L’EDITORIALE di Francesco Paolo Savatteri
Fin dalla mattina del 5 marzo, il giorno dopo le elezioni, la formazione del nuovo governo è diventata l’argomento più gettonato di qualsiasi giornale. Quasi tutte le testate giornalistiche, registrate e non, web o cartacee, per più giorni hanno riportato in prima pagina, come un evento sensazionale, qualunque genere di notizia riguardante anche un lieve passo avanti (o indietro) delle trattative tra le forze politiche di maggioranza. La stessa cosa vale per la maggior parte dei periodici settimanali e mensili che hanno dedicato pagine e pagine a riflessioni e interpretazioni del risultato elettorale. Come Scomodo, invece, abbiamo volutamente evitato di tuffarci nell’uragano del post-elezione, non trattandolo in nessun articolo. Le ragioni di questa scelta non vengono tanto da una nostra presunzione di poter classificare gli sviluppi sulle trattative come irrilevanti o effimere, quanto per la paura che, nel mare di informazioni delle settimane successive alle elezioni, il nostro impegno editoriale risultasse di fatto vano e passeggero. Tuttavia, nel simpatico teatrino che ha accompagnato la formazione del governo, tra veti e aperture, non abbiamo potuto fare a meno di notare un particolare non altrettanto divertente. Le quattro principali forze politiche hanno fatto del loro meglio per mascherare i propri interessi dietro l’apparenza di un impegno istituzionale. E in questo l’ipocrisia del comportamento politico è un fatto storico: non c’è stata legislatura in cui, a fronte di una campagna elettorale di fuoco, i partiti da lupi non si trasformassero in agnelli una volta messo piede in Parlamento. Tuttavia, la legislatura corrente, ad appena un mese dalle elezioni, ha visto questo fenomeno articolarsi in maniera peculiare: le mosse politiche non sono state rivolte a tutelare gli interessi del proprio elettorato presente, che appena il 4 marzo scorso ha riempito le urne, ma solamente alla sopravvivenza dei partiti stessi. È ormai chiaro come i partiti politici non abbiano più una classe sociale di riferimento tra i propri elettori. La sinistra, storicamente operaia, ora ottiene maggiori risultati nei quartieri borghesi. Mentre la destra, portatrice degli interessi dei ricchi e dei “padroni”, adesso si rivolge a chi abbocca alla retorica populista. In uno scenario politico che rappresenta sempre meno in maniera fissa il proprio elettorato, far conto solo sui numeri usciti dalle ultime elezioni politiche è fuorviante. E basta vedere il capitombolo di consensi avuto da Renzi nel giro di quattro anni per rendersene conto. A fronte di un’instabilità di tale portata, che fare? Nient’altro che provare a sopravvivere. Con la costante paura di nuove elezioni a breve termine, la priorità per un partito diventa quindi riuscire ad aumentare il numero dei propri elettori, o quantomeno a non
perderne altri in modo da assicurarsi un futuro politico. Questo anche al costo di ignorare il compito istituzionale di formare un governo. E il modo migliore di decifrare quale mossa garantirebbe a una forza politica il minor numero di perdite tra gli elettori è solo uno: dire tutto e il contrario di tutto. Attraverso il gioco di telefonate, vertici, riunioni e consultazioni che ha seguito le elezioni, ogni partito ha potuto dire qualsiasi cosa per poi stare a guardare le reazioni del proprio elettorato. Il PD “deve andare” all’opposizione, ma potrebbe anche governare. Il M5S vuole andare al governo con la Lega, ma in fondo anche con il PD. La Lega vuole rimanere legata a Forza Italia ma dialoga a fondo con un M5S, che di Berlusconi non vuole sentir parlare. Insomma, un concentrato di contraddizioni. In quest’ottica le elezioni regionali di Molise e Friuli hanno giocato lo stesso ruolo. Serve tutto a sondare il terreno, anche una risposta elettorale da poco più di un milione di elettori, attraverso delle elezioni in cui l’affluenza è storicamente vicina al 50%. E così si potrebbe continuare all’infinito, in una campagna elettorale perenne, rivendicando una sincerità di superficie, che sarebbe sufficiente secondo alcuni a mantenere il proprio fortino intatto. Come abbiamo già detto, non si tratta di un fenomeno nuovo; ma questa volta è ancora più plateale per due ragioni. La prima è semplicemente che le elezioni del 4 marzo non lasciano spazio a dubbi su chi siano i vincitori e i vinti. La seconda, ancora più grave, è che entrambi i partiti più forti, M5S e Lega, dopo essersi battuti in campagna elettorale come la nuova classe politica che avrebbe dovuto agire solamente per il bene del paese, senza meccanismi viziosi, ricadono negli stessi giochetti che hanno caratterizzato da sempre le legislature precedenti. Allo stesso tempo, sia il PD che Forza Italia, i “reduci” della vecchia politica che con queste elezioni si sono visti molto indeboliti, invece di comprendere il sentimento generale di cambiamento e rottura rispetto al passato, continuano a difendere i propri interessi con le stesse strategie di sempre. Viene quindi spontaneo chiedersi quali siano le cause di questa continua battaglia, di fatto, elettorale. Battaglia che, nonostante i vari appelli alla responsabilità da parte del Presidente della Repubblica e la presunta natura “anti-sistema” delle due maggiori forze politiche, è continuata con una serie infinita di critiche, confronti a distanza e punzecchiature. 5 Stelle, Lega e anche i partiti tradizionali basano tutta la loro esistenza sui riscontri elettorali: la loro componente di "novità" è falsa? O è l'intero sistema politico-rappresentativo a portare tutti a tutelare il proprio interesse elettorale, senza alcun riguardo per la vita dei cittadini?
FOCUS - SCAGLIARE INVETTIVE CONTRO 1, 2, 3 • UN’INDAGINE SUL VALORE DELL’ARTE CONTEMPORANEA Il mercato dell'arte: un incontro preliminare di Daniele Gennaioli Comprami, io sono in vendita di Carolina Scimiterna Quale storia dell’arte per un’arte contemporanea? di A.D. Quanto vale un’idea? di Laura Cocciolillo e Giovanni Onorato ATTUALITÀ L’INFOGRAFICA di Antonio Pronostico Palestina: la terra della (R)ESISTENZA di Leone Fossati La città inamministrabile di Luca Bagnariol, Giovanni Forti, Alessandro Luna e Francesco Paolo Savatteri PARALLASSE di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol Qua-diario di quartiere di Lorenzo La Neve e Mattia "Drugo" Secci MOSTRI - CITTÀ DEL RUGBY DI SPINACETO di Luca Bagnariol CULTURA LA COPERTINA di Sofia Monterastelli Evoluzione naturale: Intervista ad Achille Lauro di Jacopo Andrea Panno e Luca Bagnariol Villini storici sotto minaccia: la rigenerazione urbana che fa male di Francesco Tresalti e Giulia Marziali "You never liked the way I said it If you don't get it,then forget it” di Sara Giannoni Ordine, caos, materia di Luca Giordani (redattore da Londra) The Florida Project, il cinema dei piccoli momenti di Daniele Gennaioli Giustappunto di Leonardo Rosi RECENSIONI Letteratura di Arianna Vartolo Cinema di Valeria Sittinieri, di Viviana Pungì Musica di Ismaele Calaciura Errante, Camilla Cataldi IL PLUS Bomberismo: dai meme alla violenza di Ismaele Calaciura Errante e Giorgio Garofani Laboratorio della Mobilità Sostenibile di Julian Toso Metamorfosi di Alice Paparelli Lambda Lambda Lambda di Davide Salvadori COME ABBONARSI: GRAZIE A ...
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Qual è il reale valore dell’arte contemporanea? Cerchiamo la risposta nelle dinamiche del suo mercato, affrontandone l’aspetto più puramente economico e quello più storico artistico, approfondendo le contraddittorietà e i paradossi che compongono questo fenomeno, al quale guardiamo come sintomo culturale, cercando di non farci trarre in inganno dal modo in cui, nella contemporaneità, le immagini vengono veicolate. Alla luce della complessità del tema, che ancora crea dibattito, e dell’intervista rilasciataci da Edoardo Marcenaro, collezionista e curatore, questo focus non si propone di mettere un punto alla questione, ma vuole essere innanzitutto un punto d’inizio, un pretesto di riflessione, uno spunto per delineare un’opinione che si basa sull’informazione ma che conserva la sua matrice soggettiva.
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UN’INDAGINE SUL VALORE DELL’ARTE CONTEMPORANEA 5
Il mercato dell'arte: un incontro preliminare La messa a fuoco si presuppone avere un soggetto da inquadrare. Abbiamo assistito all'inaugurazione della mostra “Art is Money, Money is Art”, galleria Rosso20sette arte contemporanea (Via del Sudario 39), per prendere in analisi un soggetto interessante: l'esposizione di opere d'arte per lo più street (autori come Banksy e Solo, Dface e Diamond) accostate dallo stesso supporto, la banconota da un dollaro, a nomi di grande influenza culturale come Warhol, Beuys, Pistoletto e Haring. Come introdotto da Giorgio De Finis nella presentazione,
scopo della mostra non è quello di rivelare un divertissement da collezionista. La prima tendenza nella mentalità dell'artista è quella qui mostrata: la fuga dal mondo della finanza, micro o macroeconomica che sia, con la sua eseguita iconoclastia, ironica in alcuni punti, feroce in altri. Ma proprio quest'iconoclastia si riaccartoccia, come alcune banconote alla mostra 6
esposte, seguendo nuovamente un altro percorso: dimostrare che l'estetica del dollaro, ricordando le parole di Warhol, è un'opera d'arte già di per sé. Sfruttare tale occasione artistica per farla propria, come un pittore ruba l'occasione paesaggistica che si trova davanti, riesce poi a celebrare l'esistenza storica, magnifica della finanza stessa, dello sviluppo economico e dei grandi cambiamenti di stime e valori produttivi.
Di nuovo ci si affaccia ad un discorso viscerale: per un’arte disfunzionale o per un’arte celebrativa? Ma in fondo l'obiettivo era quello idiomatico del prescindere dal soggetto, ironicamente collegato con l'idea di mercato, e di vedere cosa c'è dietro la singola banconota appesa, come sia possibile che un dollaro sia salito ad un valore che superasse le diecimila unità.
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Sebbene di fondo esistano molti altri artisti che basano la propria visione su questo ambiguo e inafferrabile rapporto arte – mercato, nomi come Dalì, Cattelan e Koons, la mostra riusciva a includere perfettamente il discorso qui introdotto, attraverso opere per molti versi interessanti nella loro inconsapevolezza d'esserlo. La considerazione più ovvia è che il mercato lo ritiene di esserlo, inconsapevole ma corretto, sensato ma pronto al profitto. Eppure la campagna che ci veniva mostrata, l'accoppiamento di cui si è parlato all'inizio, rimane così positiva, che è sembrato di contropiede trovare delle soluzioni ad un futuro mercato in evoluzione. Giorni a seguire abbiamo incontrato Edoardo Marcenaro, collezionista e curatore della mostra, insieme al gallerista, con cui abbiamo avuto una conversazione lucida e calzante. L'obiettivo era semplice e diretto: individuare al meglio le dinamiche di questa araba fenice, il mercato dell'arte italiano. Come ti sei avvicinato al mondo dell'arte? Lavoro come avvocato interno in una multinazionale, mi occupo infatti contratti internazionali. Materia distante dal mondo artistico, che è la mia valvola di sfogo: chiaramente un lavoro che include negoziare, litigare, stare attenti a cosa si dice fa sì che quando trovo davanti un mondo all'insegna della libertà e del divertimento mi ci trovo per l'appunto più d'accordo. Ho cominciato dai poster dei Rolling Stones e dei Talking Heads, che col tempo, vero punto d'inizio del mio avvicinamento all'arte moderna, sono diventati poster di Hopper e Wesselmann. Nel 1999 ho cominciato a ricevere opere uniche, come quadri ad esempio, e da lì sono diventato collezionista. L'inizio è stato passivo quindi, valorizzando poi col tempo le proprie opere. Sì, partendo dal presupposto che mi sembrava folle spendere certe cifre per delle opere d'arte. Il passaggio dell'artista, per noi di Milano, dei Navigli alla galleria d'arte, con curriculum e un diverso approccio, mi ha sempre fatto esclamare “Voi siete matti!”. Da lì in modo graduale ho cambiato idea. L'abitudine nel costituire un tesoretto anno per anno però non mi ha portato a voler creare un'industria: quello che raccomando infatti è di non collegare mai l'arte all'investimento. Compro Diamond, Solo e Paloscia e penso che sia un investimento: questo per me è sbagliato. Quello che conta in primis è l'estetica. Se odi Donald Trump, ti metti un quadro che lo distrugge davanti al letto e ogni mattina ti alzi e vedi Trump. Adesso ho l'obiettivo di presentare un'arte più accessibile: al di là del multiplo di Warhol, lo rifiuterei in confronto ad
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un’opera di strada, fusa di un valore dinamico e vivo nel tempo. In particolar modo con gli artisti viventi, stabilire dei rapporti umani fa parte del progetto artistico che mi presentano e di cui faccio il curatore. Il passaggio di scenario, verso le opere d'arte più street e appartenenti ad un registro più umile, è significativo. Specialmente qui, al centro di Roma, vedere queste banconote rese opere d'arte è ironico ma d'impatto, fa riflettere al meglio sul vero significato delle opere. Io e gli altri collezionisti abbiamo voluto lanciare proprio questo messaggio, citando l'“affordable affair”, il messaggio dell'arte per tutti e da tutti. Un aneddoto suntivo di tutta la mostra può essere quello warholiano: negli anni 60 e 70 Warhol, dopo aver dichiarato che il dollaro era la moneta più bella del mondo, ad ogni suo party nella Factory firmava col suo nome decine di biglietti da un dollaro. In questo modo ponendoci sopra il proprio nome ne aumentava inevitabilmente il valore. La distribuzione però era talmente vasta che l'opera d'arte aveva il suo messaggio proprio in questo. Cosa spinge l'investitore o il collezionista medio a proiettarsi nel mercato dell'arte? Come trova dei giusti criteri di valore? Il valore è determinato sempre da una forma mancante di investimento medio, in ogni caso. La spinta molto spesso nell'investire nel mercato artistico è dovuta al fatto che è una via di mezzo tra quello dei piccoli investimenti mobili e quello dei grandi investimenti immobili. Ciò non significa che non sia pieno di rischi anche questo mercato. C'è una bellissima descrizione in “Oggetti di bellezza” di Steve Martin, attore e artista americano, dove descrive che una persona si innamora di qualcosa per un motivo estetico o economico e poi, dopo averla acquisita, torna a casa e dice “Cos'ho fatto?”. Questo è un estremo, poi c'è il rovescio, come il fatto che in America siano nati dei fondi d'investimento che utilizzano l'opera d'arte come se fosse un pacchetto d'azioni di Amazon. Io non li condivido entrambi. Quello che conta è il criterio di mezzo, senza sbilanciarsi. Parliamo di memorabilia, le opere d'arte non intese come tali dallo stesso artista: crede che il loro inserimento nel mercato abbia mozzato le gambe al mercato stesso? Ritorniamo a Warhol: quel singolo invito su dollaro posso trovarlo nelle aste che conosco anche a cinquecento euro. Un po' troppo per un opera d'arte così volutamente “serializzata”. Dipende sempre dalla galleria, se ne trovi una onesta stai sulla giusta strada. Ci sono dei criteri, ma non concernono la mia professione: i parametri in gioco sono stabiliti dai galleristi. 7
Difficile è operare una denuncia in questi casi: Banksy e artisti simili hanno già sul mercato migliaia di non-opere pronte per le aste online. Contenere il fenomeno è come osservare un gatto che si morde la coda e provare a fare qualcosa. Anche un singolo disegno può essere riproposto sul mercato, fatto su un calendario o su un tovagliolo di carta. Devi importi di non comprare certe cose, mi autodisciplino in questo modo. Anche se dovessero offrirmi un bozzetto di una certa importanza a diecimila euro, ringrazio e lascio perdere. Pensa al paragone americano, lì nasce proprio l'autografo. Ci sono dei negozi in cui li vendono, dove a seconda del tipo costano anche di più. Un autografo sbiadito costa meno di uno sopra una foto scattata sul posto, meno ancora rispetto a quello sulle mutande di Uma Thurman. Ma anche la prima edizione di un libro di Foster Wallace firmata dall'autore rimane un libro, alla fine della fiera. La pop culture sta rinascendo. Ad esempio molti artisti musicali pongono delle proprie opere d'arte, come Kanye West, al centro della scena. Un esempio sono le sue scarpe Yeezy, volutamente provocatorie perché dotate sia di lacci che di feltro strappabile. Cosa significa per il mercato l'avvento di questa accessibilità artistica così immediata e dirompente? Rimanendo nel confine di un minimo di criterio per giudicare l'opera, lo scenario è perlopiù positivo. Dipende tutto dal fatto che riceviamo così tanti stimoli confusi nel corso della giornata, che nel riuscire a riorganizzarli si partorisce sicuramente un'idea, anche
due. L'input ormai è al secondo: se mi addormento e rifletto al numero di stimoli ricevuti, pensa se fossi artista a quante idee potrei tirare fuori. Sta al mercato sempre a trovare il vero valore, però più andiamo avanti e più la scena sta diventando interessante e difficile da giudicare. La visione per il futuro e per questo presente immanente non è assolutamente negativa, bisogna solo mantenere la giusta dimensione estetica. Alla fine di una lunga discussione sulle opere esposte, l'incontro si è sintetizzato per punti chiari e concisi. Il mercato dell'arte è una struttura sorretta da galleristi e collezionisti, dove dentro gli artisti tengono i propri artifici. Il gioco finanziario si vede a volte sbilanciato verso il lato finanziario, quello dell'investimento sicuro, a volte verso quello della mostra in questione, più dedita ad un discorso di natura teorico-artistica. Il cliente non trova però grandi vie d'uscita se non incontra l'artista per una comprensione più approfondita dell'opera o se non riesce ad accettare il valore proposto in vetrina. La proposta più efficace, emersa dall'intervista, è quella di strutturare una mostra, unire opere distanti nel tempo e nello spazio con un unico filo conduttore. Il confronto tra l'opera e la sua limitrofa in questo modo accentuerà la ricerca nell'individuare l'estetica che si rifà più a noi osservatori. Tra i due estremi citati del cliente investitore, quello che realmente prevarrà sarà proprio quest'estetica, che dovrà combaciare o ampliare quella del visitatore.
