INQUINANTI
VOLUME 2 PUBBLICITÀ E CONSUMISMO
Scomodo n°36
EDIZIONE SPECIALE
€ 0,00
Mensile indipendente di attualità e cultura
Responsabile Editoriale Edoardo Bucci
Copertina Frita
Artwork Maria Marzano
Hanno collaborato alla realizzazione del volume: Gaia del Bosco, Lucia Necchi, Alberto Frigerio, Antonio Mariella, Brigitta Mariuzzo, Federica Fiorilla, Francesca Romana Miti, Anna Quatela, Ariel Castagneri, Francesca Quadri, Elisabeth Pizzicaria, Viola Folignoli, Eleonora Varriale, Isabella Gabrieli, Gloria Bernardi, Corinna di Petrillo, Francesca Rosa, Erika Ravot, Luigi Bonacina, Elisa Sabbioni Anelli, Ginevra Falciani, Sara Quattrocchi Febles, Iris Tripodi, Matilde Balboni, Nicoletta Conforti, Federica Carlino, Federica Scannavacca
Questo numero è stato realizzato anche grazie al contributo di: Tommaso Salaroli, Tommaso Proverbio, Samanta Zisa, Lorenzo Cirino, Alma Fogu, Arianna Campanelli, Ettore Iorio, Soda Marem Lo, Francesco Sampietro, Carlo Giuliano, Silvia di Benedetto, Giulia di Donato, Chiara de Felice, Pietro Antonini, Giorgia Carlomagno, Edoardo Carraro, Tancredi Paterra, Francesco Fumagalli
Registrazione Tribunale di Roma n.218/2016 Direttore Responsabile: Barnaba Maj Stampa O.GRA.RO. Srl Vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma Chiuso in tipografia 1 / 12 / 2020
Responsabili di sezione Capitolo I: Marta Bernardi Capitolo II: Chiara Lettieri Capitolo III: Francesco Paolo Savatteri Capitolo IV: Edoardo Anziano Capitolo V: Pietro Forti
L’
→ I primi due decenni del XXI secolo hanno celebrato il trionfo del consumismo digitale. Piattaforme di e-commerce, intelligenza artificiale, personalizzazione dei servizi di acquisto sono solo alcune fra le innovazioni favorite dall’applicazione di servizi online al fenomeno dei consumi di massa. Questo processo, nel contesto più generale della digitalizzazione dei servizi, sta avendo una portata epocale, e non a caso si è parlato di quarta rivoluzione industriale. Una rivoluzione con un impatto ambientale senza precedenti nella storia umana. Il consumismo, secondo la definizione Treccani, è un fenomeno di “acquisto indiscriminato di beni di consumo, suscitato ed esasperato dall’azione delle moderne tecniche pubblicitarie, le quali fanno apparire come reali bisogni fittizi, allo scopo di allargare continuamente la produzione”. E i dati mostrano quanto il sistema economico sia supportato da un consumismo radicale, senza precedenti per intensità, volume e stabilità. Ogni anno nella sola Unione Europea vengono prodotte 78 milioni di tonnellate di plastica. Quanto basta affinché, nel 2050, la plastica presente negli oceani pesi più dei pesci che vi nuotano. E ancora, ogni anno, sprechiamo 88 milioni di tonnellate di cibo, pari a 173 chilogrammi per ogni cittadino UE. Si stima che, entro il 2030, la domanda mondiale di cibo aumenterà del 35%. Il progresso tecnologico dell’età contemporanea, iniziato a fine ‘700, mostra oggi il suo volto più distruttivo. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Rispetto al 1830, l’utilizzo di energia nel decennio scorso è aumentato di 25 volte e, spinto dalle implacabili leggi della società dei consumi, ha toccato la cifra record di 500 quadrilioni di BTU (british termal unit) nel 2010. Secondo i dati della Commissione Europea, fra soli 10 anni la domanda di risorse supererà del 100% la capacità della Terra di rigenerarsi: questo significa che, nel 2030, avremo bisogno di due Terre per soddisfare i nostri bisogni, “se il nostro comportamento e i nostri modelli di consumo non cambieranno”. È in una contemporaneità in cui produciamo e consumiamo beni per il doppio degli abitanti del pianeta, che la sfida sul contrasto ai cambiamenti climatici si gioca sulla riduzione dei consumi. La continua domanda da parte dei consumatori di nuovi oggetti, spesso a prezzi contenuti per poterne acquistare una quantità maggiore, alimenta una catena insostenibile in tutte le sue fasi. 3
→ Partendo dalla scelta dei materiali e dalle necessità di produzione, passando per le modalità di imballaggio e trasporto degli oggetti acquistati online, fino al consumo e quindi poi allo smaltimento di molti prodotti, l’impatto ambientale di ogni acquisto è sempre più alto. In tutti i settori presi in esame nel numero di Inquinanti, i profitti in crescita mostrano una domanda che sta continuando a salire, rinforzata dai mezzi pubblicitari che garantiscono lunga vita a questo modello. Ciò vale qualunque sia il prodotto sponsorizzato, che sia intrinsecamente inquinante o meno, che sia pubblicizzato direttamente attraverso uno spot ecologicamente consapevole o che sia supportato indirettamente da una campagna green. La scelta, da parte di molte aziende, di enfatizzare una nuova consapevolezza ambientale su singoli e specifici aspetti della catena del valore, non ha come obiettivo quello di occuparsi della sostanza del problema, quanto più di migliorare la percezione che i consumatori hanno di questo sistema. Questo meccanismo apparentemente inscalfibile si è instaurato anche grazie agli apporti della rivoluzione nei consumi causata, come già detto, dal commercio online. Il vantaggio principale in termini di competitività commerciale è stato raggiunto da multinazionali capaci di portare su un livello del tutto nuovo il funzionamento stesso dell’infrastruttura pubblicitaria. Il web, da step decisivo per il processo di democratizzazione del mondo, è divenuto il campo prediletto dalle aziende per la pubblicizzazione dei propri prodotti. Questo anche grazie a nuove tecniche che hanno esponenzialmente aumentato la pervasività e l’efficacia delle pubblicità all’interno della vita della popolazione globale. 4
Il tracking delle fasce vulnerabili di popolazione e il profiling dell’utenza web globale per la creazione di advertisment personalizzate sono solo le ultime armi che il capitalismo consumista ha inserito all’interno del proprio arsenale, rafforzando ancor di più un’egemonia che, oggi più che mai, appare incontrastabile. La caratteristica più infida di questo nuovo modello di consumo online è la passività dell’utente di fronte alla propria profilazione, vero e proprio strumento di ingerenza da parte delle aziende. Questa tendenza, che a livello teorico dovrebbe essere regolata dall’ apparato legislativo pubblico, non viene efficacemente normata dalle direttive nazionali o europee e a farne le spese sono consumatori e ambiente. Comprare di più significa anche profilare di più, ed entrambe le azioni hanno un impatto ambientale e sociale enorme. L’ipoteca del tempo passato davanti agli schermi, a danno dell’utente e a favore delle aziende, è indicativa di una fase che sembra sempre di più un medioevo dell’era digitale. Una fase storica che sviluppa a tutti gli effetti meccanismi di potere ed egemonia quanto mai vasti. Il meccanismo tradizionale, per quanto rinnovato e rafforzato, spesso si trasforma in ricatto. Il benessere economico, secondo questo meccanismo, non potrebbe che poggiare sulla distruzione del pianeta, e qualsiasi cambiamento nel paradigma della produzione porterebbe a un disastro dal punto di vista occupazionale. Colossi come Amazon danno impiego a centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, alimentando tuttavia meccanismi di occupazione dannosi per il lavoratore ed esternalizzando gran parte delle spese. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Senza contare, poi, i danni provocati ad altri settori, che in Italia vengono continuamente richiamati come “spina dorsale” dello sviluppo economico italiano. E tuttavia, nel meccanismo consumistico, ciò non può che contare nulla. Su qualsiasi aspetto della catena di consumo (e perciò di inquinamento), i colossi che scandiscono i tempi dello sviluppo e del consumo stesso sono troppo più competitivi. Così, facilmente, qualsiasi rivendicazione di giustizia - tanto ambientale quanto occupazionale - viene percepita come una sorta di “vizio”, e non come un appello fondamentale alla salvaguardia del genere umano. Dunque il ruolo del consumatore, che sia consapevole o meno della propria posizione, è sempre più passivo e automatico. Anche a causa del cosiddetto fenomeno del “green attitude-behaviour gap”, che pone chi consuma tra due termini di acquisto: il dilemma sullo scopo etico del prodotto e la massimizzazione dell’interesse personale dello stesso. A tal proposito, il sociologo R. Jenkins sostiene che l’identità sociale coincide con “la capacità umana, radicata nel linguaggio, di sapere chi è chi. Ciò significa sapere chi siamo, sapere chi sono gli altri, sapere che essi sanno chi siamo noi, sapere che noi sappiamo cosa essi pensano che noi siamo”. L’identità si costruisce in relazione con la società e la cultura e, di conseguenza, culture diverse produrranno etichette e identità differenti. È in questo modo che il linguaggio mass-mediale diventa una pratica sociale, nella quale le identità sono processi che costituiscono e ricreano i soggetti, che agiscono e parlano nell’universo sociale e culturale, sono costruite all’interno del discorso e non al di fuori. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Questo è il fulcro: le identità diventano il frutto di una dinamica di potere e, a volte, anche di logiche di esclusione e differenza. Affianco alla costruzione del processo identitario del consumatore del ventennio, esiste la vulnerabilità - intesa come la quantità di stress che quotidianamente viviamo e come questo stress derivi dalla società - comune a certe fasce e il modo in cui la pubblicità le strumentalizza. Il consumatore dunque diventa vulnerabile in base alle esperienze comuni, nel momento in cui c’è il rischio che un agente esterno agisca sullo stato interessato della persona stessa. Il rapporto tra l’individuo e la pubblicità ricopre una dimensione di importanza cruciale per chi vive nella nostra epoca, con ripercussioni vastissime sulle nostre scelte e il nostro stile di vita, soprattutto in momenti chiave per la società e per l’individuo, come la pandemia che stiamo vivendo.
→ Il volume che avete tra le mani, frutto di un lavoro articolato di ricerca e reso possibile grazie al confronto e al supporto economico di Greenpeace Italia, si pone l’obiettivo di contribuire a un’analisi riguardo la complessità di fenomeni che determinano in maniera sempre più massiccia le nostra vite. Fenomeni che, per la loro stratificazione, non possono essere rinchiusi in tensioni parziali, ma hanno bisogno di un processo di analisi ampio, che investa gli ambiti più diversi delle nostre società.
Una complessità storica che, come redazione Under 25, non abbiamo la presunzione di saper comprendere a pieno, ma per cui rivendichiamo la responsabilità di una presa di coscienza profonda e radicale. 5
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SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Capitolo I
BUCHI NELLA RETE → La violazione della privacy degli utenti è uno degli strumenti più utilizzati per generare overconsumption e questo accade perché non esiste ancora una regolamentazione efficace dell’ e-commerce
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INQUINANTI VOL.1 | NOVEMBRE 2019
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Il dato è tratto
Agli albori di Internet, nel 1996, John Perry Barlow pubblicò online la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio, uno scritto nel quale il web veniva immaginato come il luogo del futuro, gestito nel nome della libertà e dell’uguaglianza da una “civiltà della mente più umana e più giusta del mondo costruito sinora dai governi”. Barlow era solo uno dei molti accademici a celebrare il culto di Internet – che aveva appena iniziato a diffondersi nelle case degli utenti comuni – e in quegli anni era ancora impossibile pronosticare l’ingerenza tentacolare che le big tech avrebbero avuto oggi sui nostri dati. Nel tempo la fruizione del web si è trasformata dal modello stimolo-risposta del semplice scambio di mail in un’esperienza totalizzante, che necessita una presenza trasversale su Internet, dove però SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
viene tracciato il minimo movimento dell’utente. Gli algoritmi di Google sono tra i più pervasivi, perché attingono a un account vastissimo che funge da base dati principale per le miriadi di inserzioni che compaiono sui social. È possibile scaricare i propri dati per averli a portata di mano, ma per impedire la raccolta delle proprie informazioni si è praticamente obbligati a rinunciare ai benefici del proprio account navigando in incognito, cancellando quotidianamente la cronologia e disabilitando la posizione del dispositivo. Facebook ha un controllo ancora più capillare sui propri clienti, dal momento che ha accesso anche ai metadati, alle informazioni relative ai device sui quali viene utilizzato e anche ai dati forniti da app e siti partner. Un’indagine del New York Times del 2018 ha messo in luce l’opacità degli accordi tra big tech, rivelando come Facebook avrebbe consentito ad oltre
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150 aziende partner – tra le quali figuravano Apple, Spotify, Netflix e Amazon – di accedere ai propri dati, violando il divieto di condivisione senza l’autorizzazione esplicita degli utenti. Le numerose diramazioni nei settori più disparati permettono invece alla creatura di Jeff Bezos di accedere anche a informazioni relative all’affidabilità creditizia e credenziali private pronunciate davanti ad Alexa. Come per Google, gli utenti che vogliono preservare la propria privacy devono rinunciare a una buona parte dei servizi di Amazon, trovandosi davanti a una barriera invisibile verso la quale non esercitano il minimo controllo. Il passo successivo è lo sfruttamento di questi dati – che vengono gestiti da agenzie apposite chiamate data broker – per il targeting, la comunicazione di annunci commerciali o messaggi politici, tanto più efficaci quanto maggiore è il loro tasso di ricezione.
Gli utenti target, ai quali le aziende vogliono rivolgersi, sono quelli maggiormente portati a interagire con le inserzioni sponsorizzate sui loro feed online. Secondo il Digital Report 2020 pubblicato da We Are Social e Hootsuite l’87% degli utenti internet italiani cerca prodotti online e il 77% di loro conclude la propria ricerca con l’acquisto. L’utilizzo del machine learning ha poi permesso tramite il data mining di evidenziare connessioni inferenziali tra dati apparentemente scollegati, profilando i consumatori in cluster iper-specifici su cui fare riferimento per le campagne di marketing mirato. È quello che viene chiamato micro-targeting comportamentale, una tecnica commerciale personalizzata che può aiutare i consumatori a trovare sconti, ma che al contempo può sfruttare la profilazione degli utenti in base alla loro capacità di spesa per tarare offerte squilibrate e discriminatorie. 9
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Un settore commerciale che ha beneficiato particolarmente della profilazione algoritmica è quello del digital food delivery, che in Italia nel 2020 ha prodotto un valore complessivo di mercato tra i 700 e gli 800 milioni di euro. Un’ascesa vertiginosa che è stata favorita da una policy basata su sfruttamento dei dipendenti e commissioni aggressive, arrecando un danno significativo alle piccole-medie imprese (vedi Il gioco dei grandi). Ma se JustEat ha sfruttato il proprio database per delineare una Mappa del cibo a domicilio nel nostro paese, l’altro lato della medaglia è l’invasività della raccolta di dati sensibili nelle app di delivery che ha portato l’Autorità garante per la privacy ad avviare nel giugno 2019 un’istruttoria sul trattamento dei dati personali nei confronti di Deliveroo. 10
La gestione che quest’ultimo, così come Glovo, Uber Eats e JustEat fanno delle informazioni degli utenti è infatti lacunosa e poco trasparente. Nessuna delle app citate dispone di protocolli di sicurezza completi contro registrazioni errate o login sospetti e tutte possono essere collegate a Facebook, con il rischio di un’assimilazione di dati provenienti da entrambe le parti. Le storture di queste piattaforme riescono a coprire l’intero spettro normativo, da Glovo che richiede l’accesso a contatti e memoria interna – oltre ad avere un’informativa della privacy tradotta male – fino a JustEat e Deliveroo che non specificano la durata di conservazione delle informazioni nei propri server. Nei paesi asiatici alcune ricerche hanno poi evidenziato una correlazione positiva tra
food delivery e le conseguenze ambientali dell’overconsumption da cibo. Uno studio pubblicato nell’agosto del 2020 dal gruppo editoriale Springer ha rivelato che solo in Cina ogni ordine può immettere nell’atmosfera 111 grammi di CO2 e che l’86% di questa emissione è dovuto al packaging alimentare. La crescente popolarità di questo settore anche nel nostro paese sta quindi accrescendo ulteriormente l’inquinamento e la dispersione di plastica nell’ambiente. Sospinti da due correnti alternate, tra la volontà di preservazione della propria privacy e l’intrusione continua dei colossi del web nelle loro vite, gli utenti di Internet si trovano così in preda ad una contraddizione, ad una sorta di paradosso della scatola nera. È loro interesse poter sfruttare al massimo delle loro capacità piattaforme
come Google, Facebook e Amazon, ma questa scelta li costringe ad un trade-off negativo. Se la raccolta dei dati è solitamente soggetta a un consenso, l’accesso a questi stessi dati è il più delle volte proibitivo, con il risultato di un flusso di informazioni, immagini e parole unidirezionale, rinchiuso in un contenitore difficile da forzare, come la scatola nera di un aeroplano. Questa situazione asimmetrica può determinare classificazioni errate degli utenti e accentuare una discriminazione algoritmica nei confronti delle categorie più vulnerabili. La contemporanea ascesa del dynamic pricing potrebbe aiutare a scavare un solco sempre più profondo tra le varie fasce di consumatori, determinando un disallineamento etnico, geografico ed economico al quale sarebbe sempre più difficile opporsi. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
I confini di legittimitá Flussi di persone e merci continui, in entrata e in uscita, continui stimoli visivi, centinaia di offerte ed annunci apparentemente identici, confusione generale: per certi versi il mercato dell’e-commerce ha più in comune con un gran bazaar piuttosto che con il commercio al dettaglio tradizionale. Lo stesso vale per l’atteggiamento dei venditori, che per conquistare il potenziale cliente devono riuscire a capire con un colpo d’occhio chi è e quanto è disposto a spendere. Certo, se un rivenditore di Istanbul ha a disposizione solo i suoi occhi, il retailer online ha accesso ad una quantità di informazioni diversa, ma per quanto istintivamente possa suscitare (giustificate) preoccupazioni, la tecnica del dynamic pricing di per sé non è né nuova né illegittima, anzi. Da una prospettiva prettamente economica, la possibilità di adottare prezzi elastici tarati sul micro-profiling permette al venditore di proporre l’offerta giusta al momento giusto, e al consumatore di ottenere un prezzo personalizzato, non di rado più conveniente, ottimizzando di fatto il rapporto tra domanda e offerta. La ragione dell’efficienza non basta tuttavia a sgombrare dalle preoccupazioni di ordine etico e giuridico: chiedere al diritto alla privacy di fare un passo indietro comporta una serie di inconvenienti soprattutto se trattiamo di tecniche SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
che, come la targettizzazione, si affidano a processi decisionali automatizzati, ovvero sistemi che senza un coinvolgimento umano restituiscono un output sulla base dei dati forniti. Innanzitutto il consumatore è facilmente inconsapevole della sua appartenenza a un micro-profilo, o della proposta di beni e di prezzo che ne deriva, ma soprattutto il rischio è di cadere in meccanismi che perpetuano pratiche discriminatorie e segregazione sociale. Per non cadere in simili eventualità è indispensabile tutelare la privacy, e il legislatore europeo si è mobilitato con una delle normative più avanzate del settore, tanto che le preoccupazioni appena espresse si possono leggere nelle premesse del Gdpr e delle linee guida sulla profilazione. Il nuovo regolamento Europeo entrato in vigore in Italia lo scorso 19 Settembre 2018 (D. lgs. 101/2018) segna una grande svolta per la disciplina comunitaria sul trattamento dei dati personali, è in grado in particolare di mostrarci il livello di adeguatezza dei rimedi di tutela offerti dal legislatore, che possono e devono giocare nella scacchiera del digitale un ruolo decisivo. In via generale però, il regolamento non pone un divieto assoluto riguardo a processi decisionali automatizzati come il dynamic pricing. O meglio, il loro uso legittimo è limitato a tre casi, di cui solo uno adatto alla profilazione: il consenso dell’utente.
