INQUINANTI

Page 1

di Edoardo Bucci per la redazione di Scomodo

L’

Per presentare il numero che avete tra le mani abbiamo l’obbligo di raccontare la genesi, assolutamente non casuale, dell’incontro tra Scomodo e Greenpeace Italia. Un incontro che nasce dalla consapevolezza radicata del peso storico che i cambiamenti climatici impongono al nostro presente e dalla volontà di ricavare lo spazio e le modalità per una riflessione del tutto nuova, per la sua complessità sociale e politica.

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Questo numero, come il percorso che porterà alla stesura dei successivi, è scritto e realizzato in massima libertà dalla redazione di Scomodo, seguendo la propria visione del mondo e del giornalismo. Greenpeace ha contribuito economicamente alla pubblicazione del progetto, fornendo, laddove richiesta, una consulenza di formazione tecnica preziosa su alcune delle tematiche trattate. Scegliere di lavorare su un progetto comune rappresenta in primis un tentativo di coerenza rispetto alla centralità dei temi affrontati, la possibilità di uscire da qualunque polemica intergenerazionale per agire concretamente. La strada intrapresa, in linea con l’esperienza editoriale di Scomodo, vuole essere un tentativo di fornire strumenti di riflessione solidi alla nostra generazione. Questo sarà possibile solo attraverso la costruzione di una forte coscienza collettiva, ed è in questa direzione che lo sviluppo di un lavoro editoriale strutturato, ma al tempo stesso accessibile, costituisce un primo passo significativo.

Denunciare le responsabilità, morali prima ancora che politiche, dei grandi emettitori è il fulcro del nostro impegno editoriale, che vede in questo numero un tentativo embrionale di un progetto più esteso. “Inquinanti”, in questa prospettiva, assume un significato più ampio del semplice titolo e costituisce un filo condutture nella nostra riflessione legato non solo alla sfera ambientale più tangibile, ma alle implicazioni drastiche che le grandi multinazionali del ventunesimo secolo generano nello sviluppo stesso delle società umane. Abbiamo scelto di partire dal nostro Paese, dove la diramazione patologica dei rapporti tra chi inquina e la cosa pubblica costituisce l’inquietante sfondo delle più importanti dinamiche economiche. Una rete di legami che, svincolata dalla superficialità costante dei proclami, a seconda dei casi, suggerisce o impone la direzione strategica della politica italiana. In questo quadro complesso le colpe rischiano di essere così orizzontalmente ridistribuite da diventare aleatorie ed impossibili da leggere chiaramente. Avere un ruolo concreto in uno degli Stati europei che più duramente rischia di subire le conseguenze dei cambiamenti climatici, costituisce per noi uno stimolo sufficiente per cercare di indagare queste responsabilità.

Un’indagine editoriale che non può, e non deve, però allontanare dal peso condiviso dietro la situazione attuale. In questo senso, iniziare con un volume intimamente legato al contesto urbano definisce, prima ancora che una divulgazione, una presa di coscienza interiore da parte di chi si è dedicato a questa pubblicazione. Ragionare sulla città, in un mondo in cui entro venticinque anni due persone su tre ci vivranno, significa mettere al centro il legame tra presente e futuro. Questo vuol dire favorire una dialettica costante che non si adagi su soluzioni date, ma che assuma la consapevolezza di uno sforzo che deve perpetuarsi nel tempo e tra le generazioni. Diventare noi stessi pionieri e sperimentatori di un modo nuovo di essere cittadini, con la cognizione della complessità che questo significa, costituisce la sola strada possibile per affrontare la più importante crisi del vivere urbano che la nostra storia abbia mai conosciuto.

1


capitolo I

LA MACCHINA DEL FUMO L’intero processo di produzione di energia ha un impatto ambientale altissimo, soprattutto se gestito male.

2

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

3


In Basilicata, una delle regioni più piccole e povere d’italia con un’economia prevalentemente agricola, si trova la capitale del petrolio italiano, la Val d’Agri. Ormai da anni questa regione fa fronte a problemi di disoccupazione e carenza di investimenti, ma dalla fine degli anni ottanta - a seguito di alcune attività esplorative - si è portato alla luce il più grande giacimento petrolifero in terraferma d’europa, capace da solo di soddisfare il 10% del fabbisogno nazionale di idrocarburi; per questo motivo è stato conferito alla regione il titolo di “Texas d’Italia”. La gestione e l’estrazione del petrolio è affidata ad Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), multinazionale creata dallo Stato Italiano nel 1953, poi convertita in società per azioni nel 1992. Presente in 73 Paesi con circa 33.000 dipendenti sotto il simbolo del cane a sei zampe, l’Eni è attiva nei settori del petrolio, del gas naturale, della chimica, della produzione e commercializzazione di energia elettrica e delle energie rinnovabili. Nel 2018 è l’ottavo gruppo petrolifero mondiale per giro d’affari; la classifica Fortune 500 annovera Eni tra le prime 150 aziende al mondo per fatturato, e solo nel 2016 Eni ha raggiunto i 55,8 miliardi di euro di ricavi, con utili pari a 1,457 miliardi di euro. 4

In Basilicata la produzione petrolifera vera e propria comincia nel 1997, quando entra in funzione il Centro Olio Monte Alpi ora denominato Centro Olio Val d’Agri, il COVA, nella zona industriale di Viggiano. Ad oggi vengono estratti 80mila barili di greggio al giorno ma l’intenzione è quella di intensificare le attività estrattive e portare l’impianto al massimo della produzione. In gioco c’è un accordo per l’ampliamento del Centro Olio: verranno aggiunte cinque linee di trattamento e 136 chilometri di oleodotto che colleghino l’impianto con la raffineria di Taranto. L’ampliamento consentirà di produrre fino a 104.000 barili ogni giorno. Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, parlando di quest’opera di ampliamento ha assicurato “un investimento di 3 miliardi che porterà all’assunzione di 400 persone in più e sarà realizzato tecnicamente a zero impatto ambientale creando nuovi pozzi in aree già interessate senza occupare nuovi terreni”. La realtà dei fatti è però decisamente diversa da quella professata dagli amministratori. Eni infatti, già coinvolta in scandali e processi a livello internazionale per danni ambientali, tace e nasconde le proprie responsabilità nel devastante impatto ambientale che i continui sversamenti di greggio ed esalazioni tossiche stanno avendo sul territorio e sulla salute dei cittadini lucani. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


INQUINANTI INQUINIANTI VOL.1 VOL.1 || NOVEMBRE NOVEMBRE 2019 2019

L’estrazione del petrolio è un mondo strano. Nella Val D’Agri, in particolare a Viggiano (poco meno di 3500 abitanti, ne sanno qualcosa: il piccolo comune è diventato il paese più ricco d’Italia in proporzione grazie alle “royalties” (compensazioni) derivanti dallo sfruttamento del territorio comunale per l’estrazione del greggio. Questi oscillerebbero tra i 14 e 17 milioni di euro annui secondo Luca Manes e Giulia Franchi, del gruppo d’inchiesta Re:Common, che hanno trattato la questione ne “Il Delta del Niger italiano?”, pubblicazione di aprile 2018. Ovviamente, ciò fa più che bene al bilancio del comune, in attivo di circa 5 milioni fino al 2018. Tuttavia queste royalties arrivano proprio in virtù di uno sfruttamento petrolifero mortifero per la zona, e il disastro ambientale che appariva essere dietro l’angolo si è verificato a più riprese, con sversamenti ora oggetto di processo. La situazione della Val d’Agri, un tempo ambigua, perde la maschera il 27 ottobre 2019. Grazie all’attività legislativa del governo Monti (art. 34, comma 19, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179) le concessioni per l’estrazione vengono rinnovate automaticamente, ma il sistema di compensazioni cade senza un nuovo accordo con il Ministero dello Sviluppo Economico. Il primo governo di destra della Basilicata, guidato da Bardi, tenta di farle ripartire cercando di farlo comunicare con il Ministero dello Sviluppo Economico, senza alcun successo. L’attività estrattiva continua, ma stavolta non “retribuita”. Eppure, la preoccupazione della giunta va alla perdita del ‘malloppo’: “Non è elemosina quella che chiediamo ma il rispetto di un diritto dei cittadini a fronte di un sacrificio cui siamo costretti. Benefici che devono essere usati per creare quello sviluppo che in questi anni non è mai arrivato”. Nel frattempo, ci si dirige verso un processo storico in merito ai danni ambientali in Val d’Agri. 5


Enrico Trovato, ex responsabile del COVA da settembre 2014 a gennaio 2017, è stato citato a giudizio immediato lo scorso 28 ottobre per il disastro ambientale causato dalla fuoriuscita di 400 tonnellate di greggio che hanno provocato l’inquinamento di acque e sottosuolo in un territorio di 26mila metri quadrati. L’ENI ha confermato la fuoriuscita sminuendone però la gravità parlando di “singolo episodio” contenuto in 6mila metri quadri. Già nel 2011 però Gianluca Griffa, ai tempi responsabile degli impianti del Centro Olio di Viggiano, denunciava in alcuni suoi memorandum la mala gestione del processi estrattivi di petrolio e le costanti perdite di greggio dei serbatoi. La lettera in particolare affrontava il problema della re-iniezione di sostanze pericolose nel terreno durante il processo di trattamento del petrolio. Preoccupazione poi confermata dalla magistratura tre anni dopo, portando alla sospensione dei lavori del pozzo di Costa Molina 2, nel comune di Montemurro. Ma soprattutto Griffa scriveva già nel 2013 delle perdite individuate nel fondo dei serbatoi del COVA, con tanto di misura e descrizione dei danni, e di come la sua preoccupazione unita al tentativo di stimolare una reazione immediata da parte dei suoi superiori gli fossero costate ferie forzate, rimozione dall’incarico e una convocazione nella sede di Milano il 22 luglio 2013. Viene citata, nel commento del GIP, “una precisa strategia condivisa dai vertici di Milano per nascondere gravi problemi” nel provvedimento di misure cautelari a carico di Enrico Trovato ed altri tredici indagati per lo sversamento. Parole che Gianluca Griffa non ascolterà mai, essendo stato trovato morto in un bosco al confine tra Cuneo e Torino nell’agosto del 2013, a 38 anni.

6

“Il suo memoriale”, scrive il gip Ida Iura, “chiude il cerchio della valutazione probatoria perché le considerazioni di Griffa hanno trovato un completo riscontro” nel corso dell’inchiesta. Secondo l’accusa Enrico Trovato sapeva delle perdite dei serbatoi di stoccaggio del greggio, segnalate già dal 2012, e non avrebbe detto né fatto nulla per evitare che la situazione peggiorasse. Allo stesso tempo, il GIP parla di “scelte scellerate per interessi economici” nei riguardi di Eni. “Cosa ne è stato delle 400 tonnellate (dichiarate ufficialmente) di greggio permeate nel terreno”, scrive Re:Common, “non è ancora dato esattamente sapere”. Stessa sorte per le vicende che hanno portato al suicidio di Gianluca Griffa. “Quanto accaduto è la conferma di quello che studio e scrivo da tempo su ciò che accade in Val d’Agri” – racconta la professoressa Albina Colella – già nel 2011 avevo riscontrato un’elevata concentrazione di idrocarburi nelle acque del Pertusillo, e successivamente anche nei sedimenti. “La situazione, che all’epoca avevo fotografato, ha poi trovato riscontro nelle parole dell’ingegnere Griffa, che aveva capito tutto”. La Colella, docente di Geologia all’Università di Potenza, nel 2015 era stata denunciata da Eni per diffamazione, danni morali e patrimoniali, dopo alcune dichiarazioni rese in tv sulle acque contaminate. All’epoca dei fatti a capo del Cova c’era sempre Enrico Trovato e alla professoressa venne chiesto un risarcimento di 5 milioni di euro, poi rigettato. Stando ai racconti della professoressa Colella, “in Basilicata c’è grande preoccupazione per la situazione ambientale ma anche tanta paura di esporsi”.

