Aprile 2020
n° 31
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Mensile indipendente di attualità e cultura
n° 31 Aprile 2020 Responsabile editoriale: Edoardo Bucci Responsabile per lo sviluppo artistico e visivo: Maria Marzano Responsabile contenuti web: Chiara de Felice Coordinatrice editoriale per Milano: Arianna Preite Responsabili editoriali per la sezione “Attualità”: Susanna Rugghia e Francesco Paolo Savatteri Responsabili editoriali per la sezione “Cultura”: Luca Giordani e Jacopo Andrea Panno Responsabile editoriale per la sezione “Il Plus”: Luca Bagnariol Responsabile “Focus”: Chiara Falcolini Responsabile strategico per le inchieste editoriali: Pietro Forti
È possibile ideare, stampare e distribuire questa rivista unicamente grazie al lavoro quotidiano di tanti di noi che, pur non collaborando direttamente alla stesura, ne sono una parte fondante ed imprescindibile. Coordinatore esecutivo e responsabile strategico: Tommaso Salaroli Responsabile strategico per Torino: Samanta Zisa Responsabile strategico per Milano: Tommaso Proverbio Coordinatore e responsabile sviluppo economico: Lorenzo Cirino Responsabile generale per la community interna: Corrado Giancoli Responsabile creativo della comunicazione: Emilio Lucchetti Coordinatrice team Twitter: Giulia di Donato Responsabile nazionale per la Rete del Cartaceo: Alma Fogu Coordinatrice sviluppo economico Torino: Arianna Campanelli Coordinatore generale logistica: Carlo Giuliano Responsabile generale per la community dei sostenitori: Tancredi Paterra Coordinatore attivisti: Lorenzo Mollicone Coordinatore sviluppatori web: Claudiu Ivano Responsabile indagine sulla ludopatia minorile: Ettore Iorio Coordinatore architetti e progetto “La Redazione” Roma: Giacomo Florenzano Responsabile video e progetto “Voci”: Lorenzo Vitrone
Un ringarziamento speciale ai nostri partner:
Greenpeace Italia, Banca Etica, Treccani, Internazionale, Teatro di Roma
L’EDITORIALE
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APRIRE I CANCELLI Il punto di partenza è una crisi, nel senso che più è proprio di questo termine, quindi krino: separare, discernere, giudicare. Le crisi sono momenti preziosi, dalla stabilità fragile lasciano emergere le fratture più profonde, ci mettono di fronte a delle scelte sui modelli che decidiamo di seguire e ci spingono a cambiare. La pandemia che stiamo attraversando ci spinge ad adattarci ad una vita diversa, ad un modo di comunicare diverso. Non ne va esente la nostra realtà editoriale. Con l’emergenza sanitaria – insieme al coinvolgimento all’interno della redazione di ragazze e ragazzi di Milano e Torino - il confronto da cui nascono le nostre pubblicazioni si è dovuto inevitabilmente spostare in una stanza virtuale. Nonostante ciò, o paradossalmente, proprio per questo diverso modo di condurre il lavoro, il fitto dialogo tra i redattori ha portato ad una riflessione unitaria che ora il lettore ha tra le mani. Un numero nato a distanza, ma che segue una linea unitaria, scandita in tre editoriali che ne guidano la lettura e ne restituiscono la tridimensionalità: uno “zoom out” progressivo dal focus sul carcere allarga la visione ad un discorso di attualità più sistematico, fino ad astrarre la pandemia in un topos che ricorre nella Storia, o meglio, nelle storie. Abbiamo scelto di partire dal carcere, una delle maggiori fragilità che sono emerse, non è certo l'unica, ma è forse un tema che più di altri viene dimenticato nel dibattito pubblico. Il mondo carcerario vive in disparte, lontano dallo Stato di cui dovrebbe essere una rappresentazione. Solo in momenti di crisi riapre i suoi cancelli e lascia entrare l'occhio ad indagarne le contraddizioni: spazi ristretti, mazzi di chiavi enormi, porte inutilmente rumorose che scandiscono le ore. Questo sguardo ci restituisce l'immagine di un sistema penitenziario ancora lontano dal modello costituzionale della rieducazione del detenuto, che non riesce ad uscire dall'eterno sovraffollamento. Il lessico che si utilizza è indicativo in questo senso: tanto non ci svincoliamo dal modello carcere che il termine “detenuto” ha sostituito il termine “condannato”, a lasciar intendere la reclusione come inevitabile conseguenza della qualifica di reo. Scomodo
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Il risultato che oggi abbiamo sotto gli occhi è una popolazione carceraria che non ha smesso di crescere, malgrado una diminuzione della criminalità. Indagando le ragioni di questo paradosso, ci siamo posti l'obiettivo di guardare più da vicino la realtà carceraria, per restituire prima di tutto un volto umano ad un luogo che si tende troppo spesso a spersonalizzare. Cercheremo poi di uscire parzialmente dal luogo carcere per comprendere il ruolo che hanno avuto e hanno oggi le misure alternative alla detenzione nel processo di risocializzazione del reo, un percorso necessario in cui il ruolo chiave lo gioca il personale penitenziario, l'ago che fa pendere la bilancia dal lato della punizione o della rieducazione. La crisi di oggi insomma, ha aperto i cancelli del carcere agli occhi del dibattito pubblico, cerchiamo di non chiuderli. Almeno non subito. di Chiara Falcolini
I N D I C E FOCUS CARCERI • Dove il sistema penitenziario ha fallito Uno sguardo dentro al carcere di Samanta Zisa Ne vale la pena di Ettore Iorio e Andrea Calà Il personale nelle carceri Italiane di Bianca Pinto
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ATTUALITÀ 13 I CONSIGLI DEL LIBRAIO 16 Die hard o le mille vite del neoliberismo di Marta Bernardi, Giulia D’Aleo e Susanna Rugghia 18 Come muore il neoliberismo di Nathaniel Cappennani, Niccolò Lauzi, Maia Piermattei e Francesco P. Savatteri 25 L’altra emergenza di Giulia Genovesi, Marina Roio e Giovanni Tucci 30 Falchi contro maiali: bestiario dell’Europa in tempo di crisi di di Luca Bagnariol, Julien Dagostino, Simone Martuscelli e Luigi Simonelli 36 Parallasse di Luca Bagnariol 41 INTERNAZIONALE di Nadiia Zhelieznova La Copertina di Mariasole Dassiè
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CULTURA 48 I. COLPA 50 "Così il Signore gli rese il meritato castigo" di Erica Gentili 52 Edipo, il male è nell'esistenza di Anna Leonilde Bucarelli 54 Gli scomparsi e i salvati di Jacopo Andrea Panno 55 La Peste, il flagello e la vita di Cristiano Bellisario 56 II. LITURGIA 58 Salus populi di Luca Giordani 60 Cumannari è megghiu ca’ futtiri di Carlo Giuliano 61 M per Messinscena di Luca Giordani 62 Il Dio del Consumo di Carlo Giuliano 63 III. INTIMITÀ 64 Percezioni della realtà, distorsioni e vertigini nell'esperienza di Michele Espinoza 65 L'epidemia è crisi di Cosimo Zatti 66 Ma se gli androidi sognano pecore elettriche, i terrestri sognano la fine della solitudine? di Arianna Preite 67 L'untore non è ammesso al concerto di Lorenzo La Malfa 69 La Peste, vivere o morire in un eterno presente di Cristiano Bellisario 70 Scacco matto di Giulia D'Aleo 71 IV. COLLETTIVITÀ 72 Tucidide e il 430 a.C., fenomenologia di una crisi di Gaia Del Bosco 73 E se la malattia non fosse condanna ineluttabile? di Alice Paparelli 74 Tutte le piaghe del Presidente di Carlo Giuliano 75 La storia mi toglie il sonno di Riccardo Vecchione 76 La città si distruggerà all'alba di Daniele Gennaioli 77 In fuga dalla città di Anna Cassanelli 79 V. ROVINE di Anna Cassanelli, Carlo Giuliano, Riccardo Vecchione, Alice Paparelli, Luca Giordani, Arianna Preite, Giulia D'Aleo, Cristiano Bellisario 82 Oceano Indiano di Carlotta Vernocchi e Gaia Del Bosco 90 PLUS Viaggio nelle periferie di Internet di Luca Pagani, Ilaria Sabarino Alfabetizzazione digitale a che punto siamo? di Andreana Urbano, Ismaele Calaciura Errante La reazione del settore bancario al COVID-19 di Lorenzo Cirino
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CARCERI
DOVE IL SISTEMA PENITENZIARIO HA FALLITO L'emergenza di oggi riporta la questione penitenziaria sotto i riflettori del dibattito pubblico e ci mostra un tasso di sovraffollamento tristemente vicino a quello riportato nel 2013, quando il nostro paese fu condannato dalla corte EDU per le condizioni inumane e degradanti in cui vivevano i nostri detenuti. Da allora la popolazione carceraria ha ripreso a crescere, malgrado una diminuzione della criminalitĂ . Cercando le ragioni di questo paradosso, ci siamo posti l'obiettivo di chiarire come funzioni e dove fallisca il sistema penitenziario.
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Uno sguardo dentro il carcere Le rivolte in carcere delle scorse settimane hanno fatto riemergere problematiche del nostro sistema penitenziario, da anni sottovalutate e ignorate. La paura della diffusione del COVID-19 nell'ambiente carcerario ci ha portato ad indagare non solo le dinamiche delle proteste, ma anche le condizioni di vita ai margini dell'isolamento sociale. Qualsiasi libro di finanza pubblica sostiene che le spese pubbliche in campo sanitario generano, oltre a benefici per gli assistiti, anche benefici esterni: aumento della produttività del lavoro (e quindi crescita del reddito nazionale) nonché riduzione del rischio delle epidemie. Le rivolte La notte del 7 marzo 2020 nel carcere di Salerno scoppia la prima di una serie di rivolte carcerarie, che si estendono nei giorni successivi in altre 27 carceri del Paese. Le ragioni principali delle agitazioni sono l’interruzione dei colloqui con gli esterni, la sospensione delle attività, dei permessi e della semilibertà causata dell’emergenza sanitaria imminente. L’allarme scattato per la diffusione del COVID-19, di cui i detenuti hanno avuto notizia esclusivamente tramite le televisioni presenti negli istituti penitenziari, ha scatenato una psicosi carceraria e i primi casi di detenuti affetti dal virus non hanno fatto scemare l’ondata di ribellione nelle settimane successive. Le rivolte sono l’emblema della disperazione di persone che scontano una pena in uno stato di isolamento ancora più marcato: i detenuti, dopo le disposizioni emanate dalla Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) il 27 febbraio , si ritrovano in un ambiente chiuso al mondo esterno e senza tutele in termini di contagio. È inutile dire che la sanificazione e le norme di sicurezza preventive al virus non possano funzionare in un contesto sovraffollato tipico delle carceri italiane. Nel corso dei tumulti si sono verificati casi di incendi, distruzione di alcune sezioni e saccheggio delle infermerie; 6
altre modalità di protesta impiegate vanno dal far rumore contro le sbarre colpendole con degli oggetti, come nel caso del carcere di Torino, all’evasione di una quarantina di detenuti dal carcere di Foggia. Anche nei casi più lampanti la protesta era tuttavia confusionaria, nonostante la forte politicizzazione delle rivendicazioni: miglioramenti delle strutture, delle misure preventive e alternative, e in parte la richiesta di amnistia e di indulto. Oltre agli interventi repressivi da parte degli agenti in tenuta antisommossa, nulla traspare chiaramente all’esterno riguardo alla risposta punitiva messa in atto nei penitenziari. Si tratta perlopiù di trasferimenti, anche in zone rosse di contagio, e di azioni repressive sporadiche e spesso brutali. Una testimonianza, riportata dal giornale Napoli-Monitor, di un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, denuncia percosse, pestaggi e umiliazioni sistematiche anche nei confronti di chi non ha preso parte all’ultima ribellione pasquale. Il caso campano non è comunque l’unico ad essere stato denunciato: a tal proposito si schierano, infatti, il carcere Opera di Milano e altri istituti penitenziari, attraverso appelli lanciati sia da detenuti vittime di violenze fisiche e psicologiche, che da familiari, non sempre pienamente informati riguardo ai propri cari rinchiusi o trasferiti. La comunicazione dei fatti rimane tuttavia ambigua, malgrado realtà come Antigone, associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale, cerchino di fare chiarezza sulle attuali condizioni dei detenuti in carcere; in particolare in un momento come questo, in cui gli operatori esterni non hanno accesso alla struttura e non possono denunciare eventuali abusi di potere da parte del personale in divisa, il grado di incertezza è alto. Emblematico è il silenzio delle autorità sul numero di morti durante e conseguentemente alle rivolte mentre a trapelare sono solo i numeri riguardanti il contagio da coronavirus, ad aprile 111 detenuti e 200 poliziotti circa. Scomodo
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Ma come funziona realmente il carcere italiano? “Quando entri in carcere devi sperare di non aver né problemi né bisogno dei servizi del penitenziario”. Inizia così N. la sua intervista con Scomodo per spiegare la sua esperienza all’interno della Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino. “Il carcere funziona male ed è una m****”; N. spiega che i tempi sono dilatati: le giornate appaiono lunghissime e anche richiedere assistenza sanitaria, sostegno o accesso alle attività prevede tempi infiniti. La realtà carceraria italiana non coincide con l’immagine degli istituti penitenziari descritta dai film e dalle serie TV straniere: è ben diversa. Innanzitutto le attività scolastiche, lavorative e di sostegno, delegate ad operatori esterni, esistono realmente ma accedervi non è scontato. Pensiamo per esempio agli anni ’90: l’applicazione della legge Russo Iervolino aveva reso il carcere il vero e proprio braccio punitivo della società, con il compito di nascondere tutto ciò che non si doveva vedere tra le strade delle città: la tossicodipendenza e tutto ciò che ne deriva in primis. La diretta conseguenza fu un sovraffollamento memorabile delle strutture penitenziarie. “Nell’area dei nuovi giunti eravamo sei persone in 12mq e, una volta in sezione, eravamo in quattro o più per ogni cella. I suicidi erano tanti e infezioni ed epidemie si diffondevano velocemente” spiega R., ex detenuto proprio di quegli anni. “La faccia rieducativa del carcere neanche sapevamo quale fosse e probabilmente ne godeva una cerchia ristrettissima di detenuti”. La gestione della sanità è difficile ed entrambi gli intervistati insistono su un punto fondamentale: “a meno che tu non stia schiattando, non vieni immediatamente assistito”. Fino al 1999 la responsabilità sanitaria ricadeva principalmente sul Ministero della Giustizia: la collaborazione con il Ministero della Salute esisteva solo sulla carta e gli operatori sanitari dell’ASL e del Sert avevano un accesso limitato e insufficiente a garantire una vera e propria assistenza all’interno dei penitenziari. I tossicodipendenti, che affolavano le celle in quegli anni, erano i meno seguiti: “Se ti dichiaravi tossicodipendente venivi privato di dignità sociale, ma in compenso ti fornivano assistenza farmacologica. Ti sedavano e sballavano con il metadone, senza un supporto psicologico che determinasse le dosi corrette ”, spiega R. Il D.lgs “Riordino della medicina penitenziaria” del 1999 ha poi sancito una maggior collaborazione con l’ASL locale che si assume la responsabilità Scomodo
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delle attività sanitarie dentro e fuori la struttura, assicurando “prestazioni analoghe a quelle garantite ai cittadini liberi" [art. 1]; è il Sert ad occuparsi dei casi di tossicodipendenza, garantendo la necessaria continuità assistenziale all’interno di un’apposita sezione carceraria che N. chiama “la Scalara”. Nel tempo il Repartino, ossia lo spazio ospedaliero dedicato agli arrestati con problemi clinici negli anni ‘90, è stato poi sostituito dai reparti di Medicina Protetta che garantisce assistenza per patologie in fase acuta e interventi non possibili in carcere. Malgrado ciò, N. tende a precisare che la reale assistenza sanitaria è comunque inefficiente e il sostegno psicologico non è da meno. Ad oggi invece, le attività che scaglionano la giornata “tipo” di un recluso comprendono sia quelle didattiche che quelle di stampo lavorativo. Tendenzialmente alle attività scolastiche accedono i detenuti che ne hanno fatto richiesta al direttore e che hanno sostenuto il colloquio con gli operatori didattici; questi ultimi si impegnano il più possibile a creare dei programmi personalizzati e non precludono a nessuno l’accesso alla scuola secondaria o al polo universitario del penitenziario. Le problematiche in merito riguardano le spese per i materiali didattici, a carico dei detenuti stessi, e l’orario delle lezioni estremamente ridotto dai tempi imposti dalla struttura, per via di spostamenti e cambi turni inflessibili, tempi di apertura e chiusura delle celle. La collaborazione tra sistema penitenziario e attività interne ad esso è fondamentale per garantire l’efficienza dei servizi offerti, ma non sempre avviene nel migliore dei modi soprattutto quando comprende il personale in divisa. Le attività a stampo lavorativo permettono invece di imparare un mestiere o di avere un guadagno che può essere speso all’interno della struttura. Un ruolo chiave è lo Spesino, ossia il detenuto che si occupa di ritirare le liste della spesa per gli alimenti; nelle carceri italiane non esiste infatti una mensa vera e propria e per sfamarsi il detenuto può scegliere di cucinare ciò che compra o riceve dai parenti nella sua cella o mangiare ciò che viene servito dal carrello del penitenziario, che passa tre volte al giorno. La scelta alimentare dipende quindi dalla condizione economica individuale. Tale distinzione sottolinea come anche in una condizione di isolamento sociale gli individui vivano le medesime dinamiche della società esterna. Tuttavia le varie forme di discriminazione, a differenza di ciò che accade in altri contesti sociali, vengono superate da rapporti di reciproco rispetto tra detenuti e ciò rende possibile un vero e proprio 7
equilibrio durante tutto il tempo di reclusione. Un’ulteriore disfunzione è costituita dal fatto che la comunicazione con l’esterno spesso non è facile: N. spiega che le lettere e i pacchi a volte non arrivano e i colloqui possono essere prenotati solo dagli esterni e non dal detenuto. Tuttavia sono concessi 10 minuti di chiamata una volta a settimana e sei ore al mese di colloqui fisici, ora sostituiti con le videochiamate a causa dell’emergenza sanitaria. Ciò non risolve però le condizioni di vita di un detenuto che si trova in un reale stato di isolamento dalla società e diventa parte di una comunità compatta, composta da individui che probabilmente nella vita reale non frequenterebbe. In altre parole la socialità si riduce a mera sopravvivenza e senza delle attività che scaglionano la giornata, a parte la chiusura ed apertura delle celle, la
vita carceraria è ancora più complicata e opprimente. Possiamo dunque immaginare come lo stato di emergenza imposto dal COVID-19 abbia fortemente influito sulla vita dei detenuti portandoli a reagire in maniera violenta e disperata.
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di Samanta Zisa Il sovraffollamento ormai patologico delle carceri e gli alti livelli di recidiva dei detenuti ci impongono di ripensare il nostro sistema penitenziario; la rieducazione del reo é la strada da seguire, in tal senso la cittadinanza attiva può giocare un ruolo fondamentale. Le differenti sfumature del concetto di pena Quando generalmente si fa riferimento al reo,
Ne vale la pena ossia a chi commette un illecito penale, si utilizza nel volgo comune l'espressione di “carcerato”, facendo riferimento implicitamente al concetto per cui l’unica condizione possibile del reo possa essere quella di stare in carcere. Bisogna considerare, tuttavia, che il concetto di pena, così considerata dalla giurisprudenza ma prima di tutto dalla teoria generale della pena, andrebbe assimilata e capita secondo significati riconducibili a più alternative di condanna. Due accezioni principali ed affermate nel tempo hanno improntato il concetto di pena nel diritto penale moderno: l'accezione di pena retributiva e quella di pena preventiva. La prima avrebbe banalmente la funzione di retribuire la collettività del male sociale arrecato, mentre la seconda, come suggerisce già il nome, di prevenire la futura commissione del danno stesso, evitando così qualsiasi recidività, sia nella collettività che nel singolo. Entrambe le funzioni, seppur in misura diversa, sono state considerate ed 8
applicate alla normativa della pena, ed in più occasioni la giurisprudenza stessa ha evidenziato come ai fini della rieducazione sancita dal comma terzo all’art 27 della Costituzione, questa debba avere una funzione globalmente polivalente, essendo necessaria per la sua applicazione che il condannato, partendo dalla percezione di giusta entità della condanna da espiare, venga messo in una condizione psicologica che lo dissuada da un'eventuale recidiva. L'emotività come pendolo normativo La differente misura di approccio a questi principi si è differentemente articolata negli anni. Dopo l'iniziale periodo del dopoguerra, nei primi anni della costituzione attuale, vigeva nel sentire comune e nelle misure normative una prevalenza di un concetto di pena retributiva, con le carceri che dopo uno dei periodi più violenti della storia italiana avevano iniziato a riempirsi drammaticamente a causa di un tasso di criminalità elevatissimo, oltre che di misure particolarmente restrittive per i rei di guerra, il tutto in un contesto generale che ancora sentiva gli strascichi del conflitto mondiale e necessitava di voltare una Scomodo
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sanguinosa pagina. Negli anni 60' si ebbe un'inversione di tendenza: cominciavano le prime mobilitazioni sociali per i diritti umani, con particolare attenzione pure ad alcune categorie fragili e marginali. Complici le politiche di promozione di diritti umanitari sia da parte di organizzazioni internazionali (ONU) che comunitarie (CEDU), in Italia si ebbe un importante passo in avanti con l'emanazione nel 1975 di una legge, la n.354, dotata di un carattere estremamente innovativo pure per il panorama internazionale, sia per le aspirazioni di cui si faceva portavoce che per le misure che introduceva; il legislatore rivoluzionava il concetto di pena nella sua esecuzione con l'introduzione di due misure, piuttosto moderne se si pensa che ancora oggi sono applicate, che abbandonavano l'idea di pena carcerocentrica: si trattava dell'affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà. La legge introdusse anche il concetto di libertà anticipata, che sull'idea della pena come mezzo per la rieducazione e non come fine ultimo, scontava 20 giorni di detenzione ogni semestre di buona condotta. Ad ogni modo, con le due misure sopracitate veniva così configurandosi per la prima volta il concetto di misura alternativa alla detenzione carceraria, seppur per l'esercizio di entrambe era necessario il passaggio in prigionia. Nell'affidamento ai servizi sociali, dopo un attento controllo sull'idoneità del comportamento del carcerato, avviene un percorso riabilitativo mirato e revocabile nel qual caso il soggetto si dimostri incompatibile con la misura; nella semilibertà invece vengono assegnati al detenuto dei permessi di uscita temporanea dall'istituto di detenzione per permettergli di proseguire attività utili al mantenimento dei rapporti lavorativi o familiari. A contribuire allo strumentario disponibile di misure alternative e a questo intento di connessione tra la realtà esterna e quella interna al carcere, è la c.d. legge “Gozzini” del 1986 che, provando a rafforzare dei principi che facevano difficoltà ad essere applicati, introduce l'istituto dei permessi premio e dà una prima forma alla misura della detenzione domiciliare. Quest'ultima, con la legge “Simeone-Saraceni” del 98', verrà ulteriormente rafforzata con la possibilità di non fare ingresso in carcere in presenza di determinati requisiti (es: donna incinta, potestà genitoriale, età inferiore a 21 anni) e in presenza di reati non superiori a 4 anni. Di fronte ad una normativa così innovativa tuttavia, notevoli sono le contraddizioni che non hanno reso applicabile il sistema rieducativo auspicato dalla legge del 75’, oltre che le erronee politiche di breve termine che l'hanno accompagnata. Subito dopo la Scomodo
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sua emanazione, grandi periodi di incertezza sociale e dell'opinione pubblica hanno fatto sì che il percorso per una riforma rieducativa sistematica di lungo termine venisse continuamente interrotto da scie di carcerocentrismo e da un sistema penitenziario incentrato sulla custodia, sulla messa in “sicurezza” tra le mura delle carceri; è questo il caso per esempio delle leggi del 77', che nel periodo del terrorismo degli anni di piombo istituirono il carcere di massima sicurezza con l'aumento degli agenti di custodia, o il caso delle leggi dei primi anni 90', dove nel periodo in cui la criminalità organizzata era venuta alla luce del sole si erano istituite misure speciali per i reati di mafia, il famoso 41bis. Tutte queste misure pendolari, insieme a strumenti inidonei per l'attuazione concreta delle misure alternative, avevano fatto sì che le carceri continuassero a riempirsi, con conseguenti e frenetiche reazioni statali di breve termine che portarono a politiche di clemenza piuttosto fragili strutturalmente. Amnistie ed indulti si sono susseguiti sin dagli anni 60, con risultati che molto spesso hanno portato a livelli di sovraffollamento solo momentaneamente bassi, in carceri che in pochi anni hanno visto il sopraggiungere non solo di nuovi ingressi, ma anche di molti tra i detenuti appena liberati, evidentemente non inseriti in alcun processo di reinserimento, dimostrando una mancanza di prospettiva con provvedimenti improntati soltanto ad arginare un problema molto più ampio. Significativo è l’episodio del maxi indulto del 2006, l’ultimo ed il più recente, che aveva previsto uno sconto di pena per tutti quei reati che avevano un residuo di condanna di tre anni e, per le pene pecuniarie, fino ad un valore di 10mila euro, per un totale di scarcerazioni che contava circa 26.000 detenuti. Il provvedimento prevedeva inoltre che chi dei detenuti fosse recidivo avrebbe dovuto scontare oltre alla pena sopraggiunta anche quella condonata. Tutto ciò, da un lato portò a un tasso di recidiva più basso rispetto alle aspettative, specialmente per i reati più gravi (nel 2007 circa l’11% per gli scarcerati ed il 6% per i soggetti in misura alternativa) e dall’altro tuttavia, quattro 9
anni dopo nel 2010, registrò un aumento dei carcerati che oltre ai 26 mila rilasciati quattro anni prima ne contava circa 4000 aggiuntivi, dimostrando di fatto l’inconsistenza del provvedimento nel lungo termine. In quegli anni la situazione versava in un totale stato di drammaticità, arrivando a porre detenuti nelle condizioni di scontare la pena in poco più di due metri e mezzo di spazio, una situazione disumana e giunta al suo culmine con la condanna rivolta all'Italia ed operata nel 2013 dalla sentenza della corte europea per i diritti dell'uomo: la c.d. Sentenza Torreggiani imporrà all'Italia di arginare la situazione carceri, considerata dalla corte stessa al di là dei limiti del trattamento umano dei detenuti. Ciò causerà di lì a poco ad una serie di misure emergenziali che, con una generale tendenza allo svuotamento carceri, porteranno nel 2015 alcuni tassi indicativi riguardo ai numeri di suicidi, colpevoli per reati inferiori ad un anno (da 8,8% a 5,3% dei detenuti), lavoratori (da 20% a 27%) ed iscritti ad un corso di studio (da 23,1% a 34,8%) come riportati dall'associazione Antigone nel XIII rapporto sulle condizioni di detenzione. Livelli, rispetto al 2010, notevolmente positivi, che così configurano momentaneamente una situazione di un carcere che somigli a quello che potrebbe essere. Il cane che si morde la coda la sentenza "Torreggiani" del 2013 ha costituito sicuramente uno spartiacque per il nostro sistema penitenziario, l'eccessivo carcerocentrismo è stato attenuato dalla promozione delle misure alternative alla detenzione che hanno permesso a migliaia di detenuti di scontare la pena fuori dalle carceri, partecipando inoltre a percorsi di risocializzazione più efficaci di quelli svolti negli istituti penitenziari. Non dobbiamo però illuderci che la soluzione al sovraffollamento sia la semplice esecuzione penale esterna, poiché questa riesce a sortire i suoi effetti solo quando adeguatamente finanziata, potendo così lavorare sul reinserimento del de10
tenuto ed evitare comportamenti recidivi che determinerebbero un inevitabile ritorno in carcere. Le statistiche ci dicono, infatti, che solo il 17% dei detenuti che hanno seguito percorsi di risocializzazione commette nuovi reati, mentre chi non viene inserito in tali percorsi, dentro o fuori dal carcere, nel 70% è recidivo. L'approccio securitario della nostra cultura penitenziaria ci porta a pensare che la società è sicura se il soggetto che ha commesso un reato è chiuso in carcere, dimenticandoci che, tranne che in pochi casi, questi torneranno nella società civile. Reintegrare il reo nella società non significa solo ottemperare ad un dovere costituzionale e civile ma soprattutto significa concedere realmente una seconda opportunità al detenuto e garantire realmente la sicurezza della società. La prevalenza dell'approccio securitario su quello rieducativo emerge chiaramente analizzando la spesa del sistema penitenziario; dai dati del Ministero della Giustizia notiamo che per ogni detenuto vengono spesi in media 138 euro al giorno, di cui 98 euro sono spesi per il personale di sicurezza mentre solo 20 centesimi vengono spesi per attività rieducative come i percorsi scolastici, lavorativi e terapeutici. Il risultato è la presenza di un agente di sicurezza ogni 1,9 detenuti e di un educatore ogni 94 detenuti. Il problema del sovraffollamento, oltre ai necessari investimenti nella rieducazione, deve essere però affrontato a monte, cambiando la nostra concezione di pena; basti pensare che un detenuto su tre si trova in carcere per reati connessi allo spaccio. Il carcere per questo tipo di reati rischia di favorire la recidiva a causa dell'ambiente criminoso a cui il detenuto viene esposto. La costruzione di percorsi personalizzati di recupero all'esterno del carcere in ambienti più risocializzanti, rappresenterebbe al contrario un investimento per il sistema in termini di riduzione del sovraffollamento e della successiva recidiva. L'incentivo alle misure alternative alla detenzione che vi è stato negli ultimi anni, con un aumento dei soggetti beneficiari, ha determinato solo un mezzo passo in avanti, in quanto gli investimenti irrisori nella rieducazione frenano la vocazione risocializzante e la stessa scelta del tipo di misura conferma questo orientamento negativo; delle tre misure previste in alternativa al carcere: messa alla prova, semilibertà e detenzione domiciliare, si tende a favorire molto quest'ultima in quanto presenta bassi costi per il sistema anche se allo stesso tempo è la misura che, proprio per la Scomodo
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sua natura detentiva, presenta il minor contenuto risocializzante.Al contrario la messa alla prova e la semilibertà prevedono la costruzione ad hoc di programmi di risocializzazione che offrono al beneficiario l'opportunità di agire nella società, di lavorare e di seguire programmi terapeutici. Al riguardo Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, ha risposto a qualche nostra domanda: Parlando di misure alternative, il ricorso alla detenzione domiciliare sembra determinato da una maggiore economicità dell'istituto piuttosto che da un fine educativo. È d'accordo? Sì, sono d'accordo. Le misure sono tre: gradualmente la più larga è l'affidamento in prova, vivi da libero, ma con un programma di studio e lavoro concordato anche con il magistrato e svolto in modo molto serio e con un certo controllo, a volte rivolto anche a programmi terapeutici per dipendenze. Poi c'è la semilibertà e la detenzione domiciliare, che è la più restrittiva e più vuota di contenuti, ma che costa meno, non avendo programmi, educatori o assistenti sociali. È anche la più semplice da mettere in pratica, non dovendo trovare percorsi di reinserimento o di lavoro. Semplicemente metti la persona a casa e te la scordi lì. Purtroppo è anche quella su cui tendenzialmente si punta, anche in situazioni di emergenza. Tu pensa che fino al 2010 (anno dell'emergenza penitenziaria) la somma delle tre misure alternative e il numero di soggetti in detenzione salgono di pari passo, non è che aumentando le misure alternative si sia diminuita la popolazione carceraria, semplicemente si è aggiunto un altro strumento per allargare il controllo penale. Dal 2010, con il decreto Alfano, scende il carcere e salgono le misure alternative, ma fondamentalmente sale la detenzione domiciliare, quindi la misura più vuota, solo contenitiva. La detenzione domiciliare rispetto alle altre misure alternative crea un'esclusione sociale maggiore, di fatto penalizzando i meno abbienti? Se si tratta di penalizzare chi non ha un domicilio, questa in realtà serve anche per l'affidamento in prova, così come una rete di sostegno serve anche per la semilibertà. Certo però che per accedere a queste misure serve dimostrare di avere una casa e un campo rom non è considerato tale dal magistrato di sorveglianza. Scomodo
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Come vengono seguiti i condannati in detenzione domiciliare? Non vengono seguiti, di loro è incaricata la polizia e passa solo sporadicamente per controllare che non siano assenti. Al massimo può succedere che un volontario che già seguiva la persona in carcere si faccia poi autorizzare per fare visita, ma è rimesso all'iniziativa del singolo. La rieducazione è sicuramente un'attività onerosa per il sistema penitenziario, la sua completa implementazione necessiterebbe di numerosi interventi alle strutture carcerarie e sul personale penitenziario non sostenibili dagli attuali fondi stanziati annualmente che si aggirano attorno ai 2.7 miliardi, in decrescita rispetto ai 3 miliardi del 2007. In assenza di adeguati investimenti, una riforma del sistema penitenziario può e deve nascere da un rinnovata concezione culturale e sociale della pena. Incrementando i rapporti di collaborazione con tutte le risorse del territorio, che possono dare un contributo concreto e specifico alla creazione di condizioni più favorevoli al reinserimento sociale, si ridurrebbero i costi necessari alla rieducazione, favorendo allo stesso tempo quel concetto di rete sociale che è il vero sinonimo di sicurezza.