Percorrere la via del consenso informato, per qualsiasi trattamento dei dati, si traduce in un obbligo di trasparenza a carico del provider, che dovrà predisporre un disclaimer in cui evidenziare con un linguaggio comprensibile e completo le informazioni raccolte, la logica con cui vengono processate e l’incidenza che hanno sulla proposta di prodotti e prezzi, nonché le possibilità di rifiutare il trattamento. Il quadro normativo qui sceglie la via della responsabilizzazione interna, lasciando il ruolo del protagonista al DPO (Data Protection Officer), vera e propria nuova figura professionale che con competenze tendenzialmente giuridiche e informatiche può essere incaricato come soggetto terzo dal responsabile del trattamento dei dati per organizzare e gestire a norma del GDPR l’architettura destinata a proteggere i dati sensibili. Avendo molteplici ruoli, il DPO è anche quella figura che rimane aggiornata su tutti i provvedimenti normativi che vadano a influire sulla disciplina dei dati. L’assunzione di questa figura da parte delle aziende si rende necessaria qualora queste ultime trattino dati su larga scala in modo sistematico e continuativo. Pur avendo una grande responsabilità in termini sociali, il DPO non presenta ad oggi l’adeguata attenzione normativa che meriterebbe.
La normativa prescrive infatti che l’officer possa essere assunto sia esternamente che internamente all’azienda; il rischio è che avendolo delineato come figura essenzialmente privata ed eventualmente proveniente dall’interno si sia portati, per la ricerca del risparmio sempre presente nell’attività di impresa, ad approcciare gli adempimenti previsti dal GDPR come si approccia quelli burocratici, rendendo sbrigativo e il meno dispendioso possibile il processo di messa in sicurezza, che resta invece sempre più preminente. L’ente indipendente, adibito al controllo e al potere sanzionatorio, sarebbe comunque l’Autorità Garante per la privacy, che con un ruolo anche di consulenza sul rispetto della normativa per tutti gli imprenditori e i DPO che ne necessitino, dovrebbe compensare l’arbitrarietà lasciata agli imprenditori. Preoccupazione di molti nel settore è che le aziende, specialmente piccole e medie, non si trovino ancora pronte né economicamente né tecnologicamente ad affrontare un eventuale ispezione a norma del GDPR. Le piccole e medie imprese (PMI) non sono le sole ad aver riscontrato problemi di adeguamento: lo scorso 16 Novembre è uscita sul sito istituzionale del Garante della privacy la notizia di un’avvenuta sanzione per 12 milioni e 250 mila euro ai danni di Vodafone per aver trattato in modo illecito i dati personali di milioni di utenti a fini di effettuare telemarketing aggressivo. 11
→ Non si può trascurare il rischio di overconsumption che si cela dietro gli utilizzi dei big data Secondo quanto emerso dall’indagine le attività promozionali illecite sarebbero avvenute tramite numeri fittizi non censiti nell’apposito registro - quindi non autorizzati a compiere attività promozionali - che avrebbero agito, con grande probabilità, violando database dei clienti, con totale sprezzo della nuova normativa UE. Ulteriore e grave violazione evidenziata dal Garante sarebbe consistita nella illecita gestione delle liste dei nominativi da contattare a fini promozionali, liste finite in un trasferimento illegale di dati tra Vodafone e terzi. La suddetta sanzione è avvenuta su stimolo delle segnalazioni che gli stessi consumatori hanno rivolto all’autorità garante, e ciò evidenzia due criticità del sistema normativo ad oggi operante in tema di privacy: da un lato il fatto che la normativa non sia ad oggi sufficientemente imperativa neanche per le grandi imprese, irregolari da questo punto di vista, e dall’altro che ciò debba essere evidenziato dalle lamentele di chi quei dati se li è ormai già visti violare. E’ auspicabile che con il passare del tempo la funzione sanzionatoria del Garante in questo senso possa fungere da sensibilizzatore dei consumatori, che resi consapevoli dall’Autorità delle sistematiche violazioni dei loro dati, potranno essere sempre più disposti ad affidarsi alle aziende realmente credibili in materia di protezione dati. Conformarsi in pieno alla normativa europea quindi, per quanto oneroso, potrà portare alle aziende 12
dei vantaggi anche in termini di affidabilità. L’anno scorso l’attività del garante, oltre alla sopracitata condanna record ai danni di Vodafone, ha registrato sanzioni per un totale di 3 milioni di euro, ma ciò che non dev’essere sottovalutato è che raramente questa attività sanzionatoria tocca i meccanismi di profilazione, e quand’anche dovesse crescere la consapevolezza del consumatore medio, questi difficilmente riuscirebbe a tenere traccia di tutti i frammenti di dati che nel suo percorso online lascia in pasto ai data brokers. Il discorso diventa infatti maggiormente complesso se consideriamo che le grandi figure che dominano il mercato del consumo hanno generalmente una posizione dominante in più settori, Amazon in particolar modo. Nel 2019 l’Antitrust dell’Unione Europea ha avviato un’indagine sull’attività dell’azienda per sospetto abuso di posizione dominante, ossia la condotta di un soggetto che, potendo beneficiare di un considerevole potere di mercato, danneggia la capacità di altri concorrenti di operare sul mercato, con conseguente danno anche per i consumatori. Dall’ultimo aggiornamento, il 10 novembre, risulta da parte di Amazon una condotta lesiva in questo senso: grazie al ruolo di market maker, permetterebbe, infatti, ai dati dei venditori al dettaglio presenti sulla piattaforma di confluire direttamente nei sistemi di profilazione, accrescendo ulteriormente la mole di informazioni in suo possesso. Per arginare fenomeni di questo tipo dal lato istituzionale si interviene su due binari: da un lato intervengono i garanti, Garante Privacy e Antitrust in questo caso, per sanzionare le violazioni di privacy e concorrenza; dall’altro, sul binario legislativo, si cerca di limare il dominio esercitato dai big della tecnologia. In questo senso il legislatore europeo ha emanato una direttiva, la 1024 del 2019, volta a bilanciare la posizione di grandi aziende e PMI tramite la diffusione della mole di informazioni raccolte dagli enti pubblici.
Nella logica dell’intervento, aumentare la quantità di dati disponibili rende più efficaci gli algoritmi, riducendo così il rischio di distorsione dei profili. Inoltre, se si facilita l’accesso ai database con la previsione di un margine di guadagno nullo per l’ente pubblico che li fornisce, si eliminano le barriere all’ingresso del data market, cosicché anche le imprese minori possano accedere alle materie prime del marketing. Il punto di vista non è però quello del singolo utente, per cui non si prospettano vantaggi dalla diffusione delle sue informazioni: che si intervenga sul fronte della tutela della privacy o su quello della tutela del mercato, si cerca al più di garantire un accesso libero ai dati finalizzati alla profilazione purchè sia trasparente e garantisca la concorrenza. Le conseguenze a lungo raggio, in termini di consumi e tenore di vita, faticano a trovare il loro posto nelle considerazioni. Se infatti è possibile un utilizzo “a fin di bene” della raccolta dati, è pur vero che gli sforzi dell’innovazione tendono a dirigersi dove vengono meglio remunerati. Il settore privilegiato allora non può che essere quello del commercio al dettaglio online, che ha registrato nel 2020 un incremento dei ricavi di 3,5 miliardi e un aumento medio dei consumi annui del 18% dal 2015 ad oggi (fonte: Netcomm, 2020). Man mano che si percorre questa strada le tecniche si affinano, e siamo sempre meno in grado di percepire quando e quanto influenzano il nostro stile di vita; la risposta normativa europea ha una sua efficacia in termini di privacy, ma per raggiungere “un’Europa a impatto climatico zero” per citare la legge europea sul clima - non si può trascurare il concreto rischio di overconsumption che si cela dietro gli utilizzi dei big data. La legittimità delle pratiche di targeting non viene messa in discussione e questa resta, di fondo, una scelta politica. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Attaccati agli schermi
Spesso il cellulare è sinonimo di riposo, pausa e se vogliamo, pure di pigrizia. Organizziamo persino la schermata iniziale in modo che tutto ci sia a portata di pollice. D’altro canto le azioni che compiamo con i dispositivi sono percepite naturali e spontanee grazie a un design dell’interfaccia che tuttavia cela una forma di coercizione impercettibile. La captologia - pensata da B. J. Fogg, fondatore e direttore dello Stanford Persuasive Technology Lab - studia la persuasione occulta del web, ossia come il design dei dispositivi e della rete interagisca con la mente umana per indurre comportamenti e abitudini involontarie. Il modello gode di una vasta adattabilità al mondo tecnologico e in particolare il Fogg Behaviour Model spiega quali sono i tre fattori necessari per attivare un’azione irriflessa: motivazione, abilità e trigger. L’equazione B=MAT - Behavour corrisponde a SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Motivazione per Abilità per Trigger - è semplice, ma non banale: tutti i design dei social network o degli e-commerce sono imperniati sull’attivazione di questi fattori. Una volta che l’esperienza d’uso ci conduce nel tunnel, servono rinforzi: semplicità e immediatezza sono gli ingredienti che il design persuasivo attua. Concetti che possono sembrare scontati di primo acchito, ma sono tanto invasivi tanto inavvertibili. Il design persuasivo ha la peculiarità di non farsi notare, di nascondersi dietro al lenzuolo dell’immediatezza e dell’esperienza a portata di tutti. Una volta persuasi (motivati, capaci e stimolati-attivati) e improvvisamente presi da un flebile lume di raziocinio, potremmo pensare di volerci allontanare dal tunnel con un’uscita di emergenza. Alziamo lo sguardo e cerchiamo le scritte a led rosso, luminose, ma nulla: tutto è oscurato. Le vie buie - denominate dark pattern per la prima volta da Harry Brignull, esperto di user designer experience - scongiurano ogni possibile fuga:
strutturare l’interfaccia in modo tale che, pur lasciandoti la libertà di scegliere, tu non possa farlo. La sfida, quindi, è spingere gli utenti alla creazioni di routine digitali e poi scongiurarne la dismissione. Un esempio è il Roach Motel, che rende difficile l’uscita da una situazione: per disiscriversi ad Amazon è necessario andare in sottosezioni di sottosezioni e fare la richiesta al servizio clienti con un form. I dark pattern possono essere lessicali, grafici o di qualsiasi altra natura semiotica, e si basano sui deficit che l’utente medio presenta mentre interagisce con un’interfaccia: uno studio svolto in Canada nel 2015 da Microsoft dimostra che la soglia di attenzione dell’utente è diminuita dai 12 secondi, media risalente ai primi anni 2000, a 8 secondi. Perciò mancanza di attenzione e, in aggiunta, scarsità di tempo. Alcuni ulteriori archetipi di dark pattern sono gli Overuse persuasive messages, avvisi su siti di prenotazione viaggi o alloggi che dovrebbero allertare gli altri utenti
interessati sulla scarsità di disponibilità, ma spesso si tratta solo di notifiche per spingere all’acquisto, oppure l’uso delle cosiddette non-stop notifications: le notifiche push dei social di costante aggiornamento su messaggi, promemoria, post, offerte che ci spingono a mantenere costante l’attenzione sul telefono. Tutto ciò per un’esperienza d’uso ottimale, su misura per il consumatore, o almeno questi sono i deboli vantaggi per gli utenti rispetto alla sua costante attenzione. L’esempio di dark pattern per eccellenza sono i cookies by default e consiste nel fornire all’utente delle opzioni preimpostate durante la fase di iscrizione o fruizione - con modalità più o meno chiare - spingendolo così ad accettare passivamente la cessione di dati utili per la profilazione. Se, eventualmente, dopo essere stato spinto ad accettare, l’utente avesse un barlume di apprensione su cosa fosse accaduto, non sarebbe di certo a portata di click, questa volta, risalire all’accaduto. 13
Biscotti avvelenati Nel novembre 2018, Facebook è stato interrogato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per pratiche commerciali ritenute “scorrette” sia durante la fase di registrazione dell’utente al servizio che durante quella di fruizione dello stesso. La prima condotta ritenuta “ingannevole” riguardava la mancanza di un’informativa per gli utenti che fosse sufficientemente consapevole circa l’utilizzo dei dati personali, ma piuttosto finalizzata alla raccolta dei dati per una successiva utilizzazione o condivisione con terze parti. Pertanto, la pagina di registrazione menzionava la gratuità del servizio, ma non faceva chiaramente riferimento agli scopi commerciali. La seconda condotta ritenuta “aggressiva”, consisteva nella trasmissione dei dati degli utenti da Facebook a terzi siti “webapp” con scopi commerciali, in assenza di un chiaro e anticipato consenso dei soggetti interessati. Nel corso di un successivo ricorso di Facebook al TAR Lazio, quest’ ultimo ha confermato l’obbligo per l’impresa statunitense di pubblicare preventivamente un’informativa trasparente in merito alle finalità perseguite dal social network. Lo stesso non si può dire invece per l’integrazione dei dati con terze app/social, che non è stata ritenuta una pratica lesiva per i diritti degli utenti, riprendendo il fatto che per gli interessati è sempre stato possibile fornire il consenso sull’utilizzo dei dati personali. 14
Per comprendere l’importanza dei cookies come strumenti di raccolta dati, è necessaria una riflessione sull’evoluzione delle modalità di acquisto al dettaglio. La transizione del commercio su larga scala dall’offline all’online non é avvenuta senza pagare il prezzo di una modifica sostanziale nei presupposti teorici alla base della struttura del canale d’acquisto. L’ e-commerce apparentemente annulla la parte più umana dell’acquisto, il rapporto di fiducia e conoscenza personale con chi gestisce il negozio e i rituali di accoglienza dei clienti abituali. Sembrerebbe difficile ordinare “il solito” su un sito web. Questo forse era vero agli albori dell’acquisto al dettaglio online, ma strumenti come i cookies rendono possibile la riproduzione artificiale del rapporto tra acquirente e negoziante. I cookies sono dei file di testo che vengono installati sul nostro browser nel momento in cui accediamo a un sito e ricordano informazioni come la nostra lingua, il nostro sesso, il tipo di articoli che compriamo di solito, la nostra posizione geografica o il tempo medio che passiamo online su siti di shopping. Non tutti i cookies sono uguali e non sono l’unico tipo di tecnologia esistente per ricordare informazioni su un utente, ma rimangono comunque il più diffuso e a livello di regolamentazione della user experience al momento il più invasivo. La proposta, il canonico “Ok, accetto” da cliccare, è il risultato di un proces-
so normativo volto alla tutela della privacy degli utenti regolato dalla direttiva comunitaria europea 2009/136/EC, che impone a tutte le legislazioni nazionali degli Stati membri di adottare una legge che regolamenti il rapporto tra i dati degli utenti e l’uso che ne fanno i proprietari dei siti web. Il fenomeno è legato a doppio filo con la captologia: il modo con cui viene presentata la richiesta all’utente per l’utilizzo dei cookies appare come un prerequisito per l’accesso al sito, la pagina visitata viene occupata lateralmente o in casi estremi per intero da un banner integralmente coperto di parole scritte piccole, fitte e tra cui salta all’occhio più di un numero e l’indicazione di un riferimento a una legge, quella nazionale che risponde alla normativa europea. In basso compare la soluzione, chiara, veloce: cliccando apparentemente non succede nulla, il banner scompare. Il meccanismo, nonostante sia l’applicazione della direttiva, ne tradisce lo scopo primario. Infatti ai sensi degli articoli 4(11) e 7 del GDPR “Il consenso deve inoltre essere specifico, informato e inequivocabile e l’interessato deve poter negare o revocare il consenso senza pregiudizio”. Mentre il tempo necessario per leggere per intero la normativa sull’utilizzo dei dati nella maggior parte dei siti é di circa due minuti, e spesso coincide con il tempo totale che trascorriamo sul sito, passati senza aver mai letto l’informativa, ma avendo accettato tutti i cookies.
Gli enti che raccolgono i dati degli utenti a fini commerciali, che si identificano come garanti dell’ottenimento di un consenso valido per l’utilizzo dei dati forniti dall’utente, falliscono così nella loro missione. L’ambiziosità del progetto legislativo europeo rappresenta senz’altro uno sforzo poderoso da parte delle istituzioni dell’Unione. Sebbene si tratti di un regolamento, e pertanto direttamente applicabile, rimane necessaria una sua “traduzione” attraverso una legge statale, promulgata mediante l’iter legislativo previsto dal proprio ordinamento giuridico. Ai sensi di quanto stabilito dal GDPR, il processo di attuazione legislativa da parte degli stati membri è lo strumento attraverso il quale vengono definiti e adattati i parametri delle opening clauses, ovvero quei parametri la cui adozione o interpretazione è lasciata a discrezione dei vari parlamenti nazionali. La scelta di una consistente discrezionalità potrebbe essere, a detta di molti, il maggiore ostacolo all’efficienza della normativa di Bruxelles. Il sistema a 27 stati, ognuno con le proprie istanze politiche, socio-economiche e culturali, comporta una fisiologica tendenza all’eterogeneità, la quale è confermata anche dalla prima relazione di valutazione e riesame del Regolamento (UE) 2016/679, a cura della Commissione, del 25 giugno scorso. Il documento Data protection as a pillar of citizens’ empowerment evidenzia come eventuali incongruenze possano causare notevoli difficoltà al sistema europeo. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
→“Il consenso deve inoltre essere specifico, informato e inequivocabile e l’interessato deve poter negare o revocare il consenso senza pregiudizio”. Un esempio riportato è quello relativo all’impatto sulle attività commerciali transfrontaliere, le quali dovendosi interfacciare con interpretazioni della normativa differenti da un paese all’altro, debbono prestare un’attenzione particolare per non incorrere in eventuali sanzioni. Questo va a minare l’efficace funzionamento del mercato unico e il principio stesso della libera circolazione delle merci, entrambe ratio alla base del sistema comunitario. È anche al fine di limitare queste disomogeneità, che tra la data di entrata in vigore del Regolamento, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’UE il 25 maggio 2016, e la sua effettiva operatività, sono passati esattamente due anni. Nonostante questa finestra temporale, esistono tutt’oggi delle resistenze, personificate dall’indifferenza dell’unico paese che ancora non ha legiferato in materia, lasciando implicitamente lettera morta il GDPR: la Slovenia. Le istituzioni di Lubiana sono rimaste noncuranti nonostante le sollecitazioni da parte della Commissione, la quale ha invitato anche formalmente il paese a provvedere alle sue mancanze, con una lettera da parte del commissario europeo alla giustizia Didier Reynders. La Commissione mira per questo a inserire delle normative più restrittive, anche al fine di arginare la tendenza inversa di talune legislazioni nazionali, di andare oltre i margini stabiliti dal GDPR, introducendo requisiti supplementari più stringenti anche in assenza di margini, causando frizioni con il funzionamento del mercato interno. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Quello che si profila è un quadro piuttosto chiaro. Sebbene lo slancio normativo comunitario, rappresentato dal GDPR, sia senza dubbio il più ambizioso tra i progetti legislativi volti ad arginare tali fenomeni, una velata resistenza degli stati membri, un’interpretazione personalistica delle norme del regolamento, e la complessa materia da legiferare attenuano di molto il suo potenziale. Il processo di trasformazione degli utenti in consumatori, che passa necessariamente attraverso la profilazione, ha prodotto una quantità spropositata di dark dates, il paper Assessing ICT Global Emission Footprint li ha stimati in media come il 52% rispetto a tutti quelli posseduti - di dark datas. Si tratta di dati accumulati per ingordigia e che l’azienda non possiede le risorse per analizzare, ma che influiscono sull’impalcatura del sistema di storage digitale in modo considerevole. La presenza online di una moltitudine di dati individuali, oltre a spingere a un consumo insostenibile e marcatamente più specifico di quanto non lo sarebbe altrimenti, ha anche un impatto ambientale diretto. La rete internet produce circa il 4% delle emissioni di CO2, si stima che nel 2025 arriverà all’ 8% e nel 2040 al 14 %: una curva esponenziale con un tasso di crescita medio di circa il 3% ogni 5 anni. L’esistenza di database privati che raccolgono dati personali a fini commerciali non risponde ad alcun tipo di esigenza collettiva e di conseguenza dovrebbe essere trattato alla stregua di una forma di inquinamento.
