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Rebecca Cipolla
from N. 30 MARZO 2020
by Scomodo
Parallasse -------------------------------------------------------------------- la rassegna stampa di Scomodo
La sera del 7 marzo, quando la diffusione del Covid-19 appariva già capillare sul territorio e da settimane l’Italia affrontava incerta la situazione con manovre insufficienti, la bozza del decreto, che rivelava l’intenzione di trasformare la Lombardia e alcune province del nord in “zona rossa”, viene fatta trapelare dai palazzi del Governo e diviene in breve tempo di dominio pubblico. L’impatto della fuga di notizie, incomplete e ancora non ufficiali, sui cittadini impreparati ha generato un caotico flusso di partenze dalla Lombardia verso il Sud Italia, vanificando lo scopo ultimo del provvedimento e attirando critiche ed espressioni diffuse di malumori da parte dei governatori delle regioni interessate dal blocco. Il clima di incertezza generatosi ha reso necessaria una conferenza stampa straordinaria nella notte tra il 7 e l’8 marzo, durante la quale il premier Giuseppe Conte ha rivolto accuse di irresponsabilità a chi aveva diffuso la bozza e ai giornali che l’avevano fatta circolare, mettendo in pericolo la sicurezza dei cittadini, e ha posto la propria firma al documento definitivo, confermando l’ufficialità del decreto. Quest’ultimo prevedeva l’istituzione di un’area a contenimento rafforzato in Lombardia e quattordici province, non più undici come indicato nella bozza, di altre quattro regioni del Nord Italia; norme stringenti e senza precedenti che sono entrate in vigore a partire dalla mattina del 8 marzo. Ma come è possibile che un documento segreto fosse in breve tempo facilmente consultabile online? Come spiegato dallo stesso premier nel corso della conferenza stampa, il decreto, proposto dal Ministro della Salute, prima dell’approvazione ufficiale era stato inviato in via istituzionale soltanto ai ministri competenti e ai presidenti delle regioni, il che ha fatto inizialmente sottintendere che la fuga di informazioni potesse essere partita proprio da lì. Ad alimentare i sospetti vi è stata la pubblicazione di un articolo alle 1:28 sul sito della CNN, per prima finita sul banco degli imputati, che riportava la notizia dichiarando di averla ricevuta dall’ufficio della regione Lombardia; l’articolo è stato successivamente modificato, specificando come la notizia fosse loro giunta “anche” da lì. Il presidente della regione Attilio Fontana, che ha smentito immediatamente le dichiarazioni, affermando che la Regione Lombardia aveva appreso del decreto dai quotidiani online soltanto la sera stessa, ha chiesto una rettifica da parte del quotidiano. A scagionarlo, dopo il processo sul web delle prime ore, è giunta una lettera di Jonathan Hawkins, vicepresidente della comunicazione CNN International, che spiegava come il giornale avesse verificato che la notizia stesse già circolando sui maggiori quotidiani italiani prima di riportarla, e che si era rivolto alla Regione Lombardia e altri contatti, non definiti, solo per chiedere conferma della veridicità della bozza. Effettivamente il contenuto del documento provvisorio era comparso per la prima volta online alle 18:30 sul sito dell’agenzia di stampa Reuters con la firma di Giulia Segreti e Gavin Jones, localizzati a Roma, che hanno scritto di aver visionato la prima stesura del decreto, senza però menzionare alcuna fonte.
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Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.