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


L’IMPATTO C’È E SI VEDE Cinquant’anni di estrazione petrolifera lasciano il segno. Tra fuoriuscite naturali e corposissimi sversamenti artificiali, nella Val d’Agri negli ultimi anni sono stati rilevati danni di portata inquietante, sia negli impianti più antichi che in quelli ampiamente attivi. I primi sono in parte, oggi, in fase di decommissioning, come la centrale a gas di Ferrandina, tra le prime ‘impronte’ di Eni nella regione. Tra le fasi della dismissione proprio di questa centrale c’è la “messa in sicurezza delle acque di falda mediante impianto pump and treat”, ove le falde acquifere potevano essere affette. Non lontano, in Valbasento, il Tecnoparco altro non fa che smaltire acque reflue e rifiuti pericolosi: ogni anno tratta oltre 1 milione di mc di reflui, compresi quelli derivanti dalle attività estrattive di idrocarburi. Attualmente i suoi vertici sono stati rinviati a giudizio per “smaltimento senza autorizzazione di 31mila metri cubi di rifiuti speciali liquidi scaricati nel fiume Basento”. Di Eni abbiamo già citato la responsabilità nello sversamento di 400 tonnellate di petrolio: se dapprima l’a.d. Descalzi si era affrettato a sminuire la portata dell’incidente in Senato, il Ministero dell’ambiente l’aveva descritto come “rilevante”. E rilevante sarà, portando alla “contaminazione e compromissione di 26mila metri quadrati di suolo e sottosuolo dell’area industriale di Viggiano e del reticolo idrografico a valle dell’impianto” (sempre secondo il ministero), smentendo quindi le dichiarazioni dell’assessore Pietrantuono che aveva subito smentito la correlazione tra la “dichiarazione di incidente rilevante e il danno ambientale”. Come nella maggior parte dei casi, l’impatto ambientale registrato è stato accompagnato da un impatto sanitario particolarmente rilevante. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Ma quando nell’aprile 2011 una ventina di operai della Elbe sud furono ricoverati dopo essere stati investiti da una nube proveniente dallo Centro oli (probabilmente di idrogeno solforato) la risposta di Eni non si fece attendere: si legge nel successivo comunicato stampa che “dalle verifiche effettuate escludiamo nella maniera più assoluta che si sia verificato un qualsivoglia evento (incidente, problema od anomalia) che abbia comportato un rilascio di idrogeno solforato in atmosfera”. La lotta per far sì che il curriculum di Eni non si sporcasse troppo è stata dura, e ha coinvolto in maniera decisiva anche l’ambito accademico. Nel settembre 2017 vengono presentati i risultati della Valutazione di impatto sanitario realizzata dal gruppo di lavoro Ifc-Cnr, Università di Bari, Ise-Cnr, Isac-Cnr e Dep. Lazio, e il quadro è tragico per la Val d’Agri. Qualche dato:

● per le malattie ischemiche nelle donne, un rischio dell’80% in più nella classe di maggiore esposizione rispetto a quella di minore esposizione; ● per le malattie respiratorie croniche negli uomini, un rischio del 104% in più nella classe di maggiore esposizione rispetto a quella di minore esposizione, +202% per le donne; ● dalle analisi di mortalità si osserva un eccesso statisticamente significativo per le malattie del sistema circolatorio, sia nelle donne (63%) sia nel dato cumulativo uomini+donne (41%)

In tutta risposta a questo quadro apocalittico arrivano le controdeduzioni dell’Eni, grazie ad uno studio portato avanti da un “collegio di esperti composto da illustri docenti dell’Università La Sapienza e Tor Vergata di Roma e ricercatori dell’Istituto superiore di Sanità”, in cui si afferma con forza che “non esiste alcuna emergenza sanitaria”, mettendo in dubbio la metodologia di raccolta dati e la mancanza di prove sul rapporto causa-effetto. L’attenzione “accademica” di Eni in Basilicata è una bestia del tutto particolare. Il 24 marzo 2019, “alla presenza del Presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte, del Ministro per il sud Barbara Lezzi e del Presidente della regione Puglia Michele Emiliano”, Eni e Cnr hanno raggiungo un “Joint research agreement per l’istituzione di quattro centri di ricerca congiunti localizzati nel mezzogiorno”. Uno di essi si svilupperà proprio in Basilicata, concentrandosi sulla “gestione sostenibile e innovativa del ciclo dell’acqua”. 7


CARBONE CONTRO OSSIGENO Lo sfondo è Vado Ligure, comune di poco più di 8000 abitanti in provincia di Savona: è nel pieno di questo centro abitato che, dal 1970 al 2014, è stata attiva la centrale a carbone italo-francese di Tirreno Power, oggi sotto processo per disastro ambientale e sanitario colposo. L’11 marzo 2014 il sequestro e nel giugno 2016 la chiusura definitiva: ad oggi sono ventisei i manager sotto accusa, mentre si sono costituiti parte civile numerose associazioni ambientaliste tra cui Greenpeace, Wwf, Uniti per la Salute, Legambiente e Medicina Democratica. “Tirreno Power”, cogestita dalla multinazionale italiana Sorgenia e da quella francese Engie, ha dovuto chiudere i battenti dopo che per anni cittadini, associazioni ambientaliste e Ordine dei medici locali hanno denunciato il disastroso impatto ambientale nonché i casi - sempre più frequenti - di malattie e decessi nelle aree limitrofe alla centrale. Ad essere imputato a Tirreno Power è stato innanzitutto il mancato ammodernamento e la messa in regola degli impianti, ma si è aggiunta alle accuse l’assenza pressoché totale, da parte dell’azienda, degli accorgimenti atti a limitare le emissioni nocive per l’ambiente e per l’uomo. Come riporta un’inchiesta condotta da La Repubblica, secondo le ispezioni Arpal (Agenzia regionale per la protezione ambientale della regione Lazio) e Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), la centrale a carbone avrebbe superato massicciamente diversi parametri, 8

dall’eccessivo scarico in mare all’emissione di fumi e polveri sottili nell’atmosfera, e ritenuta dunque non più a norma. Inoltre, secondo quanto emerge dalla stessa inchiesta, la centrale savonese sarebbe stata incapace di monitorare la gestione di rifiuti e scorie e avrebbe utilizzato «olio combustibile con percentuali di zolfo superiore a quelle prescritte, con emissione di anidride solforosa». Un vero e proprio attentato ambientale consumatosi ai danni di acque, aria e non solo. Oltre l’ambiente, infatti, anche l’uomo ne ha risentito gravemente; secondo gli studi condotti dall’istituto di fisiologia clinica del Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa, l’aumento del tasso di mortalità tra 2001 e il 2013 è salito al 49% nell’area della centrale. Inoltre, è stato riscontrato un eccessivo aumento del tasso di malattie del sistema circolatorio, dell’apparato respiratorio, del sistema nervoso e una notevole incidenza di tumore ai polmoni: la procura ha indagato su circa 430 morti definite anomale e su oltre 2000 ricoveri di adulti e 600 ricoveri di bambini. Gianfranco Gervino di “Uniti per la salute” ha spiegato come la centrale di Vado Ligure producesse e consumasse mediamente 4000 tonnellate al giorno di carbone, pari a ben quattro volte le tonnellate che mediamente vengono bruciate dai treni merci ogni giorno: numeri spaventosi se si pensa, prima di tutto, che il disastro si è consumato tra le strade, le case, le scuole di una piccola città ligure, danneggiata ormai irrimediabilmente.

DA FOSSILE A FOSSILE La scelta del carbone nella produzione energetica è senza dubbio la peggiore per l’ambiente e per l’uomo. Fra tutti i combustibili fossili è infatti il maggior responsabile di emissioni inquinanti, come dimostrano dati del 2016 che lo indicano come responsabile del 44% di tutte le emissioni di CO2 da combustione. Nonostante questo la domanda di carbone per la produzione energetica non sembra diminuire, anzi le economie emergenti — soprattutto asiatiche — ne sono sempre più affamate. L’International journal of coal geology stima che nel 2070 il 90% della produzione totale di carbone sarà esaurito. Nonostante questi dati allarmanti e il piano di uscire dal carbone entro il 2025, in Italia restano attive ancora 9 centrali. A fronte di una produzione di energia modesta — riescono a soddisfare appena l’11% del fabbisogno nazionale — queste sono responsabili del 34,5% di tutte le emissioni del sistema elettrico nazionale. Un gioco che certamente non vale la candela, soprattutto se guardiamo al quadro generale. L’Italia infatti non disponendo di risorse carbonifere adeguate né in termini di quantità né di qualità, si trova costretta ad importarle a caro prezzo. Il costo elevato finisce poi per abbattersi sui consumatori italiani che pagano una bolletta (al netto delle imposte e delle tasse) ben più salata dei loro cugini d’oltralpe e della media europea.

Il risultato è un fallimento su tutti i fronti: alto inquinamento ed alta mortalità, ad un costo altrettanto alto. I segni dell’impatto del carbone sono gravi e tangibili, come hanno potuto constatare in molti a Vado Ligure. Secondo l’avvocato Matteo Ceruti dell’associazione “Uniti per la salute” che segue il caso della centrale, nel comune del savonese siamo di fronte ad un vero disastro ambientale e sanitario. L’oggetto dell’accusa preme sull’aumento della mortalità nella zona, ma l’avvocato cita anche la crescita esponenziale di casi di asma infantile fra i bambini esposti alla ricaduta dei fumi. È desolante notare come, nonostante siano ben note la scarsa efficienza e i drammatici effetti dell’uso del carbone sull’uomo e l’ambiente, altre nove centrali in Italia siano ancora a pieno regime spesso vicino ai centri abitati, continuando a produrre notte e giorno nuove malattie e nuovi disastri.

di Ettore Iorio, Pietro Forti, Francesca Asia Cinone e Leonardo João Trento INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


L’ I M P R O N T A

capitolo II

DEI TRASPORTI

Quanto inquinano gli spostamenti di merci e persone

Il punto di partenza del focus è questo: che spostarsi – a meno di farlo con le proprie gambe – implichi un irrinunciabile inquinamento, derivato dall’alimentazione del mezzo utilizzato e dall’installazione dell’infrastruttura necessaria al suo transito. In tal modo, l’unico orizzonte di senso all’interno del quale la questione dell’inquinamento trasportistico possa essere formulata è quello dell’ottimalità, alla ricerca delle modalità di spostamento caratterizzate dalla massima efficienza. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

È un discorso non semplice, influenzato dalla mole delle persone che si spostano, dalle modalità di trasporto disponibili, dalla loro efficienza e dalle distanze e dalle tempistiche in gioco: per consistenti che possano essere, discutere delle emissioni derivate dai voli transoceanici (almeno per quanto attiene il trasporto passeggeri) non è significativo data la mancanza di alternative. Di contro è estremamente indicativo ragionare sulla necessità di realtà come quelle degli spostamenti aerei su distanze a corto raggio

o dei voli merci laddove, per lunghezze e tempistiche di trasporto, esistono sulla carta soluzioni ugualmente efficaci. È oggettivo che il trasporto pubblico sia la scelta più sostenibile, ma non per questo la più gettonata o percorribile: i problemi logistici e funzionali che ledono la mobilità pubblica (esempio più lampante di un sistema trasportistico segnato in senso lato da una inefficienza colpevole), come si vedrà, sono il reale deterrente che scoraggia chi dovrebbe preferire il trasporto pubblico a quello privato. 9


AREE

L’IMPATTO AMBIENTALE DELLA MOBILITÀ

Viadotto Barche in Provincia di Chieti di Alterazioni Video 10

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


URBANE: L’Italia è il paese europeo con la più alta densità di automobili: si contano 39 milioni di auto, pari a circa il 17% dell’intero parco veicolare europeo. L’altissimo tasso di motorizzazione riflette un dato caratterizzante della mobilità nazionale, cioè che la grande maggioranza degli spostamenti avviene con l’impiego di mezzi privati e non pubblici. La situazione della capitale in questo senso è emblematica: con 62 auto ogni 100 abitanti Roma è la peggiore tra le capitali europee. Questa realtà ha immediate ripercussioni sull’inquinamento ambientale; si stima infatti che il 50-60% dell’inquinamento nelle aree urbane sia determinato dal traffico veicolare (Di Lella et al.,2005). Tra tutti gli inquinanti prodotti quello che suscita maggiore preoccupazione è il particolato, detto PM10, che in molte città italiane continua a superare le soglie di concentrazione previste. Infatti, come dimostra il Rapporto Annuale sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane pubblicato nel 2019 da Legambiente, nel 2018 sono stati 55 i capoluoghi di provincia che hanno superato i limiti giornalieri per le polveri sottili o per l’ozono (o entrambi) previsti dalla normativa. Alla base di questa situazione di emergenza vi è sicuramente l’assenza di piani organici di mobilità urbana che solo negli ultimi anni, e in alcuni territori, si sono mostrati attenti alla sostenibilità ambientale. Difatti l’attuale stato di congestione veicolare è il risultato di una pluriennale miopia delle amministrazioni comunali che non hanno saputo sviluppare politiche infrastrutturali di sviluppo del TPL (Trasporto Pubblico Locale) e della cosiddetta mobilità attiva (pedonale e ciclistica).

