N. 30 MARZO 2020

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Marzo 2020

n° 30

L’EDITORIALE di Lorenzo Cirino

Tra le tante questioni che apre il Coronavirus pensiamo che la più importante sia una ridiscussione del Sistema Sanitario Nazionale, perché essa è intimamente collegata con la visione di società che sceglieremo per il futuro del nostro paese. Mai come dopo questa crisi sarà necessario un dibattito sul sistema sanitario universalistico pubblico. La pandemia passerà, ma ci troveremo in una società radicalmente cambiata. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un progressivo disinvestimento, una tendenza comune ai politici di ogni schieramento, che non hanno mai scelto come fulcro dei loro programmi di governo l'attenzione al sistema sanitario nazionale. Il definanziamento è evidente: basti osservare i mancati aumenti e gli obiettivi di finanza pubblica disattesi, e sottolineare quanto l’apparente crescita della spesa sanitaria sia inferiore all'inflazione. La diminuzione delle risorse disponibili è stata in larga parte compensata con un massiccio finanziamento al secondo pilastro, quello delle convenzioni, rafforzando una sempre maggiore presenza del privato all'interno del settore sanitario. Il definanziamento del sistema sanitario provoca pesanti conseguenze: un numero sempre più ridotto di medici e operatori sanitari negli ospedali, il fallimento nell’ammodernamento delle strutture sanitarie, una maggiore lontananza dell’apparato sanitario dal territorio, soprattutto in alcune regioni. Nel focus che apre il numero abbiamo mostrato come la tendenza al rafforzamento del secondo pilastro abbia portato inevitabilmente ad una sempre maggiore presenza del privato in sanità, riflettendo attentamente sulle conseguenze inevitabili di questo processo: dallo spreco di risorse pubbliche alla crescita costante della spesa sostenuta direttamente dai cittadini. Ci troviamo, infatti, a dover pagare due volte per la stessa prestazione, attraverso la fiscalità generale e attraverso un contributo alla spesa sanitaria privata, pari a mediamente

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580 euro pro capite, con un livello di copertura delle forme sanitarie integrative di meno del 14%, secondo i dati del Rapporto Censis. Il percorso di accesso alle cure, soprattutto per alcuni settori specifici, risulta sempre più costellato di ostacoli, delineando un contesto che rafforza le diseguaglianze sociali e territoriali. Ciò si traduce in una lesione del diritto alla salute del singolo cittadino e in un conseguente danno economico e produttivo per il paese nella sua totalità. Abbiamo riflettuto sulle differenze tra i sistemi sanitari regionali, sulla maggiore o minore loro presenza sul territorio, cercando di comprendere a fondo i modelli applicati, con l’obiettivo di elaborare proposte che rafforzino l’uniformità nazionale. Alcuni fattori si mostrano estremamente rilevanti per una riflessione sul modello di sanità che vorremmo per il futuro del nostro paese: il dialogo tra i diversi operatori coinvolti nelle politiche sanitarie, la riallocazione delle risorse, gli strumenti nelle mani delle regioni per attivare nel migliore dei modi le competenze. L’attenzione spasmodica che hanno i privati per il mercato sanitario è conseguenza dell’alta redditività che gli investimenti in tale settore garantiscono. Al contrario, i governi degli ultimi anni hanno guardato purtroppo alla spesa sanitaria esclusivamente come un costo, gravoso per l’amministrazione, trascurandone l’enorme impatto sulla crescita economica e sociale. Un costo e non un investimento. Ciò significa perdere l’opportunità di tradurre l’investimento, altamente redditizio in termini economici e produttivi, in diritti assoluti, che gli conferiscano un valore inestimabile per la collettività. La spesa pubblica per la sanità, così come per l’istruzione, genera effetti esterni positivi: per esempio è accertato che investire di più nella sanità pubblica sia correlato con la crescita del reddito nazionale. E’ il momento di comprendere il Welfare State sotto nuove prospettive che possano al meglio interpretare la società in cui viviamo. Di fronte a questa situazione senza precedenti, è chiaro quanto il sistema sanitario nazionale sia prezioso e quanto sia importante investire in esso con una potenza inaudita.

SANITÀ

Mensile indipendente di attualità e cultura


I N D I C E FOCUS LA SANITÀ IN ITALIA • Compensare il definanziamento con la privatizzazione Un trend costantemente a ribasso di Lorenzo Cirino L’espansione del secondo pilastro di Emilio Di Marziantonio Sanità, cure e disuguaglianze di Arianna Preite

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ATTUALITÀ 14 I CONSIGLI DEL LIBRAIO 16 Socchiudere tutto di Samanta Zisa, Marem Lo, Elena Lovato e Pietro Forti 18 Politica della cura di Luca Bagnariol, Marina Roio, Simone Martuscelli e Rodolfo Cascino-Dessy 24 I signori dei migranti di Luca Bagnariol, Luca Pagani, Marina Roio, Susanna Rugghia e Francesco Paolo Savatteri 30 Niente di nuovo sul fronte orientale di Luis Lombardozzi, Simone Martuscelli, Bianca Pinto e Luigi Simonelli 36 CASTELLI DI NOIA di Gionatella, Gabriel Vigorito, Luchadora, Maria Marzan e Simone Spellucci 41 Parallasse di Marco Collepiccolo e Rebecca Cipolla 45

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INTERNAZIONALE

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CULTURA Oceano Indiano di Gaia Del Bosco e Marta Bernardi Cultura Capitale di Simone Martuscelli, Cristiano Bellisario e Riccardo Vecchione Natural Born Oscars di Carlo Giuliano e Giulia D'Aleo Press play di Alessio Zaccardini Stereo8 di Jacopo Andrea Panno Dai videoclip al lungometraggio, l'ascesa di Francesco Lettieri di Cosimo Maj e Daniele Gennaioli Questa non è una pagina spam di Maria Marzano

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RECENSIONI Ipergigante dei Voina e la responsabilità di essere indipendenti di Fabrizio Tamma Canova: "Eterna Bellezza" di Ivana Iebba

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PLUS Una nuova dimensione sportiva? di Julien Dagostino e Giovanni Tiriticco Non solo Gomorra di Elena Lopriore

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LA SANITÀ IN ITALIA COMPENSARE IL DEFINANZIAMENTO CON LA PRIVATIZZAZIONE

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un disinteresse sempre maggiore da parte della politica verso la sanità pubblica, trasformatosi in una tendenza irreversibile al definanziamento. Ciò è stato compensato con un massiccio potenziamento del secondo pilastro, nonché con incentivi alla sanità privata. A pagare il conto di un sistema sempre più esclusivo e inaccessibile sono naturalmente i cittadini, in particolare i milioni a basso reddito e i disoccupati.

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Un trend costantemente a ribasso Siamo nel mezzo di una pandemia e di un’epidemia nazionale, che sta colpendo violentemente il territorio italiano e i suoi cittadini, conducendo il nostro sistema sanitario sull’orlo del collasso, in una situazione emergenziale che provoca continuo stress e che peggiora sempre più. Senza dubbio negli ultimi anni non ci siamo preparati ad uno stato di emergenza di questo tipo, mentre altri paesi sono stati colti più preparati. È il caso ad esempio della Corea del Sud, che ha infatti visto in pochissimo tempo ridursi il numero di nuovi contagi tra la sua popolazione. Considerando del resto i numerosi problemi che affliggono il nostro sistema sanitario nella gestione ordinaria, a prescindere dall’emergenza, tutto può risultare più chiaro. Qualsiasi libro di finanza pubblica sostiene che le spese pubbliche in campo sanitario generano, oltre a benefici per gli assistiti, anche benefici esterni: aumento della produttività del lavoro (e quindi crescita del reddito nazionale) nonché riduzione del rischio delle epidemie. Un dato d’altra parte è certo, in questi ultimi dieci anni, e quindi successivamente alla crisi del 2008, in cui c’è stata una riduzione parzialmente giustificata ai finanziamenti al sistema sanitario, non ci sono stati politici e amministratori che abbiano posto la sanità come fulcro dei loro programmi di governo. Le poche iniziative politiche di valorizzazione della sanità sono state prese soprattutto su base regionale, e quindi dai vari amministratori di regione, e non su base nazionale, prescindendo quindi da una visione omogenea e unitaria. A ciò vanno poi aggiunti altri fattori importanti quali le mutate condizioni cui le epidemie si diffondono, le varianti economiche e quelle sociali che contribuiscono a minare la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari. 4

Si intende cioè l’invecchiamento della popolazione, il costo sempre crescente delle innovazioni tecnologiche mediche e farmaceutiche, l’aumento costante della domanda di servizi e prestazioni da parte dei cittadini.In questo contesto particolarmente critico risulta decisamente fuori luogo ogni richiamo alle classifiche e alle statistiche sulla qualità del servizio sanitario, alcune di queste desuete, come quella della Oms del 1997 che vede l’Italia al secondo posto come qualità del servizio sanitario nazionale, o quella Bloomberg che si basa su dei fattori che non possono essere considerati proporzionali ai livelli di finanziamento. L'Italia, in quest'ultima classifica , si colloca al quarto posto,ma la valutazione si basa sul rapporto tra tasso di mortalità e finanziamento, che secondo alcuni esperti, tra cui i relatori del rapporto Gimbe, dipende soltanto per il 10% dalla qualità del sistema sanitario. Essi sostengono infatti che “L’aspettativa di vita alla nascita dipende da fattori genetici, ambientali sociali e dagli stili di vita. Se Bloomberg correlasse il finanziamento con l’aspettativa di vita a 65 anni in condizioni di buona salute e in assenza di malattie, l’Italia precipiterebbe in fondo alla classifica”. Questi posizionamenti eccellenti rischiano dunque di celare, se non addirittura di giustificare, la tendenza al disinvestimento degli ultimi decenni, protratta da politici di qualsivoglia colore politico e appartenenza, che hanno gradualmente tolto valore al sistema sanitario pubblico, lasciando sempre più ampi margini al privato, rafforzando il secondo pilastro (quello delle convenzioni, che approfondiremo più avanti) e ledendo l’accessibilità dei cittadini al diritto alla salute. Nel 2018, la spesa pubblica per la sanità, in rapporto al Pil era del 6,6%, portando l’Italia ad essere fanalino di coda dei paesi dell’Europa occidentale, insieme alla Spagna e alla Grecia e avvicinandosi pericolosamente alla soglia minima indicata dall’Oms, consistente nella percentuale in rapporto al Pil del 6,5%. Scomodo

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Facciamo un passo indietro Le discussioni sulle storture del sistema sanitario nazionale avvengono dal momento della sua nascita, nel 1978, quando il parlamento approvava a larghissima maggioranza la legge 833 che ha istituito il Ssn in attuazione dell’art. 32 della costituzione. Già la costituzione del 1946 dell’Organizzazione mondiale della sanità afferma che “il possesso del miglior stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano”. La costituzione italiana fu influenzata proprio da questa idea, e la salute fu posta tra i diritti fondamentali e costituzionalmente protetti. Tuttavia, prima dell’attuazione della costituzione ci volle tempo, infatti, secondo un’inchiesta del Tempo e riportata da il Post, nel 1965 negli ospedali italiani mancavano 250mila posti letto, e come raccontava Silvia Bencivelli, giornalista e divulgatrice scientifica, gli ospedali erano ancora delle strutture fatiscenti e poco attrezzate, “luoghi dove si andava a morire, a farsi accogliere se poveri, o dove si abbandonavano i neonati”. La legge del 78’ fu un radicale cambio di rotta. Il sistema sanitario nazionale, ispirato a principi di equità e universalismo, finanziato dalla fiscalità generale, si proponeva di “ superare gli squilibri territoriali nelle condizioni socio sanitarie del paese, la prevenzione delle malattie degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro, l’uguaglianza dei cittadini dinanzi al servizio”. Il sistema sanitario nasce dunque per coniugare la prevenzione, il controllo e il trattamento delle malattie, la protezione e la promozione della salute, all’interno di un quadro di benessere fisico mentale e sociale e dunque non solo come risposta alla malattia. Purtroppo, e soprattutto in questi ultimi decenni, la spesa sanitaria è stata concepita esclusivamente come un costo, e non come un investimento fondamentale per la crescita produttiva economica e sociale di un paese. Dunque non si può sostenere, come afferma il rapporto Gimbe, che la sostenibilità di un sistema sanitario nazionale sia frutto esclusivamente di corrette valutazioni finanziarie, in quanto queste si devono necessariamente considerare all’interno di un quadro ben più ampio, che riguarda il cittadino nella sua più profonda individualità . Il rapporto Gimbe del 2019 descrive quattro principali criticità : il definanziamento pubblico, l'ampliamento del “paniere” dei nuovi LEA, i grandi sprechi e inefficienze,l’espansione incontrollata del secondo pilastro. Scomodo

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"I LEA sono prestazioni e servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di compartecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale". A queste criticità è necessario aggiungere gli squilibri territoriali in ambito regionale, frutto del rapporto spesso inefficiente tra stato e regioni, che ha determinato una lesione del diritto alla salute nella sua accezione filosofica e universalistica. Secondo l’articolazione delle competenze dettata dalla Costituzione italiana (art. 117), la funzione sanitaria pubblica è infatti esercitata da due livelli di governo. Il primo è lo Stato, che definisce i Livelli essenziali di assistenza (LEA), l’ammontare complessivo delle risorse finanziarie necessarie al loro finanziamento e che presiede il monitoraggio della relativa erogazione. Il secondo è costituito dalle regioni, che hanno il compito di organizzare i rispettivi Servizi sanitari regionali (SSR) e garantire l’erogazione delle prestazioni ricomprese nei LEA. Dunque le regioni hanno il fondamentale compito di organizzare in termini attuativi l’erogazione dei servizi, e le rispettive modalità, riducendo al massimo il disavanzo e tagliando gli sprechi. La spesa sanitaria pubblica Nel 2018 la spesa complessiva per la salute, nell’accezione più ampia possibile, consiste in circa 204 miliardi di cui il 75,9% riguarda la spesa sanitaria, mentre il restante è di spesa sociale di interesse sanitario (20,5%) e fiscale (3,5%). Nel 2018 la spesa sanitaria include circa 115 miliardi di spesa pubblica e poco più di 41 miliardi di spesa privata, di cui 36 miliardi a carico delle famiglie (out-of-pocket) e circa 6 miliardi di spesa intermediata. In termini percentuali, nel 2017 il 27% della spesa sanitaria è privata e di questa l’86,1% è sostenuta dalle famiglie. Il dato che preoccupa è proprio quest’ultimo, la spesa out of pocket, in costante crescita negli ultimi decenni, emblema del fallimento delle politiche assicurative e intermediate e che mostra un aumento esponenziale della spesa da parte delle singole famiglie italiane. 5


Questa spesa ha registrato un aumento non indifferente negli ultimi venti anni : dal 19,3% del periodo 2000-2008 al 30,3% del periodo 2009-2017. La spesa sanitaria pro capite rappresenta l’ammontare di risorse monetarie, in media disponibili per ogni individuo di una data regione, per far fronte alle spese sanitarie di un determinato anno. In tal senso dovrebbe indicare le risorse disponibili mediamente sia per fornire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), sia gli altri servizi che la regione ritiene di essere in grado di garantire alla popolazione locale. Il dato della spesa pro capite in Italia diminuisce drammaticamente, scendendo addirittura al di sotto della media Ocse (2.622 in Italia contro i 2868 della media Ocse), portando l’Italia a standard inferiori di ben quattordici paesi europei che investono più di noi con una differenza che va dai 456 euro della Finlandia ad un massimo di 2.777 euro della Norvegia. Dalla lettura della relazione annuale del MEF emerge che le voci di spesa pubblica si articolano in: redditi da lavoro dipendente; consumi intermedi; prestazioni sociali in natura beni e servizi da produttori market, in cui rientrano la farmaceutica convenzionata, l’assistenza medico-generica da convenzione, altre prestazioni sociali in natura da privato; e l’ultima voce che riporta altre spese, tra cui gli interessi passivi. Se vediamo nel dettaglio l’andamento delle singole voci di spesa, notiamo una graduale crescita in termini di finanziamento assoluto, con eccezione della farmaceutica convenzionata che, tra il 2002 e il 2018, ha perso pericolosamente terreno. Ciò inevitabilmente si ripercuote sulla spesa out of pocket. Inoltre, è vertiginosamente salita la spesa per altre prestazioni in natura da privato, che può essere lo spunto per una riflessione, che poi riprenderemo più avanti, sulla tendenza al rafforzamento del secondo pilastro per compensare il definanziamento alla spesa pubblica e quindi quella al SSN. 6

La verità sul definanziamento Innanzitutto è doveroso fare una precisazione: i finanziamenti al sistema sanitario, in termini assoluti, sono gradualmente cresciuti fin dalla nascita del sistema sanitario. Tra il 2001 e il 2019 vi è stata una riduzione di qualche centinaio di milioni solo tra il 2012 e il 2013 e tra il 2014 e il 2015. Se analizziamo nel dettaglio il trend di crescita vediamo che esso si è appiattito dal 2008: l’incremento percentuale del 58,2% nel periodo 20002008 è precipitato all’8,1% nel periodo 2009-2017. Tuttavia ci sono due fattori da tener ben presenti: la differenza tra valore nominativo (assoluto) e valore reale, e la disattesa di previsioni di finanza pubblica in un quadro di crescita europea. Infatti, il tasso di crescita annuale del finanziamento al Ssn, tra il 2010 e il 2019, è di 0,90%, mentre quello di inflazione, ossia l’aumento del livello medio dei prezzi, è dell’1,07%. Dunque è ridotto drasticamente il potere di acquisto della moneta. Ciò si riflette soprattutto sull’ammodernamento delle strutture sanitarie e sull’acquisto di prodotti farmaceutici ( pensiamo alla voce sopra citata di farmaceutica convenzionata ). Il finanziamento dunque non si può considerare in linea con l’andamento dell'inflazione, in un quadro di crescita non proporzionale rispetto agli altri paesi dell'Europa occidentale. Soprattutto in queste settimane di imponente emergenza, si è dibattuto molto su un taglio complessivo di 37 miliardi citato più volte da politici, giornalisti ed esperti. I dati considerati nel periodo 2010-2018, e riportati dal rapporto Gimbe, mostrano infatti un definanziamento di circa 37 miliardi, manifestatosi principalmente in “mancati aumenti”. Quindi, se è vero che c’è stato un costante aumento delle risorse stanziate, come sono sempre pronti ad affermare gli esponenti dei vari governi degli ultimi anni, è vero anche che sono stati effettuati dei tagli rispetto alle previsioni e agli obiettivi espressi di finanza pubblica. In pratica sono stati disattesi i livelli programmati per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica, comportamento ingiustificato soprattutto considerando i dati in rapporto all’aumento costante della spesa out of pocket e dunque della sanità privata. Soltanto nel periodo tra il 2015 e il 2019 sono andati al Ssn 12,1 miliardi in meno rispetto a quelli previsti dalle precedenti manovre. Scomodo

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L’annuale relazione della corte dei conti mostra una delle frenate più importanti : quella arrivata dagli investimenti degli Enti locali e dalla spesa per le risorse, una combinazione che si ripercuote su quantità e ammodernamento delle strutture nonché sulla disponibilità di personale, calato drasticamente di circa 46mila unità. La spesa per la retribuzione del lavoro dipendente, guardando alla relazione del MEF, risulta infatti significativamente più bassa: nel 2018 rappresenta il 30,8% della spesa complessiva, con una percentuale sensibilmente ridotta rispetto a quella del 2002 (36,9%). In particolare, secondo i dati Gimbe, il tasso di variazione medio annuo della spesa per i redditi da lavoro dipendente si attesta mediamente al 5,7% nel periodo 2003-2006, si azzera nel periodo 2007-2011 e passa a -0,5% nel periodo 2012-2018. "Nonostante si osservi una parziale inversione di rotta in questo ultimo anno si può calcolare un definanziamento di circa 2 miliardi di euro tra il 2010 e il 2018" . La differenza tra le diverse situazioni regionali, poi, si percepisce chiaramente: nelle regioni che si trovano soggette ad un piano di rientro la stima è del -4,8% mentre per le altre si attesta al 2,2%. E’ dunque facile configurare una differenza qualitativa tra le varie regioni italiane nell'erogazione e nell'accesso ai servizi, nonché una riduzione di medici su tutto il territorio italiano. La problematica derivata dal mancato aumento di risorse per la sanità pubblica, di storia decisamente più antica rispetto ai periodi fino ad ora considerati, è rappresentata anche dal calo dei posti letto negli ospedali : secondo l’organizzazione mondiale della sanità l’Italia dispone di 164 mila posti letto per pazienti acuti, dato ridotto di circa un terzo dal 1980, alla nascita del sistema sanitario nazionale. È riportato esclusivamente il dato per i posti letto di terapia intensiva, in quanto il taglio dei posti letto negli ospedali può essere considerato espressione di una tendenza di de-ospedalizzazione e rafforzamento dei sistemi di assistenza domiciliare ed extradomiciliare. Guardando al futuro Nei prossimi anni, e quindi successivamente al superamento di questa fase così complessa per il nostro sistema sanitario, che vedrà un dispiegarsi di risorse inaudito, sarà centrale il tema della riallocazione delle risorse e della cooperazione tra operatori. Se si guarda alle agende politiche degli ultimi decenni, si vede, tristemente, come la discussione sulla sanità sia sempre relegata ai margini e mai affrontata strutturalmente. Scomodo

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Se in una fase di crisi economica l’investimento in ambito sanitario è risultato stagnante, nel periodo subito successivo di crescita economica si mostra non adeguatamente proporzionale. “Se inizialmente il definanziamento della sanità pubblica era imputabile alla crisi economica, oggi si è trasformato in una costante irreversibile”, commenta il rapporto Gimbe del 2019. Guardando al futuro, la legge di Bilancio del 2019 aveva aggiunto 2 miliardi per il 2020, e ulteriori 1,5 miliardi per il 2021, per un incremento complessivo di 8,5 miliardi nel triennio 2019-2021 : il rapporto spesa sanitaria\Pil era previsto però in riduzione fino ad arrivare al 6,4% nel 2022. Questi dati ci mostrano scenari in cui la spesa sanitaria in Italia si avvicina sempre di più a quella dei paesi dell’Europa orientale, vedendo l’Italia fanalino di coda insieme alla Spagna tra i paesi dell’Europa occidentale. Inoltre, data la natura provvisoria dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni e dati i mancati incentivi avvenuti in passato, la paura è che la spesa sanitaria possa nuovamente disattendere gli obiettivi prefissati. Ovviamente, l’attuale situazione, fa sì che ci sia in atto un incremento notevole di risorse, che ci condurrà dinanzi ad un bivio fondamentale : investire il più possibile per affrontare l’emergenza e poi scordarsi nuovamente dell’importanza del servizio sanitario nazionale, o ricomprendere sotto nuove prospettive l’immenso valore del SSN, accettando la sua centralità in un'ottica di crescita sociale ed economica.

di Lorenzo Cirino

(fonte dati e analisi Rapporto Gimbe 2018 e 2019 Elaborazione dati MEF e ISTAT)

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L’espansione del secondo pilastro Il sistema sanitario italiano si regge su tre pilastri: la sanità pubblica, la sanità integrativa e la sanità privata. Il primo di questi garantisce l’erogazione di una pluralità di prestazioni sanitarie, identificate dai c.d. LEA (livelli essenziali di assistenza). Le prestazioni non garantite dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN) sono coperte dai fondi sanitari integrativi (secondo pilastro) mediante il rimborso agli iscritti delle spese sostenute per prestazioni extra LEA; quali l’assistenza socio-sanitaria per soggetti non autosufficienti e quella odontoiatrica. Si compone così un quadro nel quale il SSN ricopre un ruolo predominante, in ossequio al diritto alla salute sancito dall’art.32 della Costituzione; affiancato da un sistema mutualistico che garantisce agli scritti, dietro pagamento di contributi, la copertura finanziaria per una serie di prestazioni ritenute non essenziali ma integrative; lasciando, in ultimo, la libertà ai cittadini di potersi rivolgere alla sanità privata o di stipulare polizze assicurative (terzo pilastro). Dal mutualismo dell’800 ai Fondi Sanitari Integrativi I primi Fondi sanitari in Italia risalgono all’800, costituiti da artigiani ed operai per far fronte all’esigenza di munirsi di strumenti in grado di garantire loro una tutela in caso di malattie, invalidità, guerre, povertà e vecchiaia. Sono le Società di Mutuo Soccorso affiancate, più tardi, dagli Istituti mutuo-previdenziali. Questi ultimi si svilupperanno molto nel corso degli anni venti del ‘900, essendo divenuto obbligatorio per ogni cittadino essere iscritto ad uno di tali Istituti. 8

Nascono, infatti, in quel periodo numerose Mutue sanitarie (INAM, ENPAS, INADEL), differenziate per categoria di appartenenza e per livello di copertura sanitaria garantita. Il settore sanitario italiano, per lungo tempo, sarà sostanzialmente costituito dalle Mutue; fino a quando, la loro frammentazione e l’enorme cumulo debitorio, portarono alla loro soppressione e all’istituzione, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale. All’uscita di scena delle Mutue non parteciparono anche le Società di Mutuo Soccorso che, invece, rimasero operanti, in quanto l’adesione a queste non era obbligatoria ma volontaria e, inoltre, esse erano attive anche in settori diversi dall’assistenza sanitaria. La legge istitutiva del SSN prevedeva, infatti, la possibilità di integrare le prestazioni erogate dal servizio pubblico tramite il ricorso ad assicurazioni private o a forme di mutualità volontaria. Solo nel 1992, contemporaneamente all’articolazione del sistema sanitario in tre pilastri, fu introdotta la categoria dei Fondi Sanitari Integrativi, nella quale confluirono anche le Società di Mutuo Soccorso. Il legame con il mondo del lavoro, genitore di questa modalità di assistenza, è rimasto tutt’ora molto forte: esistono FSI destinati esclusivamente a diverse categorie professionali (l’EMPAM per i medici, la Cassa Forense per gli avvocati…) e numerosi contratti collettivi ne prevedono l’iscrizione dei lavoratori (il Fondo Mètasalute per i metalmeccanici). Così, l’eredità mutualistica ottocentesca fu raccolta da tali fondi; l’ambito di operatività dei quali, come si accenna in apertura, inizia laddove finisce il campo di operatività del SSN. Sanità integrativa sempre più sostitutiva La sanità integrativa sta rivestendo sempre di più un ruolo di sanità sostitutiva, entrando in concorrenza con quella pubblica. A causa di una normativa incompleta e frammentaria, in materia, vige sostanzialmente un regime di “deregulation” che dà vita a situazioni paradossali. Scomodo

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Se da una parte, infatti, la norma prevede che, visto lo spiccato interesse sociale, i fondi sanitari integrativi (FSI) siano enti no-profit; dall’altra, prescrive che essi per essere considerati tali, possano destinare soltanto il 20% delle risorse alla copertura di prestazioni integrative; riservando il restante 80% a prestazioni sostitutive, ossia trattamenti già disponibili presso il SSN. Sicuramente una previsione normativa singolare considerando che, essendo no-profit, godono di un regime fiscale differenziato. Agevolazioni che la normativa riconosce loro non solo in relazione alle prestazioni di sanità integrativa ma a tutte quelle da loro coperte. Ciò contribuisce a spiegare il costante trend di crescita che negli ultimi anni sta vivendo tale settore: oggi i fondi sono 322 contro i circa 30 del 1995 con un numero di iscritti salito da 1 milione ai 12,5 attuali. Analizzando il dato emerge che solo il 2% di essi ha funzione esclusivamente integrativa; al contrario, la quasi totalità rivolge circa il 70% delle risorse disponibili per il rimborso di prestazioni sostitutive che, tra l’altro, vengono erogate in prevalenza da strutture private, in forza di accordi stipulati dai fondi stessi. Pertanto stiamo assistendo alla deriva di un settore, normativamente previsto come no-profit, verso spiagge contaminate dalla logica del profitto. Se da una parte, infatti, aumentano gli iscritti e così le risorse; dall’altra, i fondi rimborsano sempre meno. Ingenti somme dei contributi versati vengono assorbite da costi di gestione e da contratti di assicurazione che i fondi stipulano per garantire il loro rischio. Perché riassicurarsi se il patrimonio di tali enti, vista la maggiore redditività, sostanzialmente cresce? Ciò desta più di qualche perplessità, non può forse dirsi che i FSI facciano il gioco del settore assicurativo? Certamente quest’ultimo, per le motivazioni suddette, ha sfruttato il fertile terreno per gettare un seme, giungendo, negli anni, ad infestare l’intero campo; come dimostra un dato: l’85% dei Fondi Sanitari Integrativi sono controllati, in qualità di gestori, dalle compagnie assicurative. Compagnie che, vista la difficoltà riscontrata in Italia nel diffondere la cultura della polizza sanitaria, hanno astutamente malleato un settore non di loro competenza. A favorire tali dinamiche hanno contribuito, inoltre, la mancanza di trasparenza e di controlli che vige in materia: l’anagrafe dei Fondi Sanitari Integrativi, istituita presso il Ministero della Salute (Decreto Turco, 2008), non è accessibile al pubblico e nessun sistema di controllo è stato attuato, né tantomeno un regime sanzionatorio. Scomodo

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Per meglio precisare: interventi a riguardo erano previsti nel decreto legislativo del ’92 (art 8 e 9) ma, esso non ha mai conosciuto la luce per mancanza di alcuni decreti attuativi. È mancata, dunque, la volontà politica necessaria affinché tale settore rivesta effettivamente il ruolo ad esso assegnato. Effetti collaterali Quali sono le conseguenze dell’espansione incontrollata del secondo pilastro? Questo fenomeno sta minando fortemente la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale. Riconoscendo ai Fondi agevolazioni fiscali riguardo qualsiasi prestazione da essi coperta e non limitandole, quindi, esclusivamente a quelle di sanità integrativa, si sta di fatto finanziando un sistema sanitario parallelo che eroga i medesimi trattamenti già garantiti dal servizio pubblico. Finanziamento che si sostanzia nel mancato gettito per lo Stato, dovuto alle deduzioni e detrazioni riconosciute a tali enti. Una recente stima dell’ISTAT, dimostra che la spesa fiscale, derivante dalle agevolazioni riconosciute al secondo pilastro, ammonta a 3,3 miliardi di euro. Somma che potrebbe essere investita nel SSN, che da anni non conosce altro che il definanziamento. L’espansione di questo settore, pertanto, non comporta una riduzione della spesa che lo Stato deve affrontare per la sanità; tutt’altro! Costituisce, almeno, un vantaggio per il privato cittadino ad essi iscritto? Solo in parte. Questo, infatti, versa un contributo, una quota del quale volta a garantire prestazioni a lui già accessibili presso il SSN, finanziato dalla fiscalità generale; si ritrova così a pagare due volte la stessa prestazione. La transizione da un sistema universalistico, com’è oggi quello italiano, verso un sistema misto, comporta, dunque, l’aumento non solo della spesa dei singoli privati ma anche di quella pubblica. A dimostrazione di ciò, rilevante è il dato americano: l’incidenza della spesa pubblico-privata sul PIL è del 17,2%. Negli Stati Uniti sostanzialmente la sanità pubblica assicura prestazioni ai suoi assistiti pagandogli polizze assicurative. 9


