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Natural Born Oscars di Carlo Giuliano e Giulia D'Aleo

Natural Born Oscars --------------------------------------------------------------------------------------------------------- Come l’ultima edizione degli Academy Awards ha messo in scena una rivoluzione ingannevole

E’ nato prima l’Oscar o il Blockbuster? Anche questa volta nessun vento d’innovazione ha spogliato gli Oscar delle vesti in cui annualmente continuano a riproporsi, in un’edizione nuova ma perennemente uguale a se stessa. Nonostante alcuni elementi fuori dal comune, gli Oscar continuano a crogiolarsi nei propri schemi di autoreferenzialità e “americacentrismo”, che non sono altro che strumenti funzionali al raggiungimento dello scopo ultimo del festival dal 1927: «sostenere lo sviluppo del cinema statunitense».

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Proprio nella scelta di sostenere regolarmente un medesimo tipo di cinema risiede l’immobilità del festival, le cui nomination annualmente mettono in atto una corsa all’incasso, dando ulteriore visibilità ai blockbuster che si erano già precedentemente appropriati delle sale. L’immensa copertura mediatica che investe gli Academy Awards, quindi, conferisce loro il potere di influenzare le sorti dell’industria cinematografica - non si tratta, ovviamente, di una regola – tuttavia a essere premiati sono quasi sempre film già popolari, le cui case di produzione e distribuzione hanno speso decine di milioni di dollari in costose campagne di promozione. L’aspetto economico sembra inoltre accomodarsi con prepotenza sempre maggiore al tavolo della giuria, che quest’anno ha distribuito le candidature a una rosa di film che nella loro totalità avevano conquistato 747,2 milioni di dollari ai botteghini dei cinema americani. Performance sorprendente, ancor di più se si considera che nella storia recente degli Oscar è seconda soltanto a quella dell’anno scorso

che, sorretta dai 700 milioni di Black Panther, primo cinecomic della storia ad essere candidato come miglior film, aveva raggiunto 1,26 miliardi di dollari. A capeggiare quest’anno erano invece Joker con Joaquin Phoenix che, con il suo miliardo di dollari di incasso globale, è il cinecomic più remunerativo di sempre, oltre che quello con maggior numero di nomination, seguito a ruota da Parasite e C’era una volta...a Hollywood. Ancora una volta è il trionfo del mercato, alimentato e assecondato insieme ai gusti del pubblico, il quale può ritrovare tra le candidature i film che ha apprezzato di più in sala. Pertanto, ingabbiati nei meccanismi di cui essi stessi si rendono schiavi, gli Oscar non hanno avuto, neanche quest’anno, il coraggio di staccarsi dalle cifre del botteghino, dalle quali si fanno inevitabilmente condurre.

Eppure nemmeno l’aura di Eastwood, ormai navigato vincitore di quattro Academy Awards, è riuscita a compensare il flop assoluto del film nelle sale statunitensi; Richard Jewell, infatti, alla prima settimana del box office ha raggiunto soltanto i 4.7 milioni di dollari, diventando la peggiore pellicola del regista per incassi all’esordio.

I soliti ignoti Tanti i piccoli esclusi dal festival, rei di non aver sfondato in sala, che pure dalla candidatura avrebbero ricavato la notorietà necessaria a generare i meritati incassi. Sorprende meno quindi la quasi totale assenza dell’ultima pellicola di Clint Eastwood dalle nomination, che riesce a strappare solo quella per Miglior Attrice Non Protagonista a Kathy Bates. Il film, che con una regia essenziale ma potente si avvale di una storia vera per ritornare alla celebrazione dell’eroismo americano, in una chiave anti-sistema inedita al regista, vede tra l’altro una meravigliosa interpretazione di Paul Walter Hauser nei panni del protagonista, che domina ogni scena con genuino talento.

“Un vero e proprio fenomeno di “oscarcentrismo” intorno al quale sembrano orbitare tutte le altre kermesse cinematografiche.”

