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di Luca Bagnariol, Marina Roio, Simone Martuscelli e Rodolfo Cascino-DessyPolitica della cura

Politica della cura --------------------------------------------------------------------

Le implicazioni geopolitiche del COVID-19

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Oltre a rappresentare la più grave situazione a livello sanitario che il mondo abbia visto da lungo tempo, la pandemia di COVID-19 rischia seriamente di cambiare gli equilibri geopolitici che oramai reggono il globo da alcuni anni. In base alle manovre di propaganda e le modalità tramite cui ogni singolo paese sta affrontando questa emergenza, gli attuali sistemi di alleanza e gli scontri fra potenze in atto rischiano di subire dei forti cambiamenti, sconvolgendo l’attuale panorama geopolitico. In questo articolo, cercheremo di osservare come alcune delle maggiori potenze globali stanno affrontando questo virus, in modo tale da poter cercare di capire come le loro attuali scelte politiche rischiano di cambiare il mondo nel prossimo futuro.

Da sconfitti a primi della classe? Il caso cinese Da quando la pandemia di COVID-19 ha colpito il nostro paese, ogni singolo aspetto della vita politica italiana è passato, come è giusto che sia, in secondo piano: tutte le forze politiche del nostro Parlamento e il Governo Conte stanno cercando di arginare in ogni modo la più grave emergenza sanitaria che abbia colpito il nostro paese dai tempi del secondo dopoguerra. Una situazione questa che va ripetendosi in ogni singolo paese del globo, meno che uno, ossia il luogo di origine del Coronavirus: la Cina. Il 19 Marzo le autorità di Pechino hanno annunciato al mondo che, per la prima volta dall’inizio della pandemia, non si segnalano nuovi casi di infetti interni, mentre i nuovi 34 casi risulterebbero essere tutte persone provenienti dall’estero. Pur mantenendo in quarantena la regione dello Hubei, il resto del paese sta lentamente cercando di riprendersi sia a livello sociale che a livello economico;

ma chi non ha perso certamente tempo, per cercare di rinsaldare la propria leadership all’interno del panorama geopolitico mondiale, è il presidente cinese Xi Jinping che, non appena si sono abbassati i numeri dei contagi nel paese, ha ricominciato a tessere la sua complessa trama di relazioni internazionali. La Cina in questo momento deve cercare di far nuovamente partire la propria economia, principalmente le esportazioni visto che la ripresa del suo mercato interno (base fondamentale del PIL cinese) appare assai lenta. Per fare questo, Pechino ha messo in campo tutta la forza dei propri organi di propaganda nel tentativo di rovesciare la narrazione internazionale che si è andata a sviluppare nel corso degli ultimi mesi, che vedeva la Cina come il paese dove è nato il COVID-19 e colpevole della sua diffusione, mostrando invece il governo di Pechino come il primo capace di debellare il virus e di indicare al mondo la via per distruggerlo definitivamente. Nel caso in cui questa nuova linea di narrazione dovesse imporsi, la Cina potrebbe in parte recuperare le ingenti perdite a livello economico causate dal virus, grazie alla ripresa dei commerci, specialmente in ambito sanitario e tecnologico. Il primo paese dove Pechino ha deciso di testare questa strategia è stato quello nel quale il COVID-19 ha causato più danni, ossia l’Italia. Pechino ha un conto in sospeso con il nostro paese a partire dal Marzo 2019, quando la firma del memorandum fra i due paesi avrebbe dovuto portare ad un rafforzamento dei rapporti commerciali, in vista della costruzione della Belt and Road Initiative: in realtà, i vantaggi economici di questo accordo si sono rivelati totalmente minimi per ambedue i protagonisti. Questo aveva portato ad un forte raffreddamento dei rapporti fra il Governo italiano (che nel frattempo ha cambiato segno e colore, ma non la guida di Giuseppe Conte) e quello cinese, al punto tale che l’Italia è stato il primo paese al mondo a bloccare i voli per e dalla Cina, quando ancora il virus sembrava contenuto all’interno dei suoi confini nazionali. Il blocco ha rappresentato un colpo durissimo per il progetto politico di Xi Jinping, visto che l’apertura dell’Italia alla alla B&R (primo paese del G7 a riconoscere tale progetto) era stata fondamentale per dare credibilità internazionale alla maxi-operazione economica promossa da Pechino.

“Un gesto dettato unicamente dalla solidarietà e portato avanti dalla Croce Rossa

Internazionale che Pechino ha però voluto tramutare in una potente arma di propaganda.”