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di Daniele Gennaioli
Comprami, io sono in vendita Panoramica sulla valutazione di un’opera d’arte. Nel Diciannovesimo secolo l’artista, uomo d’affari e filosofo politico William Morris scrisse che le persone avrebbero dovuto seguire un’unica regola aurea nella loro intera esistenza: “non abbiate nulla nelle vostre case che non reputiate utile o non crediate sia bello”. 8
Si può ancora affermare la netta predominanza della matrice estetica quando si acquista un’opera d’arte? Il mercato dell’arte è un’industria fiorente ed in continua espansione, la cui ragione di vita e scopo fondativo è di attrarre il maggior numero possibile di acquirenti,
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anche a costo di diventare low-budget: l’11% delle opere battute all’asta nel 2017 aveva un valore massimo di mille dollari, il 20% è stato battuto tra i mille e i cinquemila, mentre la restante maggioranza oscillava tra i cinquemila e i cinquantamila dollari. Le nazioni protagoniste della gran parte delle transazioni artistiche si sono riconfermate Stati Uniti, Cina e Gran Bretagna, detenendo l’83% dei 63,7 miliardi di dollari delle vendite di settore (fonte: UBS, ‘The Art Market 2018’). Ma come vengono impiegate queste cifre esorbitanti? Chi stabilisce cosa è degno di essere considerato arte, nonché il suo valore commerciale? Partendo dal presupposto assiomatico che l’Arte è e deve essere esteticamente appagante, quest’ultima deve tuttavia essere considerata come comunione “col conoscitivo e con l’etico [...] entro l’unità della cultura” e ricondotta “sulla via maestra dell’unitaria cultura umana” (cfr. Bachtin, ‘Estetica’). Per questo motivo, essendo una definizione tanto esaustiva quanto criptica e astratta, non si pretende che il fruitore e/o l’eventuale compratore indovinino o imbocchino la retta via, e dunque ci si avvale di pareri esterni autorevoli, come la figura del critico d’arte o del gallerista, auspicabili degni conoscitori degli spesso oscuri meccanismi della valutazione di un elaborato artistico. L’arte è la risorsa “scarsa” per eccellenza, puntando tutto il suo intrinseco valore nella non riproducibilità e nell’originalità dell’intuizione: Baumol e Bowen, nel 1966, teorizzavano appunto la non progressività del settore culturale, essendo quest’ultimo “affetto” da scarsi rendimenti di scala e mancanza di economie dei costi. Il valore di un’opera d’arte è storicamente attribuito dal mercato, inteso come spontaneo incontro delle soddisfazioni estetiche, speculative e artistiche di domanda e offerta, dai pari e dagli esperti, il cui inappellabile giudizio ha fatto, dall’Impressionismo ad oggi, il bello ed il cattivo tempo per un artista (cfr. Wijnberg-Gemser, ‘Groups, Experts and Innovation: the selection System of Modern Visual Art). Questi personaggi agiscono secondo dei criteri, che costituiscono una sorta di canovaccio per quanto riguarda la fluttuante valutazione monetaria di un’opera, in quanto non esistono regole ben consolidate alla base della sua valutazione: è necessario considerare fattori storico-artistici come la tecnica, il contenuto, le dimensioni e l’epoca dell’opera, ma anche requisiti più marcatamente personali dell’artista tra i quali si annoverano la liquidità (se bassa o elevata), l’interpretazione più o meno ostica del suo elaborato o se si tratta di un capo scuola piuttosto che di un continuatore. Dal punto di vista economico, invece, si considera esclusivamente la domanda di opere d’arte e la loro offerta. A tutti è ben nota la coesistenza di “filosofia”,
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divertimento e passatempo all’interno della domanda, ma spesso e volentieri viene fatta sparire dietro una generica facciata “culturale”, dando per scontato che il mero consumo di un prodotto artistico sia “culturale”. L’efficienza riguarda esclusivamente l’appagamento di questa domanda aggregata. In sostanza, l’economista si occupa d’arte perché dietro la speculazione filosofica
c’è un fenomeno di consumo di massa che la natura conoscitiva dell’arte strappa all’effimero e dotata di rilevanti effetti collettivi di benessere. Ed è proprio qui che subentra il ruolo della “moda”, con un meccanismo decisamente scontato: più persone lo vogliono, più il prezzo aumenta. Esattamente grazie a ciò si arriva a poter vedere Jean-Michel Basquiat fatturare 313 milioni di dollari e superare la soglia dei 100 milioni dalla vendita di una singola opera d’arte, che il compratore originario acquistò nel 1984 a circa 5300 volte in meno del valore a cui l’ha rivenduta. In conclusione, ai posteri l’ardua sentenza: giusto o sbagliato che sia, se per moda o per genuino interesse non è compito di nessuno tranne che dell’acquirente stabilirlo. Critici d’arte, curatori, economisti sono semplicemente delle pedine nella scacchiera del mercato dell’arte, in cui a dettare legge è (come del resto per tutto) il compratore.
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di Carolina Scimiterna
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Quale storia dell’arte per un’arte contemporanea? Conoscere un percorso storico dell’arte può sembrare un problema banale. Basta aprire il manuale del liceo e troviamo cronologicamente esposte tutte le correnti, almeno quelle occidentali, che inanellate una dopo l'altra ci raccontano lo sviluppo di forme e contenuti con cui l’umanità ha scelto di rappresentarsi. Costruire questa narrazione, in rapporto alla storia degli uomini, è invece una questione assai più complessa, che cerca di coniugare un concetto astratto come l’arte ad una produzione materiale di opere, frutto di gusto personale ed eventi passati. Una narrazione infatti è qualcosa che avviene sempre a posteriori, dopo i fatti, analizzando le cause e gli effetti, e per quanto riguarda l’arte ha un inizio riconosciuto, anche se ancora in una forma embrionale e superata. Si tratta delle “Vite” di Giorgio Vasari, apparso per la prima volta nel 1550. Qui il Vasari, anche lui artista, miscelando riferimenti biografici, descrizione delle opere, argomenti tecnici e una dottrina sullo sviluppo dello stile fornisce il primo racconto sull’arte, quindi una storia dell’arte che per definizione è il tentativo di costruire il corso della vicenda artistica. Fino alle Avanguardie artistiche del Novecento, primo momento di crisi, riconoscersi in uno sviluppo storico per gli artisti è stato naturale, al di là della concezione che si è voluta dare a tale storia: talvolta ciclica, con un ritorno periodico del classicismo e del suo superamento, talvolta lineare, con un continuo sviluppo teso al futuro. Un processo razionale e teleologico era portato avanti dagli artisti e descritto dagli storiografi. Oggi invece gli artisti tendono a non voler più essere riconosciuti in questo processo evolutivo. Non esiste forse più una storia
dell’arte, accademica, in cui riconoscerci e che segni il percorso da seguire o dal quale allontanarsi, ma senza poterne mai prescindere. Esistono invece tante storie dell’arte. Narrazioni personali, legate anche al modo in cui si produce e a ciò che si produce, se è vero che una volta che cambia il mezzo è esso stesso a veicolare le forme dell’associazione e dell’azione umana. È forse finita quindi la storia dell’arte come l’abbiamo sempre conosciuta e studiata? Una storia che attraverso il racconto del veicolo della rappresentazione, l’opera, forniva un servizio al critico per poter elaborare la sua interpretazione, e collocarla là dove nel processo storico assumesse più significato. Ma di quali rappresentazioni e quindi di quali opere parliamo oggi? Di un’arte sempre più concettuale. Se prima la rappresentazione era frutto del lavoro dell’artista, in uno sviluppo storico, in cui il critico si inseriva per rappresentare a sua volta verbalmente tale opera, oggi questo non è più così possibile perché il campo della critica è invaso da quello dell’artista, che progetta già una critica di sé stesso. L’opera è sempre più simile ad una sola interpretazione, un discorso che necessita riferimenti e collegamenti, una coerenza che solo lo stesso artista può dare. Stanno cambiano i ruoli, la tradizione canonica in cui si inserivano l’artista il critico e lo storico. E sta cambiando anche la storia dell’arte, che ha bisogno di subire una trasformazione. Le opere non sono più testimonianza di un più generale sistema di rappresentazioni, una storia dell’arte unitaria, ma singoli eventi, ognuno con la propria personale verità.
Quanto vale un’idea? Conoscere un percorso storico dell’arte può sembrare un problema banale. Basta aprire il manuale del liceo e troviamo cronologicamente esposte tutte le correnti, almeno quelle occidentali, che inanellate una dopo l'altra ci raccontano lo sviluppo di forme e contenuti con cui l’umanità ha scelto di rappresentarsi. Costruire questa narrazione, in rapporto alla storia degli uomini, 10
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di A.D.
è invece una questione assai più complessa, che cerca di coniugare un concetto astratto come l’arte ad una produzione materiale di opere, frutto di gusto personale ed eventi passati. Una narrazione infatti è qualcosa che avviene sempre a posteriori, dopo i fatti, analizzando le cause e gli effetti, e per quanto riguarda l’arte ha un inizio riconosciuto, anche se ancora in
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una forma embrionale e superata. Si tratta delle “Vite” di Giorgio Vasari, apparso per la prima volta nel 1550. Qui il Vasari, anche lui artista, miscelando riferimenti biografici, descrizione delle opere, argomenti tecnici e una dottrina sullo sviluppo dello stile fornisce il primo racconto sull’arte, quindi una storia dell’arte Allontanandosi dal figurativismo, o comunque limitando la necessità di un’abilità artigianale (fino -talvolta- a escuderla dal processo creativo), l’arte contemporanea spalanca le porte allo scetticismo, ed è subito un levarsi di “ma che è sta roba? potevo farlo pure io”. E se la realizzazione pratica dell’opera è accessibile a chiunque, questa che senso può avere? L’instancabile dibattito sul valore dell’opera d’arte nasce dall’incapacità di definire il valore dell’idea dietro la sua realizzazione pratica, dal momento in cui questa cessa di basarsi sulla perfezione tecnica.
legittima. Ogni tentativo d’espressione artistica sarà mediato dalla necessità di un chiarimento ideologico, di un fondamento etico, spirituale, simbolico, concettuale, inconscio, talmente essenziale da portare al venir meno d’ogni altro presupposto formale. Ed è così che per esprimersi l’artista crea il minimalismo, il concettuale, l’informale e così via. È da questo momento in poi che iniziamo a dubitare che quello che stiamo guardando, da spettatori, sia autentico, sincero, sentito, impossibilitati come siamo nel giudicare un’immagine che, in fondo, si basa su un pensiero e niente più. Cosi, l’idea che un Pollock possa essere venduto per 140 milioni di dollari ci sembra follia.
Il contemporaneo, da un certo momento in poi, ha smesso di considerare l’arte imitazione del vero: non c’è più necessità di sviluppare abilità tecniche per la realizzazione artigianale di uno studio della realtà. Questo, certo, ha inizio anche a causa dello sviluppo di mezzi tecnici che rendono la resa realistica dell’opera non più necessaria; sto parlando, anzitutto, della fotografia. Come sappiamo, è proprio la fotografia a spingere i pittori impressionisti a staccarsi dall’imitazione della realtà, per cercarne l’impressione. Ma c’è da dire che nessuno potrebbe mai dubitare del valore di un Monet, né tantomeno della legittimità della sua presenza (e di quella di qualunque altro impressionista) all’interno dell’istituzione museale. Non è quindi spiegabile con il solo sviluppo tecnologico la radicale virata verso l’astrattismo ma soprattutto verso il concettualismo.
Ma la questione si complica ulteriormente se consideriamo l’attenzione che, dal Dada in poi, ed in particolare col Ready Made, si pone all’oggetto comune. Duchamp, per primo (e a dirla tutta, in modo involontario) rende un semplice oggetto, già fatto, già completo, un’opera d’arte, semplicemente ponendo una ruota di bicicletta su uno sgabello per osservarne il movimento. Quindi, quando oggi si dice “ti pare giusto? Se questa penna la metti in una sala di museo con un cartellino accanto, diventa automaticamente un’opera", forse non si dovrebbe puntare il dito contro il fenomeno del white cube, ma bisognerebbe considerare che, se questo è possibile, è anche perché un artista, più di (e fa strano dirlo) cento anni fa, si è interrogato sulla poetica intrinseca nell’oggetto insignificante, l’ha reso ironicamente qualcos’altro, cambiando per sempre le regole del gioco. Straordinario e ordinario, eccezionale e insignificante diventano la stessa cosa, e non sappiamo più distinguerli, ed è anche per questo che non sappiamo se il valore economico -o la validità artistica- che gli stiamo attribuendo siano meritati.
“L'arte ha avuto un principio, può avere una fine storica. Come sono finite le mitologie pagane, l'alchimia, il feudalesimo, l'artigianato, così può finire l'arte. Ma al paganesimo è succeduto il cristianesimo, all'alchimia la scienza, al feudalesimo le monarchie e poi lo Stato borghese, all'artigianato l'industria: che cosa può succedere all'arte?” così Giulio Carlo Argan, nel 1970, si interrogava sul destino dell’arte. Ma l’arte dopo la sua fine è sempre arte, perché l’arte non è né paganesimo né cristianesimo, l’arte, in questa equazione, è la fede stessa, universale. Ma dopo il trauma delle grandi guerre, in particolar modo dopo l’assurdità della seconda guerra mondiale, avviene una rottura talmente profonda che l’artista, l’uomo, guarda alla realtà e si rende conto che non ha più alcuna ragione per volerne rappresentare l’aspetto. L’artista arriva a mettere in discussione anche il suo stesso ruolo, la sua stessa identità, arriva a dubitare che la sua esistenza sia
Quando poi questo discorso viene ripreso dai NeoDada e dal Nouveau Réalisme, si aggiunge l’ennesima implicazione. Nascono le bandiere di Johns, gli oggetti di Arman, o le tavole intrappolate di Spoerri. In particolare, quest’ultimo, fissando sul tavolo gli oggetti dopo che qualcuno vi ha mangiato, lascia anche la totale autonomia compositiva al caso. Certo, il caso entra in parte anche nel dripping di Pollock, ma questa volta vuol dire qualcos’altro: non solo l’artista non ha, o non ha intenzione di utilizzare, le sue abilità tecniche, ma ambisce a scomparire totalmente dall’opera, facendosi tramite neutrale. Lo stesso si può dire anche per le opere che devono la loro genesi ad un processo meccanico, ma anche per il facile bersaglio del ready made. La mano dell’artista vuole scomparire, ma allo stesso tempo è l’unica cosa che conta, e con gesto religioso, come un re Mida in un delirio di onnipotenza, conferisce battesimo artistico ad ogni cosa che tocca.
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Ma se l’uomo ha sentito la necessità di esprimersi tramite quelli che qualcuno chiama “scarabocchi”, o oggetti che per qualcuno non hanno motivo di essere considerati arte, è perché porta con sé l’eredità del suo tempo storico, e non può far a meno di dichiararlo in ogni suo gesto. L’arte è sempre stata lo specchio dell’umanità, e se quello che ha da mostrarci non ci piace, se per noi non ha alcun valore, dovremmo chiederci chi siamo.
