzione et similia, oltre ai contributi volontari delle famiglie) ammontano a 100 mila euro contro i circa 70 mila complessivi di fondi pubblici tra Stato, Regione e enti locali. Ma ci sono anche scuole periferiche come il Majorana di Roma che, da quanto ci ha confermato la preside Federica Consolini e come risulta dai loro bilanci, contano esclusivamente sui fondi arrivati dagli USR.

“Nel bilancio del 2019 del liceo Mamiani di Roma i finanziamenti di origine privata ammontano a 100 mila euro contro i circa 70 mila complessivi di fondi pubblici.”

Scomodo

Secondo Giuseppe Grazioli, Dirigente sindacale di UilScuola, “i fondi ministeriali finanziati per il Covid-19 per la didattica sono insufficienti. Ogni istituto si deve basare sui propri fondi per risolvere questa problematica e questo incrementa la discrepanza tra scuole di periferia e non, già presente prima della pandemia”, aggiungendo inoltre che l’opacità nella gestione dei fondi da parte degli USR sembrerebbe risalire a prima del Covid-19. Sono toni più polemici e caustici rispetto alle osservazioni sul piano di rientro di settembre destinato al Miur del Segretario generale della FLC CGIL

Ovviamente le diverse vertenze sindacali oltre che i finanziamenti riguardano la mancanza di assunzioni in organico dei lavoratori della scuola, problema enorme della quotidianità scolastica italiana e risalente a ben prima del Covid-19, ma che ora sta raggiungendo il suo culmine. La rappresentante d’Istituto del Falcone Righi, liceo di Corsico, provincia di Milano, dichiara che i docenti stanno arrivando con estremo ritardo. L’orario per le classi non è definitivo sia per mancanza di professori, sia per mancanza del materiale ordinato - la preside aveva fatto un grande investimento in pc, tablet e ripetitori di linea con l’idea di eliminare completamente la carta, in quanto possibile veicolo per il virus. Attualmente niente del materiale richiesto viene utilizzato dagli alunni: i tablet sono arrivati ma sono inutilizzabili perché sprovvisti di connessione internet. 19


In questo caso la condizione non è troppo diversa negli istituti teoricamente più avvantaggiati; oltre al fondamentale discorso sui finanziamenti pubblici e privati e il fatto che negli istituti “di serie B” le ore in presenza siano molte di meno, le mancanze sono pressoché stesse: se al Falcone Righi di Corsico i banchi monoposto sono arrivati a metà ottobre, le date sono le stesse anche al Volta, in zona Buenos Aires a Milano come al Virgilio di Roma. Se però da un lato la mancanza di docenti e materiale nel caso della pandemia si è applicato più o meno indiscriminatamente su tutti gli istituti, dall’altro lato esistono grandi differenze nella qualità degli insegnamenti anche da prima del virus. In un rapporto dell’Ocse di giugno si nota, a grandi linee, che le qualificazioni degli insegnanti delle scuole di fascia socio economica più bassa sono minori di quelle degli istituti di fascia superiore. I dati più rilevanti del rapporto che riguardano l’Italia descrivono come nelle scuole superiori più svantaggiate gli insegnanti ad avere un’abilitazione sono l’83%, contro il 97% degli istituti più privilegiati. La matassa di problemi formatasi che ostacola la garanzia orizzontale del diritto allo studio è estremamente difficile da sciogliere, le posizioni oscillano di poco nell’individuare il Ministero come responsabile assoluto della situazione. I presidi si sono ritrovati sulla stessa barca di docenti, studenti e personale Ata. Nel frattempo fioccano scioperi e nelle scuole assemblee delle RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria, organo sindacale di ogni scuola) dove vengono lam20

entati a gran voce il mancato distanziamento e l’insufficienza dei provvedimenti presi per un rientro in sicurezza, fino alle problematiche più sistemiche e profonde come quello delle mancate assunzioni e dei posti di ruolo.

Tra una mancata sorveglianza istituzionale dell’autonomia scolastica, una forte opacità nella gestione fondi e una grossa carenza di un organico già di per sé ineguale, i problemi strutturali dell’istruzione italiana stanno venendo alla luce. Non c’è spazio per la scuola Tra i diversi problemi della scuola pubblica portati alla luce dalla pandemia di Sars-CoV-2, emerge quello dell’edilizia scolastica. La necessità del distanziamento fisico tra il personale scolastico e gli studenti ha esasperato il preesistente problema della mancanza di spazi sicuri, sufficientemente capienti e flessibili per rispondere alle necessità in continua evoluzione della scuola. Lo Stato ha stanziato diverse centinaia di milioni di euro per la ripresa della didattica in presenza, oltre a 30 milioni dedicati, nello specifico, all’edilizia.

In molti casi, tuttavia, i fondi a disposizione si sono dimostrati insufficienti per coprire le necessità dei circa 40.000 edifici scolastici distribuiti sul territorio italiano. Inoltre, non solo le scuole non hanno ricevuto sufficiente materiale e sufficienti finanziamenti, ma non sono state chiarite, in diversi casi, le modalità e le tempistiche di accesso agli stessi. Di conseguenza, spiega Anna Maria Santoro, molte scuole non sono nemmeno state in grado di organizzarsi col quartiere per un eventuale utilizzo di spazi esterni all’edificio scolastico. L’evidente incapacità delle strutture scolastiche di far fronte alla flessibilità richiesta dalla situazione emergenziale riporta l’attenzione sulla necessità di un ripensamento radicale dell’edilizia scolastica. A gennaio 2020, la Fondazione Agnelli ha pubblicato un Rapporto sull’edilizia scolastica in cui vengono messe a fuoco alcune tra le principali problematiche degli edifici scolastici in termini di sostenibilità, sicurezza e flessibilità della didattica. Secondo il rapporto, l’8,6% degli edifici scolastici italiani presenta problemi strutturali rilevanti, quali la compromissione delle strutture portanti, dei solai o delle coperture. Come ci racconta la rappresentante d’istituto del Falcone Righi di Corsico “da sempre l’istituto ha dovuto gestire grossi problemi legati all’edilizia: sono stati frequenti i casi di aule e palestre inagibili a causa di alluvioni, grandini e infiltrazioni d’acqua”. Ai problemi strutturali dell’edilizia scolastica si aggiunge la scarsa attenzione alla sostenibilità: una bassa percentuale, sulla totalità Scomodo


degli edifici scolastici, presenta soluzioni sostenibili quali doppi vetri, impianti termici a zone, pannelli solari, isolamento delle coperture e delle pareti esterne. Il rapporto Agnelli sottolinea, d’altra parte, come un investimento sulla sostenibilità permetterebbe ingenti risparmi sul lungo termine. Inoltre, un intervento di efficientamento energetico non sarebbe solo utile dal punto di vista della sostenibilità e del contenimento dei costi, ma anche dal punto di vista dell’educazione alla sostenibilità. Secondo Alessandro Rapezzi, segretario nazionale della FLC CGIL, un intervento di questo tipo “significherebbe infatti non solo edifici più belli e dove si sta meglio, ma anche la creazione di un modello di educazione alla sostenibilità per gli studenti, che potranno riprodurre questi interventi nelle abitazioni private”. Infine, nello stesso rapporto, si sottolinea che le strutture scolastiche sono pensate sempre e solo in termini di didattica trasmissiva: il modello delle lezioni frontali continua così a imporsi su modelli innovativi e sperimentali che siano invece in grado di promuovere la partecipazione e l’interazione tra gli alunni. Modelli di didattica differenti richiedono infatti differenti strutture, dove l’organizzazione dello spazio sia funzionale al metodo didattico. Secondo la Fondazione Agnelli, un intervento di ristrutturazione e riqualificazione degli edifici scolastici esistenti, orientato sulle linee dell’innovazione didattica, della sicurezza e della sostenibilità, richiederebbe un investimento enorme, pari a circa 200 miliardi di euro, ovvero l’11% del Pil. Scomodo

Le attuali linee di finanziamento ministeriali per l’edilizia scolastica non si avvicinano neanche lontanamente a queste cifre. I problemi, tuttavia, non si limitano alla quantità dei fondi a disposizione, ma implicano anche la qualità dei canali attraverso cui le scuole accedono a questi fondi. Infatti, ci spiega Alessandro Rapezzi, un intervento sull’edilizia implica la messa in moto di enti esterni alla scuola, che intervengono tramite gare d’appalto. A ricevere il fondo non sono infatti direttamente le scuole, ma gli enti che realizzano il progetto. Per mediare tra l’accesso ai fondi, gli enti e le scuole, sono necessari uffici tecnici competenti, di cui spesso le scuole, in particolare nei comuni più piccoli, non dispongono.

Questo causa complicazioni e rallentamenti, fino al rischio, spiega Rapezzi, che l’istituto finisca in tribunale per il ricorso delle ditte che perdono l’appalto, causando un ulteriore dispersione dei fondi a disposizione. Il rischio è quindi che l’incompetenza tecnica e burocratica

renda le tempistiche talmente lunghe da portare a una perdita del fondo inizialmente a disposizione e, di conseguenza, a un progetto che non arriva mai a termine. Proprio per risolvere queste problematiche, la FLC chiede da anni una task force di tecnici del ministero, economisti, ingegneri e architetti che sia in grado di supportare gli enti locali nel percorso di intervento sull’edilizia scolastica. “Una sorta di struttura da protezione civile”, la definisce Rapezzi, “per garantire la correttezza dei percorsi e la qualità delle procedure messe in campo”. Dietro all’esigenza di spazi più capienti e flessibili, messa in luce dall’emergenza sanitaria, c’è quindi tutta una rete di carenze strutturali nell’edilizia scolastica, che va da problematiche riguardanti la sicurezza, la sostenibilità e la flessibilità didattica, fino alla mancanza non solo di fondi, ma anche di canali adeguati a permetterne l’utilizzo concreto. A fianco al bisogno di un ingente investimento volto alla ristrutturazione profonda dell’edilizia scolastica, si pone quindi la necessità di una messa in chiaro, coerente e programmatica, della strumentazione tecnica e organizzativa attraverso cui passa l’accesso ai fondi statali. Gli ultimi banchi Infine, il rientro a scuola sta anche mettendo in evidenza una disattenzione cronica nei confronti di alcune fasce di studenti particolarmente fragili. Si tratta principalmente di due categorie: gli studenti disabili e gli studenti non italiani o di seconda generazione. Per quanto riguarda la prima categoria, secondo un dossier 21


di “Tuttoscuola” quest’anno il 59% degli studenti disabili non ha lo stesso insegnante di sostegno dell’anno precedente: un evento che può rappresentare un vero e proprio shock nella loro vita. Basta però vedere i dati degli anni precedenti per notare come di fatto si tratti di un problema strutturale della scuola italiana, che con la pandemia è stato solamente ampliato nei suoi effetti. L’indagine sostenuta dall’Istat nell’a.s. 2017/2018, Inserimento degli alunni con sostegno nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, spiega che il 41% degli alunni ha cambiato insegnante rispetto all’anno precedente mentre il 12% lo ha cambiato nel corso dell’anno scolastico. Anche “Tuttoscuola” in un’indagine del 2017 presentava un dato simile, ossia il 43%. A questo si aggiunge inoltre un forte problema nel grado di specializzazione dei docenti di sostegno. Nel già citato lavoro dell’Istat si evidenzia, infatti, che il 36% degli insegnanti di sostegno sia privo di un titolo specializzante e pertanto selezionato dalle liste curriculari, visto che la graduatoria degli insegnanti specializzati per il sostegno non è sufficiente a soddisfare la domanda. La relazione sottolinea che gli insegnanti di sostegno siano insufficienti a fronte del numero di domande presentate. In questa maniera viene pregiudicato il diritto allo studio degli alunni disabili, per i quali sono sempre più urgenti delle misure che possano raddrizzare l’ago della bilancia nel disequilibrio andatosi a creare fra il numero di alunni bisognosi di sostegno e quello degli insegnanti pronti ad offrirlo.

La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha bandito a tal proposito, per il mese di ottobre, un concorso straordinario per insegnanti di sostegno attraverso una prova scritta, riguardante per il momento solamente le scuole secondarie. Tuttavia, nuovamente i candidati si rivelano essere meno dei posti a disposizione: secondo i numeri forniti da un articolo di “Tuttoscuola” dell’8 Ottobre, la percentuale di coloro che effettivamente sosterranno la prova è del 23% dei posti disponibili in Emilia Romagna e appena del 30% nel Lazio. Pertanto, la presenza di docenti non specializzati si intreccia strettamente con la mancanza dei candidati al concorso, con un fattore che condiziona l’altro in un circolo vizioso.

dati suggeriscono chiaramente che nel vicinissimo avvenire decine di migliaia di studenti disabili saranno costretti a cambiare più di un’insegnante di sostegno durante l’anno. In caso di un nuovo lockdown non è da escludere che gli alunni disabili siano sottoposti nuovamente a una didattica a distanza che per loro in particolare è stata ancora più disastrosa, in quanto necessitano di un supporto continuativo sia dell’insegnante di sostegno che, eventualmente, di un assistente per la comunicazione. Per quanto riguarda la seconda categoria, è chiaro che gli studenti non italiani o figli di genitori non italiani siano stati i più danneggiati dalla didattica a distanza. Parlando con Raffaela, una docente di in un Istituto comprensivo statale del VI municipio di Roma, si apprende come la didattica a distanza sia risultata incompatibile con diverse realtà: “Ci trovavamo frequentemente a dover far lezioni ad orari ben diversi da quelli soliti, una buona fetta della popolazione scolastica non possedendo un dispositivo per poter partecipare alle attività della didattica a distanza, doveva attendere il genitore di ritorno dal lavoro per poter usufruire del suo smartphone (quando si era fortunati!). Studenti perlopiù appartenenti a nuclei familiari non italiani, in una condizione economica svantaggiata”. Molto spesso, trattandosi di bambini di una scuola elementare, i disagi non risultavano essere solamente da un punto di vista didattico, ma proprio linguistico: “A settembre ci è stato solamente confermato quello che stavamo

“Nell’a.s. 2017-2018, il 41% degli alunni ha cambiato insegnante di sostegno rispetto all’anno precedente mentre il 12% lo ha cambiato nel corso dell’anno scolastico.”

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Un altro forte rischio in quest’ottica sono i ricorsi, che quest’anno probabilmente aumenteranno anche di numero considerando tutti coloro che non dovessero partecipare alla prova scritta per via dell’isolamento per il Covid-19. Rispetto ai 56mila di posti assegnati a supplenti lo scorso anno scolastico, ad oggi si rischia di avere tra i 70mila e gli 80mila docenti di sostegno precari: questi

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riscontrando nei mesi di lockdown, ovvero che in quei bambini stranieri che già non possedevano una padronanza linguistica radicata, dopo il lungo periodo lontano dalle scuole e passato a stretto contatto con il nucleo familiare, si era quasi totalmente perduto ogni precedente traguardo linguistico, rendendo quasi impossibile la comunicazione interpersonale”. Si tratta in realtà di una problematica già riconosciuta anche a livello istituzionale. Il 3 Luglio l’allora Sottosegretario all’Istruzione Giuseppe De Cristofaro - oggi Sottosegretario del Ministero dell’Università - ha sottolineato in una dichiarazione a “Tuttoscuola” la necessità di “misure compensative, a partire dai mesi estivi e dai giorni che precedono l’avvio dell’anno scolastico, per quanti sono stati penalizzati dalla didattica a distanza. E tra questi ci sono i figli di immigrati, i bambini rom, gli studenti nei Centri di istruzione per adulti”. Risulta molto difficile, almeno utilizzando i regolari motori di ricerca, trovare notizie sulla traduzione effettiva di tale dichiarazione di intenti. Nel momento in cui si scrive, il Ministero dell’Istruzione non ha ancora risposto alla richiesta di informazioni fatta dalla redazione. Ci sono però alcuni elementi che mostrano appieno come anche la categoria degli studenti meno integrati sia effettivamente trascurata da molti anni ormai. Per far fronte alle criticità degli istituti con un alto tasso di soggetti stranieri, lo Stato provvede da circa 15 anni allo stanziamento presso gli USR dei “fondi per le aree a rischio e a forte processo immigratorio”.

Un budget che ha come obiettivo quello di “affrontare in maniera sinergica il problema della dispersione scolastica e dell’integrazione, nonché promuovere attività di sensibilizzazione, in particolare per gli stranieri”- dal sito del Miur.

Tutto questo mostra, di fatto, come la scarsa attenzione nei confronti di fasce più fragili della popolazione scolastica non dipenda tanto da una condizione emergenziale che si sta vivendo. Piuttosto, è il frutto di dimenticanze strutturali del sistema scolastico italiano. Il binomio scuola-pandemia al momento sembra piuttosto utopistico, ma questa risultante è solo la punta maggiormente visibile dell’iceberg costituito dai problemi strutturali del sistema di istruzione pubblica. Senza dubbio i problemi legati all’edilizia scolastica, alla distribuzione eterogenea dei fondi privati e le criticità legate al loro investimento sono tra le questioni più spinose che la scuola si trova ad affrontare da tempo e che necessiterebbero di una risposta composita a prescindere dall’emergenza del momento. La geografia della disuguaglianza che emerge adesso, anche se suscettibile di mutazioni e trasformazioni, restituisce un’immagine che non può più esaurirsi nella classica polarizzazione tra centro e periferia - per quanto si tratti di una narrazione ancora in grado per tantissimi versi di essere esplicativa - ma che in maniera sempre più pervasiva investe i territori seguendo logiche più complesse e difficili da sciogliere.

“La scarsa attenzione nei confronti di fasce più fragili della popolazione scolastica non dipende tanto è il frutto di dimenticanze strutturali del sistema scolastico italiano.”

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Il fondo ha costituito per lungo tempo un’importante risorsa per quegli istituti che si trovano in luoghi disagiati e con un’alta percentuale di popolazione scolastica straniera, con esso venivano finanziati i corsi di lingua italiana per gli studenti non italiani e i loro nuclei familiari ad esempio, o si portavano avanti importanti progetti di integrazione e sensibilizzazione. L’entità dello stanziamento era inizialmente erogata in base alla validità del progetto presentato dall’Istituto, e soprattutto dalla percentuale di alunni stranieri presenti nello stesso. Ad ogni modo, negli ultimi anni, tale fondo non è stato più erogato con gli stessi criteri, ma elargito a tutte le scuole in base alla numerosità della loro popolazione, non tenendo più conto della presenza degli studenti stranieri o della presentazione di alcun progetto, andando a penalizzare quelle scuole che quotidianamente affrontano situazioni più difficili di altre.

di Ismaele Calaciura, Anastasiya Myasoyedova, Carolina Pisapia e Lorenzo Sagnimeni Hanno collaborato Costanza Hippoliti, Livia Vanella, Eleonora Varriale

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Democratici green: il futuro di un Paese liberale --------------------------------------------------------------------------------------------------------Il Climate Plan e i gruppi di interesse sono la prima vera sfida di Biden da (possibile) Presidente

Il sistema istituzionale e legislativo americano è un esempio molto calzante da prendere in analisi per osservare i limiti di un sistema democratico liberale nella sua partecipazione alla gestione di problemi sovranazionali. Gli Stati Uniti d'America rappresentano la prima potenza economica democratica al mondo, pertanto risulta particolarmente rilevante fotografare l'influenza che i gruppi di interesse esercitano sulla definizione delle agende di policy rispetto a temi di interesse globale. Lo è ulteriormente se si pensa al ruolo guida che l'America del Nord ha ricoperto storicamente nel processo di coordinamento internazionale per l'attuazione di grandi trasformazioni a livello mondiale, come quelle richieste dalle sfide dettate dal cambiamento climatico. La sostenibilità ambientale, prima soltanto di facciata e poi effettiva nei piani su medio-lungo periodo, compare in tutte le agende governative e aziendali come sfida prioritaria. L'attuazione dei piani previsti su carta, tuttavia, incontra spesso uno scoglio nella fase attuativa, quando richiede una modifica di alcuni rapporti nel tessuto economico-finanziario. Inoltre, nel confrontare il sistema di lobby americano con quello nostrano, emergono alcuni aspetti che portano a rivalutare sotto svariati punti di vista il rapporto tra soldi e politica negli USA, quantomeno relativamente al caso italiano. 24

Scomodo


In Italia, infatti, la discussione sul processo decisionale e su chi influenza la politica ha innestato la sovrapposizione, nell’immaginario collettivo, dei concetti di lobbying e di corruzione. Mentre negli USA il lobbying è più influente ed esercitato in maniera più trasparente, in Italia nonostante l'attività dei gruppi di interesse abbia un impatto inferiore, ha tuttavia anche un minor grado di trasparenza e di conseguenza una maggiore possibilità di azione. Si tratta, ad ogni modo, di un processo articolato e molti sono gli attori portatori di interessi particolari che partecipano ai processi decisionali. Per valutare l'attuabilità di un piano di politiche, come il Climate Plan proposto dai democratici americani, è, infatti, necessario analizzare l'arena di attori che lo pensa e lo dovrà applicare.

un periodo troppo vicino alle elezioni, ma Citizens United si difese rivendicando la propria libertà d’espressione. Con cinque voti favorevoli su nove, Citizens United vinse: la sentenza, redatta dal giudice Anthony Kennedy, affermava sulla base del Primo emendamento che il governo non potesse limitare le donazioni politiche di aziende e sindacati se non concordate con il candidato stesso e indipendenti. In un sistema di common law, come quello statunitense, un precedente come questo ha di fatto decretato che da allora corporazioni e individui si trovino sullo stesso piano giuridico.

politico che dovrebbe rappresentarli, portando una fetta sempre più ampia di cittadini, vicini soprattutto al partito democratico, ad esprimersi in favore di un ribaltamento della sentenza. Per finanziare le campagne di un certo candidato politico, perseguendo gli interessi di un settore o per motivi ideologici, i cittadini statunitensi possono riunirsi in Political Action Committees (PACs). A livello federale negli Stati Uniti per PAC si intende un’organizzazione che riceve o spende più di 1000 dollari al fine di influenzare un’elezione politica. Ogni PAC deve rendere pubblici i nomi dei donatori e può contribuire alla singola campagna di un candidato per un massimale che varia tra i 2.600 e 5.000 dollari a seconda della categoria. Non sono invece sottoposte alle stesse regole le SuperPACs, che si distinguono dalle PAC tradizionali in quanto possono supportare le campagne elettorali solo indirettamente e ricevere contributi illimitati da cittadini, sindacati, PACs e in particolare aziende. Nella realtà, il meccanismo si traduce in massicce campagne di disinformazione, denigrazione di avversari e finanziamenti ad altre PACs. Nel 2016, ad esempio, ha avuto molta rilevanza mediatica la campagna anti-Clinton diretta da Roger Stone, portata avanti sulla carta senza il coordinamento con alcun candidato. Con gli anni le SuperPACs sono riuscite sempre più ad aggirare i limiti imposti dalle leggi, arrivando persino a pagare i viaggi dei candidati. Uno dei casi più eclatanti riguarda la campagna elettorale del politico Ted Cruz per le

“L'attuazione dei piani per la sostenibilità ambientale previsti su carta incontra spesso uno scoglio nella fase attuativa, quando richiede una modifica di alcuni rapporti nel tessuto economico-finanziario.”

In nome della libertà, a scapito della trasparenza Una delle grandi domande alla base del delicato equilibrio tra Stato democratico ed economia liberale, è se sia possibile mettere sullo stesso piano individui e aziende in nome della libertà. La risposta negli Stati Uniti è sì, e si è rivelata un’ottima strategia per confermare l'eccezionalismo americano. La sentenza chiave nella formulazione di una risposta univoca da parte della legge fu Citizens United vs Federal Election Commission del 2010. Il caso era incentrato sulla possibilità che Citizens United, un'organizzazione no-profit, potesse o meno promuovere il suo film Hillary: The Movie (2008). Il governo sosteneva si trattasse di pubblicità inopportuna in Scomodo

La sentenza, quindi, consente a individui, imprese e altri gruppi di persone abbienti di utilizzare il denaro per influenzare le elezioni con più libertà di prima e oggi, seppur i finanziamenti costituiscano il grosso delle spese elettorali, le spese indipendenti sono cresciute esponenzialmente. Questa evoluzione ha generato nel tempo una crescente sfiducia degli elettori nel sistema

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primarie repubblicane del 2015, quando il candidato ha postato numerosi video di propaganda sul proprio canale YouTube in modo che le SuperPACs potessero pubblicizzarli senza formalmente coordinarsi con lui. Un’altra controversia che ruota attorno alle SuperPACs concerne i cosiddetti dark money, ovvero le somme di denaro non rintracciabili, che possono persino anche provenire da una persona non americana. Per supportare un candidato da dietro le quinte si può infatti, attraverso una società o azienda, finanziare un ente no-profit, che a sua volta finanzierà una SuperPAC. Tutto questo è possibile poiché le organizzazioni no-profit non sono legalmente obbligate a divulgare i nomi dei propri donatori. Le SuperPACs hanno un grande peso nelle elezioni: basti pensare che nelle presidenziali del 2016 hanno raccolto il 30% dei finanziamenti totali alle campagne, 643 milioni su 2.14 miliardi di dollari, stando ai dati resi pubblici da OpenSecrets . Negli ultimi anni però molti politici stanno iniziando a rifiutare il loro aiuto per le critiche mosse dai cittadini sulla bassa trasparenza delle organizzazioni. Per questo, 9 candidati su 24 alle primarie democratiche hanno dichiarato che avrebbero rifiutato il loro supporto. Tra questi Biden, che, però, trovandosi in svantaggio, ha fatto marcia indietro verso la fine di ottobre. Quali impegni da parte dei candidati? Da anni la maggior parte dell’elettorato statunitense di tutto lo spettro politico ha richiesto con forza una riduzione, 26

o perlomeno una limitazione, dell’influenza dei grandi donatori e delle PAC sull’agenda politica dei candidati. Questa richiesta è stata accolta nelle primarie di quest’anno dai candidati democratici, che hanno inserito come punto fondamentale della loro agenda politica alcuni pledges (impegni) riguardanti i finanziamenti della loro campagna elettorale. Ma per valutare quanto e da chi vengano davvero rispettati questi impegni, è necessario considerare che diversi sono i modi per aggirarli.

