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e Daniele Gennaioli

Dal videoclip al lungometraggio, l’ascesa di Francesco Lettieri ---------------------------------------------------------------------------- Sulla scia di un balzo artistico già visto nella storia del cinema, l’esempio italiano ci arriva nel 2020.

Si consideri che il primo videoclip di successo nella storia della musica, inteso e ideato come supporto visivo alle note e alle lyrics di una traccia musicale, risale a 55 anni fa e mette in scena un ragazzo scapigliato nel vicolo del Savoy Hotel di Londra. L'idea per Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan era quella di far scivolare dalle mani, a tempo con le battute, dei cartelli con il testo della canzone: D.A. Pennebaker, il regista della clip, aveva in mente una cosa semplice, quella di far capire l'importanza del testo dell'artista nella sua ambiguità, con i testi dei cartelli opportunamente ritoccati rispetto alla versione originale. Da quel primo esperimento la storia della musica, in parallelo allo sviluppo del medium di massa televisivo, si è conformata non solo alle logiche di produzione musicale, ma anche a quelle visuali. I primi esempi di regia erano sempre diretti al soggetto: si metteva davanti alla camera l’artista, si girava e si manteneva un rapporto contemplativo rispetto alla performance o di indicativo rispetto al contenuto dell’opera, senza perdersi in coordinate di luogo, tempo e soggetto. Con il passare degli anni e delle mode, subentra in questo settore l’arte cinematografica, la sua scrittura e le nuove disponibilità economiche in termini di produzione. Dal significativo Ashes To Ashes di Bowie, costato un occhio della testa per i tempi di allora, si arriva agli anni ‘90, visti come l’ascesa dei registi dal background videoclipparo.

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Michelle Gondry, Spike Jonze, Hype Williams e David Fincher sono solo alcuni dei primi artisti a farsi riconoscere come tali dalla regia di un videoclip, prima ancora di avere un film sottomano. La loro eredità culturale fu la prova che è possibile, nel mondo del cinema, mostrare le proprie doti registiche anche attraverso un’altra forma di formato, provvista di un proprio linguaggio e di alcune restrizio- ni che consentono al prodotto di essere affine alla musica che lo accompagna. Se tutto questo non venisse rispettato, si verrebbe a montare una sequenza di immagi- ni contaminanti, che appesantisco- no l’ascolto e che non valorizzano le possibili evoluzioni di un testo musicale. In Italia, oramai qua- si cinque anni fa, è arrivato sulla scena un autore che, sulla scia di altri registi di videoclip “all’italia- na” come Zampaglione e Frankie Hi-Nrg, si è distinto profonda- mente nella cultura pop-urbana. Il nome di Francesco Lettieri, clas- se ‘85 e di origini napoletane, è ri- masto impresso nella testa degli ascoltatori della “Indiessance” ita- liana, il fenomeno musicale che ha stravolto il modo di intendere la produzione musicale in Italia, portando occhi e orecchie ver- so il mondo dell’“indipendente”.

“La storia della musica, in parallelo allo sviluppo del medium di massa televisivo, si è conformata non solo alle logiche di produzione musicale, ma anche a quelle di produzione visuale.”

dal bianco e nero al colore, dalla macchina a mano ai montaggi fotografici, si permette anche una finta ripresa amatoriale, pur rimanendo nell’estetica dell’immagine da lui proposta. Ritornando alla premessa iniziale, il regista trentaseienne ha provato a dimostrare al pubblico di che pasta è fatto. Proiettandosi come un’artista maturo per il long-form cinematografico, Lettieri è passato ad inserire nel cinema “vero e proprio” tutte le sue prerogative stilistiche. La sua recentissima creatura è uscita su Netflix, Ultras, un lungometraggio di quasi due ore dove premette fin da subito di non voler esplicitamente riportare le schiere degli ultras napoletani, ma raccontare storie e personaggi legati a un gruppo di tifoseria fittizio, gli Apaches. La Napoli “Inosservata” de O’Mohicano La patina da videoclip non lo abbandona neanche in questo esordio al cinema, Ultras, Opus n.1 di Francesco Lettieri. Un film che si apre con un matrimonio e si chiude con un funerale, nella medesima chiesa, che è, ancora una volta, una lettera d’amore a Napoli, anzi due Napoli: quella “inosservata” dei protagonisti e quella dei turisti cinesi che guardano incantati la pizza fritta. Lettieri, in questo modo, fa convivere la presenza ingombrante del luogo in cui si svolge l’azione con i suoi protagonisti. Facendo prevalere la prima. I personaggi sembrano, infatti, sfilare lungo quel palcoscenico meraviglioso come comparse pronte ad andarsene e lasciare il posto alle prossime. Il film potrebbe chiamarsi

Naples Tales, o simili. C’è sempre un'unica protagonista, e questo, forse, è un problema. Perché chi la affolla nel film sono, appunto, comparse. I personaggi del film appaiono fiacchi e privi di drammaticità. O comunque di una qualsivoglia tensione drammatica. La regia tuttavia cerca democraticamente di alternare la contemplazione del luogo dell’azione con i volti dei protagonisti. Dai doppi tagli curati e tatuaggi dei giovani ultras, il presente, al passato, incarnato dai vecchi sdentati, chiatti e con le t-shirt sgualcite, di cui fa parte anche il nostro protagonista, Sandro O’Mohicano, interpretato con simpatia da Aniello Arena. E sono proprio i dinosauri del tifo organizzato ad avere intorno un vago alone di romanticismo. Elemento caro al regista, canalizzato quasi esclusivamente in direzione degli scorci e scogli della metropoli partenopea. Il film fa perno sulle vicissitudini del gruppo ultras Apache, capeggiato appunto dal vecchio, e daspato, ‘O Mohicano. 22

“Lettieri è passato ad inserire nel cinema vero e proprio tutte le sue prerogative stilistiche.”