Da Creatore a creativo Quindi un’arte delle idee, per le idee. L’opera d’arte non vuole più appagare la vista quanto, per usare le parole di Duchamp, “il nostro appetito di comprensione”. L’arte contemporanea si muove in un territorio dove tutto è lecito e, su insegnamento delle avanguardie, insegue una creazione libera, alla riscoperta della vita, che non sia tenuta per mano da canoni, abitudini o convenzioni. Ma quanto questa “zona anarchica” è sfruttata per una ricerca inedita sulle possibilità dell’esistenza e quanto è solo un asilo nido per bambini alla ricerca di attenzioni facili e divertimenti insipidi protetti dal “nessuno può capirmi”? Quanto queste idee sono intuizioni geniali sul presente e quanto trovate pubblicitarie costruite per attirare l’attenzione? Certo, l’arte contemporanea (e con lei quasi ogni forma di creazione oggi) è stretta suo malgrado nella dicotomia contenuto/comunicazione, rendendo difficile nella maggior parte dei casi capire dove finisca uno e inizi l’altra. Alcuni artisti hanno anche saputo dar voce a questa complessità contraddittoria con intelligenza ed ironia, come Piero Manzoni con la sua “Merda d’artista”. Il fruitore non può infatti negare che si tratti di un “prodotto” dell’artista (per certi versi addirittura della 12
più pura e primordiale forma di creazione umana. Georg Groddeck dice: “Tutte le opere della scultura, i capolavori di Fidia e di Michelangelo non esisterebbero se il neonato non avesse formato con gli intestini e con l’ano i suoi stronzi, per poi lavorarli con le manine in immagini della sua fantasia”.) e la possibilità stessa che un barattolo di feci possa essere un’opera d’arte è tanto provocatorio quanto indiscutibile. Il fatto poi che un simile oggetto venga venduto per 220.000 euro (come è accaduto il 6 Dicembre 2016 a Milano) mette in ridicolo dall’interno il mercato, pronto infatti ad attribuire cifre esorbitanti a qualsiasi “cagata” sia appartenuta a un personaggio eccentrico, famoso e morto in giovane età. Tuttavia non sono tutti così consapevoli ed irriverenti come il grande Piero. Secondo il critico e curatore francese Jean Clair i “creatori” sono diventati “creativi”: “quelli che, diceva Mathurin Régnier, pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro. Piscio, dunque penso.” Scandalo senza utopie morali, diversità omologata, novità noiosa, moda. Sempre secondo Jean Clair il termine “Arte contemporanea” è una versione più mansueta di “Avanguardia”, parola utilizzata comunemente fino agli anni ’70: “Arte contemporanea è una griffe, un marchio che dà valore a qualcosa che non vale nulla. [...] le arti plastiche sono fatte di oggetti e prodotti dal valore fiduciario troppo alto che non rientrano più nel campo del gusto”. E ancora: “Si va verso una galleria d'arte moderna e contemporanea che non ha un tesoro, ma è un luogo dove presentare cose nuove in accordo con il mercato. Le banche hanno una riserva aurea e serve per autenticare la carta che non avrebbe valore, è la stessa cosa.” L’homo oeconomicus (specie che ha da tempo soppiantato l’homo sapiens nel dominio del pianeta) è tenuto non tanto a saper-fare qualcosa, quanto a saper-vendere qualcosa, che siano i suoi prodotti o la sua persona. La pubblicità ha poi da tempo cambiato le regole del gioco: l’immagine vince sulla sostanza e non vende il prodotto migliore ma quello più accattivante. Oltretutto in un mondo in cui la durata di attenzione media non supera gli 8 secondi e le persone attraversano i corridoi di un museo come scorrono la bacheca di Facebook, gli artisti che mirano a campare con le proprie opere devono accertarsi che queste si distinguano da quelle dei loro rivali conquistando rapidamente l’attenzione del pubblico. Persino la Cappella Sistina, spesso citata come la più alta espressione artistica nella storia dell’uomo, non attrae più così com’è e viene trasformata in “Giudizio Universale”: il primo show di “arteinment” con Pierfrancesco Favino nel ruolo di Michelangelo, proiezioni 3D, danze dal vivo e musiche di Sting, per
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assicurare una qualche forma di coinvolgimento ai paganti di via della Conciliazione, incuranti che la vera Cappella si trovi a pochi passi da loro. Il sito web dell’Auditorium recita senza nessun imbarazzo: “l’arte incontra lo spettacolo. […] Un impianto teatrale e tecnologico unico al mondo restituisce la potenza del capolavoro di Michelangelo”. Le nostre menti flaccide, rese incapaci di sentire ed immaginare, hanno bisogno di macchine per trasformare in spettacolo qualsiasi esperienza e provare l’illusione di essersi relazionate con qualcosa; che insomma i pensieri e i sentimenti che ci potrebbero attraversare mentre avviciniamo l’opera di un artista ci vengano spiegati ed imboccati attraverso un apparato registico (qui Marco Balich, che non manca di lasciarsi definire “designer di emozioni”). La comunicazione per immagini, “senza la quale non ci sarebbe cultura di massa” (G. C. Argan), ci rende assuefatti a colori innaturali e fluorescenti, ci abitua gli occhi a costruzioni visive, ci costringe ad introiettare una quantità eccessiva di figure, e quello che viene dopo deve essere sempre più straordinario di ciò che verrà. Siamo assuefatti alla meraviglia, alla novità, all’intrattenimento, e ci annoiamo sempre più in fretta. E’ per questo che tutti vanno a visitare prima facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore a Firenze solo ora che l’hanno ricostruita in scala 1:1 nel Museo del Duomo, e non prima, quando le sue statue erano esposte in modo meno scenografico: perché ora genera stupore, è una novità. Siamo diventati incapaci di contemplare, incapaci di apprezzare il silenzio o la profondità di un’immagine semplice. Nel “Crepuscolo degli idoli” Nietzsche sostiene che serva un educatore per imparare a vedere, ovvero “assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciar venire a sé”. Questa sarebbe la “prima istruzione alla spiritualità”, imparare a “padroneggiare gli istinti che inibiscono”. Al contrario la debolezza dello spirito coinciderebbe quindi con l’“incapacità di resistere a uno stimolo”, di dire no. Secondo il filosofo coreano Byung Chul-Han la bellezza di un tramonto sta in tutto quello che non riesce a comunicarci. La relazione stessa si basa sulla differenza incolmabile tra “Io” e “l’Altro”. In questo vuoto nasce il desiderio, Eros. Ma se tutto quello che guardiamo si sforza di essere immediatamente comprensibile e nessuno ci educa ad attendere lo sviluppo interiore della relazione con qualcosa che non capiamo, diventiamo incapaci di conoscere, di scegliere, di amare, diretti solo dall’astuzia degli esperti di comunicazione. Se gli artisti poi assecondano questa tendenza malata producendo opere d’arte che non richiedono pensieri autonomi e agiscono sugli spettatori con la logica di
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un meme, rinunciano alla controffensiva e tradiscono il loro pubblico. E’ chiaro che quando Rudolph Beuys diceva: “qualsiasi uomo è un artista” non intendeva dire: “qualsiasi cosa produrrai sarà bella e giusta”. Insomma davvero siamo pronti a rinunciare a bellezza e profondità nell’arte come nella vita attenuando il dolore con palliativi temporanei di facile fattura quali il quasi-proibito, il quasi-strano e il quasi-divertente? Dall’altro lato, paradossalmente, queste forme d’arte adempiono al loro compito di raccontare il presente e riflettere la condizione dello spirito umano: I padiglioni della Biennale di Venezia si riempiono infatti di opere provenienti da tutto il mondo, eppure identiche tra loro nel loro narcisistico e vuoto bisogno di essere notate. Ed è questa in un certo senso la tesi del partito opposto, che trova il suo campione in Andy Warhol, secondo il quale ogni forma di trasformazione sociale non può che essere assorbita e assecondata in modo del tutto acritico, come non ci riguardasse. Per lui il dibattito contemporaneo tra contenuto e comunicazione si risolveva facilmente: “la comunicazione è il nuovo contenuto”. “Sono una persona profondamente superficiale” diceva di sé stesso, e bisogna riconoscere che grazie al suo cinismo apolitico è stato in grado di riconoscere ed accettare il modus vivendi proprio del capitalismo, affermatosi ormai al meglio in tutte le democrazie occidentali. La sua famosa “Zuppa Campbell” si fa portavoce glamour della società dei consumi, in cui non è icona ciò che nella sua armonia e perfezione muove il nostro spirito ad elevarsi, bensì ciò che porta la nostra proprietà materiale ad allargarsi, ciò che è acquistabile. Una banale zuppa può diventare, attraverso la narrazione iconografica, bella come Maria Vergine e trasformare ogni pasto in un momento sacro, in cui per soli 99 centesimi le promesse mosse dalle immagini (riuscendo dove la religione ha sempre fallito) diventano reali e mentre la mandiamo giù possiamo sentire i simboli potenti della gratificazione occidentale riempirci il corpo. Transustanziazione del consumabile. (Anche se, come ogni droga, l’effetto dura solo poco tempo, lasciandoci deboli e bisognosi di comprare ancora.) D’altra parte Andy Warhol metteva radici in un’epoca diversa e per lui è stato forse più semplice accettare il progresso, per gli aspiranti artisti nati in quest’epoca di fascismo culturale, cresciuti dai media di massa sotto la legge del “è tutto qui, cosa vai a cercare” le scelte sono essere critici o essere zombie, sputare sangue per raccontare il presente o soccombere all’ossimoro di un’arte facile.
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di Laura Cocciolillo e Giovanni Onorato
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Palestina la terra della (R)ESISTENZA
I palestinesi non soffrono solo a Gaza, ma anche dove il diritto internazionale gli aveva assegnato territori sicuri. Dove sono sottoposti a un vero e proprio regime di apartheid continua a pag. 16
AT T UA L I TĂ€
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L’APARTHEID IN PALESTINA
Come si articola l’occupazione israeliana nelle zone palestinesi A, B e C definite dagli accordi di Oslo degli anni ‘90
5890
Oltre 100.000
persone rimaste senza acqua corrente dal 2011 al 2013. Nelle aree A, B e C (West Bank) l’acqua è destinata ufficialmente all’80% ad uso israeliano
[DATO CUMULATIVO DETENZIONE]
palestinesi detenuti o prigionieri dell’Israel Prison Service. Sia detenuti che prigionieri sono classificati come “criminali”
infografica di Antonio Pronostico
(Statistica dello stesso IPS e datata febbraio 2018)
880
Tra i 150 e i 250
(Statistica dello stesso IPS e datata febbraio 2018)
(Statistica dello stesso IPS e datata febbraio 2018)
palestinesi detenuti per essere stati in Israele illegalmente
palestinesi sono stati detenuti per brevi periodi dai militari
127
colonie nelle aree A, B e C (West Bank, esclusa Gerusalemme Est) non riconosciuti dal diritto internazionale né dal governo israeliano. (Dato di fine 2015)
361
di questi detenuti sono minorenni (Statistica dello stesso IPS e datata febbraio 2018)
2483
[DATO CUMULATIVO CASE DEMOLITE]
427
di questi detenuti sono in “detenzione amministrativa”. Il che significa che sono imprigionati senza accusa ufficiale né processo, dando per scontato che compieranno un crimine in futuro. La detenzione amministrativa non ha limiti di tempo (Statistica dello stesso IPS e datata febbraio 2018)
case demolite nelle aree A, B e C (West Bank) dal 2004 a oggi
circa 100
insediamenti nelle aree A, B e C (West Bank, esclusa Gerusalemme Est) non riconosciuti dal diritto internazionale ma insediati con assistenza da parte del governo (Dato di fine 2015)
+160%
di coloni israeliani nelle aree A, B e C (West Bank) dal 1992 a oggi. Si è passati da un totale di 226.000 a 588.000 coloni (Dato di fine 2015)
2091 125
di queste case demolite per scopi militari dal 2004 a oggi.
di queste case demolite perché costruite senza permessi a oggi. I permessi non dati ai palestinesi sono facilmente ottenibili per colonie e insediamenti israeliano (questi ultimi illegali anche per il diritto israeliano), che spesso vi si sostiuiscono
+294%
4,1%
di coloni israeliani nelle zone A, B e C (West Bank, esclusa Gerusalemme Est)
è il tasso di crescita annuo della popolazione negli insediamenti e nelle colonie. È oltre il doppio del tasso di crescita totale della popolazione israeliana (2%)
(Dato di fine 2015)
(Dato di fine 2015)
1382
case demolite con scopo di “punizione collettiva” dal 1987 a oggi. Fino a gennaio 2005 compreso, le case demolite con questo scopo sono state 1115, di cui 664 solo tra ottobre 2001 e gennaio 2005. Il 17 febbraio 2005 il Ministero della Difesa israeliano aveva annunciato che questa pratica sarebbe stata messa al bando, ma l’ultimo dato di una casa demolita risale a dicembre 2017
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25%
della crescita annua è dovuta all’arrivo di nuovi coloni e al ricollocamento di essi da parte di Israele (Dato di fine 2015)
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israeliano. Una volta atterrato a Tel Aviv iniziano i controlli, classiche domande standard: Motivo della visita? Turismo. Prima volta in Israele? No. Quali città vuoi visitare? Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme (Le prime due sono città israeliane, Gerusalemme invece è una meta del turismo internazionale: mete poco sospette). Vuoi andare a Betlemme e nei territori occupati? No.
Ansia aeroportuale Durante il mese di dicembre ho deciso di andare in Palestina ad At-Tuwani, un villaggio al sud di Al Khalil (Hebron), per prendere parte alla resistenza nonviolenta portata avanti dal comitato di resistenza popolare delle colline a sud di Hebron insieme ad un'associazione italiana, Operazione Colomba. Il 4 dicembre 2017 sono partito dall'aeroporto di Fiumicino diretto a Tel Aviv per poi raggiungere quelli che Israele chiama territori occupati, ma che a me piace identificare con il loro nome legittimo: Palestina. I problemi per chi vuole fare attivismo o anche più semplicemente turismo in Palesti18
na iniziano da quando si sale sull'aereo. Non appena il volo è decollato l'ansia ha iniziato a travolgermi, spingendomi a studiare tutta la guida turistica per inventarmi una storia credibile da raccontare alle forze dell'ordine israeliane incaricate di sorvegliare le entrate e le uscite dello stato di Israele: l'aeroporto scandisce l'inizio e la fine del sistema di apartheid e controllo nei territori israelo-palestinesi. Per entrare in Palestina bisogna necessariamente passare dallo stato di Israele, si può decidere di passare dalla Giordania, ma comunque sia per entrare nei territori palestinesi è necessario passare il confine che è presidiato costantemente dall'esercito
e dai paesi arabi alleati (Egitto, Giordania, Libano, Siria e Iraq) che sono finite tutte con una vittoria schiacciante dello Stato israeliano. Ciò ha comportato l'occupazione militare di zone al di fuori dei confini di Israele e la cacciata dei palestinesi, che furono obbligati a chiedere asilo politico in altri Stati o a rifugiarsi in città ancora sotto il controllo palestinese. Il risultato dei vari conflitti armati è stato la sempre più evidente frammentazione del territorio palestinese e l'allargamento dei confini dello stato israeliano.
Dopo le domande il poliziotto controlla i registri per vedere se sono segnato come elemento pericoloso per Israele.
Dopo le domande il poliziotto controlla i registri per vedere se sono segnato come elemento pericoloso per Israele, guarda il passaporto e poi mi lascia andare con un visto di 3 mesi (massimo per il turismo). Per fortuna l'entrata è andata bene. Uscito dall'aeroporto mi faccio portare direttamente a Gerusalemme da un nesher (navetta) per poi prendere un autobus di linea che mi deposita a Betlemme, dove mi stanno aspettando B. e N., due volontarie italiane. Dopo avermi accolto con una ricca cena a base di Shawarma (piadina con kebab), mi iniziano a spiegare la situazione odierna palestinese. Quello che esce dal loro racconto è che non si può più parlare di un conflitto tra i due popoli, bensì di un'oppressione militare e di un sistema di apartheid compiuta dallo stato israeliano a discapito di quello palestinese. I problemi odierni partono dalle varie guerre che ci sono state nel XX secolo. Da quando è stato dichiarato lo stato di Israele (1947) ci sono state diverse guerre promosse dalla Palestina
È con questa situazione che si arriva agli accordi di pace del 1993. Dopo la prima intifada portata avanti da Yasser Arafat e dall'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), si riuscì ad arrivare a un accordo con la controparte israeliana a quel tempo rappresentata da Yitzhak Rabin (primo ministro) che si concretizzò con la firma degli accordi di Oslo. Il trattato di pace prevedeva che l'OLP riconoscesse lo stato di Israele entro i suoi confini originari (sanciti dalla risoluzione Onu del 1947) e che smettesse di muovere guerra e di fare attentati terroristici, mentre lo
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stato israeliano avrebbe ritirato le truppe e smantellato le colonie create al di fuori dei propri confini lasciando la Palestina autogovernata dall'autorità palestinese. Al fine di ritirare le truppe israeliane, le città e i villaggi palestinesi vennero divisi secondo diverse aree: A, B e C. L'area A è sotto il controllo civile e militare palestinese, ne fanno parte le grandi città come Betlemme, Yatta, Ramallah, Nablus, Hebron. L'area B è sotto il controllo civile palestinese, quello militare è in mano alla autorità israeliana, un esempio possono essere i campi profughi. L'area C è sotto il controllo civile e militare israeliano, ne fanno parte i piccoli villaggi vicino a zone di confine, come At Tuwani.
lestinese che vive in area A può intraprendere lavori edili, come la costruzione di una scuola o di una casa, con normale facilità e l'esercito israeliano non ha il potere d'intervento all'interno dell'area (solo in teoria). Un palestinese che vive nelle aree B o C invece non può costruire liberamente, deve chiedere all'amministrazione civile israeliana (DCO) un permesso per farsi autorizzare i lavori. La cosa che succede costantemente è che la DCO non rilascia il permesso spiegando che per motivi di sicurezza non si può costruire in quell'area. Così un campo profughi resta senza ospedale, un villaggio senza scuola, una famiglia senza casa. Dopo questa discussione frustrante ed estenuante decidiamo di andare a dormire. Il giorno dopo saremmo andati in Jordan Valley.