Questo trend, trattato ampiamente da una grande letteratura, è spiegabile in vari modi. Innanzitutto, man mano che si allarga l'influenza del sistema assicurativo sull'erogazione delle cure, si riduce la possibilità di controllare i prezzi. I prezzi tendono a crescere. In secondo luogo, l'attività stessa delle strutture assicurative ha altissimi costi amministrativi, pari al 25% complessivo delle prestazioni. In Italia la spesa pubblica del Servizio sanitario nazionale è più bassa, aggirandosi intorno al 12-13%. Dei risvolti di una simile transizione, non preoccupa solamente il dato economico, ma, soprattutto, l’aumento delle diseguaglianze sociali. L'incentivo alla sanità privata indebolisce la sanità pubblica, ed esclude milioni di cittadini a basso reddito, che non possono dotarsi di assicurazioni o fondi sanitari; come ad esempio i disoccupati. Si incentiva un accesso ai servizi differenziato, privilegiando chi ha un’assistenza integrativa e creando un’ulteriore discriminazione, non solo in base al reddito, ma anche alla posizione lavorativa. L’attenzione prestata dai privati per il mercato sanitario trova fondamento nell’altissima redditività che gli investimenti in tale settore garantiscono (pari al 115-150%). Opportunità che soltanto un sistema sanitario pubblico, incardinato sulla base di principi di universalità ed eguaglianza, sa tradurre, oltre che in termini economici, soprattutto in diritti assoluti, attribuendo all’investimento un valore inestimabile. Ciò, alla luce anche del particolare periodo di crisi contemporaneo, ci impone una riflessione sul modello di sanità che vogliamo per il futuro del paese.

di Emilio Di Marziantonio

(I dati e le analisi degli stessi, sono stati principalmente tratti dal Rapporto GIMBE del 2019)

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Sanità, cure e disuguaglianze L’assenza di un progetto ben strutturato relativo ad un Secondo Pilastro in Sanità ha portato inevitabilmente al risultato osservabile all’interno del panorama sanitario attuale, cioè ad un sistema in cui i ruoli e gli ambiti di competenza dei tre pilastri hanno confini labili e poco definiti. Questa situazione grava inevitabilmente sui diritti (e sulle tasche) dei cittadini che, come si legge nell’articolo 32 della Costituzione, avrebbero diritto a garanzie da parte dello Stato sulla loro salute. A smentire questa promessa i dati, dove si osserva come il trend della spesa sanitaria privata in Italia non abbia fatto che aumentare negli ultimi anni. In particolare, oltre al contributo per il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che avviene attraverso la fiscalità generale, ogni cittadino versa un contributo aggiuntivo anche alla sanità privata di mediamente 580 euro pro capite, oltretutto con un livello di copertura da parte delle Forme di Sanità integrativa (FSI) di meno del 14%. Questo significa che ogni cittadino deve sostenere contribuzioni doppie per ricevere potenzialmente lo stesso tipo di servizio, considerando che in molti casi le prestazioni erogate dalle strutture private sono sostitutive di quelle del SSN e non integrative. Il fatto che nell’ultimo decennio si sia registrato un massiccio arretramento del finanziamento pubblico in sanità ha fatto in modo di dover richiedere ai cittadini una quota sempre maggiore delle spese di accesso alle cure, generando inevitabilmente un’ingente quantità di disuguaglianze sociali. In questo modo infatti l’accesso alle cure è strettamente condizionato dalla disponibilità economica del singolo. Confrontando il nostro scenario con il panorama degli altri paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Italia rientra nella fascia dei paesi con maggiore incidenza delle spese sanitarie private out of pocket, con un ammontare di più del doppio rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Facendo riferimento ai dati del Rapporto Gimbe del 2019 infatti, risulta che il 27% della spesa sanitaria italiana sia privata e che di questa l’86,1% sia appunto out of pocket, cioè sostenuta direttamente dalle tasche delle famiglie. Scomodo

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La differenza principale del nostro sistema rispetto a quello di molti altri paesi OCSE è quella di non avere delle funzioni ben definite assegnate al Secondo Pilastro Sanitario ed è quindi conseguentemente assente anche un’organizzazione di livelli assistenziali adeguata a diverse categorie di cittadini. Il caso del federalismo sanitario Larga parte di queste disuguaglianze sociali sono state accentuate in maniera più marcata dal federalismo sanitario, che ha generato disparità catastrofiche sul piano regionale. Per federalismo sanitario si intende ciò a cui ha portato la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Questo ha affidato la tutela della salute dei cittadini ad una legislazione concorrente tra Stato e Regioni, configurando un sistema che si muove tra diversi centri di potere e che, soprattutto, lascia maggiore autonomia e competenza ai vari nuclei locali. Le diseguaglianze generate da questa struttura sono cresciute progressivamente negli anni, sia sul piano economico (rispetto agli effettivi e differenti costi della sanità per i cittadini nelle varie regioni), che sul piano sociale e delle possibilità di accesso alle cure. Ad incrementare ulteriormente le disparità regionali soprattutto la differente funzione svolta dalla spesa sanitaria privata, che assume ruoli e funzioni differenti a seconda delle regioni. Nel Nord Est infatti la funzione è principalmente integrativa rispetto al SSN e quindi la scelta di ricorrere ad un privato verte su fattori di maggiore accessibilità alle visite e su esigenze causate dalle prestazioni di alta diagnostica, oltre alle cure odontoiatriche. In molte regioni del Centro Sud invece ci si ap11


pella a strutture sanitarie private principalmente per quanto riguarda il comparto dell’ospedalizzazione, in particolare al fine di ridurre le liste d’attesa per i ricoveri, che in regioni come il Lazio raggiungono anche gli 82 giorni d’attesa. Il fatto di rivolgersi a strutture e prestazioni della sanità privata quindi risponde sia alle esigenze della nuova sfera dei bisogni (come nelle regioni con del Nord Est) che a servizi disfunzionali in alcuni SSN regionali (come nel caso del Centro Sud). Il punto d’arrivo però, di qualsiasi entità sia l’esigenza che spinge al ricorso ai privati, è sempre il fatto che l’assenza di un Secondo Pilastro Sanitario ben regolato e funzionale alle esigenze dei cittadini incentiva queste spese a gravare direttamente sulla capacità reddituale e sulla disponibilità economica dei singoli. Forme Sanitarie Integrative e disuguaglianze regionali Vi sono comunque delle Forme Sanitarie Integrative (FSI) che si occupano di rimborsare ai cittadini parte di queste spese private, sebbene prigioniere di un sistema disfunzionale di Secondo Pilastro Sanitario e quindi prive di un’effettiva capacità di agire in maniera capillare sulle spese. Gravano però anche sulle FSI le disparità regionali, che prevedono forme di supporto completamente differenti per i loro cittadini. La Lombardia ad esempio è la regione in cui si spende di più in sanità privata, ma è anche la regione in cui le spese coperte dalle FSI sono più alte, e gestiscono una quota pari a 247,83 euro per cittadino. Peculiare è invece il caso della Liguria, che presenta uno dei più alti indici di spesa sanitaria privata out of pocket, ma affida queste spese quasi completamente alla capacità reddituale dei cittadini. Altra situazione emblematica è quella della Campania, dove il costo pro capite della spesa sanitaria privata non è particolarmente elevato, ma le FSI provvedono a malapena ad una copertura dell’1% di queste, per altro in una delle regioni con PIL pro capite regionale più basso d’Italia. Le spese per l’accesso al SSN sono quindi considerevolmente differenti da una regione all’altra e un particolare accenno su questo fronte lo merita l’incidenza dei cittadini esenti, massicciamente concentrati al Sud e nelle Isole. La motivazione che riconduce una maggiore presenza delle FSI in alcune zone d’Italia piuttosto che altre è quella che collega questi servizi prevalentemente al settore del lavoro dipendente, connesso quindi alla distribuzione dell’occupazione e più nello specifico legato alla presenza sul 12

territorio di aziende medio- grandi o di Pubbliche Amministrazioni. La gran parte degli assicurati in questo senso infatti si concentrano tra il Nord e il Centro del nostro paese, lasciando nuovamente più scoperta proprio quella fascia di cittadini che già si trova ad avere un’assistenza sanitaria meno prestante sul suo territorio. L’ambito della farmaceutica convenzionata è un altro settore che si sta trovando, negli anni, a essere sempre più profondamente penalizzato. Secondo il rapporto MEF del 2019 sul monitoraggio della spesa sanitaria, la spesa in farmaceutica convenzionata è passata da un 14,2% del 2002 ad un 6,6% del 2018. La conseguenza di questi dati porta inevitabilmente ad ulteriori elementi che alimentano la disuguaglianza, in quanto con la diminuzione delle spese nella farmaceutica convenzionata anche il costo dei farmaci a gravare sui cittadini aumenta notevolmente. Liste d’attesa: quanto incidono sul rapporto tra SSN e privati Secondo le statistiche, la maggior parte degli italiani rispetto al SSN lamenta prevalentemente la questione delle liste d’attesa, così lunghe da costringere in molti casi i pazienti a rivolgersi direttamente al privato. Questo fenomeno, in effetti, non ha fatto che crescere esponenzialmente negli ultimi anni, con un aumento dei giorni d’attesa persino a due mesi nel caso di esami specifici come le mammografie. Sembra essere questo infatti il principale fattore che spinge i cittadini a rivolgersi a strutture private, nonostante il conto da pagare per delle attese più brevi diventi sempre molto salato. La problematica relativa agli eccessivi tempi d’attesa è stata inoltre ampiamente sfruttata e cavalcata da parte della maggior parte delle assicurazioni sanitarie, che hanno accentuato attraverso massicce campagne pubblicitarie questo aspetto controverso del nostro SSN con immagini di uomini con visi costellati di rughe e barbe chilometriche. Ci sono casi in cui però il tempismo è fondamentale, e così molti italiani anche con redditi molto bassi scelgono il pagamento come corsia preferenziale di accesso alle prestazioni in tempi compatibili con le loro esigenze: ad esempio gli accertamenti di alta diagnostica. Un altro settore in cui sottoporsi a lunghi tempi d’attesa diventa particolarmente deleterio è quello della riabilitazione, campo in cui risulta essere il 54% a pagare out of pocket la prestazione, oppure addirittura in molti casi anche a rinunciarvi per i costi eccessivi. Anche per le liste d’attesa la componente terScomodo

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ritoriale sembra essere incisiva nell’influenzare il fenomeno, infatti, la percentuale più alta che si è rivolta al privato a causa delle eccessive attese per accedere alla sanità pubblica è quella dei residenti al Sud e Isole. In particolare, i giorni medi d’attesa sono di circa 83 nel Lazio e generalmente di 62 nel panorama del Sud e delle Isole, contro i 33 giorni del Nord Italia. Migrazioni sanitarie e divario tra regioni In generale, la percentuale di cittadini che lamentano sempre più ostacoli nel riuscire ad accedere alle cure sembra progressivamente aumentare, contestualmente alla crescita demografica, all’evoluzione scientifica e all’innalzamento della longevità. Questi elementi generano una crescita della richiesta di prestazioni sanitarie, alla quale negli ultimi anni il nostro SSN non sembra riuscire a sopperire, o sembra comunque farlo con delle profonde disparità soprattutto regionali. Queste mancanze generano massicci flussi migratori di cittadini da una parte all’altra del nostro paese, che vanno in cerca di una maggiore qualità delle cure o di più snelle liste d’attese. Nella gran parte dei casi comunque la migrazione da una regione all’altra va fatta risalire ad importanti terapie patologiche: le principali sono quelle oncologiche, cardiovascolari, malattie croniche e patologie pediatriche. Una peculiarità che peggiora il quadro è il fatto che, al di là delle migrazioni sanitarie, sembra che in generale, secondo i dati ISTAT sulla salute degli italiani del 2015, la concentrazione di cittadini con patologie gravi si riscontri nettamente più alta al Sud. Si parla di un 49% di persone che hanno superato i 65 anni e presentano almeno una patologia cronica grave, rispetto ad un 39% del Nord. Anche le percentuali di fumatori e soggetti obesi sembrano essere molto più alte al Sud rispetto al Nord. Il federalismo sanitario ha quindi accentuato sotto vari punti di vista il divario tra regioni, in particolare tra Nord e Sud, presentando un’indiscussa penalizzazione del Mezzogiorno, che ha visto un’ulteriore contrazione della speranza di vita alla nascita e una perdita ingente di fondi per la sanità, dal momento in cui la maggior parte degli abitanti di queste zone sceglie di spostarsi al Nord per le cure, ridistribuendo quindi in questa direzione anche parte dei finanziamenti. Chi potrà realmente migliorare il sistema? Scomodo

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Il Rapporto RBM-Censis del 2019 riflette sulle problematiche evidenziate riguardo le carenze del nostro SSN e sulle altrettante problematiche in merito alle mancate coperture offerte dalle FSI, mettendo in luce come il nucleo del problema sia da far risalire ad una più adeguata informazione e consapevolezza dei cittadini relativamente a questi ostacoli. Così facendo, infatti, secondo il rapporto, tutti sarebbero in grado di ovviarvi dotandosi di forme di copertura delle spese sanitarie, cessando anche le differenze che tuttora vengono perpetuate tra le FSI riconosciute a molti lavoratori dipendenti, rispetto ai numerosi che invece ne rimangono tagliati fuori. Forse però sarebbe più coerente se un processo di revisione e riesamina della struttura del nostro SSN avvenisse da parte dello Stato, che dovrebbe operare in una direzione tale da offrire maggiori garanzie sulla salute dei suoi cittadini, e non tanto una riorganizzazione da parte della popolazione sulla singola gestione delle spese sanitarie. Così facendo, altrimenti, si continuerà a perpetuare un sistema nel quale larga parte delle spese e delle responsabilità nella gestione delle mancanze gravano principalmente sulle spalle della popolazione. In particolare, poiché è la Repubblica a doversi occupare della tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo, di conseguenza i suoi abitanti non possono essere incitati a spendere maggiori fondi nei sistemi di copertura sanitaria e di conseguenza nelle strutture private. La tutela della salute è un diritto, e, come tale, tutti i cittadini dovrebbero poterne godere, al di là del reddito, della posizione lavorativa e della loro collocazione geografica in una regione piuttosto che in un’altra.

di Arianna Preite

[I dati e le analisi degli stessi sono stati principalmente tratti dal Rapporto RBM-Censis del 2019]

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AT T UA L I TÀ


Editoriale di sezione Questo mese siamo tornati alle origini e, come era previsto agli albori del progetto editoriale, ci siamo (virtualmente) riuniti in due occasioni per discutere i temi e il taglio degli articoli che avrebbero fatto parte della sezione di Attualità. Tutto ciò è avvenuto in un momento delicato della nostra biografia editoriale in cui per la prima volta la redazione di Scomodo si è allargata fuori da Roma con la partecipazione attiva dei ragazzi e le ragazze di Torino e Milano che stanno portando al progetto, e non solo al mensile, energie nuove e grande apporto, nonostante le difficoltà legate al momento così particolare. L’urgenza di ridiscutere i contenuti che il giornale avrebbe proposto questo mese deriva da una riflessione sul nostro ruolo, in quanto sezione di attualità di un mensile che da sempre cerca di proporre delle analisi a “mente fredda”, di preservare la possibilità di un esame lucido della realtà non viziato da facili umori, dai linguaggi che trasportano in auge la notizia del momento e che troppo spesso ne riducono il potenziale di complessità e di analisi prospettica. Le nostre scelte editoriali quindi sono sempre avvenute in funzione della tutela di un’articolazione complessa dei contenuti e in vista della produzione di un’indagine che, nel limite dei nostri strumenti, potesse sopravvivere e rimanere valida nel tempo, assolutamente pur non sempre riuscendoci.

Per questo ci siamo spesso impegnati a non cavalcare l’onda delle notizie più sdoganate e a realizzare un’alternativa contenutistica, e non solo di forma, che risultasse informativa. Per questo alla prima riunione di questo mese avevamo deciso di non occuparci all’interno della nostra sezione – neanche a dirlo – di Covid-19. Era una scelta tutto sommato coerente, visti i motivi di cui sopra. Una scelta che poteva essere motivata facilmente ai nostri lettori. Ma forse, in fondo, una scelta fin troppo comoda. Durante la seconda riunione è stato quindi deciso di articolare la sezione in due contenitori che rappresentano per noi le due narrazioni che, in questo momento, sostanziano la trama complessa dei rapporti economici, politici e sociali del mondo in maniera più pervasiva e dominante. Da una parte il racconto del virus, del quale produrre un’analisi ragionata, in questo periodo, è una corsa contro il tempo, e per le tempistiche dilatate di un mensile cartaceo lo è ancora di più. Ci siamo trovati, come immaginavamo, in corso d’opera a modificarne i contenuti, ad aggiornarli, a ridiscuterli, con l’idea di offrire al lettore un doppio punto di vista: un primo articolo incentrato sulle implicazioni geopolitiche e sulle dimensioni macroscopiche dei rapporti di forza tra le grandi potenze e un secondo dedicato alle ricadute emergenziali del caso italiano, legate alla preoccupazione di uno Stato che, rivolgendosi ai mercati finanziari,

lascia scoperti interi settori che compongono l’economia reale del Paese. Dall’altra parte il grande capitolo delle migrazioni analizzato dalla prospettiva delle politiche europee di chiusura delle frontiere, passando anche per la loro esternalizzazione e per un’investitura di determinati Paesi come “Scudi d’Europa”. È il caso della Grecia e della Turchia, protagoniste del primo articolo e della crisi umanitaria più grave che esista entro in confini europei, ma anche dei Paesi dell’Est, il cosiddetto blocco Visegrad, e della più ampia deriva illiberale da cui sono investiti. In entrambi i casi la narrazione che compone questi due blocchi ci è sembrata urgente e irrinunciabile, tanto da occupare l’intero spazio solitamente dedicato ai tre canonici articoli di politica internazionale e nazionale. Anche l’assenza della rubrica Mostri, sui luoghi abbandonati della città, che in quanto lavoro sul campo ci è stato impossibile realizzare, rende la struttura della sezione di Attualità un po’ diversa dal solito questo mese. Speriamo che il lettore possa apprezzare le nostre scelte e perdonarci se alcune delle notizie potranno essere poco à la page al momento dell’uscita del numero. Vi auguriamo buona lettura! La redazione di Attualità

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I CONSIGLI DEL LIBRAIO

Scomodo ha sempre dato importanza a una dimensione intimamente fisica, calorosa della condivisione di saperi, idee ed emozioni, e per questo ha deciso di coinvolgere attivamente nella distribuzione del proprio giornale un baluardo di quest’idea di cultura: le librerie indipendenti delle nostre città.

In un momento così buio e difficoltoso per la vita culturale del Paese (di cui l’emergenza coronavirus purtroppo rappresenta solo la pericolosa punta dell’iceberg) siamo orgogliosi dell’animo con cui i nostri“complici” librai stanno affrontando questa crisi. Vedendo in un momento così complesso l’opportunità di riflettere, invitando i ragazzi alla lettura, portando avanti la propria abilità consigliando e consegnando porta a porta libri. Il devastante impatto della pandemia sul settore culturale non elimina la passione con cui ognuno di loro sta portando avanti il proprio lavoro. Il nostro sostegno incondizionato va a loro, li ringraziamo ogni giorno per il lavoro che fanno.

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"Andate in libreria, sostenete la cultura cartacea!" Le librerie scomode:

IL MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE

TRA LE RIGHE

EQUILIBRI

Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM

Piazzale delle Medaglie d’Oro, 36b 00136 Roma RM

PUNTO SCUOLA

OTTIMOMASSIMO

TLON

Viale dei Promontori, 168 00121 Roma RM

Via Luciano Manara, 16/17 00153 Roma RM

Via Federico Nansen, 14, 00154 Roma RM

SIMON TANNER

LIBRERIA TRASTEVERE KOOB

Via Lidia, 58 00179 Roma RM

Via della Lungaretta, 90e 00185 Roma RM

Piazza Gentile da Fabriano, 16, 00196 Roma RM

LA LIBROLERIA

MINERVA

JASMINE

Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM

Via della villa di Lucina, 48 00145 Roma RM

Piazza Fiume, 57, 00198 Roma RM

Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM

LIBRI & BAR PALLOTTA

ALTROQUANDO

CLAUDIANA

Piazzale di Ponte Milvio, 21 00135 Roma RM

ODRADEK

Via del Governo Vecchio, 82, 00186 Roma RM

TOMO CAFFÈ

Via dei Banchi Vecchi, 57 00186 Roma RM

Via degli Etruschi, 4 00185 Roma RM

LIBRERIA DONOSTIA

IL PONTE SULLA DORA

Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM

LIBRERIA DEL GOLEM Via Gioacchino Rossini, 21/c, 10124 Torino TO

LUNA'S TORTA

Via Monginevro, 85/A 10141 Torino TO

Via Pisa, 46, 10153 Torino TO

LIBRERIA PANTALEON

TEMPORITROVATO LIBRI LIBRERIA POPOLARE

Via Giuseppe Grassi, 14, 10138 Torino TO

Corso Garibaldi, 17, 20121 Milano MI

Via Belfiore, 50, 10125 Torino TO

Via Alessandro Tadino, 18, 20124 Milano MI

LIBRERIA LINEA DI CONFINE LIBRERIA ISOLA LIBRI

LIBRERIA MUSICALE GALLINI

Via Antonio Ceriani, 20, 20153 Milano MI

Via Gorani, 8, 20123 Milano MI

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Via Antonio Pollaiuolo, 5, 20159 Milano MI

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Covid-19

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Socchiudere tutto -------------------------------------------------------------------------------------------------------In un clima di emergenza e di profonda precarietà c’è chi non si ferma, ma sempre più persone rivendicano un reddito di quarantena

L’emergenza sanitaria, causata dalla diffusione rapida del COVID-19, permette di rilevare un fenomeno di pari dimensioni: una profonda crisi economica e finanziaria. C’è chi dice che ci si troverà in un nuovo e peggiore 2008 passato e probabilmente non si sbaglia. Tanto chi rimane a casa quanto chi continua a lavorare incessantemente rischia di trovarsi in situazioni anche estreme. Nell’ambito dell’azione del governo, esponenti di spicco della vita politica del Paese non hanno mancato di far notare da parte del governo stesso un’attenzione molto specifica, tanto nel tentativo di convincere i “piani alti” dell’UE ad operare politiche economiche più espansive quanto nel diramare le prime misure di contrasto all’emergenza. Il tutto si risolverebbe in una spaccatura “classica”: sostegno dell’economia finanziaria contro “il paese reale”. Se in passato questa descrizione poteva risultare grossolana, oggi più che mai è evidente la mancanza di un sostegno tempestivo, diretto e massivo del governo ad ampie fasce di popolazione. La quarantena, infatti, ha portato a galla profonde fratture che caratterizzano il nostro sistema economico ormai da tempo; modificato e rimodellato da varie riforme (prima su tutte il Jobs Act), il mondo del lavoro attuale rende le condizioni lavorative di migliaia di cittadini e cittadine insoddisfacenti e altamente precarie.

Scomodo ha seguito e raccolto le testimonianze di lavoratori, collettivi, economisti ed esponenti sindacali per descrivere quest’universo di precarietà e analizzare proposte risolutive. A partire dalla più forte, quella di un reddito di quarantena. Per un reddito di quarantena In Lombardia ed Emilia Romagna è nata, sin dai primi giorni di marzo, una rete di lavoratori precari, intermittenti e autonomi che portano la rivendicazione di un “Reddito di Quarantena”.

Basti pensare ai senza dimora che dell’hashtag #iorestoacasa banalmente non sanno cosa farsene, essendo privi di luoghi diurni attivi da attraversare al chiuso e in sicurezza. D’altro canto, vanno considerati anche gli operatori e operatrici che continuano a lavorare in condizioni di sicurezza generali e sanitarie non solo precarie, ma pericolose. Comunità, Cooperative e Associazioni, che gestiscono il “pronto accoglienza” e i dormitori per i senza dimora, non hanno gli strumenti, le risorse umane e le strutture per far fronte alla diffusione dell’epidemia. L’assemblea del Reddito di Quarantena ha portato alla luce situazioni di questo genere, che vedono gli ospiti di queste strutture ammassati in camerate, dove la distanza di sicurezza è inesistente e operatori ed operatrici non hanno idea di come assisterli o metterli in isolamento.

“A non poter restare a casa sono anche i riders. Molti di loro, lavorando con contratti a prestazione occasionale, non riescono ad accedere ai 600€ erogati dallo Stato come da decreto.”

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La Camera del Non Lavoro, ADL Cobas Lombardia e Emilia Romagna e SIAL Cobas, insieme a svariate categorie lavorative e realtà sociali che hanno potuto raccontare le proprie condizioni, hanno identificato esigenze comuni che vanno oltre all’emergenza del momento: stop sgomberi e sfratti; un reddito di cittadinanza universale; maggiore sicurezza sul lavoro; stop tasse per le categorie più vulnerabili; stop licenziamenti; diritto alla casa per tutte e tutti.

A non poter restare a casa sono anche i riders. Molti di loro, lavorando con contratti a prestazione occasionale, non riescono ad accedere ai 600€ erogati dallo Stato come da decreto, limitati a quella minoranza che riesce ad aprire la partita iva, quindi per lo più chi consegna in auto o in scooter, e ai lavoratori di piccole aziende territoriali che utilizzano un contratto co.co.co (collaborazione coordinata e continuativa). 19


La maggior parte dei riders è quindi costretta a continuare a consegnare per sopravvivere e non perdere ulteriori ore di lavoro in futuro: in base al sistema di ranking smettere di fare consegne significa scendere in classifica, quindi non poter accedere a fasce orarie più remunerative. Lavorando, però, i riders sono costantemente esposti al rischio di contagio, in quanto le grandi aziende dell’AssoDelivery (tra cui Uber Eats, Just Eat, Deliveroo e Glovo) sono obbligate per legge a fornire mascherine idonee e guanti, hanno lasciato ogni responsabilità al lavoratore. Alcune si sono limitate a un rimborso di 25€ mensili per l’acquisto dei dispositivi sanitari, cifra assolutamente insufficiente se si considera la breve durata delle mascherine (senza contare la difficile reperibilità), altre hanno condiviso un video tutorial su come fare una consegna contactless, altre ancora sono rimaste alle semplici promesse. I sindacati autonomi dei riders, come Deliverance Milano, si stanno muovendo per proteggere i lavoratori chiedendo il blocco delle consegne, già avvenuto in Campania dopo la vittoria della Pirate Union, la quale però guarda, come altri collettivi di rider non legati ad alcun sindacato, a una misura di emergenza vicina al reddito di quarantena. Tutti quelli che invece possono e devono restare a casa (lavoratori e lavoratrici del Terzo settore e dell’ambito culturale e dello spettacolo) sono stati costretti alle ferie forzate, a usufruire dei congedi o persino licenziati prima del Cura Italia, che del licenziamento vieta le procedure fino a maggio.

C’è chi resta a casa e chi no Ma chi è stato già licenziato cosa deve fare? Questo è solo uno degli interrogativi lasciati senza risposta dal decreto del 17 marzo 2020 n.18, che prevede l’attuazione di “Ammortizzatori Sociali” contraddittori, insufficienti o non accessibili realmente a tutti e tutte.

del terzo settore, di cui però non è chiara l’accessibilità per casi particolari, andando ad escludere a priori chi è soggetto a lavoro nero o grigio. Il congedo parentale e la sua estensione è un’ulteriore problematica da affrontare: chi ha figli a carico, di un’età inferiore ai 12 anni, ha diritto al congedo parentale retribuito solo del 50%, mentre per tutti gli altri non è prevista l’indennità, ma un contributo massimo di 600€ per il babysitting (1000 euro per dipendenti di polizia e settore sanitario). La questione abitativa viene trattata in parte, a favore dello stop dei mutui ma non degli affitti e delle bollette, scavando ulteriormente in una frattura socio-economica tra i due “ceti” proprietario e affittuario e andando di fatto a ledere ulteriormente il diritto alla casa. Durante le Assemblee Nazionali si è chiaramente delineata la necessità di un passaggio non solo nei confronti dello Stato, in quanto istituzione centralizzata, per far valere le proprie rivendicazioni, ma anche attraverso le istituzioni e le Pubbliche Amministrazioni locali e regionali. Oltre agli uffici aziendali, sono coinvolti anche i dipendenti statali, dai front office al back office delle Pubbliche Amministrazioni, alcuni tra i più fortunati sottoposti ad uno smart working non precisamente delineato in orari e procedure. Le contraddizioni in questo senso derivano innanzitutto dalla selezione di persone adatte al lavoro da casa retribuito e quindi dal limitato accesso allo smart working, tra l’altro non equipaggiato dagli strumenti telematici necessari.

“La questione abitativa viene trattata in parte, a favore dello stop dei mutui ma non degli affitti e delle bollette, ledendo ulteriormente il diritto alla casa.”

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I primi provvedimenti citati dal DL riguardano l’estensione alle imprese, anche più piccole, della cassa integrazione in deroga fino a nove settimane, che andrebbe a coprire esclusivamente il 68% di stipendi nella maggior parte dei casi già bassi. Esso prevede inoltre un’indennità di 600€ per professionisti, lavoratori autonomi co.co.co, agricoli e

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Il termine “lavoro agile” è stato introdotto in Italia per la prima volta già nel 2014, come proposta di legge per la promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro; si tratterebbe in origine di un lavoro subordinato, al di fuori dell’ambiente lavorativo fisico, per un orario medio annuale inferiore al 50% dell’orario di lavoro normale, se non diversamente pattuito, con parità di retribuzione economica con chi svolge la stessa quantità di mansione nelle strutture aziendali. La proposta è stata poi rilanciata nel 2016, rientrando nella riforma del Jobs Act, e poi negli articoli 18 e 24 della Legge 81 del 2017, come obiettivo di sperimentazione nelle Pubbliche Amministrazioni: l’obiettivo era quello di coinvolgere (entro tre anni dal 2016) almeno il 10% del personale, andando a gestire la sua organizzazione e garantire la sicurezza dei dati. Malgrado lo smart working lasci spazio a perplessità riguardanti soprattutto la definizione dei confini lavorativi con quelli della vita personale, è evidente come ancora oggi la Pubblica Amministrazione fatichi ad adattarsi e rispondere all’emergenza, risultando lenta nelle procedure più moderne che ora risultano necessarie.

Si può notare dunque come realtà di controcultura siano veloci nel creare meccanismi comuni di solidarietà e rivendicazioni, a differenza di decreti che continuano a occuparsi di particolarismi e segmentazioni, vincendo sul carattere universale dei diritti e frammentando il tessuto sociale.

Le iniziative solidali L’idea della rete creata dal Reddito di Quarantena è quella di creare un sito web che possa fornire una modulistica adeguata e l’accesso a tutte quelle iniziative di supporto territoriale e telematico; al tempo stesso si sta lavorando alla costruzione di una cassa solidale da dove trarre una prima forma di reddito emergenziale per le categorie più deboli.

D’esempio sono le iniziative partite da Non sei sol@ e la nascita delle Brigate volontarie a Milano. Queste ultime costituiscono “un progetto autonomo nato dalla spinta di attivisti di diverse aree, tendenze e posizionamenti della controcultura di Milano”, spiega uno dei coordinatori territoriali, “abbiamo lanciato un appello per creare un servizio gratuito,

a cui si sono uniti moltissimi collettivi, comitati territoriali, realtà dell’autorganizzazione, squadre di calcio popolari e singole e singoli che hanno aderito al progetto”. Sono organizzati in nove Brigate (una per ogni zona di Milano) che portano il nome di un partigiano milanese; ciascuna zona è dotata di un responsabile, un vice e una decina di volontari che offrono supporto logistico alle fasce più deboli e chi è in casa in isolamento. L’iniziativa attualmente conta sul forte aiuto dell’ONG Emergency che oltre ad offrire una formazione sul rispetto dei parametri di sicurezza e rifornire le Brigate di mascherine e guanti, lascia a disposizione la propria sede come punto organizzativo e di ricezione delle chiamate (queste ultime girate dal centralino del comune). Malgrado le iniziative solidali siano tante, è evidente che contare solo sull'aiuto di volontari che condividono con tutti gli altri le medesime problematiche economiche non è una soluzione. Risulta quindi necessaria l’idea di garantire un basic income, come strumento di livellazione in contrasto al crollo economico imminente. Ad Hong Kong è stato già attuato il cosiddetto “Helicopter Money”, mentre con l’ultimo DL Cura Italia viene sospeso per due mesi anche il reddito di cittadinanza.