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Per scoraggiare l’uso delle auto per gli spostamenti urbani e pendolari è indispensabile, infatti, offrire alternative sicure e affidabili.Milano ad esempio dimostra come un efficiente TPL con 4 linee metropolitane all’attivo (e una in costruzione), rete tranviaria, di autobus e servizi di car e bike sharing sia determinante a segnare una controtendenza di stabilità del tasso di motorizzazione rispetto ai dati registrati nel report Autoritratto 2018 dall’ACI che evidenzia un trend in crescita in quasi tutti i grandi comuni. Nonostante questi traguardi il capoluogo lombardo rimane comunque molto indietro rispetto ai risultati delle altre grandi città europee. Ma il punto non è solo questo: il fatto che le grandi città, fortemente congestionate dal traffico e inquinate, siano anche le realtà che offrono politiche di mobilità sostenibile più articolate dimostra come la risposta finora delineata al problema dell’inquinamento urbano si muova in un’ottica emergenziale e non di prevenzione. In altre parole, nella maggior parte dei centri medio-piccoli dove il problema dell’inquinamento veicolare urbano non si è manifestato in tutta la sua gravità continua a salire il tasso di motorizzazione rispetto ai centri maggiori. Difatti il numero più alto di autovetture in rapporto alla popolazione si registra in alcune medie realtà urbane come Frosinone, L’Aquila, Potenza, Isernia, Perugia, Cuneo (da 74 a 77 auto per 100 abitanti). Questo dimostra come ancora oggi i piani di mobilità sostenibile non siano avvertiti come un’esigenza di ripensamento globale del tessuto urbano, in termini cioè di strategia che investa tutto il territorio nazionale e non solo i grandi centri affollati. In questa direzione dovrebbero andare i nuovi PUMS, ovvero i Piani Urbani della Mobilità Sostenibile in ottemperanza delle normative europee.

Si tratta di piani che nella maggior parte dei casi sono fermi allo stato di progetto, fatta eccezione per la città di Bologna che già nell’agosto del 2017 elaborava il suo percorso. Uno dei punti più importanti di questi piani è la creazione di piste ciclabili con l’obiettivo di aumentare la ciclabilità urbana a impatto ambientale zero. Dal rapporto dell’Osservatorio nazionale Focus 2R presentato da ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), Legambiente e Confindustria Ancma le piste ciclabili sono aumentate del 50% dal 2008 al 2015; nonostante questo non è aumentata la ciclabilità. La percentuale del 3,6% registrata nel 2008 nel 2015 era immutata. Perché quindi gli italiani non vanno in bicicletta? Da uno studio condotto da Lonen Consulting emerge che il 43% degli intervistati userebbe la bicicletta se vi fossero infrastrutture ciclabili più sicure. Il problema è quindi infrastrutturale. Per aumentare la ciclabilità degli italiani infatti non è sufficiente realizzare piste ciclabili se queste non sono inserite in un contesto urbano che le renda realmente fruibili. Per essere funzionali le piste ciclabili devono essere continue, collegate, affiancate dalle zone a velocità limitata (20-30 km/h) e le ZTL, insomma devono essere inserite in un contesto urbano a misura di bicicletta che permetta ai ciclisti di guidare in sicurezza, senza entrare in conflitto con gli altri utenti della strada. Attualmente in Italia attraverso il progetto Comuni Ciclabili la FIAB ha identificato per ogni regione solo pochi comuni cosiddetti ciclabili evidenziando come sia essenziale la presenza sul territorio urbano di una serie di elementi non riducibili al numero dei km di pista.

11


OLTRE LE CITTÀ

COME SI MUOVONO LE MERCI I trasporti e la loro gestione rappresentano per l’Europa un impatto economico ed ambientale dal peso specifico enorme ed abbastanza trascurato: negli ultimi anni secondo la Corte dei conti europea, il volume di trasporto merci nella UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato attorno ai 2300 miliardi di tonnellate-km all’anno, causa di circa un terzo del consumo energetico e delle emissioni totali di anidride carbonica nell’UE (a titolo di paragone, nel 2012 le emissioni di CO2 su base industriale si attestavano al 25,6% del totale europeo). Il dato è estremamente significativo, specie rapportato all’analisi specifica delle modalità di trasporto disponibili e delle relative emissioni. Al 2012 l’insieme delle statistiche in merito traccia un quadro sbilanciato in maniera preoccupante nella direzione del trasporto su strada. Se da una parte l’Agenzia Europea dell’Ambiente, certifica emissioni di CO2 provenienti dal trasporto ferroviario 3,5 volte inferiori, per tonnellata-km, a quelle prodotte dal trasporto su gomma, dall’altra la quota percentuale dei volumi fattualmente veicolati in Europa per via stradale si continua ad attestare al 75,4% del totale spostato contro il 17,8% di quello ferroviario. Quella della riduzione delle emissioni inquinanti attraverso la promozione di modalità di trasporto alternative è una tematica di lungo corso in Europa, segnata dal divario di performance rispetto ad altre parti del mondo dove il trasporto ferroviario rappresenta spesso la modalità di trasporto predominante: con quote di mercato superiori al 40 % negli Stati Uniti, in Australia, in Cina, in India e in Sudafrica, già nel 1992 la Commissione Europea annoverava il riequilibrio tra diverse modalità di trasporto fra i suoi obiettivi principali. 12

Ad oggi malgrado i consistenti fondi stanziati il problema rimane attuale. Il generale ritardo nella costituzione di un sistema efficiente conta della sovrapposizione di due cause significative. Una di carattere strutturale (la frammentazione del mercato ferroviario europeo in un mosaico di reti ferroviarie nazionali a limitato tasso di interoperabilità) e una di carattere locale: la scarsa competitività nel mercato e la presenza di infrastrutture obsolete trascurate per anni a beneficio del trasporto su strada. Lasciando da parte il primo fattore – il 90% circa dell’attività di trasporto pesante dei trasportatori italiani ha luogo all’interno dei confini nazionali –, il secondo rimane paradigmatico di un grado di pianificazione trasportistico elaborato spesso senza lungimiranza o criterio di sorta ed influenzato da un variegato sistema di mancati incentivi e di ostacoli normativi, pratici ed economici. Scrive la Corte dei conti europea: “la liberalizzazione del mercato ferroviario non ha raggiunto lo stesso livello in tutti gli Stati membri. In Slovenia e in Slovacchia (al 2016, ndr) la quota di mercato dell’operatore storico per il trasporto era ancora del 90% circa, mentre in altri sei Stati membri (Grecia, Finlandia, Croazia, Irlanda, Lituania e Lussemburgo) il mercato del trasporto merci resta praticamente chiuso alla concorrenza, poiché l’operatore storico detiene il 100% di tale quota di mercato”. L’infrastruttura del trasporto merci italiano si inquadra in questo contesto: la percentuale del traffico merci veicolato su gomma si attesta all’85,5%, quello su rotaia al 13,5%, e le vie d’acqua interne sono tendenzialmente poco utilizzate in luogo della mancanza di infrastrutture adeguate.

Al 2018, tra le 30 imprese di trasporti con sede in Italia e fatturato maggiore a 5 milioni di euro, 20 erano basate su modalità di trasporto autostradale (di cui cinque fisse ai vertici della classifica dei guadagni annui, con introiti per oltre un miliardo e mezzo di euro l’anno), e solo 3 su base ferroviaria (in 25°, 26° e 27° posizione nella graduatoria dei guadagni). Un prospetto paradossale per un paese in testa alla classifica europea per le morti dovute al particolato sottile. Il quadro delle responsabilità non è univoco. Aspettarsi una conversione delle grandi aziende di trasporti al trasporto su rotaia, stante la mancanza di un corpus di disincentivi alla modalità stradale e di incentivi a quella ferroviaria (la Svizzera è riuscita così ad innalzare la quota parte del trasporto ferroviario al 40% del totale) è altamente improbabile. Ed anche se queste misure dovessero essere adottate, la questione sarebbe lontana dalla risoluzione. L’attitudine dell’ecosistema ferroviario al trasporto modale secondo la Corte dei conti sconta ancora problematiche come il numero limitato di imprese disponibili, canoni di accesso non incoraggianti (al 2013 in Italia si attestavano a circa 2 euro/ km) e canali non prioritari per il trasporto “persino nel quadro dei corridoi merci ferroviari”. Globalmente, si paga il prezzo di infrastruttura (in mano per l’85% delle sue parti a Rete Ferroviaria Italiana) attualmente incapace di accogliere una consistente percentuale del traffico veicolato su strada a meno di altrettanto consistenti investimenti infrastrutturali, limitati ad oggi ai 5,4 miliardi che il piano industriale 20192023 di RFI destina solamente “allo sviluppo dei corridoi europei TEN-T che attraversano l’Italia”. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


OLTRE LE CITTÀ

COME SI MUOVONO LE PERSONE Nel 2014 l’AEA (Agenzia Europea dell’Ambiente) ha pubblicato una ricerca sull’impatto ambientale dei diversi mezzi di trasporto nei lunghi tragitti. L’aereo è risultato nettamente il mezzo più inquinante, con 285 grammi di CO₂ per passeggero al chilometro. Seguono, nettamente distanziati, il motorino (72 g/ km), l’autobus (68), l’auto (42) e infine il treno (14). Eppure, in Italia l’81% di emissioni di gas serra del settore dei trasporti arrivano dal trasporto su strada, e solo il 9,6% dall’aviazione civile (di cui il 7,7% dai voli internazionali e solo l’1,8% da quelli interni). Come si spiega questo squilibrio? Ecco che quindi altri numeri ci vengono incontro. Secondo i dati ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) del 2018, la rotta aerea più trafficata in Italia è la Roma Fiumicino – Catania, con quasi due milioni di passeggeri. Segue la Roma Fiumicino – Palermo ferma ad un milione e mezzo, e solo al terzo posto arriva la più tradizionale Roma Fiumicino – Milano Linate con un milione e 300 mila passeggeri. A questo punto, è possibile iniziare a tracciare un quadro generale della situazione. Tra Roma e Milano esistono 139 collegamenti ferroviari ogni giorno, la maggior parte di questi tramite treni ad alta velocità. Il risultato è che, nel 2017, 7 passeggeri su 10 sceglievano il treno per percorrere questo tragitto, mentre il 20% ripiegava sull’aereo e il 10% sulla strada (macchina o bus). Nel 2008, prima dell’alta velocità, la soluzione per il 50% dei viaggiatori era l’aereo, e solo il 36% sceglieva il treno. In presenza di alternative valide via terra, il trasporto aereo è disincentivato per quanto riguarda voli interni o comunque di corto raggio, soprattutto in una fascia di mercato che si sovrappone molto con quella del trasporto ferroviario: le grandi città, quelle più spesso fornite di aeroporti, sono anche quelle collegate da un’offerta via rotaia più ampia e articolata. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Dove invece un’offerta di questo tipo non è presente, per motivi geografici o, spesso, per mancanza di investimenti (i collegamenti diretti tra Roma e Catania sono tre al giorno, idem per Palermo), ritorna prepotentemente in ballo l’ipotesi del trasporto aereo con tutto ciò che comporta a livello di emissioni. Se, quindi, a livello nazionale non è l’aereo il pericolo numero uno, diverso è il discorso per quanto riguarda il trasporto stradale. Se tra i 480 e gli 800 chilometri un viaggio in automobile ha un impatto ambientale minore rispetto all’aereo (dati dell’Università del Michigan, 2015), sotto i 480 chilometri l’utilizzo di strade non a scorrimento veloce fa lievitare notevolmente l’impronta ecologica delle auto. Inoltre, i 51 milioni di veicoli (dei quali 39 sono autovetture) che compongono il parco auto italiano trovano il proprio spazio di mercato in quelle nicchie che non riescono ad essere coperte dal trasporto ferroviario. Emblematico è il caso del Sud Italia. Come in un inquietante sequel di “Cristo si è fermato a Eboli”, anche l’alta velocità in Italia si ferma non molto lontana da quelle zone, più precisamente a Salerno. In programma ci sono la realizzazione della tratta Napoli-Bari e il prolungamento verso la Sicilia, ma per entrambe le opere bisognerà attendere ancora diversi anni (ultimazione prevista tra il 2023 e il 2028). Risalendo al Piano Industriale 2011-2015 di Ferrovie dello Stato è possibile trovare i progetti di quelle che avrebbero dovuto essere le “Porte del Sud”, entrambe nel napoletano: la stazione di Afragola e quella di “Vesuvio Est”. La stazione di Afragola è stata inaugurata nel 2017, con un costo stimato intorno agli 80 milioni, ma senza lo sbocco sulla Napoli-Bari si trova in condizioni di netto sottoutilizzo