di Andrea Calà e Ettore Iorio
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I rapporti tra operatori e detenuti sono un aspetto tanto importante quanto delicato, e allo stato attuale le criticità sono diverse, tra una signifi11
Il personale nelle carceri italiane cativa carenza di organico e di politiche securitarie e una generale mancanza di risorse. Numeri e politiche del personale carcerario Uno degli elementi determinanti dell’esperienza carceraria è inevitabilmente il rapporto con il personale, che rappresenta l’istituzione più vicina ai carcerati dopo la sentenza. Abbiamo intervistato a riguardo Susanna Marietti, la coordinatrice nazionale di Antigone. Durante il colloquio, la prima criticità emersa è l’aleatorietà delle esperienze carcerarie: “Lo Stato non si è mai speso per una strategia unitaria, è un tema che da sempre è dimenticato, se ne parla solo quando ci sono grandi fatti di cronaca, poi uno se ne dimentica. Come la polvere sotto al tappeto, ci leviamo di mezzo tutte quelle persone e quelle devianze verso cui non c'è attenzione mediatica. Non c'è attività centralizzata." La coordinatrice evidenzia come, nel mondo penitenziario, tutto sia demandato sempre più alla periferia: "dal ministero ai provveditorati e dai provveditorati al direttore. Quest’ultimo è una sorta di dio sceso in terra, determina se il carcere è chiuso o aperto. Questa disparità è tutto fuorché conforme all' articolo 3 della Costituzione. Addirittura a volte dipende dal singolo operatore che tipo di galera uno si può fare, e questo è veramente triste. Ogni carcere è un mondo a sé, anche a seconda del tribunale di sorveglianza: alcuni magistrati concedono le misure alternative più facilmente." Un altro aspetto problematico riguarda i numeri del personale: dal rapporto sulle condizioni di detenzione, pubblicato dall’associazione Antigone nel 2019, si riscontra una significativa 12
carenza di personale, in particolare di quello civile. Infatti gli operatori in divisa, pur essendo anche loro sotto organico, sono comunque presenti in maggior numero rispetto alla media europea. I dati variano sensibilmente tra i vari istituti penitenziari, ma mediamente si ha un rapporto tra detenuti e poliziotti di 1,9, a fronte di una media europea di 2,6. Ciò vuol dire che si ha quasi un agente ogni due detenuti. Per quanto riguarda gli operatori civili, il rapporto sale a uno a fronte di 92 detenuti, per i funzionari giuridico-pedagogici, comunemente detti educatori, e di uno a fronte di 122 per i mediatori culturali, figure di supporto per i detenuti stranieri. Anche i direttori scarseggiano: il 49% di questi è impegnato su più di un istituto, con una conseguente impossibilità di far fronte alle esigenze specifiche dei singoli carceri. Commentando i dati, Susanna Marietti ci ha riferito che: “Molti di quelli che fanno formalmente parte dell'organico in divisa non sono presenti in carcere, ma lavorano in ufficio o nel Ministero oppure per l'esecuzione esterna”. Quando poi le chiediamo qual è il il ruolo dei sindacati di polizia in questa vicenda risponde che: "Il fatto di trovarsi sempre sotto organico è sempre stata una storica rivendicazione dei sindacati di polizia penitenziaria, che hanno un grosso potere nelle dinamiche del carcere. Questa è una cosa che noi denunciamo da lungo tempo. Purtroppo è così da tantissimo, sono trent’anni che mi occupo di carcere e ho sempre sentito del dramma degli educatori e della sproporzione degli agenti di polizia penitenziaria. Non c'è dubbio che le cose non siano cambiate anche per delle rivendicazioni dei sindacati di polizia penitenziaria, però non credo sia loro la responsabilità della composizione degli organici, quella è venuta molto prima. Poi dipende chiaramente da come vuoi intendere la custodia -prosegue la Marietti- se vuoi un agente a guardia di ogni palo sarai sempre sotto organico. Mentre se vuoi un carcere più responScomodo
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sabilizzante, come ci ha insegnato il consiglio d'Europa, dove la custodia si fa con la conoscenza e la vicinanza ai detenuti e alle dinamiche interne di sezione, allora avrai bisogno di meno agenti e il controllo sarà anche più efficace. Serve indubbiamente più personale civile, se uno solo deve seguire 200 detenuti ci sarà sempre un problema”. Eppure la mancanza di personale civile è parzialmente sopperita dall’attività dei volontari, presenti in maggior numero rispetto ad altri operatori civili: "Altra cosa ancora è quanto è demandato al volontariato -continua la coordinatrice di Antigone- l'istituzione, un po' pachidermica, un po' con poche risorse, un po' incapace, è ben contenta di lasciare che chi ha voglia le levi le castagne dal fuoco, pure gratis’’. I volontari sono dunque una risorsa preziosa all’interno delle carceri, ma non possono essere visti come sostituti del personale interno, in quanto la funzione che esercitano è piuttosto diversa. I volontari infatti sono il principale punto di contatto tra i detenuti e la società esterna, ed è soprattutto attraverso il rapporto con essi che si gettano le basi per un futuro reinserimento in società del detenuto. La rieducazione attraverso il personale Come sottolinea Gianna Cannì, professoressa presso l’istituto Le Vallette di Torino, i detenuti hanno esigenze e capacità diverse e per questo sarebbero auspicabili dei progetti educativi e lavorativi il più personalizzati possibile, cosa molto difficile da realizzare con le risorse e il personale messi in campo allo stato attuale. Soprattutto il ruolo della rieducazione dovrebbe essere centrale, se si tiene conto che negli anni la popolazione carceraria è mutata sensibilmente da un punto di vista sociale. Negli anni 70, quando si è andato a strutturare il carcere come lo concepiamo oggi, i prigionieri erano principalmente politici e legati all’esperienza degli anni di piombo, con un livello medio di istruzione decisamente più alto della popolazione carceraria attuale. Inoltre, i detenuti erano per lo più italiani, mentre adesso uno su tre è straniero. Ad ogni modo, il sistema penitenziario continua a trascurare l’istruzione, elemento integrante della rieducazione e le politiche economiche ne sono la testimonianza. Nel 2019 solo il 7,4% dei fondi stanziati per l’amministrazione penitenziaria sono andati al personale civile, a fronte del 69% per la polizia penitenziaria, mentre solo lo 0,2% è stato alScomodo
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locato per l’istruzione, gli asili nido per i figli e le attività ricreative. Inoltre, nell’8% degli istituti non sono organizzati corsi scolastici di alcun tipo, mentre nel 35% di essi non ci sono corsi di formazione professionale. D’altra parte, dalle statistiche di Antigone emerge che il numero di persone coinvolte e interessate nello svolgere i corsi aumenta di anno in anno. L’aspetto rieducativo, fondamentalmente appannaggio degli operatori civili, è indubbiamente più delicato e complesso da mettere in atto, non solo dal punto di vista economico, ma anche per l’impegno richiesto al personale, ed è più comodo far prevalere su di esso l’aspetto contenitivo e securitario. È impossibile credere che questo modo di concepire il carcere non arrivi agli operatori, alla magistratura e ai sindacati di polizia penitenziaria. Un esempio lampante è la proposta di decreto legislativo, avanzata dall’attuale maggioranza di governo, in materia di riforma del corpo di polizia penitenziaria, e in discussione prima dell’emergenza coronavirus. La riforma renderebbe la polizia penitenziaria non più subordinata a un dirigente civile, ma attribuirebbe la gestione degli istituti a un ‘comandante di reparto’ appartenente alla polizia penitenziaria. Il direttore, nel sistema carcerario attuale, è una figura di estrema importanza, poiché esterno all’ambito trattamentale e a quello contenitivo e, in quanto tale, garante di equilibrio e imparzialità. Il suo ruolo fondamentalmente amministrativo potrebbe essere assimilato a quello di un manager d’azienda e ha ben poco a che vedere con il compito di mantenere l’ordine, proprio degli agenti di polizia. Tuttavia, il dirigente penitenziario è una figura professionale ben poco valorizzata, come quella degli altri operatori civili. Basti pensare che negli ultimi 25 anni non sono stati assunti nuovi direttori. È evidente come la riforma in questione non andrebbe soltanto ad accentuare la predominanza degli operatori in divisa rispetto al personale civile, ma renderebbe anche più 13
difficile il controllo dei primi, soprattutto nelle dinamiche di utilizzo delle armi o nella gestione dei casi di violenza sui detenuti. Il ruolo del direttore è quindi quanto mai fondamentale per gestire la polizia penitenziaria, che ha già di per sé un ampio margine d’azione, dovuto all’importanza del ruolo che riveste e alla sua prevalenza numerica. Tale riforma andrebbe a confermare, dal punto di vista normativo, l’involuzione culturale già in atto all’interno della società e degli organi dell’amministrazione penitenziaria. Secondo questa linea di pensiero, il carcere non è un punto di partenza per un reinserimento sociale, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione, ma una conclusione, un luogo statico e sterile dove si finisce
esclusivamente per essere allontanati e puniti. La situazione del personale carcerario nasconde dunque le stesse problematiche di fondo che riguardano il sistema carcerario nel suo complesso: la mancanza di un approccio unitario e centrale, una maggiore attenzione rivolta all’aspetto securitario che si riflette particolarmente sugli investimenti e sui numeri del personale. Per la costruzione di un clima più sano in carcere, per una rieducazione nuovamente centrale e più efficiente, è fondamentale potenziare il personale, in particolare quello civile, riconoscendo così la centralità dell’aspetto umano all’interno del sistema carcerario.
di Bianca Pinto
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L’EDITORIALE
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La realtà dei due mondi Durante i primi mesi di gestione emergenziale, molte delle debolezze del sistema sociale del nostro Paese sono state messe a dura prova. L’acuirsi delle problematiche di determinati comparti più sensibili – a cui cerchiamo sempre di dar voce su questo mensile – si sono imposte in tutta la loro drammaticità. Ma la possibilità di mettere a fuoco i malfunzionamenti e le contraddizioni che la pandemia sta esautorando, si declina a livello sistemico, e non settoriale, coinvolgendo gli strumenti più profondi e consolidati della politica e dell’economia mondiali. In effetti, le narrazioni che si accomodano sul terreno argomentativo di una “crisi del sistema”, negli ultimi due mesi, si sono moltiplicate, in particolare riportando in auge un’istanza che fino a questo momento sembrava, per i più, sbiadita e fuori dal coro: l’imminente tramonto del neoliberismo. L’idea per cui la pandemia condurrà all'implosione un sistema economico globale basato su sfruttamento estremo e finanza volatile è un’eventualità sostenuta dalle voci autorevoli più disparate, come il filosofo Slavoj Žižek e l’economista Thomas Piketty, così come da molti altri, tra editorialisti, giornalisti e osservatori che hanno alimentato la medesima esigenza di cambiamento radicale. È alla luce di queste considerazioni, che negli ultimi due mesi si sono consolidate in un appello sempre più ampio e
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condiviso, che la sezione di Attualità di aprile presenta due articoli speculari, esplorando – attraverso la raccolta di dati, evidenze e l’analisi del perpetuarsi di determinate strutture – la possibilità effettiva di un nuovo capitolo dell’economia mondiale. Da una parte la nascita di un nuovo Welfare State; dall’altra l’affermarsi, ancora più prepotente, di una sottomissione al capitalismo finanziario. La scelta di dedicare allo stesso tema due diversi articoli, con tesi radicalmente opposte, nasce dalla necessità di restituire appieno la complessità di un dibattito molto articolato e di garantire al lettore un quadro più chiaro e imparziale possibile. La stessa linea riflessiva si declina poi nel resto della sezione, in cui si indaga sul futuro delle politiche ambientali e sulla sopravvivenza dell’assetto istituzionale europeo: due aspetti di cui, al pari del sistema economico globale, la pandemia ha reso particolarmente evidenti i meriti e i limiti. In tutte le riflessioni sul futuro una volta superata la pandemia ritorna con prepotenza lo stesso leitmotiv. Due posizioni che puntualmente si scontrano, a prescindere dal tema specifico che si prende in considerazione. Da un lato c’è l’idea che l’emergenza sanitaria sia l’occasione per ricostruire un mondo migliore. Dall’altro c’è la convinzione che non cambierà nulla, al massimo in peggio. Ma in realtà sia la visione
secondo cui le grandi catastrofi possono fornire quelle condizioni necessarie alla costruzione di una nuova vita e di nuovi principi, sia la prospettiva che vede le catastrofi come connaturate alla dimensione umana e incapaci di avere un ruolo da spartiacque, affondano ben oltre il nostro tempo e ben più in profondità rispetto agli ambiti economici e politici. La redazione di Attualità
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Die hard o le mille vite del neoliberismo ----------------------------------------Perché, nonostante sociologi, economisti ed esperti auspichino un ritorno al Welfare State nel mondo post Covid-19, le strutture del neoliberismo non sono così facili da smantellare.
La pandemia potrebbe essere la condizione adatta alla degenerazione di dinamiche già in atto, come l’aumento del divario tra interessi finanziari ed equilibrio economico dei Paesi, tramite concentrazione nelle mani di colossi come BlackRock del potere di gestione dei fondi di governo. Ma anche di un sempre maggiore immobilismo ai vertici del potere economico, nel caso italiano, nei cda delle aziende statali e in quelli del gruppo CDP. Infine, la rapida attuazione di politiche deregolamentatorie e la riduzione di diritti sociali e servizi pubblici può passare per lo shock di ampie fette della società civile. In questo quadro, una prospettiva in cui a prevalere siano il benessere e la sicurezza sociale risulta sempre più utopistica.
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AT T UA L I TÀ
Come muore il neoliberismo
----------------------------------------Perché è probabile che la pandemia porterà ad un abbandono del sistema neoliberista e a una rinascita del Welfare State La convinzione che in questi mesi si sta diffondendo sempre di più tra studiosi e economisti è che l’epidemia di Covid-19 possa portare il tanto atteso cambiamento nel sistema economico vigente in favore dello Stato sociale. Ciò vale in particolare nelle democrazie occidentali, economicamente più affermate ma allo stesso tempo sempre meno produttive, e politicamente più sensibili nel trasformare in azioni di governo la necessità di maggiori diritti o tutele economiche. Ma per fare in modo che una nuova politica economica si imponga come la norma serve una volontà politica forte e costante. Che non è così semplice da trovare.
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I CONSIGLI DEL LIBRAIO
Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città.
LIBRERIA DONOSTIA Via Monginevro, 85/A 10141 Torino TO
“Soldato d’inverno” di Daniel Mason Editore: Neri Pozza
Il MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM
“Il testimone” di Stefano Medas Editore: Mondadori 18
Davide consiglia: Ambientato nella Prima Guerra Mondiale. Nel romanzo sono descritti pochi combattimenti, in quanto il protagonista è un giovane medico originario di una ricca famiglia che si trova catapultato in un ospedale da campo vicino al fronte nel nord dell’Ungheria e quindi ci si sofferma di più sui danni fisici e morali causati dalla guerra. Un romanzo avvincente, ricco di passione e di nozioni mediche. Marco consiglia: “In quell’ora del primo mattino, la biblioteca sembrava un gigante addormentato: La luce si diffondeva discreta sui rotoli di papiro e le stanze erano avvolte da un silenzio irreale, assoluto. Non esisteva luogo che riuscisse a impressionarmi di più. Nei suoi scaffali era custodita l’anima degli uomini più grandi. Poeti, filosofi, storici, geografi, naturalisti, scienziati: tutto ciò che l’intelletto umano aveva prodotto nel corso del tempo era lì, a portata di mano: Settecentomila volumi, la più grande biblioteca del mondo!” Questo è l'incipit del libro che l'autore, noto archeologo subacqueo e navale, ha creato per questo splendido romanzo storico. La storia riguarda Callimaco, copista presso la grande biblioteca di Alessandria d’Egitto, prima che un incendio la distruggesse. Partirà insieme al fratello Teocrito per consegnare un importante carico di volumi alle biblioteche e ai librai di Roma, nel momento del suo massimo fulgore. Prima dell’imbarco su una Liburna, un misterioso personaggio gli affida, dietro pagamento di una cifra spropositata, una custodia di cuoio perfettamente sigillata, raccomandandogli di averne la massima cura e di recapitarla personalmente al destinatario. La navigazione nel Mediterraneo, lambirà le coste dell’Asia Minore, quindi toccherà Creta, Malta e La Sicilia. Un viaggio disseminato di insidie, durante il quale incontrerà Paolo di Tarso, apostolo di Gesù che sarà il testimone. Un modo di raccontare l’inizio della religione Cristiana in una Roma antica e rilucente, al culmine del suo splendore. In questo secondo romanzo, il primo è stato Rex Juba, l'autore riesce a incantare il lettore, che appena inizia a leggere non riesce più smettere fino al termine del libro. Il suo stile nitido ci fa immergere nella storia antica e la sua dovizia di particolari ci trasporta nella navigazione antica, che conosce molto bene, perché, oltre ad aver insegnato navigazione antica all’università di Bologna e Archeologia e Storia Navale del mondo fenicio-punico all’Università di Cagliari, tiene corsi di vela con barche tradizionali. Autore eclettico ha pubblicato diversi volumi di archeologia subacquea, navale e storia della navigazione.
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CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM
“Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno” di Ella Berthoud, Susan Elderkin Editore: Sellerio
Federica, Michela e Rossella consigliano: Sarà che nei periodi difficili si è attanagliati dalla nostalgia, oppure che si tende a sfrondare dal superfluo per rivolgersi alle certezze, fatto è che l’invito alla lettura risuona come non mai. Oltre ai consueti benefici di questa secolare attività, le inglesi Ella Berthoud e Susan Elderkin pensano che i libri possano contribuire a “curare” i lettori, consolare, sostenere, aiutare, insomma, i nostri mali di vivere. In questi tempi, coloro che tra di noi non si battono con la malattia - e ai sofferenti va il nostro costante pensiero – possono trovare suggerimenti rispetto ai loro malesseri e timori tra le pagine. Tentazione al complottismo? Numero Zero di Umberto Eco; impazienza verso gli anziani? Elisabeth è scomparsa di Emma Healey; smania di partire? Cura paradossale con l’Odissea di Omero. E per lo sconforto, che ci assale? David di Anne Holm, un romanzo breve per ragazzi, un esempio di resilienza matura e tenace.
Il libraio vi augura una buona lettura Ci sostengono anche:
LIBRERIA TRA LE RIGHE
OTTIMOMASSIMO
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Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM
Via Luciano Manara, 16/17 00153 Roma RM
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LIBRERIA TRASTEVERE KOOB
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Via della Lungaretta, 90e 00185 Roma RM
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Via Lidia, 58 00179 Roma RM
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LIBRERIA DEL GOLEM
Via della villa di Lucina, 48 00145 Roma RM
LIBRI & BAR PALLOTTA Piazzale di Ponte Milvio, 21 00135 Roma RM
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IL PONTE SULLA DORA
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LIBRERIA PANTALEON Via Giuseppe Grassi, 14, 10138 Torino TO
Via Pisa, 46, 10153 Torino TO
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TEMPORITROVATO LIBRI LIBRERIA POPOLARE Corso Garibaldi, 17, 20121 Milano MI
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LIBRERIA MUSICALE GALLINI
Via Antonio Ceriani, 20, 20153 Milano MI
Via Gorani, 8, 20123 Milano MI
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Via Antonio Pollaiuolo, 5, 20159 Milano MI
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Die hard o le mille vite del neoliberismo --------------------------------------------------------------------------------------------------------
Perché, nonostante sociologi, economisti ed esperti auspichino un ritorno al Welfare State nel mondo post Covid-19, le strutture del neoliberismo non sono così facili da smantellare. L’egemonia del capitalismo finanziario La prossima crisi economica è sulla bocca di tutti, ma soprattutto su quella del Fondo Monetario Internazionale che, nel rapporto trimestrale World Economic Outlook pubblicato il 14 aprile, ha presentato senza mezzi termini quella definita dalla Capo economista dell’Fmi, Gita Gopinath, come una recessione senza precedenti. Le previsioni parlano di una contrazione al 3% del PIL mondiale per il 2020, 9000 miliardi di dollari bruciati in un anno, e un’Eurozona che pagherà un prezzo altissimo: una media del 7,5%, in cui l’Italia presenterà il risultato più critico dopo la Grecia, mentre gli Usa lasceranno il 5,9% del Pil. Lo shock peggiore dovranno affrontarlo le economie più fragili e i paesi in via di sviluppo, il Libano, il Venezuela, e Macao. Cina e India scamperanno dal segno meno ma la loro crescita frenerà ben prima del previsto. Ma le cifre brute che fanno impallidire gli economisti e i mercati finanziari di tutto il mondo, che fanno schizzare a Piazza Affari lo spread fino a oltre 260 punti base a metà marzo, che fanno litigare i leader dell’Opec+, si radicano e finiscono per reimmettersi in una dimensione che non ha niente a che vedere con il carattere esoterico della finanza e con la volatilità dei mercati, ma che si installa nell’humus elementare e non addizionato dell’economia reale. 20
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Le evidenze dei danni in Occidente sono già lampanti: sempre a metà aprile la produzione industriale americana ha registrato il calo più pesante dal 1946 e le vendite al dettaglio sono scese quasi del 9% a marzo, senza contare i 22 milioni di disoccupati registrati nella prima settimana d’aprile. L’acuirsi dell’antinomia tra le leggi che regolano il tessuto economico reale e quelle del mondo della finanza non costituisce di certo una novità in termini osservativi: nel 1976 nel saggio Un’economia in ritardo l’economista Federico Caffè denunciava il gioco spregiudicato di tipo predatorio, ben lontano dai dettami della vivacità competitiva, instillato dalla sovrastruttura finanziario-borsistica propria dei Paesi capitalisticamente avanzati. La polarizzazione tra la dimensione delle imprese, delle attività, delle merci dei servizi e dei prodotti da una parte e dei mercati finanziari dall’altra, che in linea di principio avrebbero il compito in incanalare i capitali verso le imprese ed i progetti che producono valore, è scaduta negli ultimi trent’anni in un processo di finanziarizzazione dell’economia che, come spiega Laura Ziani, comincia dagli anni Ottanta sospinto dalla deregulation. Sulla stessa linea non mancano anche le opinioni più aperte ad un’economia di mercato, lo stesso Zingales, insegnante di Imprenditoria e Finanza alla Booth School of Business dell'Università di Chicago e fautore di una rivoluzione liberale che “salvi il capitalismo dai capitalisti”, in un articolo pubblicato dal Journal of Finance nel 2015 criticava la Scomodo
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psicologia degli investitori indirizzata al breve termine e all’ottenimento immediato di una rendita che non giova in alcun modo alla società. Del resto, gli indici di finanziarizzazione, calcolati dal rapporto tra il volume della ricchezza finanziaria e le grandezze economiche che sintetizzano l’andamento del sistema economico tutto (ad esempio il PIL) risulterebbero accresciuti negli ultimi 15 anni in tutti i Paesi maggiormente sviluppati.
Anche sul piano dei negoziati internazionali la logica predatoria e a breve termine, di cui la finanziarizzazione è l’emblema, non segna alcuna battuta d'arresto, continuando a produrre ingenti danni. Con il crollo dei consumi mondiali dovuto alla pandemia, per la prima volta nella storia lunedì 20 aprile il prezzo del petrolio è precipitato negli Usa sotto zero, il crude oil con scadenza a maggio ha infatti toccato quota -37 dollari al barile. “Un’anomalia selvaggia e sovversiva dovuta all’incrocio tra gli effetti economici globali del virus, le distorsioni del capitalismo finanziario e la politica di potenza”, secondo il giornalista Alberto Negri. In effetti, la postura dei leader mondiali sui temi più scottanti della propria agenda economica, nel caso dei meeting Opec+ (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) rileva come, anche in un momento emergenziale, le grandi potenze non rinuncino ad un braccio di ferro feroce soprattutto ai danni dell’healthcare dei paesi più poveri. A seguito del primo meeting Opec+ del 6 marzo, quando la Russia aveva rifiutato il taglio della produzione, Mosca e Riad avevano inondato il mercato occidentale di petrolio facendone crollare i prezzi; e l'accordo raggiunto a metà aprile durante il secondo meeting, con un taglio di 9,7 milioni di barili al giorno, a quanto pare, non è servito a rilanciare il prezzo del greggio. Ma è per i Paesi dell’organizzazione che vivono di petrolio, Algeria, Iraq, Libia, Venezuela, Iran, che le conseguenze saranno più nefaste; in particolare
“La polarizzazione tra la dimensione delle imprese, delle attività, delle merci dei servizi e dei prodotti da una parte e dei mercati finanziari dall’altra, è scaduta negli ultimi trent’anni in un processo di finanziarizzazione dell’economiaˮ. Questa egemonia finanziaria ormai radicata non è promettente per immaginare un mutamento dell’attuale modello economico: il mondo della finanza non sembra in questo momento essere pronto per una riconversione più sostenibile dei propri investimenti, visto che la preoccupazione più acuta dei mercati finanziari di tutto il mondo non cessa di essere petrolio e gli investimenti delle banche nei combustibili fossili non accennano a diminuire (vedi rapporto Finanza Fossile di Re:Common e Greenpeace Italia).
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l’Economist, in un editoriale di fine marzo, aveva già definito la situazione del Venezuela “terrificante” e il sistema sanitario nazionale assolutamente non in grado di far fronte all’epidemia. Ma il potere del mondo della finanza non si articola solo attraverso le contrattazioni e la politica di potenza degli attori istituzionali. Il caso di BlackRock, più grande società di investimento nel mondo che gestisce un patrimonio totale di oltre 6000 miliardi di dollari, di cui un terzo in Europa, è esemplificativo di come i grandi attori privati guadagnino un ruolo sempre più rilevante nella gestione degli interessi governativi. La società di consulenza riveste in primis un ruolo primario nel dettare i megatrend mondiali e dunque il futuro degli investimenti privati. Ma la questione più importante è che negli Usa la società controlli le liquidità prestate agli Stati americani per attuare le misure di emergenza: il 24 marzo la Federal Reserve, banca centrale degli Usa, ha nominato BlackRock per gestire il suo massiccio programma di acquisto di debito societario in risposta alla crisi del Covid-19. Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, potrebbe ora essere l'uomo più potente del mondo, supervisionando non solo il nuovo fondo di liquidità aziendale della Fed (potenzialmente $ 4,5 trilioni), ma gestendo anche 27 trilioni di dollari dell'economia globale (anche prima dell'appuntamento di marzo). In una lettera del 27 marzo dal Movimento Sunrise al presidente della Federal Re-
serve, Jerome Powell, la preoccupazione è precisa: “Fornendo a BlackRock il pieno controllo di questo programma di riacquisto del debito, la Fed sta ulteriormente intrecciando i ruoli di governo e attori privati. In tal modo, rende BlackRock ancora più sistematicamente importante per il sistema finanziario".
I signori della finanza in Italia Tutte le riflessioni che profetizzano una caduta del neoliberismo non valutano la difficoltà di modificare un sistema economico in cui politica e finanza arrivano a collidere, basandosi su relazioni personali e radici culturali molto complicate da estirpare se non attraverso un'improbabile sostituzione istantanea dell’intero apparato della classe dirigente. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha di recente, metà aprile 2020, depositato le nomine per i cda di quattro aziende sulle sette presenti a controllo statale in Italia. Si tratta di Eni, Enel, Poste e Leonardo: tutte e quattro hanno visto la riconferma dei loro amministratori delegati che rimarranno in carica ancora per 3 anni. È interessante analizzare i meccanismi che portano alle nomine dei cda delle aziende a controllo statale poiché alla discussione partecipano i diversi partiti politici al governo. In particolare per la rinomina di Claudio Descalzi all'Eni vi sono state molte polemiche da parte del M5S che lamenta l'incongruenza del coinvolgimento di un amministratore delegato di un’azienda statale in vicende giudiziarie. La nomina di Descalzi, ormai al suo terzo mandato consecutivo, è stata caldeggiata invece dal PD che ha dato in compenso spazio dentro allo stesso cda per una deputata pentastellata, Lucia Calvisano. Uno sguardo di insieme sulle nomine dei quattro cda non fornisce una buona panoramica dei trend
“Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, potrebbe ora essere l'uomo più potente del mondo, gestendo 27 trilioni di dollari dell'economia globaleˮ.
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La tendenza a concedere il potere proprio di istituzioni e governi ai colossi privati, anche nel caso della gestione di misure economiche di vitale importanza per i Paesi, è evidentemente tutt’altro che a ribasso.
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che descrivono la fascia di persone che appartiene ai cda delle grandi aziende italiane: un'alta percentuale maschile, molti over 60, molti che già sono in altri cda e una generale tendenza all'immobilismo. Nel 2014 sei aziende italiane quotate in borsa su dieci non potevano dirsi indipendenti in virtù del fenomeno degli interlocking directorates: condividevano membri del loro cda con altre aziende o istituti bancari. Individui presenti in più di tre cda alla volta vengono definiti big linkers, sono loro il cuore pulsante del panorama aziendale italiano. Secondo i dati Consob la media di età di questi individui è di circa 61 anni e sono per la maggior parte uomini; sono loro che gestiscono le aziende che producono la maggior parte del PIL italiano. Nel Bel Paese il modello prevalente di organizzazione economica è proprio il capitalismo relazionale, una versione mediterranea del modello neoliberista anglosassone, che vede poste al centro delle strategie economiche le relazioni personali. I membri dei cda delle aziende oltre ad avere qualifiche tecniche hanno come prerequisito la frequentazione della stessa scuola economica elitaria e la condivisione del medesimo milieu sociale. Questo fenomeno di compenetrazione non è limitato ai legami interaziendali, ma si estende ad un preferenzialismo che coinvolge la politica, gli istituti bancari e quelli di intermediazione bancaria. Il crollo di grandi banche italiane come MedioBanca nel 2012, Scomodo
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Banca d’Etruria e Monte dei paschi di Siena che vedono palesarsi un confine quasi inesistente tra politica e finanza, sono un esempio lampante del potenziale distruttivo di queste caratteristiche del sistema finanziario italiano.
“Nel 2014 sei aziende italiane quotate in borsa su dieci non potevano dirsi indipendenti in virtù del fenomeno degli interlocking directorates.ˮ
Ad oggi, trovandoci alle porte di una recessione ancora più profonda – per previsione dei suoi effetti – della crisi del debito del 2009-2013 con il suo conseguente lascito di austerità e crisi del tessuto economico nazionale, è bene interrogarsi sugli effetti e i beneficiari delle misure di immissione di
liquidità che lo Stato metterà in atto per far ripartire l'economia. In un sistema in cui è un inner circle viziato da nepotismo e favoritismi a trovarsi ai vertici del sistema finanziario e di conseguenza a controllare le sorti delle maggiori aziende italiane diventa urgente chiedersi cosa ne sarà di chi non riuscirà ad ammortizzare altrettanto bene i costi della crisi. Se si prende in esame il cuore dell’intervento statale per tamponare l’attuale crisi economica, il cosiddetto Decreto liquidità, si nota come lo Stato "assicuri" le imprese, quindi nel caso non fossero in grado di restituire i prestiti lo farebbe lo Stato stesso, per 200 miliardi concessi attraverso SACE, una società controllata dalla Cassa dei Depositi e Prestiti, i quali copriranno circa il 70% dell'importo. Le uniche condizioni poste per queste garanzie pubbliche sono il divieto di distribuire i dividendi per 12 mesi - quindi di fatto chi possiede quote delle imprese al 31 Dicembre 2019 continuerá a possederle fino alla fine del 2020 - e l'obbligo di mantenere la localizzazione delle spese e delle attività produttive in Italia. Il Fondo di Garanzia per le Pmi garantisce invece una copertura al 100% dei prestiti che verranno dati alle aziende più piccole senza valutazione ulteriore sullo stato dell’impresa: non si andrà quindi a vedere il bilancio e la situazione creditizia delle aziende da quando è scoppiata la pandemia; infine vengono stanziati altri 200 miliardi a sostegno dell’export. 23
Tutte queste misure passano attraverso il network CdpSACE che garantirà per tutte le imprese che a fine dicembre venivano formalmente catalogate in bonis, quindi senza problemi apparenti nel restituire i prestiti alle banche dove li accendono. Il senso di questi provvedimenti era proprio quello di non consentire alle banche di approfittare della garanzia statale per trasferire il pregresso rischio insolvenza dai loro conti economici alle tasche di contribuenti. Ma la nota dolente sta nella possibilità che un'impresa non abbia assolto un debito precedente e che la banca possa comunque concedergli un nuovo prestito a garanzia statale, aggirando il problema. Lo può fare, "riscattandolo", attraverso un meccanismo poco trasparente a cui le banche in passato hanno già fatto ricorso numerose volte, utile per evitare che i prestiti precedenti alla crisi non vengano restituiti dai fondi economici bancari alle tasche dei contribuenti statali. Di fatto, come Vincenzo Imperatore raccontava nel suo libro Lo so e ho le prove nel 2014, la banca sblocca un credito di importo pari al prestito non ancora pagato dall'impresa, facendosi assicurare dall’azienda che questa accenderà un conto corrente della somma corrispondente in un’altra banca. La prima banca concederà la restante parte del prestito a garanzia statale solo nel momento in cui verrà restituito l’importo del vecchio prestito insoluto. E’ un meccanismo complicato che muove le sue ragioni dal fatto che se i pres-
titi a garanzia pubblica non venissero ripagati dalle aziende toccherebbe alle finanze pubbliche restituirli.
Osservando chi sono gli amministratori delegati di tutte queste imprese che incastrandosi compongono la rete, si può facilmente notare come siano tutte persone con una passata carriera bancaria: non solo molto ben inserite nel sistema, ma auspicabilmente anche molto affini ai meccanismi di salvaguardia dei fondi bancari che in momenti non di crisi sono i principali investitori del network. È inutile sperare che un grande shock come il Covid-19 possa portare ad un reale cambiamento delle politiche economiche se non si considera che, dato l’incancrenimento dell’élite economica e finanziaria, la recessione post pandemia colpirà molto più gravemente le pmi ai margini del sistema e le finanze pubbliche a vantaggio dei fondi bancari e delle grandi aziende.
“La recessione post pandemia colpirà molto più gravemente le Pmi ai margini del sistema e le finanze pubbliche a vantaggio dei fondi bancari e delle grandi aziendeˮ. In questo modo la banca si assicura non solo di aggravare la posizione creditizia dell’azienda presa ad esempio, rendendo più plausibile un aiuto statale nei suoi confronti in futuro, ma soprattutto di ricevere indietro i soldi che le imprese già prima della crisi avrebbero dovuto restituirle. Se tutte le misure di aiuto statale, compreso l’aumento del fondo per le imprese di 1,7 miliardi, passano attraverso il sistema bancario viene dato a questo una responsabilità etica molto importante nei confronti di tutti i contribuenti italiani.
L’eutanasia del welfare I momenti di crisi, per l’incertezza che li caratterizza, possono essere facilmente sfruttati per portare all’estremo diseguaglianze preesistenti. Questo è il cuore della teoria di Naomi Klein, giornalista americana, che ritiene la condizione traumatica creata dal Covid-19 il terreno ideale per quello che definisce “capitalismo dei disastri” all’interno della sua Shock Economy theory. Nel suo libro la Klein rileva come nella storia numerosi governi abbiano approfittato del terrore – dal caso dei desaparecidos in Argentina alle prigioni di Abu Graib in Iraq – per imporre riforme economiche iperliberiste, camuffandole in provvedimenti mirati alla risoluzione della crisi.
“Il trauma del Covid-19 è il terreno ideale per il “capitalismo dei disastri” nell’ambito della Shock Economy theory di Naomi Klein”.
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Molto indicativo è prendere in considerazione chi dirige il network Cdp-SACE, quindi il comparto pubblico che tratta con il sistema bancario per la concessione di garanzie.
Scomodo
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Alle popolazioni sotto shock vengono tolti welfare, diritti civili e assistenza economica, come nel caso del salvataggio alle banche del 2008 tramite tagli ai servizi sociali, che ha prosciugato migliaia di miliardi di dollari e portato ad anni di austerità. Un esempio di come l’occasione creata dalla pandemia venga sfruttata per l’applicazione di politiche che altrimenti sarebbero osteggiate dall’opinione pubblica, attualmente concentrata sull’emergenza, e per salvare grandi imprese a rischio (come quella aerea, del gas, del petrolio), si sta già verificando in Canada, dove un gruppo di nativi americani ha per anni ostacolato tramite azioni di disobbedienza civile la costruzione dell’oleodotto Keystone XL, il cui percorso attraverserebbe un’area incontaminata della riserva gestita dalle popolazioni indigene trasportando fino a 830 mila barili di idrocarburi. L’epidemia di Coronavirus sembra aver dato al colosso petrolifero TC Energy l’occasione adatta per iniziare i lavori, sfruttando l’impossibilità dei manifestanti di protestare. Il premier dell’Alberta ha infatti stanziato 1,5 miliardi per finanziarne la costruzione, mentre la CISA (Cybersecurity & Infrastructure Security Agency degli Stati Uniti) ha esonerato la costruzione di infrastrutture dall’obbligo della quarantena. La tendenza a soverchiare i diritti in un'ottica di profitto sfruttando l’emergenza è particolarmente evidente in regimi in cui esistono problemi pregressi con la prassi democratica e il sistema di controllo. Scomodo
Aprile 2020
Nonostante lo stato di emergenza debba essere proporzionato e temporalmente limitato alla crisi, le misure di acquisizione di dati privati, già messe in atto in Paesi come Cina, Russia e Corea del Sud per circoscrivere i contagi, non permettono alcuna supervisione sull’utilizzo delle informazioni raccolte e potrebbero apprestarsi a divenire definitive.