“Quest’ultimo è forse il vero tema preponderante del film. L’amore o, parafrasando

Paolo Sorrentino le conseguenze dell’amore.” Significato che si è perso dopo poco tempo, mantenendo tuttavia il nomignolo. La prolificità di Lettieri è stata una dei punti cardine del suo successo: nel giro di pochi anni ha diretto quasi 50 videoclip, raggiungendo attraverso i più iconici anche i 20 milioni di visualizzazioni per prodotto. In seno a questa prolificità si evidenzia dal suo reel di video anche uno stile, una forma di messinscena ricorrente nelle sue opere, che i più critici potranno vedere nell’estetica ruffiana e sempre di ritaglio rispetto all’artista o al contesto che viene descritto. D’altro canto non esiste un concorrente così efficace per impatto visivo, che mantenga dei ritmi di montaggio tra il calzante e lo sperimentale e sia provvisto il più delle volte di un reparto fotografico che supera di gran lunga molte delle uscite italiane nei cinema, reo ogni tanto di un’eccessiva patinatura. Nei contenuti si mantiene, laddove non viene messo l’artista in primo piano, sempre nell’oceano del romanticismo di casa partenopea, una moda che sta durando da qualche anno ormai e che continua a descrivere gli ambienti campani nella loro bellezza “inosservata”. In tutta franchezza va però riconosciuta la sua imprevedibilità nella proposta di regia, passando dall’inquadrare un ragazzino robusto per le zone Est dell’Urbe alla produzione di una miniserie musicale come Capri RDV, che arriva a mettere in scena una storia di amore tra gli anni ‘60 e i giorni d’oggi. Quest’ultima è rivelativa delle sue potenzialità: per tutta la durata delle cinque canzoni Lettieri cambia registro, passa

Ora però la vera leadership è in mano ai giovani, pronti a rotta- mare la vecchia guardia. L’im- maginario calcistico convive difficilmente con il cinema. A pensarci sono pochi gli esempi di un bel film sull’argomento. In particolare sul tema del tifo organizzato c’è poco e niente. Gli ultimi due esempi recenti di film fiction sull’argomento sono Ultrà di Ricky Tognazzi e L’ultimo ultras, di Stefano Cal- vagna. Film entrambi didasca- lici, molto circoscritti a quella immagine che i media hanno del mondo degli Ultras. Lettieri di conseguenza si muove in un campo poco seminato nel con- testo cinematografico italiano, lo fa però suo plasmandolo in base alla sua estetica e al suo immaginario. Immaginario po- polare, fatto di facce e azioni quotidiane. Alla base di tutto il suo lavoro c’è il suo lavoro quel grande attaccamento alla tradizione della commedia po- polare. Già ai tempi dei video di Liberato espliciti erano i suoi omaggi a Risi, come nel Capri RVD o nella piccola novella dei video di Tu ti scurdat e me e Te vojo bene assaje, entrambi con Liberato, i quali invece pareva- no rimandare a Nino D’Angelo e a quel romanticismo squisita- mente di matrice partenopea. Nel film non emerge così pre- potentemente la delineazione di quella che è la mentalità ul- tras, ma se ne intravvede una vaga traccia. Il regista sembra però essersi concentrato mag- giormente sugli aspetti umani dei suoi protagonisti, le loro vicissitudini legate a sentimen- ti di vendetta, rivalsa, amore. E insieme a questo, come nel film di Sorrentino, l’inelut- tabilità del proprio destino, quasi già scritto. Il proble- ma però è una scrittura che non sorregge i personaggi. Non sono ben strutturati, si muovono davanti alla macchi- na da presa per uno scopo più alto di ricerca estetica, ma un po’ fine a stessa. Se questo di- scorso va bene per il videoclip, con il cinema è un’altra storia. Si ha l’idea di avere davanti uno scorrere di immagini ricercate senza però una messa in sce- na che permetta l’empatia con i personaggi e i loro travagli. Non si riesce neanche per un attimo a fare il tifo per loro. E anche qui, se parlassimo di Neon Demon di Refn andrebbe bene. La fusione tra un’esteti- ca contemporanea, congeniale al videoclip, e l’atavica urgenza di raccontare storie popolari, di persone, di drammi, di con- flitti non riesce. Nel film non trovano compimento né una né l’altra. E, ancora, è sterile anche l’epica dello scontro. Vedendo le ultime scene, lo scontro fina- le, viene da pensare a Acab, un film di qualche anno fa, di Ste- fano Sollima. Forse ci sarebbe voluta di più di quella incisio- ne, un po’ fumettona, che Sol- lima riesce a conferire ai suoi personaggi. Quel minimo di ri- cerca psicologica che permette di empatizzare con i nostri eroi. Questa mancanza deriva anche e soprattutto da una macchina da presa ingombrante, che svela la sua presenza troppo spesso, che non permette un’adegua- ta sinergia dello spettatore con la storia messa in scena sullo schermo. Ci ricorderemo sicu- ramente lo smanicato jeans di Sandro O’Mohicano e i musta- che di Barabba. Il resto è un de- bole “vedi Napoli e poi muori”.

di Cosimo Maj e Daniele Gennaioli

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