(61 treni al giorno contro i circa 500 di Napoli Centrale) ed è praticamente priva di collegamenti con il capoluogo partenopeo e con le vicine province di Caserta e Benevento. Più complessa la situazione della Vesuvio Est, che avrebbe dovuto rappresentare lo scalo verso la Calabria: il progetto è stato assegnato al gruppo belga Samyn and Partners per una cifra intorno ai 32 milioni di euro, che però non è mai stata stanziata. Addirittura, nel 2017 il presidente di RFI (Rete Ferroviaria Italiana) Maurizio Gentile dichiarava che l’utilità dell’opera era in fase di rivalutazione, data la presenza di tre hub dell’alta velocità nella zona (Napoli, Afragola, Salerno). Strutture, però, già preesistenti o comunque in programma al momento dell’approvazione del progetto. Ma non sono solo le aree interne del Sud a soffrire, e né modelli diversi di gestione sembrano dare frutti migliori. Ne è un esempio Trenord, società controllata per metà da Ferrovie dello Stato e per l’altra metà da FNM (gruppo di cui Regione Lombardia è azionista di maggioranza con un 25% in mano a privati). Alcuni dati bastano per descrivere le condizioni in cui versano le ferrovie lombarde: nel 2018 sono stati soppressi circa 40.000 treni (il 5,1% del totale), mentre il 21% ha subito un ritardo superiore ai 5 minuti. Senza investimenti massicci e soprattutto capillari nella mobilità pubblica, tutti questi fattori contribuiranno sempre più a indirizzare questi spostamenti periferici verso l’utilizzo del trasporto privato e delle automobili. A perderci, però, sarà tutto il pianeta. di Adriano Bordoni, Ilaria Michela Coizet, Simone Martuscelli e Annachiara Mottola 13


capitolo I I I

DIRTY DATA

14

L’IMPATTO AMBIENTALE DELL’ INFRASTRUTTURA DELLA TELECOMUNICAZIONE

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


IL LIFECYCLE DELLA RETE Nell’immaginario collettivo, quando si portano avanti analisi sull’impatto dell’industria umana sull’ambiente uno degli ambiti produttivi dal volto più eco-friendly è quello delle telecomunicazioni (TLC). Questa attitudine deriva dall’incapacità di riconoscere un impatto fisico effettivo causato da un sistema percepito come totalmente immateriale. Si tratta di una disposizione assolutamente sbagliata: la rete infrastrutturale delle telecomunicazioni comporta delle forti ripercussioni sull’ambiente in ogni singola fase del suo life cycle. L’industria delle TLC ricopre sempre maggiore importanza e vede una crescita estremamente rapida dell’utenza online mondiale, 25 volte più alta rispetto al 2011 per la sola rete mobile. Bisogna iniziare ad interrogarsi sull’effettiva eco-sostenibilità del sistema telecomunicativo e della sua rete infrastrutturale INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

in ogni sua singola fase, direttamente partendo dalla sua effettiva realizzazione. Gli impatti ambientali maggiori nella fase di costruzione sono riscontrabili nel consumo di materie prime per la realizzazione delle leghe metalliche necessarie per la creazione di cavi e strutture (principalmente rame ed acciaio), nei costi energetici del processo di produzione dei materiali e nelle emissioni causate dal trasporto dei suddetti componenti nelle strutture per l’assemblamento. In seguito alla fase di costruzione, segue quella che si rivela essere più complicata a livello d’impatto ambientale, ossia la fase operativa della struttura. Le dinamiche ambientali che si sviluppano in questo caso sono legate al consumo di energia elettrica per permettere il funzionamento della struttura: maggiore sarà la sua capacità di immagazzinazione

e trasmissione dati, maggiore sarà il suo consumo energetico. Inoltre, le strutture non sono in grado di regolare il fabbisogno energetico nei momenti di basso traffico, mantenendo dunque elevati i consumi anche quando non è necessario. Infine, nella fase di “fine della vita” delle strutture, la maggiore problematica risiede in un “end of life treatment” incapace di smaltire e riciclare i prodotti hi-tech. Gli scarti non vengono recuperati sistematicamente ed essendo destinati ad aumentare di anno in anno a causa dei crescenti investimenti nelle TLC finiranno a popolare le enormi discariche del terzo mondo. Ogni singola fase del processo di vita della rete telecomunicativa comporta delle forti problematiche ambientali, per troppo tempo sottovalutate e che ora devono essere oggetto di maggiore attenzione rispetto al passato. 15


IL CO ST O

D

EL

BIT RATE

Le emissioni di gas serra causate dall’accelerazione del traffico dati L’insieme delle chiamate, dei video, delle canzoni, dei documenti, dei programmi tv e radio che popolano la vita quotidiana di tutti si muove da dispositivo a dispositivo su una rete complessa ed eterogenea, fatta di cavi e onde elettromagnetiche e regolata da protocolli oscuri ai più. Negli ultimi anni questo traffico di dati è esploso manifestando una tendenza che verrà confermata in futuro. Solo quello da dispositivi mobili raddoppia ogni anno. Contribuiscono a questo boom numerosi fattori: l’arrivo dell’Internet of Things e le sue svariate applicazioni, la sempre maggiore disponibilità di device e le nuove tecnologie che permettono un aumento del bit rate. Il costo energetico di una così vasta accelerazione della comunicazione spesso passa in secondo piano, sia perché viene oscurato dalla promessa che la tecnologia possa portare ad un uso più efficiente delle risorse, sia a causa dell’invisibilità di un’infrastruttura pervasiva ma smaterializzata. In ogni caso se si fallirà a tenere conto degli “effetti rimbalzo” causati dall’esplosione scoordinata dell”era degli zettabyte”, l’incremento del traffico complessivo dell’impatto energetico - e quindi le emissioni - non sarà destinato a diminuire. 16

La visione d’insieme Ad oggi, alle porte del 2020, secondo il report Lean ICT di The Shift Project, il settore delle telecomunicazioni si attesta globalmente al 4% delle emissioni di gas serra totali. Nel 2025, mantenendo l’attuale tasso di efficienza energetica dovrebbe passare a quasi l’8%, raddoppiando nell’arco di cinque anni. Si tratta del settore industriale con il tasso di crescita delle emissioni più alto in assoluto e che è già superiore al trasporto aereo. Secondo un altro report di CISCO il traffico passerà dai 46.400 GB/secondo del 2017 a 150.700 GB/ secondo nel 2022, più che triplicando. Sebbene calcolare la quantità di CO2 per ogni gigabyte trasmesso sia difficile e dipenda da numerosi fattori è facile constatare che, se anche la trasmissione di 10 GB provocasse l’emissione di 1 kg di CO2, con numeri del genere l’infrastruttura di telecomunicazioni porterebbe ad un impatto di centinaia di milioni (se non miliardi) di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera ogni anno. Si tratta di un contributo critico al costante aumento - mai fermatosi - delle emissioni globali di CO2 annuali, ad oggi attorno alle 37 GtCO2. Le infrastrutture di telecomunicazione infatti portano a consumi variegati di energia

a seconda della tecnologia, che si riflettono sulla quantità di CO2 prodotta per soddisfarne il bisogno: dai 200 kg/GB trasmesso della rete 3G mobile ad 1 kg (o meno) per 20GB trasmessi da banda larga fissa. L’incremento è quasi del tutto riconducibile al traffico sui GAFAM: i giganti dell’informazione Google, Apple, Facebook e Amazon; assieme alla controparte cinese BATX, Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi. Un’ingente porzione è dovuta allo streaming video, una delle attività più pesanti dal punto di vista di trasmissione dati. La quantità di CO2 emessa invece riguarda il consumo di energia elettrica da parte delle imprese che gestiscono l’infrastruttura di TLC nel complesso. Quindi è importante non solo la composizione dell’energia elettrica sulla rete (“sporca” o rinnovabile), ma anche le scelte che le grandi aziende nel settore operano relativamente ad efficienza energetica ed energia elettrica acquistata. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


La realtà italiana Il settore italiano delle TLC è in crescita e ogni anno si attesta su milioni di tonnellate (Mt) di gas serra emessi. Telecom Italia, il principale provider italiano si attesta attorno ad 1 MtCO2 emessi, triplicando rispetto al 2015, per aver smesso di acquistare energia elettrica da fonti rinnovabili, preferendo investire in efficienza energetica. Le emissioni di Wind-Tre (0.3 MtCO2) sono apparentemente calate negli ultimi anni, questo principalmente per aver conferito parte degli impianti a “Galata S.p.A.”, una società esterna. Fastweb (0.2 MtCO2) invece ha un aumento sostanziale delle emissioni nell’ultimo anno a causa dell’investimento in fibra. Tuttavia vengono anche diffusi dati diversi: quelli dei kg di CO2 per ogni GB trasmesso. Sebbene questi siano in calo, grazie al continuo miglioramento tecnologico, la quantità di dati trasmessi aumenta in maniera più alta, INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019 INQUINIANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

generando quindi un complessivo aumento delle emissioni. Tant’è che ormai la strategia in politiche ambientali delle aziende di TLC in Italia ad oggi consiste, più che nel ridurre le emissioni, nello stabilizzarle diminuendo il rapporto emissioni/dati ma aumentando il traffico. È uno scenario che si presenta anche con il 5G in Italia, dove il consumo energetico nel breve periodo si prevede in aumento fino al 170% a causa della maggiore granularità delle “celle di rete” e quindi dei più numerosi ripetitori. Questo rinnovato dispendio causa preoccupazione anche alle aziende di TLC italiane. Tuttavia, sul lungo periodo, il 5G dovrebbe garantire maggiore efficienza, anche in altri settori industriali. In questi casi però spesso si fallisce a tenere in considerazione gli “effetti rimbalzo” (ovvero l’uso maggiore di una risorsa dopo che diventa più efficiente la sua produzione)

e quindi un bilancio energetico complessivamente negativo o non tanto positivo quanto previsto. La soluzione è l’utilizzo esclusivo di energie rinnovabili e la “sobrietà digitale” da parte dei colossi delle TLC. I dati sulle emissioni inoltre vengono diffusi dalle aziende più grandi attraverso report sulla sostenibilità ambientale destinati agli stakeholder. Tuttavia la natura aziendale spesso è inconiugabile con un serio confronto con la crisi climatica. Gli stakeholder infatti non rappresentano le esigenze complessive del pianeta e della popolazione mondiale, ma esigenze particolari, spesso in contrasto tra loro e comunque volte alla massimizzazione del profitto. 17


I NODI DELL’INFRASTRUTTURA

LE STAZIONI DELLE TELECOMUNICAZIONI Oltre alla rete, l’infrastruttura di TLC è costituita da nodi: stazioni terminali o intermedie del processo telecomunicativo. È all’interno di questi che avviene il processo di commutazione, ossia l’indirizzamento verso il destinatario scelto. Sono nodi le antenne radio, le centrali telefoniche, le stazioni radio base. Ed estendo un po’ la definizione si possono aggiungere a questi anche i dispositivi terminali usati nei processi industriali e nell’infrastruttura digitale di internet: appartengono a questa categoria i dispositivi dell’Industrial Internet of Things (IIoT) e gli ormai ben noti data center. Tra i nodi più emblematici della rete mobile ci sono le stazioni radio base, 18

ovvero quelle enormi torri che operano inviando segnali elettromagnetici agli altri ripetitori che poi li ri-trasmettono in uscita con un segnale a potenza maggiore. Secondo i dati del 2007 del CEM-ISPRA, in Italia sono presenti 60.000 stazioni radio base (SRB). Il loro consumo energetico annuo totale è circa di 2,1 TWh/ anno, che vuol dire circa 300.000.000€ di bolletta energetica annua; si tratta di 1,2 Mt di CO2 immesse nell’atmosfera ogni anno. Se si parla invece di ozono, la situazione è critica, dal momento che il parametro stabilito non è stato rispettato dall’80% dei siti presi in esame. Sul lato dei dispositivi terminali, nel 2020 l’avvento del 5G aprirà le porte proprio all’Industrial Inter-

net of Things, il cui scopo è quello di migliorare il processo produttivo di un’azienda connettendo tra loro le macchine ed elaborando una serie di dati che consenta una manutenzione predittiva. L’IIoT è considerato il fondamento dell’industria 4.0 nel 2018 ha raggiunto un valore di 3,2 miliardi di euro, ma neanche questo è esente da un impatto sul clima provocato dalla fame di energia del digitale. L’incremento vertiginoso dell’implementazione di questi dispositivi sarà uno dei fattori chiave nell’aumento del traffico dati su Internet che avverrà nei prossimi anni e quindi una causa concorrente alla prima ragione dell’aumento complessivo delle emissioni per le TLC. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


I data center e il loro impatto ambientale

È Ò.,>MNBVC†∂∑ƑGTYUIOP HJHGFDSXCVBNM,. ERTYRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