Cronologia storica delle guerre arabo-israeliane / israelo-palestinesi fino ai trattati di Oslo del 1993 Si passa da conflitto ad apartheid proprio successivamente agli accordi di Oslo poiché, mentre le terre palestinesi sono state divise in aree, le truppe israeliane non si sono mai ritirate e le colonie hanno continuato ad aumentare in tutto il territorio palestinese. Si parla di apartheid dal momento che, in termini pratici, la divisione del territorio in aree comporta dei cambiamenti nella vita quotidiana dei palestinesi a seconda dell'area in cui vivono. Un pa-
1948-1949 prima guerra arabo-israeliana 1956 guerra con l’Egitto 1967 guerra dei sei giorni 1973 guerra dello Yom Kippur 1978 guerra del Libano 1982 guerra del Libano, operazione “Pace in Galilea”, massacro di Sabra e Chatila 1987 prima intifada 19
Il cesto del pane È con questo nome che i palestinesi indicano la Valle del Giordano, la zona più fertile della Palestina situata un po' più a nord di Gerusalemme, vicino a Jericho. Io e N. arriviamo in Valle del Giordano la mattina alle 7.00, l'ora in cui i pastori portano al pascolo le pecore. Ci accompagna “G. col cappello” dei Ta'Ayush (“insieme” in ebraico) attivisti israeliani contro l'occupazione, il quale ci illustra la situazione in Jordan Valley. G. inizia a spiegarci che dove stiamo andando non ci sono villaggi, i palestinesi vivono in tende con le loro famiglie e ogni famiglia vive in una zona circondata da colonie e insediamenti israeliani, che rendono impossibile la vita e la sussistenza dei palestinesi. Appena chiacchiero con un pastore la faccenda mi si fa più chiara: Le terre che vedi tra queste colline un tempo appartenevano alla mia famiglia, ma mi sono state rubate da Israele. Qui in area C oltre a non poter costruire non posso nemmeno coltivare, perché non ho acqua. L'esercito fa quello che vuole, espropria le terre circoscrivendo un'area col filo spinato, la presidia e la dichiara zona chiusa per addestramento militare o perché parco naturale, in più costruisce pompe che estraggono acqua dal sottosuolo, togliendola alle terre circostanti. I palestinesi non possono scavare per più di 2 metri altrimenti è reato e l'acqua è razionata, ci viene distribuita in cisterne dai militari israeliani. 20
Io e N. arriviamo in Valle del Giordano la mattina alle 7.00, l'ora in cui i pastori portano al pascolo le pecore.
shai (tè): Shukran tir (“grazie mille”). Afuan (“prego”).
Mentre il pastore si avvia con le pecore vicino alla colonia, io chiedo a N. di farmi chiarezza sul nostro ruolo di internazionali e sull'ultima parola pronunciata: Sumud. Sumud vuol dire resilienza sulla terra, è una parola araba che esprime il tipo di resistenza che hanno adottato i comitati di resistenza popolare. Sumud significa la volontà di continuare a risiedere e a coltivare le proprie terre nonostante le difficoltà, gli arresti e le uccisioni causate dall'occupazione israeliana. Sumud non è solo una parola, è vita. È continuare a vivere nel modo in cui l'hai sempre fatto, è andare a pascolare nelle terre che ti sono state sottratte per far spazio alla colonia, perché l'hai sempre fatto, perché quelle terre sono tue. Ecco perché noi siamo qui.
Poi si blocca, accende un fuoco con degli arbusti e ci mette sopra la teiera, mi guarda e continua: Lo vedi? E indica un agglomerato di casette di legno sulla collina opposta, distante più o meno 100 metri. Quello era un'area chiusa per addestramento militare, avevano montato degli enormi capannoni e ci lavoravano dentro giorno e notte; poi all'improvviso hanno smantellato tutto ed è comparsa quella colonia, dove vivono dei cittadini israeliani. Ora non posso nemmeno andarci con le pecore a pascolare, appena mi avvicino quelli escono, si bardano, e iniziano a scagliare pietre e a picchiare le pecore. Se chiamo i soldati mi arrestano perché sono andato troppo vicino alla colonia e non ho rispettato i limiti di sicurezza. Col fatto che le terre sono aride a causa delle idropompe, l'unica terra fertile è quella vicina alla colonia. Le mie pecore se non mangiano muoiono, e sono l'unica cosa che abbiamo per vivere. Alza la testa, mi guarda, mi sorride e mi porge un bicchiere di
Oggi porteremo il pascolo vicino alla colonia, dove la terra è fertile. Sumud.
Prende fiato e continua:
E riprende. Io sono nato in questa valle, tra queste terre. Un tempo la mia era una famiglia di beduini, ma da quando è iniziata l'occupazione militare non possiamo più spostarci senza un permesso. L'esercito vuole che io me ne vada a Nablus (in area A) per vivere una vita più agiata ma non abbandonerò le mie terre. Si fa più serio, e poi conclude: Scomodo
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Mentre il pastore si avvia con le pecore vicino alla colonia, io chiedo a N. di farmi chiarezza sul nostro ruolo di internazionali e sull'ultima parola pronunciata: Sumud. Scomodo
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Noi siamo qui per fare protezione e accompagnamento. Il nostro compito è quello di seguire e assecondare le azioni del palestinese, nonché di proteggerlo dagli attacchi dei coloni e impedirne l'arresto. Con i soldati è molto efficace la telecamera: stanno violando il diritto internazionale, per loro è scomodo essere filmati mentre abusano del loro potere illegalmente. I coloni se ne fregano del diritto internazionale e non si fanno problemi a usare violenza, anche i palestinesi hanno paura e spesso scappano. Noi seguiamo il palestinese. Purtroppo la nostra presenza qui è necessaria, per Israele la vita di un palestinese non vale niente rispetto a quella di un internazionale. I soldati non ti possono arrestare portandoti in prigione, possono al massimo detenerti per 3 ore. L'unica che ti può arrestare ed espatriare è la polizia e la border police, i corpi di polizia sono molteplici e non tutti hanno gli stessi poteri giuridici sugli internazionali. I soldati possono al massimo controllare il passaporto e detenere fino a 3 ore; la polizia può arrestare ma non può espatriare; la border police polizia di frontiera - può arrestare ed espatriare, (per questo motivo è considerata la più pericolosa per gli attivisti internazionali, ndr). Se avessero a che fare con un palestinese da solo, lo potrebbero uccidere o arrestare con molta facilità. Le fine della chiacchierata coincide con l'arrivo dell'esercito israeliano, che si avvicina al palestinese minacciando di arrestarlo. Immediatamente ci precipitiamo lì vicino, N. mi guarda e dice:
Riprendi tutto. Poi va dal soldato e inizia. Queste sono le sue terre, non sta facendo niente di illegale, non può arrestarlo. Non insegnarmi a fare il mio lavoro, limitati a filmare. Cerca invano di prendere il palestinese per un braccio, il quale dopo essere sfuggito alla presa inizia ad allontanarsi, mentre N. continua a distrarre il soldato. Ce l'ha un ordine di arresto? Se la polizia non ha rilasciato niente non può arrestarlo. Mentre i due continuano a discutere in modo acceso su questioni burocratiche, il pastore ha già raggiunto la valle opposta con il gregge. Il soldato non vedendolo più decide di lasciar perdere e se ne va innervosito. Io e N. torniamo indietro e andiamo a salutare il pastore. Mah salami (“arrivederci”). Mah salami ajaneb (“arrivederci, stranieri"). Nel viaggio di ritorno verso Betlemme ripenso alla giornata e alla tenacia del palestinese che è riuscito a riappropriarsi della sua terra. Il pastore aveva vinto quella battaglia, era riuscito a portare al pascolo il gregge senza essere arrestato. Stavo iniziando a comprendere meglio quella parola: Sumud. Mentro mi immergevo nei miei pensieri un “Oh fuck!” esclamato all’unisono interrompe la quiete che si era creata nella macchina: Trump dichiara Gerusalemme capitale indivisibile dello stato di Israele. 21
Nel viaggio di ritorno verso Betlemme ripenso alla giornata e alla tenacia del palestinese che è riuscito a riappropriarsi della sua terra. At-Tuwani Il giorno dopo, nonostante gli scontri in tutte le zone di area A, decidiamo di scendere ad Hebron per poi andare ad At-Tuwani. Io, B. e N. partiamo la mattina con una navetta e arriviamo a Hebron per le 10:00. La città è piena di militari israeliani e ci sono scontri un po' ovunque, decidiamo di allontanarci in fretta e di raggiungere velocemente il villaggio. Non sapevo che situazione aspettarmi. Una volta sceso dal taxi mi guardo intorno: At-Tuwani è un villaggio in area C nella zona della Massafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron. Nonostante sia una delle zone più povere della Palestina, gli abitanti vivono in condizioni migliori rispetto a quelli della Jordan Valley, almeno hanno delle case e non solo le tende. Un uomo sulla cinquantina col viso pieno di solchi arriva a salutarmi seguito da un ragazzo della mia età con i capelli e la barba rossi. Si presentano, sono H. e Hu. H. è il portavoce del comitato popolare di resistenza 22
nonviolenta di At-Tuwani e Hu è suo figlio. Faccio una faccia sorpresa per l'aspetto di Hu, gli avrei dato dell'olandese. H mi chiede una sigaretta, se l'accende e inizia a spiegarmi: La zona nella quale ci troviamo si chiama Massafer Yatta ed oltre ad At-Tuwani comprende altri 12 villaggi dove vivono all'incirca 1000 persone. Negli anni '70 Israele dichiarò questa zona adibita ad addestramento militare, denominandola Firing Zone 918 e nel '99 (dopo la firma degli accordi di pace) l'esercito espulse gli abitanti dall'area e demolì parte dei villaggi. Poco tempo dopo l'Alta Corte di Giustizia israeliana stabilì che potevamo tornare temporaneamente ai nostri villaggi ma dovevamo ricostruire sulle macerie lasciate dall'esercito israeliano. La vita si è fatta sempre più difficile da quel momento. Tutt’ora l'esercito e i coloni ostacolano ogni tipo di attività che svolgiamo per vivere. Israele ha promulgato delle leggi nelle quali è stabilito che una terra (nei territori occupati) se non viene arata/coltivata per un anno è dichiarata improduttiva ed espropriata. Stessa cosa per la raccolta delle olive: se non viene effettuata ogni anno costantemente, espropriano il campo. Per questo i coloni e i soldati ci impediscono in ogni modo di farci avvicinare alle nostre terre.
Percorrendo questa strada a piedi in 10 minuti si arriva a Tuba, un villaggio palestinese tra queste montagne dove vivono 5 famiglie. Questa strada serve a collegare Tuba con la scuola di At-Tuwani, dove vanno i bambini dei villaggi limitrofi, e con la città di Yatta, dove ci sono negozi e ospedali. Come puoi vedere a sinistra c'è la colonia di Ma'On e a destra dentro il boschetto ci sono dei camper dove vivono dei coloni, quello è l'insediamento di Havat Ma'On. Per la legge internazionale entrambi sono illegali poiché fuori dai confini dello stato israeliano, Israele invece riconosce la colonia di Ma’On come legale e l’avamposto di Havat Ma’On come illegale, anche se concede agevolazioni fiscali ai suoi abitanti. Ogni volta che un palestinese percorreva questa strada veniva picchiato dai sionisti di Havat Ma'On, rendendo il percorso inagibile e costringendo bambini e adulti a passare da un'altra strada impiegando 45 minuti per raggiungere At-Tuwani. Si siede, sorride... terza sigaretta. In quel momento capisco che i miei polmoni seguiranno il ritmo degli amici palestinesi e accoglieranno un dolce tumore dentro di loro che si svilupperà nel tempo.
Come mai i coloni attaccano? Perchè sono sionisti, loro credono che questa terra l'abbia fatta Dio per il popolo ebraico e per questo noi palestinesi non abbiamo il diritto di restarci. In più i coloni di Havat Ma’On facevano parte di un movimento israeliano di estrema destra extraparlamentare, che durante la prima intifada tentò di alimentare l’odio verso il popolo palestinese. Furono esiliati fuori dai confini dello stato israeliano dopo che inscenarono un attentato terroristico: misero una bomba sotto un asilo israeliano e avvisarono la polizia, provando ad attribuire il merito dell’azione ai palestinesi. Ovviamente dopo i controlli la situazione si fece chiara anche per le forze dell’ordine israeliane, che decisero di cogliere due piccioni con una fava: allontanare dallo stato israeliano dei soggetti pericolosi e utilizzare la loro violenza per colonizzare nuove terre. Sono soggetti pericolosi, usano violenza contro di noi perché sono convinti di portare avanti una guerra di religione per la conquista della terra promessa, ma non abbiamo intenzione di lasciargliela. Ce la riprenderemo lottando.
Percorrendo questa strada a piedi in 10 minuti si arriva a Tuba, un villaggio palestinese tra queste montagne.
Si alza, mi chiede un'altra sigaretta e fa cenno di seguirlo. Poco dopo arriviamo su una strada sterrata che passa in mezzo ad un boschetto e ad una colonia, per poi spuntare sul versante opposto della collina. Scomodo
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Prende un sasso da terra e lo scaglia fortissimo in direzione di un gatto. H. sostiene che ognuno deve trovare il proprio modo di sfogare la violenza che accumula vivendo sotto il clima dell’occupazione militare, per evitare di alimentare la violenza nei contesti collettivi e soprattutto all’interno delle mura domestiche.
za perché è l'unico modo che abbiamo per vincere le nostre battaglie. L'esercito non aspetta altro che voli una pietra per poterci arrestare ed i coloni usano la violenza anche al fine di provocarci. Il modo migliore per resistere è esistere. Noi vogliamo continuare ad esistere sulle nostre terre, coltivando i nostri campi, passando dalle nostre strade. Demoliscono una casa? La ricostruiamo. Ci arrestano se ariamo i campi? Siamo disposti a farci arrestare ma la terra non ce la facciamo togliere. La resistenza nonviolenta funziona dal momento che ci sono anche internazionali a supportarla. Per Israele la parte mediatica è molto importante, si definisce l’unica democrazia nel medio-oriente, in pieno rispetto dei diritti umani. Senza telecamere, i soldati e i coloni si farebbero molti meno problemi ad arrestarci e a picchiarci. Sumud. Quasi un suono, eppure racchiude la tenacia e la forza di un popolo. (R)esistenza. Esistere per resistere. Condurre una vita normale nonostante le complicazioni e le sofferenze. Non darla vinta all'occupazione israeliana.
Mancato. E prosegue: Ecco perché nasce il comitato popolare di resistenza nonviolenta. Non ci definiamo pacifisti, adoperiamo la nonviolen-
Nel 2004 una volontaria internazionale venne aggredita dai coloni mentre accompagnava i bambini di Tuba a scuola, le ruppero una costola e un braccio. Ci fu uno scandalo internazionale che si concluse con un provvedimento della Corte israeliana che decretava che i bambini sarebbero stati scortati dai militari da casa a scuola e viceversa lungo la strada breve (quella che passa in mezzo alle 23
colonie). La contraddizione è evidente. Il governo concede una scorta militare ai bambini palestinesi che ricevono attacchi dai cittadini israeliani di un avamposto illegale, piuttosto che smantellare l’avamposto ed arrestare i coloni. In più ti puoi immaginare quanto i soldati prendano sul serio questo compito, spesso e volentieri non si presentano costringendo i ragazzi ad allungare il percorso. Ma adesso gli abitanti di Tuba hanno deciso che quando non si presentano i soldati, i bambini percorreranno la strada breve scortati dagli internazionali. Non la daremo vinta all’occupazione. Resisteremo.
"Ecco perché nasce il comitato popolare di resistenza nonviolenta. Non ci definiamo pacifisti, adoperiamo la nonviolenza perché è l'unico modo che abbiamo per vincere le nostre battaglie." Alhura Falastin “Palestina Libera”. È complicato rendere bene l’idea di come sia la quotidianità per un palestinese e in che modi si articoli la resistenza. Quando ho affrontato il viaggio di ritorno mi sono chiesto 24
in che modo avrei raccontato questa esperienza alle persone in Italia e come avrei fatto a trasmettere la complessità della vita in Palestina. Mentre mi scervellavo sulla soluzione mi sono ricordato delle discussioni avute con i palestinesi. Per loro è importante che si sappia la verità. “Visitate la palestina, parlate con i palestinesi, non fate vincere l’occupazione militare” (cito H). Guardare con i propri occhi, sentire sulla propria pelle. Finché non si osserva e non si percepisce in prima persona il clima generato dall’occupazione israeliana, è impossibile comprendere a fondo la situazione israelo-palestinese. La politica palestinese è estremamente frammentata, nella striscia di Gaza è presente Hamas (movimento islamico di resistenza) che non riconosce lo stato di Israele e prova a continuare un conflitto armato, lanciando sporadicamente razzi su Israele che vengono abbattuti mentre sono in aria. Al Fatah è il partito politico che ha il potere nella zona della West Bank (Cisgiordania) ma non oppone alcun tipo di resistenza lasciando agire indisturbati i militari israeliani nei territori palestinesi, nonostante sia l’unica forza istituzionale che possa fare un minimo di opposizione all’oppressione militare. I comitati popolari invece portano avanti una resistenza quotidiana improntata sulla riappropriazione delle terre che Israele cerca di espropriare. C’è da dire che nonostante le differenze ideologico-politiche, Hamas e Al Fatah hanno fatto fronte unico contro la dichiarazione di Trump, incitando il popolo palestinese all’intifada (“rivolta”). Ogni città e villaggio ha accolto e
messo in pratica la proposta con modalità diverse, a seconda del livello di repressione presente in quell’area. Ciò vuol dire che nelle città palestinesi in area A ci sono stati scontri con i militari israeliani, mentre nelle aree C è continuato il tipo di resistenza sulla terra che i palestinesi portano avanti ogni giorno. Giornali e televisioni dopo la dichiarazione di Trump hanno alzato un polverone, pareva che in Palestina stesse per scoppiare una vera e propria rivolta armata. I mass media in quella settimana hanno parlato di rivolte, scontri e manifestazioni unicamente contro la dichiarazione fatta da Trump.