In questo quadro, l’informazione gioca un ruolo fondamentale nel modulare la percezione della crisi, portando popolazioni ormai allo stremo a cedere diritti e privacy per attuare misure straordinarie di controllo mirate alla sicurezza comune. Il sociologo Manuel Castellas aveva già messo in guardia alla fine degli anni Novanta di come l’informazione fosse ormai alla base del sistema socioeconomico e la possibilità di accesso alle informazioni determinasse il controllo del potere. In tale sistema di sorveglianza ubiqua, in cui i dati relativi ai comportamenti diventano bene essenziale e propulsore di sviluppo econom-
ico, ad essere sfruttata è l’esperienza umana complessiva, utilizzata come materia prima per pratiche di estrazione e vendita e per il conseguente accumulo di ricchezze da chi la possiede ed elabora, conducendo verso il capitalismo della sorveglianza, teorizzato da Shoshana Zuboff. Ma oltre alle macro-questioni, centrali nel dibattito odierno, relative al preservamento della prassi democratica e alla tutela della privacy, il problema più concreto, che rimane più defilato, riguarda soprattutto lo sfruttamento ulteriore di certe classi di lavoratori. Il modello occupazionale del capitalismo informazionale è la figura del flexible worker, forza-lavoro precaria e intermittente che attualmente potrebbe trovare piena realizzazione con lo smart working. In Italia l’area del mercato del lavoro, da sempre rigidamente regolata, ha conosciuto dalla metà degli anni 90 alla metà del 2000 un processo di profonda revisione normativa. Le modifiche introdotte nel quadro legale vennero adottate con l’obiettivo di accrescere i tassi di occupazione regolare giovanile e superare le inefficienze del mercato del lavoro, tuttavia lo fecero facilitando la possibilità di assunzione su base temporanea e introducendo accordi contrattuali atipici. In particolare, la riforma del dicembre 2001 sollevava i datori di lavoro dall'obbligo di scrivere nel contratto i motivi specifici della scelta di un accordo temporaneo, mentre la Legge Biagi del 2003, che ha completato il processo di flessibilizzazione del mercato, ha introdotto ulteriori accordi parasubordinati come i contratti a progetto. 25
L’aumento vertiginoso dei contratti temporanei in Italia a metà degli anni 1990-2000 è confermato dai dati Eurostat, che segnalano un passaggio dal 6,0% nel 1993 al 13,1% nel 2006. Secondo lo studio dello Structural Change and Economic Dynamics, sebbene queste riforme abbiano ridotto dal 2001 in poi i tempi di attesa per l’ingresso nel mondo del lavoro, a subire una drastica diminuzione sono stati anche i salari e le garanzie di stato sociale rispetto a chi aveva trovato lavoro prima delle riforme. Su un piano geopolitico macroscopico, inoltre, la gestione dell’emergenza si è spesso tradotta nell'accentramento cieco del potere, sfociando in nuove dinamiche autoritarie nel caso di Paesi in cui era già evidente una certa deriva illiberale (vedi Scomodo n.30, Niente di nuovo sul fronte orientale), come nel caso del ministro ungherese Orban che ha ottenuto pieni poteri a tempo indeterminato o del ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha abolito il controllo parlamentare sulle misure “anti-pandemia”. Il potenziamento della dimensione nazionale alimenta il conf litto tra Stati in lotta per la conquista dei mercati internazionali e consente in ultima analisi l’applicazione di politiche che devastano la sicurezza sociale. Ma questa dinamica non è ignota anche alle più rodate democrazie: la proposta statunitense di portare a zero per il resto dell'anno l'aliquota sulla payroll tax, tagliando quindi i fondi al programma di Social Security e i contributi sanitari per il Medicare, potrebbe 26
costare quasi $ 700 miliardi nel tentativo di alimentare un ritorno al consumo. Dagli Usa è stato bloccato anche il sostegno economico all’Oms, con l’accusa di aver "coperto" i ritardi e le inefficienze cinesi nella diffusione del Covid-19 nel mondo, e di eccessiva vicinanza alla Cina. A marzo, il Congresso ha inoltre approvato una legge sul Coronavirus che include 3,1 miliardi di dollari per sviluppare e produrre farmaci e vaccini.
“Il modello
occupazionale del capitalismo informazionale è la figura del flexible worker, forza-lavoro precaria e intermittente”. Le pressioni esercitate dalle compagnie farmaceutiche hanno però portato ad un indebolimento delle disposizioni che riguardavano l'accessibilità economica, misure che potrebbero essere utilizzate per controllare i prezzi o invalidare i brevetti per qualsiasi nuovo farmaco. Negli Usa quindi, privi di un programma sanitario e protezione ai lavoratori, lo shock è massimo e le grandi disparità che vengono a galla (nella sicurezza sul lavoro, la possibilità di pagare i test, l’assistenza sanitaria), così come la mancanza di beni necessari, sono il risultato di un sistema privo di regolamentazioni in cui il massimo beneficio è degli azionisti e non della società.
Oltre a rendere lampanti i limiti del sistema neoliberista, in modo più evidente nella tutela della sicurezza pubblica, l’emergenza Covid-19 mostra per molti versi anche quanto essi siano difficili da eradicare. La pandemia potrebbe essere la condizione adatta alla degenerazione di dinamiche già in atto, come l’aumento del divario tra interessi finanziari ed equilibrio economico dei Paesi, tramite concentrazione nelle mani di colossi come BlackRock del potere di gestione dei fondi di governo. Ma anche di un sempre maggiore immobilismo ai vertici del potere economico, nel caso italiano, nei cda delle aziende statali e in quelli del gruppo CDP. Infine la rapida attuazione di politiche deregolamentatorie e la riduzione di diritti sociali e servizi pubblici può passare per lo shock di ampie fette della società civile. In questo quadro, una prospettiva in cui a prevalere siano il benessere e la sicurezza sociale risulta sempre più utopistica.
di Marta Bernardi, Giulia D’Aleo e Susanna Rugghia Scomodo
Aprile 2020
Come muore il neoliberismo
-------------------------------------------------------------------------------------------------------Perché è probabile che la pandemia porterà ad un abbandono del sistema neoliberista e a una rinascita del Welfare State L’economista francese Thomas Piketty, in un articolo pubblicato il 14 aprile su Le Monde, ha ribadito la necessità di rilanciare l’“État social” nei Paesi ricchi e di velocizzare il suo sviluppo negli Stati più poveri. Il filosofo e sociologo sloveno Slavoj Žižek in un articolo su Internazionale del 21 marzo ha sostenuto la tesi della necessità di un nuovo comunismo per affrontare la crisi sanitaria. L’economista italiana Mariana Mazzucato – la quale fa anche parte del team che guida l’Italia nella fase 2 di riapertura - in un articolo sul Guardian ha criticato il ruolo di osservatore a cui l’ideale neoliberista relega i governi degli Stati in materia economica, sottolineando la necessità che questi riacquistino una posizione di primo piano per garantire una crescita sostenibile e inclusiva. Tutti questi teorici hanno più o meno da sempre mostrato posizioni critiche verso il neoliberismo e auspicato la rinascita di nuove politiche di welfare, ma la convinzione che in questi mesi si sta diffondendo sempre di più è che l’epidemia di Covid-19 possa portare il tanto atteso cambiamento nel sistema economico vigente in favore dello Stato sociale. Esistono però una serie di elementi che rendono tale prospettiva non così astrusa. Ciò vale in particolare nelle democrazie occidentali, economicamente più affermate ma allo stesso tempo sempre meno produttive, e politicamente più sensibili nel trasformare in azioni di governo la necessità di maggiori diritti o tutele economiche. Scomodo
Aprile 2020
Guasto al motore Ritornando a prima dello scoppio dell'epidemia e analizzando le principali tendenze economiche degli ultimi anni, si nota facilmente come il neoliberismo nel tempo abbia mostrato alcuni problemi intrinsecamente presenti nella sua struttura, che ne compromettono sempre di più la stabilità e l’efficienza.
La stessa conclusione si desume dai dati della World Bank, secondo cui la crescita del PIL pro capite dei paesi OECD ha subito un forte rallentamento negli ultimi quindici anni. A questo si aggiunge una crescita della capacità dell’1% più ricco della popolazione di catturare una maggiore proporzione del reddito lordo totale. Nel 2015 all’1% della popolazione degli Stati Uniti corrispondeva poco meno del 18% del reddito lordo totale generato. Trent’anni prima, nel 1985, il dato si attestava solo al 9%, come dimostra uno studio di François Bourguignon, ex capo economista della World Bank. Ciò delinea un quadro preoccupante che mette in luce da una parte le difficoltà dei settori produttivi che costituiscono la cosiddetta “economia reale”, La crisi finanziaria del 2008 ha e dall’altra le dirette conseguenze evidenziato ed esasperato tali che queste hanno sulla vita delproblemi, tanto che recente- le persone e sulla loro capacità mente anche diversi economisti di accumulare ricchezza, dando sostenitori del capitalismo han- vita a profonde disuguaglianze. no preso posizioni molto critiche nei confronti del sistema attuale. Questa situazione è la consegTra di loro c’è Martin Wolf che, uenza di una crescente capacin un articolo del Financial Times, ità di pochi individui e aziende difende il capitalismo da quella privilegiati di concentrare risorse che definisce la sua versione al- nelle proprie mani, sottraendole terata, che ha mostrato il suo lato al resto della società. All’interno peggiore negli ultimi decenni. del mercato dei beni tale procesWolf comincia la sua analisi sof- so si riflette nell’eccessivo market fermandosi, in particolare, sulla power di alcune aziende. Semstagnazione della produttività e pre più spesso, infatti, alcune sulla crescita delle disuguagli- di queste diventano monopoanze. La crescita media della li, concentrando intorno a sé produttività nelle economie svi- un’enorme quantità di capitale e luppate, infatti, è crollata nell’ul- liberandosi con estrema facilità timo decennio, come dimostra lo dalla concorrenza per conquisstesso articolo del Financial Times. tare grandi porzioni di mercato.
“La crescita media della produttività nelle economie sviluppate è crollata nell’ultimo decennio”.
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Le cinque più grandi aziende americane nel campo della tecnologia, Apple, Microsoft, Facebook, Alphabet e Amazon, sono un chiaro esempio di questo meccanismo. Da sole infatti, come riporta l’Economist, hanno un valore che corrisponde a un quinto del valore totale dello S&P 500, l’indice che contiene i titoli delle 500 società più importanti quotate a New York. La presenza di questi colossi in primo luogo danneggia seriamente la concorrenza, che è da sempre il principio su cui si basa il libero mercato, e in un senso più ampio anche il capitalismo stesso, creando inefficienze nei mercati e diminuendone la produttività. E inoltre, ha delle serie ripercussioni sul mercato del lavoro: un market power più alto, infatti, permette di pagare stipendi più bassi in relazione all’aumento dei prezzi generato dal monopolio, incidendo sul potere d’acquisto degli individui. Questi tipi di inefficienze vengono ulteriormente amplificati dallo squilibrio tra la rapida crescita del settore finanziario e la contrapposta difficoltà dei settori produttivi. Un report di luglio 2018 sulla finanziarizzazione in Europa, condotto dall’università Sciences Po, con il sostegno di un fondo dell’UE per la ricerca, mostra come questa sia aumentata negli ultimi anni. Nel periodo preso in esame infatti, cioè tra il 2000 e il 2017, il rapporto tra il totale degli asset finanziari e il PIL è cresciuto costantemente. In questo caso, lo sviluppo finanziario attira investimenti e risorse umane con la promessa di grandi profitti. Così facendo però, finisce per diventare un peso per il resto dell’economia, sottraendo risorse ai settori produttivi e contribuendo così ad accrescere il problema dell’improduttività. 28
A questo si aggiunge il fatto che un mercato finanziario iperattivo e fortemente deregolamentato è più propenso a generare bolle di mercato e a farle poi esplodere, come insegna il 2008, dal momento che vengono ricercati investimenti sempre più rischiosi.
E se tutto questo faceva già parte delle teorie di molti economisti, la pandemia lo ha reso visibile anche agli occhi dei meno attenti, dimostrando quanto un sistema profondamente diseguale possa avere conseguenze disastrose sulla sicurezza e sulla salute delle persone.
L’effetto di queste inefficienze nei mercati e della mancanza di produttività è quello di far diminuire, in modo costante, la porzione di PIL generata dal lavoro a favore di quella generata dal capitale. Si tratta di un trend che riguarda le più importanti economie avanzate, come confermato dallo studio di Bourguignon. Il risultato, di fatto, consiste in una diminuzione della capacità, per la grande maggioranza delle persone, di accumulare capitale. Sulla base di questo scenario, una costante crescita delle disuguaglianze e dell’insoddisfazione è inevitabile, e l’intero equilibrio del sistema politico-economico sembra precario. Perciò è lecito chiedersi se un sistema che ha rinnegato gli stessi principi basilari del capitalismo, come concorrenza, efficienza e mobilità sociale, possa ancora reggere in futuro.
Nella salute e nella malattia, mai uguali Nella pandemia globale da Covid-19 non tutti i gruppi sociali sono egualmente esposti al contagio, né hanno pari possibilità di accedere al trattamento sanitario. Stando alle dinamiche dell’emergenza nelle economie occidentali, il rischio è quello che le disuguaglianze di partenza possano fungere da moltiplicatore degli effetti del virus - sia sanitari che economici - tra le fasce più svantaggiate, aggravando la situazione di chi, anche prima dell’emergenza, non poteva permettersi adeguate prestazioni mediche. Ciò risulta evidente se si considera l’impatto del virus sulla società italiana. Da un punto di vista sanitario, le fasce più deboli sono le stesse che rappresentano i settori essenziali (come la filiera agricola, l’assistenza domiciliare, i trasporti di cose e persone) che sono rimasti attivi anche nelle fasi più acute dell’emergenza. Non sono pochi i casi in cui i dispositivi di protezione sono stati insufficienti o sono arrivati in ritardo, come dimostrano i numerosi reclami da parte di sindacati sparsi su tutto il territorio. Particolarmente esemplificativi sono i casi di Amazon e di alcune aziende di food delivery, documentati anche da Scomodo. La stessa disuguaglianza strutturale si riscontra sugli effetti economici del virus. La minaccia attuale è specialmente rivolta ai 24 milioni di lavoratori dei settori non essenziali, un terzo dei quali, stando ai dati ISTAT, ha visto sospese le proprie attività in base alle misure di isolamento. Scomodo
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Tra questi - rileva l’INAPP - figura un 53% di artigiani a fronte di un 33% di grandi impresari, dimostrando quindi la discrepanza esistente tra le differenti classi sociali anche sotto la pandemia. Inoltre, le misure economiche messe in piedi dal governo lasciano al di fuori dei provvedimenti assistenziali quelle stesse categorie strutturalmente svantaggiate in termini di tutele lavorative (Vedi Scomodo n.30 Socchiudere tutto). Tutto questo si riflette in maniera ampliata negli Stati Uniti per vari motivi: con un coefficiente di Gini - utilizzato per misurare la disuguaglianza dei redditi, in cui 1 è il massimo della disuguaglianza e 0 il minimo - allo 0.39, gli USA sono il Paese con le maggiori disparità economiche tra le democrazie occidentali, oltre che con un sistema sanitario notoriamente quasi del tutto privatizzato. Sono 44 milioni gli individui con una copertura sanitaria insufficiente e circa 30 milioni ad esserne completamente privi, secondo i dati della fondazione filantropica Commonwealth Fund. E le statistiche ufficiali dello United States Census Bureau dimostrano che sono gli ispanici e gli afroamericani le categorie che hanno una percentuale maggiore di individui non assicurati. I danni della pandemia rispecchiano alla perfezione tale situazione. Come ha denunciato la stazione radio WBEZ, il 70% delle morti da Coronavirus nella città di Chicago ha colpito la comunità afroamericana, nonostante questa costituisca il 29% della popolazione urbana, secondo quanto affermato dall’assessore alla Salute Allison Arwady - che ha anche sottolineato come l’aspettativa di vita degli afroamericani sia inferiore di 9 anni rispetto a quella dei bianchi. Scomodo
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In questo scenario la maggior parte dei lavoratori di quasi tutto il mondo è in regime di smart-working, un’opzione estremamente conveniente per molte aziende pubbliche e private, che però si rarefa se si procede verso le fasce di reddito più deboli. Compromesso da disparità strutturali, lo smart-working diventa tanto più difficoltoso quanto più è ristretta l’unità abitativa e numeroso il nucleo familiare, il che è, ancora una volta, direttamente legato alle condizioni socioeconomiche individuali. L’indagine condotta a marzo da InfoJobs suggeriva che, in Italia, solo il 15% degli occupati era in smart working, mentre il 13% lavorava normalmente, il 25% era in congedo retribuito e il 45% senza reddito - percentuale che sale al 50 per le donne e che è stata soltanto parzialmente assorbita grazie alle ultime misure assistenziali del governo.
L’organizzazione VOX per la ricerca sull’economia politica riporta in che misura i vari settori sono idonei a lavorare da casa da casa nel Regno Unito, quota che corrisponde a un 17% del settore primario e un 70% del settore terziario digitale. Ugualmente, le attività sono limitate al 30% per chi percepisce meno di £10.000
annuali e al 60%, invece, per chi ne guadagna più di £70.000. In America, l’Ufficio di Statistica del Lavoro riscontra che il 62% dei lavoratori flessibili fa parte del 25% di coloro che percepiscono il salario più elevato, laddove tra i lavoratori più a basso reddito gli smart workers si limitano al 9%. E’ evidente quindi come il virus abbia esasperato quelle disuguaglianze pregresse, mostrando ancor di più i lati negativi di un sistema economico che, pur di lasciare spazio ai mercati, riduce sempre di più le garanzie delle classi meno abbienti. Il domani è già oggi E’ probabile quindi che, proprio a partire dall’insofferenza generata dalle disuguaglianze rese evidenti dall’epidemia di Covid-19, nasca una nuova politica economica, non più improntata sul laissez-faire, ma su una rinnovata attenzione per lo Stato sociale. Dopotutto, l’idea che una rinascita delle politiche di welfare sarebbe stata l’inevitabile conseguenza di un neoliberismo morente circolava da tempo: la pandemia non avrebbe fatto altro che accelerare il processo. In un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Policy a gennaio di quest’anno - quando il virus non era ancora un problema - Sheri Berman, professoressa di Scienze politiche al Barnard College, sostiene la tesi che le falle del sistema neoliberista siano di nuovo visibili alla maggior parte dei cittadini delle democrazie occidentali, polarizzando una risposta politica di estrema destra o estrema sinistra. Per questo auspica la necessità di una rinascita di politiche di assistenza sociale. La conclusione dell’articolo è particolarmente profetica: “Il mondo non è minimamente vicino la situazione degli anni ‘30 e ‘40. 29
Si può solo sperare che non serva una nuova tragedia per fare in modo che le persone di ogni tendenza politica riconoscano i vantaggi di una soluzione socialdemocratica alla crisi contemporanea”. Considerando che il 10 Aprile l’FMI ha dichiarato che la pandemia creerà la peggiore depressione dal 1929 a oggi, bisogna prendere atto del fatto che il mondo è - seppur chiaramente con differenze importanti - in una condizione economica simile a quella degli anni ‘30. Un ulteriore riscontro arriva da Paul von Chamier, data specialist del centro di ricerca Center on International Cooperation e autore di un report in cui si esaminano le condizioni che creano il consenso politico per un’economia incentrata su tasse progressive e un’importante spesa pubblica. Contattato dalla redazione di Scomodo, von Chamier spiega che “La recessione causata dalla prima guerra mondiale rafforzò una grande tendenza: il ruolo sempre minore dell’agricoltura nelle economie occidentali. Questo creò un surplus di persone economicamente abbandonate nelle province e piccole città. Adesso stiamo assistendo ad un'altra grande tendenza nelle economie occidentali: la diminuzione dell’importanza dell’industria manifatturiera tradizionale. Si creeranno nuove sacche di popolazione escluse. Anche se la natura della transizione è diversa, rischi e soluzioni sono piuttosto simili”. I rischi a cui si riferisce von Chamier sono le risposte autoritarie: Nazismo, Fascismo e la dittatura Franchista sono stati i prodotti diretti o indiretti della Prima Guerra Mondiale e delle ripercussioni della Grande Depressione in Europa. Le soluzioni invece sono le politiche di welfare come il New Deal negli
Stati Uniti e le politiche economiche delle socialdemocrazie europee dopo la Seconda Guerra Mondiale - si tratta ovviamente di semplificazioni che non tengono conto della complessità e della concomitanza di numerosi fattori tipici di ogni evento storico, ma pur sempre indicative.
Sono sempre disposti a tutto pur di tornare ai soliti affari”. Tale prospettiva rimane però valida solo nel caso in cui l’emergenza sanitaria del Coronavirus duri poco tempo, cosa non affatto scontata. E inoltre, bisogna considerare il ruolo ideologico della pandemia. Per gli economisti di sinistra infatti, i risultati di un capitalismo con alti debiti e crescita stagnante - come quello che ha caratterizzato le economie occidentali degli ultimi decenni - sarebbero consistiti prima o poi in tre elementi, come spiega il giornalista Paul Mason su Aljazeera: reddito universale, pagato dagli Stati man mano che una maggiore automatizzazione riduce i lavori ben pagati; banche centrali che prestano soldi direttamente agli Stati per farli sopravvivere; grandi corporazioni di proprietà pubblica che servono a mantenere servizi vitali e che non potrebbero essere gestite in un’ottica di profitto. Di fatto tutto questo sta già succedendo, seppur in via del tutto eccezionale e temporanea, a causa della diffusione del virus nel mondo. In questo senso la pandemia è riuscita in quello che, come spiega lo studioso Mark Fisher in un passo del suo saggio Realismo Capitalista, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni politica di emancipazione: dimostrare che ciò che si è sempre reputato impossibile è, in realtà, a portata di mano. Non è detto quindi che una volta finita l’emergenza, quindi si possa tornare a quella che finora è stata considerata come la normalità senza alcun effetto permanente. Ma per fare in modo che una nuova politica economica si imponga come la norma - in un processo graduale e a lungo termine, se si esclude l’improbabile ipotesi di rivoluzioni sanguinarie - serve una volontà politica forte e costante. Che non è così semplice da trovare. Si può fare?
“Bisogna prendere atto del fatto che il mondo è in una condizione economica simile a quella degli anni ‘30”.
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La pandemia, in questo senso, ha semplicemente accelerato un processo già in atto. In un articolo scritto per la rivista accademica The Conversation, l’economista Simon Mair ipotizza quattro futuri possibili dopo l’emergenza Covid-19. I vari modelli si basano sulle combinazioni di due fattori: una risposta centralizzata o decentralizzata, e un’economia che prende come principio guida il profitto o la protezione della vita. Uno dei due risultati che implicherebbe il mantenimento di un’economia basata sul profitto è il “capitalismo statale”, inteso come il tentativo da parte degli Stati di utilizzare stimoli fiscali per far ripartire l’economia come era prima. Questo è ciò che sta avvenendo in questo momento praticamente ovunque, ed è probabilmente la speranza della maggior parte dei Capi di Stato di tutto il mondo. Lo stesso Mair, contattato dalla redazione di Scomodo, conferma questa ipotesi: “Nel breve termine, i governi si stanno adoperando per proteggere la vita. Ma penso che nella maggior parte dei casi sia fatto soltanto per proteggere i mercati sul lungo periodo.
Scomodo
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Dagli anni ‘80 in poi, i principali partiti socialdemocratici europei e americani hanno iniziato ad adottare politiche neoliberiste sempre più a viso aperto. Primi ministri di ispirazione socialdemocratica come Tony Blair e Bill Clinton durante i loro governi, hanno attuato riforme finalizzate più a incrementare i dividendi delle grandi corporations che a tutelare gli interessi dei ceti meno abbienti. Quasi canzonatoria appare l’affermazione nel 2006 fatta da Bersani, allora ministro per lo Sviluppo economico del governo Prodi, all’Economist: “Saremo più liberali di Berlusconi”. Ciò ha prodotto una crisi di molti partiti di sinistra nel panorama internazionale, i quali hanno accusato un calo vertiginoso di consensi oltre a un profondo dissesto ideologico. Dopo la crisi del 2008, però, in America e in Europa c’è stata un'inversione di tendenza: larghi strati della popolazione hanno iniziato a chiedere di abbandonare il sistema neoliberista e di limitare le politiche di austerità. Sull’onda di queste richieste sono partiti anti-sistemici come Podemos che, insieme ai partiti socialisti e di sinistra, sono riusciti almeno parzialmente ad intercettare parte di quel malessere popolare che aveva pervaso buona parte d’ Europa. Oggi, se in alcuni Paesi europei si assiste a un avanzamento delle destre nazionaliste, in altri sono al potere governi apertamente socialisti - due fenomeni che di fatto si basano sullo stesso sentimento: l’insofferenza generata dal sempre più evidente fallimento del modello neoliberista. Il governo di coalizione Podemos-Psoe, attualmente al potere in Spagna, è uno dei più a sinistra nella sua storia. In Portogallo, il governo socialScomodo
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ista in coalizione con il Partito comunista e il Bloco de Esquerda è stato fautore del “miracolo portoghese”: attraverso una serie di riforme è riuscito a riportare i salari e le pensioni ai livelli pre-crisi, ad aumentare il salario minimo e a diminuire le tasse sul lavoro. Altrettanto vale per gli Stati Uniti. Nonostante l’avversione endemica della popolazione americana a qualsiasi forma di socialismo, il programma politico di Bernie Sanders - ritiratosi dalla corsa alle primarie democratiche - rimane largamente sostenuto dalle fasce più giovani della popolazione. Secondo un sondaggio dell’agenzia Gallup infatti, il 63% dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 34 anni voterebbe per un candidato socialista. Tutte queste forze anti-sistemiche però devono fare i conti
con organismi internazionali come l’FMI o la cosiddetta Troika - formata da BCE, FMI e Commissione Europea - che in campo economico hanno un raggio d’azione decisamente ampio e sono poco influenzati dalle oscillazioni della politica. I precedenti non sono rassicuranti, come mostra l’emblematico caso
greco del 2015: il primo ministro greco Alexis Tsipras, nonostante il avesse vinto il “No” al referendum sulle politiche di austerity, si trovò costretto ad accettare il prestito da parte dell’FMI con l’annesso pacchetto di “riforme strutturali” e con le conseguenti dimissioni del ministro delle finanze Yannis Varoufakis. Un altro esempio interessante è quello di Joseph Stiglitz, Chief Economist della banca mondiale dal 1997-2000. Dopo essersi dimesso polemicamente da questo incarico, nel saggio Globalization and Its Discontents, attacca pesantemente l’FMI accusandolo di non avere una gestione né trasparente né democratica. In particolare sostiene come l’FMI imponga, ai vari Paesi, una ricetta “standardizzata”, basata su teorie economiche semplicistiche, che finiscono per aggravarne la situazione economica invece di risolverla. Inoltre, sottolinea come troppo sovente il suo operato appaia più orientato a tutelare i creditori che a risanare realmente le economie in crisi e promuovere lo sviluppo del cosiddetto terzo mondo. In uno scenario in cui questi organismi internazionali rimangono egemoni e sono tutt’altro che orientati a un cambiamento, sembra difficile valutare positivamente le possibilità che hanno i governi nazionali di percorrere strade economiche alternative. Dall’altro lato però, le prospettive di queste istituzioni non dureranno molto se continuano ad ignorare la richiesta di un cambiamento drastico che proviene da sempre più Stati.
di Nathaniel Cappennani, Niccolò Lauzi, Maia Piermattei e Francesco Paolo Savatteri 31
L’altra emergenza -------------------------------------------------------------------------------------------------------Come la pandemia cambierà il futuro dell'ecologia mondiale
Uno degli effetti più evidenti delle misure prese per contrastare la pandemia di Coronavirus è stato l’allentamento della pressione antropica sul mondo naturale. Le conseguenze di questa ritirata dell’uomo - o di “ritorno alla natura dall’esilio” nelle parole del filosofo e psicanalista Miguel Benasayag - sono state evidenti più o meno a tutti, con un miglioramento sensibile nella qualità dell’aria e dell’acqua in molte aree. Il dato empirico sul miglioramento del benessere ambientale come inversamente proporzionale all’aumento delle attività economiche umane, si accompagna in questi giorni ad un numero sempre crescente di studi scientifici sulle cause della nascita del Covid-19 e sul legame tra la malattia e fattori ambientali come l’inquinamento da particolato. Com’era lecito aspettarsi, data l’esperienza maturata con malattie simili come la Sars, la scienza sta confermando che fenomeni pandemici come il Coronavirus trovano causa nel rapporto distorto tra uomo e ambiente. Alla loro origine, infatti, risiede una cattiva gestione degli ecosistemi che, alterando il loro equilibrio naturale, sta aumentando la proliferazione di virus di origine animale come quello in circolazione in queste settimane. Se a ciò aggiungiamo l’effetto ulteriormente dannoso causato dall’inquinamento atmosferico al naturale decorso della malattia, con i primi studi che attestano tassi di mortalità più alti in aree inquinate, allora l’interrogativo deve diventare reale. 32
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Un’analisi dei rapporti tra Covid-19 e ambiente non è, a questo punto, tanto utile per poter tracciare un sistema di colpe retroattivo su chi abbia sbagliato che cosa, quanto per delineare l’urgenza di intervenire in maniera profonda e decisiva sulla nostra relazione con la natura. Solo se sapremo cogliere gli spunti che il Coronavirus sa darci per mettere in atto una riflessione più ampia sul nostro rapporto con l’ambiente, su come rimodularlo attraverso politiche ecologiche che riportino l’economia dentro l’alveo della sostenibilità ambientale, avremo intuito la direzione più giusta per i prossimi anni. Chi è causa del suo mal Come dimostra il recente studio del WWF Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi, esiste uno strettissimo legame tra le ondate di malattie infettive verificatesi nell’ultimo ventennio e l’alterazione degli ecosistemi naturali. Il crescente impatto umano sull’ambiente e sulle specie selvatiche ha indebolito, infatti, gli ecosistemi e ha favorito la rapida diffusione dei patogeni causando il passaggio della trasmissione da una modalità animale-animale ad una modalità animale-uomo. Questo tipo di trasmissione definisce la malattia in questione come “zoonosi” e ha interessato anche l’emergente virus Sars-CoV-2, responsabile dell’epidemia Covid-19 che sta oggi coinvolgendo più di 100 paesi del mondo, meritandosi così la definizione ufficiale di pandemia da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Il contagio sembra essere partito dai mercati umidi asiatici, i cosiddetti “wet markets”, dove diverse specie animali, selvatiche e non, vengono portate e ingabbiate in condizioni igieniche precarie per poi essere macellate e vendute sul posto. Scomodo
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La stretta e promiscua interazione tra gli animali in questi mercati offre maggiori opportunità per il cosiddetto spillover, ossia la trasmissione di agenti patogeni dalla specie animale all’uomo. Le cause della diffusione di questo virus però travalicano la semplice convivenza tra uomo e animale nei mercati asiatici: all’origine del salto di specie come quello attuale c’è infatti prima di tutto la deforestazione, che espone più facilmente l’uomo a nuove forme di contatto con le specie selvatiche e con i virus di cui sono portatori.
“Pertanto, le aree in cui si verifica deforestazione e in cui varie specie di animali selvatici vengono a contatto con la specie umana, sono un potenziale hotspot di diffusione di virus e malattie”. Martina Borghi si occupa di agricoltura, diritti umani e deforestazione per Greenpeace Italia. Intervistata da Scomodo circa il legame tra la crescente prossimità tra uomo e specie selvatiche e malattie infettive, ha risposto così: “La distruzione, la frammentazione e la degradazione delle foreste (ma anche di altri habitat) e il commercio legale e illegale di animali selvatici, riducono sempre di più la distanza tra esseri umani e fauna selvatica, aumentando il rischio
di trasmissione di zoonosi, cioè malattie che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo attraverso prodotti animali contaminati o particelle disperse nell’aria. Le zoonosi potenzialmente si diffondono ovunque gli animali selvatici entrino in contatto con l’uomo e gli animali domestici. Pertanto, le aree in cui si verifica deforestazione e in cui varie specie di animali selvatici – che agiscono come reservoirs – vengono a contatto con la specie umana, sono un potenziale hotspot di diffusione di virus e malattie”. Borghi aggiunge che : “le cause della pandemia di Covid–19, determinata dal Coronavirus, non sono ancora chiare, ma possiamo dire con certezza che in passato la diffusione di altre zoonosi è stata legata – almeno in parte – al nostro impatto sugli ecosistemi naturali. Si pensi, ad esempio, a malattie come il Nipah, la rabbia, la SARS, la MERS, la febbre gialla, la dengue, Ebola, Chikungunya, ma anche all’insorgenza di possibili nuovi patogeni nel futuro”. Tuttavia la distruzione della biodiversità non è stata l’unico fattore ambientale ad aver favorito la diffusione dell’epidemia Covid-19. In questi giorni la comunità scientifica ha sollevato l’ipotesi che l’inquinamento atmosferico possa aver agito tanto da vettore di trasmissione del virus quanto da fattore aggravante della pandemia. Per quanto riguarda il primo aspetto, uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima) ha indagato come il particolato fine (PM10) possa aver agito da vettore per il trasporto e la diffusione del Coronavirus. 33
Questa tesi è sostenuta da una cor- “Il recente studio di Harvard che relazione trovata tra la distribuz- correla inquinamento e diffusione ione geografica dei superamenti del Covid-19 è uno studio solido dei limiti giornalieri di PM10 che sollecita una riflessione imporconsiderati accettabili, e la diffu- tante” ha dichiarato il presidente sione del Covid-19 in zone molto dell’Istituto Superiore di Sanità, ma inquinate come la Pianura Pad- spetta ancora alla comunità scientiana. I ricercatori che si sono occu- fica l’accertamento di queste ipotesi. pati di questo studio hanno spiegato che le polveri sottili Evidenze scientifiche avrebbero potuto fungere da carrier, ovvero da vettore di hanno corroborato trasporto, per molte sostanze l’ipotesi che la mortalità contaminanti, inclusi i virus. Il Sars-CoV-2, che è grande sia incrementata qualche decimo di micrometdalla presenza ro, si sarebbe attaccato al pardi inquinamento ticolato e lo avrebbe usato come mezzo di trasmissione. atmosferico Tuttavia i dati e le fonti di queste ricerche non sono stati del tutto controllati e valutati, il “Il tema del collegamento tra pandibattito è ancora aperto e al suo demia e distruzione della biodiversità interno si trovano voci discordanti. è stato sollevato, e in modo autorevole, da diverse parti – come, ad Il secondo aspetto riguarda l’in- esempio, da Ilaria Capua, virologa quinamento come fattore aggra- di fama internazionale e da David vante: evidenze scientifiche hanno Quammen autore di Spillover, noto corroborato l’ipotesi che la mortal- bestseller sul tema pandemie, – epità del Covid-19 sia incrementata pure, al solito, la questione non è dall’elevata presenza di inquina- stata ripresa più di tanto dai media mento atmosferico. A confermare italiani né, a parte qualche lodevole il nesso è lo studio Exposure to air tentativo, ci sono stati approfondipollution and COVID-19 mortality menti”, ha commentato per Scomodo in the United States condotto da Giuseppe Onufrio, fisico con una un team internazionale dell’Uni- carriera da ricercatore, attivista e dal versità di Harvard. I ricercatori 2009 direttore di Greenpeace Italia. hanno raccolto dati in circa 3 mila contee (ricoprendo il 98% della popolazione statunitense) e hanno dimostrato che un minimo aumento (1 μg/m3) di frazione di particolato fine PM2.5 è associato ad un aumento del 15% nel tasso di mortalità da Covid-19. In zone con una bassa qualità dell’aria come la Pianura Padana e lo Hubei, la provincia di Wuhan, la quantità di polveri sottili respirate può essere molto “L’aspetto che lega la pandemia alta e l’inalazione può esacerbare all’inquinamento dell’aria ha la gravità dei sintomi dell'infezi- avuto qualche eco, anche se è staone da Covid-19, aumentando to subito coperto da polemiche il rischio di morte nei pazienti. settoriali. E si è verificato anche
un paradosso per cui il concetto di “salto di specie da animali” ha avuto una reazione, per qualche tempo, di sospetto persino per gli animali domestici. Se a questo si aggiunge la circolazione di teorie del complotto più diverse, queste “narrazioni” ambientaliste sono state abbastanza marginalizzate nel dibattito pubblico.”. Secondo Onufrio nel prossimo futuro “quello che bisognerà fare è dunque evitare la rimozione dell’evento, cosa possibile, e cercare invece di elaborarne il significato e le sue connessioni con la crisi ambientale. Certo, l’attenzione sarà prevalentemente – e ovviamente - sul sistema sanitario e la sua funzione pubblica, sui modelli regionali. E’ necessario sottolineare, più che nel passato, il tema della distruzione dell’ambiente dal punto di vista della salute pubblica”.
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“E’ necessario sottolineare il tema della distruzione dell’ambiente dal punto di vista della salute pubblica”.
