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L’espansione del secondo pilastro diEmilio Di Marziantonio
from N. 30 MARZO 2020
by Scomodo
L’espansione del secondo pilastro
Il sistema sanitario italiano si regge su tre pilastri: la sanità pubblica, la sanità integrativa e la sanità privata. Il primo di questi garantisce l’erogazione di una pluralità di prestazioni sanitarie, identificate dai c.d. LEA (livelli essenziali di assistenza). Le prestazioni non garantite dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN) sono coperte dai fondi sanitari integrativi (secondo pilastro) mediante il rimborso agli iscritti delle spese sostenute per prestazioni extra
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LEA; quali l’assistenza socio-sanitaria per soggetti non autosufficienti e quella odontoiatrica.
Si compone così un quadro nel quale il SSN ricopre un ruolo predominante, in ossequio al diritto alla salute sancito dall’art.32 della Costituzione; affiancato da un sistema mutualistico che garantisce agli scritti, dietro pagamento di contributi, la copertura finanziaria per una serie di prestazioni ritenute non essenziali ma integrative; lasciando, in ultimo, la libertà ai cittadini di potersi rivolgere alla sanità privata o di stipulare polizze assicurative (terzo pilastro).
Dal mutualismo dell’800 ai Fondi Sanitari Integrativi I primi Fondi sanitari in Italia risalgono all’800, costituiti da artigiani ed operai per far fronte all’esigenza di munirsi di strumenti in grado di garantire loro una tutela in caso di malattie, invalidità, guerre, povertà e vecchiaia. Sono le Società di Mutuo Soccorso affiancate, più tardi, dagli Istituti mutuo-previdenziali. Questi ultimi si svilupperanno molto nel corso degli anni venti del ‘900, essendo divenuto obbligatorio per ogni cittadino essere iscritto ad uno di tali Istituti. Nascono, infatti, in quel periodo numerose Mutue sanitarie (INAM, ENPAS, INADEL), differenziate per categoria di appartenenza e per livello di copertura sanitaria garantita. Il settore sanitario italiano, per lungo tempo, sarà sostanzialmente costituito dalle Mutue; fino a quando, la loro frammentazione e l’enorme cumulo debitorio, portarono alla loro soppressione e all’istituzione, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale. All’uscita di scena delle Mutue non parteciparono anche le Società di Mutuo Soccorso che, invece, rimasero operanti, in quanto l’adesione a queste non era obbligatoria ma volontaria e, inoltre, esse erano attive anche in settori diversi dall’assistenza sanitaria. La legge istitutiva del SSN prevedeva, infatti, la possibilità di integrare le prestazioni erogate dal servizio pubblico tramite il ricorso ad assicurazioni private o a forme di mutualità volontaria. Solo nel 1992, contemporaneamente all’articolazione del sistema sanitario in tre pilastri, fu introdotta la categoria dei Fondi Sanitari Integrativi, nella quale confluirono anche le Società di Mutuo Soccorso. Il legame con il mondo del lavoro, genitore di questa modalità di assistenza, è rimasto tutt’ora molto forte: esistono FSI destinati esclusivamente a diverse categorie professionali (l’EMPAM per i medici, la Cassa Forense per gli avvocati…) e numerosi contratti collettivi ne prevedono l’iscrizione dei lavoratori (il Fondo Mètasalute per i metalmeccanici). Così, l’eredità mutualistica ottocentesca fu raccolta da tali fondi; l’ambito di operatività dei quali, come si accenna in apertura, inizia laddove finisce il campo di operatività del SSN.
Sanità integrativa sempre più sostitutiva La sanità integrativa sta rivestendo sempre di più un ruolo di sanità sostitutiva, entrando in concorrenza con quella pubblica. A causa di una normativa incompleta e frammentaria, in materia, vige sostanzialmente un regime di “deregulation” che dà vita a situazioni paradossali.