Così sostiene Giovanni Buttarelli, ex Garante per la protezione per i dati personali in Italia, che sottolinea come sia necessario per l’utente che voglia davvero cautelare la propria privacy online diventare “un mago della tecnologia e un mendicante del diritto”, nonostante si tratti di un diritto fondamentale. In un articolo della rivista giuridica Diritto dell’informazione e dell’informatica, del Luglio-Ottobre del 2019, Livia Aulino scrive come nella normativa attuale si stia rendendo necessaria quella buona dose di pragmatismo, ossia quella attenzione ai fenomeni reali che dovrebbe accompagnare il giurista moderno. La soluzione prospettata dalla Aulino è quella dell’apertura al concetto di legal design, ossia alla riconsiderazione del modo in cui i singoli cittadini possono entrare in contatto con la legge, provando cioè a renderla loro conoscibile con l’utilizzazione di linguaggio semplice e d’impatto, che sia supportato da illustrazioni anche grafiche immediate e intuitive. Se non correttamente regolamentata si tratta di una forma di inquinamento doppiamente dannosa: dal punto di vista ambientale e sociale, con le due dimensioni che si intrecciano passando attraverso gruppi Whatsapp, Smart TV e acquisti online. La mercificazione di ogni scelta che prendiamo davanti a uno schermo è quindi figlia di meccanismo economico che la dice lunga su come vengono considerate le risorse: infinite.
di Marta Bernardi, Jacopo Andrea Panno, Chiara Falcolini, Andrea Calà, Nicolò Benassi e Lorenzo Sagnimeni
15
LA MATERIALITÀ DELLA RETE
500
kg
Un’analisi delle dinamiche dell’ e-commerce nel 2020 non può essere condotta esimendosi dal confronto con le problematicità legate al mezzo che rende possibile l’acquisto online. Il discorso pubblico sull’impatto ambientale della rete Internet non è particolarmente acceso e spesso si riduce ad uno stallo semplicistico. Non mancano tuttavia gli studi e i report ambientali che riportano i dati legati al consumo energetico di ogni azione che compiamo online. È utile quindi registrarne l’impatto per evidenziare la necessità di una regolamentazione più consapevole.
=
3310
=
Consumo energetico della Spagna nel 2016
=
1
=
20
=
1 11 1
È la quantitá di CO2 prodotta dalle ricerche su Google ogni minuto.
306
milioni di tonnellate
È la CO2 prodotta con la visualizzazione di video in streaming nel 2018.
214
milioni di chilogrammi
È l’aumento della quantità di emissioni prodotti in un anno dalle case discografiche americane dal 2000 al 2016.
800.000
km
È la lunghezza dei cavi nei fondali degli oceani necessari per fare funzionare il traffico dati sulla rete internet.
1.5
tonnellate
È la produzione media annua di C02 di un impiegato con una casella e-mail.
33
miliardi di kwh
=
É la CO2 prodotta da mail spam in un anno.
8 16
mail inviate o ricevute
=
km percorso in auto
milione di litri di benzina
volte il giro del mondo
volo e mezzo Parigi-New York milioni di anni di consumo medio di una famiglia da 3 componenti
km percorso in auto
1 Fonti: Journal of Cleaner Production Volume 177, 10 Marzo 2018, Pagine 448-463 Assessing ICT global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations; Lotfi Belkhir, Ahmed Elmeligi European Framework Initiative for Energy & Environmental Efficiency in the ICT Sector, Iniziativa Europea della rete per l’efficienza energetica ed ambientale del settore ICT Carbon Footprint Calculator For Individuals And Households, Calcolatore d’impronta ecologica per individui e nuclei familiari
Capitolo II
27.11
527.11 €
12:38
Sconto
5€
a a 12:38
Sconto
→
Codice BEN VENT276357 2
→
Codice BENVENT2763572
Amazon ha messo al centro della propria strategia i consumatori di domani alimentando un modello di consumo non sostenibile Nei mesi di chiusura totale dei negozi fisici, Amazon è stato la salvezza che ci ha permesso di continuare ad acquistare ciò di cui pensavamo di avere bisogno. Tra aprile e giugno del 2020 la società fondata a Seattle ha registrato i profitti più alti della sua storia, con ricavi pari a 88,9 miliardi di dollari. Questo successo non è solo frutto delle circostanze, che hanno obbligato tutti i negozi alla chiusura, ma è anche dovuto ad un’attenta strategia SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
mirata a fidelizzare il cliente anche grazie allo sviluppo di nuove modalità per raggiungere e coinvolgere una fascia di consumatori dall’incredibile potenziale, ovvero quella degli studenti. La US Chamber of Commerce Foundation aveva già stimato nel 2016 che questo gruppo di consumatori omogeneo potesse avere un’influenza nelle scelte di acquisto per 600 miliardi di dollari negli USA con una capacità di spesa di 43 miliardi.
La strategia del gruppo di Jeff Bezos vede al centro i ragazzi nati dopo il 1995, la cosiddetta “generazione Z” che è attualmente il gruppo demografico più influente del pianeta e si stima che rappresenti oramai il 40% dei consumatori. L’obbiettivo è, da un lato, quello di assicurarsi i clienti potenziali di domani, che sono anche i primi veri nativi digitali, e dall’altro contribuire a ripulire la propria immagine dalle forti critiche
che sono nate negli ultimi anni e che hanno portato alla nascita di tanti movimenti contro lo strapotere dell’e-commerce, tra cui la petizione che è stata recentemente aperta in Francia “Natale contro Amazon”, per ridurre gli acquisti sul sito in vista delle festività. Gran parte di questo successo è però dovuto alla sua capacità di sfruttare la pubblicità grazie a meccanismi all’interno del funzionamento stesso della piattaforma. 17
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Sempre più di frequente, Amazon è il sito da cui comincia la ricerca dell’oggetto da acquistare: si stima infatti che più della metà dei consumatori nostrani lo utilizzino come strumento di partenza per la ricerca dei prodotti, superando di gran lunga eBay e Facebook. La strategia di marketing comincia con gli annunci sponsorizzati che compaiono durante la ricerca sul marketplace e prosegue anche su altri siti visitati in seguito, dove appariranno banner che rimandano ai prodotti visualizzati all’inizio. Alla base della crescita dell’impero di Jeff Bezos vi è proprio questo meccanismo: più utenti sfruttano la piattaforma per cercare prodotti che vorrebbero acquistare, maggiore è il numero di dati sulle preferenze di consumo di ciascun profilo. Più informazioni la piattaforma ha a disposizione, maggiore è il grado di precisione degli annunci pubblicitari. L’efficacia di questa strategia è tra gli elementi che portano un maggior numero di aziende ad affidarsi ai servizi offerti dalla società, alimentando la crescita della vetrina virtuale. A livello economico questo meccanismo risulta doppiamente vantaggioso. In primo luogo, le pubblicità permettono alla piattaforma di aumentare la vendita dei propri prodotti e, oltre a ciò, la vendita dei servizi di ad18
vertisement contribuisce alle entrate del gruppo. Considerando esclusivamente il mercato americano degli “ads” le stime affermano che nel 2020 la società di Jeff Bezos sfiorerà i 13 miliardi di dollari di ricavi, posizionandosi al terzo posto dopo Facebook (31 miliardi) e Google (40 miliardi). La rilevanza dei servizi pubblicitari nella strategia della multinazionale è incontrovertibilmente provata dall’efficienza della piattaforma che ne permette la gestione. Amazon Advertising nasce nel 2018 per unire sotto un unico ombrello tre marchi preesistenti Amazon Media Group, Amazon Marketing Services e Amazon ad Platform - al fine di semplificare l’erogazione dei servizi promozionali. A sua volta, Amazon Advertising è suddiviso in due sezioni: la Advertising Console, che si occupa degli annunci pay-per-click all’interno del sito, e Amazon DSP (Demand Side Platform). Quest’ultima permette di raggiungere una platea più ampia di consumatori attraverso un’interfaccia unica che gestisca le sezioni pubblicitarie di altri siti e applicazioni al di fuori dell’e-commerce stesso. Per dirla in termini tecnici, la DSP consente di realizzare per intero la strategia del funnel marketing (marketing a imbuto) con relativa precisione, riuscendo a far conoscere ai clienti nuovi prodotti che sentano il bisogno di acquistare.
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Ciò che rende la DSP unica è la grande quantità di dati a disposizione, che permette di rendere gli ads particolarmente efficaci. Rielaborando tutte le informazioni è infatti possibile suddividere gli utenti in gruppi omogenei in base a gusti, interessi e comportamenti e in alcuni casi anche tracciare un profilo specifico di ciascuno. Questa pratica di marketing viene detta profilazione e nel caso della compagnia di Seattle è in grado di identificare gli utenti propensi ad acquistare un prodotto sulla base dei propri comportamenti - di ricerca o acquisto - negli ultimi 30 giorni, gli utenti che hanno acquistato regolarmente prodotti simili nell’arco dell’ultimo anno ed infine criteri demografici quali l’età, la localizzazione geografica e il genere. L’efficacia dei servizi di advertisement è garantita dalla possibilità di individuare con grande precisione il pubblico adatto a ciascun prodotto e la forma pubblicitaria più adeguata non solo per aumentare le vendite su Amazon, ma anche sugli e-commerce al di fuori della piattaforma. Secondo il sito di Tinuiti, una delle più grandi agenzie di digital marketing in Nord America, il caso di R+Co, un’azienda di cosmetici di alta qualità, rappresenta un buon esempio dell’efficacia dei sistemi offerti da Amazon Advertising.
L’azienda, dopo aver riscosso un iniziale successo con il lancio dei propri prodotti sul marketplace di Jeff Bezos, ha visto un progressivo calo nelle vendite. Per risolvere il problema, si è optato per lo sviluppo di una strategia diversificata, attraverso l’utilizzo degli strumenti offerti dalla DSP, che partisse dai clienti già fidelizzati per poi raggiungerne di nuovi. Secondo i concetti del funnel marketing, gli ads sono stati diversificati a seconda dello strato dell’imbuto a cui volevano rivolgersi. Per quanto riguarda i clienti che già abitualmente acquistavano sul loro sito, l’obbiettivo era quello di concentrare gli acquisti sui prodotti più costosi. Per migliorare il coinvolgimento della parte medio-alta dell’imbuto, ovvero i potenziali nuovi clienti, sono invece state sfruttate le modalità di profilazione descritte prima per portare avanti una campagna mirata ed efficace. A questa nuova gestione dei propri annunci pubblicitari sono stati affiancati anche alcuni sconti speciali, soprattutto in occasione del “Prime Day”, pubblicizzati con annunci statici sulla pagina principale del sito. Dal momento dell’implementazione di tali strategie di promozione le visite sul sito di R+Co sono aumentate dell’85% e si è registrato un aumento del 70% delle unità vendute. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
L’offerta dei servizi pubblicitari e promozionali di Amazon risulta ancora più impressionante se si considerando tutti i canali attraverso cui il colosso del web è in grado prima di raccogliere dati sulle preferenze individuali e successivamente di proporre pubblicità e inserzioni che siano visibili al consumatore. Proprio in questa direzione si muove la strategia di diversificazione del colosso web, che si sta espandendo in tutti i possibili ambiti digitali in cui la generazione Z e i “Millennials” passano la gran parte del loro tempo. Da semplice marketplace ora l’offerta completa comprende la piattaforma di streaming video on-demand Prime Video, la piattaforma di steaming Twitch e i servizi di Intelligenza Artificiale e Cloud offerti da AWS (Amazon Web Services). Tutti i prodotti appena citati sembrano essere perfettamente in linea con le abitudini e le necessità dei giovani studenti, che da qualche anno sono al centro delle operazioni di marketing della società. Durante il lockdown, le principali fonti di intrattenimento, nonché le app che hanno registrato il maggiore aumento in termini di tempo di utilizzo e utenti iscritti, sono stati i servizi di streaming come Netflix e Prime Video e le piattaforme di streaming come Twitch. L’opportunità rappresentata da questo potenziale gruppo di spettatori nonché consumatori, con una capacità di spesa importante, che a causa della situazione è stato obbligato a trascorrere sempre più tempo su internet, è stata prontamente sfruttata dalla società di Jeff Bezos. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Già da diverso tempo l’azienda aveva capito l’importanza di assicurarsi la fascia di clientela rappresentata dagli studenti e le prime campagne pubblicitarie erano state avviate negli Stati Uniti con diverse modalità. Rivolgendosi soprattutto agli universitari, la strategia elaborata comincia dalla vantaggiosa offerta di Prime Student (un abbonamento Prime, con i vantaggi che ne derivano, per studenti iscritti all’università): i primi sei mesi sono gratis e in seguito l’abbonamento costa la metà di quello normale. Questo è solo il primo passo, perché potendo identificare un segmento così ben definito come quello degli studenti, il colosso web è in grado di garantire offerte e sconti ad hoc su articoli essenziali per lo studio, che allo stesso tempo siano affiliati con altri articoli presenti sul marketplace, incentivando così le vendite anche di beni che non sarebbero strettamente necessari. Per rinforzare la percezione che gli acquisti sulla propria piattaforma siano particolarmente convenienti, il secondo passo è stato portare nei campus americani i “Locker”, ovvero dei pick-up point che rendono la consegna della merce ordinata ancora più facile. Nel 2019 Ripley MacDonald, allora responsabile per i programmi Student della società, affermava in un’intervista a Bloomberg, che il campus universitario è dove ci sono tutti i futuri acquirenti in un solo posto. “Noi facciamo laureare i ragazzi in membri full-price di Amazon Prime”. Il caso americano evidenzia la capacità della piattaforma di arrivare al
consumatore attraverso meccanismi di marketing tradizionali. Negli ultimi anni però le strategie si sono evolute per rispondere alle esigenze sempre più diverse della nuova generazione e al contesto europeo dove dovevano essere importate. Quel che infatti emerge da molti studi sulla generazione Z, gli attuali studenti, è la loro maggiore sensibilità agli annunci di tipo visivo e la continua ricerca di un’esperienza che passi attraverso più canali possibili. In questo senso si è puntato alla creazione un’offerta omnicomprensiva che si è rivelata vincente negli ultimi mesi. Le nuove abitudini degli studenti, che da marzo prevedevano circa 25 ore di didattica a distanza davanti al computer (circa 5 al giorno) e un aumento del tempo passato sulle app e online, incrementato del 30% rispetto a prima della pandemia, sono state sfruttate dai nuovi servizi implementati dalla società negli ultimi anni. Per quanto riguarda il lato didattico, la piattaforma di AWS (Amazon Web Service) Educate, un segmento della più completa AWS, annovera già numerosi istituti italiani che aderiscono all’offerta di approfondimenti, corsi e servizi di cloud da offrire ai propri studenti. L’iscrizione alla piattaforma può essere fatta dal singolo docente, per fornire un corso o una specifica modalità di apprendimento ai propri alunni, dallo studente per usufruire delle opportunità didattiche offerte direttamente da AWS Educate, oppure dall’intero istituto, per sviluppare programmi più comprensivi per l’apprendimento di competenze legate al cloud.
Nell’elenco degli istituti che hanno già aderito al servizio ci sono 51 nomi italiani tra licei, istituti tecnici, fondazioni e università. Sempre restando legati alle università, l’azienda ha saputo sfruttare fino in fondo il suo canale diretto e privilegiato con le giovani generazioni e ha proposto gli “University ESport”. Il nuovo portale permette ad “ogni giocatore che studia in una delle università associate ai campionati di registrarsi e formare una squadra nella propria università per cercare di qualificarsi per le finali europee ogni anno”, come si legge sul sito. Non mancano, esattamente al centro della homepage, link e pubblicità che riconducono l’utente alla sezione gaming ed elettronica per acquistare i prodotti che sono presentati come necessari per poter dare il proprio meglio in questa nuova disciplina sportiva. Questa offerta nell’ambito del gaming online segue il successo che la piattaforma Twitch ha registrato tra i ragazzi. Non esistono statistiche precise riguardo al numero di utenti, ma secondo Blogmeteres circa il 12% degli italiani utilizza Twitch e si tratta per circa l’80% di maschi millennials. L’unico modo per evitare le pubblicità durante una diretta del proprio streamer preferito è quello di iscriversi al suo canale. Visto che la percentuale di iscritti rimane comunque limitata, la possibilità di sfruttare questi spazi pubblicitari è una delle ultime frontiere del colosso americano che nell’ultimo anno ha visto crescere il numero di partner e affiliati che generano entrate su Twitch dell’86%. 19
Per capire perché l’interesse di Amazon nel mostrarsi virtuosa e attrattiva verso gli studenti dovrebbe preoccupare, bisogna fare un passo indietro. Amazon Web Services (AWS) è un’azienda che fa capo al gruppo e non ne rappresenta affatto una parte trascurabile: ne è, infatti, la principale fonte di entrate (57%) e il 12% di tutti i guadagni. La società si occupa della fornitura di IA (intelligenza artificiale) e machine learning (o apprendimento automatico) per, tra le altre, grandi multinazionali del petrolio come BP, Shell e altre aziende a cui il gruppo fornisce servizi anche in un altro ambito, che rappresenta uno dei suoi principali problemi dal punto di vista ambientale: il cloud computing. Rispetto agli altri concorrenti nel suo settore AWS la fa da padrona, detenendo il 45% delle quote di mercato globali. A questo punto però le questioni critiche sono due: come si alimentano i server e quali tecnologie vengono fornite alle compagnie petrolifere. Nell’aprile del 2019, il Guardian scriveva che uno dei più importanti datacenter dell’azienda, in Virginia, era alimentato da energie rinnovabili solo per il 12%. Il tema è particolarmente rilevante dato che, secondo un report di Greenpeace del 2017, i data center sono responsabili di una quota 20
di emissioni pari a quella dell’intera industria aeronautica mondiale (come trattato su Scomodo n.26, “Il peso delle nuvole”). Secondo Gizmodo, uno dei più importanti blog di tecnologia, il CEO di AWS Andrew Jassy avrebbe dichiarato nel marzo 2019 che la maggior parte dei prodotti rilasciati dall’azienda nell’ultimo periodo sarebbero stati concepiti insieme ai partner dell’industria petrolifera. A ciò fa da contraltare un’altra dichiarazione dell’allora vicepresidente dell’azienda, Peter DeSantis, secondo cui le energie rinnovabili sarebbero troppo costose e non efficaci al fine di fare affari. Per il report di Greenpeace “Oil in the Cloud” le nuove tecnologie fornite al settore di gas e petrolio porterebbero un guadagno di 425 miliardi di dollari entro il 2025, e le tecnologie IA incrementerebbero la produzione del 5%. È previsto che le compagnie petrolifere investano $15,7 mld nelle fasi di esplorazione e produzione, rispetto agli attuali $2,5 miliardi. È evidente, quindi, che le tecnologie fornite da AWS siano vantaggiose per il settore dei combustibili fossili e, dunque, svantaggiose per il clima. C’è poi la questione delle spedizioni. Nel 2019 Amazon ha consegnato 3,5 miliardi di pacchi, una cifra da capogiro.
