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Simone Martuscelliedi Luca Bagnariol, Luis Lombardozzi La guerra delle due Italie
from N. 32 MAGGIO 2020
by Scomodo
LA GUERRA DELLE DUE ITALIE COME IL COVID - 19 HA RIACCESO LA MAI SOPITA “QUESTIONE MERIDIONALE”
La gestione dell’emergenza COVID-19 da parte del Governo italiano ha riacceso la contesa fra le due parti che compongono il nostro Paese: Nord e Sud. Il culmine della tensione è stato raggiunto con l’entrata in vigore del DPCM del 26 Aprile 2020, con la decisione da parte dell’esecutivo Conte di non procedere con una riapertura differenziata in base allo stato di salute delle regioni, sfavorendo così in modo netto le attività produttive del Meridione, che ancora una volta non hanno sentito rappresentati i propri interessi da parte del governo centrale. Questa crisi di rappresentanza ha radici profonde nella storia politica di questo Paese, ma il COVID-19 l’ha resa ancora più evidente: quello che appariva come un problema ormai superato ha trovato nuova forza e si pone nuovamente al centro del dibattito politico nazionale. Prima di poter analizzare le implicazioni politico-economiche attuali, bisogna per forza di cose partire dalla nostra recente storia politica, per capire al meglio dove abbia origine questa crisi di rappresentanza del Sud Italia
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TANGENTOPOLI E LA MORTE DI UNA CLASSE POLITICA DIRIGENTE MERIDIONALE
La crisi di rappresentanza politica delle regioni meridionali trova la propria origine nel terremoto politico rappresentato da Tangentopoli, lo scandalo che ha segnato (direttamente ed indirettamente) la fine dei due partiti più rappresentativi della prima lunga era della storia repubblicana italiana: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Queste due formazioni politiche avevano al loro interno non solo una grande presenza di influenti esponenti che venivano dalle regioni del Sud Italia, ma per lungo tempo sono stati guidati direttamente da politici provenienti dal Meridione: gli esempi più celebri sono ovviamente Enrico Berlinguer per il PCI e Aldo Moro e Ciriaco de Mita per la DC, con il secondo denominato “il padrino” e capace di essere allo stesso tempo sia segretario del partito che Presidente del Consiglio. Lo stesso De Mita fu uno dei pochi membri della DC a cercare di porre fine al regno quasi incontrastato della corrente andreottiana, sfruttando una grande cerchia di esponenti provenienti come lui dall’avellinese e definiti da Marco Pannella come “il Clan”, come riportato da Filippo Ceccarelli all’interno del suo libro “Invano”. Con la deflagrazione di questi due partiti, non solo sono sempre venute meno figure di spicco all’interno delle nuove conformazioni politiche che provenissero dal Sud, ma si sono anche imposti sulla scena politica e soprattutto al governo del Paese dei partiti di chiara trazione settentrionalista, che facevano dell’aperta contestazione nei confronti del degrado economico del Sud e della volontà di staccarsi per evitare che le proprie tasse finissero nelle mani dei meridionali, il loro cavallo di battaglia principale. L’esempio cardine è la Lega Nord che, per quanto oggi vada sempre più aprendosi nei confronti del bacino elettorale del Sud, ai tempi aveva fatto della secessione la sua battaglia politica principale. Dal 1994, ogni legislatura ha di fatto aumentato la sensazione da parte degli abitanti del Mezzogiorno di non essere rappresentati dai partiti principali: sensazione divenuta realtà a partire dal Governo Berlusconi III, che nel 2005 ha creato il Ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, con il chiaro intento di trattare le questioni inerenti alle regionali meridionali come qualcosa di distaccato rispetto al resto del corpus politico italiano.