Se neanche Eastwood, con il suo canonico “film da Oscar”, è riuscito a superare l’ostacolo dei profitti e ad affermarsi tra le nomination, nessuna speranza poteva avere The Lighthouse di Robert Eggers che, seppur ampiamente acclamato dalla critica, non ha fatto furore in sala. Immersi in una fotografia in bianco e nero che lascia ancora più spazio alle interpretazioni, Robert Pattinson e, soprattutto, un ipnotico William Dafoe, si cimentano in una brillante prova attoriale, probabilmente lontana dal grande pubblico per la teatralità che la caratterizza. Il meritato riconoscimento giunge con la candidatura di entrambi e la vittoria per Dafoe, agli Independent Spirits Awards. Questi premi cinematografici americani vengono assegnati dall’associazione no-profit Film Independent ai migliori prodotti del cinema indipendente realizzati con meno di 22.5 milioni di budget, durante una cerimonia che si svolge annualmente il giorno prima della degli Oscar. Il festival, che dà rilievo alle produzioni minori e che è estraneo al sistema dei maggiori studios, ha illuminato anche Diamanti Grezzi (Uncut Gems) dei fratelli Safdie, progetto in lavorazione dal 2009 che ha raggiunto i fondi necessari alla realizzazione soltanto dieci anni dopo, quando i due registi avevano ormai ottenuto i consensi di critica e pubblico, nonché il sostegno di un produttore esecutivo d’eccezione, Martin Scorsese, per il loro ultimo e più personale film.

Snobbata agli Oscar, la pellicola convince la giuria indipendente che la insignisce di tre Spirit Awards sui cinque per i quali era candidata: oltre a regia e montaggio, il premio per Miglior Attore all’interpretazione rivelazione di Adam Sandler, apprezzato quasi all’unanimità.

Con una performance energica e autentica che si aggiunge ai limitati ma significativi ruoli drammatici dell’attore, sembrava si potesse quasi cantare vittoria su una nomination agli Oscar, i cui giurati non ne hanno riconosciuto invece la pertinenza, rafforzando il muro divisorio tra gli attori comici e chi è degno di occupare un posto nell’Olimpo delle star. A loro Sandler rivolge il suo discorso di vittoria: «Stasera, guardandomi intorno in questa sala, mi rendo conto che gli Independent Spirit Awards sono il premio 'miglior personalità' di Hollywood. Lasciamo gli Oscar a quei figli di puttana con i capelli cotonati. La loro bellezza sbiadirà col tempo, mentre le nostre personalità indipendenti brilleranno per sempre.» Altra eccellente esclusione è quella di Noi (Us), ultimo ambizioso prodotto di Jordan Peele che, nonostante faccia paura anche al botteghino, registrando il record mondiale di incassi per un film horror originale nel primo weekend in sala, viene totalmente snobbato dall’Academy, che non spreca una nomination per un genere ancora considerato di nicchia. È infatti risaputo che gli horror debbano faticare il triplo per aggiudicarsi una nomination a Miglior Film: solo sei film horror nella storia degli Oscar l’hanno ottenuta, e proprio Peele era riuscito nella titanica impresa appena tre anni fa con il suo film debutto alla regia Scappa: Get Out. Immeritata anche l’assenza di Lupita Nyong’o tra le nomination a Miglior Attrice Protagonista, che avrebbe peraltro fornito uno scudo dalle accuse di Oscar “troppo bianchi”, e che rappresenta l’ennesima conferma del fatto che all’Academy il talento non sempre basta. Ma gli Oscar sognano pecore dorate? E il sesto giorno Dio creò l’Oscar. Lo fece a sua immagine e somiglianza perché potesse venerare le opere del creato cinematografico, guadagnando così un ruolo di preminenza rispetto a tutte le altre rassegne. Ma come in ogni paradiso terrestre, la superbia dimostrata nel ritenersi unico giudice dei frutti del Cinema, finì per macchiarlo di un nuovo peccato originale. A dispetto dei numerosissimi altri festival, internazionali e non, strutturati secondo modalità di giuria più eque e meno lobbystiche, l’Academy sembra fagocitarli uno ad uno, dando l’impressione che i loro esiti valgano solo in funzione di quella Notte degli Oscar che ogni anno tiene incollati fino alle prime luci del mattino. Un vero e proprio fenomeno di “oscarcentrismo” intorno al quale sembrano orbitare tutte le altre kermesse cinematografiche. I risultati del Golden Globe, che generalmente precedono di un mese quelli degli Academy Awards, vengono frequentemente declassati ad anticipazioni degli Oscar che saranno. Nonostante l’Academy non distingua nelle sue categorie fra commedia e dramma, fra interpretazione comica e drammatica – al costo di una mescolanza fra ritmi filmici tanto eterogenei – diversamente da quanto fanno invece i Golden Globe. Questi ultimi vengono comunque scambiati per i fratelli minori e inesperti, nella costante attesa di una sonora pacca sulla spalla dal primogenito più autorevole, che possa approvare o biasimare le loro scelte in fatto di premiazioni. Persino la Palma d’Oro di Cannes, assegnata mesi prima da una delle giurie più stimate e prestigiose d’oltreoceano, diventa occasione per effettuare una prima grande scrematura delle proposte del Cinema internazionale, impacchettando quelle con più chance di accaparrarsi l’Oscar per il Miglior Film Straniero. Una sorta di compendio delle candidature di Cannes cui l’Oscar dedica una sola delle sue decine di categorie, investendo il resto delle sue energie ad approfondire la più “vasta” cerchia delle pellicole statunitensi: quasi che, nella mente dell’ “oscarmaniaco”, l’Academy abbracci tutte le premiazioni dei festival internazionali, dal Leone d’Oro all’Orso d’Argento, come sue sottocategorie.