Solo in Italia i pacchi sono 318 milioni, consegnati da circa 20mila furgoni. Secondo il MIT di Boston, gli acquisti online non avrebbero un impatto maggiore rispetto agli acquisti al dettaglio, se non fosse per il servizio Prime. Le consegne veloci non permettono ai corrieri di organizzare spedizioni a pieno carico con itinerari razionalizzati, generando maggior traffico per le strade. Le emissioni di CO2, in questo modo, risultano fino a 35 volte maggiori rispetto alle consegne standard a pieno carico. Per capirci, una consegna tradizionale corrisponde all’abbattimento di 20 alberi; una consegna Prime, invece, tra 100 e 300 alberi. La possibilità di effettuare il reso, inoltre, sempre più incentivata in un’ottica di soddisfacimento del cliente, ha però l’effetto negativo di raddoppiare i viaggi per un singolo prodotto. Un’altra criticità dell’e-commerce è rappresentata dal packaging dei prodotti: dal peso tre volte superiore, e con un impatto ambientale equivalente a 182 kg di CO2, rispetto agli 11 kg del sacchetto di plastica tradizionale. In aggiunta, il packaging è spesso multimateriale, cosa che non ne permette un corretto smaltimento. Per ovviare a questi problemi, la piattaforma avrebbe bisogno di dotarsi di una logistica propria,
completamente sostenibile, per non risultare dipendente da corrieri di cui non ha il controllo. I venditori esterni si trovano a dover affrontare anche un altro problema, nell’affidarsi ad Amazon: lo stoccaggio dei prodotti nei magazzini. L’e-commerce in questione, infatti, richiede il pagamento di un corrispettivo per occupare spazio nei propri depositi. Questa somma si aggira, in partenza, a €26/m3, ma col passare del tempo cresce fino ad arrivare a €500/m3 dopo sei mesi e €1000/ m3 dopo un anno. Motivo per cui i proprietari dei prodotti, dopo un po’, decidono di rimuoverli, trovandosi davanti due possibilità. La prima è la restituzione, il cui costo si aggira intorno a 25 cent per unità. La distruzione del prodotto, invece, ha un costo di circa 10 cent/unità. Diverse critiche sono state mosse contro la politica di “Destroy”, per la quale enormi cumuli di prodotti (in Francia fino a tre milioni di prodotti l’anno), spesso resi come nuovi e che comprendono anche elettrodomestici e telefonia, vengono distrutti. In Germania, nel giugno 2018, un’inchiesta del WirtschaftWoche aveva fatto intervenire persino il sottosegretario all’Ambiente, che aveva definito la vicenda come “un grosso scandalo”. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
In seguito a varie critiche ricevute, il gigante americano ha deciso di esplicitare una policy più sensibile riguardante la sostenibilità e l’immagine stessa dell’azienda. Nel settembre 2019 il colosso di Jeff Bezos ha annunciato la fondazione del “Climate Pledge”, un impegno condiviso con altre aziende a raggiungere il 100% di rinnovabili nella fornitura energetica entro il 2030 e ad annullare le proprie emissioni nette di CO2 per il 2040, dieci anni prima dell’obiettivo fissato dagli Accordi di Parigi. Ma per quanto il progetto sia ambizioso, è quello che manca nel piano a fare rumore, più di ciò che effettivamente c’è. Innanzitutto, non è chiaro il modo in cui verrà effettuata la transizione verso le rinnovabili. Attualmente, secondo Greenpeace, l’azienda di Seattle sfrutta in parte quello che è denominato “Renewable Energy Credit System” (RECs): un meccanismo che permette di scorporare l’effettiva energia pulita da una sorta di certificato che ne attesta la produzione. L’energia così prodotta ha “valore doppio” sul mercato, e permette di neutralizzare emissioni inquinanti mediante l’acquisto di suddetti certificati, senza che nulla effettivamente cambi. Inoltre, il piano ambientale riguarda solo le operazioni e l’uso di elettricità dell’azienda , escluSCOMODO | INQUINANTI VOL.2
dendo però la catena di approvvigionamento, che rappresenta ben il 75% dell’impronta ambientale prodotta, che nel 2019 si è attestata a 51,17 milioni di tonnellate di CO2, con un +15% sul 2018 (prima del 2018 l’azienda non aveva mai rivelato l’entità del proprio impatto ambientale). A giugno di quest’anno è stato annunciato il lancio del “Climate Pledge Fund”, un fondo che parte da una dotazione di 2 miliardi di dollari come investimento in aziende che si occupano di prodotti, servizi e tecnologie per accelerare la decarbonizzazione. Quasi in contemporanea è stato pubblicato il suo rapporto sulla sostenibilità, in cui emerge un aumento delle emissioni di CO2 rispetto il 2019. L’ AECJ (Amazon Employees for Climate Justice, ovvero un gruppo di circa 9 mila dipendenti dell’azienda), insieme ad altre voci critiche, denuncia l’impiego di tecniche di contabilizzazione del carbonio ingannevoli, usate come diversivo per avere meno attenzione sull’aumento delle emissioni ed incolpano il “Climate Pledge Fund” di incentivare esclusivamente rimedi tecnocratici per la crisi climatica, invece di un’effettiva giustizia ambientale. Inoltre, l’AECJ è dall’aprile dello scorso anno che chiede pubblicamente alla dirigenza di intraprendere una strada più incisiva per il clima.
Un’altra iniziativa degna di essere sottolineata è il “Bezos’ Earth Fund”, ossia un fondo “salva terra” istituito dopo le accuse mosse da circa 300 dipendenti riguardo alle pratiche poco green. Si tratta di 10 miliardi di dollari da destinare ad associazioni che si battono per rendere le attività umane più sostenibili e ridurre il loro impatto sull’ambiente. Tutto ciò avverrà non sotto forma di un investimento privato, ma come atto benefico: sarà una commissione scelta dall’azienda a valutare le proposte provenienti da ricercatori, associazioni, ONG e consegnerà loro i fondi senza intervenire nello sviluppo delle iniziative. Parallelamente, la società sta cercando di migliorare la propria immagine attraverso una strategia basata sugli spot pubblicitari, tra cui rientrano anche quelli trasmessi negli ultimi mesi del 2020. In tutti è evidente una grande attenzione alle minoranze, soprattutto quella afroamericana, rese protagoniste degli spot. Da quello sul Black Friday, in cui si esorta a comprare prima i regali di Natale per poi godersi le feste, a quello di Natale che recita “Lo spettacolo deve continuare”, in cui grazie a famiglia, amici e acquisti sul e-commerce si riescono a realizzare i sogni di una giovane ballerina nonostante la pandemia. Spot come “Le storie di chi lavora”, in cui un
ragazzo non italiano parla di come siano grati i genitori per il suo contributo economico e della sorella con disabilità, accompagnato da frasi come “continuare sempre a lottare” o “ con la mia squadra siamo una famiglia”, hanno l’obbiettivo di distogliere l’attenzione da tutti i danni, ambientali e sociali, che il colosso sta causando al nostro ecosistema. Se nella strategia di Amazon un ruolo sempre più importante è giocato dai ragazzi della nuova generazione, queste pratiche di greenwashing potrebbero non bastare a nascondere ai loro occhi gli effetti dell’attuale modello di consumo, che non è sostenibile ancora per lungo tempo e che necessita di essere ripensato. Il crescente numero di critiche rivolte all’azienda di Jeff Bezos deve essere la base per ripensare alla funzione dell’e-commerce, privandolo del suo ruolo di acceleratore del consumismo eccessivo e affiancandolo ad una nuova consapevolezza nell’esperienza di acquisto, soprattutto riguardo agli impatti delle nostre scelte.
di Chiara Lettieri, Simone Martuscelli, Michele Corio e Marina Roio
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Capitolo III
IL GIOCO DEI GRANDI → La pubblicità sul web è dominata dalle grandi aziende, con gravi conseguenze ambientali, sociali e culturali
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Esistono giochi fatti per i grandi. La pubblicità sul web è uno di questi. Non perché sia un’attività ad appannaggio degli adulti ma perché a giocare sono le grandi aziende. Le aziende di altre dimensioni, medie e piccole, rimangono tagliate fuori. Il modo più intuitivo per accorgersi della cosa è condurre un semplice esperimento: creare un account nuovo di zecca su Facebook o Instagram (quindi anche con una email appena creata), iniziare a seguire alcune pagine specifiche per far “capire” al social quali
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sono i nostri interessi e infine vedere quali sono le aziende le cui pubblicità compaiono più spesso. Ci vuole poco per accorgersi che tendenzialmente la stragrande maggioranza degli annunci apparterrà a grandi aziende e molto poche a piccole e medie imprese. Al di là delle indagini individuali, esistono comunque molti dati oggettivi che rendono tutto ciò evidente. Le implicazioni ambientali di questa dinamica sono enormi. Ed è una dinamica di cui gli enti statali entrano a far parte in maniera contraddittoria.
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Le protagoniste della transizione
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È ormai noto e consolidato il profondo squilibrio che caratterizza l’assetto economico europeo, compreso quello italiano, in termini di dimensioni delle unità aziendali operanti sul territorio. L’Unione Europea, nella Raccomandazione 2003/361/ CE, definisce le piccole-medie imprese (PMI) sulla base del numero di lavoratori coinvolti, che deve essere inferiore o uguale a 250, e del fatturato annuo, che non può superare i 50 milioni di euro. A questa categoria, secondo i dati dei Censimenti Permanenti Istat del 2018, appartengono il 99,6% delle aziende italiane, la maggior parte delle quali rientra addirittura nella fascia della micro impresa, con meno di dieci dipendenti. Dall’altra parte le grandi imprese rappresentano solo lo 0,3% ed occupano il 28,3% dei lavoratori. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
I numeri nazionali sono sostanzialmente in linea con quelli comunitari, anche per quanto riguarda l’impatto ambientale di queste aziende, nel quale si evidenzia un altro forte disequilibrio: le grandi imprese sono responsabili di circa il 40% dell’inquinamento industriale in Europa, secondo un documento dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development) del 2018. È importante sottolineare che piccola o media impresa non significa necessariamente meno inquinante. Tuttavia queste hanno grande importanza nella transizione verso una produzione industriale più sostenibile: secondo un Issue Paper pubblicato dall’OECD nel 2018, intitolato SMEs: key drivers of Green and Inclusive Growth, le PMI rivestono un ruolo strategico nel processo verso la green economy.
Al contrario, è piuttosto evidente come le grandi industrie rappresentino i soggetti trainanti di uno stile di vita legato al sovraconsumo: non tanto per quanto riguarda la loro sostenibilità ambientale, che varia molto da azienda ad azienda, ma soprattutto a livello di influenza sull’immaginario collettivo, in quanto si tratta spesso di multinazionali in grado di operare in ambiti e zone geografiche molto diversi fra loro, con una potenza tale da riuscire in alcuni casi a influire sulle politiche economiche locali. Non è un caso che negli ultimi anni molte di queste abbiano intrapreso - non sempre legittimamente - campagne di comunicazione per ripulire la propria immagine, così da riuscire a far fronte una platea di consumatori sempre più attenti (vedi Panni sporchi, coscienza pulita).
Il paper, coerentemente con molte altre ricerche, identifica le PMI come principale motore della necessaria ed urgente transizione verde, sia per il peso che esse hanno nell’economia europea, sia per alcune loro caratteristiche e peculiarità. Lo studio distingue tre tipologie di PMI, a seconda del loro contributo al cambiamento: eco-innovator, eco-adoption e eco-entrepreneurship. Le prime sono caratterizzate dall’essere fortemente innovative. Implementano nuovi prodotti o processi produttivi per migliorare la propria efficienza, riducendo l’impatto ambientale anche non intenzionalmente. Le seconde invece pongono la tutela ambientale come uno dei principali obiettivi d’impresa, identificando in essa un’opportunità, come quella di attirare una fascia di consumatori sensibili alla tematica. 25
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Le terze, infine, si limitano ad adeguarsi alla regolamentazione in vigore, apportando le modifiche necessarie alla loro attività per rientrare nei parametri richiesti. Ad ogni modo, il loro contributo potrebbe risultare essenziale per guidare l’economia verso questi obiettivi. Al di là poi del loro ruolo in una prospettiva di transizione ecologica, il ruolo delle PMI è stato riconosciuto come di vitale importanza anche a livello sociale e culturale all’interno del tessuto produttivo italiano. Questo aspetto (riferito in particolare alle piccole imprese) è stato sottolineato in maniera particolare da Giulio Sapelli, professore universitario della Statale di Milano, nel suo libro Elogio della piccola impresa. Sapelli infatti spiega come questo genere di attività economiche siano paragonabili più ad 26
“una comunità che una società organica”, una “unità economica e biologica insieme”. Le parole di Sapelli riguardano le piccole imprese. Ammesso che ciò non si possa estendere anche a quelle di medie dimensioni, si tratta in ogni caso della stragrande maggioranze del tessuto produttivo italiano e con ogni probabilità di quella porzione che più rimane tagliata fuori dalla pubblicità online. Se alle piccole e medie imprese sono riconosciuti da una parte questo potere e questo potenziale ruolo guida per una crescita economica sostenibile, dall’altra esse soffrono da sempre di svantaggi strutturali che ne ostacolano il pieno sviluppo. Tra questi, oltre alla cronica difficoltà ad accedere a finanziamenti - problema a cui negli ultimi anni la
legislazione nazionale ed internazionale ha cercato di supplire - si è ormai affermato un fattore che permette alle grandi aziende di scavalcare le PMI sul mercato: il digital advertising. Premesso che la pubblicità svolge un ruolo cruciale per il rafforzamento della posizione di mercato di un’impresa e che le grandi società hanno a disposizione molte più risorse per questo tipo di investimenti, la pubblicità online ha complicato ulteriormente la vita delle PMI. Si tratta di un settore che si sta sviluppando sempre più velocemente negli ultimi anni, parallelamente all’ inarrestabile diffusione dei social, che la fanno da padroni in questo contesto. Come riportano i dati dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, nel 2019 il web marketing costituiva già il 37% del
comparto pubblicitario italiano, con un tasso di crescita del 13% rispetto all’anno precedente. Per poter usufruire di questo potentissimo strumento di amplificazione, che permette di raggiungere migliaia di consumatori con un click, sono necessarie non solo molte risorse economiche, ma anche competenze tecniche e la consulenza di manager specializzati che sappiano districarsi fra le complesse dinamiche del web. Ad oggi, tutto questo finisce inevitabilmente per avvantaggiare molto le aziende di grosse dimensioni rispetto alle piccole e medie imprese, aggiungendosi ai già numerosi fattori che ostacolano una transizione verso un’economia sostenibile. Processo in cui, come si è già dimostrato, le PMI hanno un ruolo chiave. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Nani e giganti Le PMI nella loro attività di internet advertising si trovano a dover gestire concorrenti di dimensioni assai maggiori, spesso disposti a spendere cifre esorbitanti in pubblicità e con staff più esperto nella gestione del web. Uno studio del 2016 condotto da due ricercatori dell’Università svizzera di Chur, capitale del piccolo cantone dei Grigioni, dimostra le enormi difficoltà che le PMI si trovano ad affrontare, competendo sui social media con aziende di grandi dimensioni. Questo studio è di particolare interesse se si considera la somiglianza che il tessuto produttivo svizzero ha con quello italiano. In Svizzera infatti, esattamente come in Italia, le micro, le piccole e le medie imprese rappresentano il 99% delle aziende diffuse sul territorio nazionale. Analizzando le principali differenze di strategia pubblicitaria tra le PMI e le grandi aziende, si osserva che le prime si basano su una comunicazione portata avanti di giorno in giorno, quotidianamente ma senza alcun tipo di pianificazione e senza potersi affidare ad un personale specializzato. Non è quindi difficile comprendere perché, tra le principali motivazioni che spingono una piccola o media impresa a non condurre attività pubblicitaria sui social, ci sia “l’attesa di un basso ritorno dell’investimento”, almeno secondo i dati raccolti dai due ricercatori. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
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→ Recentemente,
Volkswagen Italia ha speso più di €4500 per pubblicizzare uno spot di poco più di un minuto su Facebook, per tre giorni.