Oltre ad essere sbagliato, è un discorso riduttivo. La resistenza in Palestina c’è quotidianamente, perché l’occupazione israeliana si sente ogni giorno e in ogni momento. Tutte le settimane in Palestina ci sono centinaia di rivolte, centinaia di azioni di resistenza poiché ogni giorno l’occupazione israeliana compie un arresto, un’uccisione, un esproprio. Il popolo palestinese in quella settimana di dicembre
è sceso in piazza per ribadire che non accetta l’occupazione militare e che un giorno tornerà alle proprie case, sulle proprie terre e vivrà dignitosamente, autogovernato. I mass media aiutano Israele nel suo progetto espansionistico e di apartheid focalizzandosi solo sulle vicende internazionali. La dichiarazione di Trump è stato un regalo preconfezionato per il governo israeliano, che ha approfittato della tensione internazionale per tenere il più possibile un basso profilo. Nel mese di dicembre, infatti, il numero di morti a causa dell’occupazione è stato inferiore rispetto alla media annuale e vi è stato un numero non elevato di arresti, se non la detenzione di Ahed Tamimi, minorenne palestinese arrestata per aver cacciato con spinte e calci dei soldati israeliani che erano entrati dentro casa sua. Questo è uno dei trucchi utilizzati dal governo israeliano: quando ci sono gli occhi del mondo puntati addosso, i media mostrano il lato violento del popolo palestinese, che osa rivoltarsi con pietre, calci e spinte contro i militari israeliani, i quali non rispondono in un modo eccessivamente violento. Sparano un paio di lacrimogeni, al massimo qualche proiettile di gomma ma finisce lì, nessun arresto, nessun morto. Queste azioni contenitive sono fatte apposta per evitare che ci sia un caso mediatico internazionale, e non appena l’interesse generale si sposta su un’altra zona del mondo, in Palestina si misura un incremento enorme di arresti, espropri, demolizioni, chiusure stradali e tutte le modalità con le quali Israele espande i propri confini diminuendo sempre di più lo spazio vitale dei palestinesi. Anche se
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Giornali e televisioni dopo la dichiarazione di Trump hanno alzato un polverone, pareva che in Palestina stesse per scoppiare una vera e propria rivolta armata.
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La resistenza in Palestina c’è quotidianamente, perché l’occupazione israeliana si sente ogni giorno e in ogni momento. i media lo dipingono come un conflitto tra due parti, la realtà è che si tratta di apartheid e discriminazione. Ogni volta che un palestinese intraprende uno spostamento deve attraversare dei checkpoint (posti di blocco fissi e mobili) nei quali i soldati controllano i permessi necessari per proseguire. Ottenere i permessi è impossibile, perchè sono concessi dall’autorità israeliana arbitrariamente, a discrezione dell’ufficiale di turno. In più per vivere dignitosamente un palestinese ha bisogno di lavorare ma a causa dell’occupazione, dell’esproprio dei campi e dei tagli idrici, di lavoro ce n’è ben poco ed è quindi costretto ad andare a lavorare all’interno di una colonia israeliana a nero, sottopagato e senza protezione medica. Completamente senza diritti. Produce per Israele su una terra che prima apparteneva a un palestinese. Quando finisce di lavorare torna nel suo villaggio in area C e combatte quotidianamente contro gli stessi per cui lavora, che vogliono togliergli la casa e il campo per rendere quella zona produttiva, un’altra colonia dove far lavorare i palestinesi. Parlo di apartheid perché Israele adotta un sistema di discriminazione e sfruttamento dei palestine-
si, che producono per lo Stato israeliano ma non sono tutelati dagli stessi diritti dei suoi cittadini. Appena messo piede in Italia non sapevo con esattezza cosa i miei amici palestinesi mi avessero lasciato in eredità, ma ripensandoci a distanza di mesi ho identificato in una parola un’attitudine, un comportamento e un modo di vita di un popolo: resistenza. So che le persone che ho conosciuto non si arrenderanno, resteranno là sulle proprie terre, con le proprie pecore, con le proprie olive, resistendo all’occupazione israeliana. Fino a quando l’occupazione militare finirà e la Palestina sarà liberata. “Un giorno l’occupazione finirà inshallah (“se Dio vuole”). Fino a quel continueremo a lottare, per una Palestina libera. Sumud”.
di Leone Fossati 25
La città inamministrabile CAPITOLO III
Intervista al primo e unico sindaco di destra di Roma, nonché il più controverso: Gianni Alemanno.
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I
l 28 aprile del 2008, Roma pende a destra. Dopo quattro amministrazioni di sinistra consecutive, viene eletto a sindaco Gianni Alemanno sconfiggendo Francesco Rutelli, già sindaco dal 1993 al 2001. La sua campagna si incentra sulla sicurezza e la paura, questione al centro di tutte le attenzioni dopo che, alla fine dell’ottobre precedente, un giovane rome-
no aveva seviziato a morte una donna, Giovanna Reggiani, nei pressi di un campo rom abusivo a Tor di Quinto. Nei successivi cinque anni, l’amministrazione romana si scopre sempre più fragile ed è oggetto di numerosi scandali e inchieste giudiziarie che hanno al centro molti manager da anni vicini ad Alemanno. Un debito storico di oltre venti miliardi ricopre la città e blocca Scomodo
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le spese dell’amministrazione, nelle aziende comunali Ama e Atac i dirigenti assumono amici, parenti e sodali politici con una storia nell’estrema destra romana (lo scandalo “Parentopoli”), la discarica di Malagrotta trabocca e l’emergenza rifiuti è alle porte. Diversi processi riguardanti quegli anni sono ancora aperti. Lo stesso Alemanno è tuttora coinvolto in alcuni di questi, anche se in quelli conclusisi finora è stato sempre assolto. Il più pesante, Mafia Capitale, nasce nel dicembre 2014, quando Alemanno non è più sindaco già da un anno e mezzo: l’accusa – dalla quale poi verrà assolto – è di essere il referente politico di un’associazione criminale composta da esponenti della destra e della sinistra in parti uguali, infiltratasi per controllare appalti e tangenti fin nei meccanismi più intimi del comune di Roma. Insomma, nell’immaginario di molti romani la parentesi 20082013 è sinonimo di mancanza di trasparenza, inefficienza e declino. Rispetto allo splendore (solamente di facciata) della Roma di Veltroni, la città sembra imboccare una spirale degenerativa dalla quale non è ancora uscita, fra strade bucherellate, spazi sociali e culturali chiusi o sgomberati, nevicate e piene del Tevere che la paralizzano completamente. Abbiamo avuto la possibilità di intervistare Gianni Alemanno e chiedergli spiegazioni sulle numerose zone d’ombra della sua amministrazione. Partirei dall'inizio: qual è la situazione che ha trovato a Roma nel 2008, al seguito di un breve commissariamento e delle due amministrazioni Veltroni? Scomodo
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Innanzitutto, limitarsi alle due amministrazioni Veltroni è riduttivo, perché c'è una continuità amministrativa con la Sinistra che aveva governato la città per i 30 anni precedenti alla mia elezione. Detto questo, la situazione che ho trovato a Roma è stata assai critica specialmente dal punto di vista finanziario, perché dopo soli pochi giorni che mi ero insediato il segretario comunale, già presente sotto Veltroni, mi disse che non c’erano neanche i soldi per pagare gli stipendi. A questo punto, spaventati dalla situazione, abbiamo fatto fare al ministero dell'economia e alla Corte dei Conti una verifica, da cui è venuto fuori un buco di bilancio di 23 miliardi di euro, che affondava le proprie radici addirittura in espropri non pagati delle Olimpiadi di Roma del 1960. Al di là della crisi finanziaria, Veltroni era stato bravo a dare un'immagine bella e vincente di Roma, soprattutto dal punto di vista culturale, ma tale immagine copriva in realtà una diffusa situazione di sofferenza nel campo dei servizi, specialmente in periferia.
Spaventati dalla situazione, abbiamo fatto fare al ministero dell'economia e alla Corte dei Conti una verifica, da cui è venuto fuori un buco di bilancio di 23 miliardi di euro
Insomma, abbiamo trovato una situazione finanziaria difficile e una città che dietro all'immagine nascondeva già una profonda crisi. Durante la campagna elettorale del 2016, quando vinse Virginia Raggi, la sua gestione è stata usata come paradigma negativo verso cui mostrare discontinuità, più di quella di Marino. Perché? Principalmente per due motivi: la mia è stata la prima e unica finora amministrazione di destra della Capitale e ha quindi avuto contro tutti i media di sinistra e poi anche i 5 Stelle. Poi la campagna elettorale è avvenuta quando lo scandalo di Mafia Capitale non si era ancora sgonfiato, mentre adesso io e altri membri della mia amministrazione siamo stati prosciolti da tutte le accuse e a chi è rimasto dentro è stata tolta l'aggravante mafiosa. Invece allora c’era lo spauracchio che sotto la mia amministrazione ci fosse questa presenza delle organizzazioni criminali nella città e nel comune. Certamente, e lo spiego nel mio libro "Verità Capitale", c’è stata una forte congiuntura negativa nei miei confronti dal punto di vista mediatico, in cui tutti quelli che erano i problemi di Roma, fino a quel momento nascosti dalla capacità comunicativa di Veltroni, sono emersi tutti insieme. Oggi invece si percepisce che quei problemi erano sorti nei 30 anni di amministrazione precedente e, anche vedendo lo stato attuale della città, questo tipo di retorica si è sgonfiata. A proposito, quali sono i vanti della sua amministrazione? 27
Primo, aver fronteggiato quel buco di bilancio e risanato la città. Noi, grazie all'aiuto del governo, siamo riusciti a spostare il debito storico della città a carico dello Stato: un po’ è rimasta a carico dei romani come tasse, mentre buona parte è stata scaricata a livello nazionale e siamo riusciti a risanare questa crisi finanziaria. Poi noi principalmente siamo riusciti a fare due cose: contenere i danni della crisi economica mondiale, scoppiata a due mesi dal mio insediamento, reggendo i suoi effetti, e completare le infrastrutture, come Metro B1, il sottopasso della stazione Tiburtina, l'interramento della Tangenziale Est. Abbiamo inoltre ristrutturato alcune piazze storiche, avviato la Metro C, realizzato due ponti, progettati in epoca precedente: il Ponte della Musica e il Ponte delle Scienze. Era dai tempi del fascismo che non si realizzavano ponti a Roma. Abbiamo anche dato la svolta ad alcune situazioni di emergenza, come quella dei nomadi, dove noi siamo riusciti a chiudere 7 campi tollerati e ridurre l'invasività dei nomadi. Per concludere, in parte abbiamo retto ai problemi, in parte abbiamo apportato delle novità positive per la città. Proprio riguardo a ciò, anche Marino appena insediatosi si è trovato ad affrontare un buco di bilancio abbastanza grave, con la mancata approvazione del bilancio del 2013. La Corte dei Conti in un rapporto del novembre 2012, alla fine del suo mandato, certificava che oltre ai 22 miliardi di euro del buco precedente, si era venuto a creare un nuovo buco di 867 milioni. 28
c’è stata una forte congiuntura negativa nei miei confronti dal punto di vista mediatico Quegli 800 milioni non erano un buco di bilancio ma uno squilibrio, è diverso (in effetti, non poteva essere un buco di bilancio perché la maggioranza in consiglio comunale è riuscita ad approvare il bilancio 2012 solo nel mese di novembre, con 11 mesi di ritardo: Roma in pratica non aveva un bilancio, ndr). Quello che ho trovato io era un buco di bilancio, ovvero un debito stratificatosi per decenni, mentre il nostro era un deficit aperto nel corso dell'anno. In realtà, come ho spiegato più volte, questa è in parte colpa di Marino, perché io ho consegnato all'amministrazione Marino nel giugno 2013 una memoria di giunta approvata da noi, che affermava che avevamo bloccato una serie di spese per contenere la situazione economica. Non abbiamo fatto in tempo a fare il bilancio poiché la campagna elettorale era iniziata a marzo e non mi sembrava corretto fare un bilancio che condizionasse l'opera successiva del sindaco. Appena insediato, dicevo, gli ho spiegato che avevamo provato a contenere le spese, però lui sarebbe dovuto intervenire subito perché altrimenti sarebbero andate avanti. Lui ha lasciato correre e ha affrontato il problema bilancio in autunno. In quel periodo, con le spese che erano andate avanti per conto loro, eravamo passati da uno squilibrio reale durante la nostra giunta di 250 milioni ad uno di
800, che veniva denunciato. In realtà, Marino scaricava su di noi una parte di sue responsabilità, avendo trascurato per più di 6 mesi la linea di bilancio. Parlando di eventi pubblici, lei aveva portato avanti la candidatura di Roma alle olimpiadi del 2020, poi bloccata dall'allora presidente del consiglio Mario Monti. Osservando la presenza di infiltrazioni criminali e di diffusa corruzione, ha cambiato idea? Secondo me è stato uno sbaglio clamoroso da parte di Monti bloccarci le Olimpiadi, perché se gestite correttamente producono economia per la città. Certo, non se vengono gestite come quelle di Atene 2004, dove si sono svenati e hanno rovinato la Grecia, ma da dopo Pechino 2008 le Olimpiadi sono state più sobrie e si sono abbassati i costi. In più, Roma aveva molti impianti già fatti, quindi l'impatto economico sarebbe stato minore, però avrebbe attirato risorse attraverso le sponsorizzazioni private per completare le infrastrutture pubbliche della città. Le opere previste non erano sportive infatti, ma lavori sulla viabilità e altro, molto utili per la città. Io sono convinto che Roma senza un grande evento a scadenza non riesca a superare le sue difficoltà strutturali, come Londra, che nel periodo delle Olimpiadi è riuscita ad uscire dalla recessione. All'epoca ovviamente non sapevamo di infiltrazioni criminali o altro poiché l'indagine (mafia capitale, ndr) uscì nel 2014, però è anche vero che dipende da come costruisci questo tipo di evento. Quando organizzi le gare, esse hanno non più rilevanza solo comunale, ma vanno Scomodo
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gestite da tre mani: il Comune, il Governo e il CONI. Io credo che al di là dei problemi di corruzione, potevamo gestirla nel migliore dei modi; non bisogna cadere nella logica, assai presente nel M5S, che se c'è il rischio della corruzione le cose non si fanno: bisogna farle combattendo questo rischio e non paralizzando la città. Le difficoltà che vedete in città oggi e il suo stato di degrado derivano anche dal fatto che per eccesso di prudenza non vengono bandite le gare e quindi non vengono fatti i lavori. Il CONI aveva fatto bene a riproporre la candidatura di Roma per il 2024 e che la Raggi ha fatto male a cancellarla e a consolarsi con la Formula E, che è comunque un grande evento su cui noi eravamo d'accordo dopo che Ecclestone aveva cancellato il nostro tentativo di portare la Formula 1 a Roma. I grandi eventi ad una capitale servono.