Nel corso degli anni singole personalità politiche hanno contribuito, insieme all'effetto “casa di vetro” creato dalla rivoluzione Open Data dei primi anni duemila, a rendere il sistema di interazione tra gruppi di interesse e governo relativamente piú trasparente. In questo ambito l'amministrazione Obama ha portato a termine delle riforme molto incisive: inserendo per esempio un registro pubblico della Casa Bianca in cui venivano segnate tutte le persone che prendevano appuntamento per avere incontri con il Presidente.

Al contrario in Italia la riforma più consistente in questa direzione è costituita dall'istituzione nel marzo 2017 del primo registro di rappresentanti di interesse del Parlamento, ma non di quelli in Senato. Entro il 31 dicembre di ogni anno, gli iscritti a tale registro devono presentare alla Camera una relazione sull’attività, obiettivi perseguiti e soggetti di interesse (art.4 del Regolamento delle lobby alla Camera). Il problema è che molte strutture, alcune di rilievo, sembrano non aver mai consegnato nessun tipo di relazione. Nella pratica dunque, realtà come Cattaneo&Zanetto o la Comin&Partners, due delle società di lobbying più grandi in Italia, non hanno reso disponibili le loro relazioni sull’attività del 2017. Uno dei principali impegni è il rifiuto di fondi provenienti dalle cosiddette “corporate PACs”, rivendicato già da più di 50 candidati del Congresso nel 2018. L'intento di questa rivendicazione è chiaro: tenere fuori dalla politica gli interessi di gruppi finanziari e delle industrie. Tuttavia il modo per aggirarlo è semplice: è sufficiente sfruttare le PAC delle trade associations, ovvero gruppi privati formati da un insieme di attività legate alla stessa branca industriale; per esempio l’American Petroleum Institute rappresenta le imprese legate alle estrazioni petrolifere e la Financial Services Roundtables le banche. Secondo la definizione ufficiale riportata dalla Federal Election Commission (FEC), le PAC delle trade associations e quelle delle corporations sono diverse, anche se entrambe rispondono ai medesimi interessi. Scomodo


A sfruttare questa ambiguità è stata la democratica Lori Trahan, che è stata eletta nel novembre del 2018 come Membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Massachusetts. “The Intercept” riporta che nella settimana prima del giorno delle elezioni la Trahan ha ricevuto 1.000 dollari dalla Food Marketing Industry, che rappresenta colossi come Walmart, Safeway e Coca-Cola, e altri 1.000 dollari dalla American Hotel and Lodging Associations, senza contare ulteriori finanziamenti ricevuti nel dicembre dello stesso anno. Un'altra rivendicazione forte è il rifiuto di denaro proveniente da lobbisti federali che, tramite donazioni, influenzano l’agenda politica del candidato a favore degli interessi del proprio cliente. I democratici più progressisti, seguiti in parte dai moderati, rivendicano spesso questa scelta come simbolo della volontà di riformare il sistema politico americano. Tuttavia, anche in questo caso, le leggi che regolano l’attività lobbistica sono piene di “scappatoie” (in gergo loopholes) che permettono a molti dirigenti aziendali che di fatto controllano parte del mercato lobbistico di non essere ufficialmente registrati come tali, come sarebbe invece teoricamente previsto dal Lobbying Disclosure Act (LDA). Ciò ha reso possibili episodi come quello che riguarda la democratica Cindy Axne, che ha organizzato una raccolta fondi negli uffici della Cornerstone Government Affairs, famosa agenzia lobbistica che rappresenta colossi come Nike e United Airlines. In questo quadro i democratici più progressisti, che poi sono gli stessi che hanno perScomodo

so le primarie poiché tacciati di essere troppo radicali, sono coloro che più si oppongono allo strapotere delle corporations e sembrano anche i più rispettosi degli impegni assunti in materia di finanziamenti. È il caso di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, che hanno centrato la loro campagna elettorale sui finanziamenti degli small donors, letteralmente piccoli donatori, termine con cui ci si riferisce a donatori individuali che fanno donazioni al di sotto dei 200 dollari.

La CNN riporta come Sanders nelle prime ventiquattro ore successive al lancio della sua campagna elettorale sia riuscito a raccogliere ben 5.925.771 dollari da 223.047 donatori e i dati di ActBlue suggeriscono che la Warren abbia raccolto circa 299.000 dollari sulla sua piattaforma online dedicata al fundraising. Democratici green e oro nero La compenetrazione tra apparato economico e istituzioni politiche americane avviene ad un livello così profondo che gli osservatori hanno coniato

un termine per descrivere il fenomeno: revolving doors, indica un movimento continuo di persone tra attività di varia natura, ad esempio da quella di policy makers o funzionari per enti di regolamentazione a quella di lobbisti, esercitando al contempo più ruoli o passando da un comparto all’altro. Analizzando la scelta delle personalità presenti nell’equipe di Candidati e Presidenti, risulta evidente che il ricambio tra politici e privati sia in aumento di anno in anno a Washington. Per quello che concerne il candidato alla presidenza democratico, è inevitabile commentare la sua scelta dell’Advisor presidenziale: Ken Salazar. I Senior Advisor del Presidente sono dei consiglieri presidenziali di alto rango che hanno un grande potere di manovra nella parte piú esecutiva del policy making. Salazar ha ricoperto la carica di segretario degli interni del primo mandato dell’amministrazione Obama e durante quel periodo, mentre portava a termine il suo incarico, si è affermato come una personalità molto influente nell'ambito dell'industria petrolifera, evitando però di esporsi sulla provenienza dei fondi che riceveva, molti dei quali provenivano proprio da lobby del settore Oil & Gas. Francesco Costa, vicedirettore del “Post” e ad esperto di politica americana, intervistato dalla redazione di Scomodo argomenta come "la nomina di Salazar da parte di Biden sia stata probabilmente influenzata più dal loro rapporto di fiducia personale costruito in anni di servizio pubblico fianco a fianco più che per la sua scomoda posizione di rappresentante degli interessi del petrolio." 27


Questo non esclude una possibile ingerenza delle lobby nell'agenda politica con lui come tramite, ma ad oggi il suo ruolo nella costruzione della campagna elettorale è legato principalmente alle attività di convogliamento e inclusione della comunità latino americana. Attraverso donazioni individuali, PACs e SuperPACs, le lobby petrolifere e del gas naturale ogni anno influenzano massivamente la politica americana. Secondo uno studio pubblicato nel “Proceedings of the National Academy of Sciences”, solo nel 2018 le aziende del settore hanno versato più di 84 milioni di dollari nelle campagne elettorali dei candidati al Congresso. Mentre alle presidenziali del 2012, il divario tra i due partiti principali americani era netto - il repubblicano Romney aveva ricevuto più di 7 milioni di dollari dal settore e Obama si era fermato al milione - durante le elezioni del 2016 i repubblicani hanno visto un calo di finanziamenti dalle Oil & Gas, dato dall’ostilità al libero mercato del petrolio e dall’ imprevedibilità di Trump, che si trovava inoltre in svantaggio nei sondaggi. L’insieme di questi fattori ha quindi spinto il settore petrolifero a supportare entrambi i candidati, con rispettivamente 1 e 1,2 milioni di dollari per Clinton e Trump. Secondo la ricerca Hillary Clinton’s Connections to the Oil & Gas Industry del 2016 di Greenpeace, inoltre, le Oil & Gas avrebbero finanziato numerose SuperPACs pro-Clinton, tra cui Priorities Action USA con più di 4 milioni di dollari. 28

I candidati alle attuali elezioni presidenziali hanno dovuto affrontare un’opinione pubblica diversa, più impegnata nella questione ambientale rispetto agli anni precedenti. Il 2020 è visto da molti come l’ultima occasione per agire efficacemente contro il cambiamento climatico. Per questo, molte SuperPACs green si sono attivate per influire sulle elezioni presidenziali. La LCV Victory Fund, ad esempio, ha speso più di 3 milioni di dollari a favore di Biden e quasi 10 per campagne contro Trump.

“Attraverso donazioni individuali, PACs e SuperPACs, le lobby petrolifere e del gas naturale ogni anno influenzano massivamente la politica americana.” Allo stesso tempo però, quasi linea con gli anni precedenti, dall’inizio del 2020 Trump ha ricevuto dalle oil&gas più di 1,6 milioni di dollari. Molte aziende del settore stanno inoltre contribuendo indirettamente alla sua campagna attraverso SuperPACs: un caso particolarmente eclatante è stato quello del magnate del petrolio Kelcy Warren, che ha donato 10 milioni di dollari alla SuperPAC America First Action.

Climate Plan all'americana Non è una novità che il candidato repubblicano accetti le donazioni delle Oil & Gas; stupisce piuttosto che anche Biden, seppur in minor parte, si appoggi a questi settori. Nel giugno 2019 il candidato aveva infatti firmato il No Fossil Fuel Money, con cui si impegnava a non accettare più soldi dalle industrie petrolifera, del gas e del carbone. Dall’inizio del 2020, Biden ha accettato quasi 800 mila dollari provenienti dal settore. I finanziamenti ottenuti durante le campagne avvengono all'interno di un rapporto di mutuo scambio tra i due attori coinvolti: il politico coinvolto offre dunque una promessa di attenzione particolare alla tutela degli interessi di chi lo sovvenziona. I piani che Biden progetta di attuare in ambito climatico sono molto ambiziosi e lui dovrà fare in modo di conciliare gli interessi di tutte le categorie coinvolte, soprattutto di chi lo ha finanziato. Alla tenace e sconsiderata negazione della crisi climatica da parte del proprio avversario, Biden ha sempre opposto una campagna che contenesse tra i suoi punti principali un programma di salvaguardia dell’ambiente. Il piano da due trilioni di dollari, presentato a luglio di quest’anno, è un punto di incontro tra l’ideologia conservativa dei tradizionali elettori di Biden e il Green New Deal di stampo europeo proposto dallo sconfitto Sanders, rivolto ad una sinistra più radicale e verde. Non si può tuttavia parlare di un piano completo e verde a tutto tondo, quanto piuttosto di una linea d’azione che ostenta una netta presa di posizione, pur sorvolando e lasciando scoperti alcuni punti fondamentali. Scomodo


Tra le tecnologie che secondo il piano dovrebbero aiutare a raggiungere il 100% di energia pulita entro la data stabilita, sono inclusi sistemi CCS (Carbon Capture and Storage) - ideati per la cattura di emissioni di CO2 così come tecnologie nucleari. Il piano ha naturalmente raccolto il favore di alcuni dirigenti dell'economia fossile, dato che investire nella cattura e nel sequestro del carbonio permetterebbe all’industria di continuare a bruciare combustibili fossili. L’indulgenza di tali misure sembra rendere ancora più improbabile il proposito finale del piano, soprattutto se confrontato all’analogo europeo, che si è posto la stessa scadenza. Questo accade poiché una differenza sostanziale tra la politica americana e quella europea è costituita dalla possibilità di un Presidente, con maggioranza a lui favorevole in Senato e alla Camera, di stanziare una quantità di fondi impensabile per il sistema economico europeo, sempre attento alle ricadute che una spesa troppo elevata potrebbe avere sulla posizione valutaria dell'euro. Il confronto tra un sistema confederale e uno federale è particolarmente pregnante nell'analisi dell'applicazione di un pacchetto di politiche pubbliche comunitario oneroso come quello relativo alla transizione energetica. Gli USA non menzionano quindi attualmente nel loro piano d’azione chi sosterrà i costi di questa transizione, poiché ne sentono meno il bisogno sul piano operativo, ma devono piuttosto rispondere alla necessità di costruire una base di consenso sufficientemente ampia da garantire la maggioranza sopracitata in entrambe le camere.

Questo accade, come ci spiega Riccardo Alcaro responsabile di ricerca dell'Istituto Affari Internazionali, "Poiché il sistema federale americano e il ruolo di moneta rifugio del dollaro permetterebbero a Biden come Presidente di finanziare la transizione energetica attraverso un aumento del debito pubblico senza che questo abbia delle conseguenze pesanti sulla liquidità del dollaro", cosa che invece produrrebbe effetti nefasti sulla posizione valutaria dell'euro se venisse fatto in Europa.

rantire l'autonomia energetica americana oltre che per risollevare interi settori dell'economia ormai in recessione, come quelli dell'acciaio e del carbone". Riccardo Alcaro inoltre ci ricorda però come l'autonomia energetica americana non porterebbe ad un disimpegno così sostanziale nel breve periodo delle forze americane in Medio Oriente, uno degli argomenti più utilizzati a sostegno del fracking dal punto di vista europeo. Il potere che l'elettorato esercita sulle decisioni dei governi americani rispetto a trent'anni fa è però aumentato in maniera esponenziale, liberando, almeno in parte, la politica da un meccanismo di dipendenza economica dalle grandi corporation e ristabilendo un meccanismo del consenso che sia maggiormente in linea con l'ideale democratico su cui si regge il sistema elettorale. Pertanto, questa tendenza conduce da un lato la politica americana ad una crescente radicalizzazione delle opinioni partitiche, necessaria per capitalizzare l'attivazione dei cittadini, e dall’altro alla sempre più frequente presenza in agenda di temi come quello della sostenibilità ambientale, perché supportati da un numero crescente di elettori.

“Il sistema federale e il ruolo di moneta rifugio del dollaro permetterebbero a Biden di finanziare la transizione energetica con l’aumento di debito pubblico senza pesanti conseguenze sulla liquidità del dollaro”

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Allo stesso modo, l'opinione, a prima vista contraddittoria, di Biden riguardo alla pratica del fracking, pratica estrattiva relativamente recente che permette di ricavare gas naturale dalle rocce, è in realtà esemplare del tipo di politica del compromesso che è necessario portare avanti per riuscire a concludere delle coalizioni politiche a largo spettro. Costa sottolinea come "Biden non sia nella condizione di esporsi contro una pratica che si è rivelata salvifica per ga-

di Giulia D'Aleo, Marina Roio, Elena D’Acunto, Eleonora Pizzichelli e Alessandro Mason Hanno collaborato Marta Bernardi e Federico Fiore

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Sorpasso a destra --------------------------------------------------------------------------------------------------------

Mentre la popolarità di Salvini crolla, la Meloni si consolida: si accredita in Europa, cresce nei sondaggi, tiene meglio sui territori. Viaggio all’interno dei rimescolamenti del centrodestra. My name is Giorgia La nomina di Giorgia Meloni a presidente dei Conservatori e riformisti europei (Ecr), oltre ad essere un prestigioso riconoscimento personale, contribuisce a chiarire la collocazione e il peso di Fratelli d’Italia (FdI) nell’attuale centrodestra italiano. Ecr è difatti una delle principali famiglie politiche europee: a partire dalle elezioni del 2019 esprime sessantadue europarlamentari, risultando così il sesto gruppo per numero di deputati a Bruxelles. A seguito dell’abbandono dei Tories inglesi, la principale compagine del gruppo di Ecr è detenuta dal partito populista polacco Diritto e giustizia (PiS), rappresentato da venticinque deputati; segue Fratelli d’Italia con sei e il Partito di estrema destra spagnolo Vox con quattro. Per Carlo Fidanza, capo delegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo intervistato dalla redazione di Scomodo, Ecr si pone idealmente nel mezzo tra un Partito popolare subalterno alla sinistra europea e i “sovranisti sfegatati” che vorrebbero ridurre in brandelli l’Unione, oggi raccolti nel gruppo Identità e democrazia (Id). Il gruppo dei sovranisti più radicali si è formato all’indomani delle elezioni dello scorso anno ed è il quarto più esteso con settantasei parlamentari; comprende, tra gli altri, Lega, Rassemblement national e Alternative für Deutschland. La differenza tra i Conservatori europei e il gruppo di Matteo Salvini, ammette lo stesso Fidanza, non si consuma però su un piano ideologico. 30

Se infatti con il Ppe (famiglia europea in cui ancora sopravvive Forza Italia) le divergenze sono più marcate, Ecr e Id non di rado assumono posizioni simili. Negli scorsi mesi, ad esempio, entrambi i gruppi si sono opposti al taglio di emissioni di CO2 del 60% entro il 2030; allo stesso modo si sono astenuti dall’adottare una risoluzione volta a individuare gli strumenti per finanziare il pacchetto Next generation EU.

“Le differenze tra ECR e ID sono da ricercare nell’intenzione di volersi radicare o meno all’interno delle istituzioni europee.” Una convergenza che si è riproposta anche nelle ultime settimane, in occasione della votazione per riattivare la procedura d’infrazione regolata dall’art., 7 del Trattato dell’Unione Europea e rivolta al governo polacco di Diritto e giustizia. Si tratta di una procedura aperta nel 2017, dopo numerose violazioni dello Stato di diritto in Polonia, ma di fatto paralizzata dal 2018. La risoluzione è passata, ma non certo grazie al voto dei Conservatori e riformisti europei, né tanto meno di quello di Identità e democrazia, entrambi risultati contrari. Le differenze tra i due gruppi sono allora da ricercare altrove e, innanzitutto, nell’intenzione di volersi radicare o meno all’interno delle istituzioni europee.

Il gruppo di Identità e democrazia dietro la propria sigla, ad oggi, non può contare su una struttura organizzata e a Bruxelles appare isolato. Ecr, d’altra parte, può invece vantare una storia più che decennale dentro le istituzioni dell’Unione: fondato nel 2009 dai Conservatori inglesi in polemica con il Ppe, è stato a lungo il terzo gruppo più numeroso dell’emiciclo dopo i Popolari stessi e i Socialdemocratici. Oggi esprime un questore all’interno del bureau di David Sassoli e ha due presidenti nelle Commissioni parlamentari; una parte del gruppo è persino nella maggioranza che ha eletto l’attuale presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen. Attorno a Ecr, inoltre, gravitano numerose fondazioni e think tank legati al mondo conservatore internazionale. Il fiore all’occhiello tra questi è sicuramente New direction, fondazione finanziata nel 2010 da Margaret Thatcher e indicata da un’inchiesta de “L’Espresso” come la principale struttura utilizzata dal partito per attrarre donazioni di gruppi industriali e fondazioni vicine ai partiti conservatori internazionali, in particolare quello statunitense. Questo è un dettaglio che aiuta a capire l’importanza strategica, anche in ottica nazionale, della nomina di Giorgia Meloni. Il gruppo Ecr mantiene infatti da sempre un rapporto privilegiato con il Partito repubblicano a stelle e strisce. E mentre la Lega è ancora vista con sospetto a causa delle simpatie dimostrate verso la Russia, la leader di Fratelli d’Italia da vari anni ricerca contatti sempre più stretti con la galassia statunitense dell’elefantino. Scomodo


Soltanto lo scorso anno ha partecipato a Washington al tradizionale National Prayer’s Breakfeast ed è stata invitata poco dopo alla Conservative Political Action Conference, la convention annuale dei Repubblicani. In quest’occasione Giorgia Meloni è intervenuta sul palco presentandosi come “italiana ed europea”, auspicando la Nascita di una “Europa unita di Stati sovrani”, senza dimenticare ovviamente di ringraziare il gruppo dei Conservatori e riformisti europei. Il capodelegazione Fidanza sottolinea come Fratelli d’Italia, anche in una prospettiva futura di governo, stia dando capitale importanza alle relazioni internazionali per accrescere il proprio peso negoziale in Italia all’interno della coalizione del centrodestra. E in effetti il diverso profilo internazionale di Giorgia Meloni, maggiormente definito rispetto a quello di Matteo Salvini, è suggerito anche dalla diversa partecipazione ad eventi di minore portata, ma a loro modo significativi. A inizio febbraio di quest’anno, la Edmund Burke foundation – nata nel 2019 a due passi dalla Casa Bianca - ha organizzato a Roma la seconda edizione della National Conservatism Conference, un evento che l’anno precedente era riuscito a convogliare a Washington figure chiave della nuova destra come Tucker Carlson, giornalista di Fox News, o John Bolton, consigliere della sicurezza nazionale nominato da Donald Trump. La seconda edizione – intitolata God, Honor, Country: President Ronald Reagan, Pope John Paul II and the Freedom of Nations – ha visto intervenire a Roma anche il presidente ungherese Viktor Orban, Marion Marechal Le Pen (nipote di Marine) e Giorgia Meloni. Era previsto anche un intervento di Matteo Salvini, che però ha preferito sottrarsi all’invito. Secondo “Politico”, l’assenza era giustificata in parte dall’eccessiva presenza di esponenti di Ecr e in parte dall’impossibilità di tenere un discorso in italiano. Scomodo

I panni sporchi si lavano in coalizione Matteo Salvini non è più il capo politico indiscusso del centrodestra. Gli equilibri di potere, tempo fa ben saldi, hanno da poche settimane subito una definitiva scossa che rischia di mettere in discussione il ruolo di tutti i principali attori della coalizione. Il risultato delle regionali in particolare ha messo poi ancor di più sotto una cattiva luce l'attuale leader politico, che sta attirando su di sé, grazie a pronostici non mantenuti e ad uscite eccessivamente goliardiche, una sfiducia generale da parte degli ambienti sia esterni alla coalizione che, soprattutto, interni.

“Vinceremo 7-0. Ci stiamo lavorando”: da Cernobbio, il leader del Carroccio pronosticava così il risultato delle regionali. Ma il risultato prospettato non è arrivato e l'attendibilità di Salvini come capo politico rischia sempre più di sfaldarsi, aggravata da uscite grossolanamente ottimistiche che cominciano a svilire di credibilità il suo reale progetto politico. Se il taglio sovranista stia perdendo il magnetismo che aveva sui suoi elettori non è ancora ben chiaro; ciò che però resta indubbio è l’emorragia di consensi. Secondo i sondaggi elettorali rilasciati lo scor-

so 11 ottobre dall'agenzia Quorum la Lega, il partito che alle europee aveva dominato prendendo il 34,3%, si trova ora, con 0,7 punti persi in quattro mesi, al 25,5%, appena 2,2 punti percentuali sopra il Partito democratico, tuttora secondo partito d'Italia. Ma il partito che più risulta in ascesa in questo momento, sempre secondo quanto riportato da Quorum, è Fratelli d’Italia, che rispetto alle scorse europee registra 10,1 punti percentuali in più. Se si riporta il valore di queste percentuali in termini di popolazione, ci si accorge di come quella che era nella coalizione l’ultima ruota del carro sembra ormai aver iniziato una scalata che molto somiglia a quella salviniana: circa sei milioni di Italiani in un anno hanno cambiato idea sulla credibilità del partito della Meloni. Mentre prende vita una tacita lotta interna, Forza Italia scende ulteriormente al 6,6% (prima 8.8%) confermando una lenta agonia politica che, se non cambierà qualcosa nella direzione del partito, lo vedrà presto sgomitare tra i piccoli partiti che cercano di sopravvivere alle soglie di sbarramento. C’è tuttavia, a margine dei numeri sopra evidenziati, una considerazione da fare: il centrodestra nel suo complesso non sta perdendo elettori, né il centrosinistra ne sta acquisendo di nuovi. Per quanto possa essere rischioso in termini di affidabilità dell’analisi confrontare i dati percentuali di due tipologie di elezioni diverse, possiamo notare come di fatto centrodestra e Pd abbiano perso, stando ai sondaggi odierni comparati con le ultime elezioni europee, la stessa percentuale di elettori: il Pd è passato dal 22% al 21,3% mentre il centrodestra dal 49,5% al 48,5%. Quasi un punto a testa disperso altrove che sembra non disallineare gli equilibri tra destra e sinistra, ma pare al contrario confermare l'ampio consenso dietro la coalizione, 31


che conserverebbe ad oggi il suo vantaggio anche a fronte di un’eventuale alleanza politica giallo-rossa. I numeri mostrano così il segnale concreto di come effettivamente l'asse del consenso non si stia spostando di netto da destra a sinistra, ma stia piuttosto gravitando all'interno della stessa coalizione, con Fratelli d'Italia che, avendo ormai superato il Movimento 5 stelle (M5s) al 15,3%, trova nella sua costante crescita un leader politico, Giorgia Meloni, sempre più inarrestabile sul piano del consenso. Ciò che resta limpido è che al momento l’asse del consenso nel centrodestra si sta orientando sempre più verso la Meloni; e sembra verosimile, dai recenti sviluppi testimoniati dai sondaggi, che qualcosa possa cambiare. A farlo potrebbe essere Salvini stesso o, sul lungo termine ed indirettamente, in caso di totale inerzia, gli stessi elettori del centrodestra. Un sondaggio Ipsos segnala come il 29% degli elettori veda la Meloni come leader di coalizione, contro il 25% di Salvini. A questi elementi statistici si aggiunge l’affermazione sul panorama internazionale della leader di Fratelli d'Italia che, tramite tutte le conseguenze politiche che derivano dalla nomina a presidente dell’Ecr di cui si parlava precedentemente, potrebbe portare una nuova e necessaria aria di moderatismo politico all’interno della coalizione. Ciò che però non bisogna trascurare sono il peso politico che conserva l'attuale leader della Lega e le altre carte che resterebbero effettivamente in mano a Matteo Salvini, che attualmente rimane, di fatto, pur sempre il volto più in grado potenzialmente di acquisire consensi. Non a caso nelle ultime settimane lo stesso leader della Lega, assieme a Giorgetti, ha preannunciato una prima parziale svolta europeista con una serie di dichiarazioni che fanno intendere un iniziale avvicinamento alle forze

politiche europee: pur dichiarando di non avere all'ordine del giorno l'ingresso nel Ppe, il leader del carroccio ha annunciato di voler intraprendere un tour europeo nelle principali capitali per incontrare i leader di governo e dei principali partiti della Comunità europea. Per poi dichiarare: “Prendiamo atto che l’Europa sta cambiando come volevamo noi, la Banca centrale europea sta facendo finalmente quello che chiedevamo”. Che sia una scelta meramente opportunistica o no, sembra essere dalle prime impressioni la scelta più in linea con l'onda positiva che sta pure travolgendo la leader contendente, e soprattutto la scelta che più cercherebbe di intercettare il sentimento dei voti persi.

notoriamente in contrasto con la politica sovranista salviniana, il riconfermato governatore della regione Liguria ha chiamato a raccolta il polo berlusconiano moderato con l'intento di rilanciare politicamente l'ala europeista e moderata. Per adesso tuttavia, al livello di fattibilità politica, assomiglia più all'auspicio di una confederazione o di un movimento. Il governatore Toti ha esplicitamente dichiarato poi la necessità di dare luogo, in vista delle comunali 2021, ad una costituente del centro destra unito che possa stimolare un'alleanza più inclusiva in grado di attrarre più elettori. Per quanto si parli di una proposta che non sembra aver raccolto grande consenso e seguito all’interno dei partiti, è chiaro che qualcosa cambierà: perché alcuni ruoli allo stato attuale rischiano di essere spodestati, e ciò non sarà permesso con tanta facilità; e perché poi il discorso potrebbe cambiare ulteriormente nel caso in cui dovesse essere modificata la legge elettorale in un senso più proporzionale. In quel caso, diverse esigenze e sviluppi politici potranno condurre, nella più estrema delle ipotesi, a qualche scissione.