Nel momento in cui la situazione interna ai due paesi si è totalmente ribaltata, con l’Italia a rischio di default sanitario e la Cina che iniziava a intravedere la possibilità di ripartire per il calo del numero dei contagiati, il governo cinese non ha perso neanche un secondo per cercare di rinsaldare i rapporti con l’Italia, sfruttando la cocente delusione delle nostre istituzioni per l’iniziale immobilismo da parte dell’Unione Europea.

Xi Jinping ha intravisto quindi due grandi possibilità: mantenere saldi i rapporti con uno dei paesi di arrivo della Nuova Via della Seta e, contemporaneamente, cercare di portare avanti l’opera di isolamento dell’Italia dalle istituzioni europee, in maniera tale da potersi imporre sul nostro paese in sede diplomatica, sfruttando la sua totale supremazia economica. Quest’opera di riavvicinamento è stata condotta in primis dal governo cinese, ma è stato decisivo l’ottimo rapporto fra Croce Rossa italiana e cinese per portare ad una nuova partnership fra i due paesi, realizzatasi nell’invio dalla Cina di una equipe medica esperta di COVID-19 e di 31 tonnellate di materiale sanitario. Un gesto dettato unicamente dalla solidarietà, che Pechino ha però voluto tramutare in una potente arma di propaganda, grazie al sostegno inconsapevole del Ministro degli Esteri italiano Luigi di Maio, che ha presentato l’invio di questi materiali come una donazione del Governo Cinese e non, come in realtà, di un’opera di solidarietà portata avanti dalla Croce Rossa Internazionale. Di Maio e di conseguenza tutta la stampa italiana, che da giorni parla degli aiuti cinesi, stanno facendo involontariamente il gioco di Pechino, che sta sfruttando questa nuova popolarità all’interno del nostro paese per cercare di ottenere dei forti vantaggi a livello economico, specialmente nel settore tecnologico. Con questo, ci si vuole riferire principalmente ai casi di Huawei e ZTE, le cui donazioni in ambito sanitario nascondono la volontà delle due aziende di aumentare ancor di più la propria presenza nel nos-

tro paese per cercare di sviluppare la rete 5G, possibilità che, in buona parte del mondo occidentale, è bloccata dai pessimi rapporti fra le compagnie tecnologiche cinesi e il governo degli Stati Uniti. L’espandersi della pandemia rappresenta l’occasione perfetta, per Huawei, di by-passare il ban imposto dalle autorità americane e cercare di imporsi, anche all’esterno dei confini nazionali cinesi, come l’azienda di punta per lo sviluppo della rete 5G, la “next big thing” a livello tecnologico per il mondo intero. Nel caso in cui questo esperimento di “geopolitica solidale” dovesse funzionare in Italia, nulla ci vieta di pensare che questo modello possa essere riproposto, specialmente nei paesi che già orbitano all’interno della sfera d’influenza geopolitica di Pechino. L’esempio più importante è certamente il continente africano, al centro delle attenzioni politiche cinesi da molto tempo, che, a causa del possibile disastro umanitario che rischia di scatenarsi per le pessime condizioni igienico-sanitarie presenti all’interno di ogni singolo paese, fa affidamento sugli aiuti medici cinesi per riuscire a superare questa pandemia con il minor numero di morti possibili. Sarebbe quindi lo scenario perfetto per Pechino per poter consolidare la propria posizione all’interno del continente, tenendo a debita distanza gli Stati Uniti, al momento il paese che rischia di subire il maggior numero di danni a livello geopolitico, a causa della pessima gestione, nella prima fase di contagio interno del COVID-19, e per i dubbi sulla capacità di risposta del suo sistema sanitario. Nel caso in cui la Cina riuscisse a rinsaldare definitivamente la propria posizione in Italia ed in Africa, lancerebbe un messaggio durissimo ai propri competitor geopolitici: neanche uno dei più gravi disastri sanitari della storia recente del globo è capace di fermare l’avanzata inesorabile della Repubblica Popolare Cinese. Una situazione che desta molta preoccupazione nel nemico dichiarato della superpotenza asiatica: gli Stati Uniti d’America. Errore di valutazione: il caso americano Weijia Jiang è la corrispondente della CBS a Washington. È nata a Xiamen, nella regione cinese del Fujian, ma si è trasferita in West Virginia insieme alla sua famiglia quando aveva due anni. Il 17 marzo, mentre anche negli USA scoppiava l’emergenza coronavirus, Jiang denunciava un episodio quanto meno sgradevole: “questa mattina un funzionario della Casa Bianca ha chiamato il coronavirus ‘kung-flu’ proprio davanti a me. Chissà come lo definiscono alle mie spalle”. Ma l’idea che la diffusione del coronavirus abbia a che fare con una serie di errori altrui, e che gli Stati Uniti ne sarebbero usciti da vittime neanche troppo colpite dagli effetti, era una concezione diffusa ben oltre qualche funzionario particolarmente volgare. Una visione che ha portato a colpevoli ritardi nel prendere provvedimenti di contenimento: costruendo esattamente quella responsabilità che gli USA respingevano con forza. Oltre a Trump che continua a definirlo “virus cinese”, persino durante il dibattito democratico tra Sanders e Biden del 15 marzo l’aspetto che veniva messo più in evidenza era l’incapacità dell’Italia di gestire la situazione sanitaria. Colpa di altri, insomma. Questo atteggiamento, però, ha portato non poche conseguenze anche dal punto di vista dei rapporti diplomatici.