Questa motivazione giustifica appieno la diversa percezione dell’investimento pubblicitario online per le PMI rispetto alle aziende di maggiori dimensioni. Se infatti per le piccole e medie imprese investire in pubblicità online può sembrare una scommessa perdente, nelle grandi aziende questo stesso investimento acquista una rilevanza notevole. Basta osservare qualche cifra per rendersene conto. Considerando il bilancio dello scorso anno di Renault Italia , sotto la voce “pubblicità” si presentano circa 61 milioni di euro di spesa. Il numero in sé non dice nulla: il fatto che alcune imprese possano investire grandi somme in pubblicità è naturale. Diventa indicativo se rapportato all’utile annuo della stessa azienda: 61 milioni investiti in pubblicità contro i 25 di utile, una cifra di tre volte inferiore rispetto all’investimento. In questo senso è interessante osservare anche qualche dato dalla libreria di inserzioni consultabili su Facebook. Recentemente, Volkswagen Italia ha speso più di €4500 per pubblicizzare uno spot di poco più di un minuto sul social network, per tre giorni. 28
Indipendentemente dal numero di profili raggiunto, la campagna ha più di un milione di impression in tutta Italia con un focus particolare su Campania e Lombardia. E’ ipotizzabile che ci fosse anche un sistema di targeting mirato sugli utenti che più possono essere interessati da una simile pubblicità, ma su questo Facebook non fornisce informazioni. Considerando anche che il video non era di lancio per una nuova vettura, ma un riepilogo di una fiera in cui venivano presentati i contraddittori futuri piani green dell’azienda, ci si può fare un’idea di quanto queste società abbiano a disposizione per l’advertising e il marketing. E che soprattutto, al contrario di quanto pensano molti gestori di PMI, l’attività pubblicitaria online è un buon investimento - almeno per le grandi aziende, che come vedremo possono contare anche su ben altri strumenti. Un altro esempio piuttosto chiaro fa riferimento a quei settori in cui le piccole imprese si sono trovate, soprattutto negli ultimi anni, a doversi contendere con le multinazionali i propri servizi. Le piattaforme digitali basate sulla premessa di estrarre valore e mercato dalle PMI sono infatti proliferate in tutto il mondo soprattutto negli ultimi 5 anni. Aziende come Deliveroo, Ubereats e Just Eat hanno aperto un mercato in un settore che fino a poco prima era esclusivo dei gestori dei locali che proponevano un servizio di consegna a domicilio indipendente. In poco tempo tuttavia queste app, spinte dalla popolarità tra i consumatori, hanno creato modelli di attività basati su un sistema di sfruttamento dei propri dipendenti e su pesanti commissioni (la maggior parte delle piattaforme di delivery non rilascia dati ufficiali sulla percentuale di commissioni, che varia
da ristoratore a ristoratore; le stime comunque si aggirano tra il 20-35%). Di conseguenza queste realtà, divorando un’ampia fetta del mercato per le PMI del settore, le hanno costrette, da un giorno all’altro, a spartirsi il guadagno con questi colossi. Motivo centrale della diffusione di questi servizi è la pubblicità. Se, infatti, il gestore di un piccolo ristorante di una via periferica di una grande città decidesse di pubblicizzare la propria attività, il modo in cui il suo locale può vendere più prodotti e quindi fare utili maggiori, sarebbe con ogni probabilità creare un’inserzione su Facebook targettizzata in maniera sommaria e buttarci un po’ di soldi, o creare dei volantini da distribuire nelle caselle delle lettere delle case limitrofe. Una soluzione ben diversa l’hanno invece adottata le aziende sopracitate. Solo su Facebook, infatti, questa estate Ubereats ha speso più di 12.000 euro in due settimane per pubblicizzare un video di 10 secondi, che stando ai dati del social ha fruttato più di un milione e mezzo di impression. Diverse piattaforme di food delivery sono state inoltre accusate di gestire in maniera opaca e invasiva la raccolta di dati sugli utenti (vedi Buchi nella rete). E’ chiaro che un sistema di questo tipo non può essere sostenibile per le PMI, che si vedono sempre più tagliate fuori dalla competizione, bloccate in un meccanismo ingiusto che avvantaggia enormemente chi ha maggiori disponibilità di pagare inserzioni sui social network. Ciò risulta ancor più vero se si analizza non soltanto la differenza quantitativa che c’è tra l’attività pubblicitaria delle PMI e quella delle grandi aziende, ma anche la differenza qualitativa degli strumenti su cui le due tipologie di società possono contare. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
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Circa tre anni fa, nel 2017, c’è stato un periodo in cui sui social non si parlava d’altro che di un particolare spot pubblicitario. Era quello della merendina Buondì della Motta, in cui una famiglia viene decimata da una pioggia di asteroidi a causa di frasi del tipo “mi possa colpire un asteroide se esiste una colazione leggera e invitante che possa coniugare leggerezza e golosità”. Lo spot in questione fu al centro di vari dibattiti, più o meno seri, per diverse settimane e ne furono girate anche alcune parodie. Il video è opera del distaccamento italiano dell’agenzia pubblicitaria internazionale Phd Media. Sul loro sito si possono leggere dati che, anche se probabilmente ingigantiti (non vengono citate le fonti), mostrano risultati impressionanti: “17,5 milioni di utenti unici, 12% engagement rate, 8,5 milioni di view complete del video, 90.000 conversazioni da parte degli utenti nei primi 10 giorni di campagna, oltre 360.000 interazioni e 135.000 citazioni sui social”. E dopo un’altra serie di numeri c’è il dato più indicativo di tutti: “il 74% degli italiani ha parlato della campagna, compresi coloro che non l’avevano vista”. Questo episodio permette di mettere a fuoco una delle maggiori differenze tra le grandi aziende e le PMI per quanto riguarda l’attività pubblicitaria. Le prime infatti si possono affidare ad alcune tra le migliori agenzie di comunicazione del mondo, che hanno ovviamente gli strumenti più adatti a pianificare campagne a lungo termine, creare video virali SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Gli esperti del settore o semplicemente misurare precisamente la performance delle varie pubblicità. Sono infatti le più grandi agenzie pubblicitarie a utilizzare al meglio elementi tecnici e specifici sui diversi aspetti del digital marketing. Basti pensare allo sfruttamento di conoscenze psicologiche nell’attività pubblicitaria, documentate da un’ampia letteratura fin dagli anni ‘30 (almeno negli USA), oggi ancora più accurate. O anche all’utilizzo di conoscenze prese dall’antropologia, dalla sociologia e dalle scienze comportamentali per individuare il proprio target di clientela. Tutti questi elementi, sempre più accurati man mano che le informazioni riguardo ai potenziali consumatori aumentano, permettono ai soggetti che si appoggiano ad agenzie di comunicazione di migliorare enormemente la propria attività pubblicitaria. Rimanendo sull’esempio della sezione italiana di Phd Media, guardare il portfolio dei clienti può dare un’idea sulle dimensioni delle aziende che si affidano all’agenzia. Tra i nomi figurano imprese dei settori più disparati, dall’automotive con Audi, Volkswagen, Porsche e Bentley, all’alimentare con Aia, Motta, Bauli, Eataly, alle compagnie aeree come Qatar airways. L’elemento in comune in questo caso è piuttosto evidente: una grande disponibilità di capitale da investire in pubblicità. Investimenti la cui entità può essere suggerita dal flusso di denaro passato per l’agenzia: come dimostrano alcune cifre del bilancio della Phd, al 31 dicembre del 2019 il fatturato era di quasi 252 milioni di euro.
A questo punto però è legittimo chiedersi se queste agenzie pubblicitarie - di cui la Phd Media Italia è solo un esempio rappresentativo abbiano solamente clienti di grandi dimensioni o se invece anche le piccole e medie imprese possono in qualche modo sfruttare la loro attività. Dopotutto, non è difficile ipotizzare che sui loro stessi siti le agenzie di comunicazione mostrino solamente i nomi dei clienti più grossi e importanti per impressionare altri potenziali clienti. Una risposta piuttosto evidente si trova in un paper accademico, intitolato Investment in online advertising and return on sales: Does it pay to outsource the services to an advertising agency?, scritto da due ricercatori dell’Università di Brasilia e pubblicato nel maggio 2018 sulla rivista “Journal of Marketing Communications”. Secondo i due ricercatori infatti “più è alto l’investimento in pubblicità, più l’affidamento esterno dell’attività pubblicitaria a un’agenzia di marketing ripaga in termini di profitti marginali. Con un basso investimento, l’affidamento esterno non ripaga”. Ma anche chi decidesse di gestire internamente la propria attività di marketing non riuscirebbe ad avere buoni ritorni sugli investimenti. Nello studio infatti si legge che gli addetti interni alle PMI porterebbero avanti solo programmi molto basilari e che la loro scarsa abilità tecnica non solo non gli permetterebbe di creare grandi profitti, ma non gli permetterebbe nemmeno di misurare con precisione l’influenza dell’attività pubblicitaria sulle vendite.
E’ chiaro che non si può assumere con certezza che la stessa cosa valga anche in Italia, essendo questo uno studio condotto su aziende dall’altro lato dell’Oceano. Ma, osservando alcuni dati sull’attività di marketing delle imprese italiane, si può facilmente immaginare che la dinamica sia abbastanza simile. Delle indicazioni utili in questo senso arrivano da un report di quest’anno dell’agenzia di marketing Jellyfish, in cui vengono analizzati i trend del digital marketing in Italia. Qui si dimostra come la tendenza più comune sia quella di voler gestire internamente la propria attività di marketing online, senza affidarsi a partners o agenzie esterne. Viene infatti scritto che “in Europa il 62% delle aziende è pronto a gestire interamente il proprio media buying entro il 2022”, precisando che in Italia è solo il 24% delle aziende ad aver affidato la propria attività pubblicitaria a soggetti esterni, mentre la maggior parte gestisce tutto in-house o attraverso servizi di consulenza. Secondo il quadro qui tracciato, quindi, il risultato è quello di poche e grandi aziende che, potendo permettersi ingenti investimenti in pubblicità, possono sfruttare i servizi di poche e altrettanto grandi aziende pubblicitarie. Le PMI, al contrario, rischierebbero di vedere buttato il proprio investimento se si affidassero alle agenzie di advertising. Il risultato è un divario ancora più ampio tra l’efficacia di advertising delle PMI e quella delle aziende più grandi. 29
Stato pubblicitario La pervasività e la potenza effettiva del web advertising delle maggiori aziende risultano particolarmente evidenti analizzando il rapporto tra gli enti statali e le campagne pubblicitarie delle aziende in Italia (per i meccanismi legali di regolazione del tracciamento degli utenti a fini commerciali, vedi Buchi nella rete). In particolare, risulta interessante osservare come questo rapporto muti in base alla dimensione delle imprese in questione. Questo ci da l’opportunità di notare la reale differenza che intercorre tra qualsiasi campagna pubblicitaria di una piccola e media impresa e quella di una di grandi dimensioni. Per quanto riguarda il rapporto tra le istituzioni statali e l’attività di advertising delle PMI, il ruolo dello Stato è principalmente di incoraggiamento. Nel clima di una quarta rivoluzione industriale si è infatti resa vitale una collaborazione fra istituzioni e imprenditoria per rendere accessibile a quest’ultima il mondo del digitale e sostenerne la transizione verso il nuovo modello di “Smart factory”. Una via che va necessariamente percorsa per garantire maggiore innovazione e competitività. Il Piano 4.0, come piano nazionale di misure e agevolazioni, del valore di 7 miliardi solo per il 2020, ha proprio questo scopo (proprio in questi giorni, con la nuova legge di bilancio, il piano è stato potenziato e ha assunto la denominazione di Transizione 4.0). Fra gli investimenti innovativi incentivati, rientrano anche quelli per “lo sviluppo di tecnologie abilitanti dell’Impresa 4.0”. Come spiega un rapporto della multinazionale di consulenza McKinsey, questi comprendono anche mezzi per “l’u30
tilizzo di dati”, facendo riferimento a big data, open data, internet of things, machine-to-machine e cloud computing. Tutte queste risorse rappresentano un motore per l’interpretazione di grandi quantità di dati, essenziale nel processo di marketing e advertising delle imprese. E’ infatti noto che esiste una diretta correlazione fra la quantità di dati, vitale per una loro analisi significativa, le risorse con cui vengono portate avanti queste analisi e l’efficacia di marketing e advertising stessi. Attraverso misure e agevolazioni mirate quindi, le istituzioni propongono un modello di supporto alle imprese fondato su iper e super ammortamento (meccanismi che permettono di ridurre le tasse) per favorirne la digitalizzazione e con essa il web advertising. Se quindi da un lato la politica italiana incoraggia in maniera esplicita la digitalizzazione e l’attività di marketing online delle PMI, dall’altro il rapporto tra enti statali e campagne pubblicitarie è molto diverso. La dinamica si esplica principalmente in due modi: in un primo caso l’advertising delle grandi aziende si traduce in vera e propria attività di lobbying sulle istituzioni; in un secondo, invece, sono gli stessi enti statali che finiscono per incoraggiare per disattenzione o intenzionalmente - le loro campagne pubblicitarie. Per i casi che seguono si potrà obiettare che la maggior parte dell’attività pubblicitaria non si svolge esclusivamente sui social, ma anche su altri mezzi, principalmente testate giornalistiche. La realtà però è che la stragrande maggioranza degli annunci sulle testate online sfrutta i servizi di Google Ads, software appartenente
all’omonimo gruppo Google: una delle aziende più invasive in termini di tracking e utilizzo dei cookies. Di conseguenza, anche questo caso rientra nella dinamica di allargamento del divario tra PMI e grandi aziende nell’ambito dell’advertising. Il primo caso di dinamica sopracitato si può esemplificare attraverso un episodio molto recente. Il 23 ottobre l’Europarlamento sulla Politica agricola comune (PAC), storico programma di sussidi agli agricoltori che copre quasi un terzo del budget europeo, ha votato contro la richiesta di vietare l’utilizzo di definizioni legate al consumo di carne, come “bistecca” o “hamburger”, per prodotti alimentari a base vegetale. La lobby europea della carne ha fortemente incoraggiato la richiesta, avviando una campagna multimediale a favore dell’emendamento. La manifestazione più eclatante è stata il tappezzamento di Bruxelles con cartelli che riprendevano la frase del celebre dipinto di René Magritte “Ceci n’est pas une pipe” (Questa non è una pipa), sostituendola con lo slogan “Ceci n’est pas un burger” (Questo non è un burger) accompagnato dall’immagine di un hamburger vegano. In Italia la campagna è stata guidata da Uniceb e Assocarni. Entrambe sono associazioni nazionali che rappresentano molte imprese nel mercato della carne ed entrambe vedono ai loro vertici esponenti delle più grandi aziende del settore. Per quanto riguarda Assocarni infatti l’attuale presidente è Luigi Pio Scordamaglia, amministratore delegato di Inalca S.p.a., una delle maggiori società nell’industria della carne. Secondo i numerosi curriculum vitae dello
stesso Scordamaglia che si trovano online, Inalca S.p.a. ha più di 4000 dipendenti e circa 1,3 miliardi di euro di fatturato. Prima di lui alla presidenza dell’associazione c’era Luigi Cremonini, fondatore del gruppo Cremonini, di cui la stessa Inalca fa parte assieme a un’altra decina di aziende. Il consiglio di presidenza di Uniceb invece vede tra i membri della sua presidenza in grande maggioranza - tre su quattro - dirigenti di imprese che per fatturato o numero di dipendenti sono assimilabili alle grandi imprese, almeno secondo quanto si legge sui loro bilanci ufficiali. La campagna italiana è stata condotta sulle principali testate giornalistiche e sul web, attraverso anche video informativi di vario genere. L’emendamento non è passato. Ma il grado di pervasività della campagna pubblicitaria è piuttosto evidente se si considera che questo dibattito, in teoria marginale all’interno di una discussione fondamentale come la PAC europea, è riuscito ad occupare un posto centrale su tutte le testate e sui social. Gli effetti collaterali sono altrettanto chiari, come spiegano i movimenti ambientalisti: Marco Contiero, direttore della politica agricola dell’UE di Greenpeace, ha dichiarato ad alcune testate giornalistiche che “stanno confondendo il dibattito sulla riforma dell’agricoltura con un inutile voto sui nomi dei prodotti alimentari”. La stessa posizione, ancora più dura, è stata espressa da Greta Thunberg in un post su Twitter in cui si legge che “mentre i media parlavano dei nomi di hot dog vegani, il Parlamento europeo ha firmato per 387 miliardi di euro per una nuova politica agricola che è in pratica una resa su clima e ambiente”. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Pubblicità regresso La seconda tipologia di rapporto, in cui le attività pubblicitarie di grandi aziende incontrano la collaborazione stessa delle istituzioni, viene perfettamente rappresentata da una serie di episodi avvenuti tra il 2018 ed oggi. Proprio al 2018 risale infatti l’appoggio dello Stato italiano per il lancio de “La Stellina della carne bovina”, portale di approfondimento di una campagna di informazione lanciata da Assocarni, in collaborazione con la Rai, sul consumo consapevole della carne bovina italiana. Si tratta della prima campagna pubblicitaria finanziata dal MIPAAF (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali), il cui obiettivo è evidenziare i valori nutrizionali e l’importanza delle proteine animali nella dieta mediterranea, oltre al contributo della zootecnia alla tutela del territorio. Tale promozione, a sostegno di una filiera dal valore di 10 miliardi di euro per l’industria agroalimentare e 6,4 miliardi per il settore primario di riferimento, è andata in onda per due settimane con prodotti audiovisivi ideati per i canali Rai (TV, web, radio e cinema del circuito di Rai Pubblicità) con il format “Lezioni di etichetta”. I diversi spot rimandano al sito della campagna, dove si trovano dati e informazioni che fanno apparire l’industria della carne come un settore particolarmente sostenibile. Diverse sono state le critiche, rivolte soprattutto alla faziosità delle informazioni trasmesse. Per fare un esempio, sul SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
sito si dice che la produzione zootecnica (carne, latte e uova) è responsabile solo del 14% delle emissioni totali di gas serra. Ciò è vero ma non vengono dati termini di paragone, quindi non viene detto che quella cifra è uguale alle emissioni dell’intero settore dei trasporti - non a caso sia l’alimentazione sia i mezzi di trasporto sono entrambi aspetti fondamentali su cui intervenire per uno stile di vita sostenibile, come spiega un report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) intitolato Global warming of 1.5°C. Rimanendo sul tema, sempre nel 2018 Assocarni ha ricevuto 169.000 euro dall’Unione Europea a sostegno di una campagna multimediale dal valore di 5,9 milioni di euro per incentivare il consumo di carne di vitello in Italia, Francia e Belgio (dove viene impiegato quasi il 70% della carne di vitello in Europa). La campagna si è svolta (e si continua a svolgere) per gli anni 2019, 2020, 2021. Uno dei suoi elementi principali è il sito internet “Viva il vitello” disponibile in italiano, francese e olandese, in cui vengono elencate le qualità del vitello e viene data una rappresentazione idilliaca degli allevamenti con frasi del tipo “L’allevatore osserva molto i suoi animali: ogni mattina fa il giro dell’allevamento e controlla i vitelli uno per uno, in questo modo si assicura che stiano bene, mangino bene…”. Ciò sembra andare in contrasto con i dati del rapporto Feeding the problem the dangerous intensification of animal farming in Europe di Greenpeace
del febbraio dell’anno scorso, in cui si legge che già nel 2013 tre quarti delle unità di bestiame (72,2%) nei 28 Paesi Ue sono stati allevati in aziende agricole di grandi dimensioni e allo stesso tempo stavano diminuendo sempre di più le aziende agricole di minori dimensioni. Accanto a casi eclatanti di collaborazione attiva tra le istituzioni italiane e europee con l’attività pubblicitaria delle grandi aziende, esistono anche casi in cui le stesse grandi aziende riescono a sfruttare incentivi alle pubblicità pensati per aziende minori. Il decreto della presidenza del Consiglio dei Ministri del 18 marzo 2020 ha approvato la lista dei beneficiari del credito d’imposta per gli investimenti pubblicitari incrementali su testate registrate (comprese quelle online) e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, relativo all’anno 2019. In pratica, un’azienda che aumenta il proprio investimento in pubblicità su testate registrate ha uno sconto sulle tasse. Per ogni soggetto ammesso alla fruizione è destinato un tetto massimo di 200.000 euro, con eccezioni specificamente indicate per i settori dell’autotrasporto, agricolo, della pesca e dell’acquacoltura. Proprio l’esistenza di questo tetto massimo rivolge l’incentivo in maniera evidente alle PMI. Infatti, nella maggior parte dei casi, le aziende più grandi pagano diverse decine di milioni di euro di imposte (nel bilancio del 2019 di Renault Italia le imposte arrivano a 22 milioni di euro). Ciò riduce anche il tetto massimo a una quantità irrisoria:
200.000 euro su 22 milioni sono meno dell’1%. Se si prende invece un’azienda che nella lista dei beneficiari dell’incentivo risulta a metà - Zoomarine, con circa 20.000 euro di credito d’imposta - si può notare come in questo caso i 20.000 euro si applichino su una cifra di imposte da pagare di 400.000 euro: si tratta già di un’influenza cinque volte maggiore ed è probabile che vada ad aumentare man mano che si prendono in esame imprese più piccole. Nonostante questo, non sono poche le aziende di grandissime dimensioni che hanno ottenuto il massimo di incentivo. Tra queste figurano anche industrie di settori direttamente inquinanti - e della cui attività pubblicitaria abbiamo già parlato - come quello automobilistico. Opel Italia, Citroen Italia, Peugeot Italia hanno infatti ricevuto 200.000 euro di credito d’imposta. Tutte e tre le società peraltro fanno parte dello stesso gruppo industriale, Groupe PSA, che secondo le notizie più recenti è in via di fusione con un altro colosso del settore, FCA. Il risultato quindi è un incentivo all’attività pubblicitaria il cui beneficio è di gran lunga maggiore se rivolto alle PMI, sia in termini di impatto economico sia in linea di principio, visto che come si è dimostrato le aziende più grandi non hanno difficoltà a portare avanti la propria attività pubblicitaria. Ma che viene comunque dominato da colossi di diversi settori, alcuni anche altamente inquinanti, andando a sottrarre risorse al fondo messo a disposizione per l’incentivazione della pubblicità. A danno delle PMI. 31
Tirare le somme Ad oggi il mercato pubblicitario online è dominato dalle grandi aziende. Le piccole e medie imprese hanno diverse difficoltà nell’organizzare campagne pubblicitarie a lungo termine e con obiettivi precisi, con il risultato che la stessa attività di online advertising diventa meno redditizia se non addirittura un investimento in perdita.