“Ad Hong Kong è stato già attuato il cosiddetto “Helicopter Money”, mentre con l’ultimo DL Cura Italia viene sospeso per due mesi anche il reddito di cittadinanza.”

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Lanciare soldi dall’elicottero Nel 2008, per riprendersi dalla crisi economica mondiale, il governo australiano scelse di versare 900$ a ogni contribuente residente nel paese. In questo modo, grazie a uno stimolo fiscale, per i cittadini è stato più semplice tornare a investire i propri soldi, rimettendoli in circolo e aiutando a far ripartire l’economia (“effetto moltiplicatore”). 21


Per contrastare la crisi economica causata dal COVID-19, è stato appunto preso in considerazione da Hong Kong un provvedimento del genere, un reddito di base a tutti i maggiorenni residenti che corrisponde a circa 1170€. La manovra economica soprannominata “Helicopter money”, espressione coniata da Milton Friedman, consiste quindi nel versamento da parte dello Stato sul conto corrente di ogni cittadino di un certo ammontare di denaro, per aumentare la capacità di spesa, soprattutto nelle persone con un basso reddito. Considerando però un sistema economico immobilizzato da una pandemia, dove la paura del contagio ha bloccato tutto, dall'offerta alla domanda, quanto può essere efficace un provvedimento di questo tipo? Com’era prevedibile in una situazione di questo tipo, l’e-commerce ha subito un’impennata con la chiusura dei negozi. Questo però non garantisce che il provvedimento, con l’obiettivo di investire per fare aumentare i consumi degli italiani, possa essere efficace, poiché molti prodotti comprati sono d’importazione e non supportano l’economia. D’altra parte quella dell’e-commerce continua, in fasi di emergenza, a costituire una falla gigantesca nella legislazione italiana. Con il blocco delle attività produttive, la filiera di moltissime richieste per ogni genere di bene passa per Amazon, che prima ha (in alcuni casi) privilegiato ed è stata poi tenuta a privilegiare beni di prima necessità. Ciò vuol dire che nei quartier generali di queste aziende e nei magazzini si lavora senza sosta, toccando picchi potenzialmente pericolosi in tempi di contagio.

Di fatto, il ventaglio delle attività ancora in funzione si è andato definendo col tempo, con l’e-commerce tuttavia sempre in prima linea.

In sostanza, l’e-commerce nelle sue forme massive costituisce una forma ancora poco sicura, e non è certamente l’economia in cui versare soldi in tempi di crisi. Ma nella discussione di un Reddito di Quarantena, d’altronde, non è questo l’arcano principale.

“Secondo un report di Business Insider Italia si parlerebbe di oltre 15.000 somministrazioni di Amazon ogni anno.” E mentre dalle parti di Confindustria le attività di sciopero e richiesta di blocco delle attività in nome della sicurezza venivano etichettate con nomi fantasiosi (“pugnalate alla schiena”, per citare l’imprenditore-blogger-opinionista-influencer Forchielli), Amazon continuava a costituire comunque l’anomalia. In questo contesto, Amazon spicca soprattutto in virtù di un rapporto estremamente complesso con i lavoratori che popolano gli hub della multinazionale in Italia. Complessità che si articola soprattutto al livello contrattuale. Amazon non fornisce numeri riguardanti i lavoratori coinvolti su tutto il territorio nazionale, ma

Dove si prendono i soldi? Da dove potrebbero venire questi fondi? Dallo Stato, con un conseguente aumento del debito pubblico, oppure, più probabilmente, dalla Banca Centrale Europea con un aumento della massa monetaria. L’imponente proposta di attuare un eventuale “Helicopter money” in soccorso all’economia italiana è stata particolarmente sostenuta anche da alcuni professori dell’Università Bocconi, come l’economista Francesco Daveri, che ha sottolineato però come questa misura di politica fiscale sia in realtà responsabilità dei Governi e non delle banche centrali, non essendo queste elette dai cittadini. Esse infatti dovrebbero tutelare il loro ruolo e occuparsi della politica monetaria, non quella fiscale. Ma in questa situazione straordinaria non si può sapere cosa succederebbe a ‘drogare’ i consumi e il mercato. Per questo, secondo Daveri, “Sarebbe meglio che il potere di dare risorse alla gente lo gestisca chi è poi giudicato al momento del voto, altrimenti sarebbe un vulnus per la democrazia”. Invece secondo Carlo Altomonte, docente di Politiche economiche europee all’Università Bocconi, “regalare soldi non significa necessariamente trasformarli in consumi: magari diventerebbero risparmi, visto che per ora i negozi sono chiusi”.

“Il dossier di CLAP mette in evidenza le profonde contraddizioni di politiche pronte a investire i 120 miliardi del Quantitative Easing anziché mirare alle tasche dei propri cittadini.”

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secondo un report di Business Insider Italia si parlerebbe di oltre 15.000 somministrazioni ogni anno, oltre a un numero imprecisato di contratti a Monte Orario Garantito.

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Ad ogni modo sembra che anche il governo italiano sia propenso a seguire una politica di questo tipo. "Estendere la cassa integrazione ordinaria e straordinaria a tutte le imprese significa che i lavoratori che stanno a casa avranno uno stipendio e quindi, dal punto di vista pratico, non si va molto lontano” dall’Helicopter Money. Un’ulteriore proposta viene espressa da parte delle realtà autorganizzate, sindacati e movimenti politici come Potere al Popolo, e riguarda la redistribuzione patrimoniale come punto di partenza per il reddito di quarantena: recuperare ricchezze e profitti in eccesso accumulati attraverso l’evasione fiscale di multinazionali, lo sfruttamento di lavoro sottopagato e la fiscalità regressiva. Il dossier di CLAP (Camere del Lavoro Autonomo e Precario) mette in evidenza le profonde contraddizioni di politiche pronte a investire i 120 miliardi del Quantitative Easing “classico” anziché mirare alle tasche dei propri cittadini e ad istituire provvedimenti universali che vanno dalla garanzia di un reddito incondizionato ad un welfare qualitativo e non dismesso in nome della politica di austerity degli ultimi anni. PaP fu uno dei primi a fare proposte per rispondere al caso emergenziale, come cessare il finanziamento per le spese militari (il costo di un F35 equivale a 100 mila posti letto ospedalieri). Non garantiamo niente Il decreto Cura Italia è stata la prima misura emergenziale volta a limitare i danni economici provocati dalla diffusione del COVID-19. E’ possibile – se non auspicabile che nelle settimane a seguire siano adottati ulteriori provvedimenti per intervenire sui settori finora rimasti scoperti e senza garanzie. Scomodo

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Tuttavia, la presenza di intere categorie lavorative rimaste intoccate o escluse dai primi provvedimenti individua una profonda frammentazione all’interno della società italiana, insieme una radicale impossibilità da parte delle istituzioni a superarla o quantomeno a prenderne atto. Ciò diventa particolarmente evidente in momenti di crisi, ma rimane valido anche nei periodi di ordinaria amministrazione – e a lungo termine potenzialmente più dannoso.

Il reddito di quarantena ha come obiettivo proprio quello di ridurre le enormi disparità tra le diverse categorie di lavoratori, ma resta aperta una questione fondamentale: come si può richiedere tutto ciò? Le misure restrittive riducono fortemente i possibili metodi di diffusione del messaggio, limitandoli ad attività mediatiche e striscioni appesi ai balconi, con il rischio ulteriore di non raggiungere l’attenzione necessaria affinché il discorso si sposti su un piano istituzionale. Dall’altra parte PaP propone di fare direttamente pressione sul governo per ottenere una reale

redistribuzione patrimoniale o perlomeno un reddito di cittadinanza esteso ed incondizionato. Non è detto però che il ricorso ad una politica “tampone”, come l’Helicopter Money o un reddito temporaneo per far fronte all’emergenza, possa davvero risolvere il problema della precarietà lavorativa nel nostro Paese. Senza una reale "riconfigurazione delle modalità delle prestazioni di lavoro" - com'è scritto nel Dossier di CLAP - le conseguenze rischiano di andare ben oltre la fine dell'emergenza.

di Samanta Zisa, Marem Lo, Elena Lovato e Pietro Forti 23


Politica della cura

-------------------------------------------------------------------Le implicazioni geopolitiche del COVID-19

Oltre a rappresentare la più grave situazione a livello sanitario che il mondo abbia visto da lungo tempo, la pandemia di COVID-19 rischia seriamente di cambiare gli equilibri geopolitici che oramai reggono il globo da alcuni anni. In base alle manovre di propaganda e le modalità tramite cui ogni singolo paese sta affrontando questa emergenza, gli attuali sistemi di alleanza e gli scontri fra potenze in atto rischiano di subire dei forti cambiamenti, sconvolgendo l’attuale panorama geopolitico. In questo articolo, cercheremo di osservare come alcune delle maggiori potenze globali stanno affrontando questo virus, in modo tale da poter cercare di capire come le loro attuali scelte politiche rischiano di cambiare il mondo nel prossimo futuro. Da sconfitti a primi della classe? Il caso cinese Da quando la pandemia di COVID-19 ha colpito il nostro paese, ogni singolo aspetto della vita politica italiana è passato, come è giusto che sia, in secondo piano: tutte le forze politiche del nostro Parlamento e il Governo Conte stanno cercando di arginare in ogni modo la più grave emergenza sanitaria che abbia colpito il nostro paese dai tempi del secondo dopoguerra. Una situazione questa che va ripetendosi in ogni singolo paese del globo, meno che uno, ossia il luogo di origine del Coronavirus: la Cina. Il 19 Marzo le autorità di Pechino hanno annunciato al mondo che, per la prima volta dall’inizio della pandemia, non si segnalano nuovi casi di infetti interni, mentre i nuovi 34 casi risulterebbero essere tutte persone provenienti dall’estero. Pur mantenendo in quarantena la regione dello Hubei, il resto del paese sta lentamente cercando di riprendersi sia a livello sociale che a livello economico;

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ma chi non ha perso certamente tempo, per cercare di rinsaldare la propria leadership all’interno del panorama geopolitico mondiale, è il presidente cinese Xi Jinping che, non appena si sono abbassati i numeri dei contagi nel paese, ha ricominciato a tessere la sua complessa trama di relazioni internazionali. La Cina in questo momento deve cercare di far nuovamente partire la propria economia, principalmente le esportazioni visto che la ripresa del suo mercato interno (base fondamentale del PIL cinese) appare assai lenta. Per fare questo, Pechino ha messo in campo tutta la forza dei propri organi di propaganda nel tentativo di rovesciare la narrazione internazionale che si è andata a sviluppare nel corso degli ultimi mesi, che vedeva la Cina come il paese dove è nato il COVID-19 e colpevole della sua diffusione, mostrando invece il governo di Pechino come il primo capace di debellare il virus e di indicare al mondo la via per distruggerlo definitivamente. Nel caso in cui questa nuova linea di narrazione dovesse imporsi, la Cina potrebbe in parte recuperare le ingenti perdite a livello economico causate dal virus, grazie alla ripresa dei commerci, specialmente in ambito sanitario e tecnologico. Il primo paese dove Pechino ha deciso di testare questa strategia è stato quello nel quale il COVID-19 ha causato più danni, ossia l’Italia. Pechino ha un conto in sospeso con il nostro paese a partire dal Marzo 2019, quando la firma del memorandum fra i due paesi avrebbe dovuto portare ad un rafforzamento dei rapporti commerciali, in vista della costruzione della Belt and Road Initiative: in realtà, i vantaggi economici di questo accordo si sono rivelati totalmente minimi per ambedue i protagonisti. Scomodo

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Questo aveva portato ad un forte raffreddamento dei rapporti fra il Governo italiano (che nel frattempo ha cambiato segno e colore, ma non la guida di Giuseppe Conte) e quello cinese, al punto tale che l’Italia è stato il primo paese al mondo a bloccare i voli per e dalla Cina, quando ancora il virus sembrava contenuto all’interno dei suoi confini nazionali. Il blocco ha rappresentato un colpo durissimo per il progetto politico di Xi Jinping, visto che l’apertura dell’Italia alla alla B&R (primo paese del G7 a riconoscere tale progetto) era stata fondamentale per dare credibilità internazionale alla maxi-operazione economica promossa da Pechino.

“Un gesto dettato unicamente dalla solidarietà e portato avanti dalla Croce Rossa Internazionale che Pechino ha però voluto tramutare in una potente arma di propaganda.” Nel momento in cui la situazione interna ai due paesi si è totalmente ribaltata, con l’Italia a rischio di default sanitario e la Cina che iniziava a intravedere la possibilità di ripartire per il calo del numero dei contagiati, il governo cinese non ha perso neanche un secondo per cercare di rinsaldare i rapporti con l’Italia, sfruttando la cocente delusione delle nostre istituzioni per l’iniziale immobilismo da parte dell’Unione Europea.

Xi Jinping ha intravisto quindi due grandi possibilità: mantenere saldi i rapporti con uno dei paesi di arrivo della Nuova Via della Seta e, contemporaneamente, cercare di portare avanti l’opera di isolamento dell’Italia dalle istituzioni europee, in maniera tale da potersi imporre sul nostro paese in sede diplomatica, sfruttando la sua totale supremazia economica. Quest’opera di riavvicinamento è stata condotta in primis dal governo cinese, ma è stato decisivo l’ottimo rapporto fra Croce Rossa italiana e cinese per portare ad una nuova partnership fra i due paesi, realizzatasi nell’invio dalla Cina di una equipe medica esperta di COVID-19 e di 31 tonnellate di materiale sanitario. Un gesto dettato unicamente dalla solidarietà, che Pechino ha però voluto tramutare in una potente arma di propaganda, grazie al sostegno inconsapevole del Ministro degli Esteri italiano Luigi di Maio, che ha presentato l’invio di questi materiali come una donazione del Governo Cinese e non, come in realtà, di un’opera di solidarietà portata avanti dalla Croce Rossa Internazionale. Di Maio e di conseguenza tutta la stampa italiana, che da giorni parla degli aiuti cinesi, stanno facendo involontariamente il gioco di Pechino, che sta sfruttando questa nuova popolarità all’interno del nostro paese per cercare di ottenere dei forti vantaggi a livello economico, specialmente nel settore tecnologico. Con questo, ci si vuole riferire principalmente ai casi di Huawei e ZTE, le cui donazioni in ambito sanitario nascondono la volontà delle due aziende di aumentare ancor di più la propria presenza nel nos25


tro paese per cercare di sviluppare la rete 5G, possibilità che, in buona parte del mondo occidentale, è bloccata dai pessimi rapporti fra le compagnie tecnologiche cinesi e il governo degli Stati Uniti. L’espandersi della pandemia rappresenta l’occasione perfetta, per Huawei, di by-passare il ban imposto dalle autorità americane e cercare di imporsi, anche all’esterno dei confini nazionali cinesi, come l’azienda di punta per lo sviluppo della rete 5G, la “next big thing” a livello tecnologico per il mondo intero. Nel caso in cui questo esperimento di “geopolitica solidale” dovesse funzionare in Italia, nulla ci vieta di pensare che questo modello possa essere riproposto, specialmente nei paesi che già orbitano all’interno della sfera d’influenza geopolitica di Pechino. L’esempio più importante è certamente il continente africano, al centro delle attenzioni politiche cinesi da molto tempo, che, a causa del possibile disastro umanitario che rischia di scatenarsi per le pessime condizioni igienico-sanitarie presenti all’interno di ogni singolo paese, fa affidamento sugli aiuti medici cinesi per riuscire a superare questa pandemia con il minor numero di morti possibili. Sarebbe quindi lo scenario perfetto per Pechino per poter consolidare la propria posizione all’interno del continente, tenendo a debita distanza gli Stati Uniti, al momento il paese che rischia di subire il maggior numero di danni a livello geopolitico, a causa della pessima gestione, nella prima fase di contagio interno del COVID-19, e per i dubbi sulla capacità di risposta del suo sistema sanitario.

Nel caso in cui la Cina riuscisse a rinsaldare definitivamente la propria posizione in Italia ed in Africa, lancerebbe un messaggio durissimo ai propri competitor geopolitici: neanche uno dei più gravi disastri sanitari della storia recente del globo è capace di fermare l’avanzata inesorabile della Repubblica Popolare Cinese.

Errore di valutazione: il caso americano Weijia Jiang è la corrispondente della CBS a Washington. È nata a Xiamen, nella regione cinese del Fujian, ma si è trasferita in West Virginia insieme alla sua famiglia quando aveva due anni. Il 17 marzo, mentre anche negli USA scoppiava l’emergenza coronavirus, Jiang denunciava un episodio quanto meno sgradevole: “questa mattina un funzionario della Casa Bianca ha chiamato il coronavirus ‘kung-flu’ proprio davanti a me. Chissà come lo definiscono alle mie spalle”. Ma l’idea che la diffusione del coronavirus abbia a che fare con una serie di errori altrui, e che gli Stati Uniti ne sarebbero usciti da vittime neanche troppo colpite dagli effetti, era una concezione diffusa ben oltre qualche funzionario particolarmente volgare. Una visione che ha portato a colpevoli ritardi nel prendere provvedimenti di contenimento: costruendo esattamente quella responsabilità che gli USA respingevano con forza. Oltre a Trump che continua a definirlo “virus cinese”, persino durante il dibattito democratico tra Sanders e Biden del 15 marzo l’aspetto che veniva messo più in evidenza era l’incapacità dell’Italia di gestire la situazione sanitaria. Colpa di altri, insomma. Questo atteggiamento, però, ha portato non poche conseguenze anche dal punto di vista dei rapporti diplomatici. Ad inizio marzo gli Stati Uniti avevano ridotto da 160 a 100 il numero di giornalisti di cinque testate cinesi ai quali era consentito lavorare negli USA.

“L’espandersi della pandemia rappresenta l’occasione perfetta, per Huawei, di by-passare il ban imposto dalle autorità americane e di imporsi come l’azienda di punta per lo sviluppo della rete 5G, la “next big thing” a livello tecnologico.”

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Una situazione che desta molta preoccupazione nel nemico dichiarato della superpotenza asiatica: gli Stati Uniti d’America.

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La risposta non si è fatta attendere: il 17 marzo Pechino ha formalmente obbligato 13 giornalisti di New York Times, Washington Post e Wall Street Journal che operavano in Cina a lasciare il paese. È il più classico scontro tra propagande: ora che il virus sembra aver rallentato nel paese da cui tutto era cominciato, l’operazione di pulizia di un’immagine cinese, sporcata dalle evidenti colpe che hanno permesso la diffusione globale del virus, avrebbe rischiato di incepparsi di fronte alla macchina mediatica americana che ancora lo definiva “virus di Wuhan”. Eppure, a dispetto dello scetticismo iniziale, anche negli USA hanno presto dovuto scontrarsi con la realtà: il COVID-19 è una questione che riguarda tutti, anche gli Stati Uniti d’America. Nelle prime settimane di marzo il Presidente Donald Trump si è immerso in un valzer di menzogne e gaffe degne della sua reputazione. Le misure di sicurezza basilari, come l’esortazione al “Distanziamento sociale!” declamato in un tweet da Trump o il banale lavarsi le mani spesso, sono state diffuse in modo poco chiaro. E aggravate poi dalla disinformazione propinata da alcuni canali come Fox News, che affermava che per riconoscere un contagio sarebbe bastato trattenere il respiro dieci secondi. In questa fase iniziale la gestione dell’emergenza si è realizzata soprattutto a discrezione locale. Da parte presidenziale venivano diffusi messaggi di ottimismo basato sull’efficienza, la superiorità americana e sull’ipotesi antiscientifica che il “virus cinese”, con il caldo e gli anticorpi, sarebbe stato scon-

fitto senza clamori o che, essendo un’epidemia contenuta, sarebbe bastato cancellare tutti i voli diretti verso gli Stati Uniti.

Trump, inizialmente, decantava la preparazione USA per un contagio del genere e la situazione ottimale anche economicamente. Decidendo quindi di mantenere una linea liberista, orientata verso la conservazione economica e stanziando 700 miliardi di dollari per acquistare titoli e regolare i mercati riducendo il tasso di interesse, oppure investendo nel mondo del petrolio a discapito della acerrima avversaria che ancora arrancava un po’. Tutto è cambiato nel giro di pochi giorni. L’11 marzo la rivista scientifica Science ha pubblicato un editoriale molto duro nei confronti della condotta del Presidente, accusandolo di insultare la scienza nel tentare di impedire agli scienziati, che si occupano del Coronavirus, di diffondere informazioni, riportandole dal canto suo in modo fuorviante o errato e criticando i tagli alla ricerca dell’attuale governo a enti come il Center for Disease Control and Prevention, il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica USA. Basti pensare infatti che gli ultimi tagli alla sanità sono avvenuti a Febbraio di quest’anno. Sotto la pressione della comunità scientifica, a cui si sono aggiunte le terrificanti notizie provenienti dalla finanza statunitense, con il Dow Jones, il più noto indice azionario della borsa di Wall Street, che ha bruciato in un mese tutti i guadagni ottenuti da Trump nel corso della sua presidenza ( un calo di ben 900 punti rispetto al massimo raggiunto), hanno costretto il presidente a correggere immediatamente il tiro, smentendo il suo iniziale scetticismo sulla vicenda,

“A dispetto dello scetticismo iniziale, anche negli USA hanno presto dovuto scontrarsi con la realtà: il COVID-19 è una questione che riguarda tutti, anche gli Stati Uniti.”

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Ma persino questa misura non è stata efficace. Queste affermazioni sono crollate al suono di un pesante “No, we are not” pronunciato da Anthony Fauci, del NIAID (National Institute of Allergy and Infectious Diseases), riferito alla capacità statunitense di far fronte a questa situazione, dal momento che gli States non erano neanche provvisti di un numero sufficiente di test.

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in una conferenza stampa nella quale si è mostrato seriamente preoccupato per l’espansione della pandemia all’interno dei confini americani. Questa preoccupazione è testimoniata anche dalla scelta di comunicare tramite una vera e propria conferenza stampa tradizionale, molto inusuale per Trump che, nel corso della sua presidenza, ha scelto di tramutare il proprio account Twitter nella bacheca per le comunicazioni ufficiali della sua presidenza. Questo cambio di passo, in base alle proiezioni economiche, appare però estremamente tardivo: una situazione estremamente simile a quella che si è andata a sviluppare nell’Unione Europea. Fallimento o rinascita: che futuro per l’Unione Europea? L’espansione del COVID-19 all’interno del continente europeo, ora ufficialmente riconosciuto dall’OMS come centro mondiale della pandemia, sta mettendo in luce tutte le problematiche che accompagnano l’attuale strutturazione dell’Unione Europea, unicamente incentrata sugli aspetti economico-finanziari e quindi incapace di dare delle risposte reali a questa crisi. Gli effetti della pandemia infatti non andranno a colpire unicamente le economie dei vari paesi membri, ma rischiano seriamente di compromettere i complessi equilibri politici e sociali che si sono instaurati nell’UE fin dalla sua fondazione. Il COVID-19 rappresenta il primo vero momento di difficoltà condivisa a livello continentale, ma le decisioni prese dai singoli paesi membri e la lentezza delle istituzioni europee nell’agire rischiano di far crollare la solidarietà europea nel baratro. Solidarietà che gli stessi paesi membri hanno abbandonato, 28

visto che in una situazione simile si tende ad anteporre prima i singoli interessi nazionali piuttosto che quelli comunitari (cosa che già avviene anche durante fasi non emergenziali). Bastino come esempi le azioni di Polonia e Repubblica Ceca: la prima deciso di sequestrare 23’000 mascherine FFP2 acquistate dalla Regione Lazio, la seconda ben 680’000 mascherine e migliaia di respiratori che erano stati inviati dalla Cina al nostro paese, per ridistribuire il materiale ai propriiii sistemii sanitari. Un gesto iii gravissimo a cui le istituzioni europee sono state incapaci di rispondere, non avendo alcun tipo di prerogativa politica sov ra na zionale per poter risolvere questioni simili, e che è stato in seguito risolto dal Ministero degli Esteri italiano. Questa impossibilità di agire non ha comunque permesso all’UE di muoversi tempestivamente nell’ambito di sua maggiore pertinenza, quello economico-finanziario. La Commissione Von der Leyen si è mossa estremamente in ritardo nel cercare delle possibili soluzioni per il sostentamento economico dei singoli paesi membri durante la pandemia. Scomodo

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Il punto più basso è stato certamente la brutale dichiarazione della Presidente della BCE Christine Lagarde, definita da alcune testate giornalistiche una “gaffe” e da altre un affronto imperdonabile: «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono al tri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni». Parole che acquisiscono una gravità esemplare poiché, nel momento in cui sono state pronunciate, hanno seriamente danneggiato la borsa italiana e soprattutto i nostri titoli di Stato, con lo spread che ha raggiunto quota 262 punti (dato peggiore dal 2011). Una presa di posizione nettamente in controtendenza con il “Quantitative Eaing”, manovra simbolo della Presidenza Draghi, il quale scelse come frase rappresentativa del suo periodo alla guida della BCE l’ormai celebre “whatever it takes”. L’affermazione della Lagarde è stata talmente grave che ha costretto all’intervento il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha richiesto solidarietà e non ostacoli per l’Italia. Scomodo

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A nulla sono valse le scuse tardive della Lagarde, con conseguente promessa d’investimento di 750 miliardi di euro per l’acquisto di titoli di Stato e la tardiva decisione da parte della Commissione Europea di sospendere il vincolo delle spese in deficit al 3%: molti italiani stanno perdendo fiducia nelle istituzioni europee attuali, che hanno mostrato tutte le loro debolezze. L’Unione si trova oggi davanti ad un bivio: rimanere immobile, vedendo venir meno sempre più la fiducia della popolazione europea, oppure ripartire dalla fine del limite del 3%, per cercare di formare una vera e propria unione politico-sociale, capace di gestire simili situazioni emergenziali. La scelta della Commissione sarà decisiva per la futura sopravvivenza dell’Unione Europea, specialmente adesso che la Cina si sta affacciando con sempre maggiore prepotenza sul panorama politico europeo.

di Luca Bagnariol, Marina Roio, Simone Martuscelli e Rodolfo Cascino-Dessy 29


Scudi d'Europa

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I signori dei migranti -------------------------------------------------------------------------------------------------------Come tra Grecia e Turchia si sta consumando un disastro umanitario, le cui responsabilità ricadono su tutti i Paesi europei

Il 28 febbraio il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato l’apertura dei confini del Paese. Da quel momento, molti migranti e richiedenti asilo hanno iniziato a muoversi, in particolare verso la Grecia. La reazione di quest’ultima è stata la sospensione dell’esame delle varie domande di asilo, blindando radicalmente i suoi confini. Nel frattempo l’Unione Europea ha risposto prevalentemente con misure di contenimento che hanno acuito la tensione sia ai confini terrestri, che coincidono in gran parte con il corso del fiume Evros, sia sul fronte marittimo, in particolare l’isola di Lesbo, in cui il campo profughi di Moria versa in condizioni sanitarie indegne. Il risultato è un disastro umanitario che coinvolge migliaia di persone: nel giro di sole due settimane si sono verificati eventi impressionati come le morti di un bambino durante un tentativo di sbarco e di una bambina di sei anni arsa viva nel campo profughi di Moria.

attraversato il confine turco-greco nella speranza di poter essere accettato all’interno dei confini europei. La crisi è sfortunatamente coincisa con il periodo di apparentemente inarrestabile avanzata dei partiti populisti di destra, che proprio grazie alla propaganda sulla malagestione della “rotta balcanica” stavano avanzando nei sondaggi di ogni singolo Paese membro.

Un primo accordo tra le parti era stato già raggiunto nell’autunno del 2015, ma solo l’8 marzo del 2016 è stato ratificato in modo ufficiale fra il Consiglio Europeo e il Primo Ministro turco Davutoğlu. L’accordo prevedeva e prevede tutt’ora l’istituzione di un forte sistema di controllo al confine greco, sostenuto economicamente dalla stessa Unione Europea, con il compito di valutare le richieste d’asilo di coloro che si presentano ai confini del continente: nel caso in cui queste richieste venissero rifiutate, allora sarebbe compito della Turchia mantenere all’interno di appositi campi la totalità delle persone respinte. In cambio, la promessa di 6 miliardi di euro direttamente stanziati dall’UE (di cui per il momento sono stati erogati 3 miliardi, soprattutto dalla Germania), la rimozione dell’obbligo del visto per i cittadini turchi, non andata in porto, l’aggiornamento dell’unione doganale e l’apertura ai nuovi capitoli del processo negoziale. L’accordo venne aspramente criticato già nel 2016 principalmente per la paura da parte di una buona parte della società civile europea di affidare le vite di potenzialmente milioni di persone nelle mani di un personaggio come Erdoğan, visto da molti più come un dittatore che come un capo di Stato democraticamente eletto.

“L’accordo prevedeva l’istituzione di un forte sistema di controllo al confine greco, sostenuto economicamente dalla stessa UE, con il compito di valutare le richieste d’asilo di coloro che si presentano ai confini del continente.”

I sogni dell’Impero Ciò che sta accedendo in questo momento al confine fra Grecia e Turchia non è altro che la naturale evoluzione della profonda crisi migratoria, culminata nel 2016, che vide protagonista per eccellenza la cosiddetta “rotta balcanica”. A causa dell’inasprimento del conflitto siriano, fra l’estate del 2015 e il marzo del 2016, quasi un milione di persone (principalmente siriani) ha Scomodo

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La Commissione Europea guidata da Juncker si è dunque trovata dinanzi ad un bivio: proseguire con la politica di tolleranza nei confronti dei flussi migratori e affrontare le inevitabili conseguenze sanzionatorie alle Europee del 2019, lasciando una facile vittoria ai partiti sovranisti, oppure cercare di porre un freno alla vicenda, bloccando la rotta balcanica tramite l’aiuto del Paese maggiormente coinvolto (territorialmente e non solo), la Turchia.

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Nei campi profughi turchi sono stati ospitati 4 milioni di persone a partire da marzo 2016, e le poche testimonianze che ci sono arrivate parlano di condizioni di vita all’interno degli stessi al limite del grottesco. Questa situazione è perdurata fino al 28 febbraio 2020, quando il Presidente turco ha deciso di aprire i confini nazionali, permettendo a circa 130.000 profughi, secondo il Ministero degli interni turco (30.000 per le autorità greche), di raggiungere il confine greco, a seguito dell’uccisione da parte dell’esercito siriano (formalmente, in realtà la colpa risulterebbe essere dell’aeronautica russa) di 36 soldati turchi stanziati nei pressi della regione siriana di Idlib. Questo fatto ci dice molto sulle reali intenzioni di Erdoğan dietro a questa manovra politica: la situazione interna in Turchia per quanto concerne la gestione dei flussi migratori ha raggiunto dei costi economici oramai esorbitanti: 40 miliardi dichiarati dal governo turco. I quali, uniti alla crescente crisi economica e valutaria che vede protagonista il Paese, hanno portato ad un inasprimento esponenziale del malcontento della popolazione, culminato nelle varie sconfitte alle amministrative (fra cui spicca quella di Istanbul) del partito del Presidente, l’AKP.

A seguito del parziale fallimento dell’operazione, alla Turchia non è rimasto altro che cercare un appoggio militare ed economico per tentare di portare avanti tale progetto, e la scelta è ricaduta proprio sull’UE grazie alla presenza dell’accordo del 2016.

Tramite la riapertura dei confini, Erdoğan sta cercando di decongestionare un canale diplomatico per portare dalla sua parte l’Unione nella gestione del caos siriano, in modo tale che sia la stessa UE a spingere la Russia lontana dalla zona di Idlib.

“Erdoğan sta cercando di decongestionare un canale diplomatico per portare dalla sua parte l’Unione nella gestione del caos siriano spingendo la Russia lontana dalla zona di Idlib.”