“I numeri mostrano come l'asse del consenso non si stia spostando da destra a sinistra, ma stia piuttosto gravitando all'interno della stessa coalizione.”

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Ciò che è certo è che pure il leader sovranista Salvini stia tentando di smuovere delle acque che cominciano a sapere di muffa, e che per farlo sia disposto a cambiare rotta. Ma la forza politica che in termini di numeri più ha risentito della coalizione sovranista e che necessariamente e più di altre avrà bisogno di scuotere il proprio elettorato è Forza Italia, un partito che raccoglie la quota di consenso minore all'interno della coalizione e che ha visto nel vincitore in Liguria Toti con il suo nuovo partito Cambiamo: lo spiraglio per poter contribuire a rilanciare un centrodestra più moderato. A margine del risultato elettorale e assieme alla Carfagna, vicepresidente della Camera e

Di Zaiastan e altre storie di periferia Oltre al già citato Toti, protagonista di una vittoria importante nell’unica regione dove Pd e M5s ripropongono in coalizione lo schieramento attualmente al governo, un’altra figura politica ha garantito un successo al centrodestra attraverso un’impostazione molto personalistica: Luca Zaia si è confermato alla guida della Regione Veneto con il 76,7%, diventando il governatore più votato della storia repubblicana: il precedente record era di Vito De Filippo in Basilicata nel 2005 con il 67%, e il fatto che in una sola tornata elettorale due candidati lo abbiano superato (De Luca con il 69,4%) dà l’idea di quanto gli elettori abbiano Scomodo


preferito affidarsi a chi li ha traghettati fuori dall’emergenza – tutti i governatori uscenti ricandidati sono stati eletti – rispetto ad un salto nel vuoto. Qualche numero può dare un’idea del trionfo del leghista in Veneto: la sola lista Zaia Presidente ha ottenuto il 44,5% dei voti contro il 16,9% della lista di partito della Lega; inoltre, in elettori reali la lista Zaia ha raccolto 916 mila voti: poco sotto la soglia di sbarramento per le elezioni politiche 2018 (980 mila circa) e maggiori dei voti raccolti dal Movimento 5 stelle in questa tornata di regionali in tutta Italia. La sua gestione di polso della pandemia in una delle regioni colpite più presto e più duramente ha dato la definitiva notorietà su scala nazionale ad una figura già molto apprezzata nella Lega, che però ha più volte affermato come il suo interesse e le sue energie siano dedicate esclusivamente al Veneto. Ribadendo il suo disinteresse, per il momento, alla segreteria di partito. Ma sono molti ormai quelli che lo indicano come l’uomo capace di invertire il trend negativo del partito di via Bellerio. Un sondaggio Ipsos rilasciato il 23 settembre ha chiesto ad un campione di Italiani quale sarà il leader della Lega nel prossimo futuro tra i due, ed il 35% degli intervistati hanno risposto positivamente alla leadership di Zaia, contro un 45% per Salvini. Sembra dubbio ad ogni modo che si possa parlare di una imminente segreteria di partito Zaia, ma alcuni dati di fatto vanno considerati e l’emergere di queste voci di partito è sicuramente indice del malcontento che inizia a serpeggiare verso la segreteria Salvini e l’attenzione verso un profilo con più esperienza amministrativa e più orientato verso una Lega a trazione settentrionale. Carlo Fidanza, parlando della vittoria di Acquaroli nelle Marche – sua regione di nascita – mette in evidenza un dato di importanza Scomodo

non secondaria: oltre al deflusso di voti dalla Lega a FdI, l’obiettivo del partito della Meloni è allargare il bacino elettorale della coalizione, soprattutto puntando agli elettori del Movimento 5 stelle che vengono da una tradizione di destra. Secondo i sondaggi sui flussi di voto Swg per le regionali, infatti, Fratelli d’Italia pare essere l'unico partito del centrodestra ad aver acquisito voti dell'elettorato del M5s oltre che, comprensibilmente, dalla Lega. Una posizione che rende la questione della leadership interna ancora più rovente, se si aggiunge il risultato molto modesto ottenuto dalla Lega nelle regioni del Sud che si presentavano al voto, Puglia e Campania.

“Nelle scelte sui candidati alle regionali è pesata tanto anche la quasi totale assenza di una classe dirigente leghista al Sud.” Se è vero che i candidati di queste due regioni non erano espressi dalla Lega – Fitto da Fratelli d’Italia, Caldoro da Forza Italia – è anche vero che, nel contesto di un generalizzato ripensamento necessario nel centrodestra, la Lega ha qualche domanda in più da porsi. Le scelte operate sui candidati di coalizione sono sembrate timide: un usato neanche troppo sicuro, visto che sia Caldoro che Fitto avevano già ricoperto il ruolo di presidenti delle rispettive Regioni ed erano già stati ricandidati per poi perdere, nel 2015 Caldoro e addirittura nel 2006 Fitto. Ma in queste scelte è pesata tanto anche la quasi totale assenza di una classe dirigente leghista al Sud, frutto di uno sbarco consumatosi rapidamente dopo il boom alle

politiche 2018 e in maniera traumatica, lasciando salire sul carro una fauna politica estremamente variegata. Memorabile resta la nomina espressa da Salvini a segretario regionale campano di Raffaele Volpi: nato a Pavia, non esattamente all’interno del pur grande hinterland napoletano. Un vuoto di potere che ha presentato il conto proprio in queste Regionali: in Campania la lista della Lega ha raccolto il 5,6%, ottenendo 3 seggi; in Puglia, ha ottenuto 4 seggi con il 9,5%. In entrambe le regioni il Carroccio è stato il secondo partito della coalizione, superato sempre da Fratelli d’Italia. La Lega, e quindi il centrodestra tutto hanno bisogno di interrogarsi profondamente su un rilancio in termini di uomini e di idee al di sotto del Po, e devono farlo presto: oltre alle regionali in Calabria, che avranno luogo al più presto per il posto lasciato vuoto dalla tragica scomparsa della neoeletta Santelli, il 2021 sarà l’anno in cui diverse città importanti si presenteranno al voto amministrativo. E tra queste ci sono anche due metropoli come Roma e Napoli. Se su Roma la partita sembra essere assegnata a Fratelli d’Italia, con un nome esterno al mondo delle segreterie di partito come outsider, su Napoli grande è la confusione sotto il cielo. Quello che è, e rimane, il partito più alto nei consensi in Italia non può permettersi di lasciare nel Paese enormi zone “franche”, in cui non solo non esprime rappresentanti nelle istituzioni ma quanto meno una parvenza di classe dirigente. La concorrenza è serrata, e non arriva solo da sinistra. di Andrea Calà, Alessio Civita e Simone Martuscelli Hanno collaborato Michele Gambirasi e Thomas Massimo Vicentini

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Parallasse

-------------------------------------------------------------------La rassegna stampa critica di Scomodo

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

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Le elezioni americane sono sempre state una serie televisiva particolarmente interessante, ma quest’anno gli attori si stanno sicuramente superando. La quantità di informazioni che riceviamo noi qui è soltanto una minima parte di quel che circola negli Stati Uniti, dove il quattro novembre è visto come una data che davvero cambierà il corso della storia, questa volta più che negli anni passati. Le elezioni condizionano la vita di tutti gli americani e in questo caso la sfida è considerata così essenziale (epocale) da aver spinto davvero chiunque a prendere una parte ben precisa. A questa logica non si sottraggono le testate giornalistiche e gli organi di stampa in generale, che dai primi mesi del 2020 hanno iniziato a schierarsi pubblicamente. Questa pratica viene chiamata endorsement. Si tratta di una dichiarazione pubblica, in questo caso a nome del giornale, in sostegno di un candidato politico e, come è facile immaginare, questa volta sono quasi tutte in favore di Biden. Qualche fedelissimo di Trump è rimasto, ma i nomi sono pochi e poco noti, come il “Santa Barbara News-Press” e il “Las Vegas Review-Journal”, mentre tutte le grandi testate del giornalismo statunitense hanno reso ben chiaro e palese il loro supporto al candidato democratico. Aprendo il sito del "New York Times”, del “Washington Post” o del “New Yorker”, le pagine di opinione mettono in evidenza gli articoli con cui l’intera redazione (o un giornalista con cui il giornale si identifica) spiega le

motivazioni per cui è necessario che sia Biden a vincere le prossime elezioni. Rispetto a ciò che siamo abituati a leggere e vedere in Italia, l’approccio che il mondo giornalistico ha alla politica e soprattutto alle elezioni presidenziali in America è ben diverso. Il “New York Times” comunica esplicitamente il suo supporto per un candidato fin dal 1860 e gli altri giornali si sono allineati a questa pratica negli anni, rendendo gli annunci pubblici una parte fondamentale del processo elettorale. La pratica dell’endorsement è diventata uno degli elementi che rendono le elezioni statunitensi così seguite a livello mondiale, non solo per l’impatto politico che comportano. La potenzialità e la risonanza di questi annunci è stata ben colta dai quotidiani, che, tra le motivazioni per rendere pubblico il loro supporto, considerano anche quella di essere rilanciati negli altri giornali nazionali e internazionali per la loro posizione. Il “New York Times” quest’anno ha addirittura creato un podcast (The Choice) in più puntate, in cui i candidati democratici venivano intervistati dalla redazione che ha poi comunicato, nell’ultimo episodio, la scelta del candidato da sostenere. L’iniziativa non ha riscosso grande successo, venendo spesso etichettata come una spettacolarizzazione del processo elettorale. Nonostante i giornalisti abbiano difeso il podcast, sostenendo che l’obiettivo consisteva nel far conoscere il programma dei candidati alle primarie, l’iniziativa pone comunque dei dubbi importanti Scomodo


sul valore effettivo di queste dichiarazioni di sostegno. Come succede anche per i quotidiani nel nostro Paese, i lettori abituali sono ben a conoscenza di quali siano le posizioni politiche di ogni giornale, a prescindere dai mesi particolari che precedono il quattro novembre. Prendendo sempre ad esempio il “New York Times”, la redazione ha sempre sostenuto il candidato del partito democratico e non è quindi una sorpresa la sua scelta di sostenere Joe Biden. L’arrivo di Trump sulla scena politica ha però sconvolto un po’ gli equilibri abituali del panorama giornalistico. Già alle elezioni del 2016 alcune testate tradizionalmente repubblicane non hanno comunicato l’endorsement per l’attuale Presidente e quest’anno il numero si è ulteriormente ridotto. L’attuale Presidente può contare ancora sull’appoggio del “New York Post”, giornale della famiglia Murdoch, che il 14 ottobre ha pubblicato un articolo in cui si accusava Biden di aver utilizzato la sua influenza politica per facilitare gli affari del figlio in Ucraina, mentre era vicepresidente. La questione è piuttosto dubbia, tanto da aver portato diversi giornali ed anche social network a etichettarla come fake news, limitandone la diffusione. Anche senza un esplicito endorsement per Trump, la testata ha comunque ribadito il suo supporto ai repubblicani. È necessario riconoscere che se i giornali americani si schierano apertamente con un candidato, è perché ciò è entrato ormai a far parte delle consuetudini elettorali del paese e sono gli stessi lettori ad aspettarsi che lo facciano. Qualora qualcuna di esse interrompesse questa tradizione, potrebbe essere fortemente criticaScomodo

ta dall’audience, soprattutto da quei lettori che si identificano politicamente con le idee fino a quel momento rappresentate dalla redazione. Ci sono diverse motivazioni con le quali si è sempre spiegata la scelta dei giornali statunitensi di rendere esplicito il loro sostegno ad un candidato nei mesi precedenti alle elezioni. In primo luogo, gli editoriali in cui viene spiegato l’endorsement per il candidato sono sempre e solo “opinioni” piuttosto che notizie oggettive.

Il loro scopo è dunque quello di comunicare l’opinione dei giornalisti, piuttosto che affrontare un fatto oggettivo come può essere una notizia. Questa distinzione è importante anche in ottica generale per capire la differenza tra i diversi articoli contenuti nel giornale. Una notizia è caratterizzata da fatti oggettivi che possono essere narrati in modo diverso senza però cambiarne la sostanza, mentre un’“opinione” rappresenta l’interpretazione personale di un evento o il commento ad una vicenda. L’altra motivazione riguarda la traspar-

enza che una testata deve garantire ai propri lettori. I redattori sono persone, hanno a che fare tutti i giorni per lavoro con le notizie di politica e di attualità di cui devono scrivere e inevitabilmente si formano delle opinioni personali e delle idee. La difficoltà di scrivere un articolo che tratti di politica, o in generale di raccontare un evento riportando solo le notizie, risiede nel trattare i fatti in modo realmente oggettivo, prescindendo dal proprio punto di vista. Considerando che una perfetta oggettività è difficile da raggiungere, comunicare esplicitamente quale sia la posizione di chi scrive può servire ai lettori per approcciare le notizie nel modo corretto, con sufficiente spirito critico e con la consapevolezza della posizione presa da chi sta scrivendo. Tuttavia, accanto alle motivazioni che spingono le redazioni a prendere pubblicamente una posizione in nome del quotidiano, vanno ormai considerati gli effetti negativi che la scelta può comportare, anche perché questa pratica è sempre più criticata. In termini molto pratici, un primo problema si pone nel caso in cui il giornale abbia un’audience abbastanza eterogenea: il rischio di supportare un candidato è quello di perdere i lettori che non condividono la scelta della redazione. A livello di elezioni presidenziali questo rischio è molto ridotto, perché, essendo i candidati solo due, è spesso già noto con quale partito ogni testata si identifichi maggiormente e molti endorsement sono quasi scontati. Il discorso è però diverso per le elezioni locali o statali, come per le primarie dei due partiti. È prassi che i quotidiani identifichino anche in 35


questi casi una lista di candidati apertamente sostenuti dalla redazione per ogni posizione da assegnare durante nella tornata elettorale. In questo ambito, essendo le platee di lettori più ristrette e le posizioni meno identificate, l’impatto di una comunicazione del genere potrebbe essere importante, soprattutto considerando i numeri ridotti dei quotidiani locali. L’altro problema riguarda invece le basi del giornalismo, ovvero il concetto di indipendenza della stampa e imparzialità dell’informazione. Lasciare che un organo di stampa dichiari esplicitamente una posizione politica, dando quindi una connotazione ben precisa agli articoli che verranno pubblicati, rischia di compromettere il concetto stesso di imparzialità. L’obiettivo di un giornalista dovrebbe essere quello di garantire un’informazione corretta e veritiera, senza secondi fini. Un giornale che sponsorizza tra i suoi primi articoli un editoriale in cui vengono elencati i motivi per cui votare Joe Biden, difficilmente sarà completamente imparziale nelle scelte editoriali e si asterrà dallo scrivere articoli volti ad indirizzare l’opinione pubblica in quella direzione, altrimenti non si spiegherebbe la necessità di comunicare pubblicamente la propria posizione. Queste riflessioni vanno considerate anche alla luce dei cambiamenti del ruolo della stampa negli ultimi anni e nella percezione che le persone hanno di essa. Una ricerca svolta nel 2018 dalla fondazione nonpartisan James L. Knight ha evidenziato come 8 americani su 10 oramai non si fidano più degli organi di stampa. Il Presidente ha passato i quattro anni del suo mandato a demonizzare giornali, TV e social network, accusandoli di diffondere fake news che danneg36

giano non solo la sua presidenza, ma il paese intero. In un periodo in cui le fonti di informazione “classiche” sono profondamente in crisi, i continui attacchi del mondo politico non fanno altro che svilire ulteriormente la loro posizione. La mancanza di fiducia dei lettori rende l’opinione pubblica più vulnerabile alle notizie false, incorrette o incomplete, ma dona d’altra parte un grande vantaggio a chi ha trovato in questa disinformazione uno degli alleati più potenti per la propria vittoria. I dati sopra citati sembrano mostrare che in questo il Presidente Trump abbia raggiunto il suo obiettivo, demolendo i media con i suoi continui attacchi durante i comizi o attraverso Twitter. Gli stessi dati fanno sorgere anche dei dubbi sull’effettivo impatto che le notizie riportate dai giornali e gli endorsements pubblicati abbiano sull’opinione pubblica e sugli equilibri elettorali. Questi dubbi sono alimentati anche dai numeri delle elezioni del 2016, quando dei 100 quotidiani a maggior circolazione, 57 dichiararono il loro supporto per Hillary Clinton, 26 decisero di non esprimere nessuna preferenza e i restanti (pochi) scelsero di supportare Trump, il quale poi venne eletto presidente. Diciamo che sicuramente le scelte dei quotidiani non hanno spostato gli equilibri delle elezioni, anche se possono avere avuto qualche influenza sugli elettori indecisi o ai margini. La scelta di ogni giornale di prendere una posizione molto definita sullo spettro politico affonda le sue radici nell’importanza che storicamente al stampa ha sempre ricoperto nel contesto americano. Nello sviluppare il proprio modello democratico, l’informazione è stata considerata come un pilastro fondamentale del nuovo stato che si stava formando.

Per anni i media hanno garantito trasparenza e sono stati uno strumento di controllo dei politici e delle loro affermazioni. Risultava dunque inevitabile prendere parte alla vita politica del Paese, essendo ad essa intrinsecamente legati, anche schierandosi con una parte piuttosto che con un'altra. La situazione è però completamente diversa ora, la fiducia nei giornali e nei canali di informazione tradizionali è ai minimi storici, complici la paura delle fake news e gli attacchi politici. Proprio questi ultimi evidenziano quanto la stampa sia potenzialmente dannosa per chi è al potere, rischiando di minare la stabilità dell’esecutivo nonché l’attendibilità delle sue affermazioni. Per difendere l’importanza del ruolo del giornalismo potrebbe essere necessario ripensare il rapporto di quest’ultimo con la politica, lasciare che esso si evolva di pari passo con l’approccio dei nuovi lettori ed elettori al mondo dell’informazione, senza però assecondare la superficialità che spesso si riscontra in molti media e che è capace di catturare più facilmente spettatori. Alla luce di tutto ciò, la classica scelta dei giornali di comunicare i propri endorsement potrebbe essere rivista, magari non eliminata del tutto ma semplicemente mutata nelle sue modalità, per evitare effetti contrari a quelli desiderati e contribuire più efficacemente al processo democratico.

di Chiara Lettieri Scomodo


I CONSIGLI DEL LIBRAIO Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti. Realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso la carta coltivando una dimensione umana di incontro e conoscenza.

In un momento estremamente difficile per la storia del nostro paese sostenere le librerie indipendenti vuol dire dare un contributo centrale all’editoria e alla vita culturale delle città in cui viviamo.

ODRADEK Via dei Banchi Vecchi, 57 00186 Roma RM

“Don Chisciotte & C.” di Giancarlo Montelli Editore: Odradek Scomodo

Davide consiglia: Un’opera d'arte curata da uno dei più grandi Illustratori italiani. Il Don Chisciotte di Montelli è l'ultimo libro della trilogia dei menzonieri della storia: Pinocchio, il Barone di Munchhausen e appunto il Don Chischiotte. Disegnato magistralmente da chi dal 1983 al 1990 realizzò per il settimanale l'espresso le illustrazioni per numerose copertine. la Libreria Odradek ospiterà in mostra fino al 6 Gennaio i disegni originali di questo importante artista. 37


LIBRERIA TRASTEVERE Via della Lungaretta, 90e 00153 Roma RM

“Le pianure” di Gerald Murnane Editore: Safarà

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“Il sentiero delle babbucce gialle” di Kader Abdolah Editore: Iperborea

CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM

“Il vangelo secondo Tex Willer” di B. Salvarani e O. Semellini, Editore: Claudiana

Il MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM

“Atlantide” di Carlo e Renzo Piano Editore: Feltrinelli 38

Andrea consiglia: Mesmerico e inafferrabile, Le pianure contiene un mondo più grande di quello che resta impresso sulla pagina. Ci sono echi del Castello di Kafka, c'è uno sguardo perso in un'infinita orizzontalità e un continuo accavallarsi di piani di lettura e punti di vista, voci e personaggi. Un libro pervaso di apparizioni, dove le cose s'inseguono e scompaiono per poi ritornare in una forma falsamente familiare, come un ricordo in un sogno o un volto in uno specchio incrinato.

Paola consiglia: Tutto inizia da un manoscritto, e da un’amicizia: un regista iraniano, fuggito dal suo paese durante il regime di Khomeini e approdato in Olanda, affida a un suo amico scrittore il racconto ingarbugliato della propria vita perché possa renderlo leggibile. E così la sfida è colta: si snodano in una narrazione che ha il sapore dell’antica Persia le vicende di un ragazzo che diventa uomo, sceglie percorsi impervi, incontra personaggi da fiaba o anche terribili, si innamora di donne che spesso hanno il ruolo di rivelargli un possibile sentiero. Un libro pieno di avventura, di scelte difficili e di saggezza.

Michela e Rossella consigliano: Gli autori propongono una interessante ricerca sugli elementi etici e religiosi presenti in uno dei più noti e amati eroi del fumetto italiano. Tex, ambientato nel far west, potrebbe essere considerato il modello del nuovo uomo italiano nel secondo dopoguerra, quasi a offrire un prontuario esistenziale per il Belpaese uscito con le ossa rotte dal conflitto mondiale. Un manuale di pronto utilizzo in cui centrali sono temi come lealtà, libertà, oppressione, violenza e linguaggio.

Marco consiglia: In mare si raccontano cose che sulla terraferma non racconteremmo, quasi la barca fosse un confessionale. Ci si confida. Forse perché il tempo scorre più lento. I ritmi decelerano, i silenzi si fanno lunghi e frequenti. Siamo tutti sulla stessa barca, non è solo un modo di dire. Il Geometra non è indaffarato e insofferente, come succede nel marasma dello studio. Ascolta, ammette. Con un po' di pazienza lo si riesce anche ad interrogare." Il Geometra altri non è che Renzo Piano, detto anche il "misuratore", mentre lo "scrivente" è Carlo Piano il figlio. Il loro libro è un racconto di viaggio a due voci alla ricerca di Atlantide, la città perfetta, di una società perfetta, di una bellezza perfetta.

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Il loro viaggio è per mare. Per spostarsi in superficie, ma andare anche in profondità, per tracciare un percorso e solcarlo facendo spazio nella propria mente. La loro nave toccherà tutti i luoghi in cui Renzo Piano ha realizzato le sue opere. Opere immaginate e studiate per raggiungere la bellezza assoluta, eppure imperfette. La navigazione con i suoi tempi dilatati lascerà spazio a riflessioni più profonde. "... per avere le idee basta decidere di averle. - dice Renzo Piano - Bisogna prendere il coraggio, e si deve correre qualche rischio senza paura di sbagliare. Dovrebbero provarci tutti, soprattutto i giovani: cogliere il momento, e poi lavorarci con ostinazione." Atlantide non è la città perfetta, ma è la perfezione della volontà, dell'impegno, del coraggio e della libertà di raggiungerli.