“Adelante con juicio. Si puedes!” Lo scorso 6 marzo si è radunato a Vienna l'Opec+, il consesso che riunisce gli stati Opec guidati dall’Arabia Saudita e gli stati nonOpec con la Russia come capofila. La discussione riguardava un taglio alla produzione del petrolio tramite la ratifica di un accordo. Obiettivo delle trattative era l’adeguamento del settore all’imminente arrivo di una pandemia globale, ma il rifiuto da parte della Russia di diminuire le sue quote di produzione ha fatto saltare le negoziazioni. Nel giro di pochi giorni, la decisione dell’ARAMCO, la compagnia di stato petrolifera saudita, di stabilire una riduzione unilaterale del costo del suo greggio ha aggravato la situazione. Ne è seguita una lotta al ribasso tra Arabia Saudita e Russia sui prezzi di vendita, accompagnata da un calo senza precedenti della domanda mondiale ed un’offerta sovrabbondante da parte dei produttori. Aprile 2020
La profonda crisi del petrolio ha portato l’Opec+, infine, ad accordarsi nelle prime settimane di aprile su una riduzione della produzione. Il mercato è inondato di petrolio che nessuno vuole e questa situazione può servire come chiave di lettura per valutare gli assetti geopolitici sulla questione climatica e la transizione energetica verso fonti rinnovabili necessaria per arginarla. A destare preoccupazione, però, oggi ci sono le misure economiche straordinarie dichiarate dai governi nell’affrontare il dopo Covid-19, a cui nelle ultime settimane si è sommato il prezzo stracciato dei carburanti di origine fossile. Questa lotta al ribasso ha generato, come segnala il ricercatore e professore di Cooperazione Internazionale e History of Energy and the Environment dell’Università Roma Tre Giuliano Garavini, un probabile incentivo ad usare le automobili in fase di ripresa delle attività. Ciò rischia di annullare gli sforzi messi in campo in tema di mobilità sostenibile e aumentare in breve tempo il livello di inquinamento atmosferico fino a livelli maggiori a quelli precedenti alla crisi. Ad ogni modo il destino dei combustibili fossili potrebbe essere giunto ad un punto di non ritorno. Il basso prezzo di vendita del greggio, insieme all’incertezza dovuta al recente azzeramento della domanda, sta diventando un potente disincentivo a investire in esplorazione, estrazione e commercializzazione di petrolio. Tirare fuori il petrolio dal terreno sta diventando un’ attività senza margini soddisfacenti di profitto, tranne per super potenze come Arabia Saudita e Russia che dispongono di capitali di partenza considerevoli e costi di estrazione più bassi. Questo poScomodo
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trebbe portare auspicabilmente molti governi e molte imprese a intraprendere percorsi di reinvestimento in fonti energetiche più pulite. Per fare un esempio, secondo il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la Polonia ancora oggi ottiene una quota predominante della propria energia elettrica dal carbone, uno dei combustibili più inquinanti. La stessa strategia ad alto impatto climatico è portata avanti del resto in tutti i paesi dell’Est Europa, dove la costruzione di centrali a energia solare o eolica è praticamente nulla.
A questo punto però diviene utile domandarsi quanto uno spostamento di produzione verso opzioni sostenibili sia effettivamente fattibile, in che tempi e con quali costi. Per capirlo dobbiamo cominciare da uno degli accordi più importanti in tema degli ultimi anni: lo European Green Deal. Si tratta di una strategia di livello europeo, promossa dalla Commissione Europea presieduta da Ursula von der Leyen, che mette in campo accordi politici e investimenti pubblici e privati per un totale di 1000 miliardi di euro.
Obiettivo dichiarato è quello di raggiungere la carbon neutrality (emissioni zero al netto delle compensazioni ambientali) entro il 2050. Si tratta di un progetto ambizioso e che lavora anche per un’energia sostenibile, dal momento che la componente energetica è causa del 75% delle emissioni di gas serra, come riportato dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). L’idea è di potenziare la diffusione di energia rinnovabile e smettere di incentivare l’uso di combustibili fossili, rendendo così meno inquinanti i processi di produzione energetica. Purtroppo in seguito alla diffusione del Covid-19 il Green Deal rischia di finire in secondo piano, nonostante sia potenzialmente, con il suo piano di spesa pubblica e privata in settori rinnovabili, la miglior risposta ad una crisi economica. Dal punto di vista ecologico questo momento rappresenta, però, una grande possibilità di svolta. Alcune decisioni prese in questa fase potrebbero assumere carattere storico nel determinare, per la prima volta, un reale cambio di direzione rispetto ad un processo autodistruttivo che appare da anni sostanzialmente irreversibile. L’alternativa è quella di riprendere ad emettere gas serra quanto e più di prima. Sulla crescita delle rinnovabili Giuseppe Onufrio rimarca quanto il processo sia già su binari piuttosto solidi: “Non credo che avverrà nulla di strutturale a danno delle rinnovabili per tre ordini di motivi. Il primo è tecnico: buona parte degli investimenti riguardano tecnologie solari ed eoliche che producono elettricità. 35
Dunque queste competono sì con il gas fossile ma non, almeno direttamente, col petrolio. E la dinamica dei costi era e rimarrà in discesa: già lo scorso anno impianti solari di dimensione industriale (in Portogallo e ad Abu Dhabi) avevano raggiunto un costo dell’elettricità inferiore ai 17€/MWh mentre il prezzo all’ingrosso in Italia oscilla tra 50-60€. In Italia impianti che producono a un costo industriale di 25-30€/MWh ci sono già. Un secondo motivo riguarda il fatto che una spinta alle rinnovabili è tra le misure più logiche per sostenere un’occupazione qualificata in un settore strategico come quello dell’energia, specie considerando il fatto che lo sviluppo dell’elettrificazione di diversi usi energetici – come per la mobilità – è comunque una strada già segnata. Il terzo motivo riguarda la lotta al riscaldamento globale per il quale lo sviluppo delle rinnovabili è tra le misure più rilevanti. Oggi gli investimenti globali nel settore delle rinnovabili sono dell’ordine dei 260 miliardi di € all’anno. I sussidi globali degli stati alle fossili raggiungono 16-17 volte questa cifra, e le banche continuano a investire nello sviluppo delle fossili una cifra quasi 2,5 volte gli investimenti nelle rinnovabili. Sarebbe necessario invece investire il triplo nelle rinnovabili e, inoltre, la discesa del prezzo del petrolio, anche se minaccia in teoria le rinnovabili, certamente metterà in crisi gli investimenti nel settore che con un prezzo basso del greggio vedono allungarsi e di molto i ritorni economici”. 36
Ritorno al futuro L’Accordo di Parigi è finora l’unico strumento di cui l’umanità si è dotata per proteggersi dal cambiamento climatico che da decenni la comunità scientifica è concorde nell’attribuire all’uomo.
“L’umanità, per stare dentro gli impegni presi, dovrebbe cominciare a diminuire le proprie emissioni di circa il 7% ogni anno, per circa trent’anni”. Dopo una serie di lunghi negoziati, con aspre divergenze tra Paesi di antica industrializzazione ed economie in via di sviluppo, gli Stati si sono accordati su una progressiva diminuzione delle emissioni di gas serra, con l’obiettivo dichiarato di mantenere il riscaldamento entro 1.5 gradi in più rispetto all’epoca preindustriale. Al momento l’aumento della temperatura media è arrivato a circa 1 grado.
Il 2020 è una data cruciale per l’Accordo: da questo anno l’umanità, per stare dentro gli impegni presi, dovrebbe cominciare a diminuire le proprie emissioni di circa il 7% ogni anno, per circa trent’anni. Stefano Caserini è professore di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Da alcuni anni è inoltre fondatore e coordinatore del blog Climalteranti. Raggiunto dalla redazione di Scomodo, gli è stato chiesto come il Coronavirus stesse cambiando le emissioni di gas serra nel breve e nel medio periodo e che impatto possa questo avere sul clima: “Quanto le emissioni caleranno dipende fortemente dalla durata del blocco delle attività - risponde - in queste settimane le emissioni da traffico leggero si sono ridotte in media del 80-90%, anche se il dato cambia a seconda delle aree prese in considerazione e alcune aree hanno visto una riduzione minore. Le merci, ad esempio, continuano a muoversi, mentre i voli aerei si sono ridotti drasticamente. La produzione di energia non si è ridotta, così come non si è fermata la grande produzione industriale, poiché il blocco delle attività riguarda solo alcune attività produttive. Dunque al momento non possiamo calcolare la riduzione su base annua, bisogna aspettare di capire quali attività rimarranno ferme e quanto a lungo. In ogni caso per contrastare il riscaldamento globale non basta questa riduzione. Anche se si dovesse verificare un calo del 3-4 % delle emissioni al livello europeo o mondiale ciò non cambierebbe la traiettoria del riscaldamento globale. Questo si basa, infatti, su quanto è stato emesso cumulativamente negli scorsi decenni. Scomodo
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Non è sufficiente un anno di riduzione delle emissioni per ridurre le temperature.” Sugli scenari possibili per la diplomazia climatica, ossia per i negoziati internazionali volti al raggiungimento dell’Accordo di Parigi, Caserini commenta: “c’è stato in questi giorni il rinvio ad ottobre della conferenza intermedia di Bonn e la COP (Conferenza delle Parti ndr) di Glasgow è stata spostata al prossimo anno in data da destinarsi. Da un lato questo porta ad un rallentamento delle azioni di negoziato, che nel 2020 vedevano un rilancio degli impegni di riduzione dei singoli Stati (Nationally Determined Contributions o NDC) previsti nell’ambito dell’Accordo di Parigi e che quindi slitterebbero al prossimo anno, con il rallentamento che ne deriva; d’altra parte l’aspetto positivo è che, se la COP venisse spostata in primavera, potrà recepire l’esito delle elezioni statunitensi del 3 novembre 2020. Qualora la crisi del Coronavirus dovesse avere come impatto l’indebolimento e l’uscita di scena di Donald Trump, questo avrà effetti positivi sulla diplomazia climatica. Joe Biden, infatti, porta avanti una posizione ed una piattaforma di politiche simile a quella di Obama, dunque molto più avanzata di quella di Trump, e la sua vittoria alle elezioni rappresenterebbe un cambio radicale della posizione degli Stati Uniti, con riflessi da indagare sulle posizioni cinesi ed indiane. Infine, in tema di diplomazia climatica, bisognerà capire anche la determinazione della UE nell’ investire sul Green Deal europeo e che tipo di
impatto questo avrà sulla Cina: nel 2020 erano in programma una serie di incontri bilaterale UE-Cina, per discutere i rilanci dei due paesi nell’ambito dell’Accordo di Parigi.”
Ad ogni modo non si tratta di un’influenza significativa sulle emissioni. Per ridurre le emissioni come richiesto per stare nella traiettoria dell’Accordo di Parigi occorre fare delle operazioni strutturali. Bisogna rottamare il sistema energetico: cambiare radicalmente il modo con cui si produce l’energia e consumarla in modo molto più efficiente. I piccoli cambiamenti possono dare un contributo, ma non sono quindi il fattore determinante.” In uno scenario del tutto incerto come quello di questi giorni, il Coronavirus potrebbe potenzialmente rappresentare quello shock necessario per attuare un cambio di stile di vita, che più volte scienziati e movimenti ambientalisti hanno dichiarato essere indispensabile per attenuare l’impatto distruttivo sul Pianeta? “Non sono sicuro che lo shock sarà necessariamente positivo, dipenderà molto dalle risposte che riusciremo a dare. Ad esempio, la Russia ha recentemente annunciato che le sue emissioni di CO2 cresceranno fino al 2050, il che è una specie di reazione e di chiusura a riccio sui suoi asset fossili”, conclude il direttore di Greenpeace Onufrio. Solo i prossimi mesi potranno dire se il sistema sociale ed economico sceglierà un mondo con dei consumi e una mobilità ripensati, o se invece a prevalere saranno spinte di restaurazione del modello insostenibile precedente.
“La Russia ha annunciato che le sue emissioni di CO2 cresceranno fino al 2050, una specie di reazione di chiusura a riccio sui suoi asset fossili”.
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Secondo Caserini ad ogni modo il cambio di paradigma di vita di questi giorni porterà benefici ambientali solo in misura ridotta: “Dal punto di vista della mobilità, in questi mesi, abbiamo imparato che molte riunioni si possono fare in modo virtuale. Quindi può darsi che un lascito del Coronavirus sarà il maggiore utilizzo di videoconferenze, evitando così spostamenti finalizzati ad incontri e riunioni.
di Giulia Genovesi, Marina Roio e Giovanni Tucci 37
Falchi contro maiali: bestiario dell’Europa in tempo di crisi -------------------------------------------------------------------------------------------------------Come l’emergenza sanitaria sta dimostrando l’insufficienza della risposta istituzionale dell’Unione europea
Non guerre ma partite a scacchi Chiunque abbia mai giocato a scacchi, o abbia almeno visto i pezzi schierati sulla scacchiera, sa che i primi a muoversi – e a darsele di santa ragione – sono i pedoni. L’attenzione che si presta alle mosse dei pedoni è scarsa, e può capitare 38
perfino di perderne qualcuno per strada distrattamente. Quando invece entrano in campo i pezzi più pregiati, come il re e la regina, tutto diventa più lento, studiato, meno grossolano. Non ci si possono permettere rischi. Così, il premier portoghese Costa che definisce
“ripugnanti” le parole del ministro delle finanze olandese Hoekstra (e poi rincara la dose, chiedendosi se l’Olanda voglia restare nell’euro o no) è solo la manifestazione più veemente di una manche che si sta giocando, a colpi di nervi e con mosse più ponderate, su un altro campo. Scomodo
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Dove l’Italia e la Spagna rivestono i ruoli dei due pezzi principali tra i bianchi, mentre la Germania esercita la figura di unico sovrano plenipotenziario tra i neri. Ma l'Europa, in un momento come questo, deve mostrare di essere unita e non solo “una mera alleanza di egocentrici” come viene chiamata da Steffen Klusmann, giornalista dello Spiegel. In ballo, nel momento più difficile per l’Occidente dal secondo dopoguerra, c’è la sopravvivenza stessa dell’Unione europea, mai così in pericolo. Per avere un’idea più chiara dello scacchiere – e della scacchiera – in campo abbiamo parlato con Fabrizio Maronta, responsabile relazioni internazionali della rivista di geopolitica Limes. “Il grande discrimine – ci spiega – è tra paesi, come la Germania, che perseguono un modello che prevede bassa inflazione, forte competitività e una forte presenza dello stato sociale per assorbire le fluttuazioni occupazionali dovuti alla domanda estera; e paesi come l’Italia la cui competitività è basata anche sulla debolezza della moneta e su altre componenti che rendono competitivo il costo del lavoro”. Al momento della costruzione dell’architettura europea ha prevalso il primo modello, più rigido e terrorizzato da qualsiasi svalutazione della moneta o crescita galoppante dell’inflazione. Effetto anche del trauma-Weimar sulla memoria collettiva tedesca. La cartina quindi si disegna da sé: insieme alla Germania possiamo trovare Paesi Bassi, Austria, Finlandia ed Estonia, mentre sul versante opposto si schierano soprattutto i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Il nord-est contro il sud-ovest. Con la Francia a svolgere un
ruolo quasi da intermediario. Secondo Fabrizio Maronta il paese guidato da Emmanuel Macron, che pure si è espresso a più riprese nelle ultime settimane a favore una mutualizzazione del debito, “non ci sta aiutando perché ci voglia fare un favore, ma usa la debolezza dell’Italia per contrastare la Germania, per riequilibrare un rapporto che si è squilibrato molto negli ultimi anni”. Anni in cui la Germania ha esteso il proprio potere economico sfruttando una catena commerciale e produttiva che sembra ricalcare quella che era la Lega Anseatica medievale: Scandinavia, Baltico, Mitteleuropa.
Dall’altro lato, però, c’è da tener conto di una grande parte del paese, forse addirittura maggioritaria, che non vuole sobbarcarsi l’azzardo morale dei paesi del Sud. Era bastato che si iniziasse a parlare di Eurobond, ad inizio crisi, senza nessuna apertura da parte tedesca, perché la Merkel scivolasse per la prima volta al secondo posto negli indici di gradimento dietro a Markus Söder, leader della CSU (partito gemello di quello della Merkel) e più oltranzista rispetto alla cancelliera. Lo stesso discorso vale per i Paesi Bassi. Dove l’opposizione ai Coronabond è diventata una sorta di regolamento di conti interno tra il premier, Mark Rutte, e il ministro delle finanze, Wopke Hoekstra. I due sono al governo insieme, con i liberali di Rutte a giocare il ruolo di azionisti di maggioranza dell’esecutivo e i cristiano-democratici di Hoekstra pronti a scalzarli, irrigidendo le proprie posizioni e costringendo il premier a scendere a compromessi con i paesi del Sud. Ma anche le nazioni con vista sul Mediterraneo vivono problemi simili. Le scintille tra Salvini, Meloni e Conte sono ben note, e simile trattamento al proprio governo stanno riservando anche le opposizioni in Spagna. Trovare un accordo sovranazionale, con i paesi così divisi al loro interno, appare difficile. E spesso i difetti che vediamo negli altri sono ciò che più ci infastidisce di noi stessi.
“In ballo, nel momento più difficile per l’Occidente dal secondo dopoguerra, c’è la sopravvivenza stessa dell’Unione europea, mai così in pericolo”.
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Una catena che però interessa anche l’Italia e soprattutto le industrie settentrionali, fondamentali per la componentistica di un settore chiave tedesco come l’automobile. Ecco perché per la Germania è fondamentale che anche l’Italia riparta. Come attuare questa ripartenza è un tema al centro di un dibattito pubblico “molto più acceso che in Italia, dove tutti o quasi sono schierati in favore dei Coronabond”. In Germania persino il secondo partito del Paese, i Verdi, hanno apertamente sostenuto l’idea di un debito comune e aperture sono arrivate anche dal mondo industriale tedesco.
Perduti nei fondi L’aiuto che gli Stati stanno dimostrandosi l’un l’altro mandando medici, approvvigionamenti e pazienti è un inizio, ma una frase come “gli Eurobond non ci saranno finché sarò in vita”, pronunciata da Angela Merkel, alimenta la distanza tra gli Stati membri. 39
Per poter comprendere al meglio la situazione politica europea bisogna fare qualche premessa: quando fu deciso di creare una moneta unica, per tutti gli stati che volevano entrare nell’euro vennero istituiti dei parametri, così da controllare i valori dei beni. La BCE ha assunto quindi il compito di controllare l’inflazione e mantenerla sotto il 3% circa per evitare che i prezzi di uno stesso bene siano tanto diversi tra gli stati. Queste dinamiche ci aiutano a capire perché, a volte, l’Europa non può attuare delle politiche che, seppur possano sembrare sacrosante, potrebbero danneggiare l'equilibrio economico. Il quesito di partenza del discorso è quindi: perché il Meccanismo europeo di stabilità (MES) o gli Eurobond possono, o non possono, essere dei punti di svolta nella crisi che stiamo vivendo? In questi ultimi giorni stiamo assistendo ad una versione politica del tiro alla fune sulle misure necessarie per la ripresa economica: da un lato una frangia di paesi, tra cui Germania e Olanda, che prediligerebbe l’utilizzo del MES ancorato alle classiche condizionalità, dall’altro alcuni Stati tra cui l’Italia che spingono invece per l’introduzione degli Eurobond. C’è però una sostanziale differenza tra le due misure economiche: la prima consiste in un fondo, l’ex Fondo salva Stati, a cui contribuiscono tutti i membri in maniera proporzionale rispetto al peso economico (con un massimo del 27% della Germania e un minimo del 0,0731% da parte di Malta), sulla base quindi del proprio PIL. Questo Fondo salva Stati è pensato per risanare i Paesi in difficoltà economica concedendo un massimo del 2% del PIL del paese, da restituire 40
con gli interessi. In cambio viene richiesta però l’attuazione di determinate riforme che riportino l'economia nazionale sulla linea europea - il che lo rende un meccanismo invasivo che permette all’Europa di controllare le politiche degli Stati in crisi.
Gli Eurobond, invece, sono dei titoli europei che vengono emessi da un’apposita agenzia dell’UE, in modo da garantire tassi d’interesse più bassi. L’idea intrinseca agli E-bond è di condividere il debito degli stati membri, in quanto tutti fanno da garanti per tutti; se ad esempio l’Italia non fosse in grado di ripagare il debito emesso attraverso Eurobond allora tutti gli altri paesi, insieme, risarcirebbero il compratore. Nonostante gli E-bond possano sembrare un’ottima alternativa, alcuni Stati sono contrari a questo genere di politica perché dovrebbero farsi portatori di un debito non loro. Una via di mezzo è rappresentata dai Coronabond. Il meccanismo è il medesimo, ma questi ultimi rimangono circoscritti alla crisi legata al virus Covid-19 e non comprendono i debiti pregressi.
Ad ogni modo un compromesso è stato trovato, e il 10 aprile l’Eurogruppo è riuscito a trovare un accordo che permetterà di stanziare subito 540 miliardi di euro, disponibili già dal 1 giugno. Questa somma di denaro è divisa in 240 miliardi per il MES, a condizione che siano dedicati unicamente alle spese sanitarie, 200 miliardi da parte della Banca europea degli investimenti per aiutare le aziende in difficoltà e 100 miliardi dal fondo SURE contro la disoccupazione. Inoltre il 23 aprile, sotto la pressione di Italia, Francia e Spagna, il Consiglio Europeo ha gettato le basi per un fondo per la ripresa economica. Le trattative sono ancora in atto ma per ora questa sembra una delle opzioni più tangibili, anche se rimane ancora da capire con quale criterio verranno divisi e se si tratterà di grants (soldi a fondo perduto) o loans (prestiti). Possiamo però dire che tra i 240 miliardi stanziati per il MES, circa 36 spetteranno all’Italia, qualora decidesse di accedervi, senza condizioni a patto che vengano usati per la crisi sanitaria. La situazione politica, ad oggi, è un pavimento di ghiaccio sottile: riuscire a attuare politiche economiche efficaci che non danneggino la stabilità dell’Unione è complicato. Il fondo proposto dai paesi del Sud non è da meno anche se, come sembra probabile, dovesse essere finanziato con la vendita di obbligazioni comuni - Coronabond o Recovery bond. La questione della distribuzione dei fondi rimane comunque aperta. Sarà il peso del debito a far la differenza o la violenza della pandemia nei singoli Stati? In ogni caso l’Europa sta dimostrando a poco a poco di essere un'Unione, anche se, una volta finita la crisi, bisognerà vedere se ci sarà ancora un’Europa. Scomodo
Aprile 2020
C’è crisi, e crisi Abbiamo sentito il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte rimarcare a più riprese che la crisi in cui ci troviamo avrebbe le caratteristiche di uno “shock simmetrico ed esogeno”. Cosa vuol dire, e perchè lo dice? La prospettiva di una mutualizzazione a livello europeo dei debiti (non già esistenti) assunti dai singoli paesi ha infatti visto riproporsi il facile discorso secondo cui politiche di sostegno ai paesi più indebitati favorirebbero stati che adottano politiche economiche considerate irresponsabili. Per evitare tale prospettiva, sarebbe dunque necessario condizionare politiche di sostegno finanziario e fiscale a vincoli di implementazione delle famose riforme strutturali - leggasi austerity. L'argomentazione tuttavia perde in toto di forza se portata avanti in situazioni laddove il necessario indebitamento sia dovuto a cause esterne e che colpiscono allo stesso modo tutti i paesi coinvolti (come in una pandemia), da cui la stigmatizzazione da parte del Presidente del Consiglio. A prescindere poi dalla natura dell’origine della crisi: se radicata nella dimensione finanziaria - come nel 2008 o nell’economia reale, ipotesi purtroppo oggi riscontrabile a fronte di migliaia di imprese chiuse e prive di incassi ormai da almeno un mese. Vista comunque l’ostilità di parte dell’UE agli Eurobond, perché invece non rivolgersi al MES? D’altronde, si sa che il fondo contiene al suo interno già 410 miliardi di euro pronti ad essere prestati agli Stati membri del trattato internazionale che lo ha istituito. Il problema, qui, è di categoria, come ha cercato di evidenziare Yanis Varoufakis - economista ed ex ministro delle finanze greco - in dichiarazioni esternate attraverso DiEM25, la sua piattaforma politica. Scomodo
Aprile 2020
A suo modo di vedere, rivolgersi al MES ripercorrerebbe la stessa erronea direzione intrapresa dall’UE nel far fronte alla crisi finanziaria del 2008: aprire infinite linee di credito condizionato nella forma di prestiti. L’errore di valutazione - che lui definisce motivato e voluto - è quello di confondere una crisi di liquidità con una situazione di bancarotta. Per chiarire meglio, Varoufakis prende come esempio il caso di un’azienda, in condizioni economiche e di funzionamento sane, che per qualche motivo però vede interrompersi o restringersi pericolosamente i flussi di liquidità in entrata - e.g. i suoi creditori non sono in grado di restituirgli soldi che gli devono, per quel mese. In questo frangente, avrebbe senso accordare un prestito che potrà essere ripagato dall’azienda negli anni a seguire grazie al suo sano funzionamento.
Di fronte a riduzioni nella domanda di beni di consumo del 50/60%, Varoufakis sottolinea come l'evenienza probabile sia invece quella di bancarotta: dove sarebbe allora il senso nel ricevere prestiti, siano essi erogati dal MES (condizionati da processi riformatori di austerity supervisionati dalla troika) o da in-
vestitori privati - che poi mai si sognerebbero di comprare debito di paesi in condizioni simili a quelle italiane, greche o spagnole se non a tassi di interesse elevatissimi? Come e a che prezzo verrebbero poi ripagati? Varoufakis addita appunto in senso opposto - quindi virtuoso - i provvedimenti statunitensi o tedeschi, comprendenti un’iniezione di risorse finanziarie nelle loro economie in quantità pari al 6% del loro PIL nazionale e in forma non di prestiti ma di finanziamenti a fondo perduto. Attenzione poi a non cadere nell’errore di considerare di natura tecnica il problema dell’attivazione degli Eurobond. C’è chi afferma infatti che la cosiddetta no bail-out clause (art. 125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) impedirebbe ad uno stato membro di farsi carico di responsabilità - debitorie, ad esempio - di un altro stato membro e offrirgli quindi assistenza finanziaria. E tuttavia questo nei fatti già accade col MES - i fondi che contiene sono contribuzioni degli stati membri seppur a fronte di una discussa sentenza della Corte europea di Giustizia che ne ha legittimato l’istituzione in virtù di un sostegno condizionato in maniera tale da “stimolare lo Stato Membro all’attuazione di una politica di bilancio virtuosa” - leggasi ancora austerity. O ancora, come afferma in un intervento su Social Europe, Guido Montani (professore di politica economica internazionale all’Università di Pavia), col Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Oltretutto, l’Art. 3 del Trattato sull’Unione europea - dei due trattati quello che più ha toni costituzionali e di principio - afferma che l’Unione “deve promuovere la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri”. Il nodo è quindi squisitamente politico. 41
Avvoltoi in agguato “Se non riusciamo a farlo oggi, domani o dopodomani, vinceranno i populisti, in Italia, in Spagna e forse in Francia e altrove.”: con queste parole, rilasciate durante un’intervista al Financial Times, il Presidente francese Emmanuel Macron ha rivelato lo scenario che prevede per il futuro del continente europeo nel caso in cui non venga dato il via libera alla creazione di un piano di solidarietà economica fondato sugli eurobond. Probabilmente, il leader di En Marche ha voluto esagerare nelle proprie dichiarazioni per cercare di mettere sotto pressione i partner europei ancora contrari all’attivazione di questo strumento finanziario, ma lo scenario prospettato dal Presidente francese non appare per nulla utopistico: nel caso in cui ad imporsi in questo momento dovesse essere la linea tedesco/olandese, a beneficiare di questa situazione sarebbero certamente gli schieramenti sovranisti dell’Europa meridionale. L’ondata populista che ha colpito l’Europa aveva trovato un terreno estremamente fertile per proliferare proprio all’interno della parte più a sud del continente europeo: Lega e Fratelli d’Italia in Italia, Rassemblement National in Francia e VOX in Spagna si sono imposti nel corso del tempo all’interno dei loro contesti politici nazionali, mantenendo come principio cardine una dialettica fortemente scettica nei confronti delle istituzioni europee. Una vittoria della linea proposta dai paesi dell’Europa settentrionale lascerebbe ai partiti sovranisti sovreccitati una facile arma propagandistica per cavalcare il malcontento diffuso all’interno dell’opinione pubblica. Un malcontento che cresce di giorno in giorno, come ci insegna il nostro contesto nazionale: il 13 marzo, il giorno dopo le dichiarazioni di Christine Lagarde
sullo spread italiano, è nato il gruppo Facebook StopEuropa, che si pone come obiettivo facilitare l’uscita dell’Italia dall’Unione europea e la possibilità di riottenere la sovranità monetaria. Il gruppo ad oggi conta già più di un milione di membri ed è solo la maggiore manifestazione dell’insofferenza di buona parte dell’opinione pubblica italiana nei confronti dell’apparente incapacità di Bruxelles di soddisfare le richieste economiche del nostro paese.
Non è un caso che siano testimoniati molti rapporti, alcuni anche sospetti, tra i partiti sovranisti e le sopracitate superpotenze: gli esempi più famosi sono i rapporti economici comprovati tra il Cremlino e Rassemblement National in Francia, l’inchiesta in Italia che sta cercando di scovare la verità sui rapporti fra la Lega e il governo russo e il rapporto sempre più saldo tra il Movimento 5 Stelle e il governo cinese. Questa fitta rete di contatti e collegamenti non è assolutamente casuale: la Russia cerca di impedire la creazione di una superpotenza pericolosamente vicina ai suoi confini, mentre Pechino spera di evitare che i Paesi europei si uniscano in sede contrattuale, nel momento in cui ci sia bisogno di dover chiudere un accordo con la Cina, in maniera tale che sia sempre il governo di cinese a dettare legge all’interno dei meeting, sfruttando la sua totale predominanza economica su ogni singolo stato europeo. Il dibattito sugli strumenti economici per superare l’attuale crisi rischia dunque di lacerare l’Unione europea, la quale si trova ora dinanzi ad un bivio, perfettamente riassunto dalle parole del Presidente Macron nella già citata intervista al Financial Times: “l’UE si trova oggi ad affrontare un momento di verità, in cui decidere se è un progetto politico o solo un progetto di mercato”. In base alla scelta che verrà fatta all’interno delle istituzioni europee, si stabilirà anche il futuro politico ed economico dell’intero continente.
“Una situazione estremamente favorevole per le superpotenze mondiali che temono l’Unione europea e che cercano di accelerare il suo processo disgregativo, come Cina e Russia”.
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Queste grida di dissenso non sono passate inosservate dinanzi al leader della Lega, Matteo Salvini, il quale, nonostante durante il suo periodo al Ministero degli Interni avesse smesso di paventare una possibile uscita dell’Italia dall’Unione europea, il 23 Marzo, in seguito al fallimento delle trattative per i Coronabond al Consiglio Europeo, è tornato ad affermare con forza che dopo la fine dell’emergenza sarebbe il caso di valutare di abbandonare la partnership continentale. Il sovranismo, come affermato dallo stesso Macron nell’intervista, guadagna forza ogni giorno che passa e sta ritrovando il coraggio passato per cominciare nuovamente la guerra con Bruxelles: una situazione estremamente favorevole per le superpotenze mondiali che temono l’Unione europea e che cercano di accelerare il suo processo disgregativo, come Cina e Russia.
di Luca Bignariol, Juelin Dagostino, Simone Martuscelli e Luigi Simonelli Scomodo
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Parallasse
-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo Da quando ha avuto inizio il lockdown a livello nazionale, l’importanza attribuita dalla popolazione ai media d’informazione è cresciuta in modo vertiginoso: più la quarantena prosegue, più la popolazione cerca conforto all’interno delle notizie della stampa nazionale. Questo nuovo interesse ha portato alla luce molte delle problematiche che ad oggi affliggono il sistema informativo italiano, il quale sta mettendo in luce tutte le sue debolezze proprio nel momento in cui la popolazione ha maggior bisogno di un’informazione di qualità per cercare di affrontare al meglio quella che dagli esperti viene considerata la peggiore crisi economico-sanitaria vissuta dal nostro paese a partire dal secondo dopoguerra. L’epidemia di Covid-19 sta minando seriamente le fondamenta del sistema della grande editoria italiana: forse è arrivato il momento di interrogarsi se sia arrivata l’ora di cercare un nuovo modello da seguire. Per cercare di muoverci all’interno di questo dibattito, prenderemo ad esempio forse il grande editore che maggiormente sta soffrendo (non a livello economico, sia chiaro, ma a livello di credibilità) questo momento di crisi: Urbano Cairo e la sua Cairo Communication. Il Caso Cairo Urbano Cairo ha sapientemente costruito il proprio impero mediatico in tempi relativamente recenti, a partire dal 1995 con la fondazione Scomodo
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della sua Cairo Pubblicità s.r.l.: da quel momento, si è prima espanso nel mondo dell’editoria, tramite l’acquisizione nel 1999 della Giorgio Mondadori e Associati e la fondazione nel 2003 della Cairo Editore S.p.A. Il gruppo Cairo ha però raggiunto una rilevanza capitale a livello nazionale solo a partire dal decennio scorso, tramite l’acquisizione nel 2013 del canale televisivo La7 e nel 2016 dell’RCS Mediagroup, all’interno del quale sono presenti due dei più importanti quotidiani italiani, il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, rispettivamente il primo e terzo giornale per vendite mensili nel nostro paese. Sono state proprio queste due ultime acquisizioni a proiettare Cairo all’interno del gotha dell’editoria italiana, imponendosi come uno dei più importanti editori all’interno del nostro contesto nazionale. Per un lungo periodo, la gestione di questo impero da parte dell’imprenditore milanese è stata incensata da molti per la qualità dell’informazione offerta: fatta eccezione per la Gazzetta dello Sport, che come tutti i giornali sportivi si lega eccessivamente alle notizie riguardanti le squadre sportive della città in cui ha sede il quotidiano (in questo caso Milano), il palinsesto televisivo di La7 e la qualità media degli articoli presenti all’interno del Corriere della Sera si sono sempre rilevati di buon livello. Dietro questo aspetto, fondamentale è stata la capacità di mettere sotto contratto per i propri media alcuni dei volti più noti
Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.
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del panorama informativo italiano: gli esempi più importanti sono sicuramente quello di Diego Bianchi (in arte Zoro), che dal 2017 dirige su La7 il suo Propaganda Live dopo che Cairo è riuscito a strapparlo alla Rai, e Massimo Gramellini, che dopo 28 anni di carriera a La Stampa è stato assunto come vicedirettore ed editorialista presso il Corriere della Sera (anche se sull’effettiva qualità dei suoi editoriali ci sarebbe da dibattere). Queste assunzioni, oltre alla decisione di mantenere alla guida del TG La7 il direttore Enrico Mentana, seguono un preciso obiettivo economico: cercare di accontentare il maggior numero possibile di pubblico per massimizzare gli ascolti e la vendita dei quotidiani, in maniera tale da aumentare i proventi degli spazi pubblicitari gestiti dalla Cairo Pubblicità. Cairo, come ogni singolo gruppo editoriale italiano, vede nell’informazione non uno strumento fondamentale per il mantenimento del sistema democratico del nostro paese ma come un investimento dal quale ricavare costantemente profitto e tramite cui perseguire i propri interessi personali. La prova di questo atteggiamento ce l’ha data lo stesso patron del Torino, il quale il 27 Marzo ha inviato un video ai propri venditori di spazi pubblicitari per spronarli a cogliere l’attimo, presentando il Covid-19 come un’ottima opportunità per la Cairo Pubblicità a livello economico. Il motivo di questo momento positivo viene spiegato dallo stesso Cairo all’interno del video: dall’inizio del lockdown nazionale, gli ascolti di La7 sono cresciuti del 30%, mentre il traffico sul sito del Corriere della Sera è triplicato. 44
Questo enorme aumento di visibilità per entrambe le creature del gruppo editoriale di Cairo rappresenta una vera manna dal cielo per un pubblicitario, visto che gli spazi pubblicitari presenti al loro interno crescono sensibilmente di valore e divengono molto ricercate dalle aziende che ancora possono agire con libertà sul mercato (Cairo nel video fa riferimento a Segafredo e Conad).
Da come viene presentata nel video, la situazione economica del gruppo editoriale di Cairo appare florida e il Covid-19 non sembra aver influenzato negativamente le finanze del gruppo, ma pare aver avuto l’effetto contrario: lo stesso editore paragona il momento al 1996, anno di fondazione della sua azienda pubblicitaria, spiegando che come allora le possibilità di vendita risultino praticamente illimitate e invitando il suo team a non perdere tempo in riunioni (da lui considerate inutili) e di passare il maggior tempo possibile con i clienti al telefono.