In alternativa, per riuscire a raggiungere un numero adeguato di persone, le PMI si devono affidare a piattaforme di giganti del settore come quelle del food delivery anche a costo di commissioni particolarmente pesanti. Gli enti statali, che pure incoraggiano la pubblicità
e la digitalizzazione delle PMI, finiscono per incentivare l’attività promozionale delle grandi aziende sia involontariamente che volontariamente, legittimando la diffusione di informazioni ingannevoli e parziali. In alcuni casi più eclatanti l’attività di advertising delle grandi aziende finisce invece ad influenzare gli stessi enti statali e il dibattito politico. Il risultato è un circolo vizioso che rende molto difficile l’affermarsi delle PMI nelle attività di advertising. Con la conseguenza che qualsiasi reale possibilità di transizione verso un’economia sostenibile si allontana sempre di più, insieme a un forte danno ai soggetti portatori di un importante valore sociale e culturale del tessuto produttivo italiano.
di Chiara Di Tommaso, Matilde Marcozzi, Francesca Maria Lorenzini, Luca Pagani e Francesco Paolo Savatteri
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SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Capitolo IV
27.11 12:38 12:38 27.11
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La moda “veloce” non ha intenzione di rinunciare ai suoi volumi di produzione e punta tutto sulla promozione di una facciata verde. Ma l’impatto ambientale del fast fashion è ancora altissimo Il fenomeno dell’overconsumption – il consumo incontrollato, impulsivo o in quantità superiori al necessario di beni non essenziali, che comporta uno sfruttamento continuo delle risorse – ci vede vittime, solo parzialmente inconsapevoli, di un sistema rovinoso per la sostenibilità ambientale. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Ogni giorno siamo sottoposti a decine di pubblicità da parte di grandi aziende che conducono il consumatore esattamente dove H&M (o chi per lei) vuole che il consumatore si trovi: in negozio, o più spesso online, a comprare una t-shirt made in Bangladesh a 6 euro e 99. Tra i campi in cui la pubblicità alimenta drasticamente
l’overconsumption e il suo impatto ambientale, proprio il settore della moda risulta uno dei più coinvolti. Parliamo di un fenomeno di portata globale che in quanto tale non esclude l’Italia; infatti, come riporta Greenpeace nell’International Fashion Consumption Survey del 2017, il 60% degli italiani ammette di avere più vestiti di
quelli di cui avrebbe bisogno. La produzione mondiale di capi di abbigliamento è raddoppiata dal 2000 al 2014; le vendite totali del settore sono cresciute da 1 trilione di dollari nel 2002 a 1.8 trilioni nel 2015 e, secondo le proiezioni del report Timeout for fast fashion, raggiungeranno i 2.1 trilioni di dollari entro il 2025. 33
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Fashion retailers come Inditex (che raggruppa – fra gli altri – Zara e Pull&Bear) e H&M Group hanno vissuto dal 2000 a oggi una crescita vertiginosa che li ha resi leader del settore, nonché i più grandi rivenditori di abbigliamento al mondo. Eppure, la possibilità offerta da queste aziende di acquistare ogni settimana nuovi capi a un prezzo irrisorio e in linea con il trend del momento cela il rovescio della medaglia. Fra i tanti materiali utilizzati nella produzione di capi quello che più si presta al modello fast fashion è il poliestere, fibra sintetica ricavata da risorse fossili, dall’enorme impatto ambientale. Come citato nel report Timeout for fast fashion, la richiesta di questo materiale è cresciuta esponenzialmente dal 2000 a oggi, ed è previsto che raggiunga i 70 milioni di tonnellate nel 2030. In questo contesto i social media e lo shopping online hanno accelerato notevolmente la crescita del settore fast fashion, e dunque aggravato il problema dell’overconsumption. Il sondaggio di Greenpeace citato in precedenza denunciava questo legame già nel 2016: in media, gli utenti di Instagram e Facebook tendevano a spendere più soldi – quasi 130 euro al mese – e più tempo a fare shopping online rispetto a chi non faceva uso di queste piattaforme. I social media sono una vetrina interattiva e sempre nuova, e seguire amici, influencers o celebrità può favorire l’inclinazione allo shopping impulsivo. Come descritto nel rapporto After the Binge, the Hangover, “resistere alla peer pressure [condizionamento del gruppo, ndr] e all’influenza dei role models, e allo stesso tempo essere soggetti alla tentazione dell’acquisto in un click, richiede nuove competenze che molte persone non hanno”. Ogni anno l’industria della moda spende miliardi di dollari in pubblicità online, innescando strategie di marketing che fanno leva sulla psicologia del consumatore.
Di recente, molti marchi attivi sui social sono riusciti a integrare il consumatore nella campagna stessa, a trasformarlo da target ad advertiser del brand; è il caso di H&M (più di 82 milioni di followers tra Instagram, Facebook e Twitter), la cui bio del profilo instagram recita “Tag @hm for a chance to be featured on our feed”. Diverso l’approccio del colosso spagnolo Zara che, pur superando H&M come numero di followers (Zara ne ha 41,6 milioni) conta una media di “solo” 27 mila likes a post contro gli 86 mila di H&M. Questo perché i due giganti si approcciano ai social in modo diverso: mentre H&M cerca un avvicinamento almeno apparente verso i suoi milioni di consumatori, Zara preferisce lasciar parlare l’immagine. Persino Benetton, marchio italiano molto lontano dai grandi numeri dei big del fast fashion, famoso per le sue campagne socialmente impegnate dal forte impatto visivo, risulta molto attivo sui social e può vantare un engagement rate degli utenti dello 0,53% – notevole se paragonato allo 0,24% di H&M e allo 0,07% di Zara. Differenze di strategia a parte, l’obiettivo è sempre lo stesso: proporre al consumatore la prossima, ennesima collezione come benefica per l’ambiente. Grazie a un massiccio bombardamento pubblicitario l’industria della moda low cost è riuscita a ritualizzare l’acquisto seriale predicando il verbo del “Compra ora, più che puoi! Tanto è tutto sostenibile, riciclabile o riciclato!”.
→ “Compra ora, più che puoi! Tanto è tutto sostenibile, riciclabile o riciclato!”. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Sono tantissime le aziende di moda che hanno incluso iniziative ecosostenibili all’interno delle proprie strategie di marketing. “Green is more than a color, it is a philosophy” recita uno slogan ricorrente nelle campagne comunicative di Benetton, internazionalmente nota per le pubblicità curate dal fotografo Oliviero Toscani. Accanto all’interesse per le tematiche sociali e per la rappresentazione delle diversità, il brand trevigiano celebra il concetto di sostenibilità come punto focale della propria produzione. La collezione autunno-inverno 2020, ad esempio, propone dei giubbotti Eco-Recycle, imbottiti con ovatta ottenuta da bottiglie di plastica riciclata; per chiunque li acquisti è prevista una borraccia colorata offerta in omaggio. Inoltre, nel 2019, un’iniziativa connessa al canale e-commerce dell’azienda aveva lanciato la campagna “Go Green” per la piantagione di 1500 alberi tra Kenya e Camerun, in collaborazione con l’organizzazione Treedom. In questo caso un acquisto di almeno 80 euro presso gli stores Benetton e la partecipazione attiva al progetto garantivano la possibilità di vincere un albero della foresta Benetton oppure uno sconto del 15% sul sito di Treedom. Non si tratta semplicemente di azioni pubblicitarie per conquistare consumatori attenti alla sostenibilità, o campagne per “ripulire” l’immagine aziendale, ma di meccanismi che – attraverso l’inserimento di soglie di spesa minime – massimizzano la quantità di capi acquistati, finendo per normalizzare un acquisto incontrollato e superiore alle reali esigenze. Altrettanto a favore dell’inclusività e dell’ecocompatibilità sembrano essere anche le campagne pubblicitarie di H&M. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
L’azienda, oltre alla decisione di sospendere le pubblicazioni cartacee dei propri cataloghi, ha ribadito – attraverso il suo spot di giugno 2020 “Let’s change for tomorrow” – il proposito di impiegare materiali riciclati o provenienti da fonti rinnovabili per la totalità dei propri capi entro il 2030. Un proposito nobile, che è però stato accusato di greenwashing, data la grande pubblicizzazione e le prove vaghe o mancanti di un impegno effettivo. Fra le contraddizioni più recenti troviamo l’ultima collezione di maglioni natalizi 2020, realizzata per buona parte con fibre provenienti da fonti fossili, come il poliestere; nonostante venga certificato come “riciclato” e sebbene sia presente nella percentuale più abbondante, questo materiale viene strategicamente inserito per ultimo nel cartellino dei prodotti. Seguendo la stessa linea, Zara ha promosso per il 2020 una collezione chiamata “Join Life”, per la quale afferma di ricorrere a procedure e materiali a ridotto impatto ambientale; l’obiettivo è di sostituire in via definitiva un modello di sviluppo lineare con uno circolare, favorendo la raccolta in negozio di indumenti usati. Ambito, questo del riciclaggio in loco, nel quale H&M è già attiva dal 2013 e che prevede uno sconto del 10% sull’acquisto successivo ogni qual volta si contribuisca. In questa come in altre campagne d’immagine, ciò che viene presentato come un “premio” per una scelta sostenibile va in realtà ad alimentare un consumo reiterato e compulsivo, spingendo l’acquirente a comprare senza necessità pur di approfittare dell’imperdibile sconto.
Sull’onda delle proteste degli ultimi anni contro il cambiamento climatico quasi tutte le firme più note si sono imbarcate in qualche progetto verso la sostenibilità, con risultati molto variabili. In parte anche in risposta alle pressioni di gruppi ambientalisti, nonché all’ondata di indignazione globale seguita al crollo di una fabbrica tessile – o warehouse – a Savar (Bangladesh) e alla morte di un migliaio di operai nel 2013. Si tratta di iniziative di trasparenza - come ad esempio “Transparency Layer” di H&M o “SAC” (Sustainable Apparel Coalition), a cui aderiscono H&M Group, Inditex e Benetton - volte a monitorare e sanzionare le gigantesche catene produttive sulle quali il settore si appoggia. Grandi battaglie, in questo contesto, sono state quella per l’eliminazione di prodotti chimici “pesanti” dal processo produttivo grazie alla campagna “Detox” di Greenpeace, o l’obbligo per i fornitori di smaltire le proprie acque reflue in modi sostenibili. Altre politiche hanno visto aziende come H&M e Inditex firmare accordi con i sindacati locali sulla sicurezza degli stabilimenti di produzione, introdurre capi in materiali riciclati nelle proprie collezioni, incoraggiare l’uso di energie rinnovabili fra i propri fornitori e tutta un’altra serie di “piccole” misure. Con un fattore in comune: tutte somigliano più a rimedi estemporanei e di facciata che a soluzioni strutturali a lungo termine. In primo luogo, ciascuna tipologia di intervento presenta numerosi problemi di design e implementazione. Riguardo le politiche di monitoraggio, Elizabeth Paton e Sapna Maheshwari del “New York Times” riportano che l’imparzialità dei controllori (per lo più società terze) è spesso dubbia, date le pressioni di mercato che le aziende committenti possono esercitare.
Per di più le ispezioni, che dovrebbero costituire il “braccio” delle politiche di sorveglianza, avvengono spesso ad orari concordati, dando origine, secondo Benjamin Skinner (fondatore e CEO dell’organizzazione Transparentem) ad ampie opportunità per mascherare il mancato rispetto degli standard socio-ambientali. Un caso a parte sono poi quelle politiche deliberatamente inquinanti e distruttive del tessuto sociale, come il caso dell’acquisizione e riconversione di quasi un milione di ettari di terre Mapuche (in Argentina) da parte di Benetton. Il gigante veneto ha espulso le popolazioni locali dai loro territori storici e – secondo l’ecologista Alejandro Beletzky, promotore di una serie di indagini e azioni legali sulla vicenda – la sua azione ha alterato e privatizzato il bacino fluviale della regione. I problemi del fast fashion, però, non si esauriscono qui. Infatti, il modello industriale che si regge su una combinazione di prezzi e costi di produzione bassi, domanda (artificialmente, grazie alla pubblicità) alta e continuo succedersi di collezioni sempre nuove è per natura insostenibile. Lutful Matin, proprietario di uno stabilimento tessile vicino Dhaka (Bangladesh), si domanda come lo sforzo di marchi come H&M e Zara per migliorare standard e performance possa condurre ad un miglioramento a lungo termine, se quelle stesse aziende continuano a mettere pressione su fornitori e subfornitori perché i prezzi restino (troppo) bassi ed i volumi di produzione esorbitanti. La minaccia di trasferire le produzioni in paesi ancora più low-cost, come l’Etiopia, è sempre incombente. 35
Nel 2017, quando il movimento attivista Fashion Revolution stilò il suo primo Fashion Transparency Index, su 100 marchi di moda solo il 14% pubblicava l’elenco degli impianti di lavorazione e lo 0% delle aziende quello dei fornitori di materiali grezzi. Oggi, dopo appena 3 anni, queste percentuali sono salite rispettivamente al 24% e al 7%. Segno che la pressione dell’opinione pubblica ha spinto sempre più aziende alla trasparenza e alla tracciabilità delle filiere produttive. Alcuni obiettivi sono stati raggiunti proprio quest’anno, come la pubblicazione da parte di H&M – che guida la classifica globale come marchio più trasparente – e Benetton “di alcuni dei loro fornitori di materie prime per la prima volta”. Il quadro dell’industria globale della moda, però, è tutt’altro che idilliaco. A partire dal grande assente della campagna per la trasparenza dei fornitori, il gruppo Inditex. La multinazionale spagnola, ricavi monstre per oltre 26 miliardi di dollari nel 2019, “non fornisce alcuna informazione sulle fabbriche di fornitori e sui lavoratori dell’abbigliamento” si legge nel report Fashion Checker finanziato dall’Unione europea. “Condividiamo tutte le informazioni circa la nostra catena di fornitori”: la scritta campeggia in bella vista nel documento Integrated supply chain management redatto dal colosso spagnolo. Con una precisazione non di poco conto: “con i nostri stakeholders”. 36
In sostanza, nessun privato cittadino (tanto meno un giornalista) può accedere agli elenchi dei fornitori Inditex. Ma questo basta alle multinazionali per presentarsi come sostenibili e trasparenti, puntando anche sulla lunghezza dei report aziendali - spesso ignorati dai consumatori. E proprio i report aziendali di Inditex abbondano di affermazioni apodittiche come: “in un esercizio di responsabilità e trasparenza, condividiamo tutte le informazioni sulla nostra catena di fornitori con i nostri stakeholders. In questo modo, non solo rispettiamo il nostro impegno per la trasparenza, ma promuoviamo anche una gestione più sostenibile della catena di fornitura”. In realtà, come afferma Aruna Kashyap dell’ONG “Human Rights Watch”, la trasparenza dovrebbe essere il fondamento di ogni serio sforzo per una catena di approvvigionamento libera da abusi. Non è il caso di Inditex, dove solo il sindacato “IndustriALL ha accesso alla lista completa dei fornitori e delle manifatture”. L’unico elenco pubblicamente consultabile riguarda le fabbriche coinvolte nel cosiddetto wet processing, ovvero le lavorazioni umide, ma parliamo di appena 326 fabbriche su 7235 (dati 2018). Non solo “trasparenza”, i dati che la multinazionale spagnola pubblica sul proprio sito cercano anche di dimostrare una concreta attenzione alle preoccupazioni dei clienti in relazione alla sostenibilità. “Nel 2018 – si legge – abbiamo risposto a 42 richieste di informazioni dai nostri clienti”,
un dato di per sé poco rilevante, se pensiamo che, sempre secondo il Fashion Transparency Index 2020, il gruppo ha realizzato 1,6 miliardi di prodotti (quasi quanto Adidas e OVS sommate insieme) in un anno. Ovviamente non tutti vengono venduti, ma solo il 3% (cioè 7 su 250) dei marchi analizzati da Fashion Revolution ha dichiarato il volume dei prodotti distrutti, i quali vengono “spesso inceneriti”. Solo fra il 2013 e il 2017, ad esempio, l’emittente danese TV2 ha scoperto che H&M aveva bruciato 60 tonnellate di vestiti “nuovi e invenduti”. Pur di non rinunciare a stock di produzione mastodontici, per continuare a tenere bassi i costi e massimizzare la platea di consumatori, il fast fashion brucia le rimanenze, scegliendo lo smaltimento più economico ma più dannoso per l’ambiente. La pubblicazione dei dati sui suppliers è una delle condizioni fondamentali per rendere i brand del fast fashion responsabili delle azioni dei loro fornitori, tanto sulle tematiche ambientali quanto sulle condizioni dei lavoratori. Ma non è certo la soluzione: come nota il network globale “Clean Clothes Campaign” “i marchi che divulgano dati sulle fabbriche che utilizzano non sono migliori dei marchi che non lo fanno, non significa che i salari o qualsiasi altra condizione di lavoro siano migliori”. È ciò che succede in concreto nel caso di Benetton o H&M, aziende in cui la trasparenza della supply chain non va di pari passo con un effettivo
impegno per la tutela dei lavoratori, e questo ha inevitabili ricadute anche sulla sostenibilità ambientale del prodotto. “Benetton – si legge nel profilo dell’azienda su Fashion Checker – non ha assunto alcun impegno [...] per garantire un salario di sussistenza in tutta la sua rete di fornitori”. E ancora, “non sono emersi elementi di prova che dimostrino che Benetton adotti misure per salvaguardare i salari quando è impegnata in trattative sui prezzi con i fornitori”. Sullo stesso tono si attestano i giudizi nei confronti di H&M: non si hanno prove che “la società utilizzi un parametro di riferimento credibile per i salari reali”. Le statistiche che si ricavano analizzando la lista fornitori 2019 pubblicata da Benetton confermano la pressoché totale mancanza di tutele per i lavoratori. Su 882 imprese fornitrici l’11% dichiara la presenza di un contratto collettivo di lavoro, e appena il 3% la presenza di sindacati. Per le altre aziende non sono presenti, oppure non vengono forniti dati, “N/A”. Rispetto a Benetton, H&M si muove su un ordine di grandezza diverso: nel 2019 ha registrato entrate per quasi 20 miliardi di euro, con un profitto netto di 1,2 miliardi. Da sempre molto attenta alla trasparenza, è l’unica che totalizza un punteggio superiore a 70 (73%, nello specifico) nel Fashion Transparency Index 2020. Il gruppo svedese infatti pubblica sia l’elenco dei fornitori (manifattura ma anche produzione) sia quello dei fornitori di secondo livello. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Sommando tutte le fabbriche si arriva a 4260 fornitori, fra i quali colossi che impiegano oltre 10000 lavoratori, come Fakir Apparels in Bangladesh, fornitore anche di Primark ed Esprit. A queste 4260 imprese fornitrici si aggiungono altre due aziende, la vietnamita Far Eastern Polytex e Li Peng Enterprise, con sede a Taiwan. Questi sono i soli due fornitori (su oltre 4000, pari allo 0,05% del totale) che H&M classifica come “lavorazione della fibra (poliestere riciclato)”. Questo materiale plastico viene utilizzato nella linea Conscious del marchio svedese, per realizzare “capi che – si legge sul sito – vengono creati con una piccola considerazione extra per il pianeta. Sono composti per almeno il 50% di materiali da fonti sostenibili – come […] il poliestere riciclato”. Queste sono le uniche informazioni rilevanti che il consumatore riceve, e infatti la collezione Conscious ha sollevato molte critiche; definita dai media “uno scherzo”, “un classico esempio di greenwashing”, è stata persino oggetto di indagine da parte della Consumer Authority norvegese; “dal momento che – ha dichiarato l’Authority – H&M non fornisce al consumatore informazioni precise sul motivo per cui questi vestiti sono etichettati come “Conscious”, concludiamo che ai consumatori viene data l’impressione che questi prodotti siano più “sostenibili” di quanto non siano in realtà”. Le accuse, nell’ambito di un’indagine su possibili violazioni della normativa sulla pubblicità ingannevole, riguardavano le informazioni, giudicate fuorvianti e vaghe, sulle percentuali minime di materiali riciclati presenti nei capi. Inoltre, secondo uno studio pubblicato nel Marzo 2020 dal Cnr sulla rivista “Nature”, proprio il lavaggio in lavatrice di capi in poliestere “contribuisce all’inquinamento delle acque superficiali e marine”. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Infatti, dopo un solo lavaggio, una maglietta realizzata al 100% in poliestere rilascia 1,100,000 microfibre tessili sintetiche. Il valore si abbassa a 640,000 in caso di capi fatti con poliestere riciclato al 65%, ma schizza a 1,500,000 per una maglia in poliestere e altri materiali. L’impatto delle fibre sintetiche sull’ecosistema marino è altissimo: secondo uno studio dell’Università della California, “le microfibre sintetiche costituirebbero il 90% dell’inquinamento da microplastica dell’Oceano Atlantico”. Se consideriamo che più della metà dei capi che possediamo è composto di materiali sintetici, l’impatto è disastroso. Insomma, la scelta di puntare su capi sintetici, ancorché (in parte) riciclati, non sembra essere per niente “cosciente”. Perfettamente coscienti, invece, sono le politiche pubblicitarie aziendali: allettare il consumatore sensibile alle tematiche ambientali con nomi che vagamente si riferiscono alla tutela dell’ambiente e spingerlo a comprare, comprare, comprare. Alcuni impegni presi delle aziende di moda a basso costo, è bene specificarlo, si sono tradotti in azioni concrete per aumentare la sostenibilità dei capi d’abbigliamento. Nonostante ciò, l’impatto ambientale delle aziende fast fashion è ancora molto alto; il prelievo di acqua da parte di Inditex, secondo quanto riportano i dati aggregati di Wikirate, è in costante aumento, passando dai 991,727 metri cubi nel 2012 a 1,18 milioni di metri cubi nel 2016. Nel solo 2018, la big spagnola ha consumato 4.07 milioni di Gigajoules di energia da fonti non rinnovabili e prodotto 1,76 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 nella categoria “emissioni indirette di greenhouse gas” di tipo “Scope 3”, ovvero quelli legati, ad esempio, a trasporto e distribuzione.