Ad inizio marzo gli Stati Uniti avevano ridotto da 160 a 100 il numero di giornalisti di cinque testate cinesi ai quali era consentito lavorare negli USA.

“L’espandersi della pandemia rappresenta l’occasione perfetta, per Huawei, di by-passare il ban imposto dalle autorità americane e di imporsi come l’azienda di punta per lo sviluppo della rete 5G, la “next big thing” a livello tecnologico.”

La risposta non si è fatta attendere: il 17 marzo Pechino ha formalmente obbligato 13 giornalisti di New York Times, Washington Post e Wall Street Journal che operavano in Cina a lasciare il paese. È il più classico scontro tra propagande: ora che il virus sembra aver rallentato nel paese da cui tutto era cominciato, l’operazione di pulizia di un’immagine cinese, sporcata dalle evidenti colpe che hanno permesso la diffusione globale del virus, avrebbe rischiato di incepparsi di fronte alla macchina mediatica americana che ancora lo definiva “virus di Wuhan”. Eppure, a dispetto dello scetticismo iniziale, anche negli USA hanno presto dovuto scontrarsi con la realtà: il COVID-19 è una questione che riguarda tutti, anche gli Stati Uniti d’America. Nelle prime settimane di marzo il Presidente Donald Trump si è immerso in un valzer di menzogne e gaffe degne della sua reputazione. Le misure di sicurezza basilari, come l’esortazione al “Distanziamento sociale!” declamato in un tweet da Trump o il banale lavarsi le mani spesso, sono state diffuse in modo poco chiaro. E aggravate poi dalla disinformazione propinata da alcuni canali come Fox News, che affermava che per riconoscere un contagio sarebbe bastato trattenere il respiro dieci secondi. In questa fase iniziale la gestione dell’emergenza si è realizzata soprattutto a discrezione locale. Da parte presidenziale venivano diffusi messaggi di ottimismo basato sull’efficienza, la superiorità americana e sull’ipotesi antiscientifica che il “virus cinese”, con il caldo e gli anticorpi, sarebbe stato sconfitto senza clamori o che, essendo un’epidemia contenuta, sarebbe bastato cancellare tutti i voli diretti verso gli Stati Uniti. Ma persino questa misura non è stata efficace. Queste affermazioni sono crollate al suono di un pesante “No, we are not” pronunciato da Anthony Fauci, del NIAID (National Institute of Allergy and Infectious Diseases), riferito alla capacità statunitense di far fronte a questa situazione, dal momento che gli States non erano neanche provvisti di un numero sufficiente di test. Trump, inizialmente, decantava la preparazione USA per un contagio del genere e la situazione ottimale anche economicamente. Decidendo quindi di mantenere una linea liberista, orientata verso la conservazione economica e stanziando 700 miliardi di dollari per acquistare titoli e regolare i mercati riducendo il tasso di interesse, oppure investendo nel mondo del petrolio a discapito della acerrima avversaria che ancora arrancava un po’. Tutto è cambiato nel giro di pochi giorni. L’11 marzo la rivista scientifica Science ha pubblicato un editoriale molto duro nei confronti della condotta del Presidente, accusandolo di insultare la scienza nel tentare di impedire agli scienziati, che si occupano del Coronavirus, di diffondere informazioni, riportandole dal canto suo in modo fuorviante o errato e criticando i tagli alla ricerca dell’attuale governo a enti come il Center for Disease Control and Prevention, il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica USA. Basti pensare infatti che gli ultimi tagli alla sanità sono avvenuti a Febbraio di quest’anno. Sotto la pressione della comunità scientifica, a cui si sono aggiunte le terrificanti notizie provenienti dalla finanza statunitense, con il Dow Jones, il più noto indice azionario della borsa di Wall Street, che ha bruciato in un mese tutti i guadagni ottenuti da Trump nel corso della sua presidenza ( un calo di ben 900 punti rispetto al massimo raggiunto), hanno costretto il presidente a correggere immediatamente il tiro, smentendo il suo iniziale scetticismo sulla vicenda,