Come lo stesso Cairo fa intuire all’interno del video, il suo impero mediatico appare in crescita costante, eppure questo aumento di traffico e utenza non pare corrispondere effettivamente ad un’informazione di qualità. Proprio in questa dinamica risiede il problema della grande editoria: è legittimo che un quotidiano ricerchi il profitto - altrimenti i costi di stampa e degli stipendi redazionali sarebbero ingestibili - ma se questo non viene re-investito per aumentare la qualità del prodotto, ma solo accumulato per aumentare i dividendi dei soci, allora ecco che il sistema d’informazione fallisce. Il modello Cairo è uno dei cardini di questo sistema fallimentare, vista la qualità dell’informazione offerta dai suoi media: l’esempio lampante è l’atteggiamento tenuto da Enrico Mentana nei confronti della conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte del 10 Aprile 2020, durante la quale il Premier aveva attaccato l’opposizione per aver diffuso delle fake news riguardanti l’approvazione del MES da parte dell’attuale governo. In quell’occasione, immediatamente dopo la fine della Conferenza, il direttore del TG La7 aveva duramente attaccato Conte per aver usato in maniera personalistica una conferenza stampa ufficiale a reti unificate, difendendo indirettamente l’operato dell’opposizione e venendo per questo lodato dal Leader della Lega Matteo Salvini. Dopo questo iniziale scambio e la smentita dell’ufficio stampa di Palazzo Chigi, il quale in una nota ufficiale ha dichiarato che la messa in onda della conferenza stampa non era a reti unificate e dunque era Scomodo
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stata data libera scelta alle varie emittenti sulla trasmissione della stessa, Mentana prima ha affermato di voler lasciare l’ultima parola a Palazzo Chigi, per poi nel Tg serale dedicare gli ultimi 5 minuti della trasmissione a difendersi dalle critiche ricevute e riaffermando il suo pensiero. L’atteggiamento del direttore, che in Italia rimane uno dei pochi giornalisti ad avere un’ottima reputazione presso una consistente fetta della popolazione italiana, non è piaciuto a buona parte dell’opinione pubblica del nostro paese, come dimostrato dai commenti presenti sulla sua pagina Facebook personale. Principalmente, la critica che viene mossa a Mentana è che Conte ha agito poiché l’intero sistema giornalistico del paese non è sceso immediatamente in campo per smentire la narrazione falsa creata da buona parte del Centrodestra sulla questione MES: Mentana ha cercato di rispondere a questa critica facendo fare un servizio sulla vicenda e affermando che la vicenda è ancor più complessa rispetto a quanto detto dal Premier durante la conferenza, ma questo punto è risultato particolarmente critico poiché l’analisi è arrivata ben dopo che effettivamente la polemica sollevata dalla Lega e Fratelli d’Italia crescesse a tal punto da richiedere l’intervento diretto del Governo. Questo esempio è solo uno dei molti che possono essere fatti per cercare di osservare quanto il sistema della grande editoria non sia effettivamente interessato alla qualità dell’informazione proposta, ma unicamente al suo ritorno economico. Specialmente in questo periodo, come abbiamo visto direttamente dai dati citati dallo stesso Cairo, questa strategia funziona alla perfezione o almeno ha funzionato fino a questo momento. Scomodo
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Il Covid-19 sta rimescolando gli equilibri del sistema editoriale italiano fin dalle sue fondamenta: anche all’interno delle stesse redazioni dei vari quotidiani nazionali, questa crisi sta permettendo di aprire gli occhi e di rendersi conto che questo sistema non può più essere portato avanti. I due principali giornali del RCS Mediagroup che fanno capo a Cairo ci regalano il miglior esempio di questa presa di coscienza: il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Nel primo caso, proprio nei giorni nei quali l’imprenditore milanese si vantava degli eccezionali risultati di traffico raggiunto dai propri media, la redazione del quotidiano si è lamentata ufficialmente della decisione di Cairo di procedere con la distribuzione di un dividendo del valore di 15 milioni di euro ai soci. In una nota ufficiale, il comitato redazionale ha affermato: “in questa fase 15 milioni, più che in dividendi, andrebbero spesi in investimenti per rafforzare il gruppo Rcs e il Corriere e affrontare in modo adeguato la profonda trasformazione che sta attraversando il settore dell’editoria”. Il secondo caso è invece ancora più eclatante: il comitato di redazione si è espresso in maniera decisamente critica nei confronti della decisione dell’editore di richiedere in tempi brevissimi un contributo ai dipendenti della Gazzetta pari a 1 milione e 100 mila euro, oltre che nei confronti della sua posizione di avversità nei confronti della ripresa dell’attuale campionato di Serie A, considerata dalla redazione fondamentale per l’economia generale della testata. Il testo del comitato si rivela una vera e propria presa di coscienza da parte dell’intera redazione, la quale afferma che “purtroppo le recenti decisioni del
presidente Cairo nei confronti della redazione non solo sono avvilenti sul piano umano, nel momento in cui tanti altri imprenditori si mostrano solidali con i dipendenti e si prodigano piuttosto in donazioni particolarmente importanti a favore del sistema sanitario, ma sono anche profondamente offensive nei confronti dei giornalisti della Gazzetta dello Sport.” Questi due virtuosi esempi, uniti ad un’opinione pubblica che si sta rivelando sempre più sensibile nei confronti della qualità dell’informazione offerta dal panorama informativo italiano, ci permettono di dire che questa pandemia può divenire il tassello decisivo per portare alla caduta di un sistema fallimentare come quello della grande editoria, in favore di una nuova strada che permetta al giornalismo di tornare ad essere uno strumento fondamentale per difendere il sistema democratico del nostro paese. Questa possibilità può apparire al momento utopistica, ma se il primo grande editore a mostrare dei segnali di cedimento è il proprietario del primo e terzo giornale per vendite mensili nel nostro paese, allora forse non è detto che essa non riesca a tramutarsi in realtà.
di Luca Bagnariol 45
[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Riguarda tra le altre cose: la relazione tra stati diversi; l’interesse comune di più nazioni; ciò che si estende a più paesi e che oltrepassa i confini del proprio stato.
L'ARTISTA: Nadiia Zhelieznova, nasce a Mosca nel 1991. Disegna tutti i giorni da quando ha concluso il liceo, e presto decide di entrare nel dipartimento di illustrazione della “British higher school of art and design”. Nell’aprile del 2019 ha esposto all’Atelier d’artistes de Belville a Parigi, successivamente ha partecipato a diversi mercati internazionali delle stampe e allo Zine festival. Nei suoi lavori presta molta attenzione al racconto e alle forme. Predilige lo spazio piatto e l’use di diverse textures, la fauna è uno dei suoi motiv preferiti.
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L ' A RT I STA :
Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.
Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare 47 una parola che descrive e contiene moltissimi significati.
Pablo Delcan
Pablo Delcan è un graphic designer, illustratore e art director. Spagnolo di origine, nel 2014 ha fondato a New York lo studio di design e animazione Delcan & Company. Insegna alla School of Visual Arts e collabora con importanti testate quali il New York Times,Time Magazine, Le Monde, The Guardian, Politico e molti altri. Ha anche ricevuto numerosi riconoscimenti ed è stato inserito nella prestigiosa lista Forbes 30 Under 30. L'obiettivo della Delcan & Company - si dichiara sul sito web - è quello di creare immagini e oggetti che raccontino storie e comunichino idee, senza mai smettere di sperimentare nel processo creativo.
Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 48
Scomodo
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Sei spagnolo di origine. Come mai ti sei trasferito a New York? Mi sono trasferito a New York a 18 anni per frequentare una scuola d’arte. Questo era durante la crisi economica del 2008 e dopo la laurea ho pensato che avrei avuto migliori opportunità e contatti con il mondo del design a New York rispetto a qualunque altra città del mondo. Pensi che essere un creativo sia più difficile in Europa? Non penso che essere un creativo sia così difficile, forse la parte più difficile è riuscire a guadagnarsi da vivere con questo lavoro. In questo senso io ho trovato più facile farlo negli Stati Uniti, ma principalmente per la mia situazione personale. Hai ricevuto molti premi prestigiosi. Come sei arrivato a questo punto e quali aspirazioni avevi quando hai cominciato la tua carriera? Ciò che mi piace di più rispetto ai premi è la capacità di condividere il mio lavoro con gli altri e il poter raggiungere più persone possibili. È per questo che sono emozionato di contribuire a questa rivista, di poter raggiungere un pubblico in Italia. Mi interessa comunicare in un modo distintivo con immagini e attraverso un processo guidato dal gioco e dalla sperimentazione. Questo è ciò che mi ha guidato nella mia carriera e mi ha portato a ciò che faccio ora. La Delcan & Co ha uno stile molto distintivo. Quali sono le vostre ispirazioni? Come avviene il processo creativo e com’è la collaborazione con il tuo team? Scomodo
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Nonostante tu dica che abbiamo uno stile, questa è una cosa con cui combatto tutto il tempo. Non voglio avere uno stile, cosicché il nostro lavoro possa essere sempre in cerca di qualcosa di diverso. Voglio essere ispirato sempre da nuovi artisti, nuove cose, nuovi luoghi… Penso che se si può individuare uno stile nei nostri lavori probabilmente dipende dalla nostra pigrizia: non sempre riusciamo a lottare per non averlo. Le tue creazioni hanno spesso un forte messaggio politico e sociale. Come approcci questi temi? In realtà sento che il mio lavoro, nonostante si esprima molto spesso nell’ambito della comunicazione politica e sociale, abbia la funzione di un messaggio giornalistico, o di guidare il lettore nel testo. Sono sempre più preoccupato di essere fedele al testo che alle mie inclinazioni politiche. L’immagine che hai creato è molto eloquente, il virus è rappresentato come la palla al piede di un carcerato, ma è rotta e il prigioniero è scappato. L’epidemia, infatti, è stata la scintilla per le “rivolte” che sono scoppiate nelle sovraffollate carceri italiane. È una giusta interpretazione? Quali sono state le tue suggestioni nel pensare questa immagine? Si! Mi piace molto come l’hai espresso. Penso sia un’ottima interpretazione. Mi chiedo se ci siano altri modi di interpretare quest’immagine. Mi piace creare immagini che possano aprire una conversazione. Alla fine io creo un‘immagine e la lancio nel mondo - quello che volevo dire con essa dovrebbe essere ovvio nell’immagine stessa e se
non lo è ho fallito. Ma qualsiasi metafora o secondo significato stanno sempre all’osservatore. Il sistema carcerario è una questione critica e controversa negli Stati Uniti tanto quanto lo è in Italia. Ci sono stati problemi particolari con l’epidemia di Covid-19? Come sta venendo gestito il contagio nelle carceri americane? In realtà sento che il mio lavoro, nonostante si esprima molto spesso nell’ambito della comunicazione politica e sociale, abbia la funzione di un messaggio giornalistico, o di guidare il lettore nel testo. Sono sempre più preoccupato di essere fedele al testo che alle mie inclinazioni politiche. Possiamo dire anche che questo virus stia un po’ “imprigionando” tutti noi? Penso che ci stiamo “imprigionando” perchè è un modo di lottare il virus. È uno dei pochi strumenti che abbiamo per combatterlo! Assieme al lavarci le mani, ovviamente.
di Mariasole Dassiè
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L’EDITORIALE
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Considerazioni Questo mese l’intero numero di Scomodo, e in particolare la sezione di cultura, si è dovuto confrontare con un momento irripetibile, non rappresentabile dalla formula tossica di: “ai tempi del Coronavirus”. Si tratta infatti di un lasso di tempo estremamente più breve e specifico, la fase in cui ci troviamo ora. I numeri precedenti sono stati quelli della presa di coscienza, dell’elaborazione. I prossimi, si spera, racconteranno la cronaca di una risposta dell’umanità a questa sfida, ma ora ci troviamo sulla soglia: in questo momento si stanno prendendo le decisioni che orienteranno il nostro futuro. La sezione di attualità ci ha mostrato come il dibattito stia avvenendo attraverso una logica binaria: rivoluzionari e reazionari, apocalittici e integrati diceva qualcuno più di cinquant’anni fa. Lo scontro è vecchio, nelle modalità quanto negli argomenti, tuttavia secondo Hannah Arendt è proprio la longevità di un'idea a dimostrarne il valore culturale. «Un oggetto può dirsi culturale nella misura in cui resiste al tempo; la sua durevolezza è in proporzione inversa alla sua funzionalità».
Per la filosofa tedesca quindi superare la “prova del tempo” è indice dell’universalità di una produzione culturale che al contrario, quanto più figlia di un determinato Zeitgeist, tanto più risulterà muta ai posteri. Abbiamo quindi deciso di consultare su cinque aspetti della nostra crisi, “inutili” considerazioni su altre crisi, sperando che in virtù della loro inattualità possano aiutarci a orientarci. Il peccato originale dell’uomo fu non rispettare il volere divino e per questo venne punito. Dalla colpa ha origine la storia dell’umanità e così anche la nostra. Individuare la causa è però solo il primo passo per poter guarire, dopodiché è necessario affidarsi a un sistema di regole che abbia già funzionato in passato, oppure inventarne di nuove, in modo da realizzare una cesura con ciò che ha creato la crisi. La “guarigione” deve passare attraverso una liturgia: religiosa, laica, tutto va bene purché si possa tornare alla normalità. Per far sì che questo avvenga dobbiamo ripeterla fino a interiorizzarla, fino a che non diventi la nuova quotidianità di ogni singolo individuo. L’intimità è spesso una conseguenza della solitudine che ci costringe a guardarci dentro.
Tuttavia, come in un’illusione di Escher, questo scavare sempre più a fondo dentro di noi ci porta all’esterno: non c’è uno senza moltitudine abbiamo scoperto, io senza l’altro, intimità senza collettività. In origine questa sezione aveva il ben più esplicativo titolo di “la società è la malattia”, ma "ironicamente" proprio i criteri di convivenza e organizzazione - tipici appunto delle società - hanno portato al suo sacrificio in nome dell’armonia. La conseguente sintesi nel troppo vago termine "società" ha dovuto lasciare il posto a collettività. La soluzione, abbastanza univocamente proposta, per estirpare il morbo è la distruzione e su queste rovine andrà innalzata la nuova società. Il nostro percorso fin qui ci ha però portato a prendere in considerazione la molteplicità dei punti di vista e con essa la loro relatività. Il nostro fine non è tanto quello di proporre una sintesi, quanto piuttosto in una sorta di rivisitazione del decalogo manzoniano di Renzo: ripassare le lezioni apprese da ognuna di queste considerazioni inattuali per farne tesoro, usandole magari, più che per creare altre rovine, per imparare a convivere con le molte in cui già ci ritroviamo.
Inattuali Scomodo
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di Luca Giordani
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Scomodo
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"tutti i nostri mali sono colpa dei ciclisti e degli ebrei! - perchĂŠ dei ciclisti? - e perchĂŠ degli ebrei?!..."
Scomodo
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�Cosi il Signore gli rese il meritato castigo� Nella storia dell’uomo la religione è stata spesso la soluzione alle domande a cui era più difficile dare risposta, con cui colmare la distanza fra ciò che è palese e ciò che non comprendiamo soprattutto nell’indagine della natura; infatti i testi sacri sono fra i primi che non solo raccontano proprio episodi epidemici ma che cercano anche di rispondere al “perché” che si cela dietro di essi. Una fra le prime pestilenze raccontate nella Bibbia per esempio è quella che riguarda i Filistei, i quali dopo aver catturato l’Arca Santa subiscono il castigo divino: «Poi il Signore fece pesare la sua mano sugli abitanti di Asdod e il suo territorio … Egli colpì gli abitanti della città dal più piccolo al più grande; scoppiarono bubboni anche ad essi … Gli uomini che non erano morti furono colpiti dai bubboni e il gemito della città salì al cielo» (I Samuele 5, 6-12) Il Dio protagonista dell’Antico testamento è un dio per nulla rassicurante, anzi. In generale predilige le maniere forti per colpire e proteggere i popoli che appartengono al regno che lui ha creato e in questo brano fa “pesare la sua mano”, un’espressione che produce un’immagine chiara con cui si percepisce il gesto di imporre il peso del proprio potere per ricordare all’uomo che è da Lui che tutto dipende e che quindi a Lui deve sottostare. Anche il “gemito della città” sale al cielo, come per rivolgersi a Lui in un gesto di supplica. 54
Almeno una decina di volte oltre a questa, la sentenza divina si realizza sotto forma di epidemia: colpisce per esempio David e i suoi sudditi quando il re d’Israele indice un censimento contro la Sua volontà, d’altra parte protegge i figli di Dio guidati da Mosè attraverso una delle dodici piaghe d’Egitto, la peste che colpisce il bestiame e gli uomini egiziani quando il faraone non permette al popolo eletto di fuggire. La pestilenza è il suo modo per rimproverare gli uomini quando infrangono la sua legge e su questo la Bibbia stessa è molto chiara: «E se, nonostante tutto questo, non volete darmi ascolto ma con la vostra condotta mi resistete, anch’io vi resisterò con furore, e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati» (Levitico 26,25) L’uomo è quindi consapevole che ogni volta che viola la legge che gli è stata data, Dio non resta a guardare ma sicuramente arriverà il suo “rimprovero”. Nonostante il Signore sia definito “lento all’ira e grande nell’amore”, quest’ira per quanto lenta non tarda mai ad arrivare e si abbatte numerose volte sotto diverse forme. Il Dio è allora colui che, per effetto indiretto dell’errore umano, è responsabile dell’abbattersi dell’epidemia: questo elemento è comune anche ad altre religioni, come per esempio quelle politeiste dove invece di un solo dio coesistono divinità diverse spesso caratterizzate da tratti positivi o negativi. Scomodo
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Queste divinità possono essere totalmente buone o cattive, rendendo facile distinguere il bene dal male così da identificare le pestilenze e le altre calamità come frutto di crudeli capricci degli dei malvagi; possono altrimenti essere divinità in cui coesistono tratti sia positivi che negativi, rendendoli più simili alla natura umana ma comunque superiori ad essa, ricoprendo spesso il ruolo di giudici in grado di causare enormi sofferenze e pestilenze. di Erica Gentili
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Edipo� il male e nell�esistenza Nel mondo greco come in quello ebraico non sono mancati i tentativi di associare i mali a delle punizioni divine. La grecità però non dispone di un sistema dottrinale, né di un testo rivelato: queste saranno le condizioni per una continua discussione e rielaborazione del mito, che avrà il suo acmé nella tragedia. Già nel più antico testo mitologico sulle divinità greche, l’Iliade, compare una prima identificazione, profondamente arcaica, della peste con la punizione divina. Nella descrizione della peste dell’Edipo re di Sofocle sono presenti diversi residui omerici: anche qui è la colpa di un re a ripercuotersi sul suo popolo, e anche qui il re inizialmente si rifiuta di dare ascolto alle parole del suo indovino. Sofocle è però contemporaneo di Ippocrate e di Tucidide: il ricorso alla divinità nell’affrontare una malattia è stato soppiantato dalla pratica medica, e la stessa descrizione della peste avverrà con un’ottica storiografica completamente laica. La relazione tra peste e divinità non ha quindi più un senso direttamente religioso, ma sembra piuttosto porsi come spunto per una riflessione sulla condizione umana e l’imprevedibilità del fato. La tragedia si apre con un Edipo all’apice della sua vita, immagine dell’uomo che con la sua razionalità ha saputo salvare una città dalla maledizione divina della Sfinge, farsene re, e riportarla all’ordine naturale. 56
Ma la serenità sua e della sua terra ora è gravata da un’epidemia di peste, descritta come un male che rende sterili le donne, il bestiame e la terra, privando di vita l’intera area di Tebe: la prima reazione del re è interrogare Apollo sulla causa della malattia, la cui risposta lo riporterà ad una «impurità cresciuta e alimentata in questa terra».
Il celebre esito dell’indagine di Edipo rivelerà che la causa della peste è lui stesso, l’ordinatore razionale della città si scopre non solo incestuoso parricida, ma causa stessa dell’epidemia che affligge quel popolo che col suo dominio aveva salvato. La peste ha quindi una posizione centrale nell’Edipo re non solo perché è posta in apertura alla tragedia come elemento disturbante della serenità pacificata del regno di Edipo. Qui l’epidemia è prima di tutto quel primo indizio che innesca l’indagine del re fino a imputarlo colpevole di atrocità a lui sconosciute. La peste è quindi il riverbero su tutta la terra di Tebe di una colpa che in ultima analisi è il destino già svolto, e per
questo assolutamente necessario, del re e del suo genos. Davanti all’inesorabilità della tyche si rivela inutile ogni tentativo di comprensione razionale, come ogni purificazione o espiazione. Il male della peste è il male insito nella stessa condizione umana, che dipende da una divinità distante e imprevedibile, una divinità che davanti alla sorte dolorosa non risponde che col ghigno beffardo di Atena davanti alle follie di Aiace, nella tragedia che porta il suo nome. Un ghigno tanto beffardo da non poter comparire nemmeno sul volto del nemico Ulisse, che in quanto uomo si riconosce nella stessa condizione di non sensatezza che avvolge il glorioso eroe. Di questo stesso ghigno ride la divinità davanti all’indagine razionale mirata ad espellere il morbo, che Edipo esprime con queste parole fatali: «La disgrazia piombò sul suo capo (di Laio), e dunque per lui, come fosse mio padre, combatterò questa battaglia, e farò ricorso a qualsiasi mezzo pur di stanare chi ha versato il sangue del figlio di Labdaco». Questa colpa che è legata al fato e non al libero arbitrio, non ha come effetto una punizione provvidenziale in vista di un bene superiore successivo o di un insegnamento, come spesso avviene nella morale ebraico-cristiana, ma si conclude davanti alla risata degli dei che non ha niente di positivo da proporci: il male è nell’esistenza umana, ogni fuga da esso è impossibile, il suo esito ci porta ad una condizione assolutamente privata di senso. di Anna Leonilde Bucarelli Scomodo
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Gli scomparsi e i salvati «Un panorama di fumo e sterminio». È la descrizione con la quale Sylvia Plath, in Two Views of a Cadaver Room, tratteggia fugacemente il Trionfo della Morte di Pieter Bruegel. L’attenzione della poetessa americana è tutta rivolta verso la coppia di amanti nell’angolo in basso a destra del dipinto, intesi come simbolo della forza salvifica dell’amore. Un’interpretazione che tuttavia perde il contatto con il vero fulcro semantico dell’opera e la sua connessione con il tema della colpa protestante. Influenzato dall’iconografia medievale della danse macabre e dal dinamismo grottesco di Bosch, il maestro fiammingo raffigura uno scenario apocalittico e al contempo estremamente realistico. La morte irrompe nel quadro a cavallo, brandendo una falce, e compie una carneficina indiscriminata, che colpisce imperatori, cardinali e soldati senza distinzioni di ceto e religione. Attraverso il naturalismo brutale con il quale viene rappresentata la scena, Bruegel allude alla caducità dell’uomo e alla sua impossibilità di redimersi dal peccato originale che lo contamina. Il pensiero di una seconda possibilità ultraterrena non è contemplato, anzi viene calpestato dalla furia soverchiante della morte, che ammassa cadaveri gli uni sugli altri e si abbatte anche sul paesaggio. Persino i malati di peste non possono sperare in una cura e devono sottostare come chiunque altro a questo rituale umiliante, trasportati in una grande cella da un corteo di scheletri, diavoli e mostri. Scomodo
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Il fatalismo protestante che plasma l’allegoria dipinta dal pittore fiammingo non lascia scampo neanche alla coppia di amanti cara a Sylvia Plath. Incuranti della distruzione che li circonda, non realizzano che il loro piacere è effimero e che proprio in quanto esseri umani sono destinati a recitare un ruolo da comprimari nel grande affresco dell’esistenza.
Questa prospettiva di subalternità dell’uomo rispetto alla natura viene completamente ribaltata in Tintoretto, il “pittore della luce”, che in San Rocco risana gli appestati affronta la colpa dal punto di vista cristiano. L’artista veneziano, esponente di spicco della Maniera, che grazie al suo uso visionario del chiaroscuro ha ispirato El Greco e Caravaggio, spariglia le carte collocando l’azione della scena di notte, in un lazzaretto. Nella sezione esterna del dipinto le fonti di luce sono due, l’aureola del santo e i bagliori che filtrano dalle finestre, mentre al centro del quadro le figure
principali sono rischiarate da torce e fasci luminosi. In secondo piano colpisce l’uscita di scena di alcuni individui che portano via un morto, illuminati dal chiarore proveniente da fuori. L’epicentro drammatico dell’opera è però ovviamente San Rocco, protettore degli appestati, che guarisce i malati dell’ospedale, riversi drammaticamente per terra nel degrado generale. A differenza del Trionfo della Morte, l’uomo non è condannato alla dannazione ma può espiare la propria colpa rivolgendosi all’aiuto di un intermediario divino. I malati non sono più dei condannati al patibolo come nell’opera di Bruegel, anzi sono figure attive che mediante la fede riescono a purificare la propria anima dal peccato, riuscendo a giungere alla percezione di Dio. È quindi presente un filo rosso che lega l’utilizzo scenografico della luce che fa il pittore veneziano con la salvezza alla quale sono destinati gli appestati. Ravvivate dall’aureola di San Rocco, queste figure si stagliano nell’oscurità che pervade il lazzaretto con un’intensità tale da far sorgere un dubbio simile a quello espresso da un anonimo spettatore nella Venezia rinascimentale: «Se Tintoretto così risplende nelle ombre della notte, cosa farà quando sarà sorto il giorno radioso?». di Jacopo Andrea Panno 57
La peste� il flagello e la vita «I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano», è questo l’incipit de La peste, il romanzo del premio nobel Albert Camus. Orano ci viene descritta come una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina. I suoi abitanti sono anch’essi per nulla particolari, uomini dai piaceri semplici caratterizzati da una spiccata attitudine all’attività prediletta dai borghesi, il commercio. Nel corso del romanzo, la peste si abbatte sulla città e gli uomini vengono colti impreparati, sospesi tra la speranza e l’inquietudine. I flagelli sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ad essi quando ci piombano sulla testa e la pretesa è che debba esserci perlomeno un motivo o uno scopo per accettarli. Vi è un passaggio all’interno del libro, inizialmente infatti vi è una grande difficoltà nel pronunciare la parola “peste”: «I nostri concittadini al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. 58
I nostri concittadini non erano più colpevoli d’altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto fosse ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno flagelli». È per questo che inizialmente la peste viene vissuta come qualcosa di passeggero, una noia per le gioie personali degli abitanti che non la vivono sulla propria pelle, essi hanno le loro idee e continuando a rispettare le regole del loro mondo ordinato supereranno anche questa sciagura in poco tempo. Solo nel momento in cui la città viene isolata ci si rende conto davvero della gravità della situazione. Andando avanti nell’opera, viene proposta la visione del dolore propria della morale cristiana, l’acerrimo nemico di Nietzsche, la colpa, l’espiazione attraverso la purificazione, la necessità, la giustificazione, il disegno divino nella sofferenza. All’aumentare dei contagi infatti, quando il morbo inizia a mietere 500 vittime a settimana, un prete cattolico, tale padre Paneloux, al cospetto della sua comunità tiene un sermone nel quale giustifica il flagello come una punizione di Dio per la depravazione della cittadina. Scomodo
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Il dottor Rieux, protagonista e narratore, tuttavia non è d’accordo, egli ha visto un bambino innocente morire e sa che la sofferenza è casualmente distribuita, non ha né senso né scopo, è semplicemente l’assurdo, e bisogna continuare a fare il proprio dovere, per lui vi è tutt’altro che disperazione nella sua affermazione. Col tempo padre Paneloux stesso si ritrova a capovolgere la propria posizione, giacché la religione in tempo di peste non può più essere la stessa e la fede non basta. Dopo la sua predica iniziale egli si rimbocca le maniche e scende ad aiutare gli ammalati poiché Camus sostiene: «Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio». Ma che vuol dire allora la peste? Essa è la vita, ecco tutto. È lo stesso Camus a svelarci, nel finale del libro, il significato di questa sua opera: un significato esistenziale. Camus riesce a parlare ai nostri tempi in quanto analista della natura umana prima che epidemiologo, egli sapeva come noi ignoriamo che ognuno ha dentro di sé questa piaga perché nessuno al mondo ne è immune, e non c’è una colpa esterna, essa è la pura condizione umana, non possiamo fare altro che un passo indietro dall’arroganza umanista positivista e rimboccarci le maniche per combattere la sofferenza senza rinnegarla o darle uno scopo. Eppure, questo non è un libro triste, nonostante tutto, piuttosto esso lascia intravedere barlumi di speranza, i quali, come le stelle, sono visibili solo nel buio autentico di una Notte oscura.
di Cristiano Bellisario Scomodo
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Liturgia è una parola strana, antica, evocativa. Di quelle che ci accompagnano da sempre, che pensiamo di conoscere bene, ma che poi, alla prova dei fatti, ci colgono in fallo. Etimologicamente è una parola composta: laos e ergon, popolo e opera. Ad Atene indicava servizi di utilità pubblica, come feste o giochi, le cui spese erano imposte ai cittadini facoltosi. In tutte le successive evoluzioni del termine, magiche, religiose, laiche, è rimasto centrale il rapporto tra l’azione e la collettività. La liturgia è quindi la risposta uniforme di un nucleo sociale a una crisi, nel suo senso letterale di brusco cambiamento: una serie di azioni codificate che restituiscono certezze in un momento di spaesamento. Il rapporto con il potere è lampante, poiché queste regole, questa prassi, dovranno essere indicate da qualcuno e, inoltre, sappiamo come nei momenti di incertezza e soprattutto di paura si sia maggiormente inclini a sacrificare ogni cosa per la speranza di un futuro migliore. La liturgia è quindi, difatti, un puro atto di fede, poiché quando vi ci si affida non si ha nessuna certezza che possa funzionare.
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Salus populi Roma di crisi ne ha affrontate molte e in quasi tutte è stato chiamato in causa il suo palladio. Un’icona della madonna odighitria (che indica la via) il cui rapporto con il popolo romano e soprattutto con la sua salvezza ha fatto sì che le venisse addirittura conferito l’appellativo di “Salus populi romani”. La leggenda narra che l’icona venne portata a Roma da Elena, la madre di Costantino, con la fama di essere addirittura un’acheropita, ovvero un’icona tra le più sacre, perché non dipinta da mano umana. È nel 590 però che la sua storia si incrocia con quella della peste per la prima volta. Gregorio Magno, appena diventato Papa a seguito della morte del suo predecessore Pelagio II a causa dell’epidemia, decide di portare in processione l’icona. Gregorio era stato precedentemente apocrisario (ambasciatore) del Papa presso la corte imperiale a Costantinopoli, dove aveva appreso l’importanza e la funzione delle icone. Ricordiamo ad esempio che ai ritratti dell’imperatore erano tributati gli stessi onori della sua persona fisica e poteva quindi capitare ai capi di Stato di dover pranzare con un’icona o addirittura far stendere tappeti rossi al suo passaggio (proprio a Gregorio qualche anno dopo toccherà “ricevere” un ritratto dell’imperatore Foca). Come suo primo atto papale il Dottore della chiesa indice quindi una “litania settiforme”, maestosa processione a cui era previsto prendesse parte l’intera popolazione della città, laici e clero, divisi per sesso, età e condizione in sette gruppi, ognuno dei quali sarebbe partito da una chiesa, per riunirsi 62
poi tutti a Santa Maria Maggiore. Sebbene l’Historia Francorum di Gregorio di Tours, la fonte più diretta, non citi la Regina Coeli (questo il nome dell’icona bizantina prima dei fatti che la consacreranno come “Salus”) altre più specificamente dedicate alla vita del santo sono concordi nel riportare i fatti che seguirono: come fosse la vergine in persona, dalla testa del corteo il dipinto indicava il cammino e la peste sembrava ritirarsi con l’avanzare del corteo (addirittura Jacopo da Varagine parla di un rischiararsi dell’aria). Una volta giunti in prossimità della “Mole di Adriano” scese un coro di angeli intonando quello che diventerà il famoso “Regina Coeli”. In questo racconto vi è già tutto il programma del papato di Gregorio: la centralità della liturgia, che lui stesso provvederà a riformare con il suo testo La regola pastorale; l’importanza del canto: a lui si devono infatti la riorganizzazione della Schola cantorum e la compilazione dell’ “Antifonario”, compendio di canti liturgici; ma soprattutto la comprensione del ruolo dell’icona, vessillo medianico della volontà e della potenza di Dio, motivo per cui impose ai missionari diretti in Inghilterra di portarne sempre una con loro. L’apparizione dell’arcangelo Michele in cima al mausoleo mentre rinfodera la spada, inequivocabile segno che la punizione divina fosse finita, altro non è quindi che il suggello divino all’inizio della sua riforma. di Luca Giordani Scomodo
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Cumannari e megghiu ca� futtiri E’ il 1976. La Democrazia Cristiana apre l’anniversario per i suoi «trent’anni di malgoverno» – Nanni Moretti insegna – banchettando sui cadaveri eccellenti di Elio Petri e Francesco Rosi. I due – già accomunati da forti sodalizi con la penna di Leonardo Sciascia e con il volto camaleontico di Gian Maria Volonté – avevano incentrato entrambi i loro percorsi filmici sulla dissezione del potere democristiano, carpendone gli atteggiamenti, le movenze, le malformazioni. Ma con Todo Modo, Petri fece il “passo più lungo della gamba”. Un mese dopo l’uscita nelle sale, la pellicola venne sequestrata dalle autorità per vilipendio e fu ritrovata bruciata negli studi di Cinecittà. Due anni dopo, la morte di Aldo Moro profetizzata da Petri diede il colpo di grazia a una pellicola ormai impresentabile, che non fu più riprodotta o distribuita al pubblico per i successivi quarant’anni. L’abiura imposta a Petri finì per inghiottire tutti, castrando quel cinema politico italiano che aveva firmato vividi racconti di denuncia come Le mani sulla città e Il caso Mattei. Un’egemonia oscurantista cui la DC si sentiva autorizzata in qualità di intermediaria terrena del volere di Dio, come ammoniva Petri facendo proclamare a Marcello Mastroianni: «Voi siete tutti politici, i figli privilegiati di Dio. Coloro che governano il paese in nome della fede». Protetto dalla legittimazione dell’investitura divina, ogni atto politico trova giustificazione nel compiersi della Volontà Divina. Todo modo para buscar la Voluntad Divina. Una citazione tratta dagli Esercizi spirituali di Ignazio de Loyola, teScomodo
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sto liturgico della Compagnia del Gesù, ma che nel titolo di Petri assume tutto un altro significato. In fuga da un’epidemia che sta falcidiando l’Italia, gli alti vertici del partito abbandonano le redini del Paese, trasformando il loro ritiro spirituale in una nuova spartizione del potere. Da semplici fruitori di una liturgia gesuita che dovrebbe purificarli e riavvicinarli a Dio, essi piuttosto se ne appropriano per legittimare e codificare un nuovo potere temporale, le cui malefatte vengano coperte da una menzogna pia e devota: «E così ricopro la mia nuda perfidia con antiche espressioni a me estranee rubate ai sacri testi e sembro un santo quando faccio la parte del Diavolo» (dal Riccardo III di William Shakespeare) . Un vero e proprio delirio di potere che Paolo Sorrentino, dal canto suo, aveva così ben rappresentato col monologo di Giulio Andreotti ne Il Divo: «Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene». Un amore che però, come si dichiareranno Mastroianni e Volonté in una scena più che equivocabile, è ormai cessato, creando una frattura fra la Chiesa e i suoi pupilli. Essi piuttosto bramano il potere non solo “magmaticamente”, ma così tanto da condividere il proverbio preferito che sarebbe stato di Totò Riina: «Cumannari è megghiu ca’ futtiri». Il problema è che a forza di aspettare, l’epidemia potrebbe aver già ucciso tutti, non lasciando più nessuno da comandare. E forse neanche qualcuno da fottere. di Carlo Giuliano 63
M per Messinscena «L’Inghilterra domina perché lo dico io! Trova un altro direttore della fotografia o un altro lavoro». Con questa frase Lewis Prothero, lo speaker della tv di regime nella distopica Inghilterra post-apocalittica scaturita dalla fantasia di Alan Moore, sottolinea l’importanza della comunicazione, e non meno delle sue modalità, per il mantenimento dell’ordine. In V per Vendetta, questa è senza dubbio una delle tematiche principali, che accomuna, con i dovuti distinguo, la graphic novel e l’adattamento cinematografico dei fratelli Wachowski, disconosciuto però dall’autore. Nella sua versione Moore disseziona l’organismo del potere nelle sue varie emanazioni, attraverso connotazioni anatomiche estremamente esplicative: l’occhio (videosorveglianza), le orecchie (intercettazioni), il naso (investigazioni), il dito (l’uso della forza) e appunto la bocca (l’informazione). È la descrizione di un potere acefalo, sistemico, in cui la struttura prevale sull’individuo. Il leader infatti svolge una mera funzione di coordinamento, incapace di prendere alcuna decisione senza aver consultato un computer chiamato “il Fato”. Nel film, al contrario, il cancelliere supremo incarna la percezione dell’uomo autorevole, che detiene ogni potere e demanda ai sottoposti solamente la messa in atto delle sue volontà: a lui e solo a lui si deve l’ascesa al potere del partito, come del resto, a suo contral-
tare, la scelta di diffondere un’epidemia nella nazione. Indipendentemente dall’avversario, il protagonista/antagonista V sa che "almeno inizialmente" la sua sarà una lotta sul piano della comunicazione, per questo in entrambe le versioni segue lo stesso schema: l’attacco ai simboli dell’avversario è il punto di partenza obbligato, dopodiché lo priva della possibilità di replicare tempestivamente, lasciando così che nel pubblico possano maturare i frutti della sua entrata in scena “esplosiva”. È senza dubbio la teatralità l’arma più potente per chi vuole rivestire il ruolo di “nemesi”. [Nemesi è il titolo del primo capitolo della graphic novel, ndr]. E: «Per te è molto importante, vero? Questa roba teatrale» V: «È tutto, Evey. L’entrata perfetta, la grande illusione. È tutto» L’importanza della figura di Prothero, la “voce del fato”, è tale che la sua scomparsa per mano di V possa essere vista come un termine ante/post quem nell’evoluzione della trama: «La capitale ascolta, c’è qualcosa che non va, c’è qualcosa che non va nella voce del fato. Un Fato insignificante, che però getta un’ombra minacciosa sul futuro. Quale che essa sia una cosa è certa… non sarà più la stessa cosa». Moore è chiarissimo: il fatto in sé sarebbe insignificante, se non fosse che la macchina del regime ha reso quella voce un simbolo. Quando un uomo è in crisi ha bisogno di certezze a cui aggrapparsi, non c’è spazio per relatività e sfumature. Così per anni, ogni
ora in punto, la “voce del Fato” ha distribuito alla nazione verità facili, dati di una precisione parossistica, arrivando persino a prevedere l’inizio di un temporale per le 24:07. In un clima del genere, ovviamente, cambiare speaker alla “voce del fato” è inaccettabile. Nel film, Prothero è un’emanazione del cancelliere e il compito di sostituirlo non può quindi che spettare a lui. Ancora una volta incertezza e complessità lasciano il posto a certezze immediate e polarizzanti: «Libertà e diritti umani sono un lusso, la guerra vi ha messo fine» – «Dio ha permesso all’Inghilterra di trionfare» – «è o noi o loro» – «chi sta con me?” – «i buoni vincono i cattivi perdono» – «andrà tutto bene». La perfetta sovrapponibilità delle frasi del leader e dell’annunciatore è spiegata in uno studio del 1952 di due dei principali esponenti della scuola di Francoforte: Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. La personalità autoritaria infatti ricostruisce un prontuario di formule e “trucchi” a cui ricorrono indistintamente nei loro discorsi i leader di ogni totalitarismo. Tuttavia in questo caso è proprio l’assenza di contrasto, di variazioni, a scatenare il cortocircuito. Per anni politica e informazione hanno utilizzato lo stesso linguaggio, le stesse strategie comunicative, e questo adesso è sotto gli occhi di tutti, la dissimulazione è svelata.