Il rischio di una nuova ondata di profughi a causa dell’avanzata russo-siriana verso Idlib ha portato il governo turco a premere fortemente per la creazione di una zona cuscinetto fra Turchia e Siria dove poter far confluire quasi un milione di rifugiati siriani: questo l’obiettivo dell’operazione Sorgente di Pace, iniziata nell’ottobre 2019 e fortemente osteggiata dall’UE. 32

Erdoğan mira ad utilizzare i migranti come minaccia verso la Commissione guidata da Ursula von der Leyen per ottenere nuovi finanziamenti economici e soprattutto il beneplacito del Consiglio Europeo (difficilmente mirando ad un effettivo appoggio militare da parte dell’UE o della NATO, di cui la Turchia fa parte) per proseguire l’avanzata all’interno del confine siriano, per ricollocare i profughi e sconfiggere YPG e YPJ.

Nuovo ellenismo Il primo marzo del 2020, tre giorni dopo l’annuncio di Erdogan dell’apertura dei confini, il governo Greco di Mītsotakīs, il nuovo Primo Ministro eletto a luglio 2019, ha varato eccezionalmente la misura inedita che nega, a chiunque arrivi dopo la suddetta data, il diritto di asilo. La decisione greca ha destato diverse polemiche internazionali perché di fatto viola la convenzione di Ginevra, firmata nel 1951, che definisce i diritti dei rifugiati e le responsabilità delle nazioni che garantiscono l’asilo. Dopo due settimane, il 13 marzo, il governo stabilisce che ogni tipologia di colloquio o domanda sarebbe stata da quel momento interrotta per un mese a causa della diffusione iniziale del COVID-19 in Grecia, costringendo di fatto una permanenza forzata più lunga del solito all’interno dei campi d’accoglienza.

La Grecia, nel giro di 10 anni, ha subito una radicale trasformazione della propria struttura politica, economica e sociale. La figura che forse più di tutte impersonifica questo periodo è quella di Alexis Tsipras, che, per il suo impegno politico, porta sulle spalle alcune responsabilità delle scelte prese. Le misure di austerità che sono seguite all’infausto referendum del 2015, attraverso il quale nella Scomodo

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mente di Tsipras i greci si sarebbero ribellati ai piani dei tre creditori del debito greco, la Troika (che riunisce i rappresentanti di Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale), hanno creato nel tessuto sociale una profonda ferita che Dunja Mijatović, commissaria per i diritti umani del Consiglio Europeo, ha messo in luce in un’analisi di giugno 2018. In questo studio viene stimata l’entità dei sacrifici fatti dalla popolazione in questi anni. Con un tasso di suicidi aumentato del 40% dal 2010 al 2015, il servizio sanitario al collasso, numerosi nuovi casi di HIV e disturbi mentali e una disoccupazione giovanile che a settembre 2019 rimane la più alta d’Europa (33,2%), la culla della democrazia si trova a dover affrontare un secondo problema, di eguale se non maggiore entità: la crisi migratoria. Le circostanze, che ultimamente sembrano stare tornando alla gravità del 2015, hanno contribuito alla sconfitta di Alexis Tsipras nelle elezioni politiche del 7 luglio 2019, in cui il leader di SYRIZA ha perso a scapito del leader del partito di centro destra Kyriakos Mītsotakīs.

all’economia, attua una serie di privatizzazioni, anche in alcuni casi della sanità, e promette tagli alle tasse e alle spese pubbliche. Decide inoltre di reintrodurre il dicastero dell’immigrazione assegnato a Notis Mitarakis e una delle prime e più controverse proposte arriva il 31 agosto 2019, quando il Consiglio degli Affari Esteri delibera, sostenuto dal premier, una serie di misure da adottare nell’immediato.

Dopo pochi mesi viene firmata una proposta di riforma del sistema di accoglienza che prevede la chiusura degli hotspot sulle isole dell’Egeo e l’apertura di centri dedicati al rimpatrio nella Grecia Continentale. In questi centri i migranti potranno stare un massimo di 90 giorni e durante il periodo di permanenza verranno strettamente controllati dal personale del campo. Gli effetti delle nuove politiche sono molto difficili da prevedere. Se infatti da un lato è lampante la necessità di istituire luoghi consoni adibiti all’accoglienza per fermare anche la diffusione del virus COVID-19, dall’altra in diverse località in cui il governo ha previsto la creazione dei nuovi centri la popolazione ha reagito con forti proteste.

“Mītsotakīs contesta all’ex premier di aver contribuito, seguendo la politica di non azione dell’UE, all’incancrenimento del problema migratorio.”

Le carte vincenti utilizzate in campagna elettorale dal neoeletto premier sono state proposte economiche concrete ed una riforma del sistema di accoglienza. Mītsotakīs infatti contesta all’ex premier di aver contribuito, seguendo la politica di non azione dell’UE, all’incancrenimento del problema migratorio che è nuovamente esploso a causa delle politiche aggressive di Erdogan. Dall’insediamento, il nuovo governo inizia a varare politiche liberiste per dare maggiore slancio Scomodo

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Tra le altre si ricordano il trasferimento di 116 bambini in altri paesi europei per farli ricongiungere con i familiari e la contestata decisione di modificare la procedura di asilo abolendo la seconda fase dei ricorsi per velocizzare il processo di rimpatrio.

Scudi d’Europa Si stima che oltre 42.000 persone, dice l’UNCHR, si trovino bloccate tra Lesbo, Samo, Chios, Leros e Kos, di cui 20.000 nel campo di Moria a Lesbo, costruito per non accoglierne più di 2500. L’85% è composto, secondo il Guardian, da rifugiati provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq, Palestina, Somalia, Repubblica Democratica del Congo: costretti nei campi delle cinque isole a causa della politica di contenimento voluta dall’UE, fino a quando non ne saranno esaminate le richieste d’asilo - che, come abbiamo già detto, sono state ufficialmente sospese dal governo greco. Il campo di Moria a luglio scorso accoglieva 5000 profughi. Con condizioni medico-sanitarie al limite del collasso e il pericolo del COVID-19, l’UN refugee agency ha dichiarato l’evacuazione immediata delle famiglie e dei malati dal campo già a metà febbraio. 33


L’emergenza è sottoscritta a sua volta dal nuovo rapporto diffuso il 18 marzo da Oxfam e Greek Council for Refugees (GRC), che denuncia le condizioni disumane e le detenzioni indiscriminate all’interno dei campi, tracciando le coordinate della peggior catastrofe umanitaria esistente dentro i confini del Vecchio Continente. Così mentre a Lesbo l’Europa “muore” - come è stato affermato su varie testate - a Kastanies, a meno di un chilometro dal confine turco, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen annuncia che “la nostra priorità in Grecia è preservare l’ordine ai confini esterni dell’UE”. Priorità, quella di blindare i confini, che negli ultimi quattro anni ha spezzato e smascherato la coerenza e la comunione di intenti dei Paesi membri in materia di accoglienza. Nel 2015 infatti, durante il grande esodo che avrebbe portato un milione di migranti e di richiedenti asilo in Europa, la retorica dell’UE si incentrava sulla proposizione di azioni di solidarietà interna – come gli obiettivi di redistribuzione e di accoglienza e l’imperativo del salvataggio in mare – proseguendo quella linea tollerante che aveva più o meno caratterizzato l’Europa fino a quel momento. Linea che assumeva un’altra forma nella pratica, attraverso l’accordo con la Turchia e un rafforzamento dei rimpatri. ll tenore semantico che investe l’emergenza attuale è decisamente mutato.

Mercoledì 4 marzo la Commissione europea ha espresso la propria solidarietà al governo di Mītsotakīs presentando un piano d’azione che prevede, tra le altre cose, un finanziamento di 700 milioni di euro per Atene per sostenere la gestione dei suoi confini.

anno direttamente dall’agenzia. Altrettanto esemplificativo è il suo budget: sul sito ufficiale di Frontex viene dichiarata una cifra di 6 milioni di euro nel 2005, quando è stata fondata, per arrivare a 320 milioni nel 2018. In 13 anni la somma è aumentata di 53 volte. Mentre nel rapporto del 2018 della Commissione europea A strengthened and fully equipped European Border and Coast Guard, si annuncia un incremento del budget fino a 11.3 miliardi di euro previsti per il periodo 2021-2027.

“L’UN refugee agency ha dichiarato l’evacuazione immediata delle famiglie e dei malati dal campo già a metà febbraio.”

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Una strategia che si consuma nel breve termine, che ha per imperativo il contenimento, e che investe la Grecia come “aspida”, scudo d’Europa, per usare il grecismo della Presidente von der Leyen; così come l’offerta dell’UE di 2000 euro, valida per un mese, per chi decide di abbandonare il campo profughi di Moria e l’appoggio all’operazione Frontex che, secondo la denuncia di diversi esperti di giurisprudenza comunitaria potrebbe svolgersi in violazione del diritto internazionale e dello statuto stesso dell'Agenzia europea.

“Gli interventi finanziati dall’EUTF possono alimentare ulteriori abusi e migrazioni” È indicativo come Frontex, agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, sia arrivata con l'ultima, decisiva riforma, a disporre ora di uno standing corps, un corpo di frontiera permanente che verrà ampliato fino a 10mila unità; delle quali 3mila dipender-

Al di là L’accordo tra l’Europa e la Turchia, che nella complessa burocrazia dell'Unione Europea si trasforma in un meccanismo di gestione dei fondi dal nome Facility for Refugees in Turkey, si inserisce all’interno di una politica migratoria che l’Unione Europea sta portando avanti da diversi anni e che consiste nell’affidare a Paesi extra-europei il compito di limitare le partenze verso l’Europa, fornendogli in cambio grosse somme di denaro per sostenere le spese. Oltre a questo, esistono anche una serie di accordi e rapporti che i singoli Stati europei intrattengono con i singoli Stati al di là del confine, in particolare tra Italia e Libia (vedi Scomodo n. 28) e Spagna e Marocco, che hanno pure effetti decisivi nella limitazione delle partenze. In una ricerca pubblicata nel novembre del 2016 dall’osservatorio CEPS di Bruxelles, intitolata Money Talks, si identificano dodici differenti fondi dell’Unione Europea relativi alla politica migratoria. Due in particolare sono degni di nota ed esemplificativi. Uno è il Facility for Refugees in Turkey, le cui controindicazioni si stanno rendendo evidenti in questi giorni. Scomodo

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L’altro è l’EU Emergency Trust Fund for Africa (EUTF), fondato nel 2015 e il cui obiettivo è dare “una risposta integrata e coordinata alle diverse cause di instabilità, migrazione irregolare e trasferimenti forzati”, come viene riportato sul sito ufficiale dell’Unione Europea. Dallo stesso sito è consultabile il report annuale del 2018 (il più recente disponibile online) riguardante il fondo, in cui si legge che questo raggiunge un valore di circa 4,2 miliardi di euro. L’Italia con 112 milioni di euro risulta il secondo Paese contributore dopo la Germania. Seppur in maniera meno intensa e manifesta rispetto all’accordo tra Europa e Turchia, il caso dell’EUTF esemplifica i difetti e i rischi di una politica securitaria sempre più imponente. Secondo un report condotto da David Keen e Ruben Andersson, professori universitari rispettivamente della London School of Economics e di Oxford, gli obiettivi e le modalità di utilizzo dell’EUTF ignorano “il ruolo che le forze di sicurezza e i governi dei Paesi possono avere all’interno di conflitti e repressioni, provocando spostamenti di persone. Gli interventi finanziati dall’EUTF possono quindi alimentare ulteriori abusi e migrazioni”. Ciò appare ancora più probabile se si osservano i ventisei Paesi possibili destinatari dei finanziamenti: comparandoli con i dati annuali stilati dall’Economist Intelligence Unit sul grado di democraticità dei vari Paesi del mondo, si nota che undici Paesi sono categorizzati come “regimi autoritari”, undici come “regimi ibridi” e soltanto due come “democrazie imperfette” (categoria di cui fa parte anche l’Italia). Due Paesi, il Sudan del Sud e la Somalia, rimangono fuori dalla lista in quanto non esistono dati sulla democraticità dei loro governi. Scomodo

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A conclusioni simili giunge uno studio condotto dal Transnational Institute in collaborazione con l’organizzazione indipendente Stop Wapenhandel e intitolato Expanding the Fortress. In questo documento si sottolinea come – attraverso una serie di indici e dati - metà delle nazioni potenzialmente finanziabili dall’EUTF sono considerate “non libere”, in dodici nazioni i cittadini affrontano “rischi estremi” per i loro diritti umani, in sette nazioni vige un embargo sulla vendita di armi da parte dell’ONU o dell’UE.

Utilizzando gli stessi indici per la Turchia, risulta che questa è un “regime ibrido”, “non libera” e i cittadini affrontano “alti rischi” per i loro diritti umani. Un’inchiesta dell’Associated Press, pubblicata il 31 dicembre del 2019, ha illustrato come parte dei fondi dell’EUTF destinati alla Libia finisca nelle mani di trafficanti e uomini delle milizie che sfruttano i migranti, dopo essere riciclata in Tunisia. Ulteriori critiche arrivano anche dagli organi interni dell’Unione, seppur ovviamente con toni molto meno accesi.

La Corte dei Conti europea ha pubblicato a dicembre del 2018 un report sull’andamento dell’EUTF, giudicandolo uno strumento utile per fronteggiare le emergenze ma privo di un obiettivo preciso e di strumenti per misurare l’efficacia degli investimenti. L’EUTF, il Facility for Refugees in Turkey e il resto delle operazioni securitarie dell’Unione Europea sono tutti elementi che rappresentano appieno l’intero comparto di luci e ombre in cui consiste la politica migratoria europea. Politica in cui l’interesse primario di acquietare l’opinione pubblica interna sovrasta e rende impossibile il perseguimento di ulteriori obiettivi a lungo termine. Al di là delle ovvie e pressanti preoccupazioni umanitarie, gli eventi al confine tra Turchia e Grecia dovrebbero quindi fornire uno spunto alle autorità europee per ripensare la propria politica migratoria – ammetterne il fallimento (o l’ipocrisia, a seconda delle interpretazioni).

di Luca Bagnariol, Luca Pagani, Marina Roio, Susanna Rugghia, e Francesco Paolo Savatteri 35


Niente di nuovo sul fronte orientale

-------------------------------------------------------------------------------------------------------Il fragile equilibrio dei paesi di Visegrad, tra democrazia e “democratura” Lo sgambetto all’immigrazione Dal 2023, chiunque vorrà viaggiare da Belgrado a Budapest – e quindi, formalmente, entrare nell’area UE – avrà a disposizione una linea ad Alta Velocità nuova di zecca, finanziata per la gran parte da due aziende cinesi che puntano a trovare così uno sbocco commerciale in Europa. Appare curioso quindi, se non apertamente dissonante, che le centinaia di migliaia di migranti che dal 2015 provano a percorrere lo stesso tragitto trovino, invece, la strada sbarrata. Con la riapertura dell’ormai famigerata rotta balcanica, conseguente alla crisi tra Turchia e Grecia, i confini ungheresi rischiano di diventare uno strettissimo imbuto che potrebbe portare ad una catastrofe umanitaria. Merito – colpa, anzi – del muro fatto costruire dal premier ungherese Viktor Orban ai confini meridionali del paese. In realtà, i muri sono due: quello più celebre è quello al confine serbo, fatto costruire nel 2015 all’epoca in cui le migrazioni di massa erano più intense. Quell’anno furono 177mila i migranti che fecero richiesta d’asilo in Ungheria, e l’episodio della giornalista che sgambettò un padre in fuga con suo figlio in braccio è rimasto tristemente impresso nella memoria pubblica come episodio correlato a quella stagione. Il muro ha contribuito a ridurre gli arrivi nel paese, calati drasticamente fino ai soli 670 richiedenti asilo del 2018. Ma nello stesso tempo la stessa soluzione è stata replicata lungo il confine tra Ungheria e Croazia, con la costruzione di una barriera lunga il doppio rispetto a quella sul confine serbo (348 chilometri contro 175). 36

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Ora che la questione immigrazione rischia di tornare d’attualità nell’est Europa, la reazione del governo ungherese non si è fatta attendere: all’inizio di gennaio il governo di Budapest ha deciso per un cospicuo rafforzamento del contingente sul confine serbo, a Roszke – impegno quasi raddoppiato, con l'aggiunta di 500 nuove unità. Decisione motivata da un netto incremento nei tentativi di attraversamento del confine: 13mila solo nelle prime settimane di dicembre 2019 contro i circa 6mila di tutto dicembre 2018. I controlli alla frontiera sono stati poi ulteriormente rafforzati ad inizio marzo per contenere il contagio da coronavirus, adducendo un mai provato collegamento tra il virus e l’immigrazione illegale. E proprio l’emergenza sanitaria da COVID-19 potrebbe essere il pretesto attraverso il quale Viktor Orban può tentare il rovesciamento dell’ordine democratico in Ungheria. Il premier magiaro ha presentato un disegno di legge di stampo a dir poco dispotico: potere per il primo ministro di emanare decreti che modifichino le leggi ordinarie, possibilità di “sospendere il Parlamento” sanzioni contro “chi diffonde fake news”, ovvero possibilità di imbavagliare la stampa. Tutto ciò a tempo indeterminato, e non per soli 90 giorni come chiedevano le opposizioni. Nel momento in cui scriviamo, la proposta, che aveva incontrato anche il parere negativo del Consiglio d’Europa, è stata bocciata in Parlamento: avrebbe avuto bisogno dei 4/5 del Parlamento per essere approvata. Ma la maggioranza richiesta per le letture successive è dei 2/3, una soglia che Orban già possiede all’Assemblea Nazionale ungherese.

Ed è quindi altamente probabil e che il provvedimento sia stato approvato. Del resto, bastano due estratti da alcune dichiarazioni pubbliche per riassumere l’idea dello Stato e il pensiero politico del premier ungherese. La prima la pronunciò nel febbraio 2018, durante un comizio, e affronta il tema del multiculturalismo: “Dobbiamo affermare che non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza: non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri. Non lo vogliamo. Non lo vogliamo affatto. Non vogliamo essere un paese dove ci sia diversità”.

Un approccio condiviso da molti paesi dell’area dell’est Europa: la Polonia governata dal PiS di Kaczynski e la Repubblica Ceca del “Trump di Praga” Andrej Babis da tempo si oppongono al meccanismo di ricollocazione dei migranti in UE, e in questo senso contribuiscono a far saltare qualsiasi progetto di riforma del trattato di Dublino. Sono, questi, insieme alla Slovacchia, i paesi del cosiddetto “gruppo di Visegrad”. Libertà imbavagliate La deriva autoritaria intrapresa dai paesi dell’Europa Orientale è stata messa in atto attraverso una serie di leggi e misure via via più pesanti per quanto riguarda le libertà dei cittadini e la tutela dello Stato di diritto. Ingredienti chiave di questa involuzione sono una forte retorica nazionalista e identitaria, un’avversione piuttosto evidente all’UE e una smania di controllo da parte dell’esecutivo su ogni campo della vita pubblica. I nemici di queste democrazie illiberali sono diversi, ma tutti facilmente annientabili: la stampa, gli immigrati, la comunità LGBT, la magistratura, il famigerato Soros nel caso dell’Ungheria. In parole povere, chiunque la pensi diversamente, o porti avanti valori di stampo democratico, è descritto come una presunta minaccia per lo Stato e le sue tradizioni, nella narrazione portata avanti dai partiti al potere, il PiS in Polonia e Fidesz in Ungheria. La retorica e l’ideologia di questi partiti non sono poi così diverse da quelle di molti altri sovranisti in giro per il mondo. Ciò che cambia è il terreno su cui poggiano, decisamente più fragile.

“Dobbiamo affermare che non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza: non vogliamo che il nostro colore, l e nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri.”

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La seconda invece è più recente – luglio 2019 – e riguarda il rapporto Stato-cittadino e lo stato di diritto: “Il regime illiberale, in Ungheria, è compiuto. Il nostro obiettivo, nei prossimi 15 anni, è lottare contro il liberalismo nel resto d’Europa (…) Il rapporto fra individuo e comunità nazionale è stato ridefinito in Ungheria, la nazione sovrana è più importante della libertà individuale”.

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Se infatti nel resto d’Europa la tradizione democratica e liberale è ormai ben consolidata, paesi come la Polonia e l’Ungheria, che si sono da poco lasciati alle spalle l’esperienza sovietica, sono un terreno più fertile per messaggi di un certo tipo. Dietro ad ogni restrizione delle libertà dei cittadini, c’è dunque una rivendicazione dei valori tradizionali cristiani del paese, in particolare in Polonia, nazione molto legata alla Chiesa cattolica. È qui che è stato messo in atto uno dei provvedimenti più eclatanti nel processo di indebolimento delle strutture liberal-democratiche, la riforma della giustizia, frutto di numerose critiche da parte dell’UE. Tale riforma – detta ‘’legge-bavaglio’’ –, che dopo essere stata approvata da Camera e Senato necessita solo dell’assenso del presidente della repubblica Duda, prevede una serie di restrizioni del campo d’azione del sistema giudiziario, che di fatto lo ridurrebbero a una posizione di subalternità nei confronti dell’esecutivo. Ai magistrati sarebbe tolto il diritto di parola in ambito politico, impedendogli di esprimere opinioni circa l’operato del governo, rischiando sanzioni fino al licenziamento. Inoltre, verrebbe abbassata l’età pensionabile dei magistrati, per favorire l’allontanamento di figure più anziane e legate al passato sovietico. La riforma ha subito innumerevoli critiche: l’11 gennaio migliaia di magistrati, sia polacchi sia provenienti da altri paesi europei, si sono riuniti a Varsavia per manifestare il loro dissenso, mentre l’UE ammoniva la Polonia, facendo appello all’artico38

lo 7 del trattato europeo, che prevede una sanzione per gli stati membri che non rispettano lo Stato di diritto, tra i valori fondanti dell’Unione.

Processo analogo si sta verificando nell’Ungheria di Orbán, dove è stata avviata una aggressiva propaganda finanziata con denaro pubblico e messa in atto attraverso ogni mezzo d’informazione e cultura, i quali vengono dunque privati della loro libertà e indipendenza. I media non possono diffondere notizie che non siano state approvate dall’agenzia di stampa governativa; e al capo di testate giornalistiche, emittenti televisive e radiofoniche vengono posti oligarchi vicini a Fidesz, mentre i media di opposizione sono costretti a chiudere i battenti. Come nel caso dello storico quotidiano Magyar Nemzet, che ha cessato di esistere nel 2018. Anche il teatro è da anni nel mirino di Orbán, e lo scorso dicembre la situazione è peggiorata ulteriormente con l’approvazione di una legge che permette al governo di scegliere i direttori di tutti i teatri.

Inoltre, a febbraio 2019 è stata approvata una legge che vieta l’adozione di libri di testo non approvati dal Governo e impone il controllo di un comitato sull’attività di ricerca dell’illustre Accademia delle Scienze. Il processo di trasformazione della società che i sovranisti dell’Est Europa stanno realizzando mira a rendere il popolo uniforme dal punto di vista culturale, in nome della patria, della religione cristiana e della famiglia. Queste istituzioni, più che dalla comunità LGBTQ e dall’arrivo di rifugiati, sentono la minaccia di un’emigrazione massiccia verso paesi dell’Europa Occidentale e un calo delle nascite senza precedenti, che i leader sperano di contrastare attraverso le loro politiche identitarie. Arcobaleno? No grazie Da una recente indagine statistica della FRA (European Fundamental Rights Agency - Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali) risulta che nei paesi dell’Europa dell’est e in quelli baltici sia in costante aumento il numero non solamente delle aggressioni e degli episodi di discriminazione sessuale, ma anche della percentuale di individui, per lo più uomini, che si identificano in quanto omofobi. Ne emerge così che l’uomo medio dell’est Europa ha paura di un omosessuale, o meglio, del concetto stesso di omosessualità. In particolar modo che senta la sua ferrea virilità attaccata principalmente dai ragazzi e dagli anziani gay, i quali secondo questo rapporto costituiscono la maggioranza delle vittime delle aggressioni fisiche. Scomodo

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Ma gli orrori dell’omofobia nei paesi dell’est Europa, già così meritevoli di una ferma condanna, non si fermano qui. Sarebbe assurdo pensare che in Polonia molte amministrazioni hanno firmato un manifesto in cui sostengono di essere completamente liberi da omosessuali sia nella amministrazione che nel territorio comunale. Ma per assurdo, di nuovo, è esattamente così. Infatti ormai quasi 100 governi locali si sono impegnati ad ignorare qualsiasi atto considerabile omofobo, in quanto si dichiarano liberi “dall’ideologia LGBT*”, come la chiama il leader del partito di estrema destra PiS J. Kaczynski, e non riconoscendo quindi le aggressioni fisiche e verbali di stampo omofobo come reato. All’ingresso del territorio comunale questi comuni esibiscono, vicino al cartello con il nome del comune, un logo con una croce nera sopra la bandiera LGBT*, per indicare la loro appartenenza alla “gayfree zone”. Una carta tematica redatta dagli attivisti gay polacchi rivela che la superficie di questi territori avrebbe superato l’intera superficie nazionale ungherese. È chiaro che ormai la situazione in Polonia stia degenerando: “A Lublino padre Miroslaw durante la messa mostra ai fedeli immagini oscene e altamente esplicite che non hanno nulla a che fare con la comunità LGBT*. I sacerdoti sostengono che gli omosessuali vogliano sessualizzare i bambini, per poi sottrarli alla famiglia e abusarne” riporta il Gazeta Wyborcza, il più grande giornale del paese. Questa ed altre campagne anti-lgbt che accomunano omosessualità e pedofilia sono state denunciate dalle organizzazioni Scomodo

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e dagli attivisti per i diritti gay e dall’Unione Europea, in quanto aperta violazione delle leggi sulla tolleranza riguardo l’orientamento sessuale. Ma il tribunale polacco ha respinto la causa sostenendo che fosse “informativa, educativa e utile socialmente” avendo contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla pedofilia e a combatterla, e nonostante le leggi polacche contro l’odio riguardino anche l’orientamento sessuale, il giudice Adam Macinski ha decretato che “La campagna è un’espressione della libertà di parola garantita costituzionalmente per l’imputato”. L'ascesa dell’omofobia al potere è dovuta alla crescente popolarità del partito Legge e Diritto, che controllando più di 80 governi locali sta diffondendo il suo modello di omofobia amministrativa, modello fortemente boicottato dalla maggioranza degli altri paesi europei.

Lo testimonia la scissione del patto di gemellanza tra la piccola cittadina francese di Saint-Jean-deBraye e la città polacca Tuchow, che recentemente si è dichiarata parte della “LGBT*-free zone”.

Il pensiero potrebbe correre subito ad un paragone con la Russia, e in particolare alle repressioni della comunità LGBT in Cecenia. Ma il modello comune di Stato illiberale e repressivo verso le minoranze nasconde anche profonde divisioni geopolitiche tra gli attori in campo. Un piede in due staffe Martin Jirušek, professore associato nella Facoltà di Studi Sociali della Masaryk University (Repubblica Ceca), ha definito il progetto russo del gasdotto North Stream II (NS II) una “cartina di tornasole” utile a mostrare come la cornice cooperativa dei paesi del blocco Visegrad (V4) non sia altro che una foglia di fico utile a coprire le “incolmabili differenze” tra loro. Se infatti i 4 paesi (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) condividono un passato a più riprese comune – da ultimo il contemporaneo accesso all’Unione Europea nel grande allargamento ad Est del 2004 – al loro presente sembrerebbe invece potersi diagnosticare una certa forma di schizofrenia, particolarmente nella politica estera in campo energetico. Partiamo da alcuni fatti: in una lettera del 2016 indirizzata alla Commissione Europea, tutti e 4 i cugini est-europei si mostravano d’accordo nel dire che il progetto NS II – gasdotto in maggioranza di proprietà del colosso statale russo Gazprom – da affiancarsi al già presente impianto che assicura un approvvigionamento di gas dalla Russia alla Germania passando per il Mar Baltico, avrebbe avuto delle “conseguenze geopolitiche potenzialmente destabilizzanti”. 39


Se si analizzano però i comportamenti dei singoli paesi del V4, si nota come il basso profilo tenuto a riguardo da parte della Repubblica Ceca sia motivato dalla consapevolezza di essere nel pieno della tratta dove transita il North Stream I (e dove transiterebbe quindi il NS II), e che quindi anche solo le tariffe da pagarsi per il passaggio del gasdotto le frutterebbero un ritorno economico. Lo stesso varrebbe per la Slovacchia: l’attitudine ostile delle autorità nei confronti del progetto di approvvigionamento energetico sembra sparire quando diviene chiaro che nel futuro prossimo maggiori spostamenti di gas sarebbero potuti giungere da Ovest (e.g. dagli USA), e che avrebbe quindi mantenuto una posizione di snodo fondamentale nel ridirigere flussi di gas dalla Repubblica Ceca all’Austria, con relativo ritorno economico. La Polonia invece rimane decisa oppositrice dei disegni russi di espansione energetica: anche in questo caso però bisogna considerare come Varsavia rimarrà comunque snodo significativo per la ri-direzione del gas destinato all’Ucraina (a cui Gazprom pare meno interessata), e che quindi l’eventuale costruzione del NS II le arrecherebbe ben poco danno. L’Ungheria è la vera mina vagante. Nonostante i ripetuti apprezzamenti da parte del presidente Orban per regimi illiberali tra cui la stessa Russia, prospettive di un maggior affidamento a riserve di gas della Romania la allontanerebbero dall’orbita del Cremlino. Recenti annunci di Gazprom riguardo alla costruzione di un nuovo gasdotto collegato anche al paese dei magiari la porterebbero invece in direzione opposta. 40

Comunque, difficilmente allineata con l’apparente linea atlantista del blocco di Visegrad. Non sono però solo tematiche di approvvigionamento energetico a destare ambiguità negli atteggiamenti dei paesi del V4. Un argomento squisitamente geopolitico come quello del conflitto tra Russia e Ucraina ha portato il Cremlino a trovare alleati inaspettati in Repubblica Ceca e Slovacchia, sempre più integrate nel mercato unico europeo – quest’ultima pienamente inserita nel settore manifatturiero europeo, con il record mondiale di 198 auto prodotte per mille abitanti.

“I Paesi del corpo Visegrad condividono una certa forma di schizofrenia, particolarmente nella politica estera in campo energetico.” In Slovacchia, già dai tempi della premiership di Robert Fico vi era aperta opposizione al possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO. Nella nazione sorella, è dalla salita al potere di Milos Zeman che Mosca incassa con piacere dichiarazioni ceche sull’insensatezza delle sanzioni economiche UE nei suoi confronti e su come l’Ucraina starebbe facendo assai meno della Russia per implementare gli accordi di Minsk. Il fil rouge che sembrerebbe accomunare i paesi dell’Est Europa si ritrova quindi in una certa dicotomia tra – da una parte – dichiarazioni

di appartenenza al blocco UE (lo stesso V4 nasceva nel ’91 con aspirazioni mitteleuropee) e chiaro profitto tratto dalla stessa (i 4 paesi sono tutti beneficiari netti in termini di rapporto tra trasferimenti netti annui da o verso il bilancio netto UE, con valori dagli 1 agli 8.6 miliardi di euro), e dall’altra “flirt” più o meno palesi con Mosca. Polonia e Ungheria nello specifico sono finite sotto la lente dell’UE nell’accezione di “asse illiberale euroscettico”, fino al punto di prospettare una riforma nel prossimo Quadro di Finanziamento Pluriennale che vedrebbe la concessione di una parte delle risorse europee vincolata al rispetto delle regole UE – con riferimenti neanche troppo velati alle già citate procedure di infrazione aperte ai danni delle due. Davanti al blocco Visegrad in aperto conflitto con la proposta, avanzata da Macron, della creazione di un’Europa a più velocità, il leit motiv del film sembrerebbe consistere in un rinnovato cameratismo da parte almeno della metà del V4, sempre più affiliati da argomenti (come redistribuzione dei migranti, politiche in materia ambientale e antinquinamento) che li vedono in aperta opposizione all’Unione Europea. Mosca, dietro l’angolo, attende.

di Luis Lombardozzi, Simone Martuscelli, Bianca Pinto e Luigi Simonelli Scomodo

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Castelli di noia Storie di 5 creativi che si incontrano su Skype

*Oofh*, sbuffi e baffi tutto il giorno, sbadiglaivo e non capivo, cosa accadesse dentro il foglio, e senza farlo apposta iniziavo a costruire fantasmagorici castelli e la noia si stracciava in coriandoli, e brandelli.