“Per la prima volta dopo quasi un secolo, a salire sul podio del Dolby Theatre è stato un film in lingua straniera.”

Ma dal momento gli Academy Awards non si comportano affatto come un festival internazionale, precludendo molti dei loro riconoscimenti alle produzioni estere, sono piuttosto Cannes, Venezia o Berlino a inglobarne le proposte statunitensi. Come dimostrano la Palma d’Oro a The Tree of Life di Terrence Malick o il Leone d’Oro al Joker di Todd Phillips, per citare gli ultimi di una lunga serie di film dello Zio Sam insigniti di questi riconoscimenti. Eppure questa 92esima edizione degli Academy Awards sembra aver costituito un unicum, non solo perché ha messo d’accordo tutti, spartendo equamente gli Oscar tecnici fra una serie di titoli meritevoli e assegnato quelli per le interpretazioni maschili alla coppia di beniamini della stagione (Joaquin Phoenix e Brad Pitt), ma soprattutto per una grande, ingombrante presenza che ha fatto gridare alla rivoluzione. Quella di Parasite di Bong Joon-ho, che oltre a Miglior Film Straniero si è aggiudicato le tre statuette più ambite dell’Academy: Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Originale. Per la prima volta dopo quasi un secolo, a salire sul podio del Dolby Theatre è stato un film in lingua straniera.