543EWSXCVBNM,KLOIUYTREW QWSDFGHJKLÒÀÈÒ.-À+ÈPL.ÒÈ DE4589OLKMJNBGFR

ERRORDATA404:NOT FOUND

234567890’

GER27777NAMESURNAMEXX86RGGGGGGGERRY8887

ERTYUI

KNBVFRT678I9OPÒ.,MJUY6

ERRORDATA404:NOT FOUND

RTYU

MIKE3333HERRY14/89/2010GER27777

WERTYUJHGFDERTYUJNHBGVFDRTY

MIKE3333HERRY14/89/2010GER27777

ERRORDATA404:NOT FOUND

ERRORDATA404:NOT FOUND

FABERRRRRRR27777WOW8888

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Trent’anni fa, nel 1989, Tim Berners-Lee proponeva al CERN di Ginevra il progetto di un “ampio database ipertestuale con link” che poi sarebbe diventato il World Wide Web. Oggi, Internet collega oltre 4 miliardi di persone e ha un traffico giornaliero che supera i 3 miliardi di gigabyte. L’enorme quantità di dati che vengono scambiati, scaricati e archiviati in tutto il mondo non viaggia nell’etere, ma si sposta attraverso una rete globale di cavi sottomarini che attraversa i continenti. L’ultimo snodo del loro percorso è costituito dall’immagazzinamento nei data center, caveau che offrono a utenti e imprese servizi di server, storage e networking in affitto, proprietari o on demand mediante il cloud, all’interno di complessi che possono arrivare ad occupare fino a mezzo chilometro quadrato. Strutture così cruciali per la navigazione, nonostante i loro indubbi benefici in termini di sicurezza, sono responsabili di un inquinamento poco reclamizzato ma di grande rilevanza. Mark Radka, direttore del reparto Energia e Clima dell’ONU, ha affermato che “non connettiamo mentalmente il loro utilizzo all’impatto che hanno sull’ambiente”, definendo Internet “una macchina invisibile”. Per alimentare queste mastodontiche server farm sono necessari gruppi di continuità e batterie capaci di fornire una città di medie dimensioni e che spesso funzionano al massimo della potenza per evitare ritardi nella connessione, con un conseguente spreco del 90% dell’energia elettrica.

La minaccia dei blackout, che si può tradurre in una perdita di clienti per le aziende, talvolta viene preventivata con l’impiego di generatori a gas o a diesel, installati in esplicita violazione delle normative contro l’inquinamento atmosferico. Senza contare anche l’overcrowding di strutture in alcune zone, nel Nord Europa e in Scandinavia, particolarmente adatte a causa delle loro basse temperature che servono a raffreddare gli impianti. Il report di Greenpeace del 2017 Clicking Clean: Who is winning the race to build a green Internet? ha evidenziato quanto negli ultimi anni sia moltiplicata la presenza, e di conseguenza anche l’impatto ambientale, dei data center: nel 2012 consumavano il 15% dell’energia elettrica del settore delle Information Technologies, arrivando al 21% cinque anni più tardi. Altri studi hanno calcolato che nel 2016 il fabbisogno di energia delle server farm su scala globale è stato di 416 TWh, un valore superiore a quello del Regno Unito e che ammonta al 3% dell’elettricità mondiale. Nello stesso anno i data center sono stati responsabili del 2% delle emissioni totali di gas serra, una quota pari a quella dell’intera industria aeronautica. Sempre Greenpeace ha analizzato i colossi tech che gestiscono queste strutture: Amazon e Alibaba sono state le due aziende più criticate per il loro impiego di combustibili fossili anche se non mancano gli esempi virtuosi come Apple e Google, che nel 2018 ha acquistato energia da sole fonti rinnovabili per il secondo anno di fila. 19


LA SITUAZIONE IN ITALIA, TRA CRITICITÀ E POSSIBILI SCENARI

Il primo data center italiano è stato il centro di via Caldera a Milano, un’area di appena 30 metri quadri convertita alla fibra ottica nel 1994 da Telecom. Da allora le strutture sono diventate 75, collocate perlopiù nel nord della penisola, con una concentrazione particolare nel capoluogo lombardo. La crescita continua delle server farm in Italia è dovuta a necessità strutturali: più hub ci sono, minore è la latenza della rete. La pubblica amministrazione e le piccole e medie imprese dovranno attraversare presto una transizione al digitale veicolata dal cloud, che sta determinando lo sviluppo attuale. Questo nonostante il costo dell’energia elettrica del nostro paese sia uno dei più alti in Europa, con il rischio di scoraggiare possibili investitori esteri. L’Italia, dove il cloud ha comunque un valore di oltre 2,7 miliardi di euro, si trova ancora a rincorrere stati europei all’avanguardia come il Regno Unito e i paesi scandinavi, che ospitano strutture di colossi tech del calibro di Google, Apple e Microsoft. I data center distribuiti sul suolo della penisola appartengono sia a operatori stranieri, come Verizon, che a piccole, medie e grandi realtà italiane, da Tiscali a Telemar e Naquadria.

Nonostante non manchino esempi di provider green e sostenitori delle energie rinnovabili, come il francese Data4, l’americano Equinix e il romano Irideos, in generale il quadro italiano si conferma carente dal punto di vista della trasparenza energetica. Un punto che contraddistingue in negativo il nostro paese rispetto al resto d’Europa e agli Stati Uniti, dove le compagnie sono sempre più portate a condividere dati riguardo all’impatto energetico delle loro server farm, stimolate anche dal dibattito ambientale che si è consolidato nell’ultimo anno. Una politica che sembra aliena alla visione di molti dei servizi di hosting in Italia, che preferiscono invece tacere per risparmiare acquistando energia proveniente da fonti non rinnovabili o per incrementare le prestazioni delle loro strutture mediante l’impiego di generatori diesel. Un espediente, quest’ultimo, che per esempio è stato adottato dalla Telemar nel suo piccolo data center di Vicenza. Senza contare il rischio dovuto allo sbarco in Italia di due multinazionali della comunicazione come IBM e Amazon Web Services, catalogate da Greenpeace come alcune delle aziende hi-tech più indietro dal punto di vista della sostenibilità ambientale.

La prima ha aperto tre data center a Milano e Roma a partire dal 2015, la seconda inaugurerà nel 2020 le sue prime tre strutture italiane. In particolare, è stata la divisione cloud della creatura di Jeff Bezos quella finita nell’occhio del ciclone, essendo da sempre recalcitrante a rendere di pubblico dominio l’impronta delle proprie server farm, in rapida espansione in tutto il mondo. Già nel 2014 Amazon aveva annunciato di voler alimentare tutte le sue strutture di rete solo con energia rinnovabile, salvo poi fare dietro front nel 2016, smettendo di pubblicare aggiornamenti sulla propria campagna e quindi di fatto rompendo la promessa fatta. Nell’ottobre di quest’anno l’azienda ha dichiarato di voler annullare completamente le proprie emissioni di carbonio entro il 2040, con l’obiettivo intermedio di portare l’utilizzo di energia pulita all’80% per il 2024. Da qui ad almeno i prossimi cinque anni, tuttavia, con ogni probabilità i data center di Amazon, tra cui quelli di prossima apertura in Italia, continueranno a essere alimentati anche da fonti inquinanti come il carbone e l’energia nucleare.

Le contraddizioni di una parte del mercato cloud italiano non cancellano però le opportunità crescenti a disposizione sia delle aziende che degli utenti in prima persona per salvaguardare l’ambiente. Da una parte ci sono i green data center, strutture sostenibili che fanno leva sulla massima efficienza energetica per limitare al minimo il loro impatto sull’ecosistema: un esempio è la server farm di Aruba a Ponte San Pietro, vicino Bergamo, la più grande d’Italia, che viene raffreddata da un impianto geotermico e alimentata da migliaia di pannelli fotovoltaici. Dall’altra le startup che investono nel cloud, come la bolognese Cubbit, che vuole creare una rete gratuita e distribuita tra gli utenti mediante le Cubbit Cell, piccoli nodi di archiviazione criptati a cui collegare i propri dispositivi per incrementare la loro memoria fino a un totale di 4 terabyte. Un’idea che permetterebbe di riciclare lo spazio cloud inutilizzato e di annullare il costo ambientale dello spostamento di dati, risparmiando fino a 10 volte in più di un data center tradizionale e costruendo un ponte per la rivoluzione imminente dell’Internet of Things.

di Luca Bagnariol, Marco Collepiccolo, Martina Taddei e Jacopo Andrea Panno

20

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


capitolo IV Al di là di qualsiasi impatto estetico, gli effetti che la costruzione e il mantenimento degli edifici hanno sull’ambiente circostante sono prinipalmente due, con implicazioni diverse – anche dal punto di vista della loro risoluzione – ma con incidenze sostanziali. Il primo consiste nell’inquinamento nel senso più stretto, si tratta della quantità di emissioni e del gigantesco consumo di energia e risorse. Il secondo aspetto da considerare riguarda lo stesso atto del costruire. Il consumo di suolo a favore degli spazi urbanizzati sortisce effetti distruttivi sugli ecosistemi e la salute dei terreni, ripercuotendosi anche sull’andamento climatico del territorio. La sezione ripercorre i numeri di tali effetti e cerca di ricostruire un quadro delle logiche del costruire in Italia che assecondano troppo spesso un’espansione del tessuto urbano priva di ratio e assoggettata agli interessi dei costruttori.

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

21


Secondo quanto si legge in un documento dell’UNEP (United Nations Environment Program) intitolato Energy efficiency for buildings, “Gli edifici utilizzano circa il 40% dell’energia globale, il 25% dell’acqua nel mondo, il 40% delle risorse del pianeta ed emettono circa un terzo delle emissioni di gas serra”. Sempre nello stesso report viene scritto che “se non viene fatto nulla, le emissioni saranno più che raddoppiate nei prossimi 20 anni”. Anche il Global Status Report 2018, redatto dalle Nazioni Unite in collaborazione con la Global Alliance for Buildings and Construction e la International Energy Agency, presenta statistiche simili. E fa notare che per seguire lo “scenario di sviluppo sostenibile” e per rispettare le ambiziose promesse dell’Accordo di Parigi – approvato pienamente da 187 Paesi nel mondo – “il consumo di energia degli edifici per metro quadro si dovrà ridurre del 30% entro il 2030”. Un obiettivo sempre meno raggiungibile se si guarda ai trend mondiali del settore. Sempre il Global Status Report spiega infatti che il consumo totale di energia è aumentato del 5% dal 2010 al 2017, in quanto “l’aumento dell’efficienza energetica è stato superato da una crescita della domanda di energia e una forte espansione delle attività del settore”.

22

E’ chiaro che le statistiche calcolate a livello globale non tengono conto di una netta differenza tra quella parte di mondo più sviluppata e il resto del pianeta. L’Italia per esempio è meno responsabile di altre nazioni in termini di emissioni. Secondo quanto si legge nel report di Giugno 2018 della Commissione Europea European Construction Sector Observatory, le emissioni di gas serra provenienti dalle attività di costruzione in Italia ammontavano a 5.250.595 tonnellate nel 2014: una diminuzione del 17% rispetto al valore di quattro anni prima, 6.326.245 tonnellate nel 2010. Parte del merito si deve probabilmente alla presenza dell’Unione Europea. L’Europa è infatti tra i continenti che hanno una regolamentazione più strutturata in materia di riduzione di emissioni, anche per quanto riguarda il settore dell’edilizia. Il 9 Luglio 2018 l’UE ha approvato una nuova versione dell’Energy performance of buildings directive (EPBD), in cui si indica l’impegno dei vari governi nazionali a migliorare l’efficienza energetica dei propri edifici. L’obiettivo annunciato sul sito ufficiale della Commissione Europea è ancora una volta molto ambizioso: la totalità degli edifici completamente “decarbonizzata” entro il 2050. I governi nazionali hanno tempo fino all’8 Marzo 2020 per trasformare in leggi effettive i provvedimenti immaginati nell’EPBD.

Per quanto riguarda l’impatto proprio del consumo di suolo, invece, le ricadute ambientali coinvolgono il nostro continente in maniera sostanziale. A dimostrarlo è uno studio del Novembre 2015, condotto dalla rivista scientifica Journal of Hydrology in collaborazione con la Commissione Europea, dal titolo piuttosto eloquente: Mutamenti nell’utilizzo del suolo nel Mediterraneo potrebbero stare provocando grandi cambiamenti climatici. “L’urbanizzazione si traduce in grandi porzioni di suolo coperte da case, cemento e asfalto – spiega il documento – Questo provoca una minore evaporazione delle acque, che fa spostare le tempeste estive verso le aree più interne invece di rilasciare le precipitazioni e riciclarle nel sistema costiero Mediterraneo”. Le conclusioni a cui arriva lo studio non lasciano spazio all’immaginazione: “Alle regioni costiere manca la quantità di pioggia necessaria durante i mesi estivi, incentivando il fenomeno di desertificazione, mentre affrontano tempeste intense in autunno, inverno e primavera. Nel frattempo, in estate ci sono inondazioni nelle regioni più interne”. L’Italia in questo caso condivide – insieme agli altri paesi del Mediterraneo – una fetta consistente di responsabilità.