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Ingredienti di riciclo dalle storie precedenti 1 cetriolo 1 gatto dalmata 1 sciarpa 1 pappagallo dallo stomaco sensibile 1 calzino 1 moka 1 palloncino Alla vista del cetriolo (1) il gatto dalmata (2) appeso alla sciarpa (3) , terrorizzato fa cascare l'ortaggio nel grande becco del pappagallo (4) che trovandolo molto indigesto defeca sul bucato pulito, precisamente in un calzino (5) che appesantito dalle feci casca sul pusante (6) che aziona il fornello sul quale è posizionata la moka (7) , il caffè è pronto, e il potente soffio spiffera dentro al palloncino (8) adagiato sul becco della moka, che per la troppa pressione scoppia e invade la stanza di noia (9) .

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Parallasse

-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo La sera del 7 marzo, quando la diffusione del Covid-19 appariva già capillare sul territorio e da settimane l’Italia affrontava incerta la situazione con manovre insufficienti, la bozza del decreto, che rivelava l’intenzione di trasformare la Lombardia e alcune province del nord in “zona rossa”, viene fatta trapelare dai palazzi del Governo e diviene in breve tempo di dominio pubblico. L’impatto della fuga di notizie, incomplete e ancora non ufficiali, sui cittadini impreparati ha generato un caotico flusso di partenze dalla Lombardia verso il Sud Italia, vanificando lo scopo ultimo del provvedimento e attirando critiche ed espressioni diffuse di malumori da parte dei governatori delle regioni interessate dal blocco. Il clima di incertezza generatosi ha reso necessaria una conferenza stampa straordinaria nella notte tra il 7 e l’8 marzo, durante la quale il premier Giuseppe Conte ha rivolto accuse di irresponsabilità a chi aveva diffuso la bozza e ai giornali che l’avevano fatta circolare, mettendo in pericolo la sicurezza dei cittadini, e ha posto la propria firma al documento definitivo, confermando l’ufficialità del decreto. Quest’ultimo prevedeva l’istituzione di un’area a contenimento rafforzato in Lombardia e quattordici province, non più undici come indicato nella bozza, di altre quattro regioni del Nord Italia; norme stringenti e senza precedenti che sono entrate in vigore a partire dalla mattina del 8 marzo. Ma come è possibile che un documento segreto fosse in breve tempo facilmente consultabile online? Scomodo

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Come spiegato dallo stesso premier nel corso della conferenza stampa, il decreto, proposto dal Ministro della Salute, prima dell’approvazione ufficiale era stato inviato in via istituzionale soltanto ai ministri competenti e ai presidenti delle regioni, il che ha fatto inizialmente sottintendere che la fuga di informazioni potesse essere partita proprio da lì. Ad alimentare i sospetti vi è stata la pubblicazione di un articolo alle 1:28 sul sito della CNN, per prima finita sul banco degli imputati, che riportava la notizia dichiarando di averla ricevuta dall’ufficio della regione Lombardia; l’articolo è stato successivamente modificato, specificando come la notizia fosse loro giunta “anche” da lì. Il presidente della regione Attilio Fontana, che ha smentito immediatamente le dichiarazioni, affermando che la Regione Lombardia aveva appreso del decreto dai quotidiani online soltanto la sera stessa, ha chiesto una rettifica da parte del quotidiano. A scagionarlo, dopo il processo sul web delle prime ore, è giunta una lettera di Jonathan Hawkins, vicepresidente della comunicazione CNN International, che spiegava come il giornale avesse verificato che la notizia stesse già circolando sui maggiori quotidiani italiani prima di riportarla, e che si era rivolto alla Regione Lombardia e altri contatti, non definiti, solo per chiedere conferma della veridicità della bozza. Effettivamente il contenuto del documento provvisorio era comparso per la prima volta online alle 18:30 sul sito dell’agenzia di stampa Reuters con la firma di Giulia Segreti e Gavin Jones, localizzati a Roma, che hanno scritto di aver visionato la prima stesura del decreto, senza però menzionare alcuna fonte.

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

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All’articolo seguirono le prime pubblicazioni da parte dei quotidiani italiani, primi fra tutti i due capisaldi dell’informazione nazionale, Il Corriere della Sera alle 20:16, con la firma di Fiorenza Sarzarini, inviata di punta ed esperta di questioni legate alla sicurezza, e La Repubblica alle 20:35. Solo verso le 21 però i social hanno registrato un’impennata di post sull’argomento e le ricerche italiane su Google hanno iniziato a indirizzarsi quasi nella loro totalità al “coronavirus” e la “Lombardia”. Da lì in poi la notizia è rimbalzata ovunque senza alcuno scrupolo, dai quotidiani minori, tra i primi il Giornale di Brescia alle 21:03, Open alle 21:10 e poco dopo il Messaggero, alle agenzie di stampa, ai quotidiani internazionali, tra cui il New York Times che riportò Reuters come fonte. Dopo l’assoluzione di Fontana, le accuse si sono spostate su Rocco Casalino e il suo ufficio di comunicazione. Nonostante la bozza è stata inviata a partire dalle 18, orario indicato anche dal titolo del pdf che era riportato dalle principali testate (“bozza DPCM 7 marzo con revisioni ore 18”), nemmeno un’ora dopo questa circolava già su alcune chat di WhatsApp e vari altri social network. La comunicazione di un decreto di tale importanza è però centralizzata e affidata a specifici responsabili proprio per evitare disastri di tale portata, e il dubbio che lo scambio di informazioni con la stampa fosse avvenuto direttamente da Palazzo Chigi è stato rafforzato dal fatto che per ore non arrivò nessuna smentita da parte del governo. Sempre la CNN, nel primo articolo pubblicato sulla vicenda, faceva inoltre riferimento ad un “close adviser” di uno dei ministri, che avrebbe fornito alcune delle informazioni riportate. 46

Fatto sta che Conte, per assenza o presenza di prove non è dato saperlo, dal lunedì successivo alla vicenda, seppur in maniera informale, ha iniziato, come riportato dalla Stampa, ad ampliare le deleghe della seconda portavoce, Maria Chiara Ricciuti, nella gestione della comunicazione sul coronavirus. Che egli abbia quindi volutamente lasciato ricadere i sospetti sui presidenti delle regioni, sapendo che la fuga di notizie avesse avuto origine da più vicino?

Sicuramente la dichiarata certezza che la bozza sia stata spifferata da ambienti prossimi al premier ne indebolirebbe, ancor di più, la credibilità, mettendone in discussione la capacità di gestire i meccanismi della comunicazione in una situazione di grave emergenza sanitaria nazionale come questa. Tuttavia, che le informazioni fornite dai giornali fossero vere e che la divulgazione ufficiale del decreto fosse imminente poco importa, rimane il fatto che le indiscrezioni hanno generato reazioni sociali, emotive e politiche a cui ormai neppure un tardivo fact checking può porre rimedio.

Una questione morale La fuga di notizie del 7 marzo ci pone l’imperativo di rivedere il ruolo del giornalismo nella nostra società. Mai come adesso, infatti, risulta lampante la situazione di crisi in cui versa l’editoria, e le successive conseguenze. Momenti di emergenza come quello che stiamo vivendo sono un importante banco di prova per l’industria dell’informazione, che nonostante tutto riveste ancora un ruolo di potere da non sottovalutare all’interno della società. Ed è in questa situazione che l’informazione, considerata un bene di prima necessità al punto che le edicole (nel momento in cui si scrive) rimangono aperte nonostante la quarantena forzata, può avere invece effetti deleteri e controproducenti. Da quando il coronavirus ha iniziato a diffondersi, siamo stati sottoposti a un bombardamento mediatico, andato via via ad acutizzarsi. A tal proposito è stato addirittura coniato il termine infodemia, per porre l’accento sull’enorme quantità di informazione, il più delle volte scadente, a cui siamo sottoposti. È evidente come l’industria dell’informazione abbia intercettato sentimenti di ansia provocati dall’incertezza della pandemia e della quarantena, puntando a fagocitarli per ottenere visibilità e conseguente guadagno economico, mentre tutti gli altri settori produttivi entrano in crisi. In effetti, negli ultimi giorni si è verificato un rinnovato interesse verso l’industria dell’informazione: esempio più concreto, l’aumento massiccio di ascolti sui telegiornali con il 36,7% di spettatori in più rispetto a febbraio e un picco di +45,6% del Tg2, secondo i dati riportati dall’istituto di ricerca Eurispes in collaborazione con il dipartimento di comunicazione e ricerca sociale dell’Università la Sapienza. Scomodo

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Ciò è in parte dato dalla noia e l’inattività dovuti all’auto-isolamento, ma soprattutto all’apprensione che il famigerato Covid-19 infonde negli animi degli italiani. Se da una parte l’aspetto più prettamente economico e produttivo è inevitabilmente presente e rilevante all’interno di un giornale, dall’altra questi dovrebbero stare attenti a fare in modo che esso non prevalga sulle norme etico-morali che si trovano alla base del mestiere. Sarebbe lecito, dunque, aspettarsi dall’editoria una presa di posizione responsabile e degna del proprio ruolo: quale momento migliore di questo per lanciare un messaggio, per far capire che un’informazione di tipo giornalistico è proficua e necessaria? Col proliferare delle fake news su un tema talmente delicato quale è il coronavirus, servirebbe un impegno attivo da parte dei giornali, che invece si asserviscono al sistema che dovrebbero combattere, confondendosi col rumore di fondo legato al tema coronavirus. Pubblicare in anticipo la notizia della chiusura della Lombardia denota una forte immaturità da parte di testate teoricamente autorevoli, come il Corriere e la Repubblica, i due più importanti quotidiani italiani, che riducono l’attività giornalistica a una spettacolarizzazione dei fatti riportati, distaccandosi di molto dagli intenti originari del giornalismo. Nello stesso modo è stato trattato da Repubblica il caso del paziente 1: il 17 marzo il quotidiano titola: "Torino, di nuovo positivo al test il paziente 1 dichiarato guarito: in isolamento a casa", che sembra alludere a una recidiva del virus, quando invece oscillare tra valori positivi e negativi è perfettamente normale nel decorso di un’infezione. Un atteggiamento simile è tipico della strategia narrativa adottata dalle testate giornalistiche nostrane, Scomodo

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il cui unico obiettivo ormai sembra attirare l’attenzione dei lettori, sempre meno propensi a comprare i loro giornali, attraverso un’eccessiva drammatizzazione dei fatti, spesso e volentieri travisati, o trovate come questa fuga di notizie. È vero che da sempre arrivare per primi alla notizia rappresenta un valore aggiunto. Tuttavia, in un contesto in cui ogni cittadino è chiamato a svolgere il proprio ruolo per contenere l’emergenza, in nome del senso civico, azioni di questo tipo risultano ancor più gravi, anche rispetto ad avvenimenti simili verificatisi in passato. Oltre che di serietà, l’atteggiamento di queste testate pecca anche di lungimiranza: cosa faranno infatti quando finirà l’emergenza coronavirus, e la gente non avrà più bisogno della scusa di andare a prendere il giornale per sfuggire alla quarantena? Si continuerà a cercare la notizia più spettacolare, più "chiacchierabile", proprio come si è sempre fatto e come si sta facendo col Covid-19. L’unica differenza è che difficilmente altre notizie riescono a colpire il pubblico come l’emergenza coronavirus, che per forza di cose è diventato parte integrante delle nostre vite. L’editoria, ben consapevole di questo fatto evidente, invece di approfittare della rinnovata rilevanza che viene attribuita al proprio ruolo, ha deciso semplicemente di rivolgere tutte le sue attenzioni sull’argomento virus, tralasciando in toto altre tematiche di attualità decisamente importanti, come se insieme alle nostre vite, messe in stand-by dal DPCM dell’11 marzo, si fosse fermato anche tutto il resto del mondo. L’informazione sul tema è estremamente ampia e confusionaria, caratterizzata da una polifonia di opinioni, dati statistici, ipotesi e congetture sull’evoluzione futura dell’epidemia.

Per un lettore alla ricerca di risposte e rassicurazioni, consultare un giornale è soltanto fonte di altri dubbi, che lo costringono ad arrendersi alla scomoda realtà dei fatti, cioè che di questo virus ne sappiamo molto poco. In un simile contesto, è molto più facile assolvere i singoli che nel tumulto generale si sono precipitati in stazione, venuti a sapere dell’imminente chiusura della Lombardia, piuttosto che le testate giornalistiche responsabili di aver scatenato il panico. Il risultato di tutto ciò, con ogni probabilità, sarà un inasprimento del fenomeno già in atto di allontanamento delle masse dai giornali, frutto non soltanto della predilezione per un’informazione più istantanea e veloce, ma anche di una diffidenza nei confronti del giornalismo, visto come una versione più istituzionale di internet e delle sue fake news. Far trapelare la notizia della chiusura della regione Lombardia ha avuto come unico effetto quello di screditare ulteriormente i giornali italiani. L’emergenza coronavirus, tra le tante cose, verrà ricordata anche per la sera del 7 marzo. La speranza è che, passata l’emergenza, la quale ha inevitabilmente messo in secondo piano l’avvenimento, si possa fare tesoro di quanto accaduto, avviando una riflessione sull’impatto che il giornalismo ha sulle nostre vite, e su eventuali scenari futuri.

di Bianca Pinto e Giulia D’Aleo

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[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Riguarda tra le altre cose: la relazione tra stati diversi; l’interesse comune di più nazioni; ciò che si estende a più paesi e che oltrepassa i confini del proprio stato.

L'ARTISTA: Daniel Lupu, è uno studente rumeno che frequenta l'ultimo anno del corso BA Hons Illustration all'Università di Falmouth. Ha da sempre una passione per l'illustrazione editoriale e spera un giorno di raggiungere i livelli di eccellenza dei suoi modelli in questo campo, come Christf Niemann ed Emiliano Ponzi.

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L ' A RT I STA :

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under Marzo 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare Scomodo 2020 49 una parola che descrive e contiene moltissimi significati.


CULTURA

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Scomodo

Ottobre 2019


Cultura Capitale Inchiesta sui risvolti dell’essere una capitale culturale

Da qualche anno l’Italia ha importato una trentennale tradizione europea: la nomina di una città a Capitale della cultura. Ma quanto questi eventi abbiano effettivamente radici culturali, a livello sia italiano che europeo, rimane tuttora poco chiaro. continua a pag. 54

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OCEANO INDIANO il racconto a puntate di una nuova convivenza Dirette dall’India - Il teatro ai tempi della reclusione Una web radio live. Questa la risposta degli artisti di Oceano Indiano all’attuale situazione di emergenza . I decreti ministeriali del 5 marzo e seguenti hanno messo in difficoltà le cinque compagnie che da metà febbraio coabitavano al Teatro India; queste tuttavia, dimostrando grande capacità nel reinventarsi, non si sono perse d’animo. In un momento in cui vengono meno il contatto tra esseri umani e l’accessibilità agli spazi fisici di condivisione, il progetto Oceano Indiano, concentrato su un nuovo modo di percepire gli spazi in relazione ai rapporti umani che li ravvivano, trova ancor più ragione di esistere, poiché sceglie di conferire al vuoto che ci divide una nuova e diversa percezione, quella di etereo spazio comune. Uno spazio colmo di pensieri, emozioni, incontri: il nostro spazio sospeso, che si forma nel momento in cui c’è interazione tra i soggetti e non è altro che l’essenza della relazione tra questi.

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Quello che permane e ci salva , nonostante la distanza, sono le relazioni: con amici e familiari, che forse ascoltiamo e conosciamo meglio in questo periodo piuttosto che nella vita quotidiana cui siamo abituati e nella quale freneticamente ci destreggiamo; con noi stessi, con cui siamo ora faticosamente obbligati a convivere… Da queste riflessioni nasce l’idea di una radio live, con l’intento di condividere, offrire e stimolare connessioni, in contrapposizione all’ondata di dirette social che ultimamente entrano sempre piú spesso nelle nostre giornate ; queste certamente intrattengono, ma non fanno che renderci fruitori passivi. Sono concessi fugaci ed effimeri commenti, ma raramente si vengono a creare situazioni di dialogo, dibattito, incontro, obiettivo invece di questa web radio, il cui variato palinsesto è teso a coinvolgere attivamente il pubblico fino a farlo diventare parte integrante del progetto. I collettivi che collaborano a Oceano Indiano sentono il bisogno di trasformare il progetto per rispondere alle esigenze peculiari di questo momento critico, prendendosi così una nuova responsabilità: rivestire il ruolo che è sempre spettato a intellettuali e artisti nei momenti critici della storia. Farsi domande, esplorare il futuro ancora in costruzione attraverso un’attenta analisi del passato e dei fenomeni culturali che costellano il presente incerto, è sotto questa egida che nasce e si sviluppa la nuova web radio. Della creazione di un nuovo spazio non più fisico, ma virtuale, nasce Indian Transmissions: strumento attraverso il quale i collettivi di Oceano Indiano vogliono porre l’accento sulla riscoperta delle relazioni e delle loro sfumature più nascoste. Valerio e Martina delle compagnie DOM e Industria Indipendente terranno la trasmissione “Vivere nelle rovine”, che si interroga su come si eserciti l’arte di vivere su un pianeta danneggiato, si cercherà di questionare il presente per tentare di rimanere a contatto con il problema; saranno inoltre presenti interventi di scienziati, ricercatori/trici per approfondimenti teorici. Al termine della trasmissione, durante il momento Odkkin, ascoltatori e speakers della radio saranno chiamati a condividere le nuove relazioni inaspettate venutesi a creare con animali, oggetti o vicini che solo una situazione fuori dall’ordinario, come la quarantena, poteva portare a scoprire e vivere così intensamente. Approfondire la realtà attraverso un lavoro di introspezione che sfocia nella liberazione di un’immaginazione ai limiti del reale è ,secondo Daria Deflorian - attrice e new entry nel progetto di co-creazione - un modo anche per scoprire chi siano persone che credevamo di conoscere. Daria vuole intervistare amici e sconosciuti nella trasmissione “Persone“, non per farsi dire qualcosa di preciso, o per porre delle domande prestabilite, ma piuttosto per lasciar parlare liberamente gli invitati. Scomodo

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Per fornire uno spazio di espressione, che porta così a cristallizzare una relazione nell’etere radiofonico facendola diventare spazio reale, momento di analisi collettiva dove sviluppare riflessioni profonde tanto quanto inezie quotidiane, l’importante è comunicare, approfondire. Nonostante la sua virtualitá, lo spazio rimane comunque presente nel suo senso lato nei progetti di Oceano Indiano: anche se per ora non si possono vedere e toccare con mano i luoghi fisici , certamente li si possono ancora udire. Con 4’33” Muta Imago, citando l’opera di John Cage, si impegna a raccogliere in un audio di pochi minuti le testimonianze delle energie sonore registrate nei luoghi della loro quotidianità, ora deserti. Il tutto preceduto da un breve messaggio vocale nel quale si esprimono proprie impressioni riguardo i luoghi visitati; adesso che la vita è sospesa, ai suoi rumori si sostituisce il suono della natura, costringendoci a re-immaginare quei luoghi per noi abitudinari. Scomodo viene chiamato a partecipare al nascente spazio radiofonico contribuendo a creare i contenuti che andranno in onda durante il ‘’Gruppo 2020’’: uno spazio pensato per dare voce alla narrativa giovanissima a tema fantascientifico una volta la settimana. Racconteremo che cosa i più giovani serbino nelle loro menti rinchiuse in casa allo sbocciare della primavera, per poter far sentire agli ascoltatori, per una volta, la nostra voce, oltre alle nostre penne. Il progetto di co-creazione in fieri di Oceano Indiano riconferma la sua natura spontanea e immaginifica attraverso l'utilizzo della radio live, che si pone come un modo per improvvisare insieme agli ascoltatori un momento di creatività; per far scoprire aspetti della realtà che ci circonda fino a ora rimasti in ombra. Ascoltare Indian Transmissions significa essere parte di un progetto di introspezione collettiva che vi trasporterà come le acque calde dell’Oceano Indiano tra suoni, voci e parole. Buon Ascolto. di Gaia Del Bosco e Marta Bernardi

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Cultura Capitale

-------------------------------------------------------------------Inchiesta sui risvolti dell’essere una capitale culturale Da qualche anno l’Italia ha importato una trentennale tradizione europea: la nomina di una città a Capitale della cultura. Ma quanto questi eventi abbiano effettivamente radici culturali, a livello sia italiano che europeo, rimane tuttora poco chiaro. In aeroporto In tempi di quarantena, il virus è un buon aggancio per aprire qualsiasi discorso. Il 14 marzo il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha postato sui social una foto serale di Piazza Garibaldi, una delle piazze principali della cittadina emiliana, totalmente deserta. “Non avrei mai pensato di vederti così, nell’anno della Capitale” recitava la descrizione. Sì, perché quest’anno Parma aveva ottenuto la nomina a Capitale italiana della cultura: ed è indubbio che l’emergenza COVID-19 sia stata, per la città, doppiamente dannosa. Tanto che alcune delle città candidate all’edizione 2021 hanno già lanciato un appello per far sì che Parma resti Capitale anche per l’anno successivo, in modo da poter recuperare l’annata ormai compromessa. Ma cosa sono, in effetti, le “Capitali della cultura”? In ambito europeo, l’idea viene nel gennaio 1985 a Melina Mercouri, allora Ministro della Cultura greco. Di ritorno da un incontro con i ministri della cultura europei, in aeroporto Mercouri propone l’idea al suo corrispettivo francese Jack Lang. L’idea si sviluppa rapidamente e già nello stesso 1985 viene assegnata la prima edizione. Ma se la scelta questa volta cade, quasi di diritto, su Atene – per premiare chi per primo ha avanzato la proposta di istituire questa rassegna – si pone presto il problema di determinare i criteri attraverso i quali scegliere di volta in volta le città ospitanti. 54

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Viene stabilito che i paesi ospiteranno a rotazione la kermesse, e che dal 2000 in poi ogni anno saranno due le città coinvolte. Inoltre, dal 2021 verranno coinvolti anche i paesi dello Spazio Economico Europeo (area che coinvolge anche paesi non-UE) o stati candidati all’ingresso nell’Unione. La commissione giudicante si compone di dieci esperti nominati in maniera più o meno paritaria dai vari organi dell’UE: Commissione, Consiglio e Parlamento. Nella guida per le città che intendono presentare la propria candidatura, vengono elencati sei criteri ai quali le città devono prepararsi a rispondere per concorrere. Questi criteri sono: il contributo ad una strategia culturale a lungo termine; il contenuto artistico e culturale; la dimensione europea; la mobilitazione e sensibilizzazione; la capacità di portare a termine il compito. Nel 2014 Matera viene proclamata, insieme a Plovdiv (Bulgaria), Capitale europea della cultura per il 2019. L’allora governo Renzi coglie quindi l’occasione di importare questa tradizione ormai trentennale, e istituisce nel decreto Cultura del maggio 2014 la “Capitale italiana della cultura”. La prima edizione è ospitata da cinque città diverse (Ravenna, Cagliari, Lecce, Perugia e Siena), mentre per gli anni successivi la scelta cade su un’unica località: eccezion fatta per il 2019, quando la nomina non avviene per favorire il convergere di tutti gli sforzi sull’organizzazione della Capitale europea a Matera. Nel caso della Capitale italiana della cultura la giuria, rispetto a quella europea, si compone di sette elementi: tre scelti dal Ministro dei beni culturali e tre dalla Conferenza unificata Stato-regioni, mentre l’ultimo – il presidente di giuria – viene nominato in intesa dal Ministro e dalla Conferenza unificata. Dando un rapido sguardo ai criteri, però, è possibile riconoscere come l’approccio dell’iniziativa portata avanti dall’Unione Europea abbia obiettivi diversi rispetto a quella italiana.

Se nei criteri UE grande rilevanza assume un’integrazione sempre più pervasiva nell’infrastruttura europea (la “dimensione europea”) connessa all’intreccio di uomini e conoscenze in ambito culturale (la “strategia culturale a lungo termine”), il corrispettivo italiano è mirato maggiormente a uno sviluppo dell’area (all’inizio si parla di “valorizzazione del territorio”) per poi fare riferimento esplicitamente ad “incrementare il settore turistico” e alla “realizzazione di opere e infrastrutture di pubblica utilità destinate a permanere sul territorio a servizio della collettività”. Anche grazie al “fare uso di nuove tecnologie”. Due modi diversi di vedere la cultura: legame sovranazionale contro volano per il turismo, entrambi con un occhio strizzato neanche in maniera troppo velata alla crescita economica.

I benefici economici di quest’iniziativa cominciano a manifestarsi due anni prima dell’evento e non si esauriscono col termine dello stesso ma anzi continuano ad avere rilevanza fino a cinque anni dopo. Si tratta sicuramente di un incremento economico non trascurabile tanto che i risultati di uno studio del 2016 affermano che nelle città vincitrici il PIL pro-capite aumenta del 4,5%. Il primo fenomeno da osservare è ovviamente quello del turismo poiché questi eventi sono, come diretta conseguenza della loro capacità di attrazione di spesa e di persone, una fonte di creazione d’attività, ricchezza ed impiego. Gli eventi e i festival culturali attraggono in tutto il mondo migliaia di turisti, e il primo passo è dunque l’ampliamento dell’offerta culturale. Parlando di dati, ad esempio, Marsiglia detiene il record di 11 milioni di visitatori con una riqualificazione urbana costata miliardi e un piano di investimento di 600 milioni per le strutture culturali, tra i quali figura il Museo delle culture europee e mediterranee che nel 2018 ha contato oltre 1,3 milioni di visitatori. È interessante guardare all’impatto sulle presenze turistiche sia nel breve che nel lungo periodo e notare come il programma abbia generato effetti positivi sulle città coinvolte: in media si è registrato un incremento del 12,7% delle presenze nell’anno della manifestazione e, dato più interessante, solo un limitato calo, pari a circa il 4%, nell’anno successivo. Quindi un +8% di presenze turistiche sull’anno precedente alla manifestazione anche nell’anno successivo. Non sempre è così però: una ricerca sulle 34 capitali tra 1998 e 2014, a confronto con altre 800 città europee, rivela che nell’anno dell’evento c’è un aumento medio dell’8% delle presenze alberghiere che tuttavia sfuma presto.

“Fino al 2011 solo quattro città ospitanti sono riuscite a rilanciare il turismo a lungo termine: Lisbona, Reykjavík, Tallinn e Bologna.”

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Culture e contro-culture La candidatura a Capitale Europea della Cultura rappresenta una grande opportunità per una città e tuttavia necessita di una gestione attenta e coerente sin dall’inizio. È un dato di fatto che nel mondo contemporaneo gli eventi culturali ricoprano un ruolo sempre maggiore e che il settore generi produzione e impiego, permettendo la creazione di nuove imprese, aumentando le rendite dei cittadini, incrementando le entrate e le uscite: tutto questo contribuisce allo svolgimento delle attività economiche e alla crescita del contesto locale e regionale.

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Fino al 2011 solo quattro città ospitanti sono riuscite a rilanciare il turismo a lungo termine: Lisbona, Reykjavík, Tallinn e Bologna, quanto la spinta promozionale duri nel tempo dipende dalle scelte strategiche e dalle politiche di comunicazione e promozione che le diverse città hanno perseguito negli anni successivi. Divenire Capitale della Cultura non consiste solamente nello sviluppo di una determinata programmazione culturale, ma anche in uno sforzo economico e finanziario realizzato per la creazione di nuove infrastrutture culturali, per il rimodellamento urbano e per l’adeguamento delle strutture turistiche e delle politiche comunicative della città. Gli investimenti necessari per la preparazione e lo svolgimento della manifestazione fungono da traino per l’intera economia e nelle precedenti edizioni sono stati utilizzati per interventi di natura infrastrutturale tra cui, prevalentemente, l’ammodernamento dei beni culturali e delle infrastrutture del trasporto e la riqualificazione urbana. Essi apportano un miglioramento dell’immagine e del luogo e di conseguenza dei benefici aggiun-

36 edizioni organizzate

della Capitale europea della cultura

ti a livello artistico, culturale, turistico ed economico durevoli nel tempo. Questi investimenti si sono tradotti in benefici per i settori direttamente coinvolti, ma in modo indiretto (il cosiddetto “indotto“), aumentando il consumo anche per altre attività e settori, quali commercianti, artigiani, ristoratori, costruttori ecc. Pertanto, a trarne vantaggio sono stati i cittadini della città e del territorio circostante, la cui qualità della vita viene incrementata sotto vari punti di vista. Dando uno sguardo al passato, gli investimenti sono stati molto differenti di città in città: si passa dai 5 milioni di euro di Bologna agli oltre 200 milioni di spesa di capitali di Genova, Weimar o Copenaghen. Il budget economico, toccando anche tutte le attività di realizzazione del programma culturale, la promozione e il marketing della manifestazione, i costi del personale e dell’amministrazione, dà un contributo allo sviluppo e alla creazione di nuove figure professionali, generando nuove opportunità di impiego. Le ricadute positive della manifestazione non sono esclusivamente di natura economica: l’eredità

71 città diverse.

è anche rappresentata da vantaggi di natura politica, sociale e culturale. Spesso l’evento modifica permanentemente l’offerta e l’immagine della città ospitante. Alla proiezione di un’immagine positiva verso l’esterno si è quasi sempre accompagnato uno sviluppo dell’identità culturale della città, un’accresciuta partecipazione dei cittadini e del loro senso di appartenenza, la diffusione di nuovi valori culturali, una maggiore apertura verso l’Europa e l’internazionalizzazione. L’elemento sociale è stato particolarmente evidente in quelle realtà caratterizzate da una forte presenza di comunità marginalizzate, appartenenti a gruppi etnici minoritari, si è cercato di rafforzare il processo di inclusione e coesione sociale e di innalzare il livello di conoscenza della storia e della cultura del territorio da parte della popolazione locale. Eppure, sebbene le città candidate si presentino come “inclusive”, questa retorica spesso resta sulla carta: solo Lille inserì obiettivi sociali nel programma culturale piuttosto che trattarli come temi separati. A Sibiu, in Romania, ci fu un boom di attese sulla

457 I milioni di euro investiti nel miglioramento delle infrastrutture in vista di Matera Capitale europea della cultura 2019.

12,7% L’aumento medio delle presenze turistiche

4,5% L’aumento del PIL pro-capite per le città

4 Le uniche Capitali che sono riuscite a rilanciare

1500 I volontari che hanno contribuito all'organizazione di Matera 2019, rispetto ai 18mila promessi

nelle città nell’anno della manifestazione. La crescita si assesta poi all’8% nell’anno successivo.

il turismo a lungo termine dal 1985 al 2011: Lisbona, Reykjavik, Tallinn e Bologna. 56

organizzatrici in seguito alla nomina, secondo uno studio del 2016.