Questa crisi di rappresentanza ha causato, negli abitanti del Meridione, una forte avversione verso i partiti cardine della Seconda Repubblica e una forte attenzione verso le nuove proposte politiche del Parlamento, come il Movimento 5 Stelle, che ha costruito la propria vittoria elettorale nel 2018 proprio grazie al successo al Sud. Questa situazione è stata la cifra politica del Meridione fino a ad oggi, con nessuna forza politica che ha cercato di farsi realmente carico degli specifici interessi e problematiche del Sud e con gli stessi esponenti politici locali che hanno preferito dare vita ad una politica di stampo personalistico, piuttosto che agire in blocco, come era successo nel caso del “Clan” degli avellinesi della DC, per cercare di imporre la propria linea all’interno del proprio partito (battaglia oltremodo impossibile all’interno dei partiti la cui classe dirigente risulta totalmente a trazione settentrionale, come Forza Italia e Lega). Questo lungo ventennio di silenzio politico degli interessi del Sud rischia ora di scoppiare, lasciando all’attuale Governo Conte II il difficile compito di doversi confrontare con la nuova esplosione della “Questione Meridionale”.
Attualmente, non si può sostenere che in Italia comandino i terroni (come sostenne Libero in un articolo dello scorso gennaio): infatti per quanto le più rilevanti cariche dello Stato siano affidate ad una maggioranza meridiona- le, i reali poli del potere, quindi la direzione dei vari partiti, per il potere par- lamentare, e il controllo delle aziende più rilevanti a livello strategico, per l’economia nazionale, rimane in mano ai settentrionali. Il Movimento 5 Stel- le si contrappose alla tendenza di una direzione di partito settentrionalista (prima Di Maio e Di Battista, da Avellino e Roma, poi Crimi, da Palermo) e, fino alla prima crisi di governo del Conte I, si è creduto che il Movimento 5 Stelle potesse finalmente riportare il potere del Meridione in mano ai meridionali.
Tuttavia con il risultato delle ultime amministrative e regionali, dove la Lega e le coalizioni di destra hanno vinto nella maggior parte dei seggi. Ad oggi le coalizioni di destra controllano tutte le regioni del Sud ad eccezione di Campania e Puglia, regioni dove le elezioni, previste per il prossimo autunno, non si sono ancora svolte. In questa crisi pandemiologica si è palesata la situazione di assoluta man- canza di autonomia regionale rispetto al governo centrale, che a sua volta non tiene conto delle necessità delle regioni allo stesso modo: il Governo in- fatti ha prolungato e mantenuto il lockdown anche nelle regioni meridionali, le quali presentano tuttora un numero di contagiati e di decessi da COVID-19 generalmente basso, soprattutto rispetto alle regioni centro-settentriona- li. I vari governatori regionali del Mezzogiorno si sono dichiarati talvolta ad- dirittura stupefatti dall’intenzione del governo trattare nello stesso modo situazioni completamente differenti. Il Nord, polo produttivo e finanziario del paese, congelato in una situazione di insicurezza sociale ed economica, insieme agli investitori, connazionali e stranieri, non sarebbe mai riuscito a sopportare, oltre alla chiusura delle attività produttive, anche una concorren- za, più o meno sleale, proprio sul territorio nazionale, da parte delle aziende industriali e manifatturiere meridionali. Per questo motivo, secondo rumors di governo, sembrerebbe che sia gli industriali che gli amministratori regio- nali abbiano fatto non poche pressioni all’esecutivo affinché si prevenis- se quella particolare concorrenza, applicando uguali misure di prevenzione.
Il potere esercitato dal Centro-Nord ha quindi avuto un effetto comple- tamente diverso da quello che i governi regionali del Sud a loro volta hanno provato ad esercitare. Un esempio calzante è il caso Jole Santelli, governatrice della Calabria, che, senza approfondire la legittimità delle sue azioni, ha provato ad opporsi alle decisioni prese dal governo cen- trale, prima con dichiarazioni che trasmettessero il suo dissenso e poi con un decreto, tempestivamente bloccato dal TAR. Un tentativo di op- porsi lo ha pure fatto Vincenzo De Luca, governatore campano, che ha dichiarato di non aver sottoscritto l’intesa stato-regioni per la gestio- ne della crisi sanitaria, nonostante le precedenti richieste di De Luca fossero state completamente ignorate. Queste opposizioni al governo centrale potrebbero però non essere frutto della volontà dei governatori meridionali di portare dinanzi allo sguardo cieco del Governo gli interessi delle proprie regioni, ma potrebbero essere figlie di precisi calcoli politici.