All’articolo seguirono le prime pubblicazioni da parte dei quotidiani italiani, primi fra tutti i due capisaldi dell’informazione nazionale, Il Corriere della Sera alle 20:16, con la firma di Fiorenza Sarzarini, inviata di punta ed esperta di questioni legate alla sicurezza, e La Repubblica alle 20:35. Solo verso le 21 però i social hanno registrato un’impennata di post sull’argomento e le ricerche italiane su Google hanno iniziato a indirizzarsi quasi nella loro totalità al “coronavirus” e la “Lombardia”. Da lì in poi la notizia è rimbalzata ovunque senza alcuno scrupolo, dai quotidiani minori, tra i primi il Giornale di Brescia alle 21:03, Open alle 21:10 e poco dopo il Messaggero, alle agenzie di stampa, ai quotidiani internazionali, tra cui il New York Times che riportò Reuters come fonte. Dopo l’assoluzione di Fontana, le accuse si sono spostate su Rocco Casalino e il suo ufficio di comunicazione. Nonostante la bozza è stata inviata a partire dalle 18, orario indicato anche dal titolo del pdf che era riportato dalle principali testate (“bozza DPCM 7 marzo con revisioni ore 18”), nemmeno un’ora dopo questa circolava già su alcune chat di WhatsApp e vari altri social network. La comunicazione di un decreto di tale importanza è però centralizzata e affidata a specifici responsabili proprio per evitare disastri di tale portata, e il dubbio che lo scambio di informazioni con la stampa fosse avvenuto direttamente da Palazzo Chigi è stato rafforzato dal fatto che per ore non arrivò nessuna smentita da parte del governo. Sempre la CNN, nel primo articolo pubblicato sulla vicenda, faceva inoltre riferimento ad un “close adviser” di uno dei ministri, che avrebbe fornito alcune delle informazioni riportate. Fatto sta che Conte, per assenza o presenza di prove non è dato saperlo, dal lunedì successivo alla vicenda, seppur in maniera informale, ha iniziato, come riportato dalla Stampa, ad ampliare le deleghe della seconda portavoce, Maria Chiara Ricciuti, nella gestione della comunicazione sul coronavirus. Che egli abbia quindi volutamente lasciato ricadere i sospetti sui presidenti delle regioni, sapendo che la fuga di notizie avesse avuto origine da più vicino?
Sicuramente la dichiarata certezza che la bozza sia stata spifferata da ambienti prossimi al premier ne indebolirebbe, ancor di più, la credibilità, mettendone in discussione la capacità di gestire i meccanismi della comunicazione in una situazione di grave emergenza sanitaria nazionale come questa. Tuttavia, che le informazioni fornite dai giornali fossero vere e che la divulgazione ufficiale del decreto fosse imminente poco importa, rimane il fatto che le indiscrezioni hanno generato reazioni sociali, emotive e politiche a cui ormai neppure un tardivo fact checking può porre rimedio.
Una questione morale La fuga di notizie del 7 marzo ci pone l’imperativo di rivedere il ruolo del giornalismo nella nostra società. Mai come adesso, infatti, risulta lampante la situazione di crisi in cui versa l’editoria, e le successive conseguenze. Momenti di emergenza come quello che stiamo vivendo sono un importante banco di prova per l’industria dell’informazione, che nonostante tutto riveste ancora un ruolo di potere da non sottovalutare all’interno della società. Ed è in questa situazione che l’informazione, considerata un bene di prima necessità al punto che le edicole (nel momento in cui si scrive) rimangono aperte nonostante la quarantena forzata, può avere invece effetti deleteri e controproducenti. Da quando il coronavirus ha iniziato a diffondersi, siamo stati sottoposti a un bombardamento mediatico, andato via via ad acutizzarsi. A tal proposito è stato addirittura coniato il termine infodemia, per porre l’accento sull’enorme quantità di informazione, il più delle volte scadente, a cui siamo sottoposti. È evidente come l’industria dell’informazione abbia intercettato sentimenti di ansia provocati dall’incertezza della pandemia e della quarantena, puntando a fagocitarli per ottenere visibilità e conseguente guadagno economico, mentre tutti gli altri settori produttivi entrano in crisi. In effetti, negli ultimi giorni si è verificato un rinnovato interesse verso l’industria dell’informazione: esempio più concreto, l’aumento massiccio di ascolti sui telegiornali con il 36,7% di spettatori in più rispetto a febbraio e un picco di +45,6% del Tg2, secondo i dati riportati dall’istituto di ricerca Eurispes in collaborazione con il dipartimento di comunicazione e ricerca sociale dell’Università la Sapienza.