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crescita che rimasero disattese dopo la fine dell’evento, perché i problemi delle strutture culturali restarono irrisolti. È lecito chiedersi allora se le Capitali Europee della cultura favoriscano solo “Eventi culturali convenzionali collegati a istituzioni affermate e che riflettono i gusti culturali della borghesia”, come avvenuto a Stavanger (Norvegia). L’altra faccia della medaglia è dunque che i problemi, l’inclusione e la partecipazione della comunità locali sono criteri di selezione essenziali per il successo dell’evento, ma in molti casi solo l’immagine turistica all’estero è valorizzata. In alcune Capitali della cultura sono nati movimenti di protesta per il conflitto tra l’identità culturale locale e la gestione del marketing: come a Cork nel 2005 o a Weimar nel 1999. A Turku, in Finlandia, nel 2011 fu organizzato il contro-evento: “Capitale UE della controcultura”. Malgrado i vantaggi potenziali, allora, è importante essere realisti. Le città possono incontrare problemi nel contesto della manifestazione, come critiche, rischi, difficoltà finanziarie e risultati inferiori alle aspettative. Spesso gli insuccessi sono dovuti a punti deboli nella gestione del progetto o da errori nella predisposizione degli obbiettivi. È importante capire allora che gli effetti vantaggiosi non sono automatici, l’iniziativa genererà tanti più risvolti positivi per il territorio, quanto più sarà vissuta non come semplice evento di natura culturale, destinato principalmente ai visitatori, ma come processo di sviluppo dell’intera città durante il quale prendono forma nuove idee e progetti e nascono nuove collaborazioni. Ecco perché è fondamentale che gli impegni presi da tutte le parti in causa a livello nazionale al momento della selezione siano rispettati nella fase di preparazione e durante la manifestazione stessa. Scomodo

Marzo 2020

Tra i sassi Già all’alba della sua designazione a ECoC, Matera colora gli animi lucani (e non solo) di grande entusiasmo e spirito di rivalsa per una città che, fino a non troppi anni fa, era suggellata come “vergogna d’Italia”. Una buona governance, la partecipazione attiva dei cittadini, una spiccata creatività delle iniziative in programma e la dimensione europea del progetto: questi sono i criteri che Matera è riuscita ad esaltare in questo percorso di aggiudicazione della nomina. Giunti alla conclusione dell’anno che l’ha vista protagonista, si può dire che gli obiettivi raggiunti, come prevedibile, sono parziali. Ciò che delude è che si è puntato poco sulla qualità e sulla lungimiranza: ossia, tanta carne al fuoco per i turisti del 2019, ma le iniziative a lungo raggio, per i cittadini e per il turismo futuro, risultano lacunose. Ripercorriamo quindi le fasi preparatorie dell’evento: la gestione del tutto viene subito affidata ad una fondazione di partecipazione, la Fondazione Matera-Basilicata 2019. Gestirà tutti i fondi, con dirigenza di nomina politica. Viene pianificato un investimento di circa 457 milioni di euro per migliorare e riqualificare alcune connessioni viarie strategiche come l’asse Matera – Bari centrale – Bari Aeroporto, rafforzare il servizio pubblico verso i principali poli urbani e favorire forme di mobilità. Dopo due anni e mezzo dalla nomina e con 217 milioni di euro già stanziati, mancavano collegamenti, accoglienza e coordinamento delle attrazioni turistiche. Questa pesante inadempienza spinge la giuria europea, che controllava l’avanzamento del progetto, a manifestare la

propria profonda preoccupazione “rispetto alla struttura della governance della Fondazione Matera 2019 che continua a risultare estremamente poco chiara ed eccessivamente complessa, ostacolando il progresso del progetto”. Nel mentre l’altra capitale europea della cultura, la città bulgara di Plovdiv nominata assieme a Matera per il 2019, con un budget sei volte inferiore aveva già ricevuto l’elogio dall’UE per lo stato di avanzamento dei lavori. Disastro, quindi, sul fronte delle infrastrutture e dei lavori pubblici, con le linee ferroviarie Matera-Ferrandina e Matera-Gioia del Colle che rimangono una speranza, e opere fallaci o mai finite, come la scuola Bramante e il palasport di Lanera, che viene clamorosamente bucato dal primo temporale. La riqualificazione urbana si ferma a qualche strada e marciapiede e, come se non bastasse, la viabilità è rallentata a causa dello stallo del bando sui parcheggi. In tutto questo caos di negligenze, si salva solo la stazione centrale di Matera realizzata a cura dell’architetto Stefano Boeri e la proroga del servizio navette per tutto il 2020, mentre per la viabilità interna essenziale è stato il rafforzamento dei mezzi pubblici (finanziato con gli utili del 2019 probabilmente fino a esaurimento scorte, poi chissà...). Tutt’altra sorte ha avuto l’aspetto del turismo e della partecipazione, con risultati eccellenti. In effetti già in precedenza Matera aveva vissuto un’esplosione di popolarità, con una crescita dei visitatori del 176% tra il 2010 e il 2017 e di un ulteriore 20% nel 2018. Nell’anno da capitale della cultura ha registrato un aumento dei turisti stranieri del 44%, per un totale complessivo di quasi 870mila pernottamenti. 57


La Fondazione Matera-Basilicata 2019 stima circa 330mila accessi a quasi 1.250 eventi, di cui oltre 400 si sono tenuti in altri comuni della regione. In tutta la Basilicata le presenze sono cresciute del 34%. Esemplare anche la risonanza dell’evento. Il brand Matera è arrivato davvero ovunque: 41 Paesi hanno parlato di Matera e le hanno dedicato articoli e servizi, a questo si aggiungono le produzioni televisive (oltre 1.300) e un'intensa attività sui social. Inoltre, secondo Lifegate, “l’intenzione della fondazione di coinvolgere i cittadini del territorio materano sembra essere riuscita, con la partecipazione di 18mila persone alle produzioni culturali e il 70 per cento del programma sviluppato attraverso processi di co-creazione realizzati insieme agli abitanti”. Ma se si va a scavare bene, si scopre che, in realtà, quasi tutto il peso del lavoro è gravato sulle spalle di circa 1500 volontari, reclutati attraverso video online e annunci. La Fondazione, dal 2015 al 2019, ha pubblicato solamente 12 avvisi pubblici, accumulando un personale totale di circa un’ottantina di operatori privi di competenze specifiche e per di più selezionati attraverso commissioni e criteri poco chiari e trasparenti. E, come se non bastasse, nella relazione analitica del 28 giugno scorso, la Fondazione Matera-Basilicata 2019 ha rendicontato spese mensili per personale pari a 250 mila euro. Costo allarmante che ha spinto la Confesercenti Provinciale di Matera a chiedere alla Fondazione di “poter conoscere meglio l’impiego di tali risorse, poiché trattasi di risorse pubbliche, e quindi dei cittadini e delle imprese, […]

considerando i risultati mediocri che i lavori della stessa Fondazione stanno apportando alla Città di Matera e alla regione Basilicata”. Risultati: uno spreco capitale, poca professionalità e cosa più grave la mancata possibilità di investire sul lavoro, uno dei punti nevralgici e di maggiore portata dell’intero progetto. Per quanto riguarda il palinsesto eventi, pensato intorno allo slogan Open Future, molto interessanti alcune proposte come la “Silent academy”, i cui protagonisti sono stati artisti e artigiani migranti che hanno curato la realizzazione di workshop e opere, ma anche le iniziative in ambito di sostenibilità ambientale.

orti in 26 comuni della Basilicata. Non si può non nominare infine la realizzazione di Magnet, l’hub di San Rocco, che ha sostituito un ex complesso monastico con un polo d’innovazione tecnologico e digitale. Quest’ultimo lavoro non può non generare una riflessione: quale sarà il rapporto tra Matera vecchia e Matera del futuro? La Matera che è stata presentata ai turisti del 2019 è più che altro una città vecchia impacchettata a nuovo. Quella scelta da Pasolini per il suo “Vangelo secondo Matteo” era una città simbolo di una realtà contadina, morsa dal sole meridionale, non intaccata dalla modernità e dall’omologazione urbanistica, ed era questo ciò di cui andare fieri. Bisognava adattare la visione europea a quella di Matera, e non viceversa. Matera non è mai stata una “vergogna” e tirare a lucido Sassi e Piano non è mai stata la soluzione. Un evento dunque senza dubbio di successo quello che l’ha vista come Capitale europea della cultura, ma che se spostata fuori da questo contenitore, lascia trapelare non pochi dubbi (come spesso siamo abituati in materia di gestione del nostro territorio) sulla visione occupazionale a lungo raggio e sull’integrazione strutturale tra città e cultura, tra il centro storico e periferie moderne.

“Dando un rapido sguardo ai criteri, però, è possibile riconoscere come l’approccio dell’iniziativa portata avanti dall’Unione Europea abbia obiettivi diversi rispetto a quella italiana.”

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Tra queste ricordiamo quella dell’artista Ha Schult, il quale ha voluto denunciare lo stato di degrado del Pianeta portando a Matera il suo esercito di mille “Trash people”, sculture antropomorfe in scala realizzate con i rifiuti che dal 1996 viaggiano nei luoghi più iconici del mondo. Una riflessione, quella ambientale, che non rimane solo teorico-documentaristica ma che si trasforma in azione concreta: l’iniziativa “Gardentopia”, che ha visto 3.800 persone partecipare alla trasformazione di zone urbane dismesse in aree verdi quali aiuole, giardini e

di Cristiano Bellisario, Simone Martuscelli e Riccardo Vecchione Scomodo

Marzo 2020


Natural Born Oscars ---------------------------------------------------------------------------------------------------------

Come l’ultima edizione degli Academy Awards ha messo in scena una rivoluzione ingannevole

E’ nato prima l’Oscar o il Blockbuster? Anche questa volta nessun vento d’innovazione ha spogliato gli Oscar delle vesti in cui annualmente continuano a riproporsi, in un’edizione nuova ma perennemente uguale a se stessa. Nonostante alcuni elementi fuori dal comune, gli Oscar continuano a crogiolarsi nei propri schemi di autoreferenzialità e “americacentrismo”, che non sono altro che strumenti funzionali al raggiungimento dello scopo ultimo del festival dal 1927: «sostenere lo sviluppo del cinema statunitense». Scomodo

Marzo 2020

Proprio nella scelta di sostenere regolarmente un medesimo tipo di cinema risiede l’immobilità del festival, le cui nomination annualmente mettono in atto una corsa all’incasso, dando ulteriore visibilità ai blockbuster che si erano già precedentemente appropriati delle sale. L’immensa copertura mediatica che investe gli Academy Awards, quindi, conferisce loro il potere di influenzare le sorti dell’industria cinematografica - non si tratta, ovviamente, di una regola – tuttavia a essere premiati sono quasi sempre film

già popolari, le cui case di produzione e distribuzione hanno speso decine di milioni di dollari in costose campagne di promozione. L’aspetto economico sembra inoltre accomodarsi con prepotenza sempre maggiore al tavolo della giuria, che quest’anno ha distribuito le candidature a una rosa di film che nella loro totalità avevano conquistato 747,2 milioni di dollari ai botteghini dei cinema americani. Performance sorprendente, ancor di più se si considera che nella storia recente degli Oscar è seconda soltanto a quella dell’anno scorso 59


che, sorretta dai 700 milioni di Black Panther, primo cinecomic della storia ad essere candidato come miglior film, aveva raggiunto 1,26 miliardi di dollari. A capeggiare quest’anno erano invece Joker con Joaquin Phoenix che, con il suo miliardo di dollari di incasso globale, è il cinecomic più remunerativo di sempre, oltre che quello con maggior numero di nomination, seguito a ruota da Parasite e C’era una volta...a Hollywood. Ancora una volta è il trionfo del mercato, alimentato e assecondato insieme ai gusti del pubblico, il quale può ritrovare tra le candidature i film che ha apprezzato di più in sala. Pertanto, ingabbiati nei meccanismi di cui essi stessi si rendono schiavi, gli Oscar non hanno avuto, neanche quest’anno, il coraggio di staccarsi dalle cifre del botteghino, dalle quali si fanno inevitabilmente condurre. I soliti ignoti Tanti i piccoli esclusi dal festival, rei di non aver sfondato in sala, che pure dalla candidatura avrebbero ricavato la notorietà necessaria a generare i meritati incassi. Sorprende meno quindi la quasi totale assenza dell’ultima pellicola di Clint Eastwood dalle nomination, che riesce a strappare solo quella per Miglior Attrice Non Protagonista a Kathy Bates. Il film, che con una regia essenziale ma potente si avvale di una storia vera per ritornare alla celebrazione dell’eroismo americano, in una chiave anti-sistema inedita al regista, vede tra l’altro una meravigliosa interpretazione di Paul Walter Hauser nei panni del protagonista, che domina ogni scena con genuino talento. 60

Eppure nemmeno l’aura di Eastwood, ormai navigato vincitore di quattro Academy Awards, è riuscita a compensare il flop assoluto del film nelle sale statunitensi; Richard Jewell, infatti, alla prima settimana del box office ha raggiunto soltanto i 4.7 milioni di dollari, diventando la peggiore pellicola del regista per incassi all’esordio.

“Un vero e proprio fenomeno di “oscarcentrismo” intorno al quale sembrano orbitare tutte le altre kermesse cinematografiche.” Se neanche Eastwood, con il suo canonico “film da Oscar”, è riuscito a superare l’ostacolo dei profitti e ad affermarsi tra le nomination, nessuna speranza poteva avere The Lighthouse di Robert Eggers che, seppur ampiamente acclamato dalla critica, non ha fatto furore in sala.

Immersi in una fotografia in bianco e nero che lascia ancora più spazio alle interpretazioni, Robert Pattinson e, soprattutto, un ipnotico William Dafoe, si cimentano in una brillante prova attoriale, probabilmente lontana dal grande pubblico per la teatralità che la caratterizza. Il meritato riconoscimento giunge con la candidatura di entrambi e la vittoria per Dafoe, agli Independent Spirits Awards. Questi premi cinematografici americani vengono assegnati dall’associazione no-profit Film Independent ai migliori prodotti del cinema indipendente realizzati con meno di 22.5 milioni di budget, durante una cerimonia che si svolge annualmente il giorno prima della degli Oscar. Il festival, che dà rilievo alle produzioni minori e che è estraneo al sistema dei maggiori studios, ha illuminato anche Diamanti Grezzi (Uncut Gems) dei fratelli Safdie, progetto in lavorazione dal 2009 che ha raggiunto i fondi necessari alla realizzazione soltanto dieci anni dopo, quando i due registi avevano ormai ottenuto i consensi di critica e pubblico, nonché il sostegno di un produttore esecutivo d’eccezione, Martin Scorsese, per il loro ultimo e più personale film. Snobbata agli Oscar, la pellicola convince la giuria indipendente che la insignisce di tre Spirit Awards sui cinque per i quali era candidata: oltre a regia e montaggio, il premio per Miglior Attore all’interpretazione rivelazione di Adam Sandler, apprezzato quasi all’unanimità. Scomodo

Marzo 2020


Con una performance energica e autentica che si aggiunge ai limitati ma significativi ruoli drammatici dell’attore, sembrava si potesse quasi cantare vittoria su una nomination agli Oscar, i cui giurati non ne hanno riconosciuto invece la pertinenza, rafforzando il muro divisorio tra gli attori comici e chi è degno di occupare un posto nell’Olimpo delle star. A loro Sandler rivolge il suo discorso di vittoria: «Stasera, guardandomi intorno in questa sala, mi rendo conto che gli Independent Spirit Awards sono il premio 'miglior personalità' di Hollywood. Lasciamo gli Oscar a quei figli di puttana con i capelli cotonati. La loro bellezza sbiadirà col tempo, mentre le nostre personalità indipendenti brilleranno per sempre.» Altra eccellente esclusione è quella di Noi (Us), ultimo ambizioso prodotto di Jordan Peele che, nonostante faccia paura anche al botteghino, registrando il record mondiale di incassi per un film horror originale nel primo weekend in sala, viene totalmente snobbato dall’Academy, che non spreca una nomination per un genere ancora considerato di nicchia. È infatti risaputo che gli horror debbano faticare il triplo per aggiudicarsi una nomination a Miglior Film: solo sei film horror nella storia degli Oscar l’hanno ottenuta, e proprio Peele era riuscito nella titanica impresa appena tre anni fa con il suo film debutto alla regia Scappa: Get Out. Immeritata anche l’assenza di Lupita Nyong’o tra le nomination a Miglior Attrice Protagonista, che avrebbe peraltro fornito uno scudo dalle accuse di Oscar “troppo bianchi”, e che rappresenta l’ennesima conferma del fatto che all’Academy il talento non sempre basta. Scomodo

Marzo 2020

Ma gli Oscar sognano pecore dorate? E il sesto giorno Dio creò l’Oscar. Lo fece a sua immagine e somiglianza perché potesse venerare le opere del creato cinematografico, guadagnando così un ruolo di preminenza rispetto a tutte le altre rassegne.

“Per la prima volta dopo quasi un secolo, a salire sul podio del Dolby Theatre è stato un film in lingua straniera.”

Ma come in ogni paradiso terrestre, la superbia dimostrata nel ritenersi unico giudice dei frutti del Cinema, finì per macchiarlo di un nuovo peccato originale. A dispetto dei numerosissimi altri festival, internazionali e non, strutturati secondo modalità di giuria più eque e meno lobbystiche, l’Academy sembra fagocitarli uno ad uno, dando

l’impressione che i loro esiti valgano solo in funzione di quella Notte degli Oscar che ogni anno tiene incollati fino alle prime luci del mattino. Un vero e proprio fenomeno di “oscarcentrismo” intorno al quale sembrano orbitare tutte le altre kermesse cinematografiche. I risultati del Golden Globe, che generalmente precedono di un mese quelli degli Academy Awards, vengono frequentemente declassati ad anticipazioni degli Oscar che saranno. Nonostante l’Academy non distingua nelle sue categorie fra commedia e dramma, fra interpretazione comica e drammatica – al costo di una mescolanza fra ritmi filmici tanto eterogenei – diversamente da quanto fanno invece i Golden Globe. Questi ultimi vengono comunque scambiati per i fratelli minori e inesperti, nella costante attesa di una sonora pacca sulla spalla dal primogenito più autorevole, che possa approvare o biasimare le loro scelte in fatto di premiazioni. Persino la Palma d’Oro di Cannes, assegnata mesi prima da una delle giurie più stimate e prestigiose d’oltreoceano, diventa occasione per effettuare una prima grande scrematura delle proposte del Cinema internazionale, impacchettando quelle con più chance di accaparrarsi l’Oscar per il Miglior Film Straniero. Una sorta di compendio delle candidature di Cannes cui l’Oscar dedica una sola delle sue decine di categorie, investendo il resto delle sue energie ad approfondire la più “vasta” cerchia delle pellicole statunitensi: quasi che, nella mente dell’ “oscarmaniaco”, l’Academy abbracci tutte le premiazioni dei festival internazionali, dal Leone d’Oro all’Orso d’Argento, come sue sottocategorie. 61


Ma dal momento gli Academy Awards non si comportano affatto come un festival internazionale, precludendo molti dei loro riconoscimenti alle produzioni estere, sono piuttosto Cannes, Venezia o Berlino a inglobarne le proposte statunitensi. Come dimostrano la Palma d’Oro a The Tree of Life di Terrence Malick o il Leone d’Oro al Joker di Todd Phillips, per citare gli ultimi di una lunga serie di film dello Zio Sam insigniti di questi riconoscimenti. Eppure questa 92esima edizione degli Academy Awards sembra aver costituito un unicum, non solo perché ha messo d’accordo tutti, spartendo equamente gli Oscar tecnici fra una serie di titoli meritevoli e assegnato quelli per le interpretazioni maschili alla coppia di beniamini della stagione (Joaquin Phoenix e Brad Pitt), ma soprattutto per una grande, ingombrante presenza che ha fatto gridare alla rivoluzione. Quella di Parasite di Bong Joon-ho, che oltre a Miglior Film Straniero si è aggiudicato le tre statuette più ambite dell’Academy: Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Originale. Per la prima volta dopo quasi un secolo, a salire sul podio del Dolby Theatre è stato un film in lingua straniera. La nostra gang Una vittoria che molti reputavano impensabile, vista la frequenza proibitiva con la quale l’Academy candida pellicole straniere in categorie diverse da quella loro dedicata. Il suo atteggiamento da sempre snob riservato al cinema non statunitense – oltre alla facilità con cui la commissione disattende regole apparentemente rigide eppure tanto malleabili – ha persino fatto mettere in discussione la legittimità della nomination di Parasite in quelle categorie, per giustificare la quale merita dare uno sguardo al regolamento d’ingaggio dell’Academy. 62

L’articolo due, in particolare, elenca tutte le condizioni affinché un film possa essere candidabile agli Oscar: oltre a dover rispettare formati audio e video molto specifici e una durata minima di almeno 40 minuti, il film deve esser stato pubblicizzato e poi proiettato in un cinema della Contea di Los Angeles almeno tre volte al giorno – di cui almeno una volta fra le 18:00 e le 22:00 – per sette giorni consecutivi. Il regolamento premette però come queste norme non si applichino a cortometraggi, documentari, film d’animazione e in lingua straniera – per i quali esistono categorie ad hoc – salvo poi cambiare le carte in tavola nell’ottavo e ultimo comma, in una di quelle sezioni apparentemente di poco conto che nei contratti truffaldini appaiono scritte in piccolo, per non essere lette. Per i film stranieri difatti, l’unica condizione aggiuntiva perché vengano candidati anche nelle altre categorie è che siano sottotitolati in inglese. Ma nella città di Hollywood, ombelico del mondo della cinematografia, la quantità di pellicole che ottemperano a queste norme è elevatissima, e dunque in netta sproporzione rispetto a quelle che negli anni sono poi riuscite ad accaparrarsi una candidatura oltre a quella per Miglior Film Straniero (si contano sulle dita delle mani). La vicinanza geografica del festival al mondo hollywoodiano – aggettivo sempre più usato con tono dispregiativo – si rivela quindi una spina nel fianco per quella fetta di cinema estero che non ne rispetti i canoni. Ad aggravare il tutto si aggiungono le regole di ammissione all’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), l’assemblea – che al 2007 contava seimila membri – deputata all’assegnazione degli Oscar e composta perlopiù da professionisti del cinema statunitense, divisi in diciassette rami fra attori, registi, produttori e così via. Scomodo

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Fra i tanti, per citare un insolubile conflitto d’interessi, spiccava Harvey Weinstein, al contempo magnate della Miramax e giudice per l’AMPAS, dalla quale venne poi estromesso per le accuse di molestie che lo riguardavano. Solo chi vinca un Oscar, o chi venga sponsorizzato nella propria candidatura a uno dei rami da due membri del medesimo, può essere eletto a socio dell’AMPAS, ma le ferree selezioni del Consiglio d’Amministrazione hanno mantenuto pressoché invariato negli ultimi anni il numero dei membri – le cui identità sono state rese anonime dal 2007, diversamente dalla quasi totalità delle giurie internazionali. Ma non è tutto: secondo uno studio condotto nel 2012 dal Los Angeles Times sulla fauna demografica dell’Academy, essa è risultata per il 94% caucasica e per il 77% di sesso maschile. Così asserragliata dietro il muro del nepotismo e dell’esclusione etnica e di genere, l’AMPAS rischia di somigliare tanto a quella cricca ariana e maschilista descritta nel Birdman di Alejandro González Iñárritu: “Ragazzini egoisti, presuntuosi e arroganti. Patetici attori ignoranti, improvvisati, impreparati, che si illudono di avvicinarsi all'arte, che si assegnano a vicenda premi per cartoni e film pornografici che dipendono dal box office del weekend”. Il risultato è un accentuarsi del già preponderante gusto “americano” dell’Academy in fatto di premiazioni, dinamica dalla quale, in un certo senso, non sembra discostarsi la solo apparente anomalia rappresentata da Parasite. Un film indiscutibilmente orientale in fatto di tematiche, ma che costituisce l’ultimo timido e più elegante passo compiuto da Bong Joon-Ho – dopo Snowpiercer e Okja – per smussare le spigolosità del cinema sudcoreano, edulcorandone ritmi e allegorie per renderli digeribili al pubblico occidentale. Scomodo

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In un frangente simile si era trovato appena un anno fa Roma, pellicola messicana in corsa per la statuetta più ambita, nomination forse facilitata dal fatto Alfonso Cuarón avesse già venduto l’anima al diavolo con Gravity, produzione americana che gli era valsa ben sette statuette. E se anche questo non avesse giocato un ruolo, chi vede un miracolo nella vittoria di Parasite non tiene conto che, sul piatto della bilancia, una sola edizione non può espiare le precedenti novantuno in cui quel codicillo (Art. 2 Comma 8) è stato sistematicamente ignorato dalla commissione. L’unica via perché l’Oscar possa imbroccare un trend positivo e costante, guadagnandosi la stima che troppi sono già disposti a dargli, è quella di emanciparsi dal vincolo della fruibilità e tenere sempre a mente come memorandum l’ennesima citazione di Birdman: “La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio”.

di Giulia D’Aleo e Carlo Giuliano 63


Press play --------------------------------------------------------------------

Istantanea dell'ascesa dei podcast, un fenomeno rimasto sopito per circa quindici anni

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Scomodo

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Il Covid19 ci ha costretto a rimanere confinati nelle nostre abitazioni, il che ci ha portati immancabilmente a scoprire e riscoprire una serie di intrattenimenti che avevamo dimenticato, che non conoscevamo o che semplicemente non avevamo mai preso in considerazione. Oltre Pornhub, che è felicemente corso incontro ai bisogni degli italiani (facendo registrare un aumento del 13% degli accessi, primato di crescita mondiale), Netflix, Amazon Prime e la vasta galassia di giornali e riviste letterarie online, gli italiani hanno approfondito le loro conoscenze di un’altra forma d’intrattenimento attualmente sulla cresta dell’onda: il podcast. Ovvero un medium non proprio nuovissimo, considerando che i primi podcast nascono nel lontano 2005, ma che sta attualmente riscoprendo una seconda giovinezza grazie alla produzione di format e puntate tematiche sempre piùelaborateeprofessionali. Gli esempi più lampanti sono Veleno di Pablo Trincia, realizzato per Repubblica, o Morgana di Michela Murgia per Storielibere.fm; nello specifico, il primo è un incrocio tra un’inchiesta giornalistica e un reportage narrativo su una setta di satanisti pedofili che ha scosso l’Italia, mentre il secondo utilizza lo storytelling per raccontare la biografia di donne fuori dagli schemi che hanno avuto un impatto sulla nostra società ma che, spesso, tendiamo a dimenticare. Podcast di questo calibro per qualità e innovazione hanno trainato l’offerta in Italia, contribuendo a trasformare il paese nel quinto per consumi a livello globale, coinvolgendo circa 2.700.000 italiani nell’ascolto quotidiano delle loro puntate preferite.

Questo incredibile balzo in avanti dei contatti ha convinto moltissime star del mondo dello spettacolo e aspiranti tali a lanciarsi nella carriera di podcaster, ampliando notevolmente l’offerta online. Ciò svela spesso, però, un’amara verità che avevamo già imparato a conoscere nelle interminabili dirette Facebook di questi giorni di quarantena: molti non hanno nulla da dire.

Questa new entry a gamba tesa, di cui ovviamente non ho perso neanche una puntata, ci ha spinto a chiederci quale futuro si prospetta per il mercato dei podcast in Italia. Ne abbiamo parlato con Rossana De Michele, fondatrice di Storielibere.fm, una delle Top 3 piattaforme più seguite di podcast insieme a Storytel e Audible. La differenza, rispetto a queste ultime due, è che i contenuti su Storielibere sono assolutamente freeshare, una caratteristica non indifferente. Lei ci ha offerto una lettura diversa della situazione: “Ci sono due modi per sviluppare i podcast: o strutturando uno Storytelling di stampo narrativo, oppure costruendo il tuo programma radiofonico da scaricare on demand, che è esattamente quello che sta facendo Fedez. Questo, però, non è da considerarsi un male perché per fare in modo che l’intero sistema di podcast si sostenga, e che si sviluppi un mercato pubblicitario vero, i numeri devono salire. Il che vuol dire che devono esserci ancora più podcast per più tipi di pubblico. Siccome Fedez e Luis Sal dispongono di un pubblico enorme, sono molto contenta che siano sbarcati su questo nuovo medium”. La risposta di Rossana apre gli occhi su un’altra realtà, tristemente nota nel nostro paese e nel mondo: per fare arte, di qualsiasi tipo, nel XXI secolo serve o la passione o il backup dell’industria del marketing. In Italia molte aziende si stanno velocemente rendendo conto che l’inserimento di spot pubblicitari all’interno dei podcast,

“Oggi possiamo trovare personaggi come Fedez e Luis Sal che intervistano la nonna di Fedez insieme a Bello Figo. Un masterpiece di varietà pop dall’altisonante e roboante titolo (Muschio Selvaggio) di cui potevamo fare tranquillamente a meno”

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E se il passato del podcasting era formato da personaggi quali Fabrizio Mele, che con il suo Alessandro Barbero al Festival della Mente ha trasposto le conferenze del noto storico in uno dei podcast più seguiti in Italia, strutturato e tenuto insieme dalla passione di entrambi, oggi possiamo trovare personaggi come Fedez e Luis Sal che intervistano la nonna di Fedez insieme a Bello Figo. Un masterpiece di varietà pop dall’altisonante e roboante titolo (Muschio Selvaggio) di cui potevamo fare tranquillamente a meno, ma comunque stabile in Top 35 Italia su Apple Podcast.

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o podcast veri e propri a livello aziendale, non sono assolutamente un brutto investimento per poche semplici ragioni: l’inserimento di una pubblicità di 30-60 secondi è difficilmente skippabile su un file audio di circa 30 minuti e, soprattutto, creare un podcast “aziendale” con un marketing intelligente può dare un valore aggiunto alla propria azienda attraverso la realizzazione di contenuti ad hoc per un pubblico interessato all’argomento trattato. “L’importante - spiega Rossana - è che le aziende non facciano un marketing “ottuso”. Non deve esserci una ricerca del branding content dal punto di vista merceologico. Il racconto deve essere una condivisione di valori tra il narratore e l’azienda, il che, spesso e volentieri, può essere un’opportunità. Non devono esserci gli “strilloni”, ma devono trasporsi i valori aziendali con dei racconti che non hanno niente a che vedere con l’azienda in sé. Le call-to-action sfacciate non funzionano mai e sono respingenti.” Una bella speranza anche se, almeno per il momento, non abbiamo una casistica sufficientemente ampia per poter ragionare su quanto le aziende italiane vadano in questa direzione. Uno dei primi tentativi è il podcast Prime Svolte commissionato dalla MINI. Dove il centro gravitazionale della narrazione orbita intorno alla tematica della “trasformazione”. Non a caso, nello stesso periodo, MINI stava operando la sua transizione verso le macchine elettriche. Questo tipo di operazioni, per quanto possano spaventare ad una prima lettura, ad una seconda potrebbero risultare l’unico modello di sviluppo sostenibile economicamente per quanto riguarda la fruizione di podcast gratuiti.

È anche vero che gli investimenti nel settore sono aumentati drasticamente negli ultimi mesi, portando, ad esempio, all'acquisizione da parte del colosso svedese Spotify della piattaforma Anchor (considerata la Youtube dei podcast) insieme a Gimlet Media, Parcast e The Ringer per la modica cifra di 400 milioni di euro. L’ingresso di Spotify nel settore è considerato un gamechanger a livello globale in quanto gli utenti Android, fino a quel momento, erano costretti ad andare su piattaforme Apple per poter usufruire dei loro podcast preferiti.

sempre più podcaster hanno subito legal strike per violazione del copyright musicale, portando alla chiusura diretta del canale (non della singola puntata), il che è un’operazione perlomeno “strana” in quanto l’effetto a lungo termine è il depotenziamento di Anchor in funzione della sua rivale Spreaker (che non è di Spotify). È divertente notare come gli stessi podcast cancellati da Anchor possono essere ascoltati ugualmente sulla piattaforma madre. A pensar male verrebbe da credere che sia un’operazione non tanto dettata dalla protezione di artisti musicali che non ricevono Royalties/Credits quanto dallo smembramento di un’azienda satellite per veicolare il traffico sulla casa madre e porsi come leader sempre più presente nel mondo dei podcast. A pensar male. Non è dato sapersi, l’unica certezza è che gli analisti comportamentali di Spotify, così bravi a matcharci con musiche che potrebbero piacerci, da più di un anno stanno studiando un algoritmo in grado di abbinarci ai podcast più adatti per i nostri gusti; il che risponderebbe ad uno dei problemi più gravi per la gran parte dei podcaster, o aspiranti tali, attualmente in circolazione: the discovery problem ovvero “come farsi trovare”. L’arma migliore fino all’ingresso di Spotify nel mercato era il passaparola o l’auto sponsorizzazione, ovvero mezzi desueti e poco producenti che il colosso svedese sta velocemente facendo scomparire, il tutto coadiuvato dal più grande terrore delle emittenti radio classiche: l’avvento del 5G. “Certo, Spotify sta sfruttando bene il momento.