di Luca Giordani Scomodo
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Il Dio del Consumo Gli Anni ’60 rappresentano per lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick una fase intermedia. Della spensieratezza del dopoguerra, che aveva intriso i suoi primi romanzi di Buick sfreccianti e pubblicità dei detersivi, non restano che le contraddizioni consumistiche. Le sue convinzioni filosofiche su realtà e illusione vanno radicalizzandosi e i suoi incubi raggiungono lo zenit nel ’65 con la creazione del personaggio maligno di Palmer Eldritch. Ma il conforto dai propri demoni sarebbe arrivato solo negli Anni ’70 con la sua eccentrica conversione al cristianesimo. I capolavori degli Anni ’60 assumono quindi una natura mediana, che ancora risente del boom economico dei primi romanzi, ma che già cova, seppur in modo acerbo e zoppicante, la tensione verso una svolta religiosa. Fra questi, Ubik è senz’altro l’esempio più calzante, che Carlo Pagetti – curatore dell’intera opera di Dick ripubblicata da Fanucci – ha definito «la scissione della coscienza americana divisa tra la ricerca del sacro e l’ideologia del consumo». Il protagonista Joe Chip – alter ego bisillabico di Phil Dick – vive in una società governata dal Credo nel Dio Consumo: aprire la porta di casa o del frigo costa un nichelino; i prodotti non pubblicizzati vengono creduti fuori commercio da anni; persino con i morti si fanno grandi affari, tenendoli in coma criogenico in cambio di laute somme. Rimasto illeso in un attentato dinamitardo che ha ucciso il suo principale, Chip inizia a sperimentare un inspiegabile fenomeno di entropia che procede in due direzioni opposte, per decadimento o regressione: il latte ammuffisce mentre viene versato, Scomodo
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le astronavi diventano biplani dei Fratelli Wright, mentre le persone mummificano nel giro di pochi secondi, come fossero morte da secoli. Chip attribuisce l’epidemia a un avvelenamento da radiazioni dovuto all’esplosione, finché accendendo la TV non trova il suo capo, che credeva morto, intento a sponsorizzare le proprietà miracolose di un nuovo prodotto, con un’enfasi da venditore incallito: «Spalma Ubik sul pane e vedrai la muffa sparire d’incanto! Se la tua pelle cade a pezzi, usa Ubik per raderti e tornerà nuova di cento anni! Spruzza Ubik sulle superfici della cucina e quella ruggine comparsa all’improvviso scapperà a gam-
be levate! L’entropia sarà solo un brutto ricordo!». Ubik è insomma la panacea del Sogno Americano raccontata con l’unico linguaggio ancora comprensibile, quello pubblicitario: «La mescolanza di motivi religiosi viene sottoposta all’urto destabilizzante del linguaggio iperbolico e cialtronesco che celebra le qualità terapeutiche di Ubik, come se Dick avesse l’ambizione di macerare dentro la forma onnivora della scrittura postmoderna le punte estreme del sacro e del profano, della visione mistica e dei più scadenti prodotti del consumo» – scrive Pagetti. Come quel passo in cui Dick compara Platone a Winnie The Pooh, appagando l’immagine che aveva di sé come di un incrocio fra un filosofo metafisico e un orsacchiotto dei cartoons.
Miracolando Chip come fosse Lazzaro, Ubik assume quel ruolo salvifico che normalmente si attribuirebbero a Dio, diventando l’oggetto di culto di una nuova religione che faccia dell’acquisto spasmodico il suo rituale. Questa nuova liturgia del consumo finisce per cadenzare ogni azione del quotidiano di Chip, tanto quanto aveva fatto con i capitoli stessi del romanzo, introdotti da Dick con uno spot su Ubik sempre diverso. Comprarlo è diventata la nuova preghiera, ingerirlo la nuova eucarestia. Non più ‘ora et labora’ ma ‘ora et ubique’. Ma non è tutto: Ubik è sì un ottimo antidolorifico, ma è anche in grado di uccidere se assunto in quantità eccessive, il che lo rende molto simile a una droga. Già da qualche anno Dick era considerato lo scrittore dell’acido per eccellenza dai suoi lettori, inconsapevoli che l’opinione che aveva dell’LSD fosse ben più negativa della loro. Se difatti le profezie lisergiche e messianiche di Tim Leary stavano facendo sognare la Generazione Woodstock, il composto di Albert Hofmann aveva sortito un effetto devastante sulla sua schizofrenia latente. Trasformare Ubik in una droga non rappresentava quindi una scelta mistica, ma il preludio a un epilogo disastroso, privato del suo happy ending: Chip/Dick scovano un ultimo spray Ubik nel finale, per scoprire con orrore che è deperito, come ogni altro bene di consumo, per effetto di quell’entropia che avrebbe dovuto combattere.
di Carlo Giuliano 65
III� Intimita 66
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L�epidemia e crisi L’epidemia è crisi. Crisi del sistema sanitario che vacilla nel tentativo di contenerla. Crisi del sistema economico. Sconvolge il tessuto sociale, crea un clima di tensione, distrugge almeno in parte la comfort zone a cui eravamo abituati. Così facendo costringe l’individuo a fare i conti con la propria individualità, con tutto il suo carico di desideri e paure, non più represse dalle convenzioni sociali. Ne è un esempio il protagonista del romanzo breve Morte a Venezia di Mann: Aschenbach, artista in crisi giunto a Venezia per ritrovare quella disciplina e quel rigore su cui aveva sempre basato la sua arte, e che diverrà il simbolo del declino di un'epoca e portavoce del suo profondo malessere. L’atmosfera di Venezia dove imperversa il colera contribuisce a connotare le diverse fasi della vicenda e lo stato d’animo del protagonista: le acque stagnanti e putrescenti della laguna, lo scirocco soffocante e afoso, l’aria fetida e malsana che si respira lungo le calli sempre più abbandonate, sembrano la materializzazione di una indefinibile situazione spirituale, languida e neghittosa insieme. Quand’ecco che in questo scenario decadente si inserisce la passione improvvisa per il giovane Tadzio, motivo scatenante della crisi catartica del protagonista, il cui autocontrollo, sempre più indebolito, si abbandona a desideri lungamente repressi. Scomodo
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L’incubazione della malattia nella città esotica e decadente si accompagna perciò alla febbrile presa di coscienza di Aschenbach della sua passione omosessuale. Messo di fronte alla realtà della sua situazione, le fragili e inconsistenti difese innalzate da Aschenbach, necessarie in una società malata basata sull’apparenza, saltano del tutto. L’anziano letterato, perdutamente innamorato dell’efebico ragazzo, è indotto a spogliarsi di quella forma e di quel contegno che erano stati i suoi irrinunciabili parametri di riferimento per tutta la vita e assiste impotente (lui, il cultore della apollinea compostezza, dell’intransigenza morale) al prevalere degli istinti dionisiaci. Finalmente libero Aschenbach vive le sue lacerazioni, le ama quanto la sua stessa vita, esse sono la sua vita, i suoi sensi e la sua ragione. Per Aschenbach ammalarsi equivale a guarire, la malattia anziché costringere il corpo a un’inevitabile decadenza accelera l’istinto vitale a liberarsi dai vincoli imposti dalla società. L’epidemia come metafora e agente concorrente alla crisi intima dei desideri dell’individuo.
di Cosimo Zatti 67
Percezioni della realta� distorsioni e vertigini nell�esperienza Alcuni saranno sempre ospiti indesiderati: è tutto ciò che irrompe nell'ordine e nella pulita trasparenza che cerchiamo di costruire e mantenere per orientarci e sentirci padroni del nostro tempo. Ma imprevisti elementi compaiono e spezzano sovente queste simmetrie. Alcuni di questi sembrano autopropulsivi, invisibili, tanto piccoli e minuscoli quanto capaci di generare scompiglio: sono i germi e i batteri, quel genere di sporcizia che non è possibile spazzare via ma, anzi, è in grado anche di far crollare il castello di carte delle stabilite abitudini quotidiane, mettendo a repentaglio il normale svolgersi della socialità fino anche il prosieguo delle nostre stesse esistenze. Purtroppo questi microscopici distruttori, nel corso della storia, si sono mobilitati non solo sotto forma di "ondate" nelle quali alla violenza del picco seguiva una ciclica ritirata, ma anche sapendo rimanere latenti e recidivi, tutt'altro che flagelli inaspettati. Questo è il caso della tubercolosi, che tale fu fino ai primi decenni dello scorso secolo: tra 8 e '900 spezzava la vita a circa 3 bambini su 10 sotto i 5 anni, soprattutto fra le medio-basse classi sociali della Vecchia Europa. Evidentemente non tutte le epidemie sono particolarmente democratiche, la TBC infatti si è concentrata a colpire maggiormente questo particolare target di pubblico. 68
Un tale mirato sadismo non poteva lasciare indifferente le sensibilità degli osservatori. Tra le esistenze costellate di molti e precoci appuntamenti con la malattia e la morte, testimonianza artistica emblematica fu certamente Edvard Munch. Nel 1877 anche la sorella, dopo la madre, morì di tubercolosi appena quindicenne (era almeno riuscita a superare la soglia dell'infanzia). Senza dubbio tali vicende biografiche influirono sulla formazione del pensiero dell'artista norvegese, precursore e tra i principali interpreti dell’Espressionismo. La sua visione della realtà è permeata da questo senso di angoscia e presenza incombente della morte e in La Fanciulla Malata - di cui la prima versione risale al 1885 - diventa il filtro attraverso cui prende forma la raffigurazione, talmente denso da farsi palpabile condensandosi nell’ambientazione e rendendo rarefatta l’aria. Quello in cui è riuscito l’artista è cioè traslare la propria personale, soggettivissima esperienza (appunto la sofferenza della sorella che ne anticipava la morte) sotto forma di intuizione formale in tutta la sua gravosità, irradiandola attraverso l’etere. La luce che restituisce la stanza nella quale la giovane si trova emana uno spento bagliore, l’atmosfera torrida resa dalla traiettoria delle pennellate dischiude un divenire che non suggerisce alcuna rinascita nè possibilità di sfuggire alla disgrazia.
La realtà tutta si deforma e si tinge dei movimenti dell’animo del pittore. La malattia, d'altronde, piega ogni segmento del vissuto anche per chi non la subisce in prima persona. La Fanciulla Malata è proprio questa distorsione. Non si tratta di finzione né di suggestione. Non è illusione fine a se stessa, ancor meno invenzione eccentrica per farsi “interessante” o per imporsi sul mercato dell’arte. La realtà che percepiamo è influenzata dalla nostra storia, il più delle volte probabilmente la pregiudica; abbiamo mai notato che una forma di causalità circolare, di circoli viziosi spinti da inconsapevoli automatismi sembrano fluire e caratterizzare gli eventi di cui siamo spettatori o attori? Queste forze centripete convogliano su di sé anche la visione stessa di ciò che accade, sono talmente dietro i nostri occhi che non riusciamo a riconoscerle. La crosta di colore che osserviamo ne La Fanciulla Malata è proprio questa vertigine: è espressione, intrinseca alla raffigurazione del soggetto dipinto, del dolore per la malattia reso nucleo significante, centrale per la comprensione di quella porzione di mondo in quel preciso istante che Edvard Munch aveva davanti a sé e che, raggiunta con quest’opera la maturità stilistica, è riuscito a tramandare e, in questo modo, a rendere eterno. di Michele Espinoza Scomodo
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Ma se gli androidi sognano pecore elettriche� i terrestri sognano la fine della solitudine�
Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick la malattia non è più vettore d’analisi per comprendere una società distorta ma è invece espediente d’indagine della solitudine umana all’interno della cornice di un futuro distopico. L’opera è ambientata su un pianeta post apocalittico, un mondo che poi è il nostro, la Terra, dove, a seguito dell’Ultima Guerra Mondiale, tutto è ridotto ad un coacervo di polvere e rovine. Una polvere - nella versione originale dell’opera “kipple” - che ha contaminato la maggior parte della superficie planetaria, portando al disfacimento fisico anche la quasi totalità degli esseri viventi, che sono infatti emigrati su Marte in seguito all’inquietante appello delle autorità: “Emigrate o degenerate”. L’atmosfera terrestre è radioattiva e attardarsi sulla Terra significa così, per tutti coloro che restano, correre il rischio di essere classificati come biologicamente inaccettabili. Con lo scorrere del tempo diminuiscono gli abitanti rimasti e le aree urbane in cui riuscire a rintracciare un altro individuo sono sempre meno. Scomodo
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Così non è più solo la polvere ad avanzare assorbendo tutto ciò che trova, ma anche il silenzio, un silenzio assordante che sembra volersi sostituire ad ognuno degli elementi rimasti, e nonostante tutti i dispositivi tecnologici di cui i cittadini dispongono per sedare i loro sentimenti, percepiscono ugualmente questo senso di vuoto. L’empatia sembra essere l’unico motore che annulla e inibisce questa sofferenza. L’uomo è un animale di gruppo e, come tale, sembra poter conseguire un maggiore fattore di sopravvivenza soltanto grazie al contatto con gli altri, come se fintanto che una creatura prova un po’ di gioia allora anche la condizione di tutti gli altri riesce a conservarne anche solo un frammento. Questo principio viene incanalato all’interno di uno strumento: la “macchina empatica”. Attaccandosi alle sue maniglie è possibile instaurare una connessione con tutti gli altri individui che vi sono collegati. Gli uomini e le donne di tutto il sistema solare convergono così all’interno di una singola entità: Wilbur Mercer, una sorta di Cri-
sto vecchio e polveroso intento in una scalata dal regno di tomba verso gli irti pendii di un monte. Interfacciandosi con la macchina si osserva su uno schermo la scalata di Mercer, fino a fondersi completamente con il personaggio e avvertirne persino la sofferenza fisica, ma soprattutto l’estasi mistica della dimensione di comunione emotiva con l’altro. Da questo rapporto con gli altri individui connessi e con la scalata simbolica di Mercer nasce una vera e propria religione, un culto legato all’empatia e al rapporto con la collettività. Ma il mercerianesimo è un percorso religioso di ascesa priva di redenzione, il cui credo è proprio che non esiste salvezza, che ogni creazione è già la sua disfatta e che alla fine si precipiterà tutti nel cosiddetto regno di tomba. Nonostante questo, tutti vi si affidano ciecamente, e ogni momento di gioia e dolore viene immediatamente condiviso attraverso essa. Questi individui ridotti a spettri sembrano gridare disperati alla ricerca di sentimenti profondi, dimostrandosi però incapaci di provarne, qualora questi non siano indotti artificialmente dalle macchine. Il viaggio all’interno della cri69
si dell’esistenza non porta così ad alcuna via d’uscita o consolazione, dal momento in cui anche la scatola empatica si rivela essere in realtà una costruzione illusoria, una finzione ad opera di un regista hollywoodiano che ha ripreso in studio l’immagine di Mercer mentre scala il monte, attraverso la quale i cittadini hanno l’impressione di fondersi. Ciò naturalmente strappa ai terrestri quell’unica parvenza di intensità che l’esperienza collettiva è ancora in grado di fornire loro, abituati ormai ad un’esistenza dove la solitudine regna sovrana e il distanziamento sociale ha reso i contatti con gli altri sempre più sporadici e permeati da un costante sentimento misto di paura ed eccitazione. Quest’ennesima delusione, in un mondo dove hanno ormai perso ogni riferimento, segnerà il loro definitivo abbandono e la perdita completa di contatto con la realtà. E così, quando alla fine del romanzo il protagonista si allontana da San Francisco in cerca di un luogo in cui “uscire a riveder le stelle”, non ne trova nessuna. Non esistono stellate ammirabili nella volta celeste, non esiste una consolazione dantesca dove poter godere di un presagio di luce dopo una lunga notte di tenebre, in quanto il kipple divora tutto implacabilmente e, anche alzando lo sguardo verso il cielo, non esiste altro che polvere.
di Arianna Preite 70
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L�untore non e ammesso al concerto In Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino il bilancio esistenziale della protagonista femminile rivela il fallimento del modello di vita borghese. Malata di tubercolosi, Marta soggiorna in un sanatorio vicino Palermo insieme a tanti altri degenti, i quali passano il tempo attendendo la morte, quasi certa a causa della tisi. In particolare, vive nell’ala opposta dell’edificio il protagonista e narratore, il cui nome non viene mai rivelato. Quando iniziano a darsi appuntamento fuori dal sanatorio, è la stessa ragazza a raccontare al protagonista come prima della tubercolosi avesse rinunciato al cognome giudaico per poter fuggire dal lager con un ufficiale nazista; come volesse raggiungere la mondanità fino a quel momento solo letta nei libri. Darsi insomma alla vita con “un marito austroungarico in colletto di lontra, i sabati al concerto, le domeniche al Prater.” Marta ha scelto però lo schieramento sbagliato, e alla sconfitta dell’Asse viene sottoposta all’umiliazione del taglio dei capelli. Due volte esclusa (nel campo di concentramento e dall’Italia liberata), quando si ammala di tisi viene rinchiusa nella casa di cura. Da quando viene ricoverata Marta continua ad accarezzare la giovinezza perduta. In uno splendido dialogo, vedendo alcuni bambini che giocano, chiede al ragazzo: “Siamo finti noi o sono finti loro?” come se la consapevolezza dei due malati rispetto alla morte li rendesse più vivi, meno finti. Eppure, le risponde il protagonista, “chiunque ha fame è più vero di tutti”. Scomodo
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L’atto del mangiare è già una sfida alla morte, l’esistere è in dialogo con essa sin dalla nascita. Marta però non riesce a comprendere la morte come costante dell’esistenza. Come se i bambini, e la Marta del passato con loro, non avessero tale prospettiva funesta. È un evento che fino all’ultimo non accetta. Fino a quando la morte non si concretizza. Quando Marta viene a mancare, il sangue sputato sul fazzoletto sembra al ragazzo un triple-sec di troppo, e lei una matricola ubriacatasi per l’ennesima volta. La donna aveva passato tutta la vita a ricercare quella giovinezza rubata dalla guerra, poi l’apparenza di un palcoscenico. Di queste velleità rimane lo scherno del liquore. Nessuna intimità allevia il dolore nel trapasso. Svuotata dei sogni mondani, la potenza vitale che si mostra inizialmente al protagonista risulta falsa; vince piuttosto l’apatia di lui, il rapporto sereno con la morte, quasi indifferente ad essa. Se spesso l’abbandono alla mondanità risulta vittorioso sulla veglia intellettuale, in Diceria dell’untore il conformismo borghese – nella narrativa aristocratica, in uno spettacolo di danza, nelle domeniche al Prater, diremmo oggi in un post su Instagram – è lo sconfitto più grande. Per questo la morte della ragazza è un’uscita di scena ignorata dal mondo. Il protagonista, invece più disincantato, esce infine solo dal sanatorio. Ha vinto la guerra con la tubercolosi, l’unico tra i suoi compagni d’armi. Eppure neanche questo sembra sufficiente a tornare tra i vivi. di Lorenzo La Malfa 71
La Peste� vivere o morire in un eterno presente Pretesto narrativo spietato quanto efficace, l’epidemia di peste raccontata nel romanzo di Camus colpisce la città di Orano portando con sé un inarrestabile moto di cambiamento. Nelle prime fasi del contagio la peste è vista dai cittadini come un nemico esterno che attenta alla loro quotidianità, costringendoli a rinunciare all’insieme di piccole cose che costituivano le loro vite; come nel caso degli amanti, costretti alla separazione dalla quarantena e dall’interruzione delle comunicazioni a distanza, che troverà una sua voce nella vicenda legata al giornalista francese Rambert, rimasto bloccato a Orano e impossibilitato a ricongiungersi con la fidanzata. Tuttavia, per Camus il sentimento di disperazione degli innamorati fa di loro dei privilegiati, in quanto costituisce una sana distrazione per sfuggire al panico dilagante. Ma la peste non è un oppressore che si lascia impietosire dal dolore che provoca nelle sue vittime, anzi - con la sua monotona efficienza - condanna la popolazione a un presente senza sbocchi, dilatatosi a dismisura, in cui i destini individuali confluiscono in un dramma collettivo, dove la memoria della perduta intimità andrà dissolvendosi, e con essa le speranze di un rapido ritorno alla normalità. La malattia passa così da minaccia esterna a elemento costitutivo della società minata non più solo nel fisico ma anche nello spirito: le persone piombano in uno stato di sonno72
lenta rassegnazione in cui anche i sentimenti più autentici perdono la loro consistenza diventando impossibili da riconoscere ed esprimere: «La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi». Quello che emerge è un affresco in cui la peste, così come le masse, fanno da sfondo, nella loro astratta concretezza, alle storie dei personaggi che lottano contro la forza disgregatrice della malattia e che ruotano attorno alla figura del narratore della vicenda, il medico Bernard Rieux. Ciò che più stupisce di Rieux è l’abnegazione al lavoro che lo porta da un lato a seppellire il proprio privato, la separazione dalla moglie malata, dall’altro lo protegge dal senso di nulla che permea ormai l’esistenza dei cittadini di cui si ritrova a essere osservatore privilegiato e lucido testimone. Il medico non è per sua stessa affermazione un eroe, non è mosso dalla fede o da un ideale nel suo dedicarsi anima e corpo al lavoro, bensì da un sentimento di onestà, come emerge da una discussione con lo stesso Rambert che si dichiara stufo di persone che lottano eroicamente per un’idea con astratta razionalità: «Qui non si tratta d’eroismo, si tratta d’onestà. È un’idea che può far ridere, ma la sola maniera di lottare contro la peste è l’onestà. Cosa sia in genere, non lo so; ma nel mio caso, so che consiste nel fare il mio mestiere».
La lotta contro l’epidemia passa anche dalla condivisione di piccoli momenti di felicità tra i protagonisti: così una nuotata di notte in compagnia dell’amico Tarrou o l’ascolto della storia dell’impiegato Grand diventano occasioni per Rieux di riscoprire un’intimità tra esseri umani che attraverso la solidarietà possono riappropriarsi di sentimenti che sembravano perduti per sempre. Rieux è un uomo che ambisce a essere tale preservando la propria umanità, restando concentrato sull’unico scopo che ha, in una situazione senza via d’uscita come può essere l’epidemia, tanto quanto la vita. Per questo, alla fine del romanzo, che porterà con sé anche le notizie della morte della moglie e dell’amico Tarrou, mentre tutti possono di nuovo riabbracciarsi, al dottore non resta che riflettere su quanto accaduto durante il periodo di crisi appena trascorso, chiarendo a se stesso e al lettore l’importanza della memoria per farsi trovare pronti quando la malattia si risveglierà nuovamente dal sonno: «Tarrou aveva perso la partita, come diceva; ma lui, Rieux, cosa aveva guadagnato? Aveva soltanto guadagnato di aver conosciuto la peste e di ricordarsene, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarsene, di aver conosciuto l’affetto e di doversene ricordare un giorno. Quanto l’uomo poteva guadagnare al gioco della peste e della vita, era la conoscenza e la memoria». di Saverio Maria Lacerenza Scomodo
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Scacco matto «E nella mano destra di Colui che sedeva sul trono vidi un rotolo scritto dentro e fuori, chiuso da sette sigilli». L’apocalisse è ormai giunta, non vi è alcuna via di scampo. In un grigio scenario medioevale, teatro di vite incerte e labili, incombe lo spettro della Peste nera, che, lasciando solo corpi deformi a testimonianza del suo passaggio, serpeggia e si spande ciecamente con equità e senza alcuna ratio. Nessun interesse persegue la morte che la accompagna, cui il regista Ingmar Bergman, ossessionato dalle immagini allegoriche dei dipinti medioevali, dà sembianze umane nel suo Settimo Sigillo, dove la figura incappucciata si fa motore e riflesso dell’insicurezza di coloro in cui incorre. Uno degli sventurati, il crociato Antonius Block, le porge una sfida a scacchi, nel tentativo di strapparle ulteriore tempo e, in caso di vittoria, di ottenere risposta ai quesiti che affliggono da sempre l’umanità, accantonati ormai dall’impellenza dei bisogni primari o mistificati da certezze religiose. La consapevolezza che l’ultima ora sia quasi alle porte lo conduce ad un viaggio interiore fatto di confronti e bilanci sul proprio vissuto, ripercorrendo un’esistenza che si svela sempre più insensata man mano che gli si dispiega davanti. Scomodo
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L’essenza divina, la sola che possa dare significato alle cose terrene, rimane muta e impalpabile nonostante le disperate preghiere che l’uomo le rivolge, facendone vacillare la fede e gettandolo nello sconforto. Il settimo sigillo, l’ultimo di quelli che, secondo l’Apocalisse di San Giovanni sono posti a protezione del libro di Dio, non può essere forzato, e cela a qualsiasi mortale i segreti sulla vita e la morte. Antonius Block è la rappresentazione della fede moderna: incapace di concepire una morte definitiva della carne e dello spirito, è tuttavia tormentato dall’impossibilità di sapere con certezza e in continua ricerca di risposte al mistero assoluto. Ma se Dio non parla, altrettanto fa la morte, che, come mero strumento di fatalità, nulla sa perché nulla le interessa, deludendo il desiderio del crociato. Eppure, nonostante la partita sia perduta a priori, il tempo conquistato, grazie all’eroica scelta di non abbandonarsi passivamente al destino già segnato, gli concede di vivere fino in fondo la propria esperienza di uomo. L’incontro con una famiglia di attori e il proposito di aiutarli a sfuggire alla peste gli permette, per la prima volta, di perseguire uno scopo concreto e allontanarsi dall’astrattezza delle crociate. Ed è in questa nuova “crociata” che scopre una diversa spiritualità, tramite i saltimbanchi che
riescono a percepire la divinità con i propri sensi, attingendo all’essenza stessa della vita. Nel pieno del tormento per la presa di coscienza della lontananza dei riti religiosi, che nulla hanno di consolatorio, Block giunge alla felicità nella sua purezza: fulminea e tangibile. Il contatto con le cose è raggiunto nel più immanente dei modi, per mezzo dell’odore delle fragole e dalla comunione con gli uomini: «E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere». La scoperta annulla l’interesse per la partita con la Morte, che perderà da lì a poco, rivelando come la risposta ultima sia finalmente stata raggiunta. Mentre il mondo interiore e spirituale è reso salvo tramite l’espiazione e l’auto-esame, il mondo oggettivo e materiale è assediato e distrutto dall’epidemia, che si erge vincitrice e punitiva sugli uomini. E alla fine la morte, in quanto mistero incompiuto dell’esistenza, viene accettata nella sua inafferrabilità, e permette al crociato, non malgrado ma per mezzo di essa, di affermare di essere vivo.
di Giulia D’Aleo 73
IVďż˝ Colletivita 74
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Tucidide e il ��� a�C� � fenomenologia di una crisi Attendibilità, razionalità, oggettività. Questi i termini più ricorrenti quando ci si riferisce a Tucidide, maestro di tutti gli storici. Tuttavia, nonostante il suo metodo scientifico, egli non perde occasione per porgere implicite critiche alla società democratica ateniese, ormai prossima al decadimento. Analizza come i sentimenti di autoaffermazione e sopraffazione sull’altro guidino le azioni degli uomini e pone in evidenza la naturale conseguenza di questo fenomeno nella classe politica e dunque nella società. Nell'Atene democratica tutti i cittadini erano tenuti ad essere politicamente attivi, annullando qualsiasi distinzione tra società e classe politica, che quindi coincidevano. Ciò portava ad una compartecipazione di vari gruppi sociali nella vita politica, con una inevitabile maggioranza dei non possidenti; tale maggioranza conferiva a questo gruppo, seppur incolto, una grandissima possibilità di incidere sul funzionamento dello Stato e gli aristocratici, benché consapevoli dell’ignoranza del demos e delle potenziali conseguenze delle sue avventate proposte, sceglievano di piegarsi al gioco politico per mantenere i propri privilegi. Il principio di autoaffermazione secondo Tucidide è quindi dilagante non solo tra i poveri, ma anche e soprattutto tra coloro che detengono il potere: c’è un tarlo nell’assetto democratico di Atene sin dalla sua prima formazione. Scomodo
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Il II libro delle Storie descrive minuziosamente, sotto l’aspetto medico e sociale, la peste che colpì Atene nel 430 a.C., mentre la città era impegnata nella seconda guerra del Peloponneso.
Se da una parte Tucidide procede con la ricerca della verità assoluta, dall’altra utilizza la peste come metafora della cattiva democrazia ateniese, la cui (prevedibile) degenerazione, stava portando alla distruzione di un’intera società. Il passaggio della peste va quindi letto su due livelli, che procedono parallelamente: quello letterale e quello simbolico.