Le opere previste non erano sportive infatti, ma lavori sulla viabilità e altro, molto utili per la città. Però in effetti i grandi eventi di quegli anni - soprattutto i Mondiali di nuoto del 2009 hanno portato problemi giudiziari e opere non finite: la vela di Calatrava e il villaggio dello sport a Tor Vergata sono progetti avviati in amministrazioni precedenti la cui conclusione era però affidata alla sua amministrazione. Scomodo
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Il villaggio dello sport di Calatrava è stato un atto di megalomania di Veltroni, perché non solo non c'erano le risorse per finire l'opera, ma questa era talmente faraonica che anche se fosse stata terminata la gestione ordinaria sarebbe costata un botto. Non stava scritto da nessuna parte che Calatrava dovesse progettare il suo Villaggio a Tor Vergata, ma Veltroni lo ha voluto per forza per lasciare un segno. Infatti, non è mai entrata nel progetto dei Mondiali di nuoto durante la nostra amministrazione. A parte quello, che è rimasto incompiuto, tutti gli altri impianti sono arrivati a compimento e sono a disposizione della città. Benché ci siano stati dei problemi, che poi peraltro si sono sgonfiati con la definitiva assoluzione di Bertolaso di qualche mese fa (ma contemporaneamente ci sono state condanne fino a 6 anni e mezzo per associazione a delinquere per altri quattro imputati, ndr), hanno lasciato a Roma una ventina di piscine in più, pubbliche e private, a prezzi convenzionati come era obbligo per chi le costruiva, quindi da quel punto di vista non mi sento di dare un bilancio negativo. Fra i vanti della sua giunta ha citato il “Piano nomadi”: una parte del merito della sua elezione è stato del sentimento diffuso che ci fosse un pericolo portato dai Rom dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani nell’ottobre 2007. Lo sgombero dei campi esistenti e l'accentramento dei Rom nei grandi campi autorizzati ha portato problemi a livello igienico sanitario nei nuovi insediamenti abusivi che nascevano dopo gli sgom-
beri, ma anche relativamente all’inclusione sociale, con i campi autorizzati che assomigliavano a dei ghetti e non facilitavano la normalizzazione della situazione. Innanzitutto, il primo a denunciare l'emergenza nomadi dopo l'omicidio Reggiani fu Veltroni, che creò addirittura un incidente diplomatico con la Romania perché fu molto duro contro il governo romeno che cacciava i nomadi che venivano in città (in realtà, nel 2007 la Romania era appena entrata nell’UE e i rom romeni, cittadini europei, avevano libertà di movimento nell’Unione, ndr). Non siamo quindi stati noi a inventare l'Emergenza Nomadi, bensì lo stesso Veltroni e infatti tutte le statistiche sulla criminalità hanno un calo già nei mesi precedenti al nostro insediamento perché con l’omicidio Reggiani la città ebbe una forte scossa contro una situazione fuori controllo. Allora c'erano pochi campi autorizzati, molti tollerati e una marea di accampamenti. Noi abbiamo fatto mille sgomberi di accampamenti abusivi e chiuso sette campi tollerati, trasformando e stabilizzando alcune situazioni. Peraltro, a mio avviso i campi nomadi devono stare fuori dal centro abitato perché l'integrazione non può avvenire su una chiave “abitativa” ma solo su una di lavoro, cioè la famiglia nomade o i singoli individui escono dal campo e si integrano soltanto quando accettano di fare un lavoro normale e non di vivere con varie forme di accattonaggio, di atti predatori o di altre attività precarie tipiche dei campi. Da questo punto di vista c'è un altro aspetto che bisogna tenere presente: i nomadi in Europa sono circa 16 milio29
Il villaggio dello sport di Calatrava è stato un atto di megalomania di Veltroni. ni e si spostano a seconda delle aree e delle città in cui trovano maggiore o minore "accoglienza" (secondo gli studi più recenti i Rom in Europa sono meno di 10 milioni e di questi appena un decimo è davvero nomade, cioè si sposta su base regolare, ndr). Sembra paradossale, ma facilitare la vita dei nomadi non riduce il problema bensì lo aumenta perché attrae ancora più nomadi da altri posti. Noi quindi abbiamo portato avanti una doppia politica: da un lato un indurimento della vita nei campi nomadi perché non volevamo che fossero una sorta di “buco nero” in cui ci si potesse adagiare, come stile di vita; contemporaneamente abbiamo cercato di offrire occasioni di lavoro ai nomadi, anche se potevamo fare di più, nel campo dei rifiuti e coinvolgendo cooperative sociali: per noi quella è la strada. Però ad esempio il campo della Barbuta era circondato da mura alte 4 metri e mezzo e videosorvegliato sia all’interno che all’esterno. Perché tutto questo controllo? Il fatto che ci sia sorveglianza nei campi è fondamentale perché altrimenti il campo diventa il luogo di attività illegali, e perché sennò i nomadi più forti, quelli dei clan, dominano sui nomadi più deboli; tant'è vero che a un certo punto ci fu un'indagine della polizia mu30
nicipale in cui risultò che in questi campi nomadi vivevano persone con conti correnti da decine o centinaia di migliaia di euro, fondamentalmente alle spalle dei romani. Noi espellemmo queste persone, ma il TAR bloccò le espulsioni che furono finalizzate soltanto ai tempi di Marino. Chiudo il discorso dicendo: non tutti i nomadi sono "problematici", perché ci sono molti nomadi che sono persone valide, con cui si può parlare – noi cercammo di organizzare anche le elezioni dei rappresentanti dei campi nomadi, democraticamente e non seguendo le etnie – però ci sono meccanismi perversi, pericolosi anche per i nomadi, sui quali bisogna essere molto fermi. Avere un'immagine idilliaca non serve, perché nel mondo nomade vigono regole molto dure e pesanti. Passando ad ATAC, la situazione dell'azienda nel 2008 non era certamente rosea, ma neanche tragica come oggi. In particolare, si avevano mezzi con un'età media relativamente giovane rispetto a cinque anni dopo: in pratica sono stati comprati troppi pochi autobus rispetto a quelli che andavano in pensione. Per prima cosa questo non è del tutto vero perché tutti gli autobus rosso scuro sono stati comprati durante la nostra amministrazione. Il problema, però, è che fino al periodo di Veltroni il governo e la Regione passavano al comune circa 360 milioni di euro l'anno per il trasporto pubblico locale, che deve essere per forza finanziato dallo stato perché il costo del biglietto non ripaga mai il servizio. Poi con lo scoppio della crisi economica
sono cominciati i tagli e le manovre e noi siamo giunti a veder calare questi trasferimenti dallo Stato e dalla Regione fino a 180 milioni all'anno, anche durante l'amministrazione di destra del Lazio (dal 2010 al 2013, ndr). Questa riduzione così drastica dei finanziamenti ha consentito di fare meno investimenti, non soltanto nell'acquisto di nuovi autobus ma soprattutto nella manutenzione, portando fino all'attuale situazione in cui la Raggi sta continuando a tagliare corse degli autobus perché mancano le risorse.
giorando durante questi cinque anni e nonostante i tagli delle corse è diventata ancora più nera. C'è bisogno di risorse diverse e di continuare un'azione di risanamento di Atac, però ci vogliono i soldi.
Questo è lo stesso motivo per cui il deficit annuale di Atac si è impennato durante la sua amministrazione, con il debito complessivo che è passato da alcune centinaia di milioni di euro agli 1,3 miliardi attuali? No. Oggi, che sono cinque anni che io non governo più, Atac è a un passo dal fallimento, quindi non si può dire che sia un problema attribuibile ad Alemanno o a Marino: è un problema di fondo strutturale. La situazione è andata progressivamente peg-
Nel numero di gennaio di Scomodo c'è un'intervista a Riccardo Magi, ex consigliere comunale di Roma per i radicali, che ha promosso un referendum sulla liberalizzazione del trasporto pubblico attraverso una gara fra aziende private e Atac. Lei conosce questo referendum, e sarebbe favorevole a una liberalizzazione? Innanzitutto, va detto che il trasporto pubblico locale a Roma è già per il 15% privato, cioè il 15% (il 20%, ndr) delle linee attuali sono gestite dal consorzio Roma Tpl che è privato e ha vinto una gara. Oggi è molto in difficoltà a pagare gli stipendi e a garantire le corse: il problema è che, mentre Atac in carenza di risorse in qualche modo tira avanti spesso a scapito della qualità, un privato si ferma o non paga i dipendenti. Noi avevamo proposto di fare una gara a doppio oggetto, per trovare un partner privato per Atac e volevamo fare la stessa cosa per Ama. Questa cosa fu fermata da una forte opposizione della sinistra che era contraria a processi di privatizzazione in campo pubblico. Sicuramente una maggiore liberalizzazione e privatizzazione del servizio pubblico è positiva, ma senza esagerare perché se si passa a un meccanismo solo privatistico c'è il rischio di avere dei contraccolpi ingovernabili. Atac quindi deve essere una società in cui il 51% è pubblico e il
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I campi nomadi devono stare fuori dal centro abitato perché l'integrazione non può avvenire su una chiave “abitativa” ma solo su una di lavoro.
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49% è privato con un patto con i sindacati che preveda un amministratore delegato privato ma un presidio pubblico molto forte. Se invece venisse completamente privatizzata ci sarebbe una serie di problemi, come far passare il personale fra Atac e le aziende private, una guerra di mesi con gli autisti che non augurerei neanche al mio peggiore avversario. Sarebbe pazzesco. Spostiamoci invece su AMA, che è stata una delle maggiori fonti di scandali sotto la sua giunta. Già alla fine del mandato di Veltroni si parlava di chiudere la discarica di Malagrotta. Quando lei si è insediato è iniziata la procedura di infrazione europea che ha portato a sanzioni milionarie per l’Italia. Nonostante questo, la chiusura di Malagrotta è arrivata con Marino… Roma oggi è costantemente a rischio di diventare come Napoli per quanto riguarda i rifiuti. L’emergenza lì iniziò quando Bassolino chiuse la discarica di Pianura-Pozzuoli, che era molto peggio di Malagrotta, senza però fornire un’alternativa. Il problema rientrò nella normalità solo quando venne costruito l’inceneritore di Acerra. Malagrotta per vent’anni ha avuto un ruolo fondamentale nella gestione dei rifiuti a Roma. Prima di chiuderla bisognava trovare delle alternative. Non è che Rutelli, Veltroni e io eravamo tutti scemi a non chiudere Malagrotta e poi Marino arriva e la chiude improvvisamente. Il problema era che non si riuscivano a costruire delle alternative. La responsabilità comunque non è dei sindaci di Roma: il ciclo dei rifiuti è di competen-
za regionale. Servivano nuovi siti per il trattamento dei rifiuti, e per farlo bisognava trovare il luogo ottimale all’interno di tutta la provincia di Roma, non solo della città. Non può essere il comune di Roma a decidere di piazzare un inceneritore a Frascati o in un altro paese, perché il sindaco non ha questi poteri, né si può pensare di costruire i nuovi siti tutti dentro Roma perché è l’area dove c’è più gente e più soggetta a vincoli. La Regione deve creare un piano dei rifiuti e stabilire dove debbano essere posizionati i nuovi siti, che devono essere flessibili e non devono sostituire completamente la raccolta differenziata, ma solamente accompagnarla visto che è un processo fragile che può entrare in crisi in ogni momento. Oggi noi siamo costantemente a rischio e siamo costretti a portare i rifiuti fuori dalla capitale.
Noi avevamo proposto di fare una gara a doppio oggetto, per trovare un partner privato per Atac e volevamo fare la stessa cosa per Ama. E per quanto riguarda Ama? Quando mi sono insediato Ama aveva 700 milioni di euro di debiti che risultavano pagati dal Comune ma che non figuravano nel bilancio comunale, insomma una situazione drammatica. 31
Abbiamo fatto uno sforzo notevole per migliorare le cose e a mio avviso, nonostante le analisi di varie agenzie e giornali, la pulizia di Roma sotto la mia amministrazione era migliore rispetto agli ultimi due anni di Veltroni, al periodo di Marino e a oggi con la Raggi. Poi c’è stata la questione degli scandali di Parentopoli. Quando si scoprì di Parentopoli non rinnovai più l’incarico a Panzironi e da lì ci furono altre vicende. Sicuramente era un fatto deprecabile, ma non bisogna pensare che i problemi di Ama venissero da questo: anche se si parla di centinaia di persone assunte ingiustamente, il processo per il quale è stato condannato Panzironi riguarda 47 persone (in realtà 41, ndr). È impensabile che un’azienda da sei-settemila persone entri in crisi perché ce ne sono 47 in più o in meno: è certamente sbagliato eticamente, ma la vicenda di Parentopoli non ha minimamente influito sul funzionamento dell’azienda. Il problema dei rifiuti di Roma è che c’è bisogno di un piano rifiuti reale che tenga conto di tutti i problemi. Lo stesso discorso vale per Atac: anche lì ci fu la vicenda di Parentopoli, che coinvolse qualche decina di persone, ma nessuno può pensare che l’azienda sia entrata in crisi per questo.
la pulizia di Roma sotto la mia amministrazione era migliore rispetto agli ultimi due anni di Veltroni. 32
La giunta Raggi incolpa spesso la regione di non aiutare Roma sui rifiuti per motivi politici, ma anche durante il suo mandato c’è stata questa mancanza di collaborazione, nonostante alla presidenza della regione ci fosse Renata Polverini, membro del suo stesso partito. Cosa impedisce la comunicazione fra Comune e Regione? Una distorsione comunicativa e politica che c’è in città. A parte forse per la sanità, a Roma si pensa che per ogni problema la colpa sia del Comune. Il sindaco diventa il capro espiatorio di tutto. Spesso invece molte decisioni dipendono dalla Regione. La stessa cosa vale per la gestione dei rifiuti: nell’immaginario collettivo dei romani la regione Lazio non esiste, si passa direttamente dal Comune al governo nazionale. Per questo motivo proposi la legge di “Roma Capitale”, che stabiliva che molti affari di competenza regionale venissero gestiti direttamente dal comune di Roma attraverso degli organi specifici. La regione Lazio però ha boicottato questa proposta. Lei prima ha detto che dopo lo scandalo di Parentopoli ha sollevato Panzironi dall’incarico di amministratore delegato. In un’udienza di qualche giorno fa però il suo successore alla dirigenza di Ama, Giovanna Anelli, ha dichiarato che Panzironi continuava ad avere un’influenza all’interno dell’azienda. Addirittura, sollecitava ad Anelli dei pagamenti da fare, alcuni anche alla cooperativa 29 giugno di Buzzi, protagonista di Mafia Capitale. Quando ci fu lo scandalo di
A parte forse per la sanità, a Roma si pensa che per ogni problema la colpa sia del Comune. Il sindaco diventa il capro espiatorio di tutto. Parentopoli (secondo la sentenza della Corte dei conti, “41 assunzioni indebite di persone inidonee e risultate idonee mediante alterazione del punteggio finale”, ndr), tolsi l’incarico a Panzironi e chiesi ai “cacciatori di teste” di trovare un manager estraneo alla realtà di Ama che la potesse gestire. Mi fu indicato Salvatore Cappello, direttore generale di Amsa, l’azienda dei rifiuti di Milano. Lo assumemmo come A.D. di Ama, purtroppo però si rivelò un disastro perché non conosceva la realtà molto particolare di Ama e l’azienda entrò ancora più in crisi. Ebbi uno scontro con lui e lo cacciai perché si era fatto abbindolare da Cerroni e gli aveva dato una concessione a condizioni inaccettabili, senza neanche dirmelo. Allora mi sono reso conto che bisognava utilizzare delle risorse interne ad Ama. Il mio errore è stato poi farmi consigliare da Panzironi su chi mettere al posto di Cappello: lui mi suggerì Giovanna Anelli, che non fu male ma poi venne fatta fuori da meccanismi politici. Successivamente negli ultimi mesi di mandato nominammo Giovanni Fiscon, che era stato dirigente di Ama anche sotScomodo
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to Veltroni e che faceva parte dell’azienda da 25 anni. Panzironi, avendo lavorato con lui, aveva certamente un’influenza, ma era un potere che esercitava di sua iniziativa, non perché io gli dessi il mandato. Io gli avevo solamente chiesto il consiglio su chi poteva essere valorizzato e mi furono indicati prima la Anelli e poi Fiscon. La capacità di influenza Panzironi se l’è costruita da solo (nonostante la stessa Anelli, in un’udienza del 6 aprile del processo per corruzione ad Alemanno, ancora aperto, abbia descritto Panzironi come “espressione del sindaco Alemanno [...] una qualità che lui spendeva e che veniva confermata dallo stesso sindaco”, ndr) perché dopo 3 anni di gestione molto padronale dell’azienda aveva conquistato un potere che io non sono riuscito a interrompere. Riguardo a questo rapporto travagliato con i dipendenti sia del comune che delle municipalizzate, c'è un modo per risolvere o avvicinarsi ad una soluzione per i rischi che si creano o no?
Dopo lo scandalo Parentopoli abbiamo approvato una delibera che rendeva obbligatorio il concorso pubblico anche nelle municipalizzate. Scomodo
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Dopo lo scandalo Parentopoli abbiamo approvato una delibera che rendeva obbligatorio il concorso pubblico anche nelle municipalizzate. In più, abbiamo fatto il cosiddetto "concorsone" per mille dipendenti comunali fatto con la massima vigilanza con telecamere e sensori ottici per cui non c'è stato un solo esposto o una sola denuncia (In realtà il “concorsone” ebbe diversi problemi. L’iter del concorso subì diversi stop e ripartenze, con varie polemiche e tanti ritardi nelle assunzioni dei vincitori. Basti pensare che esiste un “Comitato 22 procedure per la giustizia”, ndr). Tant'è che i ragazzi assunti sono poi stati riconfermati da Marino e dalla Raggi. Quindi se si fanno concorsi è molto importante la trasparenza: le interrogazioni orali vanno trasmesse in diretta e i quiz fatti con lettore ottico e questo dovrebbe essere fatto per tutto, nella capitale. Facendo autocritica, io ho avuto due difficoltà: che la destra non aveva mai governato Roma, quindi non aveva un apparato dirigenziale collaudato da questo punto di vista quindi noi abbiamo dovuto riutilizzare persone che già c'erano, come in Atac. Ho tenuto quelli che hanno clonati i biglietti perché pensavo che fossero bravi e perché non ne avevo altri, altrimenti avrei dovuto mettere dei manager inadeguati o impreparati. Va tenuto conto che il sindaco di Roma nomina 100 persone al di là degli assessori: basta sbagliarne 10 che sei nei guai. Poi ho sottovalutato la gravità della situazione interna: pensavo che l'apparato comunale fosse più sano e quindi mi sono dedicato alle Olimpiadi e ad altro, mentre avrei dovuto fare una bonifica molto più accurata. Questo l'ho pagato, infatti non sono stato rieletto.