“L’ingresso di Spotify nel settore è considerato un gamechanger a livello globale in quanto gli utenti Android, fino a quel momento, erano costretti ad andare su piattaforme Apple .”

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L’ingresso di Spotify nel mercato ha comportato un aumento vertiginoso della fruizione a livello internazionale ampliando ulteriormente il pubblico. L’assenza di app preimpostate in sistemi Android o il disinteresse pressocché totale di Google ha garantito a Spotify il posizionamento come piattaforma privilegiata per interazione tra utenti e podcaster, ponendolo come uno dei Leader di mercato. Viene da chiedersi se sfrutteranno questa loro posizione per tentare di strutturare un monopolio duraturo. Nello specifico, da quando Anchor è diventata un’azienda satellite di Spotify,

Scomodo

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Ma tieni conto che l’arrivo del 5G in teoria cambierà tantissimo la fisionomia del panorama. Darà la possibilità di mettersi in concorrenza diretta con le radio e, a quel punto, avere una piattaforma strutturata per i podcast sarà indispensabile. Infatti, aggiungiamo noi, prova della paura delle radio classiche è il fatto che la qualità delle trasposizioni in podcast delle puntate live sta aumentando, arrivando a prodotti sempre più confezionati come podcast veri e propri rispetto a dei riascolti online di quello che era andato in onda precedentemente. “È anche vero che al momento non posso dirti se c’è il rischio di una monopolizzazione del mercato (da parte di Spotify, ndr) anche perché sono più in una fase di espansione piuttosto che di consolidamento. Paradossalmente sono ancora piuttosto indietro… non c’è una supervisione editoriale, non ci sono Carousel… c’è una sola classifica e alcune vetrine gestite in maniera strana dall’estero (ovvero poco regionalizzate). Il lavoro che sta facendo ITunes ancora non è presente in Spotify. Quando comincerà la supervisione editoriale capiremo quale sarà la loro gettata di fuoco e potremo cominciare a preoccuparci.” In pratica: restiamo a vedere. Il consumo di podcast, ad ogni modo, registra aumenti a doppia cifra stabili ogni anno, supportati da aziende che credono in questa forma estremamente democratica d’espressione e propongono webinar e corsi d’aggiornamento gratuiti come Spreaker o Audible e, mentre l’aumento più significativo degli ascoltatori è presente in aree rurali, complice anche l’assenza di cinema, teatri o fibra larga, è un mezzo sempre più apprezzato per la fruizione domestica. Scomodo

Marzo 2020

Infatti ben il 61% degli ascoltatori preferisce ascoltare podcast tra le mura domestiche, seguito da un 25% circa che li preferisce durante gli spostamenti (magari non in tempo di quarantena). Vero è che il Covid19 ha avuto un impatto significato sugli ascolti. I dati di Storielibere. fm (gentilmente concessici da Rossana De Michele) mostrano un incremento fino a 100.000 ascolti/download a settimana mostrando come il pubblico italiano sia più che ricettivo e ponendo il podcast come medium privilegiato per l’approfondimento e l’intrattenimento. “La speranza è che il trend rimanga positivo, ovviamente. I giovani devono capire che il podcast può essere un ottimo mezzo per testare la scrittura o una sceneggiatura. Dal podcast possono uscire nuovi prodotti terzi interessanti e questo, per gli editori, è un ottimo metodo per fare scouting. Ad esempio noi dal podcast Morgana con la Murgia abbiamo tratto un libro e ne seguiranno altri. Io credo che vedremo tanti nuovi professionisti emergere e, soprattutto, nuovi talenti” Il che può offrire una speranza a tutti quei ragazzi che attualmente hanno un libro nel cassetto ma che sono spaventati dalla trafila editoriale classica fatta di tempi di risposta biblici (se presenti) da parte delle case editrici. Adesso sapete che una divertente alternativa può essere il trasformare quel libro in un prodotto tridimensionale e che, alla fine, il momento giusto per farlo è adesso… e che molto probabilmente verrà ascoltato solo su Spotify. di Alessio Zaccardini 67


STEREO8 Negli anni '70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta per dicembre da mettere in play anche su Spotify.

Jay Electronica Universal Soldier Da A Written Testimony Frequenze: Alternative rap

Il primo album di Jay Electronica, rapper dall’aura mitologica per non aver ancora pubblicato un vero e proprio progetto solista nonostante una carriera ultradecennale, è arrivato con poco preavviso ma con un incredibile hype addosso. Il risultato è un disco mistico, per certi versi anacronistico ma dotato di una grandissima forza, di cui Universal Soldier, tra citazioni del Corano e una strofa firmata JAY-Z, è un distillato perfetto.

Joan As Police Woman – The Magic Da he Deep Field Frequenze: Neo soul

uintale Frah Q tento Con ento nt Da Co Graffiti pop : nze Freque

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Come è successo ad altri artisti suoi coetanei esplosi negli ultimi anni, anche Frah Quintale è stato destabilizzato dal successo avuto con l’album Regardez Moi, che l’ha portato a fare sold out in quasi tutta Italia. Dopo aver pubblicato solo due singoli dal 2018 ad oggi, l’artista bresciano è tornato “con due dita di polvere addosso” ma anche con un rinnovato buonumore, che anima questo pezzo preso bene che è un toccasana per queste settimane di quarantena forzata.

Dopo aver suonato accanto a mostri sacri come Lou Reed, Elton John e David Sylvian, Joan Wasser ha intrapreso una carriera solista eterogenea che l’ha cementata come una delle esponenti maggiori ma anche meno in vista dell’ondata di soulwoman portata avanti da Amy Winehouse e Adele. The Magic è un inno di autoespressione artistica, rafforzato dalla polivalenza vocale della cantante americana e dal groove magnetico di organi della linea melodica principale.

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The Killers Caution Da Caution Frequenze: Alternative rock

Brandon Flowers e soci sono una delle rock band più famose dell’ultimo ventennio e ogni loro nuovo album ha un posto garantito in classifica, nonostante la sensazione generale è che i fasti di Hot Fuss siano lontani. Il singolo di lancio del loro imminente album Imploding the Mirage è però un gradito ritorno alle atmosfere soft rock dei loro esordi, un brano nel quale si incontrano influenze del synth pop degli anni ’80 con la potenza del timbro del frontman dei 4 di Las Vegas.

Jesse The Faccio NISSAN Da VERDE Frequenze: Lo-fi rock

In mezzo alla nutrita ondata di artisti nostrani che cantano in inglese Birthh occupa certamente un posto di spicco, grazie al suo timbro di velluto e alla sua sensibilità onirica che ricordano una versione aggiornata e più internazionale della prima Elisa. In Human Stuff i synth e le distorsioni si mescolano alle chitarre costruendo una ballad un po’ pop un po’ folk, un brano toccante in tutte le sue diverse sfumature.

Four Tet School Six Da teen Oceans Frequenze: Elettronica

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Mischiate in laboratorio Calcutta con Mac DeMarco e avrete Jesse The Faccio, cantautore padovano capace di unire l’istrionismo strampalato del primo con l’intimismo malinconico del secondo. Il suo ultimo album VERDE è un progetto agile e molto riconoscibile, con NISSAN che risalta come il pezzo che meglio esprime il songwriting così particolare dell’artista di Mattonella Records.

B Hum irthh an Freq Da WH Stuff uenz e: Dr OA eam pop

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L’inglese Four Tet è sicuramente uno degli artisti di musica elettronica più consistenti del panorama internazionale, con oltre quindici album e innumerevoli remix all’attivo. Il suo ultimo Sixteen Oceans suona un po’ come un more of the same della sua produzione precedente ma è comunque capace di regalare perle come School, un’epifania dissonante e avvolgente che porta l’ascoltatore indietro ai tempi dell’adolescenza.

Il produttore australiano Flume negli anni è riuscito a collaborare con artisti dal background molto eterogeneo – da Nick Murphy a Pusha T fino a slowthai – ma non era ancora riuscito a realizzare della musica insieme al suo idolo artistico Toro Y Moi. La joint track tra i due contiene sia le imperfezioni elettroniche del primo sia l’atmosfera calma del secondo e dà il meglio durante il drop melodico del ritornello.

ylist Se vuoi ascoltare questa pla tify Spo su cerca Stereo8

di Jacopo Andrea Panno 69


Dal videoclip al lungometraggio, l’ascesa di Francesco Lettieri

---------------------------------------------------------------------------Sulla scia di un balzo artistico già visto nella storia del cinema, l’esempio italiano ci arriva nel 2020. Si consideri che il primo videoclip di successo nella storia della musica, inteso e ideato come supporto visivo alle note e alle lyrics di una traccia musicale, risale a 55 anni fa e mette in scena un ragazzo scapigliato nel vicolo del Savoy Hotel di Londra. L'idea per Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan era quella di far scivolare dalle mani, a tempo con le battute, dei cartelli con il testo della canzone: D.A. Pennebaker, il regista della clip, aveva in mente una cosa semplice, quella di far capire l'importanza del testo dell'artista nella sua ambiguità, con i testi dei cartelli opportunamente ritoccati rispetto alla versione originale. Da quel primo esperimento la storia della musica, in parallelo allo sviluppo del medium di massa televisivo, si è conformata non solo alle logiche di produzione musicale, ma anche a quelle visuali. I primi esempi di regia erano sempre diretti al soggetto: si metteva davanti alla camera l’artista, si girava e si manteneva un rapporto contemplativo rispetto alla performance o di indicativo rispetto al contenuto dell’opera, senza perdersi in coordinate di luogo, tempo e soggetto. Con il passare degli anni e delle mode, subentra in questo settore l’arte cinematografica, la sua scrittura e le nuove disponibilità economiche in termini di produzione. Dal significativo Ashes To Ashes di Bowie, costato un occhio della testa per i tempi di allora, si arriva agli anni ‘90, visti come l’ascesa dei registi dal background videoclipparo. 70

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Michelle Gondry, Spike Jonze, Hype Williams e David Fincher sono solo alcuni dei primi artisti a farsi riconoscere come tali dalla regia di un videoclip, prima ancora di avere un film sottomano. La loro eredità culturale fu la prova che è possibile, nel mondo del cinema, mostrare le proprie doti registiche anche attraverso un’altra forma di formato, provvista di un proprio linguaggio e di alcune restrizioni che consentono al prodotto di essere affine alla musica che lo accompagna. Se tutto questo non venisse rispettato, si verrebbe a montare una sequenza di immagini contaminanti, che appesantiscono l’ascolto e che non valorizzano le possibili evoluzioni di un testo musicale. In Italia, oramai quasi cinque anni fa, è arrivato sulla scena un autore che, sulla scia di altri registi di videoclip “all’italiana” come Zampaglione e Frankie Hi-Nrg, si è distinto profondamente nella cultura pop-urbana. Il nome di Francesco Lettieri, classe ‘85 e di origini napoletane, è rimasto impresso nella testa degli ascoltatori della “Indiessance” italiana, il fenomeno musicale che ha stravolto il modo di intendere la produzione musicale in Italia, portando occhi e orecchie verso il mondo dell’“indipendente”.

“La storia della musica, in parallelo allo sviluppo del medium di massa televisivo, si è conformata non solo alle logiche di produzione musicale, ma anche a quelle di produzione visuale.” Scomodo

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Significato che si è perso dopo poco tempo, mantenendo tuttavia il nomignolo. La prolificità di Lettieri è stata una dei punti cardine del suo successo: nel giro di pochi anni ha diretto quasi 50 videoclip, raggiungendo attraverso i più iconici anche i 20 milioni di visualizzazioni per prodotto. In seno a questa prolificità si evidenzia dal suo reel di video anche uno stile, una forma di messinscena ricorrente nelle sue opere, che i più critici potranno vedere nell’estetica ruffiana e sempre di ritaglio rispetto all’artista o al contesto che viene descritto. D’altro canto non esiste un concorrente così efficace per impatto visivo, che mantenga dei ritmi di montaggio tra il calzante e lo sperimentale e sia provvisto il più delle volte di un reparto fotografico che supera di gran lunga molte delle uscite italiane nei cinema, reo ogni tanto di un’eccessiva patinatura. Nei contenuti si mantiene, laddove non viene messo l’artista in primo piano, sempre nell’oceano del romanticismo di casa partenopea, una moda che sta durando da qualche anno ormai e che continua a descrivere gli ambienti campani nella loro bellezza “inosservata”. In tutta franchezza va però riconosciuta la sua imprevedibilità nella proposta di regia, passando dall’inquadrare un ragazzino robusto per le zone Est dell’Urbe alla produzione di una miniserie musicale come Capri RDV, che arriva a mettere in scena una storia di amore tra gli anni ‘60 e i giorni d’oggi. Quest’ultima è rivelativa delle sue potenzialità: per tutta la durata delle cinque canzoni Lettieri cambia registro, passa

dal bianco e nero al colore, dalla macchina a mano ai montaggi fotografici, si permette anche una finta ripresa amatoriale, pur rimanendo nell’estetica dell’immagine da lui proposta. Ritornando alla premessa iniziale, il regista trentaseienne ha provato a dimostrare al pubblico di che pasta è fatto.

nerale, nella medesima chiesa, che è, ancora una volta, una lettera d’amore a Napoli, anzi due Napoli: quella “inosservata” dei protagonisti e quella dei turisti cinesi che guardano incantati la pizza fritta. Lettieri, in questo modo, fa convivere la presenza ingombrante del luogo in cui si svolge l’azione con i suoi protagonisti. Facendo prevalere la prima. I personaggi sembrano, infatti, sfilare lungo quel palcoscenico meraviglioso come comparse pronte ad andarsene e lasciare il posto alle prossime. Il film potrebbe chiamarsi Naples Tales, o simili. C’è sempre un'unica protagonista, e questo, forse, è un problema. Perché chi la affolla nel film sono, appunto, comparse. I personaggi del film appaiono fiacchi e privi di drammaticità. O comunque di una qualsivoglia tensione drammatica. La regia tuttavia cerca democraticamente di alternare la contemplazione del luogo dell’azione con i volti dei protagonisti. Dai doppi tagli curati e tatuaggi dei giovani ultras, il presente, al passato, incarnato dai vecchi sdentati, chiatti e con le t-shirt sgualcite, di cui fa parte anche il nostro protagonista, Sandro O’Mohicano, interpretato con simpatia da Aniello Arena. E sono proprio i dinosauri del tifo organizzato ad avere intorno un vago alone di romanticismo. Elemento caro al regista, canalizzato quasi esclusivamente in direzione degli scorci e scogli della metropoli partenopea. Il film fa perno sulle vicissitudini del gruppo ultras Apache, capeggiato appunto dal vecchio, e daspato, ‘O Mohicano. 22

“Lettieri è passato ad inserire nel cinema vero e proprio tutte le sue prerogative stilistiche.” Proiettandosi come un’artista maturo per il long-form cinematografico, Lettieri è passato ad inserire nel cinema “vero e proprio” tutte le sue prerogative stilistiche. La sua recentissima creatura è uscita su Netflix, Ultras, un lungometraggio di quasi due ore dove premette fin da subito di non voler esplicitamente riportare le schiere degli ultras napoletani, ma raccontare storie e personaggi legati a un gruppo di tifoseria fittizio, gli Apaches.

“Quest’ultimo è forse il vero tema preponderante del film. L’amore o, parafrasando Paolo Sorrentino le conseguenze dell’amore.”

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La Napoli “Inosservata” de O’Mohicano La patina da videoclip non lo abbandona neanche in questo esordio al cinema, Ultras, Opus n.1 di Francesco Lettieri. Un film che si apre con un matrimonio e si chiude con un fu-

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Ora però la vera leadership è in mano ai giovani, pronti a rottamare la vecchia guardia. L’immaginario calcistico convive difficilmente con il cinema. A pensarci sono pochi gli esempi di un bel film sull’argomento. In particolare sul tema del tifo organizzato c’è poco e niente. Gli ultimi due esempi recenti di film fiction sull’argomento sono Ultrà di Ricky Tognazzi e L’ultimo ultras, di Stefano Calvagna. Film entrambi didascalici, molto circoscritti a quella immagine che i media hanno del mondo degli Ultras. Lettieri di conseguenza si muove in un campo poco seminato nel contesto cinematografico italiano, lo fa però suo plasmandolo in base alla sua estetica e al suo immaginario. Immaginario popolare, fatto di facce e azioni quotidiane. Alla base di tutto il suo lavoro c’è il suo lavoro quel grande attaccamento alla tradizione della commedia popolare. Già ai tempi dei video di Liberato espliciti erano i suoi omaggi a Risi, come nel Capri RVD o nella piccola novella dei video di Tu ti scurdat e me e Te vojo bene assaje, entrambi con Liberato, i quali invece parevano rimandare a Nino D’Angelo e a quel romanticismo squisitamente di matrice partenopea. Nel film non emerge così prepotentemente la delineazione di quella che è la mentalità ultras, ma se ne intravvede una vaga traccia. Il regista sembra però essersi concentrato maggiormente sugli aspetti umani dei suoi protagonisti, le loro vicissitudini legate a sentimenti di vendetta, rivalsa, amore. E insieme a questo, come nel film di Sorrentino, l’ineluttabilità del proprio destino, quasi già scritto. Il problema però è una scrittura che non sorregge i personaggi. Non sono ben strutturati, si Scomodo

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muovono davanti alla macchina da presa per uno scopo più alto di ricerca estetica, ma un po’ fine a stessa. Se questo discorso va bene per il videoclip, con il cinema è un’altra storia. Si ha l’idea di avere davanti uno scorrere di immagini ricercate senza però una messa in scena che permetta l’empatia con i personaggi e i loro travagli. Non si riesce neanche per un attimo a fare il tifo per loro. E anche qui, se parlassimo di Neon Demon di Refn andrebbe bene. La fusione tra un’estetica contemporanea, congeniale al videoclip, e l’atavica urgenza di raccontare storie popolari, di persone, di drammi, di conflitti non riesce. Nel film non trovano compimento né una né l’altra. E, ancora, è sterile anche l’epica dello scontro. Vedendo le ultime scene, lo scontro finale, viene da pensare a Acab, un film di qualche anno fa, di Stefano Sollima. Forse ci sarebbe voluta di più di quella incisione, un po’ fumettona, che Sollima riesce a conferire ai suoi personaggi. Quel minimo di ricerca psicologica che permette di empatizzare con i nostri eroi. Questa mancanza deriva anche e soprattutto da una macchina da presa ingombrante, che svela la sua presenza troppo spesso, che non permette un’adeguata sinergia dello spettatore con la storia messa in scena sullo schermo. Ci ricorderemo sicuramente lo smanicato jeans di Sandro O’Mohicano e i mustache di Barabba. Il resto è un debole “vedi Napoli e poi muori”.

di Cosimo Maj e Daniele Gennaioli 73


Questa non è una

Giuseppe Conte, l'uomo più bello d'Italia Ormai Giuseppe Conte fa parte della nostra routine,uomo elegante, d'altri tempi, premuroso e maturo, tutto ciò che desidera una vera bimba.

I 3 FILM DEL MOMENTO Grande classico, per chi è appassionato di film d'amore, travolgente, sensuale, una storia che vi farà battere il cuore.

Le fantastiche avventure di un giovane ragazzo che sta andando incontro a una minaccia mortale. Immergetevi in questo mondo pieno di magia!

La Genesi raccontata in una chiave nuova, per chi vuole passare una serata in famiglia adatto anche ai più piccoli.

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Giuseppe Conte Il pi첫 bell'uomo del mondo

Al 2째 e 3째 posto troviamo

lebimbedigiuseppeconte

Emmanuel Macron

Il nostro avvocato <3 Il premier pi첫 sexy d'

Massimo D'Alema

Il mio papiiii *_*

di Maria Marzano

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Recensioni --------------------------------------------------------------------

Ipergigante dei Voina e la responsabilità di essere indipendenti Musica

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Indipendente è un aggettivo che riesce a mostrare orizzonti tanto ampi quanto più fa avvertire il peso della sua responsabilità, perché l’indipendenza ha un prezzo, spesso molto alto sotto vari punti di vista e non tutti vogliono pagarlo o sono disposti a farlo. Occupiamoci ora dell’abbreviazione di indipendente: Indie. Quest’ultima espressione è diventata main stream e d’utilizzo comune alla stessa velocità con cui si è affermato il tipo di musica a cui questo termine di origine inglese è associato, portandosi con se, allo stesso tempo, un’infinità di contraddizioni e permettendo la sua associazione, ahimè, all’etichetta pop: quanto più di lontano dall’indie dovrebbe esserci. Fino a un decennio fa non avremmo mai pensato - e probabilmente nemmeno auspicato - di vedere gli Zen Circus, Lo Stato Sociale e altri su un palco nazional popolare come quello di Sanremo, mentre oggi ritroviamo questo genere, o ciò che si spaccia per esso, in bando al televoto e alle major discografiche. Noi, però, pensiamo che nonostante tutto si possa respirare un aria musicale differente, una musica indipendente diversa che sappia parlare di disillusione e fallimento generazionale oltre che del sole di riccione. Da Lanciano infatti arriva, Ipergigante, ultima produzione del 2020 per la band abruzzese Voina, con la quale il gruppo è riuscito a riempire di senso l’utilizzo dell’elettronica mescolandola in maniera non banale con altre sonorità tipiche di altri generi. In brani come Mercurio cromo emerge in maniera preponderante l’allontanamento dalle loro radici sonore del post hardcore ri-

dimensionate a qualche ritornello distorto e a riff minimali per lasciare spazio a una maggiore sperimentazione di sonorità che spaziano da basi ritmiche che ricordano la trap a un cantato che in Shinigami si avvicina al rap lasciando intatto il loro sound indentitario. Se quindi da un lato emerge la volontà di seguire un percorso musicale diverso da quello che ha caratterizzato l’indie originale derivante dal punk che faceva rima con underground, da un altro rimane orgogliosamente marcata l’anima post punk, di cui è emblematica la voglia di gridare e vomitare fuori, non più come bisognerebbe “fottere il sistema prima che ci fotta” - tipico del punk -, ma di come “siamo stati fottuti” e continuiamo a vivere questo fallimento generazionale quotidianamente a livello esistenziale. La rabbia diventa autodistruzione, come anche l’amore che viene messo a parole; parole per nulla romantiche, sporche, intime, che riescono a mettere a nudo la brutale semplicità che chiunque, appartenente alla nostra generazione, ha molto probabilmente vissuto almeno una volta nella propria vita. Ci ritroviamo così davanti a un indie familiare, ma che suona diverso, perché arriva come un pugno nello stomaco e non come un testo sconnesso, dalla composizione discutibile e musicalmente banale. Ci viene sbattuto in faccia il nostro ritratto di tutti i giorni: una generazione in saldo, universitari e studenti fuori sede; un esercito cognitivo in cerca di auto valorizzazione per essere il più appetibile possibilie a chi, speriamo un giorno, ci comprerà.

Scomodo Ottobre 2019 Scomodo Marzo 2020


Soggettività che hanno smesso di cercare se stessi come se si fossero già trovati, quando invece abbiamo appena cominciato veramente a perderci. Migranti nella perenne tensione e ricerca che il nostro migrare porti a un futuro migliore, che poi migliore di cosa non lo sappiamo neanche noi. Una generazione che si sta allenando a riprodurre quella vita che in momenti di folle lucidità ha provato a schiacciare senza magari affogarla nell’alcool, senza bere per ricordare. In Ipergigante e nei due album precedenti della band abruzzese troviamo tutto questo condito con la malinconia di scelte sbagliate e rimpianti per le scelte non fatte. Ed eccoci di nuovo a riprendere, in conclusione, ciò con cui avevamo iniziato: indie come indipendente e indipendente come responsabilità. Se la musica alternative così come l’hanno pensata i Pixies, i primi Blur, i primi Arctic Monkeys, i Sonic Youth, ecc. sembra essere straniera al giorno d’oggi o diventa-

ta pane per l’alternativismo radical chic, i Voina sembrano riassumersi quella responsabilità che la vera scena indipendente porta con se. Una responsabilità necessaria per mostrare nei contenuti e nella forma quello che ciò che non è diverso da quello in cui si è immersi quotidianamente non può mostrare. In queste note e in queste parole l’indipendenza si traduce in ciò che la maggior parte dei brani oggi non dice perché non abbiamo voglia di sentircelo dire. La responsabilità assunta sta nello sbatterci in faccia che il senso che ci aveva indicato la generazione dei nostri genitori non l’abbiamo ritrovato e che abbiamo fallito perché ultimi figli di un sistema altrettanto fallito. Se volete sentirvi dire che andrà tutto bene e che ce la faremo i Voina si sono assunti la responsabilità di dirci esattamente il contrario perché Indie. di Fabrizio Tamma

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Canova/ “Eterna Bellezza” Cosa può voler dire per noi oggi immergersi fra le opere del maggior esponente del neoclassicismo? Ritrovare una dimensione di pace in cui ogni dettaglio contribuisce a elevarci verso una perfezione quasi divina. È ciò che intendeva Johann Joachim Winckelmann, il principale teorico dell’arte neoclassica, affermando che l’unica via per diventare inimitabili è l’imitazione degli antichi. Un’imitazione che non è copia sterile, ma è finalizzata a distillare le leggi della bellezza, strettamente legata, nel mondo antico, alla perfezione morale. Il massimo esempio di questa bellezza, tale da far dimenticare ogni altra cosa ed elevare al di sopra di se stessi, è l’Apollo del Belvedere, solitamente esposto ai Musei Vaticani, ma per per questa mostra in prestito al Museo Nazionale Romano.

“Canova, eterna bellezza”, all’inizio del percorso espositivo l’artista ci viene introdotto attraverso il suo autoritratto, nel quale sceglie di ritrarsi simile a Cesare, nell’atto di guardare il cielo in segno di immortalità e apoteosi. Iniziamo dunque il percorso nel suo mondo di bellezza divina, guidati da una luce che, crea un’atmosfera calda e fa emergere le statue, principalmente in marmo bianco. Siamo introdotti alla Maddalena penitente, allegoria di un popolo francese reduce da una rivoluzione che, per quanto gloriosa, ha portato con sé anche il terrore. Prima scultura esportata in Francia, riporta in auge a livello artistico il tema della religione cristiana, proibita durante la rivoluzione e ripristinata da Napoleone.

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Lo sfondo nero esalta la disperazione della santa, la solitudine di una donna determinata a portare a termine la sua penitenza. Maddalena è raffigurata nell’iconografia tipica del penitente: ha una veste legata in vita ed è inginocchiata su una roccia. La veste è succinta e il corpo sensuale, a ricordare la natura del suo peccato. In mano ha la croce di Cristo, in bronzo, che la donna guarda intensamente; piange pensando all’atroce peccato commesso dall’umanità. Le lacrime, il pathos, la coesistenza di materiali differenti, mettono in luce un legame tra Canova e Bernini, Maddalena è una nuova Proserpina, rapita dall’amore per Dio. Il tema religioso è sviluppato dalla mostra anche attraverso i modelli di monumenti funerari. Canova si distinse infatti per la capacità di trasmettere calma e riflessione di fronte al dramma della perdita di un personaggio importante per la storia. Canova amava dar forma a quei miti classici che non avevano mai avuto una rappresentazione scultorea, ma da sempre popolano la letteratura, la poesia e l’immaginario occidentale, perfetta trasposizione artistica del principio di originalità nell’imitazione. Esempio di ciò è il gruppo di Amore e Psiche stanti. Da non confondere con il ben più celebre Amore e Psiche giacenti, che si trova al Louvre, del quale il fotografo Mimmo Jodice ha realizzato scatti molto suggestivi che troviamo esposti nella mostra a Palazzo Braschi. In Amore e Psiche stanti è rappresentato l’abbraccio tenero e innocente di due ragazzi molto giovani. Amore poggia la testa sulla spalla della ragazza, che gli pone nell’ interno della mano una farfalla, leggiadra come il loro amore, che qui appare spirituale. La farfalla simboleggia l’immortalità, che nel mito di Apuleio sarà conquistata da Psiche dopo molte prove.

Nell’Amore e Psiche giacenti il rapporto fra i due è invece passionale. La favola è l’allegoria del desiderio sempre attuale della nostra anima di scoprire i segreti imperscrutabili della vita. Visitare questa mostra significa immergere lo sguardo in un caleidoscopio di personaggi mitici o storici classici, identificarsi con i relativi valori. Potenza fisica e morale viene ad esempio espressa dal gruppo dei Pugilatori, che rappresenta la leggenda di Creugante e Damosseno, narrata da Pausania. A contrapporsi due figure dalle anatomie potenti e perfettamente trattate, ma dagli sguardi differenti: un’onestà fiera appare nel primo, sete di vendetta e malvagità nel secondo, presagio dei suoi intenti sleali e omicidi. Il bassorilievo poi, su cui è rappresentata la morte di Socrate, ci fa entrare in contatto con la filosofia. Dopo aver difeso davanti a un tribunale la sua vita dedicata alla missione divina di insegnare ai concittadini la sapienza come ricerca, accetta stoicamente di bere la cicuta; una morte eroica, narrata da Platone nell’Apologia di Socrate e nel Critone. La mostra si chiude nel segno della perfezione: una danzatrice scolpita in un marmo simile a carne che ruota su se stessa mostrando la perfetta armonia e minuziosissima ricchezza di particolari di ogni suo frammento. Una visione che purifica l’animo, che annienta le passioni negative spingendo lo spettatore a perdersi nella bellezza fine a se stessa, la stessa di cui parlava John Keats in Ode on a Grecian Urn: Bellezza è verità, verità bellezza, - questo solo. Sulla terra sapete, ed è quanto basta”. Una bellezza che è eterna, che mentre tutto scorre è sempre lì. di Ivana Iebba Scomodo

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L’AVVENTO DI UNA NUOVA DIMENSIONE SPORTIVA? / NON SOLO GOMORRA Scomodo

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L’AVVENTO DI UNA NUOVA DIMENSIONE SPORTIVA? LE IMPLICAZIONI DEL COVID-19 NEL MONDO SPORTIVO, SIA REALE CHE VIRTUALE

Uno dei settori economici maggiormente colpiti dalla pandemia di COVID-19 è certamente quello sportivo: quasi tutti gli eventi sportivi, di ogni tipo e in ogni dove, sono stati sospesi a causa dell’emergenza sanitaria mondiale, con l’obiettivo di non creare luoghi di assembramento che favorirebbero inevitabilmente il contagio. In ogni caso non tutti i protagonisti si sono comportati allo stesso modo: le reazioni e le risposte al coronavirus sono state molto diverse tra loro. Infatti, durante le prime settimane dalla comparsa e dalla repentina diffusione del virus, alcuni enti sportivi hanno provato a resistere fino all’ultimo e hanno continuato la loro attività, utilizzando l’escamotage delle porte chiuse. C’è chi invece ha guardato subito in faccia la realtà. Ad esempio, mentre la Lega Basket aveva rinviato le gare addirittura prima dell’estensione della zona rossa a tutta la penisola, il calcio, anche se il numero dei contagiati era arrivato già a livelli estremamente preoccupanti, ha stretto i denti e giocato fino all’ultimo, ricevendo per questo motivo critiche dai calciatori della Juventus. Infatti l’8 Marzo la squadra piemontese ha disputato contro l’Inter la penultima gara di Seria A prima della sospensione, in un Allianz Stadium chiuso ai tifosi. Nonostante la vittoria, i bianconeri hanno pagato a caro prezzo le scelte della Lega Calcio, perché il primo calciatore positivo a covid-19 della Serie A è proprio il difensore juventino Daniele Rugani. Il giorno seguente al “derby d’Italia” la Lega, obbligata dal decreto, ha bloccato tutte le partite.