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


UN’ ESPANSIONE EDILIZIA

ELANOIZ ARRI

Il 21 settembre 2019 ISPRA ha presentato a Roma i nuovi dati sul consumo di suolo in Italia. Con un aumento del 180% di consumo di suolo dagli anni ‘50 ad oggi, la sua superficie naturale si riduce ogni anno, aumentando gli effetti negativi sul territorio e sull’ambiente. Nel 2018 in Italia il suolo consumato è di 2.302.292 ettari e, secondo le rilevazioni di Eurostat e dell’Agenzia europea dell’ambiente, tra il 2009 e il 2012 l’incremento annuo dell’impermeabilizzazione territoriale del Paese è stata pari allo 0,049%, al terzo posto nel ranking europeo, superando l’incremento di diversi paesi tra cui Spagna, Portogallo, Germania e Francia. La densità abitativa può essere un parziale strumento di decifrazione di numeri così disomogenei, come riporta l’Agenzia europea di statistica che ha lavorato a dati relativi al consumo di suolo tra il 2009 e il 2015 (si pensi ai 100 ab./km² per la Francia in confronto ai 199,82 ab./km ² dell’Italia). Ma di certo la normativa italiana in materia di sostenibilità ambientale non aiuta ad arginare il fenomeno della cementificazione incontrollata: infatti al momento gli obblighi di legge, per quanto riguarda l’edilizia privata, sono ristretti esclusivamente a certificazioni di tipo energetico che prevedono che, ogni volta che si realizza una nuova costruzione o che un immobile viene venduto INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

o dato in locazione, è necessario allegare un attestato di certificazione energetica, redatto da un tecnico abilitato, secondo modalità di presentazione che variano di regione in regione. L’assenza di una cornice legislativa comunitaria che regoli e normativizzi i processi di cementificazione, e quindi la tutela del suolo, rende comunque critica la situazione europea: l’aumento annuale della copertura artificiale del suolo nell’UE è dell’1,3%, secondo l’indagine LUCAS pubblicata nel 2017, e circa il 15% del territorio dell’UE è colpito da erosione del suolo di entità da moderata a elevata, il cosiddetto “fattore k”, conseguenza, oltre che di pratiche agricole inadeguate, deforestazione e sfruttamento eccessivo dei pascoli, proprio di un’attività di costruzione smodata. Il rapporto del Sistema Nazionale di Protezione Ambientale ha registrato che tra il 2017 e 2018 in Italia il consumo di suolo ha riguardato 51 chilometri quadrati, con una media di 14 ettari al giorno con 2 metri quadrati di suolo perso irreversibilmente ogni secondo. Il consumo di suolo è più intenso nelle aree già molto compromesse (circa 10 volte maggiore rispetto a quelle meno consumate). Nelle città dense, solo in un anno, si sono persi 24 metri quadrati per ogni ettaro di aree a verde. In totale, quasi la metà del suolo perso in 12 mesi si trova nelle città, il 15% in aree centrali e semicentrali,

il 32% nelle fasce periferiche e meno dense. I risultati di queste ricerche non fanno che testimoniare l’irrazionalità dei processi di urbanizzazione che investono le periferie delle metropoli, per cui è sufficiente citare il caso di Roma che tra il 2012 e il 2017 ha visto consumare 408 ettari di suolo (il secondo comune in classifica è Montalto di Castro che ne ha consumati 161 e Milano e Venezia tra i 103 e 104). Un dato esorbitante, anche rispetto agli altri comuni, in seno al quale prende corpo il peso della speculazione edilizia e la mancata riqualificazione delle strutture già esistenti, che contribuiscono all’edificazione di satelliti urbani espropriati del legame con il tessuto sociale e culturale delle città. Senza contare le gigantesche ricadute ambientali: secondo il già citato rapporto ISPRA, la comparazione tra le temperature medie delle aree urbane con quelle riferite al territorio naturale e seminaturale testimonia il fenomeno dell’“isola di calore urbano”, per cui la differenza di temperatura tra i tessuti urbani e le aree rurali raggiunge picchi di 4-5°C in alcune regioni. Inoltre, è stato messo in risalto il ruolo di mitigazione delle temperature delle coperture arboree all’interno delle aree urbane, con contributi di 3-4°C in meno in presenza di verde alberato con significativi benefici per la salute umana e risparmi per i consumi energetici. 23


Come i numeri delle costruzioni crescono in Italia Percentuale del terreno artificiale sulla copertura totale del suolo, 2015 (% del totale)

I 5 comuni italiani con il consumo di suolo piĂš alto tra il 2012 e il 2017 (in ettari):

Superficie di suolo consumato [ha]

24

Incremento per anno di suolo consumato rispetto all’anno precedente [ha]

INQUINIANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


I tre capoluoghi con il maggiore incremento di consumo di suolo

REGIONE COMUNE

Tra il 2017 e 2018 in Italia il consumo di suolo ha riguardato 51 chilometri quadrati, con una media di 14 ettari al giorno (un’estensione di circa 19 campi da calcio coperta da superfici artificiali al giorno). Si mantiene la velocità di trasformazione del territorio registrata tra il 2016 e il 2017, ovvero 2 metri quadrati di suolo perso irreversibilmente ogni secondo.

INQUINIANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

SUOLO CONSUMATO

PIEMONTE Torino VALLE D’AOSTA Aosta LOMBARDIA Lissone TRENTINO-ALTO ADIGE Lavis VENETO Padova FRIULI-VENEZIA GIULIA Monfalcone LIGURIA San Lorenzo al Mare EMILIA-ROMAGNA Cattolica TOSCANA Forte dei Marmi UMBRIA Bastia Umbra MARCHE S. Benedetto del Tronto LAZIO Ciampino VENETO Pescara MOLISE Campobasso CAMPANIA Casavatore PUGLIA Bari BASILICATA Potenza CALABRIA Tropea SICILIA Isola delle Femmine SARDEGNA Monserrato

65,25 30,87 71,38 30,06 49,51 48,04 42,79 61,52 46,00 25,45 37,63 41,83 51,31 20,02 90,39 42,74 10,82 34,77 53,81 41,53

% % % % % % % % % % % % % % % % % % % %

25


26

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


La mancanza di una normativa che dia una chiara direzione allo sviluppo urbanistico nazionale lascia a ogni regione (e ai relativi comuni) la libertà di gestire la propria espansione edilizia interna come più le sembra conveniente. Esempio lampante è la legge nazionale del Piano Casa, che permette di usufruire di determinati incentivi per l’ampliamento, ricostruzione o ristrutturazione delle case: istituita nel 2009 e pensata per durare un anno e mezzo, ancora oggi ogni regione la applica in base alle proprie esigenze grazie a continue proroghe. Se questo da un lato è un bene per quanto riguarda il legame tra il territorio e l’autorità che lo amministra, dall’altro lato lascia un grande potere contrattuale ai principali soggetti privati del settore: i grandi costruttori. Che relazionandosi con un apparato statale spesso economicamente a brandelli - quindi ansioso di riuscire ad aprire nuovi bacini lavorativi e di smuovere nuovi flussi di denaro – e spesso in preda a logiche elettorali a brevissimo termine, hanno gioco facile nell’imporre i propri interessi come conditio sine qua non a cui nessun consiglio regionale o comunale ha la forza di opporsi. Il risultato è un Paese in preda a una totale “schizofrenia edilizia”. Gli esempi che seguono sono particolarmente importanti perché dimostrano come – senza mai scadere in alcun tipo di illecito perseguibile – un’impresa di costruzioni riesce a fare il proprio lavoro giocando in quel limbo che è l’inconsistenza normativa italiana. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Interessante e (purtroppo) rappresentativa della condizione nazionale è la storia del giovane quartiere di Parco Leonardo: progettato nel 1993 come un “quartiere oasi alle porte di Roma” e concepito in relazione al centro commerciale in progettazione, vede la prima consegna di appartamenti esattamente dieci anni dopo. Mancano ancora il centro commerciale, lo svincolo per l’autostrada e la stazione del treno che saranno inaugurati solo due anni dopo, nel 2005, mentre i residenti dovranno aspettare altri due anni per l’apertura dell’asilo, tre per le elementari e medie, quattro per la chiesa e cinque anni per la prima farmacia. Nel frattempo però il proprietario dei terreni, della famiglia Caltagirone, ha già costruito centinaia di appartamenti che sono gestiti dalla società SPIGES che, ci spiega Ezio Pietrosanti, consigliere comunale di Fiumicino del Movimento 5 stelle, “rappresenta i Caltagirone” nel quartiere. Pubblicizzato come un quartiere moderno e all’avanguardia alle porte della città, in cui sarebbe stato stupido farsi sfuggire un appartamento, ha mostrato col tempo il suo vero volto: una specie di carcere immobiliare, l’ennesima “cattedrale nel deserto”, in cui i residenti non si conoscono tra loro e sono quasi tutti costretti ad usare la macchina per muoversi e raggiungere il lavoro, la famiglia, la scuola. Oltre alle attività che hanno aperto in ritardo ce ne sono molte altre che ancora non ci sono e che costringono chi abita a doversi spostare a Fiumicino, a Ostia o direttamente a Roma.

La costruzione del quartiere di Parco Leonardo e di altre esperienze simili ha un impatto sull’ambiente non indifferente. Scegliere di costruire in una zona lontana da Roma, da Fiumicino e da Ostia ha reso i residenti isolati in una terra di nessuno per cui per raggiungere qualsiasi luogo, che non sia Fiumicino e la parte di Roma percorsa dal treno metropolitano che fa fermata al centro commerciale, bisogna usare la macchina. E gli esempi nella Capitale sono davvero tanti: basti pensare al quartiere di Corviale, dove è difficile arrivare e transitare con i mezzi. Situazione che, ormai, può sembrare normale per chi è abituato a Roma ma che, in città come Milano (con tutte le differenze del caso), è decisamente più rara grazie agli interventi di riqualificazione sistematici di aree abbandonate. Nel rapporto annuale di consumo del suolo del Sistema Nazionale Protezione Ambiente (SNPA), si legge che fino al 2018 a Milano si sono consumati in 10mila ettari di suolo comunale, mentre a Roma circa 30mila. E infine, non si tratta solo di quanto si costruisce ma anche delle modalità. Ed è qui che torna a farci comodo l’esempio di Parco Leonardo: come ha spiegato Pietrosanti, tutta l’area intorno a Fiumicino è riserva naturale e, quando si trattò di dare il via al progetto Parco Leonardo, l’area su cui ora sorge fu esclusa dalla zona protetta e dal parco litorale. E nel frattempo Fiumicino, tra il 2012 e il 2017, ha consumato altri 68 ettari di suolo. 27


IL BUIO OLTRE IL PONTE

Ma esempi di sviluppi urbanistici insostenibili si moltiplicano anche al nord, e particolare è il caso dell’Emilia Romagna che dal secondo dopoguerra alla metà degli anni ‘90 ha incrementato le superfici edificate di circa venti volte, con un’occupazione incontrollata dei suoli agrari della regione. Un processo che non accenna a diminuire considerando che i piani edilizi dei comuni emiliani prevedevano, nell’arco temporale della loro vigenza, cioè fino al 2016, l’occupazione di altri 38.000 ettari. “Sono sottoposti a vincolo paesaggistico ai sensi della legge […] i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna.” 28

Questo recita la voce “C” della legge Galasso, emanata nel 1985 per la tutela e la conservazione delle zone di particolare interesse ambientale, che grazie al suddetto vincolo dovrebbero essere salvaguardate da costruzioni edilizie nocive e troppo invasive. Ma tutt’altro è stato fatto a Parma dalle giunte comunali di centrodestra Ubaldi e Vignali, che hanno amministrato il municipio ducale complessivamente dal 1997 al 2011, periodo nel quale viene ideata, approvata e infine nel 2012 realizzata una delle opere edilizie più rilevanti di sempre per costi e dimensioni del comune parmigiano; il tutto proprio in concomitanza dell’area verde del Torrente di Parma. È il caso del Ponte Nord di Parma, un progetto costato 25 milioni di euro e realizzato dall’impresa edilizia Pizzarotti & C.,

che ha portato alla costruzione del Ponte Europa e dell’Edificio Ponte Nord, emblema entrambi della totale assenza in Italia di una pianificazione urbana attenta alla tutela dell’ambiente e alle esigenze sociali dei cittadini. Le tonnellate di cemento utilizzate per costruire il ponte Europa infatti non solo sono state a detta di molti inutili, sia perché il torrente che il ponte attraversa è quasi sempre a secco sia perché 300 metri più a Sud è già presente un altro ponte, ma hanno anche arrecato danni oggettivi alla conformazione urbanistica della zona, poiché per collegare il ponte alla viabilità locale è stato necessario sventrare parte del quartiere residenziale limitrofo e cancellare l’intera area verde intorno al torrente, dove era stato costruito anche un campo da calcio.