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Prendiamo il caso del Governatore De Luca: nel 2020, la Campania sarà una delle regioni che andrà al voto per rinnovare il proprio Consiglio Regionale e, prima dell’emergenza sanitaria, la riconferma dell’attuale governatore ap- pariva sempre più improbabile. Con lo scoppio della pandemia, la linea dura adottata da de Luca, condita dalla sue conferenze stampa divenute imme- diatamente virali, ha permesso al governatore di ottenere ben l’89% dei con- sensi per il suo operato nella gestione del COVID-19 (secondo il sondaggio redatto dall’Università di Siena e l’Istituto Affari Internazionali), secondo solo al governatore Luca Zaia, che è riuscito nella difficile impresa di conte- nere l’epidemia in Veneto scongiurando l’esito di una “seconda Lombardia”. Il leader politico campano sta ora cercando di capitalizzare su questa ondata di consensi positivi, spingendo molto con il governo centrale per far tenere il prima possibile le elezioni regionali nella sua Campania. Se quella di de Luca potrebbe essere una strategia dettata da calcoli elettorali, lo stesso non si può dire per quanto concerne il caso della Santelli e della Calabria. La neo eletta Governa- trice, rappresentante della lista di centrodestra, potrebbe agire non per volontà propria, ma seguendo le indicazioni del suo schieramento politico, sempre pron- to allo scontro politico con il Governo Conte, anche durante questa situazione emergenziale, e che potrebbe aver visto nello scontro fra le proprie regioni e l’amministrazione centrale, rappresentata dal Ministro per gli Affari regionali Boccia, un’arma vincente per consolidare la propria posizione e cercare di ab- bassare la fiducia nel Governo. Che si tratti di meri calcoli utilitaristici o meno, è innegabile che la mancanza di un reale peso politico degli interessi specifici del Sud sta impedendo un pieno sviluppo economico delle regioni meridiona- li, che, unito alla crisi generalizzata causata dal COVID-19, rischia di aggravare ancor di più la disparità economica sussistente fra il Nord e il Sud del Paese.
TUTTO CHIUSO, TUTTO FERMO
Esattamente un anno fa, nel maggio 2019, sul numero 22 di Scomodo si parlava di un tema che all’epoca infiammava il dibattito pubblico: il regionalismo diffe- renziato. Questa parentesi autoreferenziale serve solo a dare un’idea di quanto il discorso del diverso peso economico di Nord e Sud, e delle conseguenti pretese sul piano politico, venga da lontano. Ma l’arrivo del coronavirus ha sparigliato le carte in tavola, creando una situazione in cui non esistono “ricchi” o “poveri”, ma interessi più specifici. In principio fu il lockdown e, di conseguenza, la chiusura di tutte le attività non essenziali. Una restrizione che però, paradossalmente, rischia di colpire maggiormente l’economia del meridione meno colpito dal virus rispetto a quella del settentrione, almeno in proporzione. Secondo l’ultimo rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) del 2019, la produtti- vità industriale del sud vale il 71,8% di quella del nord, e l’occupazione industriale nell’ultimo anno ha fatto segnare un +1,8% nel centro-nord opposto a un -0,2% al sud. L’unico settore che riesce a tenere botta con il nord è quello dei servizi, ov- vero il terziario: in questo settore la produttività del nord vale l’82,5% di quella del nord, e nell’ultimo anno le due aree d’Italia hanno fatto registrare tendenze pres- soché identiche per quanto concerne l’occupazione (+0,5 al sud, +0,7 al nord).