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Nel frattempo però, i calciatori infetti, che militano nella massima competizione, sono aumentati. A posteriori, la Serie A si è pentita della scelta di continuare a giocare e di essersi resa protagonista di un tira e molla che ha causato tante polemiche. E’ vero che, con le partite senza pubblico, si era scongiurato il rischio maggiore, quello di riunire in spazi ristretti decine di migliaia di persone. Tuttavia giocare a porte chiuse era indubbiamente una via di mezzo provvisoria e insoddisfacente. Lo sport senza tifo è un non-sport, viene alterato nei suoi princìpi fondamentali. Principio numero uno: in casa si vince, in trasferta è più difficile. Al contrario in Serie B, le cui gare sin dall’inizio del pericolo di contagio si sono disputate a porte chiuse, si è registrato un numero maggiore di vittorie “fuori casa” (fuori casa tra virgolette perché ovviamente i tifosi non c’erano). Claudio Ranieri, l’allenatore della Sampdoria, ha dichiarato: “Giocare a porte chiuse è la morte del calcio”, confermando la famosa storia che attribuisce al pubblico l’importanza di “dodicesimo uomo”. Per quanto sia facile puntare il dito contro la Lega Calcio, ci sono enormi interessi economici in ballo, che, certamente, non hanno permesso che la scelta della sospensione venisse presa a cuor leggero. La pandemia di Coronavirus è globale, perché ha colpito tutto il mondo, nessuno escluso. Così come in Italia, anche negli altri Paesi lo sport ha dovuto fermarsi. Tanto per cambiare, la NBA (National Basketball Association) è la competizione che ha fatto più parlare di sé. Lebron James, riguardo alla decisione di svuotare i palazzetti e giocare a porte chiuse, ha dichiarato: “Giochiamo senza il pubblico? Impossibile. Io non gioco”. Ma, questa volta, Rudy Gobert, cestista francese degli Utah Jazz, ha soffiato la prima pagina a King James. Gobert infatti è il primo giocatore della NBA ad essere risultato positivo al coronavirus. Pochi giorni prima del risultato del tampone, il francese, scherzando con i giornalisti in conferenza stampa, aveva di proposito toccato tutti i microfoni che aveva davanti: una sottovalutazione del virus che il francese ha condiviso con la stragrande maggioranza della popolazione americana fino a quando la situazione non è esplosa anche lì, comportando lo stop di tutti i maggiori campionati professionistici in tutto il Paese. I Mondiali di Sci Alpino hanno dovuto chiudere i battenti prima della fine della competizione. A causa della positività a COVID-19 di un membro dello staff tecnico, le ultime gare, che spettavano alla città svedese di Are, sono state cancellate. Poco male per gli italiani, dal momento che la classifica ha assegnato la Coppa a Federica Brignone, la prima azzurra ad aggiudicarsi il trofeo. Nonostante la “vittoria mutilata”, la sciatrice è riuscita a regalare un sorriso al nostro paese in un momento così difficile. Da questo blocco totale allo sport, rimane per noi il rammarico di non poter più sorridere grazie agli atleti che tifiamo e ammiriamo. Mentre siamo chiusi in casa, però, i vertici degli enti sportivi lavorano per sollevarsi da una crisi che sta costando loro non poco. Infatti il Coronavirus non solo ha bloccato gli eventi sportivi, ma ha anche sferrato un duro colpo agli enormi affari ad essi legati; un colpo che per qualcuno potrebbe essere da K.O.

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L’IMPATTO ECONOMICO E’ ormai un dato di fatto che dalla comparsa del Covid-19 si è registrato un crollo delle borse in tutto il mondo. Dall’Asia all’Europa, ogni mercato ha iniziato a vacillare, chi di più e chi di meno. Fino ad ora ogni ambito è stato colpito dal virus, dalla produzione industriale ai liberi professionisti, dalle associazioni di vario tipo alle ditte dei trasporti. Non è da meno l‘ambito sportivo che rientra tra quei settori che hanno dovuto bloccare ogni evento. Cosa comporterà questo stallo temporaneo? Per molti rappresenta una sconfitta, per altri una piccola vittoria. Ci si potrebbe aspettare che qualcuno abbia guadagnato dagli eventi a porte chiuse, ed in effetti così è stato, dato che l’incontro Juve-Inter ha fatto un nuovo record di ascolti su sky: in media 3.242.759 spettatori, superando il precedente record aggiudicato all’incontro Italia-Germania degli Europei 2016 che contava in media 3.161.794 spettatori. Purtroppo l’abbuffata di ascolti è durata poco, dato che il match tra Piemonte e Lombardia è stato seguito da Sassuolo-Brescia, ultima partita di serie A, giocatasi il giorno dopo. Gran parte degli italiani si sta chiedendo: quando ritornerà tutto alla normalità? Quando potrò commentare le partite al bar con gli amici? Ebbene la risposta non è ancora chiara. D'una cosa però si può parlare: quale dei tornei inizierà per primo. In questo momento sono stati congelati gli Europei, Champions League e Europa League. Stando all’articolo di Luca Marchetti, giornalista di Sky sport, ricomincerà per primo il campionato che porta più soldi; anche se ogni lega vorrebbe finire il proprio campionato, dobbiamo contemplare l'idea che potrebbe non essere possibile. La Champions League ha un giro di oltre 3 miliardi di euro e chi la vince guadagna, solo di premi partita, fino a 82 milioni di euro. Un discorso analogo lo si ha nell’ Europa League che distribuisce circa 560 milioni di euro dai gironi in poi, chi vince la coppa porta casa 14 milioni di euro. Al terzo posto per giro di affari c’è l’Europeo, che conta 2.5 miliardi di euro circa, seguito dalla Nations League. Ecco perché probabilmente sarà quest’ultima a venir cancellata per lasciare spazio agli altri campionati, mentre il campionato europeo slitterà al 2021. Citando Luca Marchetti: “segui i soldi e troverai la soluzione”. Passiamo all’Italia: il calcio italiano chiede aiuto al governo, perché questo blocco forzato sta causando ingenti danni economici alle leghe. La Federcalcio ha contattato le leghe professionistiche di calcio per redigere un resoconto completo delle perdite e dei mancati incassi causati dal coronavirus. L'obiettivo è quello di sottoporre una serie di richieste a Vincenzo Spadafora, Ministro per le politiche giovanili e lo sport, a Roberto Gualtieri, Ministro dell'economia e delle finanze della Repubblica Italiana e a Stefano Patuanelli, Ministro dello sviluppo economico. Le proposte della Figc sono di ricevere un contributo governativo che eviti perdite colossali da parte di chi investe in questo sport, dato che il crollo potrebbe scaturire una reazione a catena che coinvolgerebbe tutto il movimento sportivo. Inoltre, viene richiesta la cessione di una percentuale sulle entrate delle scommesse sportive, la defiscalizzazione, un fondo per i lavoratori e clausole di salvaguardia per garantire il conseguimento di obiettivi economici. Tutti questi movimenti sono atti a prevenire le possibili perdite che subiranno i club.

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In aggiunta le leghe, se non si dovesse tornare a giocare, perderebbero circa 430 milioni di euro tra diritti tv esteri e nazionali e Coppa Italia, circa il 30% del fatturato annuale della Serie A. Se fosse stata la Serie A a ordinare la sospensione del campionato, le testate televisive come Sky e Dazn avrebbero potuto richiedere dei corrispettivi per ripagare il danno. Fortunatamente per la Lega è stata una scelta del governo e quindi le perdite ci sono, ma per lo meno non ci sono inadempimenti da parte della Serie A. Quando lo sport va giù, trascina con sé nel baratro le televisioni private e il giro di scommesse di sportive, due settori incredibilmente redditizi. Entrambi necessitano che i campionati proseguano per sopravvivere, cosa che attualmente non sta accadendo. Giocatori, allenatori, sponsor, televisioni, tutti ci stanno rimettendo e con essi anche lo Stato, che detiene il monopolio sulle scommesse sportive. Si può benissimo dire che non è un ottimo momento per scommettere sulla propria squadra del cuore, dato che non può giocare. Di fatti, al declino degli eventi sportivi è seguito subito dopo quello del mondo delle scommesse, con un calo dell'80%, stima di Agipronews. Stando al resoconto dell’agenzia in media lo stato guadagnava 500 mila euro al giorno nel 2019, cifra che invece ad oggi, marzo 2020, è vicina ai 100 mila euro: una perdita di 400 mila euro al giorno per le casse statali. Mentre per il calcio europeo il coronavirus si sta rivelando un enorme problema, non si può dire lo stesso per la Russia e Bielorussia. La Prem’er-Liga, la massima divisione del campionato russo, è rimasta aperta fino al 18 marzo, cioè nove giorni dopo la chiusura di tutti i campionati europei. Ebbene quei pochi giorni di apertura in più rispetto agli altri campionati hanno permesso ingenti entrate per il mondo delle scommesse russe. Mentre il campionato Bielorusso ha aperto le porte agli stadi fin dal primo giorno, 19 marzo, noncurante dei rischi che potrebbero correre: “Fare la sauna, bere tanta vodka e lavorare molto per uccidere il virus” è la risposta del presidente bielorusso Alexsandr Lukashenko. Durante i giorni di quarantena, gli esports (Electronic Sports) potrebbero cogliere la palla al balzo, riempire il vuoto lasciato dagli sport tradizionali e guadagnare nuovi spettatori e interessati. Rod Breslau, un giornalista sportivo americano, ha dichiarato: “Gli Esports possono ricorrere a soluzioni alternative di cui gli altri sport non dispongono. Il pubblico sugli spalti, negli ultimi anni, è stato fantastico, ma per lungo tempo gli esports ne hanno fatto a meno. Perderemo le grandi competizioni internazionali, tuttavia la scena del competitive gaming sarà in grado di andare avanti”. Facciamo un passo indietro perché per i più scettici i videogames, a qualsiasi livello siano giocati, non possono essere considerati sport. Se cerchiamo sul dizionario Treccani la definizione di “sport”, leggiamo: “Attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui si realizza”. Sicuramente le capacità psichiche vengono sviluppate nelle esperienze videoludiche; si potrebbero avere più dubbi su quelle fisiche. Andatelo a dire ai coreani che si allenano 14 ore al giorno per primeggiare a Starcraft 2, un videogioco strategico che in Corea del Sud è considerato sport nazionale. Starcraft è il più cervellotico degli esports ed è paragonabile a una partita a scacchi in tempo reale , dove però pedoni, torri e alfieri sono sostituiti da razze aliene e mostri di ogni tipo. I pro-players di Starcraft si sfidano uno contro uno, sono in grado di compiere 300 mosse al minuto e vincono centinaia di migliaia di dollari nelle massime competizioni, come la World Championship Series.

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Inoltre in Corea sono dei veri e propri idoli delle folle, similmente ai nostri calciatori, e vengono braccati dai fan impazziti non appena escono di casa. Oltre a Starcraft, i videogames più giocati a livello competitivo sono League of Legends e Dota, nella categoria dei MOBA (Multiplayer Online Battle Arena), Overwatch e Call of Duty, tra gli sparatutto in prima persona, e Fortnite. Tra questi, League of Legends (LOL) è giocato amatorialmente da milioni di players e ,a differenza di Starcraft, è un videogame di squadra. LOL vanta di un incredibile mondo di tornei professionistici, dove, oltre all’abilità del singolo, contano tantissimo la comunicazione e l’armonia tra i componenti del team. Il montepremi totale dei Campionati del Mondo 2019 di LOL ammontava a 2,2 milioni di dollari. La prestigiosa competizione è stata guardata da 44 milioni di spettatori e alle finali, disputate alla Bercy Arena di Parigi, ha assistito un pubblico pagante di 15 mila tifosi. Tra le squadre contendenti, i vincitori sono stati i giovanissimi cinesi del team Fun Plus Phoenix. Proprio in Cina infatti, LOL è popolarissimo e ora, durante l’emergenza coronavirus, i giocatori amatoriali e gli spettatori del competitive, sono raddoppiati rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente. Anche i campionati nazionali cinesi (LOL Pro League) dispongono di premi esorbitanti di milioni di Yen e partners come la Nike. La novità del torneo di quest’anno, dovuta a Covid-19, è che i pro-players giocheranno da casa loro, non più in affollate arene, e saranno seguiti online dai fan. Oltre alle piattaforme di streaming come Youtube e Twitch, gli esports sono sbarcati in televisione in Corea, Cina e Stati Uniti. Anche nel nostro paese il fenomeno “esportivo” sta crescendo di anno in anno e raccoglie più di un milione di spettatori. Per ora l'unico canale che sta dando la giusta importanza agli esports è Dmax, con il programma interamente dedicato “House of Esports”. Il competitive gaming è un settore in crescita rapida e redditizio, che attira investitori e scommettitori. Seppur si è registrato lo stesso un calo azionario a causa del Covid-19 le aziende videoludiche si stanno riprendendo in fretta, grazie all’aumento degli utenti che hanno iniziato giocare su varie piattaforme. In data 9 marzo le azioni di Activision Blizzard erano a 57,39 dollari, e in data 19 marzo sono di 55,32; le perdite non sono ingenti ed anzi stanno continuando a salire e si può pronosticare che saliranno ancora. Lo stesso vale per EA e Zinga che, dopo una piccola caduta, stanno venendo quotati in borsa in modo molto positivo. Il chiaro vantaggio degli esports, durante il contagio, è che le competizioni si possono disputare online e nessuno si deve riunire in un singolo luogo per portarle avanti. Lo scenario di Marzo 2020 è interessante: lo sport del futuro, quello virtuale, che prende il posto di quello “palla e racchetta”. Forse non è plausibile, riusciremo insieme a superare la pandemia e torneremo a correre all’aria aperta. Ma chissà, magari ci possiamo iniziare a preparare per la prossima apocalisse online? di Julien Dagostino e Giovanni Tiriticco

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NON SOLO GOMORRA SCAMPIA SI RISCATTA TRAMITE L’ASSOCIAZIONISMO LE UTOPIE DEL GRIDAS Dicette o pappice vicino ‘a noce, ramm’ ‘o tiemp’ ca te spertose (“Disse il verme alla noce: dammi tempo che ti perforo”) è il proverbio napoletano che ha ispirato la gente di Scampia per la realizzazione del loro 38° corteo di carnevale. Nello specifico, il tema scelto per la parata di quest’anno riguarda la questione ambientale e l’urgenza di intervenire per porvi rimedio. Il tempo però è finito, per questo bisogna collaborare e agire subito per far fronte alle emergenze che interessano tutti. Questo è il significato dato alla figura dei pappici che, con tenacia e costanza, riescono a raggiungere il proprio scopo, attendendo pazientemente la vittoria sull’inesorabile scorrere del tempo, rappresentato da una clessidra che verrà presto ribaltata. Il senso di lavoro e azione dal basso ha animato anche un altro corteo di carnevale, svoltosi nel quartiere di Centocelle, periferia orientale di Roma. Quest’ultimo ha riservato, tra i vari carri allegorici, anche uno spazio per ricordare la libreria La Pecora Elettrica, luogo di aggregazione culturale di Centocelle, che nel 2019 ha subito due incendi dolosi, comunicando quindi la triste decisione di chiudere definitivamente. Nonostante ciò, come le energie e le risorse raccolte all’interno del quartiere romano non sono andate perse, così a Scampia c’è chi resiste e si mette in gioco per la causa comune. Il carnevale è vissuto nella periferia nord di Napoli come un’occasione di denuncia e critica sociale, e il cuore pulsante di tale iniziativa è il G.R.I.D.A.S. (Gruppo Risveglio dal sonno, con allusione al sonno della ragione che genera mostri di Francisco Goya). L’associazione è stata fondata nel 1981 da Felice Pignataro, Mirella La Magna, Franco Vicario ed altre persone accomunate dalla volontà di utilizzare al meglio e a vantaggio della comunità le proprie capacità artistiche e culturali. Il loro scopo è sempre stato quello di stimolare un risveglio delle coscienze e una partecipazione attiva, nella convinzione di poter cambiare il mondo attraverso l’impegno comunitario, e a partire dal 1983 hanno sempre perseguito questo obiettivo in occasione del carnevale di quartiere. Il G.R.I.D.A.S. è stato il primo ad occuparsi dell’organizzazione del corteo mediante laboratori per la costruzione delle maschere e dei carri, coinvolgendo negli anni le scuole ed altre associazioni operanti sul territorio. “Mascherarsi è negazione della propria identità per assumerne un’altra”, richiamandosi a qualcosa di magico e superiore, esterno all’uomo che compie quell’azione. Così, anche nel teatro a ruoli fissi, le maschere venivano adoperate dagli attori al fine di rendere più evidente l’identificazione con i personaggi ed amplificare la propria voce. Nel libro dedicato al carnevale del G.R.I.D.A.S., intitolato “L’utopia per le strade”, viene sottolineata la rilevanza degli “antichi e sempre ricorrenti usi delle maschere”, contribuendo a creare una vera e propria tradizione per il quartiere napoletano “senza storia”. È usanza concludere il corteo con un falò per bruciare i simboli negativi, relativi al tema d’attualità scelto per il carnevale, e far trionfare invece quelli positivi, che danzano insieme attorno al fuoco. La festa è la più antica e partecipata di Napoli, talmente importante da coinvolgere tutti, dai più piccoli ai più grandi e dal singolo quartiere alle più svariate associazioni nazionali. In apertura del corteo di quest’anno si è esibita l’Orchestra Giovanile “Musica libera tutti”, iniziativa con sede a Scampia, mentre l’animazione e le coreografie di tutta la parata sono state affidate ai ragazzi, provenienti da tutta Italia, membri della “Murga”, un’antica arte di strada fatta di percussioni, teatro e danza. Altra componente essenziale e distintiva del carnevale del G.R.I.D.A.S. è la creatività, visibile nei variopinti striscioni e nelle stravaganti costruzioni, caratteristica fondamentale fin dalla nascita dell’associazione, ad opera del fondatore Felice Pignataro con i suoi murales “parlanti”.

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Parlanti in quanto diventati la voce della protesta, quella di coloro che sono riusciti a esprimere il proprio pensiero attraverso l’arte, rendendo più vero il rapporto tra vita e cultura e allietando il grigio carcere quotidiano, mediante l’uso dei colori. “La periferia in cui viviamo è un’enorme distesa di case, palazzoni di tredici piani, allineati lungo una sorta di autostrade a doppia corsia, che allontanano e isolano abitanti e palazzi piuttosto che collegarli. Gli spazi liberi fra gli edifici, costruiti in base alla legge urbanistica 167, si sono affollati, dopo il terremoto del 1980, di altre fabbriche di case. C’è pure una grande villa comunale, finalmente inaugurata, dopo un decennio di gestazione, a fianco alle ben note “vele”, le case popolari a piramide, rivelatesi poi invivibili e in via di abbattimento e di ristrutturazione. La disumanità della configurazione è accentuata da recinzioni e cancelli che gli abitanti stessi hanno sistemato a difesa delle loro proprietà. Il desiderio di sollecitare una comunicazione umana e di abbattere le barriere è stato per noi lo stimolo, non potendole abbattere nella realtà, ad abbatterle simbolicamente dipingendole: si utilizzavano così le barriere come supporto di un discorso figurato, i muri dipinti.” Così Felice nel suo libro “Murales - utopia sui muri” presenta la realtà del quartiere di Scampia e la sua iniziativa culturale, in relazione all’impatto sul territorio di azioni esterne ed estranee alla gente di Scampia, che si è ritrovata racchiusa in immense “zone grigie”. Il quartiere non solo è finito in uno stato di degrado, ma anche in mani sbagliate: quelle della Camorra. L’insediamento della criminalità organizzata ha influenzato fortemente la forma mentis delle persone, ottenendo così il controllo anche dell’aspetto culturale della comunità. Per questo motivo, ogni tipo di alternativa alla cultura camorristica ha costituito una risorsa indispensabile per la salvezza di Scampia. Felice Pignataro ha deciso di mettere le sue enormi capacità artistiche al servizio degli “ultimi” per conseguire il bene comune e dare visibilità alle battaglie sul territorio. Nato a Roma nel 1940 e cresciuto a Mola di Bari, ha studiato a Napoli e si è poi stabilito definitivamente nella periferia della città, dal 1972 fino al 2004, quando è morto a causa di un tumore polmonare. Felice ha cominciato a dipingere fin da adolescente e coltivato il suo talento per il resto della vita, arrivando a realizzare più di 200 murales in giro per l’Italia, divenendo così uno dei più prolifici muralisti del mondo. Ciò che accomuna tutte le sue opere è la straordinaria capacità di rappresentare un pensiero mediante immagini iconografiche ma anche con locandine, sculture e autoadesivi. “Alcune forme non sono forse immediatamente comprese e ci si chiede che cosa significhino, ma anche questo è importante: incuriosire, turbare, seminare inquietudine, dal momento che una prospettiva certa e accattivante per tutti non c’è, c’è però il rischio di essere tutti uniformati nel modello dominante, e ufficiale, imposto dai media. Certo, non si può cambiare il mondo con un pennello, né mai nessuno ha fatto una rivoluzione perché convinto da un quadro. Ma la rappresentazione su un muro, costantemente visibile, di una prospettiva diversa da quella che abbiamo sotto gli occhi o che non abbiamo affatto, se turba, provoca, smuove, è già qualcosa.” La speranza è che si passi poi dai dipinti alla realtà, anche se può sembrare un orizzonte irraggiungibile bisogna continuare sempre a camminare, “perché l’utopia serve proprio a questo: a camminare”. Questo è il messaggio che Felice ha diffuso, insistendo sull’importanza di svegliarsi, essere consapevoli e agire di conseguenza, ed è sempre questo l’auspicio insito nella filosofia del G.R.I.D.A.S. Il simbolo dell’associazione, infatti, è un volto diviso in due metà: partendo da sinistra, è raffigurato un teschio con un ciglio sull’occhio, a simboleggiare una morte apparente, il sonno della ragione. Nella parte destra vi è una pagliaccia, per rappresentare la femminilità e l’allegria, ovvero la vita. Quindi, da un momento morto, quale è il sonno della coscienza, ci si risveglia, si rinasce, si torna capaci di vedere il bello in ciò che ci circonda.

PARTENDO DAL BASSO Prima di fondare il G.R.I.D.A.S., a partire dal 1967, Felice e sua moglie Mirella, hanno portato avanti un “contro-scuola”, ossia un doposcuola diverso, destinato ai bambini delle baracche del Campo A.R.A.R. di Poggioreale e poi all’I.S.E.S. di Secondigliano, sempre con l’intenzione di liberare la creatività dei più piccoli.

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Il loro primo passo è stato quello di partire dal basso, dai più giovani, in modo tale da seminare e far germogliare le potenzialità per cambiare la realtà circostante. Il processo deve nascere innanzitutto dall’interno, da un’assunzione di responsabilità da parte di chi vive in prima persona in quel mondo. Solo una volta trovata la volontà e la consapevolezza, è possibile operare dall’esterno, intervenendo sull’educazione e la formazione di coscienze critiche e libere. Maddalena è una ragazza di soli quindici anni, cresciuta a Scampia nella realtà del Lotto P, un complesso di edifici che è stato per lungo tempo lo scenario di uno dei più importanti giri di droga. Molte famiglie semplici ed oneste che vivono lì, pur non essendo coinvolte direttamente nel sistema di spaccio, sono costrette a conviverci, preoccupandosi di tenere lontano il più possibile i propri figli dalla criminalità. Maddalena studia Scienze Umane presso il liceo “Elsa Morante” di Scampia e fa parte, già da otto anni, del gruppo scout Napoli 14, con sede in Santa Maria Della Speranza, una delle chiese del quartiere. Frequenta inoltre due corsi di musica nell’Orchestra giovanile “Musica libera tutti”, organizzati dai Padri Gesuiti del Centro Alberto Hurtado. Si tratta dunque di una ragazza molto attiva e impegnata in diverse attività formative per la sua persona. Come lei, anche altri suoi coetanei partecipano alle varie iniziative presenti nel quartiere, soprattutto quelle proposte dal Centro Hurtado, quali ad esempio il doposcuola presso la “Rettoria” ed incontri di informazione su temi di attualità. Sono molti di più, però, i ragazzi che seguono la strada dell’illegalità ed entrano a far parte del sistema “malato” del loro quartiere, andando ad alimentare il fenomeno della dispersione scolastica. Bisogna quindi attivarsi per evitare che i giovani scelgano la strada sbagliata, ed è proprio questo l’obiettivo primario dell’attività svolta dalla Compagnia di Gesù nel quartiere. Daniele, un gesuita originario di Tivoli, è giunto a Scampia l’anno scorso e opera soprattutto nel mondo della Pastorale Giovanile con i ragazzi del Lotto P. Il suo compito è quello di “presenza”, ovvero di stare con loro, giocare con loro, aiutarli a studiare e instaurare un rapporto. In assenza di una cultura propria del quartiere, al di fuori di quella camorristica, è però molto difficile riuscire a creare un’identità tale da poter essere un punto di riferimento per i ragazzi. Secondo Daniele “occorre innanzitutto acquistare la fiducia dei giovani e, solo allora, si può cercare di proporre una visione differente. L'ostacolo più grande posto lungo questa strada è la loro difficoltà ad avere sogni e desideri, creatasi con il consolidamento della Camorra, come un cancro...”. I Padri Gesuiti, presenti nel quartiere dagli anni ’90, si sono sempre dedicati ad una attività essenzialmente pastorale ma, con una forte sensibilità sociale, hanno provato a offrire alla gente di Scampia opportunità culturali e lavorative. Nel 2001, padre Fabrizio Valletti ha seguito la sua missione di sperimentare un incontro fra azione religiosa, formazione culturale e promozione sociale, fondando a tale scopo il Centro Hurtado. Quest'ultimo oggi è diventato un importante polo di aggregazione per Scampia, che pone al centro la formazione della persona, partendo dallo sviluppo delle potenzialità e delle competenze. Nello specifico, i gesuiti del Centro organizzano percorsi per sopperire al fallimento della scuola nel contenere la dispersione scolastica e creare una nuova prospettiva per i ragazzi, oltre alle attività più strettamente legate alla catechesi. I risultati non sempre sono stati quelli desiderati, perciò si è deciso di proporre nuove iniziative più specializzanti e concretizzabili in opportunità di lavoro: due laboratori, di sartoria e di legatoria e restauro del libro. Per i bambini è stata istituita quella che è l’unica biblioteca pubblica nel quartiere, con l’obiettivo di unire la lettura al gioco e alla manualità. “Riparliamone” è, invece, un progetto ideato per i ragazzi dell’università che prevede degli incontri, durante i quali è possibile esporre nuovamente la propria tesi di laurea, allo scopo di condividere con i propri coetanei gli studi individuali. I giovani che partecipano a queste iniziative non sono solamente di Scampia, alcuni provengono anche da altri quartieri di Napoli o addirittura da altre città. “È emozionante soprattutto vedere i risultati raggiunti nel Lotto P, in cui è stato fatto un primo passo verso la formazione di una coscienza critica nei giovani, in grado di fare delle scelte e prendere una posizione” ha commentato Daniele. Anche la mentalità generale mostra segnali di cambiamento; il ruolo della donna, ad esempio, è stato rivalutato profondamente, perché ci si è accorti che la strada maschilista non può più funzionare. L'associazione “Dream Team – Donne in rete” è nata proprio a sostegno delle donne di Scampia, per riscattare la loro dignità e i loro diritti, accompagnandole in processi e progetti di rigenerazione e rilancio culturale, economico e sociale. Si tratta di uno strumento di inclusione sociale, in aggiunta alle altre associazioni operanti nel quartiere per rendere la comunità il più coesa e collaborativa possibile.

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… E LA COMUNITÀ UNITA Sonia è una volontaria presso il campo rom di Scampia, insieme ai gesuiti del Centro Hurtado operanti sul posto. Ha iniziato e continuato il suo servizio a partire dal 2017, facendolo diventare parte integrante della sua quotidianità. Riesce a far conciliare la sua attività nella ASL come terapista in riabilitazione e quella di volontaria, organizzando quindi in funzione di esso la propria vita famigliare e lavorativa. Le condizioni in cui vivono i rom a Scampia, ormai da più di 20 anni, sono precarie; i campi, senza acqua e senza luce, dove i bambini rischiano di essere morsi dai topi, rappresentano una situazione davvero insostenibile e delicata. Questo è uno dei motivi per cui i volontari nei campi rom sono molto pochi e prevalentemente adulti; i ritmi sono molto pesanti e il relazionarsi con una realtà così diversa può risultare più difficile del previsto. Purtroppo, la mancanza di intervento e di risoluzioni da parte delle amministrazioni pubbliche ha lasciato immutate le evidenti situazioni di difficoltà. Nel 2002, dopo la costruzione di una baracca per la comunità rom di Scampia, è nata l’associazione di promozione sociale “Chi rom... e chi no”, a partire dalla creazione di relazioni significative con questa importante realtà sociale e culturale del quartiere. Il significato del nome riprende dal dialetto napoletano “rom”, che vuol dire “dorme” (chi dorme e chi no), per alludere alla necessità di risvegliarsi e prendere coscienza. L’obiettivo è infatti quello di attivare concreti processi di cittadinanza e partecipazione e favorire la trasformazione positiva del territorio. Inoltre, “Chi rom... e chi no” ha dato vita a La “Kumpania Impresa Sociale”, un progetto gastronomico interculturale volto a coinvolgere donne rom e donne italiane per farle collaborare, e sperimentare, attraverso la cucina, modelli culturali diversi dal proprio, sfruttando al meglio i momenti di convivialità. Ciò che smantella tutti i pregiudizi è il fare insieme, la condivisione di attività ed esperienze. Lo spazio affidato ad entrambe le iniziative è il “Chikù”, un’area gastronomica e culturale, location per convegni ed eventi, ristorante e punto di aggregazione del quartiere, nel quale si sono svolti anche i festeggiamenti della “Murga” di Scampia, la sera precedente al corteo di carnevale.

VERSO IL RISVEGLIO Il problema principale della periferia, è innegabile, è il degrado, un dato di fatto evidente cui, però, occorre far fronte. Abbattendo le Vele non si risolvono le cause che hanno generato il degrado, poiché una demolizione non implica necessariamente un’immediata ricostruzione. “L’abbattimento della vela è un fatto simbolico, quasi come un rito apotropaico” ha commentato Sonia. In una realtà come quella di Scampia, che è stata per troppo tempo abbandonata a sé stessa, c’è bisogno di un’azione di rigenerazione comune, affinché si verifichi una trasformazione reale. Si tratta di una realtà sotto l’occhio dei riflettori, sia del mondo televisivo sia del palcoscenico politico, perciò sperimentare personalmente cosa è Scampia e chi sono le persone che vi abitano è un’esperienza formativa che sorprende e trasforma il proprio punto di vista. “Bisogna raccontare le brutture che qui la cattiva politica ha imposto, ma senza luoghi comuni, e poi bisogna mostrare il riscatto che il popolo ha messo in piedi” come ha detto Luigi de Magistris, sindaco di Napoli. Negli anni molte cose sono cambiate e stanno cambiando tuttora, insieme alla volontà di liberarsi dell’etichetta, lo stigma di Scampia che inizia a pesare sui cittadini. La speranza c’è... ed è quella che finalmente non si scappi più, si prenda coscienza della propria forza e ci si riappropri del diritto di decidere del proprio destino. Per dimostrare che Scampia non è solo Gomorra. di Elena Lopriore

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