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di Lorenzo Bianconi Foto di Emma Terlizzese

SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA

EX CENTRO DIREZIONALE ALITALIA Posizione dell’area: via Alessandro Marchetti n. 111 Anno di abbandono: 2009 Proprietà: Gruppo Lamaro Superficie totale dell’area: 106.756 mq 40

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L’EX SIMBOLO DELLA COMPAGNIA DI BANDIERA, ORA E UN RELITTO CHE GIACE DA UNDICI ANNI SULLA COLLINA DELLA MURATELLA LUNGO LA VIA PER L’AEROPORTO DI FIUMICINO.

N 42

el 1991, al momento dell’inaugurazione, il centro direzionale Alitalia contava cinque edifici all’avanguardia collegati tra loro da una serie di tunnel, in modo da agevolare gli spostamenti da una palazzina all’altra restando sempre all’interno delle strutture. Ora uno di questi collegamenti è interrotto, dall’altro capo si vedono persone al lavoro dietro una scrivania; non un miraggio, ma la favorevole sorte della palazzina A che è stata riutilizzata come sede di uffici da alcune multinazionali: Mazda, Eurobet, Land Rover, Jaguar. E’ stata l’unica a restare attiva da quando nel 2008, a seguito della grande crisi, per non alzare bandiera bianca ed evitare la fusione con la compagnia dell’Air France, l’Alitalia viene acquisita dalla CAI in amministrazione straorScomodo


dinaria per 1.052 milioni di euro. Questa manovra ha portato al licenziamento di 10.034 dipendenti, svuotando in modo irreversibile i 2.730 ambienti del centro direzionale. Arbusti ed erbacce spaccano l’asfalto del parcheggio davanti l’entrata, solitamente adibito a discarica abusiva, per la cui bonifica vengono spesi annualmente dalla Regione Lazio circa 80 mila euro. Lo stato di abbandono è evidente, le cicatrici inferte dagli incendi che hanno divorato il quinto piano della palazzina B, uno nel giugno del 2020 e l’altro nello stesso plesso datato al 2019, rapiscono l’attenzione dei visitatori, fino a quando non ci si imbatte nella strumentazione disseminata all’esterno delle strutture quali estintori, scrivanie, monitor e vetri infranti. Scomodo

Il contesto desolato ha attirato molteplici writers, che hanno usato le pareti esterne degli edifici come banchi prova per la loro fantasia. La massiccia struttura, che nonostante lo stato in cui riversa appare solida, al suo interno mostra danni provocati alle pareti, agli impianti elettrici e all’arredamento, che si può ritrovare al di fuori delle finestre rotte, riversato sulla strada, nel caso in cui manchi all’appello. Dal soffitto gocciola del liquido da tubature scoperte, i pannelli che le coprivano sono riversati in terra e così, in molti degli ambienti visitati, pende sempre qualcosa dal soffitto, che non sia già caduta in terra; che siano cavi, tubature o pannelli ormai poco importa. 43


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Ristrutturazione? Si, ma non adesso. L’Alitalia vende nel 2002 il centro direzionale della Muratella alla holding Peabody-Lamaro, restando in affitto fino al completamento della nuova sede da 60.000 mq presso Fiumicino. Una volta che l’Alitalia avrà cambiato sede, la holding Peabody-Lamaro potrà dedicare alle strutture della Muratella un'importante ristrutturazione, al fine di creare un moderno business park in grado di ospitare numerose aziende. Questa la prima delle tante idee, fantasticando sul potenziale del centro direzionale. Nel dicembre del 2012, dopo anni di stallo, il gruppo Lamaro ottiene l’accordo di programma da 37 milioni di euro con la Regione Lazio, siglato dall'assessore all'urbanistica, Luciano Ciocchetti. Ma non si parla più di business park con numerose aziende, una variazione ai sensi dell'art. 3 ter comma 1 e art. 4 comma 1 lett. b) della L.R. 21/2009 per il cambio di destinazione d'uso da non residenziale a residenziale. Si parla infatti di un centro abitativo nuovo, che sia polo di aggregazione sociale costituito da dieci edifici per un totale di 1500 nuclei abitativi, con annessi negozi, parchi, un centro commerciale, una scuola, un auditorium, l’ampliamento dei percorsi pedonali, servizi pubblici e spazi comuni. Ma fino al 2015 non succede nulla, finché, il 5 maggio dello stesso anno, non arriva una comunicazione del presidente del municipio XI, Emanuela Mino, affermando che la Commissione Urbanistica comunale ha approvato le opere pubbliche, che saranno realizzate a seguito della demolizione e ricostruzione del complesso dell’ex Centro Direzionale Alitalia, un piano da 8.5 milioni di euro. Il tempo passa, il progetto viene nuovamente vagliato dalle autorità competenti, le stime di spesa diminuiscono ma nulla ancora succederà in quel della Muratella se non qualche copioso furto di rame. E’ il 2018 e arriva una nuova notifica dalle autorità regionali, questa volta è il verbale n.68 della seduta capitolina in cui si delibera l’accettazione QI 103510/2012 di demolizione e ricostruzione con cambio di destinazione d'uso dell’area che interessa l’ex centro direzionale Alitalia ad opera delle società "Freccia Alata 2, Millenium, Peabody Lamaro Roma". Seguendo lo schema di questi aggiornamenti, nel 2021 dovremmo aspettarci l’ennesima approvazione di un progetto in cantiere da quasi un decennio, che sta annaspando nell’immobilismo esecutivo trascinato a marcire sul fondo dalla maledizione del centro direzionale. La redazione di “Scomodo” ha contattato le autorità competenti per la ristrutturazione, nonché i vari responsabili dei progetti proposti, gli architetti, le agenzie stesse e l’assessorato all’urbanistica, per dare una risposta riguardo il futuro e il presente di questa struttura, non ottenendo alcuna risposta. La mancata trasparenza nel dichiarare le cause dei ritardi alla messa in opera della demolizione dell’area interessata, a cui dovrebbe seguire il vero lavoro di riqualifica urbana, rende la possibilità di giustificare le continue posticipazioni e l’incuria ancora più remota. Scomodo

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CULTURA


Lo spettatore, un monarca assoluto “La censura è multiforme” afferma Jean Luc Douin nel suo Dizionario della censura nel cinema.

I casi recenti ma agli antipodi di Franco Maresco e del film Mignonnes mostrano le due anime di questo fenomeno, che ancora oggi, citando sempre Douin, minaccia di prendersi gioco “del diritto d’espressione, condanna i cineasti, li tiranneggia, li imprigiona e li uccide”. continua a pag. 48

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FRANCESCO GUARNACCIA

Francesco Guarnaccia è un fumettista e illustratore, classe 94. Fa parte del collettivo Mammaiuto. Con loro ha pubblicato “From Here To Eternity” e, dopo averlo rimandato per anni, ha finito il suo libro fantasy sulla procrastinazione: “Il Cavalier Inservente”. Vince un po' di premi (Gran Guinigi, Micheluzzi, Bartoli) e pubblica con Bao, DeAgostini, Beccogiallo, Shockdom, Rizzoli, Linus, Internazionale, Smemoranda e molte realtà dell'autoproduzione italiana.

Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 48

Scomodo


Sei passato dal fumetto all’animazione. Com’è avvenuta la metamorfosi dalle pubblicazioni su Linus e Internazionale al fare video? Fare animazione è una cosa che in realtà avrei voluto fare da sempre nonostante non sia una cosa da mettere in competizione con il fare fumetti. Ho semplicemente aspettato il momento giusto perché rispetto al fumetto richiede una competenza in più. Rispetto al fumetto, che avrà sempre il mio amore incondizionato, l’animazione ha qualcosa di irresistibile cioè la possibilità di metterci la musica. A proposito di musica, recentemente hai collaborato con gli Eveline’s Dust, una band dal virtuosismo quasi agli antipodi rispetto al rappop di Carl Brave e DJ Gengis (altri due artisti con i quali ha lavorato, N.d.R.). Quanto influisce la musica nel tuo flusso creativo e nel messaggio che vuoi trasmettere? Nel mio flusso creativo è sempre presente. L’unico motivo per cui potrei lavorare senza musica sarebbe perchè ho dimenticato a casa le cuffiette. É benzina per la mia creatività, tant’è che alle volte sono costretto a cercarmi forzatamente cose nuove da ascoltare perchè ascoltando musica tutto il giorno, le cose si esauriscono molto in fretta. La musica è una cosa che mi manca molto nei fumetti, perché trovo che abbia un potere comunicativo incredibile, ed è in grado di veicolare tutta una serie di emozioni creando dei momenti catartici, dando risalto a quello che stai disegnando. Ogni mese su Fumettologica avevi una rubrica nella quale cercavi di immaginare come episodi della nostra quotidiana ordinarietà – dal bere un caffè al giocare a calcio – possano essere stravolti da un dettaglio inaspettato. Se ti fosse fatta oggi questa domanda come risponderesti Scomodo

Non credo cambierebbe molto la risposta: è stato un progetto molto divertente per me, ma se ripreso adesso rimarrebbe invariato. Però è l’emblema di come intendo la comicità e di quello che provo a fare tutte le volte che mi cimento con qualcosa di umoristico: inserire qualcosa di totalmente inaspettato in un contesto, invece, familiare. É questo che se orchestrato bene, scatena la risata. Metti a tuo agio il lettore con qualcosa che conosce, e poi lo sorprendi con qualcosa di completamente ridicolo. Spensieratezza e innamoramento sono le sensazioni a freddo che suscitano i tuoi disegni, fatti di figure bambinesche però con colori, a mio dire, gommosi e psichedelici. Non sempre è facile trasmettere come si interpreta il passaggio dalla realtà all’irrazionale. Com’è stato rapportare questo alla fantascienza e, nel tuo primo libro da sceneggiatore "Party Hard", all’alienazione durante le feste mondane? Il mio stile di disegno nasce in modo praticamente inconscio. C’è stato un momento della mia adolescenza in cui ho intravisto la possibilità di fare fumetti, non come professione, e sentivo l’esigenza di avere uno stile personale. Per un certo periodo anche forzatamente, con risultati disastrosi, perché è una cosa che non so fare a tavolino, o meglio è possibile, ma il risultato non è genuino. Poi ho capito che avrei dovuto lasciar perdere e aspettare questa cosa da sé, ed è successo! In questa fase, il tuo inconscio, il tuo cervello va a prendere tutta una serie di riferimenti visivi, che ti piace, che vedi in giro, non necessariamente legati al fumetto. Nel mio caso la risultante fu questo stile gommoso e essendo un autodidatta, poi è diventato l’unico stile che ho. Nelle mie storie c’è un filo conduttore che è indipendente dal disegno. Non diventano mai cose autobiografiche, però prendere tematiche personali e raccontarle, sì.

Non riuscendo ad elaborare certe cose, devo metterle in un fumetto per affrontarle, nascondendole in delle storie inventate. Il tema del nostro focus di questo mese, e quindi anche della copertina che hai realizzato, è quello dell'Università ai tempi della DAD. Nel tuo disegno c’è anche del grottesco, molto buffo, con il professore che è palesemente e spontaneamente in mutande. Secondo te quindi questa nuova didattica ci tiene distanti mostrando però di più la nostra intimità? Allora, io ti ringrazio di questa lettura molto profonda, ma la verità che a me piace essere stupido. Trovo irresistibile poter fare lo scemo quando ne ho la possibilità. Questa gag del professore può essere collegata al quel periodo dove tutti eravamo, sempre, in videochiamata e visto che si vedeva solo la parte sopra del busto, nella parte sotto poteva esserci di tutto. So di amici che si sono laureati in giacca e cravatta, ma con i pantaloni del pigiama. Altri che facevano riunioni di lavoro in camicia e mutande… insomma una cosa così diffusa che non potevo non metterla. Era un modo sciocco di affrontare ed esorcizzare un periodo così strano e assurdo. di Alessandro Mason

n° 35

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Mensile indipendente di attualità e cultura

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Lo spettatore, un monarca assoluto -------------------------------------------------------------------Le due anime della censura

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Jean Luc Douin, critico cinematografico, nell’introduzione alla sua opera Dictionnarie de la censure au cinéma (pubblicato in Italia da Mimesis Cinema) parla dell’origine della vita come proiezione: “quello di un bambino fuori dal ventre della madre”. E di come tutto cominci con un suono. Il bambino grida prima di vedere. La parola viene prima dell’immagine. Questo è per Douin un principio basico delle religioni, in particolare quella cristiana, secondo cui la rappresentazione è da condannare, perché “sospettata di alimentare l’idolatria”. Il critico francese parla a questo punto del peccato originale di Adamo ed Eva, quello di aver “aperto la porta al mondo dello specchio, a quei riflessi che suscitano turbamento, seduzione, male. Si sono scoperti: si sono visti nudi. Hanno avviato il ciclo infernale della persecuzione puritana”. Partendo da Adamo ed Eva per giungere alla nascita del cinema, e a uno dei primi baci della storia del cinema (quello di The Kiss, 1896, tra May Irwin e John C. Rice) Douin afferma l’essenza multiforme della censura. Essa può essere emanata dall’alto o dal basso. Dall’alto è lo Stato ad agire, dal basso ad oggi sono, ad esempio, gli utenti di Twitter. Esiste quindi la censura intesa come censura di Stato e quella, invece, intesa come vaglio del pubblico corrispondente ad un “lasciapassare” da parte degli utenti dei social, che spesso si prodigano in giudizi affrettati sulle opere, bollandole come offensive prima ancora di averle visionate. Il caso di Mignonnes, il film di Maimona Doucoureu ha dimostrato che l’utente non ha una percezione molto lontana da quella di John Gordon, direttore del Sunday Express, che, nel lontano 1953 scrisse di Lolita di Nabokov: “è la cosa più sporca che io abbia mai letto”. Scomodo


Negli ultimi anni la “censura dal basso”, grazie a modalità inedite ha ottenuto un potere forse mai così grande. Dallo scandalo MeToo ad esempio ci siamo imposti un rigore, una serie di paletti da cui è difficile prescindere, paletti che in poco tempo sembrano essere diventati insiti nell’utente medio che si esprime sui social. L’avvento della cultura cancel è sicuramente un turning point nel nostro discorso: sebbene partito come un Internet joke con intenzioni inizialmente innocue, come sottolineato nel documentario “Speaking frankly, cancel culture” della CBS, si è evoluto in un meccanismo che può tramutare qualcuno o qualcosa in pariah, ovvero un emarginato, non più supportato. Solitamente, si dice di figure pubbliche che vengono cancellate, magari dopo aver fatto quel passo falso che non dovevano fare. Il problema emerge nel soffocamento dello scambio libero di idee e informazioni, che sono la “linfa vitale di una società liberale”, come si cita nella lettera aperta pubblicata sulla rivista Harper’s, firmata da oltre 150 tra famosi scrittori, accademici, giornalisti e attivisti. “L’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo - dichiarano - si sta diffondendo pericolosamente.” [...] “è diventato troppo normale sentire richieste di tempestive e dure punizioni in risposta a quelli che vengono percepiti come sbagli di parola o di pensiero. Questa atmosfera opprimente finirà per danneggiare le cause più importanti dei nostri tempi. Il modo di sconfiggere le idee sbagliate è mettendole in luce, discutendone, criticandole e convincendo gli altri, non cercando di metterle a tacere. Scomodo

Rifiutiamo di dover scegliere tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Abbiamo bisogno di una cultura che lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi, e anche agli errori.” In definitiva, come conclude la lettera: “Dobbiamo preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede, senza timore di catastrofiche conseguenze professionali. Se non difendiamo quello da cui dipende il nostro lavoro, non possiamo aspettarci che lo faccia il pubblico o lo Stato.”

“Lo spettatore detiene il potere ma basta che, come scrive Douin, “non lo eserciti in modo monarchico. O addirittura, da Monarca Assoluto.” La cancel culture rimane un problema aperto e la messa in atto dell’eliminazione è dovuta a una maggiore o minore sensibilità sull’argomento messo in discussione. È il caso di Mignonnes di Maimona Doucoure, una Nabokov fuori dal tempo, che con la sua opera scandalizza molto di meno rispetto allo scrittore russo con la sua Dolores Haze, ma mette ancora a dura prova la bassa soglia di tolleranza dello spettatore medio, che ancora sente un brivido lungo la schiena quando compie il peccato originale: guardare. Ma che al Sundance, probabilmente un covo di pedofili e pervertiti di ogni genere, ha vinto il premio per la miglior regia.

Mentre lo stato agisce molto di meno in modalità censoria rispetto a vent’anni fa, lo spettatore medio spinge per la rimozione di quei contenuti che ritiene oltraggiosi. Ci troviamo in un ribaltamento rispetto al celebre film del 1988 di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso. Lì il prete che visiona i film prima che vengano visti dal pubblico del piccolo paese siciliano dove è ambientato il film, facendo apportare dei tagli sulle scene di bacio. Quando il giovane protagonista Salvatore diventa proiezionista decide, come piccolo atto di ribellione al bigottismo del paese, di non tagliare il bacio in una scena, scatenando le reazioni gioiose del pubblico. Mentre il prete sbotta: “Io non vedo film pornografici”. L’accezione negativa del termine pornografico viene spesso usata per quantificare l’oscenità di un prodotto. Come Lolita è stata definito “sporco, osceno, pornografico”, oggi Mignonnes è pedopornografia. Nel caso di Nuovo Cinema Paradiso, Tornatore metteva in scena da una parte il potere censorio del prete e dall’altra il desiderio impellente dello spettatore di vedere qualcosa di “osceno”. Lo stesso effetto che ebbe Fellini con la sua Dolce Vita sul grande pubblico. Flaubert parlava della censura come di una cosa “utile, non c’è che dire. Non considerate altro censore che il pubblico diceva Teophile Gautier. È un censore severo, illuminato, e contro il quale non si può dire nulla”. Lo spettatore detiene il potere ma basta che, come scrive Douin, “non lo eserciti in modo monarchico”. O addirittura, da Monarca Assoluto. Nel caso che andiamo a raccontare la censura proviene da un reale “monarca”, la cui intenzione censoria non deriva soltanto da esigenze etiche o morali. 51


Un improvvisato censore: Rai Cinema e la diatriba con Maresco Cercare l’angolo di scomodità, che inchiodi chi osserva alla responsabilità dell’atto del guardare. Vi riesce ancora una volta Franco Maresco, con la pirandelliana intenzione di lasciare lo spettatore interdetto, facendo leva su una personale presa di coscienza. Il caso di censura dall’alto in questione riguarda La mafia non è più quella di una volta, ultimo film documentario del noto regista siciliano e continuum del precedente Belluscone - Una storia Siciliana. Il film riprende dal prequel lo stravagante tanto grottesco personaggio di Ciccio Mira, self-made man che ha dedicato la sua vita all’organizzazione di cerimonie ed eventi musicali, scovando giovani talenti per le strade del capoluogo siciliano. Se però il tentativo mareschiano del Belluscone si concentrava nello smascherare un sentimento politico al limite dell’idolatria, con La mafia non è più quella di una volta regala un’aspra considerazione sulla graduale dissipazione di una partecipazione autentica e impegnata alla lotta alla mafia. Cosa rimane oggi del sentimento mafioso, e soprattutto cosa della battaglia contro il fenomeno mafioso? Ecco le domande intorno alle quali si snoda il nucleo principale della ricerca di Maresco. Sorge spontaneo allora chiedersi quali corde ha solleticato il regista per scomodare RAI Cinema tanto da indurla a rimuovere il proprio logo di paternità. A detta del regista e dei suoi legali, non la dimensione surreale di una memoria misti-

ficante, o gli innumerevoli inciampi lessicali di Ciccio Mira, ma apparentemente quella scomoda luce puntata sulla più alta carica dello Stato. Se c’è una religione in Italia, quella è la politica e così la satira diventa turpiloquio, bestemmia.

orgoglio Ciccio Mira in una delle interviste di cui è protagonista, durante la quale gli si chiede se sia d’accordo con l’assenza di un commento presidenziale sull’esito del processo. Le parole dure dell’impresario vengono accompagnate da una richiesta di grazia per il nipote detenuto in regime di 41-bis, millantando una storica conoscenza tra la propria famiglia e quella del Presidente. Questi ultimi contenuti agitano le acque Rai, che mette sotto accusa gli elementi che seminano dubbi e illazioni potenzialmente offensivi verso il Capo dello Stato. Maresco non è estraneo ai rimproveri e vanta, dal canto suo, una carriera costellata di contestazioni, querele e rimostranze da parte di cariche e associazioni politico-religiose. Il celeberrimo Totò che visse due volte (realizzato in collaborazione con Daniele Ciprì e presentato al Festival di Berlino del ‘98) segna, nel mondo cinematografico nazionale, la demarcazione di un prima e di un poi. La pellicola segue attraverso tre episodi il filo rosso della dipartita di Dio, metafora della morte e risurrezione di un sentimento intrinsecamente umano quale è la speranza-fede, in una prospettiva che oltraggiosamente si solleva al di là dell’impalcatura clerico-religiosa su cui si è sorretto un buon trentennio democristiano. La nostra Carta costituzionale vanta la difesa del principio di libera espressione sotto l’articolo 21, tuttavia il regista ha in questo caso dovuto pretendere quella stessa libertà. Al rifiuto della concessione del nullaosta per Totò che visse due volte, Maresco lamentava

“La Rai mette sotto accusa gli elementi che seminano dubbi e illazioni potenzialmente offensivi verso il Capo dello Stato.”

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Il film avanza una critica nei confronti del silenzio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in merito alla rivoluzionaria sentenza del 20 Aprile 2018, che per la prima volta confermò il collaborazionismo tra cariche pubbliche e membri di Cosa Nostra. “I Palermitani ce l’hanno nel Dna il silenzio” - commenta con

Scomodo


non poco l’insofferenza verso l'esistenza di una Commissione che decida cosa si può vedere e cosa no e inaugurò un'avventura giudiziaria tortuosa, non priva di conseguenze economiche. Fino ad allora, infatti, in Italia il controllo dei contenuti televisivi e cinematografici era mansione di un organo specifico, la Commissione di Revisione Cinematografica, e chi doveva distribuire un film nelle sale era obbligato a sottoporlo a una delle sette sezioni subalterne di revisione della censura. Questo valeva per qualsiasi opera venisse proiettata in pubblico, e il film poteva essere commercializzato solo all’ottenimento del visto di censura. La prassi del nullaosta è stata abolita proprio dopo la polemica in seguito alla battaglia del regista, istituendo la possibilità alternativa di porre dei divieti di accesso (i possibili tre esiti del verdetto sono i seguenti: “per tutti”, “vietato ai minori di 14 anni” o “vietato ai minori di 18 anni”). La settima arte ha da sempre destato timori per la sua forza visiva: la portata innovativa dell’immagine-racconto lascia che l’umanità guardi, misuri, sondi il proprio cammino contemplandolo dall’esterno. Questa sua capacità persuasiva ha notoriamente subito innumerevoli forme di censura: preventiva, se applicata alle sceneggiature dei film prima che siano realizzati; a posteriori, se messa in atto quando l'opera cinematografica ha concluso la fase di realizzazione; di ritorno, se interviene a revisione del giudizio originario. Risale al 1962 l’ultima vera e propria legge sulla revisione dei film e dei lavori Scomodo

teatrali che elencava composizione, funzionamento e pareri della Commissione e che, tuttora in vigore, ha subito nel corso del tempo numerose modifiche e aggiustamenti - come già sopracitato in seguito allo scandalo di Totò che visse due volte.

“In questo caso non è una legge che definisce cosa è da censurare, ma è il canale di trasmissione che filtra i contenuti.”

Eppure, la condanna censoria è spesso stata anticipata da una mutilazione cautelativa da parte delle stesse case di distribuzione, le quali hanno cominciato ad applicare forme di censura parziale fin dagli anni 50, manomettendo strategicamente le pellicole tramite tagli mirati o doppiaggi ritoccati ad hoc.