Lo stesso discorso vale anche per la costruzione dell’edificio Ponte Nord, il fiore all’occhiello del progetto e sicuramente la parte più fatiscente e costosa, anch’esso finito sotto i riflettori per le critiche sollevate. La sua realizzazione ha portato alla nascita di un’infrastruttura alta 15 metri, tutta acciaio e vetro, costruita su tre livelli e che per 160 metri fa da involucro al ponte. Si offriva così come potenziale spazio abitabile per attività espositive e commerciali, con il chiaro intento di diventare una vetrina per la città, in grado di attrarre a sé i maggiori movimenti culturali e economici orbitanti attorno a Parma e dintorni. Per sette anni dal completamento dell’opera la sovrastruttura del ponte non ha però rivestito alcuna funzione, se non quella di “copertura” del manto stradale del viadotto, INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


proprio a causa della legge Galasso, che vieta espressamente di costruire stabili con usi permanenti sugli alvei dei fiumi e dei torrenti. Solo recentemente, nel giugno 2019, grazie a una proroga sull’emendamento Sblocca Cantieri, operazione che Legambiente ha definito come “condono edilizio”, è stato concesso di poter utilizzare e rendere fruibile l’edificio Ponte Nord nelle sue funzionalità, che rimangono però indefinite e oggetto di discussione. L’intero caso del ponte Nord mette dunque in evidenza le problematiche derivanti da una progettazione edilizia malpensata e fine a sé stessa, in cui l’unica soluzione possibile da affrontare per limitare l’impatto negativo che un’opera tale può avere a livello ambientale, economico e sociale è quella di ricorrere a un intervento legale che permetta un’“eccezione alla regola”. L’attuale giunta 5 stelle dello sfortunato omonimo Pizzarotti, seppur da sempre contrarissima alla realizzazione del ponte, vede come positiva l’autorizzazione concessa per rendere agibile il Ponte Nord in tutte le sue potenziali funzioni, poiché si accrescerebbe il valore e l’utilità dell’opera, finora nulli, dando un senso al cospicuo investimento economico. D’altra parte però, come sostiene fermamente Legambiente in una sua lettera alla segreteria di Parma, ci si interroga anche su quel che sarà il Ponte Nord e, se la sua messa in funzione, si rivelerà davvero utile o finirà per essere ancora più nociva di quanto non lo sia già stato. Quanto è auspicabile investire ancora su un’infrastruttura che sta dove per legge non dovrebbe stare, che è dannosa per l’ecosistema circostante e che seppur moderna e dotata di tecnologie di ultima generazione non è minimamente ecosostenibile tramite fonti rinnovabili nelle proprie emissioni, piuttosto che iniziare a calcolare i costi di smantellamento della struttura, per puntare su qualcosa di più avvalorabile? INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Le nuove normative europee legate all’accordo di Parigi e all’“Energy performance of buildings directive” stanno sicuramente contenendo gli effetti delle emissioni e contribuendo allo sviluppo di un’edilizia sostenibile anche in Italia. Ma l’impatto proprio del consumo di suolo, e le sue ricadute sui cambiamenti climatici, sulla degradazione del terreno, nonché sulla stessa funzionalità e vivibilità dei poli urbani diventa un problema sempre più urgente, specialmente nelle aree di maggiore appetibilità logistica per gli investitori, come le periferie e le zone periurbane. I dati sul consumo di suolo del rapporto ISPRA sono inequivocabili in questo senso: tra il 2012 e il 2018 in Italia sono stati consumati 31.498 ettari di suolo e il fenomeno non procede di pari passo con la crescita demografica: ogni abitante italiano ha in “carico” oltre 380 m2 di superfici occupate da cemento, asfalto o altri materiali artificiali. Un valore che cresce di quasi 2 metri quadrati ogni anno, con la popolazione che, al contrario, diminuisce sempre di più. È come se, nell’ultimo anno, avessimo costruito 456 m2 per ogni abitante in meno. Negli ultimi sei anni secondo le prime stime l’Italia ha perso superfici che erano in grado di produrre tre milioni di quintali di prodotti agricoli e ventimila quintali di prodotti legnosi, nonché di assicurare lo stoccaggio di due milioni di tonnellate di carbonio e l’infiltrazione di oltre 250 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde aggravando la pericolosità idraulica dei nostri territori. Il recente consumo di suolo produce anche un danno economico potenziale compreso tra i 2 e i 3 miliardi di euro all’anno dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici del suolo.

di Alessandro Luna, Lorenzo Mollicone, Francesco Paolo Savatteri e Susanna Rugghia

29


30

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

31

Comune di Giarre in Provincia di Catania di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico


capitolo V

UN PAESE

DI CEMENTO 32

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


SOGNI DI CALCESTRUZZO Quando Goethe nel suo Viaggio in Italia affermò che “l’architettura in Italia è una seconda natura”, aveva certamente ancora negli occhi le immagini di un viaggio iniziato nel nord tra le ville del Palladio e terminato con il secondo soggiorno romano, e non poteva immaginare la tragica ironia di cui si sarebbe ricoperta questa frase nei secoli successivi. Quello dell’Italia era infatti certamente già al tempo di Goethe un paesaggio fortemente antropizzato, ma che ancora non aveva fatto i conti con il suo più acerrimo nemico: il cemento. Ovviamente intendiamo il cemento moderno, più correttamente “calcestruzzo armato”, poiché il suo antenato latino, da cui ha preso il nome(Caementium), fu un elemento nevralgico per lo sviluppo dell’Impero romano. Nonostante la storica “affinità”, nell’Ottocento l’Italia non risulta tra i first comers della prima fase, chiamata “pionieristica”, di sviluppo del nuovo materiale. Il che non impedì tuttavia di riconoscerne velocemente le potenzialità, così già nel 1911 il cemento, prodotto con il Systéme Hennebique, faceva il suo trionfale ritorno a Roma grazie all’ingegner Giovanni Porcheddu, che lo utilizzò per realizzare Ponte Risorgimento, con la sua luce di 100 metri, all’epoca la più estesa al mondo.

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

33


Collage digitale di piante, sezioni e prospetti delle opere incopiute nel Comune di Giarre in Provincia di Catania. Astronave madre, 2008 di Alterazioni Video

L’EREDITÀ DELLA GUERRA Gli anni successivi videro nascere nuovi stili architettonici collegati alle potenzialità strutturali di questo materiale che contribuirono a fare del cemento lo strumento privilegiato per la sperimentazione e l’innovazione dell’architettura. Se fino alla seconda Guerra Mondiale l’evoluzione del linguaggio architettonico verso purismo, funzionalismo e brutalismo era parsa in linea con le idee sociali e politiche che si andavano sviluppando, in Italia come in Europa, sarà nel dopoguerra che si giocherà la vera partita. 34

La ricostruzione edilizia era infatti omnicomprensivamente riconosciuta come un momento cruciale dal quale sarebbe passata la creazione della “nuova società italiana”. Tanto da spingere Giulio Carlo Argan nel 1946 ad affermare sulla rivista Il Politecnico “[…] ogni architetto e urbanista è un riformatore sociale, allo stesso modo che gli architetti del rinascimento sono stati i riformatori del pensiero scientifico del loro tempo.” Le due principali tendenze nell’architettura italiana di quel periodo erano la

scuola “organicista” romana, legata a una concezione rurale, e quella “razionalista” milanese più affine a una cultura industriale centro europea. Vi era poi una terza via, patrocinata dall’industriale Adriano Olivetti, che vedeva la figura dell’urbanista non tanto come un demiurgo che indicasse una via quanto come un interprete delle esigenze e degli scopi della nuova società nascente. Difficilmente la visione di Olivetti sarebbe potuta essere più disattesa…

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


LA PARALISI,

L’ANARCHIA, IL BOOM, IL MEZZOGIORNO I primi due governi De Gasperi furono governi di coalizione tra la DC e il PCI, in cui alla volontà di collaborazione era sottesa una diffidenza nei confronti degli avversari. Emblematico è il caso di un emendamento presentato dalla sinistra all’Assemblea Costituente nel maggio del ’47: “lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività economica secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività”. Nonostante anche i più liberisti concordassero con una necessità di programmazione, la semplice parola piano evocò nella stampa il terrore dello stalinismo (nonostante per altro la presenza in essere del piano Marshall) e l’emendamento fu bocciato senza appello. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

Questo biennio fu quindi contraddistinto da politiche di attesa che sollevarono le critiche degli stessi americani, oltre a far sì che il reddito pro-capite nel ’47 fosse circa il 78% di quello prebellico. Le pressioni internazionali, e non solo, individuavano come unica soluzione una politica economica keynesiana, in sostanza... costruire. Sono quindi gli anni dei grandi interventi nei settori dei lavori pubblici e dell’edilizia con ad esempio la legge Tupini e soprattutto il “Piano casa”, meglio noto come “Piano Fanfani”, che istituiva l’ente INA-Casa preposto alla realizzazione di “provvedimenti a favore dell’occupazione e tesi a facilitare la costruzione di case popolari”, il tutto però senza alcun piano regolatore in merito.

Questo significò il raggiungimento del pareggio di bilancio e la piena occupazione, ma anche, ad esempio, che nella città di Roma nel 1970 una casa su sei fosse abusiva. Ma a pagare di più la mancanza di programmazione e attenzione nella gestione fu il Sud. Da un lato infatti lo sbilanciamento dei finanziamenti (86% al centro-nord, 14% al sud) acuì la già drammatica “questione meridionale” portando a un esodo di massa di circa 10 milioni di persone che trasformerà, ad esempio, nel 1967 Torino nella terza città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. Ovviamente lo spostamento non fece altro che aumentare le richieste di edilizia abitativa e abusi nelle grandi città.

Dall’altro lato investimenti e istituzioni, come ad esempio la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno, provarono semplicemente a replicare il modello nazionale, non tenendo conto delle differenze intrinseche di questa terra e si trasformarono in fallimenti di spesa pubblica e sociali. Nasce infatti proprio in quegli anni il termine “cattedrali nel deserto”, in riferimento a insediamenti industriali come Italsider di Taranto o Alfasud di Pomigliano. Dal punto di vista dell’edilizia abitativa è emblematico il caso della Martella, borgo ideato per migliorare le condizioni di vita degli abitanti dei “Sassi” di Matera, ma il trasferimento forzato in un luogo privo di legami e misterioso non fece altro che spingere la maggior parte degli interessati a emigrare. 35


IL PREZZO DELLA PACE SOCIALE

Il cemento diviene così negli anni del boom un elemento culturale, utilizzato persino come medium artistico da Giuseppe Uncini, che ne farà la sua firma; o come il termine “cementificazione”, che nel 1964, in concomitanza con l’inaugurazione dell’autostrada A1, entra nel vocabolario italiano e viene cantata da Celentano. A cinquant’anni di distanza però facciamo i conti con quello che è rimasto di quel periodo: ecomostri, cattedrali nel deserto, distese sconfinate di opere incompiute o abbandonate. Ciò che resta di ideali che non hanno retto alla prova del tempo, rovine di un passato prossimo, non causate da una guerra, anche se ci sono stati spari, morti e conquiste di territori. Ma nonostante le testimonianze di questo fallimento siano proprio davanti ai nostri occhi rifiutiamo di prenderne atto, continuando a produrre incubi di calcestruzzo con cui prima o poi la nostra generazione dovrà fare i conti.