Nonostante lei sia uscito pulito da tutto questo, la sindacatura di Roma ha avuto un impatto sulla sua carriera politica? (Ride) Eh direi di sì! Mia madre mi dice sempre “chi te l’ha fatto fare”. Nel mio libro il sottotitolo (Caste e segreti di Roma, ndr) se l'è inventato l'editore, in realtà il mio era "manuale di sopravvivenza per i futuri sindaci di Roma". La carica di sindaco di Roma oggi è la più difficile d'Italia, molto di più del presidente del consiglio. Ti trovi in mano una città difficilissima ed un apparato amministrativo piuttosto debole, il tutto complicato dalla crisi del 2008. Io però il mio mandato l'ho completato, la Raggi secondo me non durerà tantissimo perché lo stesso Movimento la liquiderà. Il sindaco di Roma è un compito difficilissimo ma non mi pento di averci provato, con tutte le sfide e le complicazioni che ha portato.
La carica di sindaco di Roma oggi è la più difficile d'Italia, molto di più del presidente del consiglio. Ti trovi in mano una città difficilissima ed un apparato amministrativo piuttosto debole, il tutto complicato dalla crisi del 2008. 33
Quali sono per lei le prospettive per Roma? L'antica Roma era governata da due consoli, e anche oggi non basta il sindaco per governare. Come in tante capitali europee serve un ministro con delega alla capitale, che non può essere trattata come una città qualunque come oggi. Ci vuole un profondo impegno nazionale come nelle altre città europee: quando sono arrivato io Roma era considerata come un comune normale.
Marino prendeva delle decisioni senza rendersi conto delle conseguenze. Cosa salva dei sindaci che l'hanno preceduta e che l'hanno succeduta? A Rutelli va dato il merito dell'auditorium, che è una grande opera, e delle iniziative strutturali. Veltroni sul versante delle iniziative culturali ha dato molto lustro alla città, trascurando molte altre cose. Il Campidoglio sembrava un set cinematografico. Arrivati lì sembrava tutto perfetto, poi usciti dalle tre stanze importanti vedevi computer non collegati fra loro, ventiquattro sistemi operativi diversi, i cessi rotti. Per quanto riguarda Marino, dunque, che ha fatto? (ride) Boh. La chiusura dei fori imperiali è stata una cosa calata dall'alto e non è che noi non ci avessimo pensato ma è stata fatta senza un criterio. Lo stesso vale per Malagrotta. Marino prendeva delle decisioni senza 34
rendersi conto delle conseguenze. Boh, non mi viene in mente nulla. La Raggi ha fatto la formula E che è un grande evento.
La chiusura dei fori imperiali è stata una cosa calata dall'alto e non è che noi non ci avessimo pensato ma è stata fatta senza un criterio.
Parallasse
I dubbi sulla figura di Gianni Alemanno però sono anche politici, legati a una visione di Roma chiusa, disuguale e poco inclusiva, non in grado di raccogliere l'eredità di Veltroni sui temi culturali e incapace di rilanciare la città né sui servizi sempre più scadenti, né su quelle tematiche sociali che erano state trascurate anche durante la stagione del centrosinistra e del suo Modello Roma.
La rassegna stampa critica di Scomodo
Invece il suo più grande vanto? L'aver salvato Roma dal collasso economico. Se non avessi fatto il piano di rientro nel 2008 sarebbe andata in default ed avrebbe trascinato l’Italia. Nonostante tutte le spiegazioni date in questa intervista, molte delle quali ragionevoli, il giudizio sulla giunta Alemanno non può essere del tutto separato dall'ombra degli scandali e dei processi, spesso legati a figure storiche dell'estrema destra romana e a una gestione opaca del potere, cui noi abbiamo solo accennato; pur assolto da tutti i processi conclusisi finora (altri sono ancora in corso), sembra incredibile pensare che il sindaco fosse completamente ignaro dei molti sistemi criminali presenti in quasi tutti i campi della sua amministrazione, da Ama a Atac, da EUR Spa al Comune vero e proprio.
Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.
di Luca Bagnariol, Giovanni Forti, Alessandro Luna e Francesco Paolo Savatteri Scomodo
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Marzo 2018 Aprile 2018
Come previsto nello scorso articolo di Parallasse, nell’ultimo periodo la maggior parte dei quotidiani nazionali ha ammorbidito i toni, lasciando spazio ad analisi e commenti sullo sviluppo delle relazioni tra i partiti che saranno chiamati a formare un governo. La fine della campagna elettorale su scala nazionale e lo scomparire dei pochi casi di violenza politica andati alla ribalta proprio in concomitanza con le elezioni, hanno portato il panorama editoriale ad attestarsi su strategie comunicative decisamente più moderate. Il giornalismo, come molti altri fenomeni sociali, è oggetto di flussi naturali, generalmente alternanti. Se in
alcuni periodi, per contingenze o necessità, emergono toni e narrazioni maggiormente aggressive e distorte, in altri periodi i giornali si prestano a delle narrazioni meno esasperate. Tuttavia, non sono mancati i toni più polemici scaturiti dalle forti linee editoriali di alcuni giornali e dalle dichiarazioni di alcuni personaggi politici: tra frecciatine ironiche e segni di avvicinamento il panorama mediatico ha offerto un’ampia copertura di ogni vicenda. L’altro grande protagonista delle prime pagine nelle scorse settimane è stato l’attacco occidentale in Siria che ha avuto un’accoglienza dai toni grandi e sensazionalistici, salvo poi ritornare alla normalità, visti gli sviluppi della vicenda che, già da subito, non lasciavano presagire ritorsioni da parte di alcuno. A proposito di politica nazionale Le prime pagine dei quotidiani nazionali hanno visto primeggiare la politica nostrana sia per il mese di Marzo che per quello di Aprile, vista la grande incertezza riguardo il futuro politico del nostro paese al seguito dei risultati delle elezioni del 4 marzo. Già a partire dal giorno seguente infatti, quasi tutte le maggiori testate nazionali hanno concentrato i propri sforzi per analizzare le percentuali di voto e cercare di capire i vari movimenti delle forze politiche italiane, in vista del 24 Marzo (prima data fondamentale per la nuova legislatura), giorno previsto per le elezioni dei presidenti di Camera e Senato. Per quasi 2 settimane abbiamo visto susseguirsi sulle prime pagine le teorie più strampalate, fino al 35
momento in cui tutte le maggiori testate hanno concentrato il proprio interesse sull'opzione universalmente riconosciuta come più plausibile: l'alleanza fra Movimento 5 Stelle e Lega. Da notare però come effettivamente non tutti i giornali hanno però dedicato le proprie prime pagine al torbido triangolo amoroso Salvini - Di Maio - Berlusconi (che recita la parte del fidanzato tradito). I giornali di destra non hanno infatti deciso di dimenticare così presto il loro vecchio nemico, anche se ora ridotto a cadavere decrepito prossimo alla sepoltura nella fossa comune dell’opposizione: Il PD. Infatti, in quello che è un chiaro tentativo di “sparare sulla croce rossa”, le testate “cugine” Il Giornale, Libero e La Verità hanno voluto dedicare fiumi di inchiostro alla crisi della sinistra democratica italiana, concentrando il proprio fuoco sull’ormai ex-segretario Matteo Renzi (canzonandolo con titoli come “Renzi a picco, non lo vuole nemmeno il Pd”) oppure attaccando pesantemente la decisione del partito di non scendere a patti con nessuno, che porterebbe, secondo La Verità, alla formazione del tanto decantato governo Salvini- Di Maio. Così, mentre la totalità dei lettori italiani era presa dallo scoprire il finale della love story più chiacchierata della Terza Repubblica( fra il segretario della Lega Matteo Salvini e il candidato premier 5 Stelle Luigi di Maio) si è giunti al 24 Marzo. Le elezioni alla Camera di Roberto Fico, storico parlamentare 5 Stelle, e di Elena Casellati al Senato, senatrice forzista (descritta 36
dai giornali come protetta di Ghedini ed ideatrice delle leggi Ad Personam del governo Berlusconi), sono riuscite nella difficile impresa di riunire la stampa italiana all'interno di un coro univoco. I giornali hanno visto infatti in questo risultato il compimento dell'unione politica fra Movimento e Lega, sottolineando inoltre il cambio radicale nella leadership del Centrodestra, con Berlusconi costretto ad abbandonare l'idea di supportare Paolo Romani al Senato e a cedere alla richieste dei 5 Stelle di sostenere la candidatura di Fico alla Camera. A partire dal 25 Marzo dunque, i giornali hanno dunque ancor di più "intasato" le proprie prime pagine con notizie minuziose su quante volte Di Maio avesse chiamato Salvini il giorno prima oppure cercando di analizzare il futuro politico di Partito Democratico e Forza Italia in vista delle consultazioni con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in programma per il 4 Aprile. Questa monotonia tematica è stata però interrotta il primo Aprile, quando la popolazione al risveglio ha trovato le prime pagine dei quotidiani quasi interamente occupate dalle notizie arrivate nella notte da Bardonecchia, dove un gruppo di gendarmi francesi aveva attraversato il confine italiano per compiere una perquisizione a dei cittadini extracomunitari accusati di esser spacciatori di sostanze stupefacenti. Mentre buona parte delle testate ha riportato tale incidente diplomatico come un momento di tensione da risolvere diplomaticamente, i giornali del polo sovranista, legati ad una concezione politica più radicata
a destra, hanno invece intravisto nella questione una chiara violazione della nostra sovranità nazionale (Verità e Giornale hanno parlato di vera e propria invasione, con il secondo che ha addirittura accusato Macron di essere un bullo) oppure, come Libero, hanno sorvolato sul fatto, spingendo i politici italiani a concentrarsi sulla creazione di un governo nazionale e non sul litigare con i politici d'oltralpe. Nessun di questi hanno invece avuto il coraggio di commentare o sostenere la proposta di Salvini di rispedire in Francia alcuni diplomatici francesi, visto anche il trattamento precedentemente riservato dal governo italiano ai diplomatici russi per il caso dell'ex-spia avvelenata nel Regno Unito.
oramai quasi tornato in pensione a causa dell'avanzata inesorabile di Salvini e la Meloni che vede sempre più affievolirsi le sue possibilità di far parte del nuovo governo), la ferma decisione del PD guidato, al momento, da Martina di rimanere all'opposizione pur dinanzi alle avanches insistenti di Di Maio (che continua imperterrito nella ricerca di un partner politico non ancora insultato dal suo partito), quel che è certo è il fatto che i giornali italiani, così come noi cittadini, sono ben distanti dal poter intravedere la fine di questo lungo periodo di incertezza politica, ma almeno avranno ancora molte prime pagine da dedicarvi.
Passati oltre questo "piccolo" errore della gendarmeria francese, la stampa italiana ha deciso di concentrare nuovamente le proprie forze nel seguire tutti gli avvenimenti riguardanti le consultazioni dei rappresentanti dei partiti con il Presidente Mattarella (che fino al momento nel quale scriviamo non hanno ancora visto un chiaro vincitore capace di formare una squadra di governo). Fra le sollecitazioni del Presidente stesso, la complicata relazione della coalizione di Centrodestra (con Berlusconi
A proposito di Siria L’attacco chimico in Siria alla radice degli sviluppi nei giorni scorsi è avvenuto durante la prima mattina del sette aprile. Tuttavia non comparirà sui quotidiani nazionali fino al nove aprile, dopo che la notizia è stata confermata da foto e video, oltre che dalle testimonianze dei Caschi bianchi. Quelle stesse immagini diventano l’elemento in comune delle prime pagine di quasi tutti i quotidiani: occupano una posizione centrale, annullando l’usuale l’eterogeneità delle immagini nei diversi quotidiani. Alle immagini forti vengono
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accompagnati titoli altrettanto incisivi, diversamente declinati dai vari approcci comunicativi delle testate. I quotidiani che riportano la notizia in maniera più invasiva sono La Stampa, la Repubblica e il Corriere. Non ci sono immagini in primo piano, che vengono invece riservate a questioni di politica nazionale, sul Fatto e il Giornale, che riportano la notizia in secondo taglio. Assente del tutto è su Libero, dove invece tuona un titolo “Pure i preti leccano Di Maio”. I toni patemici di buona parte dei quotidiani tuttavia non vengono ripresi nei giorni successivi, dove la situazione siriana rimarrà in secondo piano, eccetto l’aggressiva risposta retorica di Trump che dopo aver coniato un’ennesima allitterazione nei confronti di un suo nemico, in questo caso “Animal Assad” - verrà ampiamente ripresa. Tornerà sulle prime pagine invece il quindici aprile, poiché l’attacco è avvenuto nelle prime ore della mattina del quattordici aprile. I titoli saranno nuovamente seguiti da potenti immagini, questa volta dei missili occidentali sul cielo notturno di Damasco. I titoli sono tra i più disparati ma è interessante notare quello di La Verità, che offre una lettura ampiamente interpretativa, titolando “Le bombe per Assad cadono sul centrodestra”, mettendo in luce le discrepanze tra la politica estera di un “moderato” come Berlusconi rispetto a Matteo Salvini e quindi le diverse ricezioni del fenomeno che ci sono state. Non si tratta dell’unica testata che stabilisce una relazione diretta tra gli avvenimenti della guerra civile siriana e lo stallo politico italiano. Libero invece
titola “I dilettanti della guerra”, con un sottotitolo che riporta “Nemmeno le bombe ci danno una mossa” e un occhiello “Nonostante cento missili contro la Siria solo tre feriti”, risultando nuovamente provocatore. I titoli di Feltri sono ampiamente controversi e per questo vengono spesso legittimati in quanto satira, tanto che alcuni arrivano a definirlo un “genio” per le sue scelte editoriali, che in realtà celerebbero uno spirito ribelle pronto a sfidare l’ipocrita moralità comune; tuttavia la cornice in cui determinate azioni vengono compiute ne legittima o meno la validità in quanto tali: se Feltri possiede un giornale non esplicitamente satirico non può essere definito un genio della satira e anzi un giornalismo simile costituisce uno dei tanti fattori che avvelenano l’opinione pubblica, se non direttamente il risultato di una opinione pubblica inquinata, come in un circolo vizioso. Non è una novità che esistano titoli, soprattutto online, “clickbait” (letteralmente esca per click), il cui uso ormai non può essere delegittimato in quanto costituiscono uno strumento fondamentale del giornalismo e delle varie realtà editoriali contemporanee, a patto che seguano contenuti validi. Il titolo del Sole 24 Ore invece, se decontestualizzato dalla voce giornalistica che lo presenta, risulterebbe un’affermazione priva di sensibilità e sguardo attento rispetto agli avvenimenti in Siria: “Attacco in Siria, ansia sui mercati”. Ponendo l’accento sull’effetto immediato che ha un avvenimento del genere sui mercati il fenomeno viene direttamente interpretato secondo uno schema che lo 37
inquadra precisamente in un rapporto di causa ed effetto dove l’effetto (in questo caso l’ansia finanziaria) assume un ruolo predominante. Il senso rientra nella misura in cui definiamo la linea editoriale e il pubblico a cui viene presentata la notizia. La specificità del panorama mediatico italiano tuttavia non coglie il movimento della stampa internazionale che si è trovata in una situazione quanto mai ambigua, in un ciclone di post-verità che non permette di stabilire una versione univoca e precisa dei fatti. L’enorme quantità di informazioni offusca paradossalmente la verità, poiché non solo gli organi di governo dei singoli stati che prendono parte alla guerra, ma anche le agenzie di stampa nazionali ed internazionali offrono conferme, smentite e versioni discordanti. Prima fra tutti la Russia che, attraverso outlet di news direttamente finanziati dal governo e le dichiarazioni del ministro degli esteri Lavrov e degli organi governativi, fornisce una lettura trasversale, se non completamente opposta, degli avvenimenti rispetto all’occidente. Diventa quindi difficile non solo ottenere informazioni precise e consistenti oltre ogni dubbio - a patto che questo sia possibile ma anche stabilire una versione univocamente condivisa dei fatti. Se le informazioni fossero controllate come lo erano un tempo, attraverso l’accesso alla sola televisione e ai soli giornali nazionali, sarebbe certamente più semplice fornire all’opinione pubblica una versione condivisa univoca - non per forza vera universalmente - all’interno di ogni singola realtà nazionale, tuttavia con internet e l’eccesso 38
informativo le varie versioni si mischiano creando un grande agglomerato di interpretazioni e fatti diversi in cui viene richiesto semplicemente di effettuare una scelta, senza la pretesa che sia l’unica “vera”. A proposito della SS Tiangong-1 L’ultimo giorno di marzo e il primo di aprile hanno visto una notizia particolare primeggiare nei quotidiani e, soprattutto, nei telegiornali. La stazione spaziale cinese Tiangong-1 sarebbe precipitata a terra, dopo diversi anni in orbita. La Cina, che attraverso il suo programma di esplorazione spaziale lanciò la stazione nel 2011, perse con essa tutti i contatti e il controllo nel 2016. La possibile fascia di territorio favorita per il rientro della stazione spaziale si estendeva dal 43° parallelo dell’emisfero boreale al 43° parallelo dell’emisfero australe. Si tratta di un’area vastissima che va dal sud delle Ande alla Manciuria, di fatto è la maggior parte della superficie terrestre. Il rientro incontrollato era quindi previsto e, durante il mese di marzo, la protezione civile pubblicò un comunicato con cui metteva al corrente dei possibili rischi. Questo bastò per innescare una sequenza di articoli e titoli poco rassicuranti se non addirittura allarmistici. E’ tuttavia interessante notare un fenomeno. Alle testate che via via riportavano la notizia non mancavano dati corretti, ma una visione d’insieme del fenomeno. In misura diversa, è accaduto ciò che accade per molti altri fenomeni, specialmente nella politica e nel giornalismo non di settore. Nessun articolo, nemmeno
quelli apparentemente più rassicuranti, hanno riportato un’immagine completa degli avvenimenti. Nella maggior parte dei casi sono state tirate in ballo percentuali molto basse di collisione con il suolo italiano: si tratta di un dato corretto ma da cui si evince un’attenzione selezionata nell’elaborare la notizia. L’effetto generato da un’ampia visione d’insieme è decisamente diverso rispetto a quello di un dato che pure corretto - è un parziale frammento incompleto di una narrazione decisamente più complessa, lunga e articolata. Esiste infatti una netta differenza nella percezione che si può avere di un’enorme fascia di planisfero rispetto a quella di una percentuale, che, seppur piccola è indirizzata all’Italia - luogo della nostra quotidianità -, tanto più che non è possibile avere un’immediata comprensione della reale grandezza (o, come in questo caso, piccolezza) di un numero. Un fatto così insignificante fornisce un esempio tanto potente quanto semplice di quali siano i meccanismi che regolano il giornalismo.