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H&M e Benetton (nono- Invece, la strategia è stante questa si muova su proprio questa, come livelli di produzione netta- confermato nel 2019 mente inferiori) non sono dal chief executive di certo da meno: la prima con H&M, Karl-Johan Persemissioni di tipo “Scope 3” son; “scegliere di ridurpari a 17,7 milioni di tonnel- re – ha detto all’agenzia late equivalenti di CO2, la Bloomberg – la propria seconda con 1,31 milioni di impronta ambientale acmetri cubi d’acqua di scari- quistando di meno […] co prodotta nel 2019 e una avrebbe ‘terribili consepercentuale di riciclo del- guenze sociali’”. Il vero le acque che raggiunge il problema è che, in real60% solo in alcuni impianti. tà, si producono e si acÈ evidente che il settore quistano troppi vestiti. del fast fashion, per le sue In conclusione, come intrinseche caratteristiche, afferma Dana Thomas, non è sostenibile per il no- autrice del libro Fashiostro pianeta, ma come tale nopolis: The Price of vuole fortemente presen- Fast Fashion, “finché tarsi. Facendo leva sulle consideriamo i vestiti crescenti sensibilità am- come oggetti monouso, bientali del consumatore, i abbiamo un problema”. brand della moda “veloce” E in questo la pubblicifanno credere agli acqui- tà ha una responsabilità renti che comprare i propri pesantissima. capi non sia impattante, anzi abbia un ritorno positivo sull’ambiente. Eppure così non è, l’unico ritorno positivo della normalizzazione dell’overconsumption sono i bilanci stratosferici di queste aziende. La soluzione non può, non deve essere quella di Edoardo Anziano, di continuare a produrre, con gli stessi ritmi e gli Giulia Falconetti, stessi volumi, capi “usa Francesco Fioritto e getta” a bassissimo coe Teresa Fraioli sto, limitandosi a rivestirli di una patina “green”. 37
[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham.
Aga Giecko è un’illustratrice nata a Lublino, in Polonia, e al momento vive nel Sud di Londra. Ha studiato Illustrazione al UAL, laureandosi nel 2018 ed entrando a far parte dei laureati “It’s Nice That”. Ha lavorato con clienti come Lazy Oaf, Lawrence and King Publishing, Ace&Tate e ha esposto i suoi lavori in diversi paesi europei.
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Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.
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Capitolo V
BERSAGLI RAVVICINATI → Gli strumenti per portare al consumo sfrenato di prodotti inquinanti sono infiniti. E la pubblicità è tanto più potente quanto più vulnerabile è chi la guarda
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La condizione di determinate fasce di popolazione è tale da poter essere particolarmente sensibili a messaggi promozionali di prodotti, molto al di là della sostenibilità dei prodotti stessi. La condizione di queste fasce vulnerabili rimane fondamentalmente varia fintanto che il comportamento sostenibile di consumo generale sia impossibilitato a diventare una norma sociale. In questo contesto storico-sociale, l’esperienza individuale consumistica delle varie identità si fortifica a causa di una strategia di marketing (e di targetizzazione) adottata dal mondo pubblicitario odierno, specialmente in rete. I consumatori sono perseguitati dalle loro caratteristiche vulnerabili che per qualche meccanismo 42
psicologico inconsapevole si trasformano in debolezze alla mercé dell’advertising e del mantra implicito e nascosto delle aziende inquinanti del secolo: l’overconsumption. David Gauntlett, sociologo e studioso del ruolo dei media digitali, afferma che gli esseri umani tendono a cercare i propri simili creando un gruppo con il quale identificarsi e l’uso dei media non fa altro che amplificare l’effetto. La rete, sempre più non-luogo del consumo, accomuna i protagonisti (i bambini, le donne over 40, le neo-mamme e le persone aventi disturbi alimentari) facendoli incontrare, portando in evidenza la propria relativa vulnerabilità e per perdere poi il senno del consumo sostenibile. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
La colpa dell’invecchiamento e la cura del consumo
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→ → In un mercato come quello dei cosmetici anti-age, che nel 2019 ha rappresentato il 43,9 % degli acquisti nel settore della cosmesi in Italia, il veicolo pubblicitario ricopre un ruolo cruciale. Dal momento che un processo di targettizzazione si basa sulla segmentazione del mercato in fasce, definite da fattori demografici - per esempio una divisione per fasce di età - o psicografici, quello delle donne over 40 costituisce un mercato specifico. A cui sono indirizzate, generalmente, le pubblicità del suddetto tipo di cosmetici.
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Nel fare centro su determinati bersagli tuttavia concorrono vari fattori, e la formulazione del messaggio è fondamentale. I cosmetici anti-age si pongono, già dal loro nome, nella posizione paradossale di volersi opporre al passare del tempo. Come sottolineato da Riccardo Falcinelli in «Critica portatile al Visual Design» il ruolo che hanno le testimonial delle pubblicità dei cosmetici anti-età è quello dell’everywoman, ovvero quello di porsi come portavoci di un “problema” comune, quello della vecchiaia e di invitare, come rimedio, all’uso di
questi cosmetici, ponendoli sul piedistallo dei beni di prima necessità. Le multinazionali della cosmesi ripropongono spesso gli stessi stilemi e lo stesso linguaggio. Comunemente appaiono slogan come “agisce sull’invecchiamento” (Lierac), “pelle come ringiovanita” (Lierac), “riattiva i meccanismi della giovinezza” (Bionike), “per un viso dall’aspetto sempre giovane” (Clinians) ed ancora “combatti i segni del tempo” (L’Oreal). L’invecchiamento ed il tempo emergono da questi slogan come kryptonite, nemici da combattere, e i co-
smetici come armi per affrontare questa battaglia. Anche sulle etichette dei prodotti che sono oggetto delle campagne pubblicitarie troviamo lo stesso linguaggio. L’italiana Collistar, tra le più note aziende di cosmetica al mondo, vende creme con l’appellativo di “ultra liftante”, paragonandole di fatto a trattamenti chirurgici come quello del lifting, concetto ben lontano da quello di cosmetico. La stessa Collistar promuove prodotti come il “Siero unico - trattamento universale di giovinezza”, in assonanza con lo “shot di giovinezza” proposto dalla casa cosmetica Lierac. 43
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Un altro approccio che troviamo sulle etichette dei prodotti è quello di porre i cosmetici come rimedio ai segni del tempo. La sopra citata Lierac propone sul proprio sito “Cicafiller”. Da una prima e superficiale lettura del nome potremmo pensare ad un cicatrizzante per le ferite. Leggendo però la dicitura che lo accompagna “crema antirughe riparatrice” capiamo che non è così. In questo caso con la parola “riparatrice” il prodotto si offre di rimediare ad un danno, di aggiustare qualcosa di un processo in realtà naturale.
depurazione (se non dai più moderni a “multi-barriera”), riversandosi così in fiumi e mari: un’attenta analisi dell’ecosistema marino rivela infatti da un lato la presenza di microplastiche sedimentate sui fondali e dall’altro la possibilità che queste vengano ingerite da uccelli di mare, molluschi e pesci, entrando così all’interno della catena alimentare, come testimonia un’indagine di Greenpeace che evidenzia come nel 30% delle specie commerciali di invertebrati e pesci raccolti nel Tirreno siano presenti queste sostanze.
La “vulnerabilizzazione” a fini commerciali di una fascia ampia, come già visto, è fruttuosa e porta a un tasso di consumo altissimo di tali prodotti. Fatto che sarebbe di per sé dannoso per il pianeta, dati i costi in termini ambientali di produzione e trasporto, ma a cui si aggiunge il dibattito sull’inquinamento causato dallo smaltimento dei prodotti stessi.
L’inquinamento prodotto dai cosmetici non termina qui: alle microplastiche (tra le sigle delle quali primeggiano PE, PET e PP) si aggiungono diverse sostanze sintetiche e non biodegradabili come i petrolati, i siliconi, i parabeni, o ancora, i silossani D4, D5 e D6, responsabili di una parte dell’inquinamento atmosferico. Ultima frontiera” in ambito di inquinamento, e forse per questo ancor più pericolosa, è infine la cosiddetta “plastica liquida”: essa consiste in polimeri sintetici solubili in acqua, come l’acrilato e i suoi copolimeri. E in grado di sfuggire alle vigenti normative, perché classificabile come microplastica è solo ciò che si trova allo stato solido; i danni che queste sostanze possono potenzialmente provocare all’uomo e all’ambiente non sono ancora del tutto chiari, ma sono già oggetto di studio.
Uno dei principali argomenti di dibattito in quest’ambito sono indubbiamente le microplastiche, cosiddette PCCP (plastic particles in personal care and cosmetic product): polimeri sintetici, solidi e insolubili, di dimensione massima 5mm. Le microplastiche possono derivare dalla decomposizione di oggetti di plastica più grandi oppure essere prodotte industrialmente e inserite in alcuni beni di consumo, tra cui i cosmetici. In Italia, a partire da gennaio 2020, è stato proibito l’uso di microplastiche in prodotti cosmetici da risciacquo ad azione esfoliante (scrub) o detergente, e tuttavia si lascia incontrollato l’utilizzo di tali sostanze in moltissimi altri prodotti, tra cui creme per il viso e tutto ciò che riguarda il make-up. A preoccupare è che proprio per le loro ridotte dimensioni le PCCP vengono difficilmente trattenute dai filtri degli impianti di
È importante sottolineare come anche l’Italia, con la sua produzione di cosmetici, contribuisca purtroppo all’inquinamento globale. A titolo esemplificativo, si può prendere in analisi l’attività produttiva di Collistar, una delle principali aziende cosmetiche nate in Italia e poi acquisita dalla multinazionale Bolton Group (insieme ad altre aziende già posta sotto inchiesta quest’anno da Greenpeace per la
presenza di plastica liquida nei suoi detergenti per bucato e pulizia); in particolare si fa qui riferimento all’ambito della cosmetica “anti-age”, il cui mercato, che riguarda prevalentemente creme, maschere e lozioni per il viso, nel 2019 ha fruttato ben 665,7 milioni di euro su un fatturato totale di 1,5 miliardi. Nonostante la politica “green” esposta da Bolton relativa ai materiali da packaging riciclati e l’adozione di risorse sostenibili, è in realtà poi sufficiente analizzare la lista di ingredienti contenuti nell’ultimo prodotto promosso da Collistar per realizzare che la sostenibilità è una meta ancora lontana. Così in «Siero unico - trattamento universale di giovinezza» si riscontra il già citato acrylates insieme al PEG (-40), sulla cui definizione di microplastica si discute tutt’ora, e a seguire il carbomer, un’altra plastica liquida, il tetrasodium edta, che, raggiunti i depositi marini, solubilizza metalli pesanti ed inquina l’acqua circostante, fino ad arrivare al phytol, che, secondo gli studi di ECHA (European Chimical Agency), in ingenti quantità può causare la morte di pesci a seguito di una breve esposizione. Sebbene vi siano normative che impongono limiti percentuali all’utilizzo di sostanze potenzialmente nocive, è evidente che l’informazione a cui il consumatore ha accesso è parziale e non favorisce un’approfondita analisi del prodotto, in quanto per legge le aziende di cosmesi non sono obbligate, nell’INCI, ad inserire le esatte percentuali degli ingredienti, ma solo a disporli in ordine decrescente. In Italia dunque l’impatto ambientale dell’industria cosmetica, a partire dal settore «anti-age» in vetta per produzione e consumi, è ancora ben lontano da una risoluzione sostenibile ed ecologica, che sarebbe pur possibile attuando scelte e cambiamenti radicali. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Per tuo figlio, questo ed altro
È piuttosto noto che fattori biologici, psichici, relazionali e legati al contesto psicosociale influiscono sul percorso verso la maternità, alterando il vissuto psicoemotivo della donna e la vulnerabilità psicologica che l’accompagna. Stacey Menzel Baker, James W. Gentry e Terri L. Rittenburg, in uno studio a riguardo, sostengono che le donne in stato di gravidanza, come tutti i consumatori in uno stato liminale, siano particolarmente inclini alla vulnerabilità. Questa fornisce un terreno fertile nelle transazioni economiche e il mercato non fa altro che amplificarla e sfruttarla grazie anche ai media, tradizionali e non, che nel tempo hanno contribuito alla costruzione sociale della maternità. La ricercatrice Tina Miller ha elaborato una precisa distinzione tra due termini dei quali non esiste la traduzione italiana: mothering e motherhood. Con il primo si intende l’esperienza effettiva di una donna che diventa madre, con il secondo si fa invece riferimento al contesto in cui quest’esperienza ha luogo. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
La cosiddetta motherhood è un’istituzione che, specie nel mondo occidentale, è storicamente, socialmente, culturalmente, politicamente e moralmente plasmata. Il radicarsi della concezione idealizzata della gravidanza e di ciò che ne consegue ha generato insicurezza e instabilità nelle neo-mamme che, disorientate, sono andate alla ricerca di modelli di riferimento: che siano le compagne del corso preparto, le parenti che ci sono già passate, chiunque elargisca consigli gratuiti o chi li elargisce a pagamento nei manuali. Una buona parte della letteratura sulla maternità si deve a Sheila Kitzinger, che a partire dagli anni Settanta fino ai primi anni duemila ha pubblicato decine di libri sull’argomento, tutti con un enorme successo editoriale. Negli stessi anni, particolarmente in voga erano le VHS in cui le Jane Fonda della maternità, con l’ausilio di ginecologi e ostetriche, dispensavano consigli utili su come affrontare questo cambiamento e come prepararsi all’arrivo di un bambino. Oggi questo ruolo è assunto dalle mom influencers, star del web con seguito da centinaia di migliaia di followers, con contenuti mirati a una fascia molto precisa.
Quello che si crea tra neo-mamma e mom influencer è un rapporto basato sulla fiducia incondizionata che la prima ripone nella seconda e, come prevedibile, sono molte le aziende che lo sfruttano per fini commerciali. Basta poco per accorgersi, infatti, che quasi ogni loro post è sponsorizzato; i bambini sono tappezzati di tag che rimandano alle pagine dei brand: li hanno sui vestiti che indossano, sulle culle dentro cui dormono, sui giocattoli che sono intenti ad usare, a volte anche sul cibo che mangiano. I “consigli” della mom influencer si riducono quindi a pubblicità continua, in un mercato web che spinge al consumo dei prodotti pensati per la neo-mamma. Alcuni di questi profili diventano testimonial non occasionali di per sponsor di ogni tipo, dal mondo dell’abbigliamento per bambini al giocattolo. L’invito al consumo è spesso indirizzato verso aziende con un rapporto complicato con la salvaguardia dell’ambiente. Disperatamente Mamma, pseudonimo di Julia Elle, è una delle mom influencers più conosciute all’interno della comunità delle giovani madri, con oltre 515mila followers e quattro libri pubblicati.
Come tante altre sue colleghe a volte sembra una life coach: ha sempre un atteggiamento da motivatrice, sceglie con cura le parole da usare, sembra costantemente essere in pieno controllo della sua vita e della sua famiglia perché si mostra in grado di saperla gestire al meglio. Per di più, per avere un rapporto ancora più confidenziale con chi la segue, ha da poco messo a disposizione un numero di telefono che è possibile chiamare tutti i martedì dalle 13:00 alle 15:00. In questo modo chi vuole può chiamarla per scambiarsi delle confidenze, chiedere suggerimenti su come affrontare la gravidanza e il post parto, ricevere consigli per la crescita del futuro bambino o semplicemente ricevere supporto emotivo. E ha un rapporto privilegiato con la Mentadent. Scrive che da piccola odiava lavarsi i denti, mentre i suoi figli corrono in bagno come se ci fosse una festa. «Forse se anche io avessi avuto uno spazzolino con le ventose e gli animaletti e un dentifricio alla frutta sarei corsa in bagno», scrive. E conclude: «Noi abbiamo affidato i sorrisi di tutta la famiglia a Mentadent». Sopra al post: «Partnership pubblicizzata con Mentadent Italia». 45
→ «Noi abbiamo affidato i sorrisi di tutta la famiglia a Mentadent».