La nostra gang Una vittoria che molti reputavano impensabile, vista la frequenza proibitiva con la quale l’Academy candida pellicole straniere in categorie diverse da quella loro dedicata. Il suo atteggiamento da sempre snob riservato al cinema non statunitense – oltre alla facilità con cui la commissione disattende regole apparentemente rigide eppure tanto malleabili – ha persino fatto mettere in discussione la legittimità della nomination di Parasite in quelle categorie, per giustificare la quale merita dare uno sguardo al regolamento d’ingaggio dell’Academy. L’articolo due, in particolare, elenca tutte le condizioni affinché un film possa essere candidabile agli Oscar: oltre a dover rispettare formati audio e video molto specifici e una durata minima di almeno 40 minuti, il film deve esser stato pubblicizzato e poi proiettato in un cinema della Contea di Los Angeles almeno tre volte al giorno – di cui almeno una volta fra le 18:00 e le 22:00 – per sette giorni consecutivi. Il regolamento premette però come queste norme non si applichino a cortometraggi, documentari, film d’animazione e in lingua straniera – per i quali esistono categorie ad hoc – salvo poi cambiare le carte in tavola nell’ottavo e ultimo comma, in una di quelle sezioni apparentemente di poco conto che nei contratti truffaldini appaiono scritte in piccolo, per non essere lette. Per i film stranieri difatti, l’unica condizione aggiuntiva perché vengano candidati anche nelle altre categorie è che siano sottotitolati in inglese. Ma nella città di Hollywood, ombelico del mondo della cinematografia, la quantità di pellicole che ottemperano a queste norme è elevatissima, e dunque in netta sproporzione rispetto a quelle che negli anni sono poi riuscite ad accaparrarsi una candidatura oltre a quella per Miglior Film Straniero (si contano sulle dita delle mani). La vicinanza geografica del festival al mondo hollywoodiano – aggettivo sempre più usato con tono dispregiativo – si rivela quindi una spina nel fianco per quella fetta di cinema estero che non ne rispetti i canoni. Ad aggravare il tutto si aggiungono le regole di ammissione all’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), l’assemblea – che al 2007 contava seimila membri – deputata all’assegnazione degli Oscar e composta perlopiù da professionisti del cinema statunitense, divisi in diciassette rami fra attori, registi, produttori e così via.

Fra i tanti, per citare un insolubile conflitto d’interessi, spiccava Harvey Weinstein, al contempo magnate della Miramax e giudice per l’AMPAS, dalla quale venne poi estromesso per le accuse di molestie che lo riguardavano. Solo chi vinca un Oscar, o chi venga sponsorizzato nella propria candidatura a uno dei rami da due membri del medesimo, può essere eletto a socio dell’AMPAS, ma le ferree selezioni del Consiglio d’Amministrazione hanno mantenuto pressoché invariato negli ultimi anni il numero dei membri – le cui identità sono state rese anonime dal 2007, diversamente dalla quasi totalità delle giurie internazionali. Ma non è tutto: secondo uno studio condotto nel 2012 dal Los Angeles Times sulla fauna demografica dell’Academy, essa è risultata per il 94% caucasica e per il 77% di sesso maschile. Così asserragliata dietro il muro del nepotismo e dell’esclusione etnica e di genere, l’AMPAS rischia di somigliare tanto a quella cricca ariana e maschilista descritta nel Birdman di Alejandro González Iñárritu: “Ragazzini egoisti, presuntuosi e arroganti. Patetici attori ignoranti, improvvisati, impreparati, che si illudono di avvicinarsi all'arte, che si assegnano a vicenda premi per cartoni e film pornografici che dipendono dal box office del weekend”. Il risultato è un accentuarsi del già preponderante gusto “americano” dell’Academy in fatto di premiazioni, dinamica dalla quale, in un certo senso, non sembra discostarsi la solo apparente anomalia rappresentata da Parasite. Un film indiscutibilmente orientale in fatto di tematiche, ma che costituisce l’ultimo timido e più elegante passo compiuto da Bong Joon-Ho – dopo Snowpiercer e Okja – per smussare le spigolosità del cinema sudcoreano, edulcorandone ritmi e allegorie per renderli digeribili al pubblico occidentale. In un frangente simile si era trovato appena un anno fa Roma, pellicola messicana in corsa per la statuetta più ambita, nomination forse facilitata dal fatto Alfonso Cuarón avesse già venduto l’anima al diavolo con Gravity, produzione americana che gli era valsa ben sette statuette. E se anche questo non avesse giocato un ruolo, chi vede un miracolo nella vittoria di Parasite non tiene conto che, sul piatto della bilancia, una sola edizione non può espiare le precedenti novantuno in cui quel codicillo (Art. 2 Comma 8) è stato sistematicamente ignorato dalla commissione. L’unica via perché l’Oscar possa imbroccare un trend positivo e costante, guadagnandosi la stima che troppi sono già disposti a dargli, è quella di emanciparsi dal vincolo della fruibilità e tenere sempre a mente come memorandum l’ennesima citazione di Birdman: “La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio”.

di Giulia D’Aleo e Carlo Giuliano

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