È così che la censura preventiva diventa strumento funzionale al riallineamento di un prodotto ai canoni impartiti dall’alto, e molte opere filmiche subiscono in modo distorto un progressivo snaturamento artistico, venendo sottoposte a successive, ravvicinate, modifiche ispirate dal solo fine di evitare l’ostruzionismo della Commissione. È il patto a cui sarebbe dovuto scendere il regista di La mafia non è più quella di una volta, dove il “nullaosta” è negato dallo stesso distributore e sovvenzionatore della pellicola. <<Rai Cinema -sostiene Maresco- si comporta come una madre che non vuole riconoscere il figlio>>. Quella di cui stiamo parlando è sì una censura diretta, ma imposta dal canale di cui l’istituzione si serve: il filtro è regolato dalla rete stessa di trasmissione, che sabota ex ante la fruizione di prodotti non in linea con la condotta della televisione di Stato. La censura si è concretizzata nella scelta incriminata di Paolo Del Brocco, direttore di Rai Cinema, di togliere il logo al film, è di fatto stata definita come “tecnicamente” censoria dal legale di Maresco. Ma la risposta della RAI non ha tardato ad arrivare, rivendicando il diritto di poter esprimere la propria distanza da un prodotto che non rispecchia quanto le era stato promesso. Non solo, la società ha anche condannato la sfacciataggine di Maresco, che presentò il film al Festival di Venezia 2019, dove ha vinto il premio speciale della giuria, senza previa consultazione. Quando la Rai ha preso visione della versione presentata al Festival, non ha comunque precluso la presentazione del film o la sua distribuzione nelle sale. 53


Rai Cinema così si difende e perciò "respinge integralmente ogni accusa di censura o di limitazione della libertà di espressione”, concludendo la sua difesa con un encomio verso il suo lavoro, lodevole di riconoscimento per aver da sempre contribuito al cinema di denuncia e al "cinema civile". La diatriba tra Maresco e la televisione di Stato conferma la resistenza di un collo di bottiglia all’interno del sistema radiotelevisivo e cinematografico. Quando lo spettatore diventa temuto censore: Mignonnes e la cancel culture Ma di questi tempi, non sono solamente i piani alti a limitare la nostra umana curiosità e il nostro aspro desiderio di grezza realtà. Ormai ci stiamo così tanto accontentando dei prodotti amputati che persino il pubblico, “i piani bassi”, si muove in autonomia per bloccare una cinematografia che rivela, permettendosi di uscire dagli schemi. Netflix ce ne offre un esempio dirompente: lo scorso settembre ha, infatti, messo in catalogo il film d'esordio della regista franco-senegalese Maimouna Decouré, intitolato "Mignonnes" o, tradotto terribilmente in italiano, "Donne ai primi passi". Il racconto di formazione, sin dalla sua fase embrionale, è stato accusato di incentivare la pedofilia e la sessualizzazione di ragazzine in fase pre-adolescenziale che, per evadere dalla realtà, twerkano in modo ammaliante su basi simil-pop con atteggiamenti talvolta provocatori, cercando di apparire più adulte dandosi in pasto ai social media. Nulla di sconcertante, è basato su migliaia di storie che accadono tutti i giorni. Sicuramente non si tratta di un film rivoluzionario, ma è stato premiato con l’Award alla direzione al Sundance Film Festival per un motivo: Decouré riesce a evidenziare la discrepanza tra la mancata realizzazione da parte di alcune bambine della loro sessualità e come invece 54

il pubblico le percepisce. Sebbene il film abbia ricevuto diverse critiche positive, il grande scalpore è partito dalla copertina con cui Netflix ha deciso di presentare il film: le bambine, infatti, vengono ritratte in pose seducenti e con vestiti di scena ben attillati. La particolarità della critica su Mignonnes è che la maggior parte del pubblico si è fermata semplicemente a giudicarne il poster, non visionando poi, effettivamente, il film.

sua vita fatta di religione e severa situazione casalinga, vedendo nel modello di vita occidentale, ovvero nelle sue compagne di scuola, una libertà che vuole raggiungere. Decouré ha ritratto qualcosa di simile alla sua vita, sottolineando che il messaggio principale è la preziosità dell'infanzia. Ma questo, a quanto pare, non è stato colto. Se qualcosa è capace di smuovere una massa visceralmente, bisogna cancellarlo. Subito è andato in trend l'hashtag #cancelnetflix. Un click dopo l'altro e la piattaforma perde 9 miliardi in Borsa in un solo giorno dopo una petizione, che accusa il film di ipersessualizzare giovani per “la goduria visiva dei pedofili”. Questa petizione, su Change.org, ha trovato il consenso di 660mila firme, per poi essere rimossa. Dopotutto, questa è l'era della cancel culture, ovvero l’era di una collettività che si erge a giudice e giuria e boia proprio per cancellare quei personaggi che vengono colpevolizzati di assumere comportamenti ritenuti immorali. Probabilmente, se il capolavoro di Nabokov “Lolita”, fosse uscito in versione cinematografica durante lo scoppio della cancel culture, il mondo si sarebbe mosso per rendere il film illegale, facendo cadere l’Internet in un enorme putiferio. Ad ogni modo, per Netflix questo è stato un anno a dir poco discutibile. Si è ritrovato protagonista di un altro scandalo simile con il film polacco pseudo erotico 365 Days, diretto da Barbara Białowąs e Tomasz Mandes, uscito sulla piattaforma a giugno. Il film drammatico è stato primo in classifica in diversi Paesi non europei e gli amanti dei film di Fifty Shades hanno fatto i salti di gioia trovando un film parallelo, della stessa materia su un sito così accessibile invece di YouPorn. Ciò che è andato storto in questo caso è stato, più o meno, tutto. La trama già fa intuire la tipologia vista e rivista: un boss mafioso con palate di

“Perché privare del film proprio la fetta di pubblico che più può essere interessata all'argomento? Perché questo non è affatto un film per bambini.” Ciliegina sulla torta, il colosso dello streaming ha deciso di presentarlo come un film VM14, il che per molti è stato un enorme controsenso: Decouré inscena una storia di un gruppo di undicenni ai primi passi e i cambiamenti della loro vita, perché privare del film proprio la fetta di pubblico che più può essere interessata all'argomento? Semplice, perché questo non è affatto un film per bambini. È indirizzato a un pubblico adulto, che dovrebbe cercare di comprendere il fenomeno della pericolosità dei telefoni messi in mano troppo presto e senza alcun limite. Si tratta di un lungometraggio che si dimostra in grado di far sentire lo spettatore a disagio, provocando una sensibilizzazione su come il corpo di una bambina può essere sessualizzato e di come i social media influiscono su questo fenomeno. Vuole rendere partecipe il pubblico della fragilità di Amy, una bambina di origine senegalese che si scontra con la propria famiglia e con la

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soldi, splendido e pieno di testosterone rapisce una paradisiaca donna d'affari polacca, in gita con il suo “deludente” fidanzato. In sostanza, lo spietato protagonista, Massimo, le da un anno di tempo per farla innamorare perdutamente di lui, riempiendola di regali e di viaggi, e di sesso non consenziente. Velocemente, la donna si adatta alla situazione trovando piacere nel venire strangolata e incatenata dal suo rapitore. Parte la tragedia. Migliaia di critiche su Twitter e Instagram sottolineano come il film normalizzi lo stupro e la violenza sessuale, sebbene sia stato etichettato come “dramma romantico”. In più, le situazioni psicologiche sono omesse, come evidenzia sul suo blog la giornalista e attivista Susanna Birch. Infatti, secondo la Birch, bisognava specificare l’evidente sindrome di Stoccolma che affligge la protagonista, ovvero l'accettazione delle violenze da parte del proprio rapitore innamorandosi di quest'ultimo. Lo scalpore è stato fatto partire dalla cantante Duffy, mittente di una lettera diretta a Netflix pubblicata sul sito di notizie Deadline, in cui dichiara che la scelta di lasciarlo in streaming sulla piattaforma è stata “irresponsabile”. La cantante manda un messaggio esplicito: “A chiunque dica che si tratta solo di un film, non è solo un film quando ha un’enorme influenza nel distorcere un argomento che è sempre stato poco discusso come il traffico sessuale e il rapire un individuo, rendendo il tema in questione erotico”. Su Change.org, l’attivista Mik Zazon ha deciso di far partire una petizione per far rimuovere il film scandalo, dopo che sulla piattaforma video TikTok era diventata di moda una challenge che consisteva nel far trapelare dei lividi come fossero il risultato di atti sessuali violenti, esprimendo anche l’interesse degli utenti nel farsi rapire dal

protagonista del lungometraggio, Michele Morrone. Zazon ha ottenuto la firma di più di 88.000 utenti. Netflix, in questo caso, continua a tenersi lontano dallo sconcerto che ha causato 365 Days, continuando a tenere il film nella piattaforma. Altre volte, invece, il far finta di niente non è stato possibile, come nel caso di “13 Reasons Why”, dove Netflix si è trovato obbligato a tagliare la scena del suicidio della protagonista e aggiungere l'avviso sui contenuti violenti all'inizio, dopo uno scalpore senza precedenti. O ancora, “Insatiable”, era stata definita da cancellare. Questa controversa serie ruota attorno al personaggio di Patty, una splendida ragazza che dopo anni di bullismo dovuti alla sua passata condizione di sovrappeso, decide di vendicarsi con coloro che le sono andati contro.

“La community giudica e, di conseguenza, agisce, diventando un severo ed esigente censore, che sta trasformando il suo potere, mano a mano, in assoluto.”

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Una popolarissima petizione firmata da circa 100.000 persone ha sensibilizzato come la serie si incentri sul fat shaming, sulla tossicità della diet culture e sull'oggettificazione del corpo femminile, in una serie diretta ai teenagers. Sebbene entrambe le serie non siano state eliminate, il metodo immediato della cancel è stato applicato. Esattamente su questo viene basata la nuova critica che parte da Internet, rafforzata dagli infiniti e solitari mesi di lockdown che ci hanno colto di sorpresa e stravolto.

Gli utenti dei social sono, in conclusione, diventati il nemico numero uno per coloro che intendono narrare di realtà che si trova sotto gli occhi di tutti, ma che proviamo a ignorare, soprattutto in ambito cinematografico. Mignonnes è solo un esempio come molti altri, il cinema causa quotidianamente sgomenti a non finire. È simbolo, però, della continua ascesa del fenomeno con il passare dei mesi. La censura che parte dal basso si sta spargendo in maniera così contagiosa che bisogna quasi temerla. Le rivolte che nascono da una presa di coscienza di un utente medio sul proprio potere, sono molteplici e di giorno in giorno sempre più aggressive. Internet viene controllato da chi ne usufruisce, ovvero dagli utenti, che hanno deciso di prendere il comando del gioco. Questa nuova e pericolosa politica rende il consumatore creatore e distruttore di personalità talvolta artistiche, che vengono rese fantasmi, se azzardano un solo passo falso. Non si concedono seconde chance a coloro che non riescono a far cogliere appieno e a far accettare, il loro messaggio a un pubblico che ha le orecchie sempre rizzate per cogliere ciò che va storto. La community giudica e, di conseguenza, agisce, diventando un severo ed esigente censore, che sta trasformando il suo potere, mano a mano, in assoluto. Si ritorna alla citazione di Flaubert, secondo cui lo spettatore è l’unico censore, l’unico illuminato. Nella visione dello spettatore come re, siamo tutti d’accordo. Il pubblico ha sempre ragione. Basta che non eserciti il suo potere in modo dittatoriale. Rispetto ad uno Stato, che, ancora, ha paura di “guardare”. O più semplicemente di essere guardato. di Cosimo Maj Giulia Alioto e Lia Tore 55


Tempo Tenet Fuor di Sesto --------------------------------------------------------------------------------------------------------“O coursed spite, that I never was born to film it right!”

Se sperate in una spiegazione di Tenet, questo articolo non fa per voi, quindi premete il tasto per voltare pagina. Che senso avrebbe una retrospettiva lineare sul Tempo in Christopher Nolan, se è tutto fuorché lineare? L’articolo non solo parla di Nolan: è Nolan, ne parla alla sua maniera saltando da un film all’altro in modo discontinuo, proprio come in un tornello. Ogni volta, a partire dal suo ultimo film, ne ripescherà un precedente con un’inversione all’indietro , per poi ritornare al presente nel punto in cui si era interrotto. Buona lettura, ma attenti al loop. 56

Se qui ci fosse Maurice Fischer – l’inflessibile padre del Cillian Murphy di Inception – a dire la sua sull’ultima e più ambiziosa impresa di Christopher Nolan, trovereste semplicemente scritto: “Quello che posso darvi è una parola: disappunto”. Sbaragliata la concorrenza a Hollywood, dove le grandi produzioni stanno subendo posticipi fino al 2022 per via del fattore Covid, Tenet è diventato l’evento cinematografico dell’anno, riportando nelle sale un pubblico già in fermento, ulteriormente fomentato dall’incertezza sulla data d’uscita. Nolan si è quindi ritrovato fra le mani un’arma a doppio taglio, che l’ha sì catapultato nell’olimpo del box office

di quest’anno con 45 milioni di dollari incassati in Nord America e 262 nel resto del mondo, ma che ha deluso le aspettative di molti, produttori compresi viste le cifre al botteghino, irrisorie in termini assoluti e in special modo per il mercato statunitense. L’eccessiva eccitazione ha finito per remare contro a quella che è un po’ la summa del percorso registico di Nolan, nonché l’occasione per tirare le fila di un discorso sulla temporalità che l’ha contraddistinto in molte pellicole. Tenet rimanda infatti al Tempo fin dalla prima, esplosiva scena: quell’amplesso orchestrale che fa da preludio al primo di cinque Atti in cui è divisa questa rappresentazione ormai ventennale. Cinque come i film scelti per analizzarla. Scomodo


Perché nel lontano 2000, Nolan era già alle prese con il meccanismo d’inversione che si sta verificando, anche per voi che leggete, proprio in questa frase. Dunque tenetevi pronti per il primo, disorientante tornello dell’articolo: state per subire un’inversione di vent’anni. Tratto dall’omonimo racconto breve del fratello Jonathan – il vero sceneggiatore fra i due – Memento rappresenta il primo esperimento temporale dei Nolan. Un tentativo ancestrale, esercizio puramente stilistico dove gli sfasamenti temporali non intaccano in alcun modo le sorti dei personaggi o della trama, ma vengono utilizzati come espedienti di montaggio: per raccontare la storia del paziente psichiatrico Lenny Shelby (Guy Pearce), Nolan spezzetta il girato in segmenti scenici di pochi minuti, riavvolgendoli in fase di montaggio e inframmezzandoli con spezzoni in bianco e nero apparentemente incollocabili. L’ultima scena diventa la prima, la penultima la seconda e così via. L’intento è quello di far provare allo spettatore la stessa sensazione del protagonista: raccontando la storia al contrario, aprendo ogni segmento in medias res senza mostrare il “prima”, Nolan riproduce lo spaesamento Scomodo

da disturbo della memoria a breve termine con un’operazione geniale. Non si assiste quindi a una vera e propria inversione – se non nei primi fotogrammi, in cui si ritrova il proiettile che rientra nel caricatore – perché le singole scene rimangono lineari nella loro singolarità. Giocando tutto sul twist ending per lasciare lo spettatore ignaro fino all’ultimo, la magia scompare però già a una seconda visione; tuttavia Memento rimane per molti nostalgici il capolavoro dei Fratelli Nolan, più umile e intimo in confronto ai successivi kolossal, nella maggior parte dei quali il sodalizio è venuto meno. Privati l’uno dell’altro, i due mostrano le rispettive carenze: Jonathan nel suo Westworld, serie della HBO per cui scrive ottimi personaggi ma si confonde nella messa in scena; Christopher col suo Tenet, impeccabile nella minuzia temporale ma con dei dialoghi da far sanguinare le orecchie. Si dice che la gestazione di Tenet sia durata dieci anni. Decisamente troppi se si considera la scarsa cura messa nella sceneggiatura da Christopher Nolan, forse troppo preoccupato di far tornare tutti i conti per accorgersi di aver scritto uno sceneggiato che, semplicemente, non gli rende giustizia. I personaggi discutono come peripatetici circondati da un’atmosfera da spy story – con la sua bond girl cavallona e il suo Sean Connery versione afro – che ha fatto storcere il naso al gusto personale di molti. La prima metà del film sta tutta lì: in più scene fondamentalmente uguali dove la preparazione del colpo avviene ad alta voce, passeggiando nel bel mezzo di folle oceaniche, magari proprio in quell’aeroporto sul quale si progetta di far

schiantare un aereo. Scelta della squadra, preparazione del colpo, missione compiuta. Così almeno per un paio di cicli, quanto basta per riempire un’oretta buona di bobina. Ma è quando si arriva ai dialoghi cruciali, che il regista compie gli errori più gravi, violando la regola drammaturgica basilare: “Niente spiegoni!”. Per eccessivo amor di chiarezza, Nolan imbocca lo spettatore fino all’esaurimento, rompendo di fatto la quarta parete in modo del tutto innaturale e trasformandosi nell’amico della comitiva che farebbe anche ridere, se solo non si ostinasse a spiegare le barzellette. Quando poi si rende conto di aver esagerato, li diluisce con dei botta e risposta anche peggiori, telefonati, insignificanti, di quelli che metteresti in bocca a un T-800 impersonato da Arnold Schwarzenegger: “È la procedura operativa standard”. Aspetti questi, che la crème de la crème della critica internazionale ha passato in rassegna poco o niente, tutta presa – come Nolan d’altronde – dal rigore dell’impianto temporale, millantando una confusione di fatto inesistente, accusando il regista di aver fatto il passo più lungo della gamba. Su tutti Leslie Felperin, che sull’Hollywood Reporter si è vantata di non aver capito il film dopo ben due visioni, non considerando che la mancanza è interpretabile in ambo i sensi. Giacché a una dissezione autoptica dei suoi numerosi snodi, Tenet non appare affatto confuso, spiegando fin troppo e lasciando ben poco alla libera interpretazione; semmai complicato, ma il meglio della critica dovrebbe riconoscere l’abisso fra i due aggettivi, dove il primo indica la violazione (da parte dell’autore) di un principio all’interno di un sistema di regole prestabilito, e non la difficoltà (da parte dello spettatore) nel comprenderlo per quanto articolato possa sembrare. 57


ulteriore; il totem smette di funzionare se toccato da altri all’infuori del suo proprietario. Una volta messe a sistema, l’equazione non torna: osservando una regola, le altre le soccombono. Ma dopo innesti ed estrazioni, il Nolan prestigiatore tira fuori dal cappello una nuova invenzione, che cambia tutto: il tornello, l’ingranaggio fondamentale che fa muovere le lancette di Tenet. Peccato che in Tenet non si verifichino errori di questo genere, con i quali Nolan – padre fondatore del blockbuster cervellotico – ebbe invece a che fare in un altro sistema complesso, senza però che a qualcuno venisse in mente di negare la bontà della pellicola. Il film in questione è Inception, che a dieci anni dall’uscita tiene il pubblico ancora avvinghiato al dubbio insolubile di Dom Cobb (Leonardo DiCaprio): “Sogno o son desto?”. Nolan si è sempre rifiutato di fornire una risposta, mettendo l’accento sul valore della domanda. O meglio, sul fatto che Cobb, arresosi al desiderio di ritornare dai suoi figli, non se la ponga più, lasciando il solo spettatore a preoccuparsi della trottola. Una scappatoia che andrebbe bene detta da chiunque altro, meno che da Nolan, così rigoroso e severo con se stesso. Via via che sprofonda nei sottolivelli onirici – col tempo che in questo caso subisce una dilatazione esponenziale, trasformando i minuti in settimane e poi anni – Nolan sembra difatti perdere di vista le stesse regole che si era autoimposto, dal Totem al Calcio: per svegliarsi non si deve perdere il calcio coordinato; uccidersi in un sogno sotto sedativo fa sprofondare solo in un livello 58

Normalmente, queste hanno per noi, come il tempo stesso d’altronde, una direzione chiara e irreversibile, con differenze ineludibili tra passato e futuro: le sigarette non si rigenerano dal fumo e dalla cenere; una volta mischiati, caffè e latte non si separano spontaneamente. Tuttavia, nel suo film, Nolan non sembra curarsi di quest’evidenza empirica: proiettili che rientrano nelle pistole che li hanno sparati; veicoli ribaltati che tornano a sfrecciare in retromarcia; tracce di catastrofi non ancora avvenute. Grazie al tornello, colonna portante dell’originalità di Tenet, il regista fa muovere a ritroso nel passato singoli oggetti, invertendo il tempo in maniera perfettamente coerente con i dettami della fisica. Sorprendentemente, da Einstein a Maxwell, che si tratti di relatività speciale o meccanica quantistica, tutte le equazioni che meglio descrivono il nostro universo funzionano perfettamente sia che il tempo scorra in avanti sia che scorra all’indietro. Proprio come nel titolo (palindromo) del film, l’avanti e l’indietro sono indifferenti. Eppure un orientamento temporale rimane privilegiato, sbilanciando – come evidenziato nella pellicola – le nostre esperienze dal passato verso il futuro: vale a dire nella direzio-

ne in cui l’entropia – cioè il disordine – può solo aumentare, come affermato dalla seconda delle leggi sulla Termodinamica. E proprio da qui Nolan parte per la sua svolta, manipolando una variabile per trovare una strada diversa nei percorsi del tempo: il tornello non è infatti la classica macchina del tempo a teletrasporto, ma un apparecchio in grado di invertire l’entropia stessa di oggetti e persone, che riescono così a muoversi a ritroso in una realtà che mantiene invece le nostre coordinate temporali. Equazioni, termodinamica, entropia: se vi gira la testa è perché il tema è particolarmente scivoloso, causa non di rado di paradossi e contraddizioni. Parlare di viaggi nel tempo è come entrare in un labirinto in cui la causa e l’effetto sembrano rincorrersi incessantemente, in una gara in cui non si riesce più a capire dov’è il principio e dov’è la fine. Uno degli scenari teorici più abusati – anche in Nolan – per spiegare queste problematiche è il celebre Paradosso del Nonno: se un uomo tornasse indietro nel tempo per uccidere suo nonno, non potrebbe mai nascere e dunque commettere l’omicidio stesso. Un po’ quello che avverrebbe agli antagonisti del futuro di Tenet se riuscissero nella loro impresa di impedire il surriscaldamento globale nel passato, invertendo l’entropia del mondo fino al suo collasso e uccidendo così i loro antenati. E quale soluzione, si domandano i protagonisti, è stata trovata dai loro discendenti, dai loro futuri nipoti? In realtà, nessuna. Nolan sembra lavarsene le mani e dirci con una semplice battuta: “Non c’è soluzione, è un paradosso!”. Ma ciò che Tenet si limita a problematizzare, un altro film interviene per risolvere. Scomodo


Quello che alle parole d’ordine di Walt Withman (“Viviamo in un mondo crepuscolare”) risponderebbe coi versi di un altro poeta, Dylan Thomas, per scuotere Tenet e farlo rinsavire: “Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce!”. Nel 2014, Jonathan e Christopher si ritrovano insieme a lavorare su una diversa tipologia di viaggio temporale, offrendo in Interstellar un escamotage visivo – l’ennesima invenzione – che ristabilisce a pieno la coerenza degli spostamenti temporali: il tesseratto. Stavolta è il turno della Teoria dell’Universo a Blocchi, per la quale passato, presente e futuro hanno la stessa importanza, coesistendo tutti in una prospettiva in cui nessun momento è privilegiato. In altre parole, tutti gli eventi che compongono l’universo coesistono seppur in tempi diversi, così come diverse città - Kiev, Tallin, Mumbai - coesistono in spazi diversi: proprio come possiamo tornare più volte nello stesso luogo, teoricamente potremmo tornare più volte nello stesso tempo. È in questo spazio quadrimensionale che la fantasia del regista ha licenza di muoversi senza limiti o barriere. All’interno Scomodo

del tesseratto Joseph Cooper (Matthew McConaughey) assiste allo svolgimento temporale – anno per anno – di un singolo luogo, la cameretta della figlia, cercando inutilmente di impedire al se stesso del passato di partire per il suo viaggio interstellare, abbandonandola: ma se non ha creduto ai suoi stessi messaggi, è perché era già nel futuro per mandarseli. Questa una delle conseguenze più disorientanti dell’Universo a Blocchi: dobbiamo guardare la nostra vita come un grande libro, in cui tutto è già scritto. Non si può cambiare il corso degli eventi, ma solo farli realizzare per come essi si presentano, si sono presentati e si presenteranno sempre. Una verità compresa da Cooper senza bisogno degli spiegoni superflui che si ritrovano invece in Tenet, ma solo grazie alla potenza immaginativa del tesseratto. Far parlare le immagini rimane dunque la formula chiave per il successo, come Nolan ci invita a fare, nonostante tutto, anche nel suo ultimo film, con un consiglio direttamente indirizzato allo spettatore: “Non cercare di capire, sentilo”. E vedilo. Quando si tratta di girare su pellicola, Nolan è fondamentalista come pochi altri. Ma il suo è piuttosto un conservatorismo progressista: fu difatti il primo fra i registi ad alta distribuzione a impiegare massicciamente la tecnologia IMAX, una tipologia di cinepresa impiegata fino ad allora per girare esclusivamente, dato il costo proibitivo, documentari naturalistici. Approdato di recente anche al digitale, l’IMAX nativo registra invece l’immagine in formato analogico su negativi 70mm – gli stessi su cui Sergio Leone

impresse i capisaldi dello spaghetti western Anni ’60 – col risultato di un’altissima risoluzione video, fruibile soltanto in sale appositamente progettate e munite di speciali proiettori. Un po’ come i vecchi Cinerama, dotati di tre macchine che, poste ad angolazioni diverse, proiettavano in simultanea sullo stesso schermo. Un vintage avanguardistico insomma, che fa tre passi indietro per starne uno avanti a tutti. Sarà per questo che Nolan è andato aumentando nel corso delle pellicole il metraggio dell’IMAX, passando dalla mezz’ora scarsa ne Il cavaliere oscuro a un intero film – contribuendo al più alto budget di produzione nella sua carriera, 250 milioni. Il che va ad aggiungersi al suo noto rifiuto di usare la CGI (computer grafica) troppo massicciamente, sforzandosi invece di trovare escamotage fisici per un film che punta tutto – e punta forte – sugli effetti speciali. Quando si tratta di una singola inversione, ha gioco facile: basta riavvolgere il nastro ed è fatta. Ma non c’è scena migliore della battaglia finale – satura di oggetti e comparse in inversione e non – per spiegare la sua operazione. Avendo scelto di non invertire il girato di una detonazione per poi sovrapporgli in CGI quello di un battaglione – e non potendo ovviamente produrre un’implosione sul set – Nolan trova una soluzione impensabile: coreografa gli attori perché facciano ogni movimento al contrario nel mezzo delle detonazioni controllate, cosicché una volta riavvolta la scena, queste ultime appaiano invertite e i primi invece no. Il tutto per dichiarare, con la giusta dose di fierezza, che in Tenet vi siano “meno effetti visivi che nella maggior parte delle commedie romantiche”. 59


tenza alla Harlem Anni ‘80, folleggiandosi in risse da bar del tutto inadeguate per un agente della CIA. Costretto in un antagonista scritto davvero male, le cui motivazioni sembrano più le proiezioni di un geloso in andropausa che di un oligarca russo trafficante di armi, Kenneth Branagh fa l’impossibile per salvare il salvabile.