Nella fase di lockdown l’industria ha ovviamente subito il colpo più duro: l’ISTAT ha calcolato che due imprese su tre, pari al 46,8% del fattura- to del settore, siano state costrette alla chiusura. Nel terziario invece il 43,8% delle aziende, corrispondenti al 37,2% del fatturato, è stato ferma- to dalla pandemia. Ma mentre per la produzione industriale è più proba- bile un rimbalzo più rapido, con la ripresa pressoché totale delle attività, i settori che fanno da traino per l’economia del Sud, come il turismo e la ristorazione, subiranno effetti negativi destinati a durare molto più a lungo. Oltretutto, questa crisi si inserisce in un momento già di per sé non sem- plice per il Mezzogiorno. Svimez prospetta un crollo del PIL pari a -7,9% per il sud Italia, rispetto al -8,5% del nord; ma il Sud sconta ancora in maniera molto più tragica gli effetti della crisi del 2008, con un PIL che è ancora inferiore di 15 punti rispetto ai livelli del 2007 (per il nord è -7%). Di tutto ciò va tenuto conto nel valutare le operazioni di graduale uscita dal lock- down. Nord e Sud si trovano ad affrontare situazioni totalmente diverse dal punto di vista sia sanitario sia economico. Le regioni del nord, colpite in maniera dura dal contagio, ma non abbastanza da pensare ad un effetto “immunità di gregge”, hanno bisogno di liquidità perché le imprese pos- sano restare aperte e riprendere il proprio ruolo nella catena produttiva. Inoltre hanno bisogno di tutele sanitarie per i lavoratori, per evitare una recrudescenza del virus. Il Sud invece, che a dispetto dei timori di tanti analisti e di alcuni governatori ha tenuto molto bene alla prova del conta- gio, ha bisogno di vedere allentati alcuni provvedimenti antivirus, che ri- sultano eccessivi se messi a confronto con l’effettiva forza della pandemia nell’area. L’EIEF (Einaudi Institute for Economics and Finance) elabora ogni giorno una proiezione sulla data in cui le diverse regioni raggiungeranno il traguardo “contagi zero”: al 12 maggio, Basilicata, Calabria e Sardegna sono prospettate a zero contagi già prima del 20 maggio, mentre per la Lombardia la data indicata nella migliore delle ipotesi è quella del 6 luglio: una differenza troppo evidente per poter essere ignorata. I soldi di cui in- vece avrebbe davvero bisogno il sud, oltre a dei sostegni una tantum per le imprese più colpite dal lockdown, sono quelli degli investimenti strutturali.
E ancora il rapporto “Svimez 2019”, citato precedentemente, evidenzia come negli ultimi dieci anni sia crollata la quota di investimenti pubblici al Sud, in maniera ancora più palese rispetto al resto d’Italia. La spesa in conto capi- tale è passata dai 20,1 miliardi del 2007 ai 10,3 del 2018; nel 2007 la quota investita nel mezzogiorno era corrispondente al 33,8% della spesa totale italiana, mentre nel 2018 questa percentuale è scesa al 29,8%. Ma il pro- blema non è solo la volontà politica del governo centrale, ma anche la ca- pacità di applicazione da parte dei governi locali a causa della burocrazia. Dei 20 milioni di fondi europei strutturali 2014-2020, in dotazione alle regioni del Sud, la spesa certificata è stata solo di 3,5 milioni: il 17,5% del totale. La via d’uscita dalla crisi attuale, insomma, è la stessa che il Mezzogior- no aspetta da decenni ormai: infrastrutture, trasporti, investimenti che lo aprano e lo colleghino al resto d’Italia e d’Europa. Mai come prima, il Sud ha bisogno semplicemente di normalità.
di Luca Bagnariol, Luis Lombardozzi e Simone Martuscelli