Post pubblicizzato da Mentadent Italia di @disperatamentemamma, 515mila followers
Mentadent, ancora oggi, produce dentifrici che ancora oggi contengono al loro interno microgranuli, nonostante sia ormai noto il loro forte impatto ambientale. Le piccole dimensioni dei microgranuli fanno sì che possano essere ingeriti dalle specie marine e hanno il potenziale di trasferire sostanze chimiche da e verso l’ambiente marino, oltre a fornire il maggior contributo all’inquinamento da microplastiche. Un altro esempio calzante è quello di The Pozzoli’s Family, profilo Instagram con 467mila follower. Si tratta di Alice Mangione, del comico Gianmarco Pozzoli dei loro due figli Olivia e Giosuè. I contenuti che propone la coppia sono molto simili a quelli di una classica mom influencer, pur con una declinazione comica: post in cui vengono sponsorizzati prodotti per bambini, lunghi monologhi sull’essere genitori e le difficoltà che comporta, video motivazionali. Anche loro hanno pubblicato dei libri, tutti a tema genitorialità, e anche un fumetto che li vede protagonisti. Qualche mese fa hanno preso parte ad una campagna di sensibilizzazione di Dove (“Dove Progetto Autostima”) che si propone di aiutare genitori e figli, che siano bambini o adolescenti, conducendoli in un percorso di educazione all’autostima. Nello spazio che Dove sul suo sito ha dedicato alla campagna sono presenti molti articoli di approfondimento, 46
una vera e propria guida all’autostima che è possibile scaricare gratuitamente, diverse risorse per i genitori (tra cui un “traduttore per genitori”, strumento che a loro dire migliorerebbe le abilità comunicative). Tutto ciò sarebbe in linea con l’azione paventata da Dove verso la sostenibilità e con alcuni sforzi per ridurre il proprio impatto sull’ambiente. Nel 2019 ha annunciato alcune iniziative che ridurrebbero di più di 20mila tonnellate il totale della plastica prodotta ogni anno, impegnandosi ad usare packaging in plastica 100% riciclabile per la maggior parte degli articoli sul mercato europeo e nordamericano. Nonostante ciò, nell’INCI di moltissimi prodotti si possono leggere ancora sostanze altamente inquinanti: le più presenti sono l’alluminio cloridrato (in tutti i deodoranti), il BHT, il dimeticone, i petrolati (soprattutto nelle creme) e i parabeni. Unilever, la società madre tanto di Mentadent e Dove (e di diversi altri prodotti tra cui Lipton, Calvè, Knorr, Findus), secondo un rapporto di Tearfund, è una delle aziende più inquinanti al mondo insieme a Coca-cola, PepsiCo e Nestlè. Queste società danno pochissime informazioni sullo smaltimento dei loro prodotti e degli imballaggi, ma i pochi dati certi testimoniano la produzione di oltre 700mila tonnellate di plastica l’anno.
La reazione di Unilever al rapporto non si è fatta molto attendere: i dirigenti hanno dichiarato che entro il 2025 si sarebbero impegnati a diminuire di oltre 100mila tonnellate l’uso complessivo di imballaggi in plastica monouso e che avrebbero dimezzato l’impiego di plastica vergine per produrre il proprio packaging. Una riduzione tutt’altro che risolutiva. Sul profilo di altre due mom influencers minori (Giulia Telli - Mammachelibro e Ornella Sprizzi - Mammamatta, entrambe seguite da circa 37mila persone) il noto gioco Play-Doh (Hasbro) è stato sponsorizzato per un progetto a favore di Save The Children. La completa composizione della plastica del gioco, a parte alcuni ingredienti, è tutt’oggi soggetta a segreto aziendale, nonostante nel 2017 la sostanza sia stata bocciata per materiali tossici. Nel 2011 Hasbro è finita nel mirino di Greenpeace, insieme a Mattel e Unilever: l’azienda APP (Asia Pulp e Paper) riforniva per il packaging carta con fibra ricavata dagli alberi della foresta indonesiana, deforestando una delle zone fondamentali per la stabilità climatica. Hasbro ha ipotizzato un piano-green da attuare entro il 2025. Tuttavia tanto la produzione tanto lo smaltimento del gioco, come tantissimi degli prodotti sponsorizzati attraverso profili social rivolti alle neo-mamme, ancora oggi sono più che un’incognita per la salute del pianeta. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Tra le esigenze sanitarie e quelle estetiche, il controllo del peso è una tematica significativa in ogni angolo del globo. Nel 2013 si stimava che il valore di questo mercato avrebbe toccato 216 miliardi entro due anni. Ad oggi, la previsione per il futuro riporta il superamento dell’asticella dei 295 miliardi entro il 2027. Per farsi un’idea delle dimensioni, basti pensare nel 2018 il mercato globale del commercio di droga aveva un valore di 301 miliardi di dollari. L’ecosistema del controllo del peso è vario, per la fauna che lo popola e per l’offerta che riporta, ed è tenuto a battesimo da un termine non casuale: Diet Industry. Un conio per quello che già nel 2013 Repubblica definiva «il ricchissimo mercato per la produzione di prodotti, strumenti, strategie, programmi e qualsiasi altro mezzo impiegato per la perdita di peso». Un traffico declinato in un numero impressionante di opzioni di personalizzazione del prodotto e di canali di distribuzione, dalle farmacie ai supermercati all’online. La quota maggioritaria del settore è da sempre quella americana, attestata nel 2018 sul valore di 72,7 miliardi di dollari. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
In Italia le cose viaggiano più a rilento, ma con costanza. Nel 2015, il giro d’affari dei soli alimenti speciali (integratori alimentari, alimenti arricchiti, prodotti dietetici, probiotici e functional foods) si valutava di 2,3 miliardi di euro (e oltre 10 in Europa). Si erano superate i 170 milioni di confezioni vendute, mentre le aziende che operavano nel settore avevano raggiunto le 1800 unità. Bacino di utenza privilegiato dei prodotti dietetici è proprio il mondo del sovrappeso e dei disturbi alimentari, specie tra le donne e specie se giovani. In una ricerca condotta nel 2005-2006 su un campione di 3500 adulti americani, il 33,9% del campione che aveva riportato di aver tentato di perdere peso (a sua volta circa la metà del totale) dichiarava di aver fatto uso di prodotti dietetici. Si trattava per la maggior parte dei casi di donne tra i 25 ed i 36 anni, con bassi redditi e qualifiche educative. Quasi il 70% di queste erano sovrappeso o obese. Necessariamente, la pubblicizzazione dei prodotti dietetici segue queste direttrici. Nel 2013, dei 26 magazine più letti negli Stati Uniti, 18 proponevano pubblicità di prodotti dietetici acquistabili senza
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prescrizione medica, e il 72% di queste appariva su riviste acquistate principalmente dalle donne (Cosmopolitan, Glamour, Women’s Day e Vogue). Meno dell’1% degli annunci di perdita di peso è apparso in riviste più frequentemente acquistate da afroamericani (Jet, Ebony, Essence), e meno del 3% è apparso su riviste dal pubblico prettamente maschile (ad esempio Sports Illustrated e Playboy). In Italia, lo stato dell’arte della produzione, della pubblicizzazione e della vendita di prodotti per il controllo del peso è fissato da aziende come Fitvia. Il leitmotiv è sempre lo stesso, quello di ritrovati ideati per «accompagnarti nel tuo percorso verso uno stile di vita sano», prodotti naturali, equilibrati e completi, rigorosamente slim e detox. Sul sito di Fitvia, memori della lezione e delle statistiche americane, il dimagrimento è “efficace” ed è tarato su di un pubblico tutto femminile: l’obiettivo è di «appiattire l’addome sentendosi molto più sgonfie», gustando una slim shake per «sentirti soddisfatta senza paura di vanificare i tuoi sforzi». Stesse dinamiche si ripetono sui social network, con il dovuto fattore di scala.
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Dimagrire continuando a consumare
Su piattaforme come Instagram e You Tube, le collaborazioni tra Fitvia e influencers di grande e piccola portata sono nell’ordine del giorno. Su Instagram si cercano sponsor conosciute, in buona forma fisica e con un seguito il più possibile somigliante all’identikit tracciato sopra. È il caso di Cecilia Rodriguez e di altri volti pescati da trasmissioni come il Grande Fratello (Guendalina Tavassi e Katia Pedrotti), Uomini e Donne (Tara Gabrielletto e Karina Cascella) e Temptation Island (Serena Enardu e Lara Zorzetto): la #fitviafamily promette di «accelerare il metabolismo e bruciare calorie», con codici promozionali personalizzati a seconda dell’influencer. Su YouTube si ricercano le stesse fasce di pubblico, ma attraverso vie diverse. È il mondo delle nano-influencer e micro-influencer (rispettivamente meno di 10.000 e 100.000 follower), quasi sempre canali di abbigliamento, cucina o make-up (Claudia Liberini, Nancy Hope, Le Ricette Di Mami camartamc). Codici sconto e videorecensioni entusiastiche dei prodotti forniti dall’azienda: «La mia sincera opinione su Fitvia» e altri titoli in copia carbone. 47
Sul suo sito, Fitvia riporta di utilizzare solo ingredienti naturali (anche se non biologici) e di collaborare con fornitori che adottano misure «per proteggere la salute e l’ambiente».
Gli «ingredienti sono soggetti a rigide regolamentazioni tedesche sulla qualità,
purezza e igiene», e «tutti i tè sono prodotti e testati in Germania», cosa che «vale anche per la maggior parte degli altri prodotti». Quanto alla coltivazione, le miscele di tè Fitvia «contengono in parte tè verde o tè semi-fermentato, il cosiddetto Oolong», coltivati in paesi come «la Cina e Taiwan». Proprio l’Oolong e la sua coltivazione a Taiwan sono stati presi in analisi da una ricerca del 2019 del journal Sustainability, secondo cui ogni tazza di Oolong risultava in una produzione di circa 29 grammi equivalenti di CO2, derivanti primariamente dall’utilizzo di prodotti chimici durante la coltivazione (un’auto produce in media dai 30 ai 90 grammi equivalenti per chilometro percorso). D’altra parte in Cina la coltivazione intensiva del tè ha portato, negli ultimi trent’anni, ad un consistente aumento dell’acidità del
terreno, con una decrescita del pH compresa tra lo 0,47 e lo 1,43 (per contro nelle coltivazioni di cereali la caduta del pH si è contenuta entro lo 0,30-0,89). Principale imputato è l’utilizzo di fertilizzanti chimici all’azoto, utilizzati in quantitativi vicini ai 444 kg per ettaro. Di mezzo ad un mercato che vale più di 200 miliardi di dollari, l’impatto di queste voci è ragguardevole, e viene moltiplicato dalla sempre maggiore domanda di prodotti dietetici. In generale, una errata percezione dei benefici legata all’utilizzo di questi prodotti è diffusa in maniera variegata sia tra gli utilizzatori che tra i non utilizzatori, anche grazie alla circolazione di una grande quantità di campagne pubblicitarie ingannevoli – secondo la Federal Trade Commission, nel 2002 negli USA circa il 40% delle pubblicità di prodotti dietetici riportava almeno un’osservazione assolutamente falsa.
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Il sistema, anche in questo caso, si alimenta in maniera ricorsiva: all’acquisto di prodotti che si dimostrano incapaci di restituire i risultati promessi segue l’acquisto di un nuovo programma di dieta e di nuovi prodotti, e così via lungo l’imbuto: secondo la psicoanalista americana Nina Savelle-Rockline più di un terzo della popolazione americana è in uno stato di dieta costante, e in Inghilterra una donna all’età di 45 anni ha in media già provato 61 diete diverse. In questo modo, la mancanza di un’offerta alimentare salutare e la contemporanea esistenza di un mercato delle diete così gravido di promesse incoraggiano il fenomeno del dieting come stile di vita per un numero sempre maggiore di persone. E l’acquisto di un numero sempre maggiore di prodotti.
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→ Nel 2027 un mercato futile come quello della Diet industry varrà quasi quanto il mercato mondiale del commercio di droga
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Made in Germany
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SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Un giocattolino di plastica per farli innamorare Nel tentativo di scardinare i vincoli dei bilanci delle famiglie di tutto il mondo, le aziende e le agenzie pubblicitario hanno trovato un potente alleato nel membro più indifeso del nucleo familiare, ma allo stesso tempo maggiormente capace di influenzarne la spesa: i bambini. Fin dal 1952, anno nel quale il Mr. Potato Head della Hasbro divenne il primo giocattolo pubblicizzato a livello televisivo, il mondo della pubblicità ha instaurato un sodalizio inconsapevole con i minori del globo, creando spot rivolti direttamente a loro per sfruttare la loro enorme influenza sulle decisioni di spesa dei loro genitori. Questa tecnica viene definita “pester power” poiché sfrutta la totale mancanza di consapevolezza del minore nei confronti del denaro e la sua insistenza nel richiedere ai propri genitori l’oggetto del suo desiderio temporaneo e passeggero. A partire soprattutto dagli anni Ottanta, con la sempre maggiore esposizione dei bambini ai media e la creazione di canali espressamente rivolti a loro, il “pester power” ha finito per tramutare i minori per dei veri e propri “pusher degli acquisti”, creando nuclei familiari interessati a soddisfare i bisogni del minore e a soddisfare ogni sua più piccola richiesta. SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Lo psicologo James McNeal, che si è dedicato allo studio dei bambini come consumatori, sottolinea come questi diventino sempre più capaci di elaborare strategie di richiesta complesse impiegando i meccanismi della persuasione e della negoziazione, tentando di convincere i genitori con argomenti standard come la felicità, il risparmio di tempo e la sicurezza – gli stessi argomenti rielaborati dagli operatori di marketing al fine di costruire campagne di comunicazione efficaci. Se recentemente si punta al “dual messaging”, con annunci che tentano di guadagnare la fiducia di bambini e genitori contemporaneamente, mediante la presentazione di prodotti che presentano simultaneamente proprietà capaci di convincere i più grandi ed elementi in grado di sedurre i più piccoli, le pubblicità più efficaci restano quelle che si definiscono “ad influenza lineare”. Queste hanno come target unico i bambini di età compresa tra i 3 e i 12 anni, più facilmente influenzabili, e che possono convincere i genitori ad accontentarli. Come spiega McNeal, l’atto di chiedere oggetti nei bambini è naturale, pertanto alle aziende non resta altro che informare i bambini della presenza del prodotto e renderlo desiderabile mediante strategie pubblicitarie infallibili, come il trans-
toying e il gift-in-pack, usate principalmente dai produttori alimentari. L’intuizione dell’eatertainment (neologismo per indicare il divertimento legato al cibo) è alla base di queste due idee che puntano al trasformare prodotti ordinari in straordinari, rendendo così irresistibile il prodotto agli occhi del bambino, che lo associa automaticamente al gioco e alla sfera del divertimento. Il trans-toying è una tecnica usata dagli operatori di marketing che consiste nel trasformare i prodotti di uso quotidiano in oggetti con cui giocare, come per esempio gli alimenti a forma di animale o lettere, in modo da attingere all’immaginario infantile e sedurre i giovani consumatori, ma per quanto questa tattica possa ammaliare è decisamente la strategia del gift-in-pack a risultare vincente. Si tratta dell’aggiunta di un regalo che accompagna il prodotto venduto, come nei celebri casi degli Happy Meal di McDonald’s e degli ovetti Kinder Sorpresa. Questo escamotage si basa sullo stupore, sull’eccitazione e l’appagamento che deriva dall’effetto sorpresa, la cui scoperta diventa un rito desiderato, soprattutto se le aziende offrono gadget che riportano brand noti al mondo dell’infanzia (come nel caso delle patatine
San Carlo Junior con i gadget firmati Disney). Così facendo si migliora l’immagine aziendale agli occhi del bambino che associa il brand a un “distributore di regali”, aumentando la fiducia nei suoi confronti, tant’è che molti studiosi affermano quanto i bambini possano diventare assuefatti da questa pratica. Tra questi il professore Joel Bakan, che già nel 2012 con il suo “Childhood Under Siege” affermava: «Questi alimenti sono progettati per promuovere il consumo compulsivo da parte dei bambini, già facilmente suscettibili, e la presenza dei giocattoli non aiuta», sottolineando come si veda nei più piccoli solo un’opportunità di guadagno. Va inoltre sottolineato che l’effetto sorpresa ha ben breve durata vista l’effettiva scarsa qualità dei prodotti offerti: tempo di finire il pasto e il bambino si sarà già dimenticato del gioco, che verrà così immediatamente abbandonati in attesa di essere ritrovati da uno dei genitori in un angolo della stanza a prendere polvere e di conseguenza buttati nella spazzatura. Moltiplicando questo processo per 1,4 miliardi di volte ogni anno si può capire come il gift-in-pack rappresenti, oltre ad una tattica di marketing molto efficace, una serie problematica ambientale per il nostro pianeta. 49
Sono 369 milioni le tonnellate di plastica vergine che vengono prodotte ogni anno nel mondo. 100 milioni finiscono in natura per errori di produzione. Sono cifre enormi in cui il il trans-toying e il gift-inpack giocano la loro parte. Il problema è dato dal materiale di cui sono fatti i giocattoli, e dalla modalità con la quale vengono smaltiti o semplicemente messi da parte. Molti di questi giocattoli (se non tutti) sono composti da diversi tipi di plastiche, e questo rende difficile anche il loro smaltimento, poiché non rientrano negli oggetti pienamente riciclabili e differenziabili. Un servizio della BBC ha rivelato che il colosso del fast food McDonald’s è il più grande distributore di giocattoli al mondo; sono infatti 1,4 miliardi gli Happy Meal distribuiti ogni anno nei vari paesi, a ciascuno dei quali va sommato il gadget in plastica di turno. Nonostante il McDonald’s abbia
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ribadito che in teoria i loro giocattoli sono riciclabili, la sopra citata composizione ne rende di fatto impossibile la differenziazione. Questo fenomeno viene oltretutto ingigantito dalle grandi campagne pubblicitarie studiate per la sponsorizzazione di questi giocattoli, che vanno inserite all’interno del contesto della complessiva azione pubblicitaria messa in atto dai grandi attori dell’industria della carne e del fast food, spesso capaci di influenzare il dibattito politico delle istituzioni e anche di creare delle forti collaborazioni con le stesse. (vedi, a pagina xxx Il gioco dei grandi). Di fatto, un veicolo pubblicitario inquinante aggiunto a un consumismo sfrenato potenzialmente ancora più dannoso per il pianeta, come è notoriamente quello del mercato della carne.
McDonald’s e Burger King stanno formalmente impegnandosi nell’arginare il problema della plastica relativa ai loro giocattolini omaggio. Nel 2018 il McDonald’s ha creato un gruppo di lavoro per discutere le questioni ambientali legate al suo Happy Meal, con l’obiettivo di utilizzare un solo tipo di plastica per renderla più facile da smaltire o di utilizzare materiali rinnovabili al posto della plastica. Alcuni progetti riguardavano proprio il 2020, e riguardano la possibilità di scegliere tra un gioco o un libro nell’Happy Meal, sostituire l’imballaggio di plastica di giochi o libri con la carta, e si parla anche di un progetto di riciclaggio di giocattoli di plastica indesiderati in attrezzature da gioco per Ronald
McDonald’s House Charities in tutto il Regno Unito e l’Irlanda. Progetti che andrebbero, dunque, messi in pratica anche per il resto del mondo e in tempi brevi. Burger King ha invece intrapreso un altro approccio, prevedendo di eliminare i giocattoli non biodegradabili da tutti i suoi ristoranti entro il 2025. Azioni più o meno tempestive, sullo sfondo di un mercato mondiale in espansione perenne e votato al consumo sfrenato di carne. E portato nei ristoranti, in gran parte, dal desiderio dei bambini di ottenere un giocattolo di plastica.
di Gina Marano, Emma Sangalli Moretti, Virginia Bernardi, Lisa Personeni, Adriano Bordoni, Margaret Lamanna, Sara Paolella, Federica Tessari e Luca Bagnariol
SCOMODO | INQUINANTI VOL.2
Il numero 36 di Scomodo è stampato grazie al contributo economico di 10.000 Euro fornito da Greenpeace Italia Onlus per la sua realizzazione, stampa e distribuzione. La responsabilità dei contenuti editoriali e creativi di questo numero è della testata registrata Scomodo. Il numero è inoltre, compatibilmente con le policy ambientali di Greenpeace, realizzato utilizzando carta 100% riciclata post-consumer e inchiostri di origine vegetale.
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