Il problema è che anche dal punto di vista attoriale, Tenet conta su una qualità interpretativa inferiore alla media delle commedie romantiche. I personaggi principali vengono declassati a misere comparse rispetto all’unico vero protagonista: il Tempo. A ricordarcelo, ultimo ma non meno importante, è Dunkirk, stagione 2017, nel quale Nolan si ostina a giocare con i suoi trucchi da prestigiatore (analessi e prolessi) in modo del tutto ingiustificato – ma non per questo meno godibile – per un film di guerra, spezzettando la cronaca storica in tre linee narrative da far convergere in un punto preciso dello spazio-tempo, in una coordinata precisa del piano cartesiano. Il Tempo si riconferma dunque il suo marchio di fabbrica, la sua cifra stilistica, il suo affezionatissimo attore feticcio. Anche a scapito dei veri attori, in Tenet più che mai. Nel pieno della sua Fase McConaughey, Robert Pattinson regala la prova migliore, accettando ogni ruolo disponibile per guadagnarsi il suo posto al sole lontano da un passato decisamente pallido – in tutti i sensi. Notato nel Blackkklansman di Spike Lee, John D. Washington cambia la capigliatura ma non la strafot60

In conclusione, Tenet sembra aver ricevuto lodi e condanne in quantità bilanciate, ma all’incontrario rispetto ai suoi meriti e demeriti. O per meglio dire all’inverso, visto che in effetti ci troviamo di fronte all’ultimo tornello di questo articolo. La fine e l’inizio si confondono, diventando una cosa sola. Perché questo explicit non fa che rimandarvi all’incipit, nella speranza che quanto è stato scritto nel mezzo abbia innestato in chi legge “una sola idea, molto semplice, che avrebbe cambiato tutto”: che il disappunto paterno possa trasformarsi in approvazione. Ma ricordate: attenti al loop.

di Carlo Giuliano e Claudia Esposito

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Insieme festival, il futuro è ibrido ---------------------------------------------------------------------------------------------------------

Un laboratorio editoriale dove sperimentare nuove modalità di partecipazione “Insieme - Lettori, autori, editori”, evento tenutosi a Roma tra il 1 e il 4 ottobre, è stata un’occasione unica per unire i tre principali festival letterari della capitale: Letterature, Libri Come e Più libri più liberi. Non si tratta di una versione adattata dei tre festival, ma di un format completamente nuovo che riunisce filosofi, giornalisti, scrittori, editori e scienziati in un unico evento in conformità alla situazione sanitaria attuale: un festival ibrido con conferenze da seguire sia in presenza che in streaming. Con questo evento il mondo della letteratura nella capitale decide di riprendersi i suoi spazi scegliendo coraggiosamente di esserci mettendo a valore forze, idee e apparati organizzativi di ciascuno. Se, infatti, in un primo momento abbiamo pensato di trovarci di fronte all’ennesimo festival letterario, ad un’analisi più attenta gli elementi innovativi e peculiari sono risultati evidenti. Per questo alla domanda: “Vale la pena parlarne?” abbiamo risposto di sì per almeno tre ragioni. Prima di tutto perché rappresenta la prima grande risposta unitaria a livello nazionale del settore dell’editoria alla crisi sanitaria. Una manifestazione culturale che punta in alto sotto tutti i punti di vista. Snodandosi tra il Parco Archeologico del Colosseo e l’Auditorium Parco della Musica e con un calendario ricco di incontri e ospiti, anche internazionali, lancia un messaggio fortemente positivo. 62

“La sua natura di ibrido tra mondo fisico e virtuale sembra porre le basi per un ripensamento delle modalità di partecipazione e fruizione di questo tipo di eventi.”

che organizzare eventi culturali partecipati e sicuri per tutti è ancora possibile e lo spazio per farlo è aperto alla sperimentazione. Per raccontare questo festival abbiamo deciso di partire da tre incontri, tutti sold out dal vivo e tutti rigorosamente disponibili alla visione sul sito del Festival in streaming (anche adesso che il festival si è concluso). La scienza è uguale per tutti con Chiara Valerio e Marco Malvaldi e Atlante di un mondo che cambia con Maurizio Molinari e Aldo Cazzullo partono entrambi dalla presentazione di un libro per trasformarsi in vivaci dialoghi o vere e proprie interviste sui temi della nostra contemporaneità. E poi Chiamami col mio nome, monologo di Michela Murgia che non parte da un libro, ma dalla sua materia prima, le parole, i nomi, evidenziandone il potere che non è mai solamente retorico.

Infine perché rappresenta una creatura strana, metà tradizione e metà innovazione, che guarda al futuro. La sua natura di ibrido tra mondo fisico e virtuale nasce da una necessità contingente, quella del covid-19, ma, più che una forma di adattamento ad esso, sembra porre le basi per un ripensamento complessivo delle modalità di partecipazione e fruizione di questo tipo di eventi. Per questo esserci e decidere di stare insieme, ripensando dalle fondamenta il significato della parola insieme, sono le parole d’ordine degli ideatori del Festival che con questa iniziativa hanno contribuito a diffondere il messaggio

Chiamami col mio nome “Chiamami col tuo nome ed io ti chiamerò col mio” dice Oliver a Elio in un momento di tenerezza nel celebre film di Luca Guadagnino, suggellando in una frase la profondità del sentimento che li lega. Perché le cose sono la conseguenza dei nomi che gli diamo e giocare a scambiarsi il nome porta a una fusione di identità e individualità che in amore avviene senza fare male, senza annullamento dell’alterità. Anche questo gioco, però, alla stregua di ogni altro, ha un suo sistema di regole all’interno delle quali i partecipanti si muovono e di codici alla luce dei quali interpretano l’insieme di atteggiamenti reciproci.

In secondo luogo perché nasce dalla sinergia di tre manifestazioni culturali romane, tre momenti distinti, che si uniscono in un’unica occasione per rianimare la capitale, da sempre al centro di un calendario fitto di appuntamenti letterari e che, invece, nel corso dell’ultimo anno, si è vista svuotata di ogni opportunità di espressione e crescita culturale.

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In questo caso, nell’atto di nominare cose, persone, luoghi, esiste solo una condizione in grado di modificare i connotati del “gioco” in un senso o in un altro: il tipo di relazione che esiste tra il soggetto dell’azione, colui che nomina, e il complemento oggetto, chi o cosa viene nominato. Se, infatti, ci si trova in presenza di un rapporto tra pari, come nel caso di una relazione affettiva, decidere di chiamare l’altro con un nome che non è il suo e che siamo noi a decidere rimane, appunto, un gioco e, come tale, è ammesso. Ma quando la stessa azione viene compiuta all’interno di un rapporto di tipo gerarchico, cessa di essere una pratica innocente e diviene un dispositivo di potere. Michela Murgia prende per mano lo spettatore accompagnandolo in un percorso che a partire da questa sfumatura disvela tutta la violenza insita in un semplice atto, quello di dare i nostri nomi alle cose. Le parole che usiamo, infatti, hanno un potere performativo: non si limitano a descrivere il mondo ma contribuiscono a scriverlo, a plasmarlo. Seguendo questo ragionamento chiamare Maria e non Redvmira la signora che ci aiuta nelle faccende domestiche non va più letta come una semplice scelta di comodo ma come un vero e proprio atto di sopraffazione. Dietro la giustificazione pragmatica di una maggiore facilità di pronuncia si nasconde, infatti, la rinuncia aprioristica al riconoscimento dell’altrui differenza dettata dal convincimento di essere in una posizione di superiorità tale da permettermi di rinominare gli elementi di alterità a mio piacimento. Il nome Maria, presente Scomodo

Mappamondo Ricordate lo scorso Capodanno? Sicuramente, ma non solo per i fuochi d’artificio, le feste nei locali o in casa: tutto il mondo era pronto per celebrare i nuovi “ruggenti anni Venti”. Se la sera del 31 dicembre qualcuno avesse predetto cosa il 2020 avrebbe portato, probabilmente nessuno avrebbe prestato particolare attenzione. Quello stesso giorno l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha ricevuto il primo allarme su un virus sconosciuto che si stava diffondendo a una velocità senza precedenti nella regione dello Hubei, in Cina. La questione sembrava talmente tanto lontana dalla nostra realtà che non le abbiamo dato peso, credendo ingenuamente che si sarebbe esaurita da sé come è accaduto lo scorso decennio con l’influenza suina e con la SARS. Il 2020 non ha solo messo a dura prova milioni di vite umane: alla luce delle trasformazioni sociali, economiche e politiche che la nostra società sta affrontando, quello appena trascorso è l’anno che più di tutti ha reso evidente la necessità di una collaborazione globale molto più coesa e strutturale per affrontare le Questo discorso si applica ad grandi sfide del nostro tempo. ogni forma di alterità che nelle Atlante di un mondo che cambia, parole può trovare spazio e ri- ultimo romanzo del direttore conoscimento oppure silenzio, di Repubblica Maurizio Molioblio. Certo immaginare una re- nari, intervistato da Aldo Cazaltà in cui il linguaggio si adatta zullo del Corriere della Sera, perfettamente alla natura delle ha il merito di analizzare con cose, quindi anche ai suoi con- lucidità le diverse realtà protinui cambiamenti, è impos- tagoniste del XXI secolo. Mesibile, ma provare a trovare le diante la sovrapposizione di parole giuste, tante, tutte quelle geografia, politica e storia, che ci servono per garantire a l’autore elabora otto mappe una pluralità di identità di esi- per comprendere le principali stere è un lavoro importante tematiche sociali degli ultimi che oggi vale la pena di fare. vent’anni: dalla parità di genere nel nostro vocabolario e non in quello dell’altro, diviene così lo strumento attraverso il quale ridimensionare la differenza, addomesticarla per poterla maneggiare con più facilità imponendo ad una identità ritenuta estranea di assomigliare al mio modo di ordinare e concepire il mondo. E’ una pratica sottile eppure potentissima: quella di creare e distruggere mondi con le parole. Chiamarti con il mio nome vuol dire negare cittadinanza al tuo modo di essere non solo nel mio vocabolario, ma, più in generale, nella mia concezione del mondo.

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al cambiamento climatico, dalle discriminazioni razziali alla crisi dei migranti, dall’avvento del populismo-sovranismo fino ai conflitti latenti e in corso. Vivendo in un mondo fortemente interconnesso, i cui confini nazionali stanno diventando metaforicamente sempre più labili, le mappe create da Molinari non possono essere osservate in un’ottica separatista, bensì come pezzi di un unico puzzle che deve essere completato. Unendo i vari tasselli otterremo una visione completa della realtà in cui viviamo, con tutte le sue problematiche e peculiarità. Nelle sue mappe, Molinari pone particolare attenzione alla salvaguardia della democrazia, approfondendo la questione statunitense: nonostante le proteste degli ultimi mesi del movimento Black Lives Matter, gli Stati Uniti sono ancora una delle democrazie più forti al mondo; il XXI sarà ancora, secondo Molinari, il “secolo americano” in quanto il potere statunitense è proprio il saper cogliere il meglio dalle proprie differenze, concetto alla base della democrazia. L’importanza della democrazia ribadita da Molinari si riflette nella posizione che Repubblica ha preso riguardo al referendum: mostrandosi a favore del “No” si oppone a uno dei sentimenti più comuni degli ultimi mesi in Italia, quale una generale disaffezione nei confronti del sistema democratico. La vittoria schiacciante del “Si” è il segno lampante di una nazione insoddisfatta che vede sempre di più la politica come uno “spreco”. Soltanto con una rinnovata fiducia nei confronti delle istituzioni e con la nascita di un

sentimento comune volto a unire anziché dividere (come molti governi di stampo populista stanno facendo) si potrà superare questo momento di crisi e uscirne davvero vincitori.

di volte nel corso della vita, semplicemente per arrestare, di fronte a un'evidenza oggettiva, il tentativo maldestro del nostro interlocutore di interpretare soggettivamente i fatti. La matematica non è interpretabile, ha un carattere assoluto, immodificabile. Almeno così ci hanno insegnato, ma non è vero. La matematica non ha nulla a che fare con l’assolutismo. La Valerio ci svela l’incredibile rapporto che sussiste fra matematica e democrazia, spiega che la prima le è servita per fare la sua rivoluzione, che proprio dalla matematica ha imparato che nulla è immodificabile, che anche nella matematica Matematica e democrazia l’errore alberga e si interviene La scienza è uguale per tutti non è per evitarne gli effetti a catena. una conferenza nel senso stretto Dal confronto fra i due scienziao la presentazione di un libro, ma ti viene fuori una definizione di piuttosto un dialogo aperto tra la matematica democratica perfetmatematica Chiara Valerio e il tamente in linea con le premesse. chimico Marco Malvaldi che si Il punto di partenza è abolire la sviluppa a partire dal libro della supremazia dei numeri, concepiValerio: La matematica è politica. ti come quintessenza della matematica. La democrazia si basa sul concetto di collettività, intesa come interazione tra più singoli e la matematica si propone come strumento per studiare queste relazioni. Mostra qual è la linea irregolare, conoscibile con l’astrazione e non con i sensi, che delimita ogni singolo e crea la collettività. Rompere l’impalcatura concettuale che vede la matematica come scienza esatta e infallibile significa confrontarsi, democraticamente, con La riflessione congiunta muove l’idea di errore che non è sempre da una riscrittura della mate- possibile epurare dal risultato, matica, tradizionalmente consi- ma di cui è possibile calcolare derata la scienza esatta per an- la portata e la propagazione. È tonomasia, l’antitesi di ciò che questo esercizio intellettuale che è mutevole, soggettivo, relativo. ci porta ad assimilare matema“La matematica non è un’opinio- tica e democrazia e a scoprire il ne” è la frase assertiva che cia- volto umano di una scienza riscuno di noi ha ripetuto decine tenuta dai più fredda e astratta.

“Chiamarti con il mio nome vuol dire negare cittadinanza al tuo modo di essere non solo nel mio vocabolario, ma, più in generale, nella mia concezione del mondo.”

“Rendere disponibile il festival online vuol dire allargare potenzialmente in misura esponenziale il numero di spettatori, non più limitati esclusivamente al pubblico locale.”

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“Ogni cosa esiste ed è definita in funzione del suo contesto” è una semplice frase che insieme sottolinea una caratteristica spesso ignorata della matematica e racchiude la differenza tra regole e autorità. Le prime hanno un fondamento razionale, la seconda è un’imposizione che non dipende dal contesto. La matematica non è autorità ma regole, perché, partendo da una necessità, trova una soluzione e la definisce in funzione del contesto. Un esempio può essere la nascita dei numeri immaginari, nati da una necessità umana e dall’immaginazione, per l’appunto, e trasformatisi in realtà scientifica. La politica dovrebbe fare lo stesso: studiare il contesto in cui si inserisce per creare regole che possano rispondere ai bisogni e alle necessità di un popolo. Se così non fa, la politica cessa di essere democrazia e diviene dittatura e la matematica cessa di avere qualsiasi rapporto con essa. La matematica democratica è quindi la scienza delle relazioni, basata sugli errori e definita in un preciso contesto, esattamente come la politica democratica. Un mondo in transizione Camminare tra gli stand pieni di libri, sfogliarli, chiedere consiglio per un regalo, andarsi a prendere un caffè al volo al bar dell’Auditorium e poi sedersi al sole con un amico e aspettare insieme l’inizio di una presentazione. Oppure correre in stazione, prendere un treno, infilarsi le cuffiette e connettersi al Wifi, sperare di non incontrare troppe gallerie e premere il tasto streaming. Due esperienze molto diverse, a tratti opposte, che si riuniscono in quell’ora e mezza circa di ascolto e silenzio in cui si sono svolti gli incontri di Insieme Festival. Scomodo

Rompendo gli schemi del classico festival del libro, infatti, Insieme si è presentato come un ibrido offrendo al pubblico più di una modalità di partecipazione al suo programma. La prima preoccupazione degli ideatori, infatti, è stata quella di immaginare un evento che, non solo fosse in grado di adattarsi perfettamente alle norme per il contenimento del covid-19, ma che, partendo dalla eccezionalità delle circostanze, sapesse reinventarsi sperimentando nuovi modi di stare insieme.

Offrire la possibilità di avere accesso a una buona parte delle presentazioni e conferenze del programma da remoto, gratuitamente e anche in differita se da un lato è stata una scelta obbligata dovuta al ridimensionamento dei posti disponibili per garantire il distanziamento, dall’altra apre la strada a un rivoluzionamento complessivo del modo di concepire la partecipazione a eventi di questo tipo. Prima di tutto vuol dire allargare potenzialmente in misura esponenziale il numero di spettatori, non più limitati esclusivamente

al pubblico locale né alla durata temporanea dell’evento, dall’altra cambiare radicalmente il volto alle modalità di fruizione delle manifestazioni culturali. Nel mondo della cultura quindi, così come in tanti altri settori, la diffusione del virus ci ha messi di fronte a sfide importanti, ma è vero anche che le strade libere e inesplorate da percorrere sono infinite. Il passaggio dalla presenza fisica a quella virtuale è in questo senso significativo e nel suo piccolo questo festival dei libri è parte del cambiamento. Senza rinnegare la centralità che ancora oggi riveste il momento dell’incontro dal vivo, il piacere dello stare insieme, la belleza di un’esperienza sensoriale di ascolto in una dimensione anche fisicamente collettiva, l’evento, così come proposto, lancia un messaggio comunque positivo. L’ampliamento delle possibilità di fruizione ci regala una dimensione del tempo che trascorre più lentamente e che quindi possiamo riempire consapevolmente con ciò che più ci piace, nelle modalità che preferiamo. L’evento non è più qualcosa di unico e non replicabile, in quanto fruibile soltanto in quella dimensione spazio-temporale, ma rimane, nella molteplicità delle sue declinazioni, un’esperienza viva.

di Annachiara Mottola di Amato, Anna Cassanelli e Francesca Maria Lorenzini 65


STEREO8 Negli anni '70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta cartacea da mettere in play anche su Spotify.

Ten Years After I’d Love To Change The World Da A Space In Time (1971) Frequenze: Blues rock

rsani ele Be Samu Pixel muele ma Sa autorato e in C Da ant nze: C Freque pop

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Agli occhi di un osservatore esterno, gli inglesi Ten Years After possono sembrare un classico gruppo rock anni ‘70 che predilige chitarre virtuosistiche e musicisti dalla chioma folta. Ma sotto una coltre di anonimato si nasconde un gruppo di culto, che merita il suo posto nella storia del genere anche grazie a un’animalesca e leggendaria performance a Woodstock. I’d Love To Change The World è il loro unico brano finito in classifica, un instant classic adolescenziale dal messaggio pacifista un po’ generico ma con una progressione melodica incalzante e difficile da dimenticare. Era il 1991 quando un giovane Samuele Bersani, trasferitosi da poco a Bologna, venne notato da Lucio Dalla e divenne sua spalla fissa in apertura durante il Cambio Tour. Gli anni successivi lo hanno visto approdare a Sanremo, vincere per ben tre volte la Targa Tenco e continuare a raccontarsi con lo stesso candore e la stessa universale semplicità degli esordi. Cinema Samuele segna il suo ritorno, a sette anni di distanza dall’ultimo disco, con un progetto che racchiude tutte le anime di questo artista. L’opening track Pixel è la sorpresa che scompiglia le carte in tavola, una piccola gemma elettronica che dà il la al viaggio delle tracce successive.

Kevin Morby – Sundowner Da Sundowner Frequenze: Folk rock

Ascoltando Kevin Morby si ha l’impressione di trovarsi davanti a un cantante di un’altra epoca, un emulo di Neil Young e Leonard Cohen in fuga dal Kansas verso New York per inseguire una carriera da artista come il protagonista di un film. La sua ultima fatica, Sundowner - in parte stravolta dal lockdown - è un disco misurato e profondo, dalla forte impronta acustica e minimale. La title track è una canzone slow burner, delicata, nella quale il cantautore racconta sussurrando a un interlocutore immaginario della sua vita solitaria trascorsa con un “campfire inside my soul”.


Bartees Strange Mustang Da Live Forever Frequenze: Post rock

Bartees Strange è un artista strano, uno dei rari afroamericani a popolare la vastissima ma prevalentemente bianca costellazione dell’indie rock statunitense. Il suo background eterogeneo, che lo vede provenire dal gospel in una città poco multiculturale come Mustang, Oklahoma, si riversa in quel calderone di generi che è il suo album di debutto Live Forever. E anche il brano dedicato a questo luogo della sua infanzia è un mix godibilissimo: una sintesi energica tra synth e chitarre, valorizzata dal suo timbro graffiante e incisivo

cecilia Coltrane Da ? Frequenze: R n’ B pop

Bea Kristi, in arte Beabadoobee (il suo ex nickname su Instagram) è la nuova artista del momento uscita da quel tritacarne che è l’industria musicale americana: vincitrice del premio come miglior artista emergente ai Brit Awards del 2019, definisce il suo genere bubblegum grunge, una “musica felice e rabbiosa”. Il suo primo disco ufficiale è un’interessante prova d’esordio che migliora gli spunti ancora acerbi dei suoi progetti precedenti. Sorry è un bel pezzo aggressivo e obliquo, esaltato dal matrimonio volutamente grezzo tra voce e chitarra. Black Thought Good Morning (feat. Pusha T & Killer Mike) Da tream of Thoughts, Vol. 3: Cane and Able Frequenze: Conscious rap

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Cresciuta tra l’Inghilterra - dove si è laureata all’Università del Bedfordshire - e la Toscana, la lucchese cecilia è l’ultima arrivata della nidiata di artiste nostrane a metà tra soul e pop che si sono distinte recentemente, con Ginevra e CRLN in pole position. Accolta sotto l’ala di Futura Dischi alla fine del 2019, il suo ultimo progetto è una raccolta di brani eleganti, dall’atmosfera piovosa e autunnale: l’acuto tra tutti è Coltrane, una ballata eterea e fascinosa nella quale la giovane artista riesce a trasportare l’ascoltatore dentro il proprio universo.

Bea bado o Da F Sorry bee ake Freq uenz It Flo e: Be wers droo m po p

nza Spera eat. Kofs) f orire ro 9 ( Calib ltimo a M t rap Da L’U nze: Stree e Frequ

Dopo quattro anni di silenzio con i The Roots, probabilmente la più importante band hip-hop di sempre, nel 2018 Black Thought ha finalmente preso in mano il microfono da solo, pubblicando a stretto giro di posta i primi due capitoli degli Stream of Thoughts: due EP brevi e diretti, accompagnati dalla sua solita immensa classe e critica sociale al vetriolo. Il terzo capitolo della serie è uscito ad ottobre e si è subito distinto come uno dei prodotti migliori di questo (fino ad ora) magro 2020. La mega collaborazione Good Morning, assieme ai due pesi massimi Pusha T e Killer Mike, è la colonna sonora perfetta per questo periodo storico quanto mai anomalo.

Quando ha fatto irruzione nel rap game poco più di due anni fa, il casertano Speranza sembrava una versione esasperata e meridionale del lol rapper medio, che nei video urlava “Chiavt a Mammt” e lanciava sdraio in mare. Svariati singoli e un album ufficiale dopo, abbiamo imparato a conoscerlo come un artista più versatile di quanto potesse sembrare a una prima occhiata e dalla scrittura atomica. Il banger Calibro 9, in collaborazione con il marsigliese Kofs e prodotto da Don Joe, aggiunge al suo arsenale l’unica arma che ancora non aveva sfoderato: quella della grande collaborazione internazionale.

ylist Se vuoi ascoltare questa pla tify Spo su 8 cerca Stereo

di Jacopo Andrea Panno 67


[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Riguarda tra le altre cose: la relazione tra stati diversi; l’interesse comune di più nazioni; ciò che si estende a più paesi e che oltrepassa i confini del proprio stato.

L'ARTISTA: Stefanie Röhnisch, è un'illustratrice tedesca nata nel 1988 a Berlino. Nel 2019 si laurea in communication design alla Muthesius University of Fine Arts and Design di Kiel. Dal 2013 ha collaborato in vari progetti e festival, tra cui l'Illustrade Festival di Rostock, ha inoltre esposto alla Zine Library della galleria di Amburgo.

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L ' A RT I STA :

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare Scomodo 69 una parola che descrive e contiene moltissimi significati.