La peste colpì inizialmente l’Etiopia, poi la Persia ed infine il Pireo. Sin dal principio si conosceva l’alto tasso di virulenza del morbo, ma i malati erano pochi e solo con il forte aumento dei contagi nei Paesi confinanti si verificò finalmente la realizzazione collettiva dell’arrivo di una pandemia, ormai inevitabilmente alle porte; tuttavia, agli ateniesi la malattia e il pericolo sembravano lontani ed estranei. La giunta del morbo ad Atene era completamente inaspettata, l’isteria e il caos la facevano da padroni. Allo stesso modo, un sistema politico come quello della democrazia ateniese poteva resistere, nonostante la sua fallanza, in un ambiente circoscritto come la polis di Atene. Questa però espanse presto il proprio dominio in altre poleis, legandole a sé come alleate per poi sottometterle alla propria egemonia, andando, in nome della democrazia, a demolire l’idea stessa di democrazia. Tale situazione non potè che recare malcontento, che si manifestò durante la guerra e nelle successive congiure oligarchiche, che col sostegno di alcune note personalità popolari riuscirono a distruggere il sistema dall’interno. I contagi si insinuarono velocemente tra gli ateniesi, portando alla luce la loro vera natura, responsabili di una democrazia malata, che sin dall’inizio dava segni di cedimento e pericolo, ma solo in quel momento sembrava piombare all’improvviso. Il caos. La guerra. La peste. di Gaia Del Bosco 75
E se la malattia non fosse condanna ineluttabile� Nelle prime pagine di Cecità di José Saramago un automobilista perde improvvisamente la vista: chiedendo convulsamente aiuto ai passanti, dice all’uomo che si è offerto di riaccompagnarlo a casa: «è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte». Quella che l’ha improvvisamente colpito non è una normale cecità, non è immerso nell’oscurità: le vittime di questo morbo sconosciuto - presto soprannominato “mal bianco” - vivono come fossero costantemente esposte a una luce forte e invadente, tale da «divorare più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli stessi esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili». L’epidemia dilaga velocemente e il governo sceglie di internare i ciechi all’interno di un manicomio in disuso, facendoli sorvegliare dall’esercito. Ben presto la struttura comincia a sovraffollarsi: dalle iniziali meschinità di alcuni assistiamo a una brutale escalation che porta all’instaurarsi di un vero e proprio regime del terrore, guidato da un gruppo di ciechi particolarmente violenti che assumono il controllo delle razioni di cibo e pretendono dagli altri internati prezzi e sacrifici sempre più alti per poter mangiare. Tralasciando le più scontate interpretazioni sul “male” intrinseco all’animo umano, sulla legge del più forte che dominerebbe tutte le dinamiche sociali sul modello hobbesiano
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dell’homo homini lupus, vorremmo provare a ribaltare la prospettiva prendendo in prestito l’interpretazione che ha dato al romanzo lo psichiatra Massimo Fagioli, che scrive in un articolo per Left: «Cecità è vedere le cose materiali, è non vedere il sentire e il pensiero senza parola. […] Raccontando il fattaccio di una comune epidemia virale, le parole dicono di una realtà umana invisibile. Non è cecità fisica, non è nera, è bianca». La storia è ambientata in un tempo e un luogo indefiniti e lo scrittore identifica i protagonisti attraverso le loro caratteristiche fisiche o il loro mestiere: la moglie del medico, il medico, il primo cieco e sua moglie, la ragazza dagli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera sull'occhio, il ragazzino strabico, il cane delle lacrime. L’epidemia toglie ai personaggi l’individualità data da nome e cognome, facendoci pensare che l’autore voglia dirci di verità umane (e disumane) universali. Nelle ultime pagine del romanzo è lo stesso narratore a chiedersi «se esista un rapporto diretto fra gli occhi e i sentimenti» e la ragazza dagli occhiali scuri sa che «dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo»: il mal bianco diviene geniale metafora di cecità psichica, la quale si configura come incapacità di vedere gli altri al di là della loro realtà materiale, incapacità di
“vedere”, quindi sentire e poi conoscere, la loro realtà interna, una cecità che «copre di bianco, continuo come una pittura bianca senza tonalità, i colori, le forme e le immagini che quella stessa realtà avrebbe presentato a una visione normale». Non è la cecità a fare emergere una fantomatica bestialità connaturata all’uomo, bensì il contrario: l’uomo è cieco solo se e quando si rende anaffettivo, quando si approccia al rapporto interumano con la logica del mors tua vita mea, quando vede nella sessualità nient’altro che scarica fisiologica e masturbazione, senza essere in grado di “vedere” l’oggetto del desiderio come essere umano uguale e diverso. La moglie del medico, l’unica rimasta vedente in un mondo di ciechi, e quindi unica sana in un mondo di malati, ci chiede di affrontare la patologia della normalità di una società sempre più improntata verso un innaturale darwinismo sociale, dominata dall’ efficiente iper-razionalità e dal successo individuale, e lo fa pronunciando quella che è forse la frase più emblematica di tutto il romanzo: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono».
di Alice Paparelli
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Tutte le piaghe del Presidente «Todo modo è un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva intentare alla classe dirigente democristiana, oggi è Petri a farlo». Si pronunciava così Leonardo Sciascia all’uscita del film, intuendo le fortissime somiglianze con il lungometraggio postumo di Pier Paolo Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Un film al limite dell’oscenità che subì la stessa sorte di quello di Petri, vanificando con il loro sequestro l’ultima sfida di Pasolini: «Se lo lasciano passare la censura non esiste più». Lo stesso Sciascia aveva d’altronde fornito a Petri, con il suo giallo omonimo del ’74, la materia prima per la sceneggiatura di Todo Modo, pur subendo un ampio rimaneggiamento da parte del regista: «Forzai le mani di Sciascia nel tono del film, e mi sembrò così, non soltanto di seguire un’indicazione di Sciascia, ma di evocare quel clima di farsa nerissima che si continua a respirare in Italia». Un clima così realistico e al contempo così saturo di eventi al limite dell’assurdo, da rendere Petri il capostipite di un neo-realismo magico, enucleato da Volonté con una battuta dal gusto retorico: «I fatti avvenuti negli ultimi dieci anni nel nostro Paese hanno mai avuto una spiegazione plausibile?». Non è quindi un caso che PeScomodo
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tri abbia scelto di aprire la sua favolaccia nera aggiungendo al testo di Sciascia una premessa epidemica, a mo’ di cornice boccacciana. Un virus misterioso sta difatti mettendo in ginocchio la penisola, mentre il governo democristiano sfrutta l’occasione del suo annuale ritiro a Zafer per sfuggire al morbo. La malattia però tallona i DC, uccidendoli uno dopo l’altro e rendendo la morale ormai lampante: è la stessa classe politica a rappresentare la vera piaga del Paese. Una verità che Petri, impossibilitato a denunciare a viso aperto l’allora partito di maggioranza, affida più alle immagini che al copione, capaci di continue allusioni con la semplicità di un’inquadratura. Un escamotage silenzioso reso possibile da un comparto visivo perfetto, cui il restauro della Cineteca di Bologna nel 2014 ha ridato una nuova, se non inedita vita, strappando il film al polveroso cassetto del censore dopo quarant’anni. Un po’ eremo, un po’ albergo, un po’ bunker hitleriano, l’eccezionale scenografia cementizia di Dante Ferretti dona a Zafer un’aura funerea, resa ancor più grave dall’onnipresenza del sottofondo mortuario di Ennio Morricone, che fa passare i DC per tanti inquietanti beccamorti. La scala di grigi è arricchita dai piccoli dettagli croma-
tici della fotografia di Luigi Kuveiller, che con un uso verticale della luce riesce a puntare i riflettori su ogni ruga e spigolosità dei volti del potere. «Collaboratori come questi vanno ricordati tutti» scriveva nel ’76 il critico Tullio Kezich. A catturare il loro lavoro ci pensa l’uso massiccio del primo piano stretto, che mostra da vicino le fattezze anatomiche di una tradizione politica malata, emaciata anche nell’aspetto dai suoi legami con i delitti di mafia e lo stragismo di Stato – che alcuni hanno intravisto dietro l’epidemia accennata a inizio film. Corpi deformi come quello di Ciccio Ingrassia – attore comico spesso sottovalutato che qui si destreggia perfettamente nel ruolo drammatico – metà Frankenstein di Shelley, metà Dracula di Stoker. Ne risultano degli identikit caricaturali, quasi lombrosiani, avviluppati in un bluff a metà fra il gotico e il grottesco che avrebbe dovuto far desistere la censura. Ma che evidentemente non riuscì a salvare Elio Petri da sé stesso.
di Carlo Giuliano
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La storia mi toglie il sonno New York, 1987. L’epidemia di AIDS sconvolge gli Stati Uniti che si mostrano ben presto non solo impreparati nel gestire la malattia dilagante, ma soprattutto incapaci di sublimarsi a ente “genitoriale” in grado di dettare le giuste regole e di rassicurare e tutelare le vittime del virus. Nello stesso anno muore Peter Hujar, amante e mentore dell’artista David Wojnarowicz, e quest’ultimo decide di scattare una fotografia del corpo senza vita per poi incollarlo in quello che sarà un manifesto simbolo dell’attivismo dell’epoca. «Se dovessi spendere un dollaro per l’assistenza sanitaria preferirei spenderlo per un bambino o una persona innocente con qualche malattia di cui non è responsabile, non per qualcuno con l’AIDS». Parole pronunciate da un funzionario sanitario in diretta televisiva, di cui Wojnarowicz fa l’apertura della sua opera. In pratica: se hai l’HIV in fondo te la sei cercata e forse è giusto che tu muoia. Questo è l’emblema di quanto la visione istituzionale fosse lontana dal comprendere che in quel momento tutto il sistema politico, amministrativo e sanitario si trovava sul banco degli imputati, chiamato a dimostrare la sua validità e legittimità. E Wojnarowicz è uno dei testimoni principali del processo. Da sempre emarginato, diverso, un enfant terrible in perenne contrasto tra il rifiuto della società e l’insopprimibile necessità di farne parte, si serve delle sue opere come mezzo di raffigurazione del “celato”: l’arte consiste per lui nella trasposizione in oggetti comunicativi di ciò che è invisibile e nascosto dalle regole sociali. 78
Untitled-Hujar Dead è un testo caustico e accusatorio scritto sopra una carta da supermercato, con un collage di foto di Hujar e varie riproduzioni che raffigurano spermatozoi, dollari americani e la Casa Bianca. Una provocazione? È certamente qualcosa di più: l’annuncio della prossima disintegrazione di un sistema malato.
Una classe politica che pronuncia in sicurezza certe parole, o di peggiori, come: «se volete fermare l'Aids, sparate ai gay», non si rende conto di aver già fallito nel momento in cui ha considerato sacrificabile una qualsivoglia categoria sociale. Omosessuali e tossicodipendenti sono ingredienti non necessari nella società (un po’ come i vecchi nella pandemia attuale) e, anzi, qualcosa di ingombrante e fastidioso.
Il leitmotiv della narrazione di Wojnarowicz è la raffigurazione dell’America come una killing machine pronta a schiacciare i più deboli e preoccupata solo di fare gli interessi delle lobby farmaceutiche. In questo senso l’epidemia di AIDS si colloca non tanto come un motore immobile di processi sociali, quanto come un evidenziatore di contraddizioni e disregolazioni, forse da sempre presenti nella collettività, e che ora si fanno ancora più evidenti, al punto da diventare non più sostenibili. Il sentimento dell'artista di fronte a tutto ciò è quello di una forte rabbia e istinti vendicativi, che all’interno dell’opera prendono forma nella metafora di un uovo pieno di sangue che inizia a creparsi. Hujar è morto, è morto perché è stato abbandonato, il suo viso e le sue giunture fredde e pallide ce lo mostrano tra le righe del manifesto, e ora sta morendo anche Wojnarowicz. Come l’artista afferma ricorrentemente nel testo, c’è una linea sottile tra l’interno e l'esterno, tra il pensiero e l’azione, e la linea è fatta di sangue, muscoli e ossa, in pratica, l’uomo. Si stanno lasciando indietro esseri umani. Certo è che questa thin line, figlia degli individualismi e delle ormai insostenibili mistificazioni della società, sta cominciando lentamente ad erodere. E di conseguenza a generare una pressione che necessita di essere rilasciata.
di Riccardo Vecchione Scomodo
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La citta si distruggera all�alba Rivisitazione del cult romeriano, esempio complesso e profondo del genere pandemico nel Cinema Nelle sue tante raffigurazioni il Cinema ha dimostrato candidamente, dai primi del ‘900 fino ai giorni nostri, di essere un medium di successo tra pubblico e intellettuale, quest’ultimo individuato come il regista, colui che decifra e scompone la realtà e ce la consegna riassemblata. Tra le figure più rilevanti, certamente influenti per i cineasti a venire, spicca il cosiddetto “Father of Zombies”, George A. Romero. Ragazzo del Bronx, esordisce a 28 anni con un film che ha segnato una nuova direzione per l’arte della pellicola, La notte dei morti viventi (1968). Ciò che fu rivoluzionario nella poetica della scrittura e della messinscena di Romero non fu tanto l’idea dello zombie e di come si scrive un horror moderno, ma la realizzazione di un’analisi politica e sociologica del suo tempo attraverso la struttura di genere, senza perdersi nei tipici ridossi filosofici dell’autorialità artistica. Se però il primo film peccava di budget, capacità attoriale e una regia ancora troppo naïf, la massima espressione del percorso culturale di Romero è venuta fuori con il suo terzo film, The Crazies (1973), meglio conosciuto in Italia come La città verrà distrutta all’alba. Scomodo
Aprile 2020
La trama è semplice, fulminea: degli strani incendi dolosi vengono appiccati in giro per una cittadina americana e non si riesce a capire per quale motivo persone apparentemente tranquille improvvisamente impazziscono e diventano violente.
Viene poi subito rivelata l’origine di tutti i disastri, una bomba batteriologica, scoppiata per sbaglio vicino l’acquedotto della cittadina. Da lì il sistema sociale crolla: l’esercito occupa la città per evitare che venga scoperta la verità, eliminando mano a mano tutti gli infetti, e i protagonisti, persone comuni, cercano di sopravvivere tra la coercizione del governo e gli infetti fuori di senno.
Fin qui una trama da B-movie, con il complotto degli organi militari che vogliono evitare che l’opinione pubblica scopra l’incidente e il gruppo del pompiere, l’infermiera e la figlia col padre che cercano a tutti i costi di salvarsi. Ma in realtà in tutta la storia, seguita per salti di montaggio volutamente confusionari, non c’è dramma, non c’è pathos che alluda ad empatizzare con una delle due parti. Per più di un’ora la vera protagonista è la cittadina, l’emblema del microclima sociale, che viene inquadrata e mostrata come se il regista fosse un reporter di guerra. Taglio dopo taglio, Romero mostra scientificamente quello che accade; nella sua testa, quello che risulterebbe in certe condizioni verosimili. Le riprese sono glaciali, le manifestazioni di pazzia sono tutte contenute, scritturate in funzione del messaggio che c’è dietro: non è il batterio a far impazzire le persone, bensì i rapporti di forza che si scoprono nelle situazioni di emergenza. L’arma batteriologica, infatti, non lascia segni, non cambia fisicamente le persone: quando vengono rappresentati gli scontri, sembra di assistere ad una lotta tra gang rivali, ad una disputa pronta ad esplodere. Il regista individua la violenza e la follia delle persone da ambedue le parti, esercito e cittadini, come parte integrante del tessuto che le unisce, che le rapporta nelle situazioni di emergenza come quella che si scatena all’inizio della storia. 79
Anche quando vengono descritti i militari e le parti alte del governo non c’è l’intenzione di rendere un sistema dei personaggi manicheo, lo sguardo di Romero taglia sulla superficie delle azioni dei personaggi, senza addentrarsi nei risvolti psicologici. Tutto questo, pur di arrivare al suo nodo fondamentale: se messa alla prova, la società dimostra di essere già latentemente malata, le sue contraddizioni affiorano come attimi di insensatezza e si spengono in eventi di devastazione. di Daniele Gennaioli
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In fuga dalla citta
Il Decameron è uno dei maggiori capolavori della letteratura italiana e in quanto tale è stato soggetto a numerose riletture, per non perderne nessuna sfumatura metaforica. Ad attirare l’attenzione di molti studiosi è stata la cornice che introduce le cento novelle: la terribile descrizione della peste dell’Introduzione è stata letta, nel passato, più come un espediente letterario che non come una parte a sé ricolma di significato, essenziale per la storia. Null’altro che sfoggio di abilità retorica. Nel corso degli anni è stata, però, rivalutata e riletta in modi diversi dandole significati allegorici nuovi. Tra le numerose interpretazioni, interessante è quella formulata dallo studioso Vittore Branca, che vede nella peste la metafora di una società corrotta, alienata dalle regole del vivere civile, in cui ogni valore è sovvertito: lacerata dalle guerre civili, il particolarismo di ognuno ha determinato il suo stesso disfacimento. In quest’ottica la peste perde qualsiasi significato storico, non è più peste in quanto malattia del corpo, ma peste in quanto malattia sociale. La Firenze dell’Introduzione è una Firenze caratterizzata dall’abbrutimento di ogni persona. In questo clima di abbandono degli ideali civili, Branca legge il capovolgimento dell’ideologia medievale del comune. Se nel Medioevo si era celebrata la società comunale, Boccaccio Scomodo
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la rinnega, esaltando invece la civiltà cortese, la quale diventa l’antidoto alla malata società comunale e quindi alla peste, incarnandosi nelle novelle che diventano un reale percorso ascendente. La fuga dei dieci ragazzi va quindi intesa, oltre che in senso letterale, come la fuga da un luogo con una connotazione ideologico-morale. I fanciulli come prima cosa vivono una serie di esperienze in luoghi cortesi, quali giardini e palazzi, manifestando una spensieratezza in nettissimo contrasto con la città piegata dal morbo; poi si trasferiscono nel contado, un locus amoenus dove iniziare il percorso vero e proprio che li porterà dall’abbrutimento della peste ad un rinnovato vivere civile, libero da tutti i preconcetti comunali e improntato sulla civiltà cortese. Branca divide, quindi, la Firenze di Boccaccio in due luoghi fisico-ideologico-morali. Da un lato vi è la macrosocietà malata, corrotta da avarizia, invidia e superbia, chiusa tra le mura cittadine, legata alle strutture comunali e identificata con la peste. Dall’altro la microsocietà dei dieci ragazzi, governata da valori civili, quali il rispetto e l’aiuto reciproco, da un patto di corresponsabilità, in una villa nel contado, alla riscoperta dei valori cortesi, salva dalla peste. A dividere i due luoghi solo cento racconti. La microsocietà deve essere un modello per la macrosocietà; a prova
di ciò sta il modo dei ragazzi di salvarsi dalla peste: un modo cortese, civile, così distante dalle scene che caratterizzano la Firenze cittadina. La peste diventa quindi l’inizio di una profonda presa di coscienza che induce i ragazzi a fuggire dalla società malata per crearne una nuova fondata su un rinnovato vivere civile. Il dolore è fondamento di una gioia brillante proprio perché scaturita dalla più opaca tristezza.
di Anna Cassanelli 81
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Così dopo una lunga riflessione non ci resta che trarre “il sugo di tutta la storia”, un po’ come fa Renzo nell’ultimo capitolo de I Promessi Sposi, ma sicuramente con nessuna velleità di paragone. Abbiamo imparato che l’epidemia non può che inginocchiarsi al gioco di metafore e parole che è la letteratura, sottoponendosi ad una trasfigurazione: da semplice patogeno a complesso messaggio allegorico; abbiamo imparato che peste è spesso società e che la descrizione della malattia altro non è che una critica alla società stessa; abbiamo imparato che l’uomo, antico o moderno che sia, necessita di qualcuno da colpevolizzare; abbiamo imparato che in assenza di capri espiatori all’uomo non resta che trovare un mezzo per ignorare, quando non è possibile guarire, la minaccia; abbiamo imparato che l’epidemia è un modo per isolarsi; abbiamo imparato che solo attraverso la solitudine possiamo conoscere noi stessi e che solo da questa conoscenza può nascere l’arte. Non ci resta che comprendere che l’epidemia è un modo per ripartire; rifletteremo sul fatto che a volte la distruzione diviene parte di noi, con essa cresciamo e ad essa non rimane che adattarci. Nel Decameron la peste permette di ripartire e di spazzare via ciò che era per creare qualcosa di migliore. Per Boccaccio però migliore non è sinonimo di nuovo, perché solo un ritorno alla società cortese può sanare la malata realtà comunale. La peste è essenziale sia perché fisicamente distrugge quel mondo che lui disprezza, sia perché fornisce ai ragazzi lo spunto per una approfondita analisi, sociale e introspettiva. Scomodo
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L’antidoto alla malattia si concretizza nella più cortese espressione di civiltà: la letteratura, cioè le novelle stesse. La peste è solo il punto zero, dove tutto finisce affinché tutto possa iniziare. In altri casi però, questo azzeramento non è automatico. Quando l’epidemia, lungi dall’essere l’agente di questa distruzione virtuosa, costituisce invece l’ostacolo da debellare perché una nuova fase abbia inizio. È il caso di Todo Modo, nel quale Petri, una volta identificata la causa del morbo nella classe politica democristiana, condensa nelle scene finali una soluzione tanto radicale quanto apocalittica. I politici sono accatastati, cadaveri, come in una fossa comune, ma nell’ottica del regista un corpo manca ancora all’appello, quello di Aldo Moro. Perché il Paese si rialzi, deve coinvolgere nella mattanza anche l’ultimo uomo nel quale aveva riposto fiducia, il suo ultimo compromesso vivente, tenendo fede a quel passo biblico già parzialmente citato nel corso del film: “Muoia Sansone!”. Con tutti i Filistei. Se la causa ultima della malattia è quindi da ricercare nella politica, l’abbandono delle istituzioni vissuto da Wojnarowicz può essere condensato in un insegnamento semplice: un modello sociale patologico porta inevitabilmente a una tensione interna che causa prima o poi una frattura dei suoi atomi: “the egg is going to crack”. La malattia genera ingiustizia e l'ingiustizia è solo un'altra malattia che genera rabbia. Il motore del cambiamento di una società a rovescio, in cui la classe politica è sacra e il malato sacrificabile, può partire allora solo da una liberazione di tale pressione, e procedere attraverso una progressiva decostruzione e ricostruzione dei suoi tasselli, ripulendone volta per volta i germi che ne popolano la struttura interna. 85
Ripartire quindi dalle esigenze della società, dalle quali la politica si allontana ogni giorno di più anziché rappresentarle. Qualche pagina fa facevamo nostro l’interrogativo di Saramago, che sul finale di Cecità si chiedeva se ci fosse un nesso tra gli occhi e i sentimenti, quanto detto fin qui ci impone di analizzare l’interrogativo successivo: «se il senso di responsabilità sia la naturale conseguenza di una buona visione». In Saggio sulla lucidità gli abitanti della città che quattro anni prima era stata colpita dall’epidemia di cecità decidono di votare in massa scheda bianca, creando una crisi politica senza precedenti. Il governo abbandona la città, ponendola in stato d’assedio «sino al giorno in cui le forze armate […] dovranno tornare per liberarvi dai mostri da voi stessi generati». Ma la cittadinanza, guarita dalla cecità bianca, ha guadagnato una nuova “capacità di vedere”, un nuovo modo di essere esseri umani, e sembra cavarsela benissimo senza la sovrastruttura governativa, che si rivela essere l’unico vero mostro. Se da una parte il superamento della malattia sembra aprire nuove prospettive per la società, il virus ancora una volta si incancrenisce proprio nella «presenza paterna e dissuasiva» della classe politica che la governa. La soluzione, come propone Petri e come forse sottintende Saramago, può essere sbarazzarsi definitivamente di quest’ultima? «L’impulso alla distruzione è anche un impulso creativo». Il celebre motto di uno dei padri del pensiero anarchico, Michail Bakunin, è una perfetta spiegazione del topos delle rovine che stiamo trattando. 86
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Tuttavia questa visione nasconde il germe del suo opposto, la famosa “legge del due” che Alain Badiou individua come la caratteristica del XX secolo. Il due è antidialettico perché non prevede la sintesi, due sistemi si scontrano e solo uno può prevalere, non a caso il ‘900 è il secolo dell’ossessione per il definitivo, con i suoi manifesti, le dichiarazioni programmatiche e tutti gli -ismi che fanno rima con totalitarismo. Anche la nuova Inghilterra del cancelliere supremo era nata così, lo sa bene V, lo dice chiaramente a Evey prima dell’atto finale: «basta con i distruttori, nel nostro mondo migliore non c’è posto per loro». Il suo dunque è un sacrificio necessario, la sua ultima lezione affinché qualcosa di nuovo e soprattutto libero possa nascere. Non dalle sue idee, ma dal loro seme in Evey (non a caso Eva), dimostrando la necessità dell’abbandono del dogmatismo di qualsiasi sistema. Nessuna rivoluzione è mai l’ultima rivoluzione. Ci sono casi in cui però gli spiragli verso la rinascita non sembrano più previsti dalla storia. Dick in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? ritrae un pianeta e degli esseri umani ormai prigionieri della completa degenerazione. L’unica via di fuga è rappresentata dall’emigrazione verso Marte, dove a tutti gli abitanti della Terra, esclusi naturalmente coloro che vivono in precarietà fisica o economica, è consentito spostarsi per cercare di ricostruire un nuovo mondo. La crisi dell’umano raggiunge però il suo apice, dal momento in cui la specie, ormai distrutta da quest’esistenza a metà, perde ogni coordinata che gli consenta di comprendere cosa renda tale un essere umano. Scomodo
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Così, in un tempo in cui sembra essere la disumanità ad avere la meglio, i personaggi perdono qualsiasi spinta verso la vita e tutti i superstiti non possono che rassegnarsi ad una vita che non è più umana, all’interno di un mondo quasi completamente distrutto, che traghetta con sé verso il baratro anche tutta l’umanità di cui resta traccia. Ma siamo sicuri non esista possibilità di recuperare questa umanità perduta? Una possibilità di reagire, nonostante la catastrofe? Oltre la perdizione e il disfacimento, le rovine de Il settimo sigillo possono essere fertile luogo di rinascita per pochi eletti, poiché la peste abbattutasi punitiva sui peccatori, presagio di una moderna bomba atomica, non ha spazzato via tutto. Mentre tutti i personaggi sono condannati ad una macabra danza con la Morte, la famiglia di artisti riesce a scampare il giorno del giudizio e, come una pagana natività, a dimostrare l’eternità e l'immortalità degli affetti. I tre prescelti, gli unici in grado di possedere e padroneggiare l’arte, sono depositari di un senso di vita più profondo e capaci di un contatto autentico con la realtà. Ci piace pensare che esista sempre una luce in fondo al tunnel, soprattutto se questa si accende grazie alla creatività, sia essa quella dei tre prescelti de Il settimo sigillo, dei dieci ragazzi boccacciani o di noi tutti. Ma per imparare, bisogna saper imparare. Quando un flagello si abbatte su di noi vi è la convinzione che il mondo che seguirà nascerà automaticamente migliore, che avremo imparato dal dolore e saremo pronti a fare sì che una cosa del genere non ricapiti. Eppure, come spiega Camus ne La peste, le abitudini dopo i flagelli ritornano quasi sempre le stesse e la retorica si perde fino al flagello successivo. 88
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Questo perché la rovina è la stessa condizione umana, non possiamo scacciare la peste e l’assurdo eppure possiamo imparare qualcosa per vivere tra le rovine e cercare di costruire sopra di esse. Per costruire bisogna avere il coraggio di sbagliare, ma continuare a sbagliare senza imparare non migliorerà la nostra condizione. L’insegnamento che possiamo trarre dal romanzo per questo è che per sapere imparare sia importante la decenza più dell’eroismo e conservare la memoria del passato, di ciò che è stato e che si è compreso o conosciuto al fine di affrontare il futuro privi della superficialità di chi si sente, umanisticamente, più forte della vita. Abbiamo intrapreso un lungo viaggio, che si avvia adesso alla sua naturale conclusione. Per l’ultima volta Saramago corre in nostro aiuto e ci ricorda che «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono»; delle mille domande che ci siamo posti forse non abbiamo risposto a nessuna: lanciamo la palla al lettore-viaggiatore che ci ha ascoltato fin qui. «La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro» e l’unica cosa che forse ci sentiamo di dirvi per congedarci è quello che ai tempi disse Marco Polo a Kublai Khan (almeno secondo Italo Calvino): «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Andrà tutto bene? Scomodo
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Avremo imparato qualcosa da questo Covid-19? Ne usciremo più forti, più consapevoli, più umani? È presto per dirlo, ma sicuramente ci incontreremo ancora per discuterne, d’altronde «il viaggiatore ritorna subito». di Anna Cassanelli, Carlo Giuliano, Riccardo Vecchione, Alice Paparelli, Luca Giordani, Arianna Preite, Giulia D'Aleo e Cristiano Bellisario
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OCEANO INDIANO il racconto a puntate di una nuova convivenza Una nuova avventura per alcuni, il recupero di un vecchio percorso per altri.<< Noi avevamo già lavorato per la radio, a volte creando dei veri e propri radiodrammi, altre volte con progetti sonori installativi che poi in seguito hanno avuto una loro versione radiofonica>> ci raccontano Claudia e Riccardo di Muta Imago, compagnia che già dall’inizio del progetto Oceano Indiano aveva ideato il programma “Indian Transmissions”, per <<trasformare Teatro India in una cantina romana>>. Grazie a Radio India, ora, a diventare cantine romane sono le dimore di tutti coloro che partecipano al progetto: si parla, si discute, si ascolta musica, la connessione - quella umana - è così forte che l’ingombrante consapevolezza di un incontro necessariamente solo virtuale, passa in secondo piano. Le compagnie teatrali hanno creato una nuova realtà, “una nuova dimensione, che è meno plastica rispetto a uno spettacolo”, ma più invadente nella vita del pubblico. Ascoltare la radio, o un podcast, significa lasciare che gli speaker entrino nella vita degli ascoltatori, affidare loro il compito di arricchire un luogo e un momento.
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Marzo 2020
Si crea un legame tra gli autori e chi ascolta, nonostante siano, come tutti, separati gli uni dagli altri, ognuno dentro la propria casa. <<La radio comunica attraverso un solo linguaggio, quello sonoro, mentre il teatro è l'unione di più linguaggi. Però in questo limite si sta bene, è quasi confortante avere tutto sotto controllo in una timeline, mentre il lavoro dal vivo è pieno di imprevisti, di incontri, di materia>> prosegue Muta Imago, cui controbatte però Fabio Condemi, riportando la propria esperienza: << Nei miei lavori come regista io non sono mai presente come interprete o performer. Il giorno in cui lo spettacolo debutta è anche il giorno in cui il mio lavoro è finito, che io sia più o meno convinto del risultato.In teatro quindi cerco di limare il lavoro fino alla fine, in radio tutto ha un respiro diverso: è come un diario di appunti, con i suoi errori e ripensamenti, con parole non mie, incontri, innamoramenti e la musica che mi piace,o che mi consigliano.>>.Si sposa con questa descrizione “Record” di Michele Di Stefano: ogni episodio è un’intervista a musicisti improvvisati su album che non hanno mai fatto uscire, creando un divertente gioco di ruolo, che coinvolge profondamente l’ascoltatore. Uno scambio assolutamente naturale che pur parlando di qualcosa di inventato, lascia qualcosa di vero. I due interlocutori si immergono in una conversazione intima e l'ascoltatore ne è rapito, senza saper più riconoscere realtà da finzione. La bellezza del programma, infatti, non è la verità che viene raccontata, ma l'armonia e la grazia del dialogo. Opinioni piuttosto contrastanti quelle delle compagnie sopracitate, eppure tutte entusiaste e immerse nel loro lavoro. All’inizio del progetto la radio era una sorta di esperimento, una risposta a un momento assolutamente inaspettato la cui durata era sconosciuta. Ora, però, si ha una migliore conoscenza delle disposizioni del lockdown e quello che era iniziato come un esperimento, si afferma come una realtà che sta prendendo sempre più forma,nonostante la sua immaterialità fisica, e che non si vuole fermare. La programmazione è stata infatti riconfermata fino al 24 maggio, anche grazie al crescente numero di ascolti e di nuovi artisti che, incuriositi, si sono interessati al progetto, proponendosi di partecipare. Una cantina romana dove si balla, si canta, si approfondiscono conoscenze, fino a diventare un unico Superorganismo che si muove, ma non per forza, per due ore a tempo di musica, inarrestabile, come avviene nel programma a cura di Erika Galli e Martina Ruggeri di Industria Indipendente. Scomodo
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Opinioni un po’ contrastanti quelle che abbiamo raccolto tra le compagnie, sintesi di queste è l'esperienza di Industria Indipendente:<< L’aspetto sonoro è fondamentale in tutte le nostre creazioni. È interessante pensare di creare qualcosa che escluda la vista e la presenza nello stesso luogo. I corpi non sono realmente esclusi, sono da un'altra parte e ascoltano>>. La radio è uno spazio profondo. Uno spazio che si può dilatare o restringere concedendo la percezione della presenza di un corpo attraverso il suono. La fisicità rimane, ma assume una forma differente rispetto a quella a cui siamo abituati. La radio è un medium potente, nonostante spesso sia pensata come un banale sottofondo dei viaggi in macchina. Arriva in maniera più naturale al pubblico rispetto a una performance, eppure mantiene la bellezza e la sincerità tipiche del teatro. Nel programma “Tutt* nell* stess* cas*”, Matteo Angius e Riccardo Festa chiedono a tutti i loro ospiti una parola da aggiungere al “vocabolario della quarantena”. In una puntata, Lorenzo, antropologo di Portland, sceglie la parola freshness, freschezza, che a noi appare calzante anche per descrivere l’intero progetto Radio India. Infatti, ascoltando i vari programmi, quello che colpisce è la piacevole spontaneità degli autori, l’invito implicito ad accogliere la freschezza - a volte nascosta - che ci circonda nella quotidianità, “una vignetta simpatica, la verdura che siamo riusciti a comprare dopo un’ora di fila, gli stati meditativi che ci tengono in riga”. di Carlotta Vernocchi e Gaia Del Bosco
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VIAGGIO NELLE PERIFERIE DI INTERNET / ALFABETIZZAZIONE DIGITALE: A CHE PUNTO SIAMO? / LA REAZIONE DEL SETTORE BANCARIO AL COVID 2019
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VIAGGIO NELLE PERIFERIE DI INTERNET COSA ACCADE NEI FORUM DOVE CI SI ESTREMIZZA
Negli ultimi anni una nuova forma di radicalizzazione ha interessato il dibattito pubblico, quella online. A causa di diversi fatti di cronaca il mondo ha dovuto fare i conti con le nuove modalità di estremismo che un mezzo dalle infinite potenzialità come il web ha saputo creare. La radicalizzazione è un processo psicologico che determina nell’individuo un progressivo coinvolgimento in un sistema di credenze estreme, di cui il terrorismo, di matrice religiosa, ideologica o politica, è solo una delle possibili evoluzioni. Gli attacchi terroristici e gli estremismi che negli ultimi anni hanno sconvolto il mondo hanno ideologie e scopi alla base diversi tra loro. C’è tuttavia un filo rosso che li unisce e li accomuna, i luoghi virtuali dove vengono diffusi: i forum.
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L’ERA DELLE BOARDS In principio, ancor prima della diffusione di quello che ad oggi viene considerato il web, c’erano i forum. Bacheche elettroniche basate sui sistemi di videoconferenza che all’epoca davano la possibilità di conversare su potenzialmente ogni tema. Sin dagli anni ‘70 infatti vennero a crearsi questi luoghi in cui si sviluppò una delle prime rivoluzioni del web. Si arrivò infatti alla fase 2.0 in cui si diede finalmente la possibilità di modificare i contenuti e interagirci. Da questo momento questi luoghi iniziarono a differenziarsi per permettere al pubblico di riferimento di trovare al meglio i contenuti che stavano cercando. Si diffusero le boards, dei veri e propri canali nei quali si poteva caricare qualsiasi tipo di contenuto. Questi forum diversificarono, oltre che i contenuti, anche le modalità di registrazione. Se su alcuni, infatti, per postare un thread è necessario registrarsi e fare un login, condividendo alcune informazioni personali, su altri agli utenti viene data la possibilità di postare contenuti senza dover fare alcun tipo di login, garantendo l’anonimato. Questo è il caso di alcuni imageboard come 4chan, famoso forum creato nel 2003 da Christopher Poole, all’epoca 15enne, sulla falsa riga delle imageboard nipponiche.
4chan Nei primi anni di vita del sito le boards disponibili erano poche, prevalentemente dedite alla discussione e condivisione di manga, anime, hentai e delle loro varie subculture. Con il passare degli anni il sito ha accresciuto il numero di canali disponibili, sulle quali vengono ancora oggi discusse tematiche di ogni genere grazie ai threads, post dove agli utenti è permesso discutere tra di loro. Degno di nota è /b/, canale riservato ai contenuti random, che nel corso degli anni ha dato vita a materiale poi ripostato sulle varie bacheche di Facebook e Instagram. Un vero e proprio laboratorio di meme. I threads, su 4chan, sono soggetti a un sistema automatizzato di cancellazione, detto pruring, che mette in risalto l’ultimo thread creato o quello con la risposta più recente. Se un thread invece non ha più interazioni o se è il più vecchio della board, viene cancellato. Si stima che attualmente un thread su 4chan abbia una vita media di circa 20 minuti. 4chan al contrario di quello che si potrebbe pensare è un forum dotato di moderatori, attualmente non si sa quanti siano, ma nel 2011, in un’intervista su una piattaforma di video sharing giapponese, l’ex proprietario e creatore Poole affermò che il sito era dotato di 20 moderatori volontari e un team di janitors (bidelli), ovvero di moderatori junior. Attualmente sulla homepage del sito si trovano circa 70 boards tra cui figura anche /pol/.
/pol/ /pol/, o Politically Incorrect è la board del sito che tratta notizie, argomenti politici e fatti di cronaca. Diventata tristemente nota a causa di fatti di cronaca associati alla board, venne creata nel 2011 e in poco tempo riuscì ad acquisire grande popolarità sia all’interno del sito stesso, sia sulle piattaforme mainstream. I contenuti che vengono postati su questa board sono molteplici, si passa da meme con riferimenti politici, a discorsi con chiare connotazioni razziste, misogine e islamofobe, passando anche attraverso thread totalmente nonsense.
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Su queste pagine la community ha la possibilità di parlare di qualsiasi cosa anche grazie alla caratteristica peculiare di questi forum: l’anonimato. Il tema dell’anonimato online è centrale nel dibattito pubblico. Sin dagli albori di internet infatti, viste le incredibili potenzialità commerciali che questo strumento avrebbe potuto avere, si tentò di creare un progetto normativo volto alla regolamentazione del web. Dopo diversi anni di tentativi e leggi, le modalità preferite da aziende e governi per far fronte al problema dell’anonimato online si delinearono su due principali procedure tutt’ora in uso. La prima prevede la decrittografia delle comunicazioni e la seconda costituita dalla promozione di leggi e incentivi volti a render l’anonimato difficile o in alcuni casi impossibile. Come nel caso italiano del disegno di legge n.895, presentato dai senatori di Forza Italia il 24 ottobre 2018, nel quale veniva proposto che i fornitori di un servizio online dovessero richiedere, al momento della registrazione di un utente, un documento di identità.