“A dispetto dello scetticismo iniziale, anche negli USA hanno presto dovuto scontrarsi con la realtà: il COVID-19 è una questione che riguarda tutti, anche gli Stati Uniti.”

in una conferenza stampa nella quale si è mostrato seriamente preoccupato per l’espansione della pandemia all’interno dei confini americani. Questa preoccupazione è testimoniata anche dalla scelta di comunicare tramite una vera e propria conferenza stampa tradizionale, molto inusuale per Trump che, nel corso della sua presidenza, ha scelto di tramutare il proprio account Twitter nella bacheca per le comunicazioni ufficiali della sua presidenza. Questo cambio di passo, in base alle proiezioni economiche, appare però estremamente tardivo: una situazione estremamente simile a quella che si è andata a sviluppare nell’Unione Europea.

Fallimento o rinascita: che futuro per l’Unione Europea? L’espansione del COVID-19 all’interno del continente europeo, ora ufficialmente riconosciuto dall’OMS come centro mondiale della pandemia, sta mettendo in luce tutte le problematiche che accompagnano l’attuale strutturazione dell’Unione Europea, unicamente incentrata sugli aspetti economico-finanziari e quindi incapace di dare delle risposte reali a questa crisi. Gli effetti della pandemia infatti non andranno a colpire unicamente le economie dei vari paesi membri, ma rischiano seriamente di compromettere i complessi equilibri politici e sociali che si sono instaurati nell’UE fin dalla sua fondazione. Il COVID-19 rappresenta il primo vero momento di difficoltà condivisa a livello continentale, ma le decisioni prese dai singoli paesi membri e la lentezza delle istituzioni europee nell’agire rischiano di far crollare la solidarietà europea nel baratro. Solidarietà che gli stessi paesi membri hanno abbandonato,

visto che in una situazione simile si tende ad anteporre prima i singoli interessi nazionali piuttosto che quelli comunitari (cosa che già avviene anche durante fasi non emergenziali). Bastino come esempi le azioni di Polonia e Repubblica Ceca: la prima deciso di sequestrare 23’000 mascherine FFP2 acquistate dalla Regione Lazio, la seconda ben 680’000 mascherine e migliaia di respiratori che erano stati inviati dalla Cina al nostro paese, per ridistribuire il materiale ai propriiii sistemii sanitari. Un gesto iii gravissimo a cui le ist i t u z i o n i e u r o p e e sono state incapaci di rispondere, non avendo alcun tipo di prerogativa politica sovranazionale per poter risolvere questioni simili, e che è stato in seguito risolto dal Ministero degli Esteri italiano. Questa impossibilità di agire non ha comunque permesso all’UE di muoversi tempestivamente nell’ambito di sua maggiore pertinenza, quello economico-finanziario. La Commissione Von der Leyen si è mossa estremamente in ritardo nel cercare delle possibili soluzioni per il sostentamento economico dei singoli paesi membri durante la pandemia.

Il punto più basso è stato certamente la brutale dichiarazione della Presidente della BCE Christine Lagarde, definita da alcune testate giornalistiche una “gaffe” e da altre un affronto imperdonabile: «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono al tri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni».

Parole che acquisiscono una gravità esemplare poiché, nel momento in cui sono state pronunciate, hanno seriamente danneggiato la borsa italiana e soprattutto i nostri titoli di Stato, con lo spread che ha raggiunto quota 262 punti (dato peggiore dal 2011). Una presa di posizione nettamente in controtendenza con il “Quantitative Eaing”, manovra simbolo della Presidenza Draghi, il quale scelse come frase rappresentativa del suo periodo alla guida della BCE l’ormai celebre “whatever it takes”.

L’affermazione della Lagarde è stata talmente grave che ha costretto all’intervento il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha richiesto solidarietà e non ostacoli per l’Italia. A nulla sono valse le scuse tardive della Lagarde, con conseguente promessa d’investimento di 750 miliardi di euro per l’acquisto di titoli di Stato e la tardiva decisione da parte della Commissione Europea di sospendere il vincolo delle spese in deficit al 3%: molti italiani stanno perdendo fiducia nelle istituzioni europee attuali, che hanno mostrato tutte le loro debolezze. L’Unione si trova oggi davanti ad un bivio: rimanere immobile, vedendo venir meno sempre più la fiducia della popolazione europea, oppure ripartire dalla fine del limite del 3%, per cercare di formare una vera e propria unione politico-sociale, capace di gestire simili situazioni emergenziali. La scelta della Commissione sarà decisiva per la futura sopravvivenza dell’Unione Europea, specialmente adesso che la Cina si sta affacciando con sempre maggiore prepotenza sul panorama politico europeo.

di Luca Bagnariol, Marina Roio,

Simone Martuscelli e Rodolfo Cascino-Dessy

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