Recensioni -------------------------------------------------------------------Anni Luce 2020 al Romaeuropa Festival, tra performance e attesa Teatro

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Al Mattatoio, dove in questi giorni si svolge il Roma Europa Festival, ho assistito a due spettacoli a dir poco spaesanti: “Calcinacci” e “Ca ne resonne pas/Ca ne resonne trop”. Mi imbatto in Climen, che ha partecipato alla creazione del secondo spettacolo, e colgo l’occasione per togliermi qualche dubbio: un po’ intimorita la saluto e mi presento come redattrice di Scomodo. Lei si volta di scatto, mi squadra per quella che mi sembra un’eternità, e inizia a raccontare, sfoggiando un inglese, diciamo così, molto parigino. “Ca ne resonne pas/Ca ne resonne trop” è stato concepito verso gennaio/febbraio 2020 e poi covato durante il lockdown, grazie a videochiamate internazionali. Come ormai ogni anno dal 2017, la sezione “Anni Luce” del REF- Roma Europa Festival si presenta come un’area sperimentale: uno spazio disegnato per essere alla completa disposizione di giovani (spesso aspiranti) attori. Verso l’inizio dell’anno viene pubblicato un bando a livello internazionale per dare la possibilità a piccoli collettivi teatrali di andare in scena al Mattatoio con brevi performance (durata massima di 30 minuti): il REF mette a disposizione dei giovani gruppi alcuni professionisti, che ovviamente non ne intaccano l’indipendenza intellettuale e artistica, con i quali i ragazzi possono lavorare al loro progetto. Nel caso dello spettacolo in questione il mentore è Daria de Florian. Anni Luce 2020 si è molto soffermato sull’attesa, figlia forse dei mesi che tutti noi abbiamo speso a casa, non facendo altro che impegnare il tempo a disposizione prima di poter tornare a uscire.

D’altronde la performance “Calcinacci” non consiste che nella rappresentazione fisica dell’aspettare. Claudio Lorena, unico in scena, lavora a un muro durante tutta la performance. Ogni tanto si volta verso il pubblico, si contorce, fa per dire qualcosa, ma poi tace e si rivolge nuovamente faccia al muro - letteralmente. Alla fine della rappresentazione avrà pronunciato solo quattro o cinque battute, molto brevi e scarne: pochissime subordinate. Ma il pubblico avrà carpito il suo stato d’animo: una condizione di attesa e di metabolizzazione delle proprie idee. In “Ca ne resonne pas/Ca ne resonne trop” Chiara e Climen si confrontano tra loro e, facendo esplicito riferimento a loro conversazioni precedenti, privano il pubblico di quella sicurezza legata alla finzione di cui può godere a teatro e lo rendono partecipe dei loro flussi di coscienza. Il primo passo è acquisire la consapevolezza – che si presenta a tutti, a un certo punto della vita – che viviamo dentro una scatola sociale, che per quanto larga possa sembrare, è pur sempre limitata, e “ci si muove in verticale; non abbiamo mai provato a procedere orizzontalmente, in modo diverso da come ci è sempre stato raccontato, scoperchiando l’ordine impostoci” - dice Climen a inizio performance, mentre tiene in equilibrio sulla propria schiena piegata una pianta di fagiolo - con annessa la naturale e conseguente perdita delle certezze. La performance è l’esternazione di un loop di pensieri nel quale tutti prima o poi entriamo, perché vivendo pensiamo e pensiero chiama pensiero, domande, preghiere…e poche risposte.

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Ottobre 2019 Scomodo


Attivismo ecologico, mostri di potenziale distruzione mondiale come la bomba atomica collegati al più quotidiano degli oggetti (una vecchia lampada che conserva i nostri ricordi più cari) e la paura della morte, sulla quale si specula da sempre e nei modi più disparati: di questo e altro si parla nello spettacolo, mentre i propri pensieri trovano espressione sia attraverso citazioni filosofiche, sia nella confessione a gran voce di incubi che ci perseguitano. Ragioniamo troppo e non ragioniamo per niente. Pensare è un esercizio mentale, che fa sicuramente bene al nostro senno e alla nostra anima, ma che difficilmente porterà a delle risposte, poiché non ce ne sono: in questo consiste la fragilità umana, e, di conseguenza, anche quella dei nostri pensieri. Il continuo contrasto tra il sentirsi grandi, invincibili, e poco dopo esili e fragili, eppure va bene così: non saremmo umani altrimenti. Quando espongo questa mia impressione alle attrici, queste annuiscono, ma Mathilde,

che nel frattempo si è avvicinata, tiene a sottolineare che il tipo di percorso che loro hanno compiuto per la preparazione dello spettacolo è più emotivo che mentale. “Non abbiamo studiato teorie filosofiche o sorseggiato del thè declamando citazioni, è stato più un lavoro di pancia. Letto un verso, fatta una ricerca...come ci sentivamo subito dopo? Da lì il confronto, il continuo inviarsi messaggi vocali, in contatto tra Roma e Parigi, ognuna dalla propria casa e con un orizzonte di idee e soprattutto sensazioni davanti a noi, così è stato poi prodotto il testo.” Testo di base, poi, poiché la performance è il risultato di un processo creativo in itinere, senza che nessuna tra le ragazze avesse un ruolo preciso, ma controllandosi a vicenda. Anche quest’anno quindi “Anni Luce” torna a sorprendere, dimostrando innovazione nel teatro e nella concezione della vita. Cose che, effettivamente, vanno quasi di pari passo. di Gaia Del Bosco

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Ultra Mono degli Idles, quando il punk ha ancora qualcosa da dire Per chi non si fosse ancora imbattuto negli Idles e nella loro musica, il primo approccio potrebbe essere fuorviante. I riff prepotenti di chitarra, i cori bestiali e la voce gutturale di Joe Talbot potrebbero in pochi secondi generare un’esperienza extracorporea catartica capace di trasportarti nel più scadente bar di Bristol, dove un barista ubriaco pieno di tatuaggi fa cadere il sidro annacquato appena ordinato e centinaia di persone sudate pogano senza curarsi del virus. Potrebbe anche farti pensare ad un tempo diverso, agli anni ’70, quando il punk andava di moda e l’establishment non era Trump o Boris Johnson. Ma vivendo nel 2020 e testimoni-

ando come alcune icone del punk di quegli anni supportano proprio quel tipo di establishment, gli Idles sembrano più che mai necessari. Ultra Mono, uscito il 22 settembre 2020, è il terzo lavoro in studio della band inglese dopo l’esordio Brutalism del 2017 e l’acclamato Joy As a Act of Resistance del 2018. Questo lavoro, composto da 12 tracce che danno vita a 42 minuti di pura prepotenza, conferma la continuità dal punto di vista musicale e tematico con ciò che la band aveva dimostrato nei primi due album, ma questa volta il contesto socioculturale è abbastanza maturo da far si che Ultra Mono possa diventare uno dei migliori dischi dell’anno.

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Prodotto tra gli altri da Nick Launay, storico produttore britannico di artisti del calibro dei Talking Heads, Arcade Fire e Nick Cave, l’album riesce nel difficile compito di non apparire musicalmente anacronistico. Grazie all’aiuto di Kenny Beats, collaboratore di Denzel Curry e JEPGMafia, l’ascolto è gradevole e mai banale, in ogni canzone chitarra, batteria, basso e voce si confondono generando un impasto di suoni che invece di risultare caotico viene magistralmente gestito dalla band, dai produttori e dai tecnici. Un album potente che fa della maggiore critica che gli si potrebbe muovere, la monotonia, il suo punto di forza. Di fatti, nonostante ad un primo ascolto le canzoni possano sembrare uguali, la produzione e i temi trattati rendono ogni traccia autentica. Si tratta di un album chiamato Ultra Mono e di sicuro il nome non è casuale. Ma nonostante il grado di testosterone che trasudano gli Idles, non si tratta del l’ennesimo stereotipo della mascolinità tossica che abbiamo imparato a conoscere con gli altri interpreti dello stesso genere. Lo si intuisce in particolare dal tipo di commenti che si trovano sotto i loro video, dove qualcuno scrive mi fa venir voglia di prendere a pugni un omofobo”. Gli Idles infatti sono una band post-punk decisamente atipica. Prima di ogni concerto il cantante e frontman Joe Talbot bacia ogni membro sulle labbra gridando “love and compassion, not aggression” e se la folla si spinge troppo oltre, non ha problemi a fermare il pogo. Ma non è solo attraverso questi esempi tecnici che si capisce l’umanità e sensibilità della band. Durante l’esibizione a Glastonbury del 2019, nel pieno delle discussioni sugli accordi sulla Brexit, prima di suonare “Danny Nedelko”, canzone riguardo a un vecchio amico della band immigrato dall’Ucraina, Joe la

presentò dicendo: “Questa canzone parla di una delle parti più belle di questo paese: gli stranieri”. Esattamente come i lavori precedenti, anche Ultra Mono ha una identificativa impronta politica. La prima traccia War è evidentemente la dichiarazione di guerra che gli Idles esprimono contro tutti i dissidi interiori della vita di ognuno di noi, soprattutto in un momento come questo dove le certezze cadono e i punti fermi sono impossibili da trovare, sia nella sfera personale che in quella politica. Mr Motivator, uno dei singoli usciti durante l’estate, torna a gamba tesa sul tema politico. “All holds hand, chase the pricks away” è la frase centrale del ritornello di una canzone in cui Talbot e compagni sognano e sperano in “Kathleen Hanna with bear claws grabbing Trump by the pussy”. Similmente con Grounds la band riflette sulle proteste che hanno invaso le piazze di tutto il mondo dopo la morte di George Floyd, considerando inutile l’attivismo sui social se poi non si agisce di conseguenza: “Saying my race and class ain't suitable/So I raise my pink fist and say black is beautiful”. Fino ad arrivare ad A hymn penultima traccia dell’album che cambia totalmente stile, arrivando quasi ad essere una ballad dalle sonorità simili ai Nine Inch Nails, in cui ci si confronta con il costante bisogno di essere amati. Sicuramente uno degli album più riusciti della band che sta diventando un punto di riferimento non solo per gli appassionati. Cinque ragazzi stanno riuscendo nell’arduo compito di riportare in auge un genere che si pensava morto già all’inizio degli anni ’10, ma che sembra aver ancora molto da dire, soprattutto se a dirlo sono gli Idles. di Luca Pagani Scomodo


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PATRIA BLU O MARE NOSTRUM? / LA CITTADINANZA ITALIANA VALE BEN PIÙ DI 10 MILIONI DI EURO Scomodo

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PATRIA BLU O MARE NOSTRUM? LE MIRE ESPANSIONISTICHE DELLA TURCHIA NEL MEDITERRANEO SONO UN BANCO DI PROVA CRUCIALE PER LE ASPIRAZIONI FUTURE DELL’ITALIA. Il 10 giugno, mentre il nostro Paese era intento ad osservare i primi risultati della riapertura dei confini regionali avvenuta il 3 giugno, il Mar Mediterraneo diveniva il palcoscenico di una delle più aspre diatribe navali della sua recente storia, che ha visto come protagonista la fregata francese Courbet. La nave della flotta francese, che era impegnata nella missione NATO “Sea Guardian” per pattugliare le acque del Mediterraneo, si trovava a largo della costa libica quando è avvenuto l’incontro con le altri due navi protagoniste di questa vicenda, il mercantile Cirkir e la fregata della flotta turca Oruçreis, che gli faceva da scorta. Non era la prima volta che la nave battente bandiera tanzaniana si avventurava in quel specifico tratto di mare. Già il 27 maggio, dopo aver spento nei giorni precedenti il proprio sistema di tracciamento automatico nei momenti successivi alla sua uscita dal porto Haydarpaşa di Istanbul, il Cirkir era stato avvistato al largo dell’isola di Creta da un'altra nave francese, la Forbin, mentre faceva ritorno dal porto libico di Misurata, in tempi recenti finito proprio nelle mani del governo di Ankara. Dinanzi alla richiesta del cacciatorpediniere francese di poter ispezionare il carico del mercantile, per controllare se il Cirkir stesse infrangendo l’embargo voluto dalla NATO sul commercio d’armi con ambo le fazioni protagoniste della guerra libica, si sono frapposte le tre navi della Marina turca che erano gli facevano da scorta, impedendo così all’equipaggio francese di procedere con il check del carico. Il 10 giugno il mercantile, stavolta di passaggio nelle acque al largo della costa libica, è stato intercettato dalla fregata Courbet. In questo caso, alla richiesta di ispezione del carico arrivata dalla nave francese, ha risposto il radar di tiro della fregata turca Oruçreis, che ha illuminato per ben tre volte la fregata e ha schierato gli uomini dell’equipaggio armati sul proprio ponte. Un atto di ostilità con ben pochi eguali all’interno della storia recente del Mar Mediterraneo, specialmente se si considera il fatto che la minaccia ad una nave in missione per conto della NATO è arrivata dal membro di una flotta di un altro paese membro come la Turchia. La NATO stessa è stata talmente presa alla sprovvista da questa vicenda da non riuscire, anche al seguito di una propria inchiesta sull’accaduto, a sanzionare il governo turco per la palese violazione dell’embargo libico e per l’aggressione rivolta verso un altro paese membro, causando così la temporanea fuoriuscita della Francia dalle missioni navali dell’alleanza militare. L’incidente che ha visto coinvolto la Courbet può apparire come un caso isolato, ma osservando il contesto mediterraneo possiamo notare come l’operato di Ankara stia divenendo sempre più aggressivo, come testimoniato delle sempre maggiori tensioni che si stanno sviluppando con la Grecia, storico rivale e nemico mai dimenticato dal governo di Erdogan. La Turchia si muove con sempre maggior forza all’interno di uno spazio geografico e geopolitico, quello mediterraneo, che noi italiani consideriamo da sempre, per ragioni storiche e culturali che risalgono ai tempi del dominio dell’Impero Romano sull’area, come nostro di diritto. Oggi, la nostra classe dirigente appare totalmente incapace a gestire una simile sfida: come può il nostro paese contrastare l’assalto di Ankara al Mare Nostrum?

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LA PATRIA BLU: I TURCHI ALLA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO Per lungo tempo, siamo stati abituati a pensare alla Turchia come un paese irrilevante all’interno del contesto geopolitico globale: al di fuori dell’Unione Europea e in costante conflitto con due super potenze come USA e Russia, oramai il paese guidato da Erdogan appariva come uno sbiadito parente di quell’Impero Ottomano che era stato capace di conquistare la totalità del Nord-Africa e spingersi fino alle porte dell’Europa Centrale. Gli stessi risultati della politica estera di Ankara testimoniarono a favore di questa visione, come nel caso della disastrosa gestione dell’inizio del conflitto siriano. Nel 2011, la Turchia era infatti il più forte alleato nella zona medio-orientale per al-Asad, ma l’azione combinata del presidente Erdogan e dell’allora braccio destro e ministro degli esteri Davutoğlu risultò totalmente fallimentare nel condizionare l’operato del proprio alleato, al punto tale che il presidente siriano arrivò a minacciare un conflitto militare con Ankara e a uscire completamente dalla sua sfera d’influenza. Per la Turchia, la Siria è stato il più grande fallimento della storia millenaria del paese ed una ferita che tormenta ancora oggi i sogni di Erdogan in persona, che ha vissuto questa disfatta come un segno del fatto che la strategia geopolitica seguita fino a quel momento fosse destinata a risolversi in una serie di sconfitte senza possibilità d’appello. Dopo attente analisi e l’allontanamento dal governo dello stratega di Erdogan Davutoğlu, il governo turco ha dunque deciso di cambiare spartito, per cercare di risollevare la propria sorte all’interno di quel complicato puzzle che è l’odierna politica internazionale. Oggi, la Turchia è perfettamente consapevole di non essere ancora giunta ad un livello di potenza militare tale da poter smuovere da sé gli equilibri regionali delle aree in cui vorrebbe estendere la propria influenza. Per ovviare a questa debolezza, Ankara oggi si muove e pianifica come se in atto ci fossero degli eventi non ancora innescati, in modo da non farsi cogliere impreparata nel momento nel quale il contesto internazionale permetterà di colpire. Le due aree maggiormente attenzionate dal governo Erdogan sono i Balcani e il Mediterraneo Orientale: nella prima, Ankara cerca il modo di ricongiungersi con la Macedonia e il territorio della Grande Albania sfruttando il parere favorevole della Serbia e dell’Ungheria di Orban, mentre nel Mediterraneo cerca di ristabilire l’enorme potere che l’Impero Ottomano ha mantenuto sull’area per secoli. Nei Balcani, Erdogan sta conducendo una “guerra” di logoramento contro l’unico competitor rimasto attivo e forte nella zona, ossia la Grecia, eterna rivale dei popoli della penisola anatolica. Il governo turco è perfettamente consapevole di non poter sfidare a viso aperto la Grecia (anche se il piano d’invasione del paese è pronto in attesa della giusta occasione), ma questo non impedisce ad Ankara di tentare di destabilizzare il proprio avversario tramite l’utilizzo dell’arma più potente presente nel proprio armamentario: i migranti che cercano di attraversare la Rotta Balcanica. La Turchia non si muove minacciosamente solo in direzione dei Balcani, ma oramai da tempo cerca con sempre maggior forza di imporsi all’interno del contesto mediterraneo. A muovere i fili di questa svolta talassocratica del governo turco è stata la strategia della “Patria Blu”, ideata dall’ammiraglio in pensione Cem Gürdeniz, uomo sempre più influente all’interno dell’entourage di Erdogan e capace di soppiantare la teoria della “profondità strategica” professata dal vecchio braccio destro del presidente Davutoğlu. Il concetto alla base di questa visione è tanto semplice quanto efficace: conquistare il mare per rilanciare il futuro del paese. Da quando le teorie di Gürdeniz hanno conquistato il governo di Ankara, la Turchia sta procedendo a passo spedito per cercare di rendere possibile una missione così complessa. Il primo passo è stato una decisa accelerata nella costruzione del Canale di Istanbul, opera che dovrebbe essere completata entro il 2027 per permettere di collegare il Mar Nero e il Mar di Marmara, permettendo così ad Erdogan di diventare l’ago della bilancia nel confronto nella zona fra Russia e Stati Uniti. Mentre lavora su questo, la Turchia aspetta il momento giusto per attaccare e prendersi con la forza gli obiettivi che si è posta nel Mediterraneo, fra cui spiccano Cipro, che Erdogan vuole sfruttare per creare le basi di un conflitto con Atene, e il Dodecaneso, unica arma in mano alla Grecia per spezzare in due la Patria Blu turca e per impedirle di diventare potenza mediterranea.

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Il cuore della strategia turca risiede però nel Mediterraneo Orientale, dove Erdogan non aspetta altro che lo sviluppo di una situazione simile a quella trovata in Libia per proseguire la propria espansione all’interno della zona, mirando in questa maniera a puntare e conquistare nel minor tempo possibile il Canale di Suez per guadagnarsi la tanto cercata apertura sull’Oceano Indiano. Proprio la Libia, infatti, rappresenta ad oggi il maggior risultato raggiunto dal nuovo corso della politica estera turca. Sfruttando il totale interesse delle grandi potenze, Erdogan si è sapientemente inserito all’interno del contesto libico, facilitato anche da una gestione totalmente fallimentare da parte dell’Italia. Il governo turco ha iniziato a tessere rapporti con quello di al-Sarraj, ma ha aspettato che Haftar arrivasse fino alle porte di Tripoli prima di chiudere l’accordo in soccorso del governo di accordo nazionale. Questa decisione, insieme alla schiacciante dimostrazione di forza ottenuta tramite l’utilizzo dei micidiali droni Bayraktar TB2, hanno permesso alla Turchia di ottenere la base navale di Misurata, la ridiscussione delle aree di sovranità marittima e l'ormai capillare presenza nel paese anche tramite l’invio di milizie private come la temuta Milizia Sadat. La gestione del conflitto libico rappresenta il capolavoro della nuova strategia geopolitica di Ankara, che vuole pertanto fare di questa vittoria un modello da replicare ed esportare nel resto dell’area per espandere ancor di più la propria influenza.

SE ANKARA RIDE, ROMA PIANGE Mentre la Turchia inizia a porre le basi di una futura avanzata nel Mediterraneo, il nostro paese sembra assolutamente all’oscuro di questa minaccia. Eppure, l’Italia per prima dovrebbe essere consapevole della forza turca, visto che ad Ankara sono bastati pochi anni per buttarci fuori dalla Libia, paese legato al nostro da ormai un secolo. Oggi sembrano lontani i tempi in cui la comunità internazionale affidava al governo italiano il difficile compito di diramare il lungo conflitto civile che si stava svolgendo fra Haftar e al-Sarraj, mentre la Turchia veniva esclusa totalmente dai dialoghi sul futuro della zona. Sono passati soli due anni dalla Conferenza di Palermo, celebrata allora dal Governo Conte I come decisiva per risolvere la questione, e alla quale la Turchia non venne neanche invitata: in soli due anni, a risolvere le cose sono stati i droni turchi, mentre l’Italia ha perso una delle poche zone d’influenza che le erano rimaste. La sconfitta in Libia dovrebbe, dunque, rappresentare un pericoloso campanello d’allarme per la nostra classe politica. Perdere un territorio così strettamente legato all’Italia a livello storico per mano di una potenza che neanche veniva considerata come tale, rappresenta una ferita profonda per l’orgoglio del nostro paese, che da sempre considera il Mediterraneo la sua naturale area di influenza senza, però, aver fatto nulla per consolidare una tale posizione nel corso degli ultimi anni. Eppure, dalla Farnesina e dal Palazzo Chigi tutto tace: Conte è impegnato nella gestione del nuovo aumento di casi di COVID-19, mentre di Maio si è tardivamente presentato in Libia a settembre (quando i giochi nel conflitto erano ormai chiusi), e oggi professa una sempre maggiore collaborazione con Ankara nella gestione della situazione. La minacciosa avanzata turca nel Mare Nostrum sembra non esser stata percepita dalla nostra classe dirigente, convinta forse che in caso di pericolo effettivo gli Stati Uniti sarebbero pronti a venire immediatamente in nostro soccorso, mentre sono decenni che i presidenti americani portano avanti una politica di totale disimpegno dagli scenari globali che non li riguardino direttamente. A testimonianza di questa cecità nei confronti del pericolo turco, va segnalata la concessione per i prossimi quarantanove anni del terminal container del porto di Taranto alla Yilport, multinazionale turca e tredicesima forza a livello globale nel settore portuale. Questa decisione rappresenta un gigantesco assist per il governo di Ankara, che da sempre rincorre le vie commerciali cinesi e che trova in Taranto un perfetto punto d’ingresso all’interno della Belt & Road Initiative. Il fatto che il nostro governo non si sia fatto alcuno scrupolo a cedere uno dei porti che diverranno essenziali nello sviluppo della nuova Via della Seta, ad uno dei suoi competitors più feroci non deve sorprendere: è lo stesso atteggiamento che l’Italia ha mostrato nella firma del memorandum politico con la Cina, atto di capitale importanza per le aspirazioni di Pechino da noi trattato come un semplice accordo commerciale. In questo momento, sembra che la nostra classe dirigente agisca senza porre in prospettiva le singole mosse che manda avanti: un atteggiamento che nel lungo periodo rischia di compromettere seriamente le prospettive geopolitiche future dell’Italia.

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UN MINISTERO DA SEMPRE PRIVO DI VALORE Questo tragico scenario deriva dalla totale svalutazione messa in atto dalla classe politica nei confronti della difficile scienza della politica estera, testimoniata a livello storico dal trattamento riservato al Ministero degli Esteri durante la formazione dei vari esecutivi che hanno composto la storia repubblicana italiana. La Farnesina, pur rappresentando al tempo stesso uno dei Ministeri di maggior prestigio e più difficili da gestire nel caso non si disponga delle necessarie competenze, è sempre stato trattato dai partiti italiani come merce di scambio all’interno delle coalizioni di governo. Emblematica in questo senso è la situazione che si venne a creare durante il periodo del Pentapartito, sapientemente orchestrata dalle menti di Giulio Andreotti e di Bettino Craxi: visto che il patto fra DC e PSI era fondato sulla possibilità di ognuno dei 5 membri dell’alleanza di raggiungere il vertice dell’esecutivo di governo, il Ministero degli Esteri diveniva il perfetto premio di consolazione nel caso in cui una delle due forze principali (DC e PSI) non fosse riuscita ad occupare Palazzo Chigi. In questo modo, Andreotti ottenne la Farnesina sotto entrambi gli esecutivi guidati direttamente da Craxi, mentre il Presidente del PSI, quando alla guida del Governo si trovava il “Divo Giulio”, decise di lasciare il posto a Gianni de Michelis, suo fedelissimo braccio destro. Questa tendenza era stata sviluppata anche in precedenza dalla Democrazia Cristiana, quando le sue percentuali le permettevano di governare tranquillamente anche da sola: egualmente anche in questo caso, la Farnesina rappresentava il miglior contentino per cercare di mantenere buona l’opposizione interna al partito, come dimostrato dalla decisione di Andreotti di affidare gli Esteri al compianto Aldo Moro, mentre i due si sfidavano durante i congressi della DC per ottenere la leadership all’interno dello schieramento. In entrambe le occasioni, il Ministero degli Esteri non veniva analizzato sotto l’aspetto della sua importanza strategica per la gestione della difficile situazione internazionale che l’Italia ha dovuto affrontare nel corso della prima parte della sua storia repubblicana, ma come merce di scambio per reprimere i possibili scontri intra-partito e all’interno delle coalizioni di governo. Una valenza negativa che spesso anche oggi viene riconosciuta alla Farnesina, illustrata chiaramente nel caso della nomina di Luigi di Maio agli Esteri, figura la cui gestione della crisi libica ha ampiamente dimostrato la sua totale inadeguatezza per guidare un ministero così complesso. Questa gestione ha finito, in questa maniera, per portare alla totale svalutazione della centralità della politica estera all’interno dell’operato di governo non solo agli occhi della classe dirigente, ma anche agli occhi della popolazione, che nei confronti delle dinamiche internazionali dimostra un sempre maggiore disinteresse. In tal modo, all’interno del contesto politico attuale del nostro paese, si è andato a creare un loop mortifero: più scende l’interesse generale verso la politica estera e sempre meno i nostri partiti si preoccupano di sviluppare questo punto all’interno dei propri programmi.