Se da una parte, infatti, la norma prevede che, visto lo spiccato interesse sociale, i fondi sanitari integrativi (FSI) siano enti no-profit; dall’altra, prescrive che essi per essere considerati tali, possano destinare soltanto il 20% delle risorse alla copertura di prestazioni integrative; riservando il restante 80% a prestazioni sostitutive, ossia trattamenti già disponibili presso il SSN. Sicuramente una previsione normativa singolare considerando che, essendo no-profit, godono di un regime fiscale differenziato. Agevolazioni che la normativa riconosce loro non solo in relazione alle prestazioni di sanità integrativa ma a tutte quelle da loro coperte. Ciò contribuisce a spiegare il costante trend di crescita che negli ultimi anni sta vivendo tale settore: oggi i fondi sono 322 contro i circa 30 del 1995 con un numero di iscritti salito da 1 milione ai 12,5 attuali. Analizzando il dato emerge che solo il 2% di essi ha funzione esclusivamente integrativa; al contrario, la quasi totalità rivolge circa il 70% delle risorse disponibili per il rimborso di prestazioni sostitutive che, tra l’altro, vengono erogate in prevalenza da strutture private, in forza di accordi stipulati dai fondi stessi. Pertanto stiamo assistendo alla deriva di un settore, normativamente previsto come no-profit, verso spiagge contaminate dalla logica del profitto. Se da una parte, infatti, aumentano gli iscritti e così le risorse; dall’altra, i fondi rimborsano sempre meno. Ingenti somme dei contributi versati vengono assorbite da costi di gestione e da contratti di assicurazione che i fondi stipulano per garantire il loro rischio. Perché riassicurarsi se il patrimonio di tali enti, vista la maggiore redditività, sostanzialmente cresce? Ciò desta più di qualche perplessità, non può forse dirsi che i FSI facciano il gioco del settore assicurativo? Certamente quest’ultimo, per le motivazioni suddette, ha sfruttato il fertile terreno per gettare un seme, giungendo, negli anni, ad infestare l’intero campo; come dimostra un dato: l’85% dei Fondi Sanitari Integrativi sono controllati, in qualità di gestori, dalle compagnie assicurative. Compagnie che, vista la difficoltà riscontrata in Italia nel diffondere la cultura della polizza sanitaria, hanno astutamente malleato un settore non di loro competenza. A favorire tali dinamiche hanno contribuito, inoltre, la mancanza di trasparenza e di controlli che vige in materia: l’anagrafe dei Fondi Sanitari Integrativi, istituita presso il Ministero della Salute (Decreto Turco, 2008), non è accessibile al pubblico e nessun sistema di controllo è stato attuato, né tantomeno un regime sanzionatorio. Per meglio precisare: interventi a riguardo erano previsti nel decreto legislativo del ’92 (art 8 e 9) ma, esso non ha mai conosciuto la luce per mancanza di alcuni decreti attuativi. È mancata, dunque, la volontà politica necessaria affinché tale settore rivesta effettivamente il ruolo ad esso assegnato.
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Effetti collaterali Quali sono le conseguenze dell’espansione incontrollata del secondo pilastro? Questo fenomeno sta minando fortemente la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale. Riconoscendo ai Fondi agevolazioni fiscali riguardo qualsiasi prestazione da essi coperta e non limitandole, quindi, esclusivamente a quelle di sanità integrativa, si sta di fatto finanziando un sistema sanitario parallelo che eroga i medesimi trattamenti già garantiti dal servizio pubblico. Finanziamento che si sostanzia nel mancato gettito per lo Stato, dovuto alle deduzioni e detrazioni riconosciute a tali enti. Una recente stima dell’ISTAT, dimostra che la spesa fiscale, derivante dalle agevolazioni riconosciute al secondo pilastro, ammonta a 3,3 miliardi di euro. Somma che potrebbe essere investita nel SSN, che da anni non conosce altro che il definanziamento. L’espansione di questo settore, pertanto, non comporta una riduzione della spesa che lo Stato deve affrontare per la sanità; tutt’altro! Costituisce, almeno, un vantaggio per il privato cittadino ad essi iscritto? Solo in parte. Questo, infatti, versa un contributo, una quota del quale volta a garantire prestazioni a lui già accessibili presso il SSN, finanziato dalla fiscalità generale; si ritrova così a pagare due volte la stessa prestazione. La transizione da un sistema universalistico, com’è oggi quello italiano, verso un sistema misto, comporta, dunque, l’aumento non solo della spesa dei singoli privati ma anche di quella pubblica. A dimostrazione di ciò, rilevante è il dato americano: l’incidenza della spesa pubblico-privata sul PIL è del 17,2%. Negli Stati Uniti sostanzialmente la sanità pubblica assicura prestazioni ai suoi assistiti pagandogli polizze assicurative.
Questo trend, trattato ampiamente da una grande letteratura, è spiegabile in vari modi. Innanzitutto, man mano che si allarga l'influenza del sistema assicurativo sull'erogazione delle cure, si riduce la possibilità di controllare i prezzi. I prezzi tendono a crescere. In secondo luogo, l'attività stessa delle strutture assicurative ha altissimi costi amministrativi, pari al 25% complessivo delle prestazioni. In Italia la spesa pubblica del Servizio sanitario nazionale è più bassa, aggirandosi intorno al 12-13%. Dei risvolti di una simile transizione, non preoccupa solamente il dato economico, ma, soprattutto, l’aumento delle diseguaglianze sociali. L'incentivo alla sanità privata indebolisce la sanità pubblica, ed esclude milioni di cittadini a basso reddito, che non possono dotarsi di assicurazioni o fondi sanitari; come ad esempio i disoccupati. Si incentiva un accesso ai servizi differenziato, privilegiando chi ha un’assistenza integrativa e creando un’ulteriore discriminazione, non solo in base al reddito, ma anche alla posizione lavorativa.
L’attenzione prestata dai privati per il mercato sanitario trova fondamento nell’altissima redditività che gli investimenti in tale settore garantiscono (pari al 115-150%). Opportunità che soltanto un sistema sanitario pubblico, incardinato sulla base di principi di universalità ed eguaglianza, sa tradurre, oltre che in termini economici, soprattutto in diritti assoluti, attribuendo all’investimento un valore inestimabile. Ciò, alla luce anche del particolare periodo di crisi contemporaneo, ci impone una riflessione sul modello di sanità che vogliamo per il futuro del paese.
di Emilio Di Marziantonio • (I dati e le analisi degli stessi, sono stati principalmente tratti dal Rapporto GIMBE del 2019)