/a/non “Mi sono avvicinato a 4chan e al mondo dei forum online nel 2008, quando ancora andavo alle medie ed è stato abbastanza strano il primo impatto, tant’è che ho passato i primi mesi a non capire cosa stessi leggendo”. A parlare è un a/non italiano che con gli anni ha imparato a convivere con la community e con i contenuti proposti sul sito. “Internet è fortemente centralizzato: tu quindici anni fa avevi tantissimi piccoli siti, adesso ne hai 50 enormi a livello di frequenza. Ai tempi si aveva più possibilità e siti per informarsi su di un determinato argomento, adesso si accede a poche piattaforme e ci si informa tramite quelle”. Il procedimento con cui gli utenti hanno iniziato ad utilizzare internet è cambiato e il monopolio che si è venuto a creare su internet non aiuta di certo le persone che entrano in contatto con questi forum ad esserne un utente consapevole. “Se fino a qualche anno fa, anche solo venire a conoscenza dell’esistenza di questi forum era molto difficile e richiedeva impegno, adesso tu lo trovi su Instagram o Facebook o lo senti nominare su qualche articolo e lo vai subito a cercare”. Proprio il fatto che il sito possa esser raggiunto facilmente da chiunque lo rende molto pericoloso. I rischi maggiori si corrono quando utenti base di altre piattaforme o social network, incuriositi dalla schermata del sito, approdano nelle boards di 4chan, ignari dell’ambiente che stanno per incontrare. “Questi nuovi utenti hanno cambiato sia le modalità di interazione della board, sia i contenuti presenti sul sito. Ma ciò non perché sono arrivati i razzisti, piuttosto perché se arrivi da Facebook o altri social network non hai idea delle dinamiche che dominano il sito e sei facilmente manipolabile e in preda alla gente che tenta di fregarti”. La componente linguistica su questi tipi di forum regola buona parte delle dinamiche che vengono generate al loro interno. La capacità semantica, ovvero la capacità di intuire il significato di un thread, è vitale per capire sia gli argomenti che i fini di chi sta parlando. Ma oltre che l’importanza del linguaggio utilizzato è necessario tenere presente che questi forum sono impregnati di una cinica e confusa ironia che governa ogni azione. Qualsiasi cosa per la community ha senso solo nell’ottica di poterci memare sopra, tutto viene mosso dal divertimento. Non c’è morale su questi siti, c’è solo sarcasmo. Avere ben presente questi due postulati è di vitale importanza e ciò ovviamente si apprende solo dopo diversi mesi di frequentazione: “di solito si dice di non postare prima dei diciott’anni, si dice anche di non postare se sei nei primi 4 anni di lurking (sola lettura)”.
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DAL WEB ALLE STRAGI La chiave di lettura che vede in questi siti solo un covo di estremisti è una generalizzazione parziale delle interpretazioni che si possono dare a questo fenomeno. Tuttavia, è necessario considerare ciò che succede quando le idee espresse su queste piattaforme da virtuali, diventano azioni concrete. Ne sono un esempio gli attentati terroristici di estrema destra avvenuti un anno fa in Nuova Zelanda e in Texas. La strage di Christchurch, in Nuova Zelanda, del marzo del 2019 durante la quale il killer filmò l’attentato condividendo il live streaming in diretta su Facebook, ne è la prova. L’attentatore, Brenton Tarrant, aveva preannunciato la strage sul forum ‘8chan’, un forum creato nel 2013 da un fuoriuscito di 4chan. Dopo il suo arresto su /pol/ venne postata una sua lettera in cui spiegava le ragioni del suo gesto. Stando alle ricostruzioni degli inquirenti, si ritiene che l’attacco fosse stato premeditato due anni prima, grazie alla pubblicazione di un manifesto anti migranti scritto dallo stesso terrorista. Egli dichiarò in seguito di non aver preso parte a nessuna organizzazione ma di essersi confrontato con diversi gruppi nazionalisti e tra questi figuravano le community dei forum. Un altro evento che, stando alle prove raccolte dalle autorità, affonda le sue radici in un’estremizzazione attraverso piattaforme online è l’attentato avvenuto il 3 agosto scorso in un centro commerciale di El Paso, Texas. L’artefice, Patrick Crusius, aveva pubblicato un manifesto da lui scritto su 8chan una ventina di minuti prima dell’attacco. Nel documento, intitolato “La verità scomoda”, espone lo scopo del suo attacco come risposta “all’invasione ispanica”: “Hispanics will take control of the local and state government of my beloved Texas, changing policy to better suit their needs” El Paso è stata per mesi il punto cardine di una grande ondata migratoria proveniente dal Centro America ed è a oggi una città a maggioranza ispanica a causa della sua prossimità con il Messico. Nello stesso documento Crusius dichiara di trarre ispirazione dalla strage di Christchurch e, in particolar modo, dal manifesto pubblicato da Tarrant, dove espone la sua teoria suprematista bianca della “Grande Sostituzione” ispiratasi a Renaud Camus. Quest’ultimo ritiene che le élite dirigenti mondialiste stiano lavorando per sostituire la popolazione europea con immigrati provenienti dal Medio Oriente provocando la scomparsa della “razza bianca” e l’imposizione della religione islamica.
DEMOGRAFIA DEI FORUM Quelli di Christchurch e di El Paso sono solo due esempi dei diversi atti terroristici ispirati e alimentati dal confronto su piattaforme online. Bisogna però considerare che la radicalizzazione non equivale in tutti i casi al terrorismo: molti individui che abbracciano ideali estremisti scelgono di non ricorrere alla violenza e, a sua volta, il terrorismo è il frutto di svariati percorsi differenti, non riconducibili esclusivamente al radicalismo. Stando ai dati diffusi dallo stesso sito in relazione alle opportunità commerciali del forum, gli utenti unici mensili sono circa 27.000.000, la maggioranza delle persone che li frequentano sono uomini di buona educazione, tra i 18 e i 34 anni. Gli utenti provengono in maggior parte da paesi anglofoni, il 47% infatti ha gli indirizzi ip che rimanda agli Stati Uniti, l’8% dal Regno Unito e in percentuali minori utenti che si connettono da Canada, Australia, Germania e Francia. Gli interessi principali dell’utenza sempre secondo questi dati sono principalmente anime, manga e cultura giapponese in generale; passando poi per film e serie tv.
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GLI APPROCCI DELLA PSICOLOGIA Date queste differenze demografiche dell’utenza è complicato tentare di dare una spiegazione psicologica riguardo alla frequentazione di questi siti. Tuttavia molti psicologi e sociologi hanno tentato, nel corso degli anni, di definire le motivazioni che portano queste persone a cercare e trovare un senso di comunità su questi siti. Il fenomeno dell’estremismo è oggi sempre più diffuso tra i giovani. Tra le cause bisogna considerare il cambiamento di prospettiva rispetto ai giovani del passato, espresso chiaramente dalla psicoanalista Paola Bolgiani: “Se una volta il passaggio all'età adulta era la possibilità di scoprire, ora questa barriera si è frantumata. Grazie alla rete tutto si può sapere, tutto si può vedere, e questo significa anche che non si può più credere a niente. Per alcuni, in questo quadro, non c'è che cercare di appellarsi a dei riferimenti autoritari e feroci, che danno l'illusione di proporre degli ideali certi”. Come afferma la psicologa Anita Salvi, coautrice di “Scelte estreme in adolescenza”: “non è internet in sé a causare la radicalizzazione” ma possiamo identificare alcune principali caratteristiche specifiche del web che possono favorire tale processo. In prima istanza vediamo il concetto della “bolla-filtro” descritta da Praiser: un meccanismo secondo il quale i motori di ricerca raccolgono le informazioni relative alle ricerche degli utenti al fine di direzionare e personalizzare la loro esperienza online rendendola coerente con i gusti espressi dalle loro ricerche. Un altro meccanismo è “l’effetto disinibizione” ossia la maggiore disinvoltura delle persone ad esporre sé stessi e il proprio pensiero più di quanto non farebbero offline. A tal proposito l’anonimato gioca un ruolo determinante, quando possibile, poiché consente al soggetto di “modificare la propria identità, riducendo la percezione della propria responsabilità, dall’invisibilità del destinatario delle proprie azioni virtuali e dalla comunicazione asincrona” creando in lui una “sensazione di uguaglianza e parità tra gli utenti, che minimizza la percezione dell’autorità altrui e sdogana comportamenti e comunicazioni inappropriate.” Ciò che può spingere un soggetto a proiettare il piano virtuale in azioni estreme è un meccanismo graduale che trova parzialmente risposta nel processo di integrazione nelle community online. Inizialmente l’individuo esprime un sincero interesse al gruppo ricevendo così l’accesso a informazioni riservate; volta per volta, per dimostrare la propria lealtà e appartenenza, dovrà soddisfare richieste di impegno sempre maggiore. “Man mano che assolve tali compiti, l’individuo modifica progressivamente anche l’immagine di sé, percependosi sempre più come membro attivo del gruppo e sviluppando un’identità sociale che lo induce a conformare le proprie condotte agli ideali e ai valori della comunità con cui si identifica”.
DIVENTARE UTENTI CONSAPEVOLI Stabilire delle “soluzioni” al problema è tutt’altro che semplice. Il campo psicologico stesso segue correnti che esprimo approcci differenti. Nonostante non venga seguita una linea comune è importante la prevenzione nelle scuole. Come afferma la stessa Salvi: “si dovrebbe promuovere la cittadinanza attiva, i valori democratici, il pensiero critico, la diversità culturale, la messa in discussione degli stereotipi, della discriminazione e degli atteggiamenti estremisti, oltre alla capacità di utilizzare adeguatamente le nuove tecnologie, discriminando i contenuti proposti dai media. Inoltre, essa dovrebbe favorire lo sviluppo della resilienza per fronteggiare esperienze di marginalizzazione, della capacità di gestire i conflitti e di resistere alla pressione dei pari.” Di Luca Pagani e Ilaria Sabarino
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ALFABETIZZAZIONE DIGITALE: A CHE PUNTO SIAMO? STORIA E ANALISI DELLE PROSPETTIVE FUTURE DEL PROCESSO DI DIGITALIZZAZIONE DELL’ISTRUZIONE ITALIANI Il DESI (Indice di Digitalizzazione dell'Economia e della Società) è uno strumento di cui la Commissione Europea si serve dal 2015 per monitorare la competitività digitale degli stati membri e valutare come investimenti e policies mirati possono incrementare le performance degli stessi (performance appunto si legge nel testo, mirate non solo alla produttività in senso stretto ma alla facilità di accesso ai servizi e di comunicazione). Nella classifica generale stilata nel 2019 secondo questo indice l'Italia si trova in ventiquattresima posizione seguita solo da Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria. Ci sono cinque fattori che definiscono il risultato complessivo. Il rapporto mostra l'Italia abbastanza competitiva sul profilo della connettività, merito di un salto compiuto dal 2017 che ha colmato l'enorme divario con il resto dei paesi portandoci molto vicini alla media Europea, e sul profilo dei servizi pubblici digitali, esistenti forse, ma quasi sconosciuti, per questo indicati nello stesso rapporto come scarsamente integrati con l'utenza. Non troppo male anche per quel che riguarda l'integrazione delle tecnologie digitali, ossia tutto quel che ruota attorno a e-business ed e-commerce, un po' peggio su due parametri molto rilevanti che hanno molto a che fare con la suddetta integrazione: capitale umano e uso di servizi internet. Il primo si riferisce all'uso di internet e alle competenze digitali dei cittadini, in questo ambito registriamo un aumento troppo lieve di utenti internet e specialisti TIC (quindi di tecnologie per l'informazione e la comunicazione) e una costante flessione dei laureati in materie di ambito tecnico-scientifico. Nella classifica parziale sull'uso dei servizi internet, quindi l'utilizzo di contenuti, canali di comunicazione e transazioni online da parte dei cittadini, l'Italia si posiziona al ventisettesimo posto su 28 stati esaminati. Questi ultimi due parametri, che hanno a che fare con ciò che ci penalizza rispetto ai paesi più virtuosi nell'ambito della digitalizzazione, ove appunto servizi digitali ed utenza sono maggiormente integrati, sono funzionali agli altri tre in quanto parlano del rapporto dei nostri concittadini, di noi stessi, con la tecnologia e dipendono dal fatto che siamo sostanzialmente un popolo di analfabeti digitali. In un mondo che tende sempre più alla digitalizzazione, l'alfabetismo digitale è una skill fondamentale. È complesso definirla organicamente poiché muta con lo sviluppo di nuovi media, è multidisciplinare per sua natura e tende ad avere un significato differente a seconda del contesto: il mondo digitale è infatti variegato e così le conoscenze necessarie a muovervisi dentro. Un linguaggio comune per definirla è stato fornito dal Digital Competence Framework for Citizens, redatto nel 2013 dal Joint Research Service della Commissione Europea. Nel Digicomp, che vuole essere uno strumento volto a migliorare la preparazione dei cittadini nel digitale, sono individuate tre aree di competenza pratica, informazione, comunicazione e creazione di contenuti, e due trasversali, ossia sicurezza e problem solving.
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La necessità di diffondere queste competenze non varia a seconda dell’età se non nei contenuti. I nativi digitali sono sicuramente più abili nell’utilizzo pratico e quotidiano delle tecnologie, specie in ambito comunicativo; i cosiddetti tardivi, al contrario, soffrono la mancanza di questa particolare competenza rendendosi maggiormente esposti all’esclusione sociale. A tutti manca una profonda consapevolezza del valore dell’identità digitale e del rapporto con la tecnologia, anche sotto un aspetto sociale ed emotivo, la capacità di orientarsi all’interno di uno spazio illimitato e la conseguente capacità di valutare correttamente gli input che ne ricaviamo. Il problema dell'analfabetismo digitale è più rilevante in Italia che altrove per la nostra scarsa reattività di fronte alla sfida dell'alfabetizzazione digitale e per l'incapacità di pianificare strategie globali in grado di coinvolgere non solo i nativi digitali ma anche le generazioni più vecchie (che sappiamo costituire la fetta più grande della popolazione), creando importanti lacune in fasce già deboli tra cui appunto anziani e inattivi (anche giovani NEET) che non sono oggetto di proposte in questo senso e perdono così uno dei vantaggi più importanti di questa competenza ovvero l'accesso a una quantità maggiore di contenuti, risorse e forme di apprendimento, perdendo quindi la possibilità di una formazione più profonda.
BREVE STORIA DELLA DIGITALIZZAZIONE DELLA SCUOLA Il processo tuttora in corso d’opera per digitalizzare la scuola italiana, dalla didattica alla burocrazia, è stato logico quanto urgente per un paese che deve rispondere a criteri di modernità e a risultati oggettivi perlomeno sul piano europeo. Proprio in quest’ottica i ritmi del ruolo svolto dal digitale nell’istruzione in Italia sembrano essere molto più lenti rispetto a quelli di altri stati membri. La situazione di crisi in cui la scuola è stata messa dal CoViD-19 e quanto ne è scaturito, un confronto forzato e un’immersione totale in strumenti esclusivamente digitali, può essere considerato come una svolta notevole, che forse fa addirittura ombra su quasi 15 anni di lavoro istituzionale. In questo senso il passo in avanti più concreto, tangibile nella quotidianità scolastica c’è stato nel 2015, con un progetto previsto dal governo Renzi con la legge 107 o della “Buona Scuola”: un rinnovamento dei progetti precedenti nel nuovo “Piano Nazionale Scuola Digitale” (PNSD). Se ne discuteva già nel 2007, con un progetto dal nome sostanzialmente identico che mirava, come riferisce il piano stilato nel 2015: “all'obiettivo principale di modificare gli ambienti di apprendimento e promuovere l’innovazione digitale nella Scuola”. Previste varie fasi, la prima va dal 2008 al 2012, il cui punto più rilevante, tra i 7 di investimenti e iniziative, è stato lo studio di alcuni investimenti per portare le LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) nelle classi delle scuole italiane, con uno stanziamento di circa 93 milioni di euro, 12 dei quali per la formazione dei docenti. “In sintesi, la strategia degli investimenti 2008-2012 ha inteso portare il digitale in classe per rivolgersi a un numero elevato di studenti, indipendentemente dalle discipline trattate.” Un secondo ciclo del piano c’è stato negli anni 2013 e 2014, che è risultato nell’installazione di una connessione Wi-Fi del 97% delle scuole italiane, il cui 3% sono piccole scuole elementari. Inoltre, ha previsto la formazione su richiesta dei docenti (in tutto 26 mila) con uno stanziamento di circa 600 mila euro. Riassumendo, questo è stato il percorso pre-“Buona Scuola”. Il testo del PNSD stesso riconosce come l’Italia nella classifica europea risulti venticinquesima su 28 “con debolezze strutturali in ambito connettività e capitale umano.” Affiancando questa posizione con un numero nutrito di percentuali dell’OCSE che non delineavano una situazione particolarmente più rosea, tutti mediati dal primo vero passo per la digitalizzazione della nostra scuola: “l’Osservatorio per la Scuola digitale” del 2000, che aveva raccolto quelle statistiche con l’ottica di costruire un percorso costruttivo di tecnologizzazione.
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Questi dati drammatici vengono velatamente interpretati come causati da errori nell’approccio, errori di considerazione del ruolo centrale che dovrebbe avere la strumentazione digitale, quindi da errori culturali e di mentalità. Il PNSD del 2015 si articolava su quattro punti: in primis “Strumenti”: cioè “tutte le condizioni che abilitano le opportunità della società dell’informazione, e mettono le scuole nelle condizioni di praticarle”. Il secondo, “Competenze, contenuti”: costruire “una matrice comune di competenze digitali che ogni studente deve sviluppare; sostenere i docenti nel ruolo di facilitatori di percorsi didattici innovativi, definendo con loro strategie didattiche per potenziare le competenze chiave”. Il terzo, “Formazione”: “rafforzare la preparazione del personale in materia di competenze digitali, raggiungendo tutti gli attori della comunità scolastica; promuovere il legame tra innovazione didattica e tecnologie digitali”. Infine, “Accompagnamento”: “innovare le forme di accompagnamento alle scuole, propagare l’innovazione all’interno di ogni scuola” anche attraverso figure come gli “animatori digitali”, ovvero dei docenti che, “insieme al dirigente scolastico e al direttore amministrativo”, avranno “un ruolo strategico nella diffusione dell’innovazione a scuola, a partire dai contenuti del Piano”. Come è logico ne emerge una completa e totale coerenza e sincronia con quella che era la vera e propria legge 107, essendo in fin dei conti una sua diramazione. La comunità scolastica, docenti come studentato, reagirono in gran parte con violenza e rifiuto alla “Buona Scuola”. Non sorprende infatti che nel 2018 all’instaurarsi del governo Giallo-Verde, cambiata la maggioranza, vennero fuori anche i problemi del PNSD. Il suo fallimento, riconosciuto in maniera più attendibile dal mondo accademico che da quello politico, come dal sociologo Marco Gui, docente alla Bicocca di Milano, si baserebbe su una disparità tra i territori, negli investimenti come nei risultati. Nel frattempo, crescendo il dibattito di portata e profondità, a livello europeo come italiano l’esigenza di una digitalizzazione della scuola nei termini in cui era stata concepita è stata messa in dubbio, i governi seguiti a quello Renzi hanno strutturato in modo diverso l’approccio alla digitalizzazione, tanto che dal 2018 al 2019 è stato istituito il “Team per la trasformazione digitale” e, una volta terminato il suo mandato è stato istituito come responsabile di dinamiche di questo tipo il Dipartimento Trasformazione Digitale, delegato al ministro senza portafoglio Paola Pisano. Il dipartimento è attivo dal primo gennaio. L’evoluzione del concetto stesso di digitalizzazione, la sua crescita e la sua maturazione sono visibili e sorprendenti, come, in fin dei conti i progressi fatti.
RAI E DIDATTICA In questo momento di emergenza, mamma RAI riveste la sua funzione didattica modificando il palinsesto e rimpolpandolo di programmi educativi e culturali. Tale funzione è radicata nella sua storia. Pochi anni dopo la sua rinascita come RAI - radiotelevisione italiana, infatti, nel 1961, la popolazione aveva un tenore di vita piuttosto basso e, sebbene il tasso di alfabetizzazione fosse pari al 91,7%, il 42,3% di essa non aveva un titolo superiore alla licenza elementare. Allora, l'intenzione pedagogica della televisione muoveva dalla consapevolezza del partito di governo, la Democrazia Cristiana, del potere educativo dei mezzi di comunicazione e della conseguente possibilità di diffondere i propri valori. Anche le opposizioni, seppur in modo più disomogeneo e talvolta demonizzando l'avvento di questa tecnologia, ne coglievano le potenzialità. L'offerta, volta a colmare le lacune legate all'arretratezza culturale del paese, venne implementata nel tempo ed arrivò a interessare vari livelli educativi, dalla scuola primaria alla formazione professionale e per adulti. La prima proposta importante, poco contestata e molto seguita dal 1954, è stata la “TV dei ragazzi”: un'area del palinsesto dedicata ai più giovani con programmi che spaziavano da cartoni animati a opere teatrali, caratterizzati da una forte connotazione educativa. Quasi in contemporanea nasceva il “Telescuola”, destinato a coloro che vivevano in centri non provvisti di scuole secondarie.
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Tra i progetti più ambiziosi ideati in quegli anni, fu realizzato dalla RAI e dal Ministero della Pubblica Istruzione, il primo incaricato della parte tecnica, il secondo addetto alla gestione una serie di posti d'ascolto (PAT), in luoghi pubblici come oratori, scuole, carceri, in alcuni casi stalle, dove veniva installato un televisore che trasmetteva, per poche ore a settimana, un corso di avviamento professionale tenuto da insegnanti disposti dal ministero e affiancati in studio da alcuni allievi. Periodicamente le lezioni venivano assistite da verifiche, corrette dalla sede centrale del Telescuola e rinviate ai PAT, dove un coordinatore riportava il giudizio agli studenti. Al termine del corso si otteneva un diploma e sebbene il numero totale di diplomati sia stata una magra percentuale dei partecipanti, il pubblico coinvolto fu molto vasto; il programma contribuì certamente alla diffusione di contenuti che altrimenti sarebbero rimasti relegati a grandi centri urbani. Dal '60 al '68, viene proposto in fascia preserale “Non è mai troppo tardi”, rivolto ad un pubblico adulto, anch'esso istituito con la collaborazione del Ministero della Pubblica Istruzione e condotto dal maestro Alberto Manzi. Questo ha avuto un ruolo chiave nel processo di alfabetizzazione, riconosciuto anche da ONU e UNESCO, ed è stato più volte riformulato: nei primi anni Novanta e di nuovo nel 2004 dal canale RAI Educational sotto il nome “Non è mai troppo tardi”, questa volta mirato a combattere l'analfabetismo digitale. C'è da dire che nonostante gli enormi benefici, a causa del controllo della classe dirigente e della passività e dell'impreparatezza degli spettatori, l'impostazione pedagogica impressa alla paleotelevisione non ebbe modo di dispiegare pienamente le sue potenzialità. L’orientamento alla conciliazione di intrattenimento e educazione tese a declinare fino alla fine del monopolio statale: la RAI dovendo a quel punto concorrere con altre reti ha reso la sua proposta più commerciale e forse più povera dal punto di vista culturale, sicuramente non più disposta a ricoprire quella funzione che l’ha fortemente qualificata nella prima parte della sua vita. La RAI, che non ha mai rinunciato totalmente al potere di educare, conservando nel palinsesto canali e programmi dedicati a contenuti e linguaggi educativi, si appresta ora a riconquistare la sua centralità in questo ambito. Il percorso è iniziato il nove marzo, quando i vertici dell'azienda si sono riuniti ed hanno pensato una nuova programmazione per fronteggiare l'emergenza ed affiancarsi ancora una volta al Ministero dell'Istruzione. Un secondo passo è stato fatto poi il ventiquattro marzo, con la firma di una carta di intenti, nel quadro della campagna #lascuolanonsiferma lanciato giorni prima dallo stesso Ministero. La programmazione ad oggi prevede lezioni di supporto alla didattica e lezioni teoriche dedicate a scienze, storia, letteratura ed altre materie scolastiche, distribuite nei canali TV RAI Cultura e RAI Scuola ma anche on-demand su RAI Play. È un obiettivo importante ma solo parzialmente raggiunto perché non sufficientemente pubblicizzato. Quali metodi, quali iniziative possono, anche fuori dalla parentesi emergenziale, indirizzare il servizio pubblico televisivo a proporre una programmazione sempre più volta all'arricchimento e alla valorizzazione culturale del pubblico se non il potenziamento delle già collaudate sinergie con il Ministero dell'Istruzione e il MiBACT? La speranza è che ad esse si affianchino anche atenei, associazioni e altre realtà culturali, per migliorare l'offerta e allontanare la televisione da quella logica di mercato che l'ha sottratta alla sua responsabilità educativa. È necessario impostare un cambiamento in questo senso, perché anche quando la televisione smette di insegnare non perde la sua funzione pedagogica dal momento che presenta modelli e stili di riferimento facilmente riproducibili nel quotidiano. Di Ismaele Calaciura Errante e Andreana Urbano
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LA REAZIONE DEL SETTORE BANCARIO AL COVID 2019 IL RUOLO DELLE BANCHE NELLA TRASFORMAZIONE DELLA SOCIETÀ AGLI ALBORI DELLA CRISI L’esplosione del Coronavirus ha trovato un mondo fortemente segnato dalle differenze di carattere economico e sociale. Le anomalie finanziarie, le speculazioni, gli strumenti instabili e caratterizzati da un'elevata volatilità, il rating poco al di sopra della spazzatura incentivato da numerosi istituti bancari e tanti altri fattori, hanno influito sulla società globale, causando spesso una frattura tra economia reale e finanziaria. Le società europee ottengono più di due terzi del loro credito sotto forma di prestiti bancari, dato estremamente rilevante se confrontato con quello delle imprese americane che ne ottengono meno di un terzo. Dunque, una crisi del sistema bancario può velocemente andare ad intaccare il motore produttivo del Paese nella sua totalità. È doveroso precisare che le conseguenze più gravi di questa crisi inaudita interessano l’economia reale: la contrazione dell’attività economica, dovuta all’arresto forzato della domanda di mercato, apre a questioni inedite. Oggi la soluzione efficace può essere una sola: mettere in campo misure economiche comuni, omogenee, puntuali, che siano in grado di risollevare le economie dei paesi fornendo credito alle imprese in un’ottica di crescita e sviluppo sostenibile sul medio e lungo termine. La crisi attuale prende piede in un contesto in cui la finanza è fortemente indebitata, in cui il debito globale è ai massimi storici, in cui la sua variazione non è allineata alla crescita del prodotto interno lordo globale. Alcuni economisti prevedono che l’economia europea subirà una crisi di oltre il 10% nella prima metà di quest’anno a causa della pandemia, minacciando una nuova esplosione di crediti in sofferenza, un deterioramento delle attività e il crollo dei prezzi delle azioni. In Italia il settore bancario non si è mai totalmente ripreso dalla crisi del 2008. Il credito concesso alle imprese tra il 2001 e il 2008 è cresciuto del 70%, per poi contrarsi negli anni successivi di oltre il 30%.Tuttavia la pandemia è arrivata in un momento in cui l'ansia accumulata nei confronti delle banche italiane stava calando, con una ripresa di fiducia nel credito. Le sofferenze totali nel sistema (insolvenze) sono infatti diminuite da 350 miliardi di euro nel 2015 a meno di 200 miliardi di euro alla fine del 2018 (i dati più recenti), secondo i dati di Banca d'Italia. Il direttore generale di Banca Popolare Etica, agli inizi di marzo, svolge un webinar incentrato sulla reazione delle banche dinanzi all’emergenza. La riflessione iniziale è fondamentale per comprendere il contesto nel quale si trovano ad operare gli istituti bancari durante la crisi. Le banche in Italia oggi sono molte meno rispetto al passato: se nel 1999 erano 1000 oggi sono formalmente 500, ma di queste trecento, per effetto delle riforme sulle banche di credito operativo, rispondono a due grandi gruppi bancari. In meno di vent’anni si è passati da 1000 a 200 di autonomi nel mercato. In questo contesto di concentrazione del sistema, è cambiata radicalmente l’ossatura del sistema bancario, con un decremento del numero degli sportelli nonché un mutamento della concezione del presidio fisico come strumento centrale nel modello imprenditoriale. Ciò rischia di andare a discapito della relazione banca-cliente, escludendo alcune fasce di popolazione dall’accesso ai servizi e rivelando anomalie sia dal punto di vista dell’efficienza che da quello dell’equità.
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MISURE ATTUATE DAL GOVERNO PER L’ECONOMIA Le misure messe in campo dal governo sono maturate in un contesto in cui l'intera economia della Zona Euro si trova in pesanti difficoltà, consentendo quindi di ricorrere alle norme, di natura sia interna che comunitaria, degli aiuti di Stato per sostenere l'economia. Poco meno di un mese dopo il “Cura Italia” si è giunti ad un nuovo decreto, denominato “Decreto Liquidità”. L’associazione bancaria italiana ABI recepisce la misura e fornisce agli associati istantanee comunicazioni e segnalazioni in continuo aggiornamento, ribadendo l’importanza di introdurre ponderose misure a sostegno della liquidità delle imprese danneggiate dall’emergenza, in un'ottica di rafforzamento della capacità di resilienza del settore produttivo. Tuttavia, come è facilmente immaginabile, le coperture finanziarie per queste massicce operazioni ancora non ci sono. Quindi per il momento i 200 miliardi previsti all’art 1 del decreto liquidità sono un impegno finanziario e non uno stanziamento effettivo di risorse. In generale, le misure si possono classificare in misure a sostegno delle famiglie indebitate e in interventi a sostegno della liquidità delle imprese. Più complessi, e in alcuni casi controversi, sono proprio questi ultimi. Innanzitutto è prevista una moratoria straordinaria sui crediti attivi delle PMI, nonché delle microimprese e dei lavoratori autonomi, consistente in un congelamento delle rate dei mutui e dei canoni di leasing. Per quanto riguarda invece l'accesso al credito, il sostegno si traduce in un credito, non superiore al 25% del fatturato del 2019, coperto da un fondo di garanzia statale. La garanzia per le medie e grandi imprese è fornita attraverso SACE e si attesta attorno al 7090%, in base alle dimensioni dell’impresa. Nel particolare, per quanto riguarda le attività economiche di più ridotte dimensioni, in un’ottica di tempestività nel fornire il credito, è stato attivato il portale del fondo di garanzia PMI, per l’inserimento da parte delle banche delle richieste di garanzia del 100% sui finanziamenti bancari fino ai 25.000 euro. Le suddette misure si rivolgono alle imprese che non si ritrovano con esposizioni deteriorate nel momento di entrata in vigore del decreto, e che dimostrino temporanee carenze di liquidità.
LUCI E OMBRE NELL’EROGAZIONE DEI CREDITI Concedere credito, con garanzia dello Stato, all’interno di un quadro in cui il debito cresce costantemente è un rischio. Considerando che non vi è ancora una visione chiara della fase post crisi e auspicando la necessità della nascita di una coscienza sociale in senso ampio, il rischio si può manifestare nel concedere crediti ad asset potenzialmente già morti, bruciando miliardi e trasformandoli in debito che graverà sulla nostra economia per i prossimi decenni. Per quanto riguarda invece la moratoria, la possibilità che serva prorogare le scadenze di congelamento delle rate è palese: ciò però porterebbe ad un aggravarsi della salute del sistema bancario che si troverebbe in poco tempo a dover fronteggiare un numero potenzialmente molto elevato di crediti deteriorati. Infatti, come si può ricavare dall'intervento di Banca Italia, in sede di commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario, lo shock macroeconomico generato dalla pandemia da potrebbe generare un forte aumento del tasso di deterioramento dei prestiti. Dall’altra parte il danno può essere fatto a quelle imprese che non riescono ad accedere ai crediti per la loro situazione definita di sofferenza. La definizione di credito deteriorato è piuttosto complessa ed è ricavata da una lettura combinata della disciplina comunitaria, degli orientamenti tecnici dell’Autorità bancaria europea e delle relative circolari di Banca d’Italia. I crediti deteriorati consistono in esposizioni verso soggetti che non sono in grado di adempiere in tutto o in parte alle proprie obbligazioni contrattuali. “La profonda e prolungata recessione che ha colpito l’economia italiana negli ultimi decenni e la lunghezza delle procedure di recupero dei crediti hanno concorso a determinare un elevato numero di crediti deteriorati nel sistema bancario italiano”, commenta in un comunicato del 2018 Banca Italia.
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Nel particolare, tra i crediti deteriorati rientrano le “sofferenze”, che sono l’unica causa di esclusione delle misure di sostegno previste dai decreti suddetti, sono esposizioni verso soggetti in stato di insolvenza o in situazioni equiparabili. A dicembre del 2018, dei 173 miliardi di crediti deteriorati, 81 miliardi erano classificati come sofferenze. Alla fine del 2019 i prestiti deteriorati sul totale dei finanziamenti, al netto delle rettifiche di valore, erano scesi al 3,3%. Percentuale decisamente in calo rispetto agli anni precedenti, dal massimo del 9,8% del 2015. Tuttavia in un periodo così complesso per la stabilità finanziaria del paese il dato non può che essere preoccupante: chi si ritrova in uno stato definito di sofferenza non può accedere al credito, senza il quale il futuro dell’attività economica è sicuramente ancora più oscuro. Se la crisi persiste, molte aziende italiane potrebbero trovarsi a corto di utili necessari per rimborsare i loro prestiti. Ciò potrebbe indebolire i bilanci bancari fino al punto di crisi, e restringere ulteriormente i campi di applicazione delle misure. "Siamo in grado di resistere almeno per qualche tempo", ha detto Wim Mijs, amministratore delegato della European Banking Federation sul New York Times, "Se fermerai l'intera economia per sei mesi, beh, allora dovremo vedere”.
UNA CONCLUSIONE CON UNO SGUARDO AL TERZO SETTORE Per quanto riguarda le misure suddette, in accordo con il modello comunitario, non è necessaria una particolare forma giuridica: tutte le realtà non profit possono beneficiarne. Tuttavia secondo noi è necessaria l'individuazione di strumenti ad hoc per il terzo settore, che possano andare oltre le semplici dinamiche dell'erogazione dei crediti e della moratoria, e che guardino anche alle realtà che non svolgono un'attività prevalentemente economica. Su questo tema si è espressa la Presidente dell'istituto Banca Etica, Anna Fasano, affermando il bisogno di “avere la capacità di analizzare le esigenze economiche delle diverse organizzazioni e distinguere tra quelle legate alla situazione attuale da quelle legate allo stato di salute delle diverse realtà – siano associazioni, cooperative, imprese sociali”. E’ necessario fare rete, allargare i canali di ascolto e mettere al centro i bisogni e le esigenze della comunità. Il fenomeno di concentrazione precedentemente affrontato ha portato ad una tendenza di chiusura dei canali di ascolto con i cittadini, a una situazione in cui è più complicato definire le concrete esigenze delle associazioni e delle organizzazioni limitando così inevitabilmente il campo di azione delle misure in atto. “Mai come in questo momento è necessario fare rete, mettere al centro i bisogni e le esigenze della comunità”, prosegue Anna Fasano, “Serve una finanza che accompagni il Terzo Settore in termini di credito, metta a disposizione Fondi Impact che sostengono imprese a vocazione sociale, percorsi di microcredito per piccole imprese. Non solo, abbiamo anche l’opportunità di valorizzare i circuiti complementari e di utilizzare piattaforme di crowdfunding e di equity crowdfunding. Molti sono stati catapultati in un mondo tecnologico che fino a poco fa non gli apparteneva, facciamolo diventare strumento per ampliare le modalità di contatto e recuperiamo il concetto di “vicinanza”, conclude. Viviamo in un momento di transizione, in cui la filosofia della ripartenza è ancora tutta da definire, la speranza risiede nella costruzione di nuove fondamenta per l’economia attorno ai concreti bisogni dei cittadini. La crisi apre dunque anche a delle opportunità per il sistema bancario: alcuni assetti ed equilibri verranno messi in discussione non con effetti esclusivamente negativi, si potranno ripensare le esigenze finanziarie ed economiche della società in un’ottica di ricostruzione e conversione, con l’intento di delineare una cornice in grado di ragionare al di là dell’emergenza. Di Lorenzo Cirino
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Scomodo
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Art director Maria Marzano Artwork Frita
Illustratori Spesimo pag. 18 / 20 / 21 / 23 / 42 / 58 / 59 / 60 / 61 / 62 / 63 Dadinski pag. 26 / 27 / 29 Gionatella pag. 30 / 33 / 34 / 35 / 36 / 38 / 72 / 73 / 76 / 77 / 78 / 79 / 80 /81 Luogo Comune pag. 50 / 51 / 52 / 53 / 54 / 55 / 56 / 57 Luchadora pag. 64 / 65 / 68 / 69 / 71 Maria Marzano pag. 82 / 83 / 84 / 85 / 86 / 87 / 88 / 89
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