36

INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


DEL CEMENT

Comune di Nuoro di Alterazioni Video INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

37


La domanda e la produzione

Composti e materiali Il cemento è un legante idraulico utilizzato nelle costruzioni per legare insieme altri materiali. E’ mescolato con sabbia, ghiaia e acqua per produrre calcestruzzo, il materiale da costruzione più utilizzato al mondo. Nel futuro la reperibilità di queste materie non sarà scontata, mentre, d’altra parte, l’acqua pulita, che serve per la produzione, è una risorsa estremamente preziosa, soprattutto in alcuni luoghi del mondo. Tuttavia ogni anno vengono utilizzate oltre dieci miliardi di tonnellate di calcestruzzo. Lo standard industriale è un tipo di cemento chiamato Portland. Oggi è utilizzato nel 98% del calcestruzzo a livello globale, con 4 miliardi di tonnellate prodotte ogni anno. In Italia i dati del 2007 mostrano una produzione di 46mila tonnellate di clinker (secondo i dati riportati da U.S. Geological Survey). La produzione del clinker di Portland, che funge da legante, è un passaggio cruciale nella fabbricazione del cemento di Portland. Il calcare viene “calcinato” ad alte temperature in una fornace di cemento per produrre calce: tale procedimento determina il rilascio di CO2 di scarto. La produzione di CO2 durante la reazione è dunque inevitabile. Se la metà delle emissioni di CO2 dovute alla produzione di cemento proviene dunque 38

da questo processo volto alla produzione del clinker, il modo per diminuire le emissioni garantendo l’efficacia del metodo è quello di sostituire almeno in parte il clinker con materiali diversi. Va poi considerato che anche il tipo di combustibile e quindi la modernità delle apparecchiature utilizzate durante la produzione hanno un impatto di circa il 40% sull’emissione di gas serra, mentre il restante 10% è dovuto al trasporto. Un’accurata analisi di Carbon Brief, un sito web con sede nel Regno Unito progettato con l’obiettivo di migliorare la comprensione dei cambiamenti climatici, mostra che, per tagliare le emissioni di CO2 del settore, un fondamentale passo da compiere è il mutamento del tipo di combustibile impiegato per il riscaldamento ad altissime temperature dei forni in cui avviene il processo di calcinazione, sostituendo il carbone con fonti alternative. Tutto ciò in un contesto volto anche a migliorare l’efficienza energetica dei forni. Come detto, una strada può essere quella di diminuire il clinker nel cemento. La tecnologia si sta orientando verso la creazione di cementi da materiali sintetici (geopolimeri) con maggiore capacità di assorbire CO2. Tuttavia l’obiettivo non è stato ancora raggiunto, dato che lo sviluppo di tecnologie innovative deve fare i conti con politiche aziendali e statali non sempre attente: sono necessari infatti elevati finanziamenti per commercializzare su vasta scala i cementi più innovativi.

Secondo Chatham House, un importante centro studi britannico, c’è ancora un altro fattore da considerare: l’intensità media di CO2 nella produzione di cemento - le emissioni per tonnellate di produzione - è diminuita del 18% a livello globale negli ultimi decenni. Tuttavia, le emissioni del settore nel suo complesso sono aumentate in modo significativo, con una domanda triplicata dal 1990. Un altro importante fattore, che determina ovviamente una riduzione delle emissioni e un abbattimento della produzione di cemento, è sicuramente la riduzione della domanda di mercato. Così, metodi di economia circolare possono consentire il riutilizzo di parti modulari degli edifici e favorire la necessità di massimizzare la durata dell’infrastruttura in modo tale da ridurre la richiesta futura. Sorge spontanea la domanda sulla necessità di produrre in Italia ancora così tanto cemento se il suo utilizzo tendesse in prospettiva a diminuire. Inoltre, come vedremo più avanti, il calcestruzzo negli edifici potrebbe essere anche in parte sostituito con legno certificato, potenzialmente consentendo la cattura e lo stoccaggio di CO2. Un dato è rilevante: ad oggi le emissioni mondiali dovute alla produzione di cemento sono di circa l’8% del totale di emissioni di gas serra. E, come sostiene Carbon Brief in chiusura dell’analisi, il cemento è uno dei settori considerati più difficili da de-carbonizzare. Per limitare il suo impatto ambientale si dovrà necessariamente puntare sui metodi di economia circolare, che prevedono, come dicevamo, il riciclo dei materiali o anche la progettazione di edifici più leggeri, duraturi ed efficienti grazie alle tecniche di bioedilizia e, soprattutto per i paesi industrializzati e non in una fase di boom economico, un abbattimento della sua richiesta e dunque produzione. INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


LA PRODUZIONE DI CEMENTO IN ITALIA

Comune di Mussomeli in Provincia di Caltanissetta di Alterazioni Video

I registi dell’industria Abbiamo mostrato come in Italia la produzione del cemento è tra i settori industriali più sviluppati e numerose sono le aziende coinvolte. I maggiori gruppi di produzione cementizia nazionale sono rappresentati da Italcementi (della famiglia Pesenti), Buzzi-Unicem (della famiglia Buzzi), Cementir (di Francesco Gaetano Caltagirone), Colacem, Sacci, Zillo e Rossi. “Queste sette aziende – afferma Paolo Acciai, segretario nazionale della Filca, responsabile INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019

del settore – con 69 unità producono circa l’80% del cemento nazionale” La più grande è decisamente Italcementi che possiede ben sei cementerie a ciclo completo, un impianto per i prodotti speciale e sei centri di macinazione. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito ad una concentrazione di più gruppi e alla vendita ad aziende straniere: Cementir (gruppo Caltagirone) ha deciso per esempio di cedere per 315 milioni di euro tutte le

sue attività italiane, cui fanno capo cinque impianti di cemento a ciclo completo, due centri di macinazione e le centrali di calcestruzzo, a Italcementi, storico marchio italiano che però la famiglia Pesenti aveva già ceduto nel 2015 al gruppo tedesco Heidelbergcement. Un dato è fondamentale: in Italia abbiamo oltre 14 milioni di abitazioni già costruite e la speranza di costruire sempre di più per favorire le aziende che operano nei settori in questione non è

più una pratica sostenibile. Il cemento serve principalmente per le nuove costruzioni, e dunque in Italia non abbiamo più bisogno di una produzione così elevata. Secondo i dati riportati da un’analisi di Affari italiani e confermati anche dal figlio di Francesco Gaetano Caltagirone, il mercato resta con un eccesso strutturale dell’offerta (40 milioni di tonnellate l’anno di capacità produttiva) rispetto alla domanda stabile che si attesta su circa 19 milioni l’anno. 39


Tuttavia la nostra idea è che da un lato non vi sia più una necessità di costruire nel settore dell’edilizia abitativa, dall’altro che il tema centrale sia quello della riqualificazione e rigenerazione urbana. Ne consegue che la domanda di cemento subirà un’ulteriore diminuzione. Una riflessione è quindi doverosa in questo contesto e i piani di espansione urbana vanno studiati in altro modo, con diverse priorità, perché tutto ciò che riguarda il costruire non può non avere un legame con l’abitare. In Italia bisognerebbe soprattutto orientarsi su piani di riqualificazione del costruito. Di quante tonnellate di cemento e calcestruzzo avremo ancora bisogno nei prossimi anni? In Italia, dal boom economico fino al 2008, anno in cui è esplosa la crisi, ma in realtà fino al 2011 la produzione di calcestruzzo pro-capite ha continuato a toccare livelli altissimi, collocandosi di più di mezzo punto percentuale rispetto alla media europea( secondo i dati riportati dai rapporti Atecap). Tale produzione è stata dettata dalla logica del guadagno e si è legata allo sviluppo senza sosta e alla smania di continuare a costruire, senza barriere speculative e con una normativa assente o non rigorosa di contenimento e di tutela dell’ambiente, quando già non ce n’era più bisogno. Si pensi agli esempi di ecomostri che è possibile trovare disseminati sul territorio italiano. Due anni dopo il tifone Yolanda (Haiyan) che è costato la vita a più di 6.300 persone e creato milioni di sfollati, si è creata una Commissione per i diritti umani che nel 2017 ha invitato 47 grandi emettitori di CO2 a partecipare a una riunione preliminare in vista di un’indagine sulla responsabilità aziendale in merito alla violazione dei diritti umani legata al clima. I sopravvissuti al tifone filippino, altre comunità sensibili agli impatti dei cambiamenti climatici e organizzazioni della società civile, tra cui Greenpeace Southeast Asia (Filippine), hanno presentato una petizione a tale Commissione nel 2015. Tra il 2015 e il 2017 la Commissione ha elencato i massimi emettitori di gas serra, i “Carbon Majors”. 40

Scorrendo questo elenco troviamo Italcementi, ma anche il gruppo tedesco Heidelbergcement che ha acquisito lo storico marchio di produzione italiano nel 2015. Nella prima interazione della ricerca sono state dunque trovate, da questa commissione formata da scienziati di vari settori completamente indipendenti, 90 entità responsabili per l’emissione di miliardi di tonnellate di gas serra. Alla ricerca di alternative In Italia è poi spesso mancata la valutazione per quanto riguarda uno degli aspetti fondamentali dei progetti infrastrutturali, ovvero l’enorme consumo di cemento e il conseguente impatto ambientale dovuto alla sua produzione e utilizzo. I tentativi di arginare l’utilizzo di cemento e calcestruzzo sono stati finora almeno parzialmente inefficaci, nonostante la consapovelezza della natura inquinante di questo materiale. L’Atecap, associazione tecnica e organizzativa del calcestruzzo, nel rapporto annuale del 2017 afferma : “ll 2016 si chiude con un risultato deludente per gli investimenti in costruzioni, la produzione del settore non decolla e l’unico comparto che continua a registrare una crescita degli investimenti è quello della riqualificazione abitativa, un’attività che non traina la produzione di calcestruzzo preconfezionato. Dopo dieci anni di calo ininterrotto dei volumi il settore del calcestruzzo preconfezionato è un comparto industriale logoro con una struttura produttiva altamente sovradimensionata. Grandi attese, per il 2017, provengono dall’aumento delle risorse stanziate per le opere pubbliche nella legge di Bilancio” E’ chiaro che si antepongono logiche finanziarie ad un’attenzione al cambiamento ambientale del pianeta, che necessita una riduzione drastica delle emissioni di CO2. Tale attenzione deve necessariamente prescindere dalla tutela delle aziende. Le aziende hanno ampi programmi di sostenibilità, che mirano a migliorare l’efficienza nelle fasi di produzione di cemento, tuttavia spesso i rapporti sono redatti

da associazioni del settore, o dalle aziende stesse, talvolta senza l’intervento di commissioni esterne e indipendenti, come ad esempio quella creatasi dopo il tifone Haiyan, che giudichino i passi che le compagnie stanno realmente compiendo per abbattere le emissioni. Una domanda che sorge spontanea è su quanto l’avere aziende così grandi in Italia e una tradizione socio-culturale fortemente legata al cemento abbia limitato di fatto lo sviluppo di alternative valide alla sostituzione del cemento e del calcestruzzo da utilizzare come materiali di costruzione. L’agenzia per la Protezione Ambientale statunitense definisce “Green Building” la pratica di creare strutture con processi che sono ecologicamente responsabili ed efficienti per tutto il ciclo di vita dell’edificio stesso. Questo vale per la scelta del sito, per la progettazione, la costruzione, la gestione, la manutenzione, la ristrutturazione e la decostruzione. I materiali di costruzione prediletti dalla bioedilizia sono principalmente il legno certificato, mattoni di calce e canapa, mattoni riempiti di argilla, materiali riciclati. Chiara Tonelli, uno degli architetti con cui ci siamo confrontati durante la stesura di questa sezione, afferma: “A sostituzione del cemento come materiale di costruzione delle strutture pulito si è pensato molto, e c’è stata tutta una storia, anche molto lunga, che parte negli anni 80’ e si dà forza con la nascita dell’edificio leggero, pensato in metallo” Il cemento infatti a differenza del metallo è particolarmente difficile da riciclare, soprattutto perché richiede una completa demolizione. “Questo è uno dei grossi problemi del cemento. Se io demolisco un edificio in cemento ci posso fare un manto autostradale… poi però quante altre strade dovrò fare per togliere tutto il cemento che abbiamo?”. Dal dopoguerra ad oggi si è costruito molto, e in cemento, spesso senza vincoli, e alternative non sono mai state realmente prese in considerazione, fino a che i cambiamenti climatici non sono divenuti un problema evidente.

“Oggi il legno è visto un po’ come il materiale sostenibile, ora anche il legno come tutto ha dei problemi, perchè dipende come lo usi, chi lo produce, chi lo monta e come lo monta”, conclude la Tonelli. Ovviamente stiamo parlando di legno certificato, preso in appositi luoghi. La sfida infatti starà anche nell’utilizzare materiali giusti nel posto giusto, e quindi sicuramente non abusando del cemento per proteggere logiche produttive, quando questo può essere sostituito dal legno o da altri materiali con minore impatto ambientale.

di Luca Giordani, Lorenzo Cirino, e Chiara Falcolini INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.