Ciò è in parte dato dalla noia e l’inattività dovuti all’auto-isolamento, ma soprattutto all’apprensione che il famigerato Covid-19 infonde negli animi degli italiani. Se da una parte l’aspetto più prettamente economico e produttivo è inevitabilmente presente e rilevante all’interno di un giornale, dall’altra questi dovrebbero stare attenti a fare in modo che esso non prevalga sulle norme etico-morali che si trovano alla base del mestiere. Sarebbe lecito, dunque, aspettarsi dall’editoria una presa di posizione responsabile e degna del proprio ruolo: quale momento migliore di questo per lanciare un messaggio, per far capire che un’informazione di tipo giornalistico è proficua e necessaria? Col proliferare delle fake news su un tema talmente delicato quale è il coronavirus, servirebbe un impegno attivo da parte dei giornali, che invece si asserviscono al sistema che dovrebbero combattere, confondendosi col rumore di fondo legato al tema coronavirus. Pubblicare in anticipo la notizia della chiusura della Lombardia denota una forte immaturità da parte di testate teoricamente autorevoli, come il Corriere e la Repubblica, i due più importanti quotidiani italiani, che riducono l’attività giornalistica a una spettacolarizzazione dei fatti riportati, distaccandosi di molto dagli intenti originari del giornalismo. Nello stesso modo è stato trattato da Repubblica il caso del paziente 1: il 17 marzo il quotidiano titola: "Torino, di nuovo positivo al test il paziente 1 dichiarato guarito: in isolamento a casa", che sembra alludere a una recidiva del virus, quando invece oscillare tra valori positivi e negativi è perfettamente normale nel decorso di un’infezione. Un atteggiamento simile è tipico della strategia narrativa adottata dalle testate giornalistiche nostrane, il cui unico obiettivo ormai sembra attirare l’attenzione dei lettori, sempre meno propensi a comprare i loro giornali, attraverso un’eccessiva drammatizzazione dei fatti, spesso e volentieri travisati, o trovate come questa fuga di notizie.
È vero che da sempre arrivare per primi alla notizia rappresenta un valore aggiunto. Tuttavia, in un contesto in cui ogni cittadino è chiamato a svolgere il proprio ruolo per contenere l’emergenza, in nome del senso civico, azioni di questo tipo risultano ancor più gravi, anche rispetto ad avvenimenti simili verificatisi in passato. Oltre che di serietà, l’atteggiamento di queste testate pecca anche di lungimiranza: cosa faranno infatti quando finirà l’emergenza coronavirus, e la gente non avrà più bisogno della scusa di andare a prendere il giornale per sfuggire alla quarantena? Si continuerà a cercare la notizia più spettacolare, più "chiacchierabile", proprio come si è sempre fatto e come si sta facendo col Covid-19. L’unica differenza è che difficilmente altre notizie riescono a colpire il pubblico come l’emergenza coronavirus, che per forza di cose è diventato parte integrante delle nostre vite. L’editoria, ben consapevole di questo fatto evidente, invece di approfittare della rinnovata rilevanza che viene attribuita al proprio ruolo, ha deciso semplicemente di rivolgere tutte le sue attenzioni sull’argomento virus, tralasciando in toto altre tematiche di attualità decisamente importanti, come se insieme alle nostre vite, messe in stand-by dal DPCM dell’11 marzo, si fosse fermato anche tutto il resto del mondo. L’informazione sul tema è estremamente ampia e confusionaria, caratterizzata da una polifonia di opinioni, dati statistici, ipotesi e congetture sull’evoluzione futura dell’epidemia.
Per un lettore alla ricerca di risposte e rassicurazioni, consultare un giornale è soltanto fonte di altri dubbi, che lo costringono ad arrendersi alla scomoda realtà dei fatti, cioè che di questo virus ne sappiamo molto poco. In un simile contesto, è molto più facile assolvere i singoli che nel tumulto generale si sono precipitati in stazione, venuti a sapere dell’imminente chiusura della Lombardia, piuttosto che le testate giornalistiche responsabili di aver scatenato il panico. Il risultato di tutto ciò, con ogni probabilità, sarà un inasprimento del fenomeno già in atto di allontanamento delle masse dai giornali, frutto non soltanto della predilezione per un’informazione più istantanea e veloce, ma anche di una diffidenza nei confronti del giornalismo, visto come una versione più istituzionale di internet e delle sue fake news. Far trapelare la notizia della chiusura della regione Lombardia ha avuto come unico effetto quello di screditare ulteriormente i giornali italiani. L’emergenza coronavirus, tra le tante cose, verrà ricordata anche per la sera del 7 marzo. La speranza è che, passata l’emergenza, la quale ha inevitabilmente messo in secondo piano l’avvenimento, si possa fare tesoro di quanto accaduto, avviando una riflessione sull’impatto che il giornalismo ha sulle nostre vite, e su eventuali scenari futuri.
di Bianca Pinto e Giulia D’Aleo