UNA POLITICA CHE NON GUARDA AL FUTURO Quella che si viene a creare in questo scenario, è una politica totalmente incapace di guardare oltre il domani più prossimo, priva della capacità di investire per il proprio futuro ma, soprattutto, di comprendere le pericolose implicazioni dietro alle scelte apparentemente più banali. Un paese passato dal ruolo di fondatore dell’Unione Europea alla totale diffidenza dei partner continentali e internazionali, che spesso mal digeriscono le decisioni prese dai governi italiani (la firma del Memorandum sulla Belt & Road Initiative con la Cina) e sono sempre più restie ad affidare incarichi rilevanti dopo il nostro fallimento in Libia. Se la nostra classe dirigente non si pone oggi come obiettivo primario l’invertire questa pericolosa tendenza, l’Italia rischia di diventare in futuro un paese privo di difese, abbandonato nel mezzo del Mediterraneo in attesa di divenire terra di conquista per le superpotenze che in futuro si affacceranno sul Mare Nostrum con sempre maggiore intensità. Per impedire ciò, i nostri partiti devono prendere consapevolezza dell’attuale fragilità italiana all’interno del contesto internazionale, smettendo di perseguire il falso mito dell’importanza strategica del nostro paese all’interno degli organismi internazionali (dettato quasi unicamente dal fatto che l’Italia faccia ancora parte del G7).

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Solo dopo aver compiuto questo primo fondamentale passo, si potrà procedere con una massiccia revisione delle prospettive future del nostro paese, fondata su una maggiore visione prospettica e sulla capacità di comprendere la scarsità di armi che l’Italia ha la possibilità di sfruttare in ambito internazionale per non venir divorata dai colossi mondiali. In questo senso, l’Unione Europea può svolgere una funzione molto importante, specie nell’ambito della discussione di accordi commerciali con potenze come Cina e USA: in sede contrattuale, la possibilità di sfruttare l’aiuto delle istituzioni europee permetterebbe all’Italia di non dover sottostare totalmente alle decisioni degli altri paesi, ottenendo risultati economici più convenienti e soprattutto riuscendo in alcuni casi ad imporre le proprie condizioni. L’Italia potrebbe seguire l’esempio della Francia, che per gestire la cessione di 300 aerei della Airbus alla Repubblica Cinese, decise di richiedere l’aiuto dell’Unione per la mediazione dell’accordo, ottenendo così 30 miliardi di euro e nessun impegno politico dietro la firma di questo accordo commerciale. Un risultato ben migliore rispetto a quello ottenuto dalla singola trattativa portata avanti dall'Italia, che ha ottenuto accordi per soli 7 miliardi di euro e che ora si trova pericolosamente legata a Pechino a livello geopolitico. Si tratta di una svolta che ovviamente non dipende solo da noi, ma anche dalla volontà dell’Unione stessa di non perdere uno dei suoi paesi cardine in favore dei propri competitors internazionali: timore che il nostro paese potrebbe sfruttare per forzare una decisa svolta a livello continentale, a suo favore e degli altri paesi che soffrono le nostre stesse problematiche a livello geopolitico e che rischiano di essere inglobate nella Patria Blu turca (Grecia in primis). Il tempo per invertire la rotta c’è, considerato il fatto che nel Mediterraneo la Turchia è ancora lontana dalla possibilità concreta di imporre il proprio dominio all’interno dell’area. Questo non vuol dire che la nostra classe dirigente possa permettersi nuovi passi falsi nello scenario internazionale, poiché questo non farebbe altro che isolarci ancor di più dai nostri partner continentali e internazionali. Una volta accaduto questo, Ankara e le altre potenze che si stanno affacciando sul Mediterraneo non ci metterebbero molto a fiutare l’affare ed ad attaccare direttamente il nostro paese, facendo così divenire l’Italia una loro conquista di grande rilievo e facendola scivolare all’interno della più totale irrilevanza nel contesto geopolitico globale. Uno possibilità che di certo la Turchia sfrutterebbe per estendere la propria influenza nel Mediterraneo: la recente vittoria elettorale del candidato filo-turco Ersin Tatar nelle elezioni di Cipro Nord è solo l’ultimo successo di Erdogan in ordine cronologico nell’area. Se l’avanzata turca non verrà fermata, il progetto della Patria Blu diventerà realtà, con il concreto rischio che Ankara inglobi al suo interno anche l’Italia. di Luca Bagnariol

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LA CITTADINANZA ITALIANA VALE BEN PIÙ DI 10 MILIONI DI EURO IL CASO SUAREZ RIAPRE UN DIBATTITO FONDAMENTALE PER MILIONI DI PERSONE, ANCHE SE IL GOVERNO SEMBRA IGNORARE QUESTA ESIGENZA. “Lasciatemi cantare, perchè ne sono fiero, sono un italiano, un italiano vero”, cantava Toto Cutugno nel lontano 1983, dipingendo il ritratto del perfetto italiano attraverso le sue abitudini più diffuse. Fortunatamente non si è mai stati giudicati italiani per legge secondo i parametri espressi in modo goliardico dal cantante napoletano, come la religione, i gusti culinari, o tantomeno il pallone. Proprio quest’ultimo elemento però, nella figura di uno dei suoi massimi esponenti a livello mondiale, il calciatore uruguaiano Luis Suarez, ha riportato in auge la questione della cittadinanza italiana e delle leggi che la riguardano all’interno del dibattito pubblico del nostro paese. Le accuse rivolte verso l’allora attaccante del Barcellona di aver concordato con la commissione d’esame le domande per ottenere la certificazione linguistica necessaria per ottenere la cittadinanza italiana, favorendo così un suo passaggio alla Juventus, hanno riacceso i riflettori su una questione da sempre percepita come fondamentale agli occhi della popolazione ma che non ha mai vissuto un momento di svolta a livello politico dal 1992. Non verrà approfondito oltre queste righe lo scandalo che ha investito l'Università per Stranieri di Perugia, né il concetto esasperato dall’opinione pubblica in modo forse superficiale subito dopo l'esplosione della vicenda: ovvero, quanto sia vergognoso che se sei ricco e famoso puoi ottenere in 15 minuti quello che una persona normale ottiene dopo anni e anni di attesa. Cercheremo infatti di entrare nel merito delle questioni a nostro avviso più importanti: la crescente difficoltà per diventare cittadino italiano a causa di quanto le leggi siano state modificate nel corso degli anni, il rapporto tra l'Italia e gli altri paesi europei, e come recentemente il governo abbia agito in materia con il nuovo Decreto Sicurezza. Per analizzare la questione nel miglior modo possibile, abbiamo deciso di avvalerci di testimonianze di esperti che vivono in prima persona le difficoltà del sistema burocratico italiano per la concessione della cittadinanza.

LE FONDAMENTA GIURIDICHE: LA LEGGE 91/1992 Per parlare di un argomento così complesso, bisogna anzitutto fare un salto indietro nel tempo in modo da capire come si è arrivati alla situazione attuale. In Italia, in base alla legge n.91 del 5 febbraio 1992, la cittadinanza si ottiene iure sanguinis, quindi solo se si nasce o si viene adottati da genitori italiani, oppure per matrimonio se ci si sposa con coniuge italiano. Per quanto riguarda coloro che non sono nati in Italia, si richiede necessaria la residenza per 10 anni consecutivi e un reddito annuale minimo di 8.500€ negli ultimi 3 anni, mentre per apolidi o rifugiati politici sono richiesti 5 anni. In poche parole condizioni molto rigide. Per la maggior parte degli italiani è una cosa scontata, ma è importante ricordare che senza cittadinanza non si esiste: non si può votare, scegliere liberamente un lavoro, partecipare ad alcune manifestazioni sportive, studiare all'estero e soprattutto viaggiare facilmente. Chi è nato in Italia da genitori stranieri deve risiedere nel paese fino al compimento dei 18 anni. Solo allora potrà richiedere la cittadinanza. Nel corso degli ultimi anni si è spesso parlato della necessità di rivedere una riforma così superata e rigida , come testimoniato dal dibattito su nuovi parametri per la concessione della cittadinanza italiana come ius soli e ius culturae, trattate già nello speciale monotematico di “Scomodo” sul razzismo sistemico nel nostro paese.

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La prima prevede la cittadinanza automatica per bambini stranieri nati sul territorio italiano mentre l'altra l'acquisizione dopo il completamento di un ciclo di studi. Nel 2015 l'Italia pareva disposta riconoscere entrambi gli aspetti, arrivando così alla tanto voluta riforma della legge sull’ottenimento della cittadinanza italiana. Il nuovo apparato legislativo però rimase intrappolato in Senato per la mancanza di parlamentari sufficienti per la votazione, vittima dell’ostruzionismo dei 5 Stelle e delle varie forze di destra che non si presentarono alla seduta. Recentemente l'opinione pubblica si è pronunciata a favore di una maggior estensione della cittadinanza attraverso lo ius culturae, come riporta un sondaggio Ipsos nel 2019 per conto del Corriere della Sera, ma ormai appare chiaro che sull'argomento la politica abbia preso una strada diversa da quella dei suoi cittadini.

LA CONTRORIFORMA DI SALVINI PONE UNA BARRIERA LINGUISTICA A mettersi ulteriormente di traverso tra gli immigrati di seconda generazione e la tanto agognata cittadinanza fu l'ex Ministro dell'Interno Matteo Salvini, che con il D.l. 113 del 4 ottobre 2018 è intervenuto in materia. Non solo ha allungato i tempi per la conclusione del procedimento da 2 a 4 anni, ma ha anche stabilito una maggiore conoscenza della lingua italiana, aumentando il livello a B1. Un dettaglio ancor più importante è che la legge era retroattiva, e dunque chi si era avvicinato a diventare cittadino italiano ha subìto un passo indietro di due anni. Più che una riforma la si può definire una controriforma. Innalzare il livello di competenza linguistica di fatto è un’ulteriore barriera per gli immigrati, che vengono visti come una minaccia nell’attuale situazione di crisi che il nostro stato sta vivendo. <<Per migliorare il riconoscimento dei diritti, fra cui quelli linguistici, bisognerebbe fare i conti con questo senso comune regressivo e antisociale, incapace di accogliere l’idea dell’universalità della condizione umana, e bisognerebbe fare dunque i conti con l’uso politico appunto irresponsabile di questo senso comune. Sarebbe un vantaggio per tutti: per chi arriva, ovviamente, fornito dello strumento più importante per trovare un posto legittimo e dignitoso; e per chi lo accoglie, che vedrebbe nuovi cittadini in grado di interagire adeguatamente e non una entità sempre sospesa tra forza lavoro senza voce e presunta minaccia perturbante.>> Così si è espresso a Scomodo Pietro Cataldi, Rettore dell’Università per Stranieri di Siena. La lingua, da ponte per la comunicazione e contatto tra le persone, è divenuta uno strumento di discriminazione ed esclusione, ponendo il migrante in una condizione di discutibile subalternità. <<Come Lorenzo Milani ha ricordato molte volte chi conosce più parole ha più potere, e farsi carico dell’educazione di massa (anche linguistica) non è solo un avanzamento di civiltà, ma anche un gesto di riconoscimento sociale, un gesto di egualitarismo democratico. La cosa opposta, cioè, del privilegio di classe e della logica del profitto.>> Anche i test di valutazione costituiscono strumenti di potere, oltre che di politica sociale e migratoria. Infatti dal risultato ottenuto dipende la possibilità di continuare a vivere e lavorare in un Paese. Coloro che richiedono la cittadinanza sono tenuti ad attestare il possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione riconosciuto dal Miur o dal Ministero degli Esteri. Le certificazioni relative alla competenza linguistica CLIQ (Certificazioni Lingua Italiana di Qualità) sono rilasciate da quattro enti certificatori: l’Università per Stranieri di Siena, l’Università per Stranieri di Perugia, l’Università degli Studi Roma Tre, la Società Dante Alighieri. Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per la conoscenza delle lingue definisce le linee guida per descrivere le competenze linguistiche acquisite da chi studia le lingue straniere in Europa, ed è stato creato con l'obiettivo di fornire uno schema di valutazione condiviso, articolato in sei livelli di riferimento. Il livello B1, quello “sostenuto” da Suarez, richiede la capacità di sostenere conversazioni semplici su argomenti di attualità e di interesse personale o professionale, la comprensione di testi scritti di uso corrente quotidiano, la scrittura di testi semplici su argomenti noti. Al di là della difficoltà oggettiva delle prove d’esame e della spesso mancante struttura organizzativa, bisogna riflettere sull’efficacia di tale sistema ai fini della tanto decantata integrazione. Innanzitutto, il valore di una certificazione si fonda su una struttura altamente formalizzata, che fornisca ai diretti interessati spiegazioni e indicazioni riguardo alle prove.

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In secondo luogo è necessaria la disposizione di strumenti adeguati. Il Paese ospitante richiede sì agli stranieri una determinata competenza linguistica, ma deve altrettanto fornire i mezzi per raggiungerla, attraverso una maggiore organizzazione sia delle risorse sia dei percorsi di formazione e informazione. <<Sarebbe come pretendere che un bambino dimostri di conoscere la lingua parlata in famiglia senza che nessuno gliel'abbia insegnata. Uno straniero che giunge in un paese nuovo è, dal punto di vista linguistico, è come un bambino: la responsabilità di accoglierlo, anche linguisticamente, dovrebbe stare innanzitutto sulle spalle di chi la lingua la conosce già, cioè, praticamente, sulle strutture pubbliche che potrebbero farsene carico.>> Troppo spesso, infatti, sono solo le associazioni di volontariato a seguire e aiutare gli stranieri e gli “Italiani non ancora italiani” nel lungo procedimento burocratico previsto dalla legge. Si dovrebbe intervenire prima sul contesto anziché sul soggetto “diverso”, cominciando da un cambiamento culturale interno, così da costruire un processo continuo verso l’inclusione. In tal senso il CIES (Centro Informazione e Educazione allo Sviluppo) ha realizzato il progetto II Generazione: attraverso attività scolastiche ed extrascolastiche, rivolte soprattutto ai figli degli immigrati presenti in Italia, dove sono nati o cresciuti, ha stimolato l’inclusione socioculturale. Non basta integrare le diversità a posteriori. <<Se per integrazione si intende un processo a senso unico, si rischia di prolungare le strategie della colonizzazione in ciò che hanno avuto di più pervasivo e orribile: di voler cioè cancellare la cultura dell’altro e di imporgli la nostra, dando per scontato che la nostra sia non solo superiore ma l’unica accettabile. Il problema non è insomma insegnare l’italiano agli immigrati che arrivano nel nostro paese, cioè non è solo questo; il problema è cambiare atteggiamento e insegnare l’italiano come riconoscimento di un bisogno recipro.>> Oltre alle realtà spontanee di volontariato, nel nostro paese manca ancora quella mentalità che ha portato altri Stati europei a gestire l'integrazione (culturale) dei migranti con investimenti e modelli nazionali distinti.

IL PARADOSSO (SPIEGATO) DEI NUMERI NEL RAPPORTO TRA ITALIA E PAESI EUROPEI Rispetto a noi gli altri paesi europei sono allineati su una maggior flessibilità riguardo i requisiti per ottenere la cittadinanza. In Francia, per i figli di genitori stranieri, la richiesta può essere fatta dai 16 anni, o addirittura dai 13 se richiesta dai genitori con il suo consenso a certe condizioni. In Germania ottengono la cittadinanza anche figli di stranieri purché uno dei genitori risieda stabilmente nel paese da almeno 8 anni e sia in possesso di un soggiorno illimitato da almeno 3 anni. Nel Regno Unito basta anche che uno dei due genitori viva lì a tempo indeterminato, senza soggiornare ai limiti temporali previsti dalla legislazione. In Spagna per chi nasce da genitori entrambi stranieri è sufficiente un anno di residenza nel paese per diventare cittadino, mentre per chi sposa un cittadino spagnolo basta un anno di matrimonio e uno di residenza. Per quanto riguarda la naturalizzazione per residenza stabile i requisiti cambiano da paese a paese, ma l'Italia prevede un termine superiore agli altri, 10 anni. Sembrerebbe, dunque, davvero più difficile assumere la cittadinanza nel nostro paese. Usiamo il condizionale, però, perché nonostante le restrizioni delle sue leggi, l'Italia è sorprendentemente il paese con il maggior numero di acquisizioni di cittadinanza negli ultimi 5 anni. Notiamo inoltre un trend in costante aumento dal 2000 al 2016 (anno del picco) decisamente più alto che negli altri paesi. L'Italia ha uno dei tassi di crescita di acquisizioni di cittadinanza tra i più alti d'Europa (89%), e negli ultimi 10 anni 1 milione di persone sono diventate cittadini italiani. I numeri, però, devono essere interpretati: i dati che rapportano l'Italia con gli altri paesi sono frutto dei flussi di almeno 5-15 anni prima, il tempo che ci vuole per ottenere la cittadinanza. L'Italia ha registrato un grande flusso migratorio tra fine anni '90 e inizi 2000, quindi successivamente a quanto avvenuto negli altri paesi europei. Una delle risposte politiche a tutto ciò è stata una sanatoria che ha regolarizzato 634.000 persone con la legge Bossi-Fini del 2002. L’impennata è iniziata nel 2010, proprio quando sono maturati i 10 anni di residenza per i regolarizzati nel 2002. Ecco spiegata quella che sembrava una vera e propria contraddizione. Dunque, risolta l’incongruenza, nonostante i numeri il problema della cittadinanza è tutt’altro che risolto, per farlo bisognava intervenire prima di tutto sulla legge più recente -e intransigente- a proposito: il Dl Salvini.

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GLI SCARSI CAMBIAMENTI DEL “DECRETO SICUREZZA E IMMIGRAZIONE” Dopo mesi di discussioni, a inizio ottobre il Consiglio dei Ministri ha finalmente ripreso in mano il testo già pronto con le modifiche ai “decreti Salvini”, con le nuove “Disposizioni in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, nonché in materia di diritto penale”. Tra gli aspetti più importanti di tali modifiche vi è un cambiamento radicale nel sistema di accoglienza, con il ripristino di una forma di protezione umanitaria. “Gli enti locali possono accogliere, nei limiti dei posti disponibili, i richiedenti in protezione internazionale e i minori stranieri non accompagnati”. Viene introdotto un permesso “speciale” di soggiorno concesso per motivi umanitari che prevede la protezione per due anni. Sempre per quanto riguarda la protezione internazionale, l’articolo 1 del nuovo decreto introduce il principio di non respingimento o rimpatrio nei confronti di coloro che rischiano di veder violati i propri diritti umani. Un’altra importante modifica è relativa ai divieti per le operazioni di soccorso in mare: nella misura in cui vi sia la comunicazione al centro di coordinamento e siano rispettate le indicazioni delle autorità competenti, le ong non vanno incontro ad alcun tipo di sanzione. Ma l’aspetto che invece è stato modificato di meno e che era stato fortemente penalizzato dal vecchio decreto Salvini, è proprio la riforma della legge sulla cittadinanza, che prevede una blanda riduzione dei tempi di attesa massima da quattro a tre anni senza migliorare in alcun modo il testo di legge.

CHI SI OPPONE PER UN'ITALIA MIGLIORE? GLI “ITALIANI SENZA CITTADINANZA” “Mettiamola così: più che un effettivo miglioramento lo vediamo come uno sconto di pena”. A parlare sono i membri di “Italiani senza cittadinanza”, movimento nato nel 2016 quando fallì il tentativo di realizzazione dello ius soli. “Quando ci sembrava di essere arrivati al traguardo, siamo tornati al punto di partenza. Dunque ci siamo detti ‘perché non unire le nostre forze per un obiettivo comune?’ All’inizio portavamo in piazza delle cartoline dove c'erano i nostri dati personali, per far capire a tutti che vogliamo essere parte a tutti gli effetti del paese in cui viviamo da anni. Un'altra volta ci siamo vestiti tutti col tricolore.” Da un punto di vista operativo a comporre il movimento sono alcune centinaia di membri, ma esso coinvolge e rappresenta molte più persone, unite per fare i conti con la burocrazia italiana. “Il modo di entrare in contatto con chi ha bisogno di aiuto è attraverso i nostri canali social: riceviamo numerosissimi messaggi da chi si sente solo nella sua battaglia personale”.“Italiani senza cittadinanza” ha infatti un duplice scopo: sia quello di informare più persone possibile su requisiti e norme che regolano l'acquisizione della cittadinanza, sia di supporto psicologico, perché “è terribile la solitudine che senti quando fai domanda per un paese che dovrebbe essere già il tuo, ma nessuno è disposto ad aiutarti”, ci dicono. A Scomodo hanno raccontato le storie di alcuni di loro, per farci capire quanto sia difficile oggi diventare cittadino italiano. “Marco, nato in Italia da genitori stranieri, al compimento della maggiore età non sapeva della finestra di un solo anno per richiedere la cittadinanza; quando l'ha scoperto era troppo tardi e si è trovato persino senza permesso di soggiorno, motivo per cui non poteva muoversi ed era considerabile come un clandestino. Una volta è stato persino in carcere due giorni, prima che scoprissero l'equivoco.” Oggi ha più di 30 anni e ancora non è riconosciuto come cittadino italiano. “Laura invece non è nata in Italia e per la questione del reddito minimo di 8.500 euro è stata costretta a lasciare l'università per mettersi a lavorare”. E’ per loro e tanti altri ragazzi che il movimento cerca di agire, prendendo spunto proprio da quelle storie per intervenire direttamente. Nel caso di Marco, ad esempio, è grazie al movimento se si è deciso che i comuni dovessero avvisare i richiedenti cittadinanza della finestra di tempo di un anno dal compimento della maggiore età. Ma non solo. Vanno nelle aule di scuola e anche in quelle del Senato, dove hanno potuto assistere a delle sedute. La loro battaglia contro la obsoleta legge 91/92 continua senza sosta, perché è inammissibile dover superare 12 fasi per ottenere la cittadinanza, con il rischio di ricominciare da zero al primo intoppo. L'obiettivo che si pongono per il futuro è uno solo: “Portare i tempi di ottenimento da tre a un anno, come avviene negli altri paesi europei” Oggi, in Italia vivono 5 milioni di stranieri, quasi il 10% della popolazione residente. Se una parte di chi vive in un paese non determina le scelte che in quel paese si fanno, la parola democrazia perde il proprio significato pregnante. È necessario dunque riformulare i criteri di attribuzione della cittadinanza italiana in modo tale da proiettare il senso di appartenenza verso il futuro, e per costruire una società dinamica oltre che aperta e inclusiva. La partecipazione alla vita politica e civile dei giovani di origine straniera è un elemento imprescindibile per l'Italia futura. Ciò che ci si aspetta dal governo attuale, è che si adoperi quanto prima per far sì che il più possibile di queste persone diventino italiani veri. Proprio come cantava Cotugno. di Emanuele Caviglia, Elena Lopriore e Gianluca Braga

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Copertina Francesco Guarnaccia Art director Maria Marzano Artwork Frita

Illustratori Gabriel Vigorito pag. 16 / 18 / 19 / 33 Osso pag. 22 / 24 / 25 Dadinski pag. 24 / 48 / 50 / 51 Maria Marzano pag. 55 / 56 / 57 / 58 / 59 Martina Saboacchi pag. 61 / 63

Fotografi Emma Terlizzese pag. 38 / 40 / 42

Registrazione Tribunale di Roma N.218/2016 Direttore Responsabile Barnaba Maj Stampa O.Graro. Srl Vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma Chiuso in tipografia 09/11/2020

Redattori Cosimo Maj • Giulia Alioto • Lia Tore • Carlo Giuliano • Claudia Esposito • Annachiara Mottola di Amato • Anna Cassanelli • Francesca Lorenzini • Jacopo Andrea Panno • Alessandro Mason • Gaia Del Bosco • Luca Pagani • Federica Carlino • Giulia Falconetti • Elena Lovato • Elena Potitò • Pietro Forti • Federica Tessari • Marina Roio • Luca Bagnariol • Elena Lopriore • Emanuele Caviglia • Gianluca Braga • Ismaele Calaciura • Anastasiya Myasoyedova • Carolina Pisapia • Lorenzo Sagnimeni • Costanza Hippoliti • Livia Vanella • Eleonora Varriale • Lorenzo Bianconi • Chiara Lettieri • Andrea Calà • Alessio Civita • Simone Martuscelli • Giulia D’Aleo • Elena D’Acunto • Eleonora Pizzichelli • Marta Bernardi • Federico Fiore


Il futuro è nostro e abbiamo la responsabilità di difenderlo. Nonostante le limitazioni di questo periodo storico la Redazione di Scomodo e le centinaia di persone che ne fanno parte non hanno mai smesso di lavorare. Tutto questo è possibile grazie al sostegno di chi, come te, leggendo sceglie di sostenerci contribuendo alla definizione di un nuovo modello culturale basato su approfondimento, creatività e partecipazione.

Facciamo il nostro, restiamo scomodi.


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