di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol Scomodo
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di Luca Bagnariol Foto di Emma Terlizzese
SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA
CITTÁ DEL RUGBY DI SPINACETO Anno di inizio dei lavori: 2007 Anno definitivo di abbandono: 2015 Proprietà: Iceland90 srl (poi fallita per debiti) Fondi pubblici stanziati: 33 milioni di euro
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LA NASCITA DI QUESTO MOSTRO, E DATATA AL 1995, , QUANDO LA GIUNTA RUTELLI DECISE DI APPROVARE UN PIANO CHE AVREBBE RADICALMENTE MIGLIORATO LA QUALITÁ DI VITA NELLE PERIFERIE DELLA CITTÁ
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anni Moretti, nel suo film "Caro Diario" del 1993, attraversava in Vespa le strade di Spinaceto, rimanendo sorpreso dal fatto che quel quartiere di Roma Sud non fosse così terribile come in realtà il resto della popolazione capitolina lo dipingeva. Nella scena, in particolare, il regista e attore percorreva Via Augusto Renzini, il cui circondario, anche al tempo dalla bellezza opinabile, era ancora privo di uno dei più grandi scandali urbanistici della storia di Roma. Si tratta della
Città del Rugby di Spinaceto, uno dei progetti di riqualificazione delle periferie romane più ambizioso ma allo stesso tempo più fallimentare nella storia recente della nostra città.
La nascita di questo "mostro" è datata al 1995, quando la giunta Rutelli decise di approvare un piano che avrebbe radicalmente migliorato la qualità di vita nelle periferie
della città: la creazione di Punti Verdi Qualità, ovvero aree verdi a concesse dal Comune a privati che, in cambio della loro manutenzione e del pagamento di un piccolo canone, sarebbero potute essere utilizzate per sviluppare delle attività commerciali. Iniziativa sicuramente nobile sulla carta, ma che in realtà, a ben 23 anni dalla sua ideazione, ha portato nelle casse comunali un buco di ben 620 milioni di euro (tra finanziamenti bancari garantiti dalla giunta e soldi investiti sia sotto Rutelli che sotto
Veltroni) e solo 16 progetti completati su 76 varati. Se quantomeno rimangono delle speranze per la conclusioni di nove cantieri ancora aperti, dieci invece risultano abbandonati, tra cui appunto la suddetta Città del Rugby. Proprio questa risulta essere la perfetta esemplificazione della fallimentare iniziativa comunale : nel Parco Campagna, la giunta Rutelli volle portare avanti la costruzione di due campi da rugby.
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NEL SETTEMBRE DEL 2015 LA "ICELAND90"" FALLISCE, LASCIANDO AL COMUNE ED AI SUOI CONTRIBUENTI L’ARDUO COMPITO DI RIPIANARE IL GRANDE NUMERO DI DEBITI
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'assegnazione del progetto avvenne tramite bando privo di gara pubblica, vinto dalla società privata "Iceland90", che all'epoca gestiva solo una pista di pattinaggio. La società decise però di stravolgere completamente la sua realizzazione, decidendo di costruire un unico campo da rugby ma aggiungendo al suo fianco una struttura comprendente piscine, una pista di pattinaggio, un centro benessere e addirittura un polo commerciale.
Il comune approvò questo cambiamento e concesse l'area, con la società che aveva a suo carico tutti i costi di realizzazione. Ma la "Iceland90" di soldi non ne aveva. I 32 milioni di euro investiti derivavano infatti da una fidejussione stipulata fra Giunta e banche. I lavori così iniziarono, in un clima di incertezza dovuto principalmente alla fragilità economica della società, ma quantomeno si riuscirono a definire, anche se assai lentamente, le strutture del polo commerciale e del centro benessere,
la zona piscine e gli spalti del campo di rugby. Per quanto concerne invece il campo stesso, un banale errore nel calcolo delle misure non permise la sua realizzazione, poiché il cemento aveva invaso anche parte dello spazio pensato per il campo (che, ricordiamo, doveva essere il fulcro del progetto stesso). Nel Settembre del 2015 però la "Iceland90" fallisce, lasciando al Comune ed ai suoi contribuenti l'arduo compito di ripianare il grande numero di debiti che aveva conseguito
durante gli anni ed abbandonando seduta stante il cantiere. Al suo interno, vengono lasciati impianti di condizionamento, sistemi meccanici di ultima generazione per la regolazione della luce naturale e addirittura macchinari dediti alla manutenzione di piste di pattinaggio. Tutti elementi divenuti preda per quasi tutti i saccheggiatori della Capitale, che sfruttando la mancanza di controlli e il mancato completamento della recinzione esterna, hanno trovato modo di depredare la struttura di questa sua fortuna nascosta.
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COSI´QUELLO CHE NELLA MENTE DI RUTELLI DOVEVA DIVENIRE IL CENTRO DELLA VITA SPORTIVA DELLA PARTE SUD DELLA CAPITALE GIACE ABBANDONATO
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ino al 2017 questo progetto è stato completamente dimenticato dalla quasi totalità della popolazione romana, tranne che dagli abitanti di Spinaceto, che si sono ritrovati costretti a convivere con questo cadavere in decomposizione. Questo fino a quando la Giunta pentastellata, guidata dalla sindaca Raggi, ha deciso di porre fine alla cornice degradante che ruota intorno ai Punti Verde Qualità. Nel luglio del 2017 infatti, i giornali romani hanno aperto con la notizia di un
interessamento del Comune nei confronti della Città del Rugby. Da quel momento sono stati portati avanti dei lavori per completare la recinzione esterna, in modo da evitare così nuovi fenomeni di saccheggio (ad oggi, risulta comunque estremamente semplice entrare all'interno della struttura, al punto tale che sono presenti delle occupazioni abusive). È stata inoltre annunciata la nascita di un bando per cercare delle idee su come riqualificare la zona e la struttura stessa per l'Ottobre dello stesso anno. Una
notizia epocale, al punto tale che perfino i maggiori quotidiani nazionali hanno mostrato un nuovo interesse per la struttura e il suo futuro. Ma tutto questo si è rivelato in realtà un fuoco di paglia: non si hanno ancora notizie dei risultati del bando, la struttura rimane alla mercé di chiunque per la totale mancanza di controlli e l'interesse a livello cittadino per la vicenda è totalmente scemato nel giro di pochi mesi.
Così, quello che nella mente di Rutelli doveva divenire il centro della vita sportiva della parte Sud della Capitale giace abbandonato, come un monumento alla grandezza degli scandali urbanistici della nostra città. Rimane solo una vuota struttura di cemento che giganteggia su tutto il quartiere, visibile a tutti coloro che decidano di passare per la Pontina, che osservandolo vengono colti da un totale senso di vuoto. 47
Evoluzione naturale Intervista ad Achille Lauro
Innovare, specie nella musica, non è mai esente da rischi. Spesso il cambiamento è dettato da logiche discografiche, un'ultima spiaggia per non perdere il treno del successo, e altrettanto spesso è fonte di spaccature tra i fan, divisi tra gli apocalittici del "non sei più quello di Mi Fist" e gli integrati cultori dell’easy listening. Achille Lauro ha avuto un percorso musicale originale e in continuo divenire, "in direzione ostinata e contraria" rispetto alle mode del mercato, nel corso di una carriera partita dagli esordi underground del mixtape "Barabba" e arrivata fino alla nuova frontiera della samba trap. Abbiamo quindi deciso di intervistarlo, assieme al suo produttore e amico Boss Doms, ripercorrendo con lui il cammino che lo ha portato da Serpentara a Milano e andando oltre le centomila maschere dell’Achille Lauro artista, per scoprire chi è invece Lauro De Marinis. continua a pag. 50
CULTURA
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Valerio Immordino
Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 50
Valerio Immordino nasce in Sicilia e nel 2009 si trasferisce a Roma dove frequenta una scuola di illustrazione per due anni. Ha lavorato a numerosi progetti, cimentandosi sia nell’illustrazione tradizionale e in quella d'animazione, che gli ha dato le soddisfazioni più grandi. Ci siamo incontrati di fronte al suo studio in zona Pigneto, seduti ad un tavolino all'aperto di un bar, sotto il sole di metà aprile: sigaretta alla mano e caffè davanti, Valerio ha risposto ad alcune domande per il numero di Scomodo del quale ha realizzato la copertina.
Partiamo da te: cosa ti ha spinto a diventare un illustratore? Anche se disegno da sempre inizialmente non avevo preso in considerazione l'ipotesi di diventare illustratore. Da piccolo disegnavo ossessivamente la Torre Eiffel, ne facevo due o tre ogni giorno, e questa ossessione si è poi trasformata in un lavoro quotidiano e serio. Più o meno nel 2009 mi sono trasferito a Roma, ho frequentato la scuola di illustrazione due anni e da lì in poi ho dedicato al disegno ogni mio giorno.!
Ci sono determinati temi che preferisci affrontare o temi che ti piacerebbe affrontare in futuro? Ultimamente sono in fissa con la fantascienza anni ‘50, mi piace anche molto osservare cose che vedo in natura o per strada focalizzandomi su piccoli particolari, come cercare di riempire lo spazio tra due edifici. Ho anche una grande passione per le iscrizioni medievali e quel tipo di stile per cui cerco sempre di mischiare questi aspetti.
Da quali artisti ti sei fatto influenzare e guidare durante il tuo percorso? Mi faccio influenzare un po’ da tutto, spesso fermo fotogrammi dei film, mi focalizzo su cose che mi piacciono particolarmente cercando idee per il disegno. Il primo artista che mi ha colpito è stato sicuramente Moebius - ho capito di voler dedicare la mia vita al disegno leggendo Il Garage Ermetico - ma ce ne sono davvero troppi, dovrei fare una lista noiosissima.
Cosa ti ha spinto a collaborare con Scomodo realizzando la nuova copertina? Conosco molti degli artisti che hanno disegnato la vostra copertina e quando è arrivata la proposta anche a me ho accettato immediatamente.
Quale é il consiglio migliore che tu abbia mai ricevuto in merito alla tua professione e cosa consiglieresti a un aspirante illustratore? Forse il consiglio migliore è stato quello di riempire sempre i fogli bianchi, anche adesso nei momenti di crisi mi ritrovo a riempire le pagine di disegni a caso, giusto per sciogliere la mano. Probabilmente il consiglio che darei agli altri invece sarebbe la costanza: quello dell'illustratore è un lavoro/passione che richiede impegno ogni giorno. Bisogna dedicarsi all’illuminazione sempre, anche solo prendendo la matita in mano e disegnando cose che magari poi non userai mai.
Trovare il tuo lavoro più recente è quasi impossibile, è una scelta quella di rimanere nell'ombra? Non è una scelta, la verità è che sono scarsissimo a organizzare le cose che ho messo in rete, c'è un piccolo contenitore che viene aggiornato di frequente ma è completamente introvabile. Inoltre siccome lavoro a svariati progetti è difficile per me trovare il tempo di organizzare e riordinare il materiale.
Quando disegni segui un processo creativo preciso? Riempio molte di quelle pagine bianche di cui ti parlavo prima, però dipende dalla cosa sulla quale sto lavorando. Se sono più libero mi piace sperimentare cambiando tecnica e facendo quello che mi sento di fare (spesso infatti faccio cose non proprio bellissime), ovvio che se invece non ho tutta questa libertà non posso inventare o immaginare più di tanto. Ad esempio se mi viene detto di disegnare un cavallo rosa cavalcato da un coniglio e visti dall'alto ho poco di mio da poter aggiungere. C'è un tipo di lavoro al quale ti dedichi con più piacere? Rimango sempre più o meno dello stesso ambiente, da un paio d'anni ho cominciato a dedicarmi all'animazione che però faccio più che lavoro che per piacere visto lo sforzo e l'impegno che richiede. L'animazione mi dà enormi soddisfazioni dopo mesi di lavoro ma ha in processo lunghissimo, mi piacerebbe tanto potermi dedicare ad essa per conto mio. di Sofia Monterastelli
Nei tuoi disegni racchiudi un messaggio per lo spettatore o è a libera interpretazione? No, mi piace che ci sia a libera interpretazione, poi chiaramente io ci nascondo cose, impressioni, figure, forme che mi piacciono. Ultimamente poi mi è venuta questa fissa di nascondere quasi in tutte le mie illustrazioni il numero 12, al quale sono particolarmente legato e che per me ha un significato particolare. 51
Vorremmo cominciare l’intervista con una domanda sul tuo percorso artistico: qual è stata l’evoluzione del tuo personaggio e della tua musica durante gli anni? Come hai fatto ad arrivare alla samba trap? Parlo sia a nome mio che per Edoardo (Boss Doms, ndr). Per quanto ci riguarda l’evoluzione nasce dal fatto che nel campo musicale ripetersi troppo risulta monotono e riduttivo. Solo chi si evolve e va oltre la cazzata riesce a lasciare il proprio segno, nessuno dipingerebbe per tutta la vita un quadro tutto nero.
A
chille Lauro è probabilmente l’artista più poliedrico del panorama rap italiano, in grado di cambiare più generi musicali nel giro di pochi anni restando sempre fedele al suo personaggio e alla sua identità particolare. Come le immagini in movimento di una pellicola cinematografica, Lauro è riuscito a percorrere un sentiero artistico dinamico e proteso in avanti ma comunque coerente con le proprie origini e il proprio fil rouge biografico. Dagli inizi più hardcore del mixtape “Barabba”, alla firma per Roccia Music e il primo disco “Dio c’ è”, street ma ricco di sperimentazioni sonore, all’album fusion rap indipendente “Ragazzi Madre”, che lo ha portato alla definitiva affermazione artistica, fino al suo ultimo step evolutivo, quella samba trap capace di innovare la corrente attuale più florida del rap italiano grazie a una contaminazione con suoni e immaginari esotici ed
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evocativi. Questo percorso, tuttavia, è stato più complicato di quanto sembra, segnato dai due poli geografici di Roma e Milano, tra i quali si è snodato un cammino contorto che ha visto l’artista di Serpentara uscire e entrare dal mondo delle major discografiche. Tutto ciò è avvenuto senza mai rincorrere la moda del momento, ma anzi spesso rielaborandola in maniera spontanea, come in una sfida continua verso il darwinismo musicale contemporaneo e le sue spinte omologatrici. Abbiamo sentito Achille via telefono mentre era in treno verso Milano con il suo producer Boss Doms, che è intervenuto nell’ intervista completando il quadro d’ insieme dipinto dall'artista romano. Durante la chiacchierata Lauro ci ha parlato dell’ importanza della solitudine nel processo creativo, di quanto è cambiata Serpentara da quando era un adolescente e della sua passione per i film di Christopher Nolan.
Il video di “Non Sei Come Me” si apre con la frase “L’essere diverso non sta nel come ci si comporta, ma nel come si viene trattati”: quanto tieni all’originalità, anche in rapporto al resto della produzione musicale in Italia? È ciò che ti spinge a rinnovarti? L’originalità vuol dire sicuramente staccarsi da quello che è il classic del momento. Anche quando facevamo street rap non volevamo essere identificati solo con quella roba e ci vestivamo con occhiali da donna anche per smitizzare quell’immaginario stupido del gangsta rap, che mi imbarazza pure nominare come parola. È stato comunque un susseguirsi: nel 2014-2015, quando è esplosa la trap in Italia, abbiamo iniziato a spararci e a prendere spunto dalla scena americana, che ha influenzato Dio c’ è. Adesso che il mercato italiano è saturo di quella roba abbiamo voluto contaminarla con una cosa ancora nuova, ma siamo belli indirizzati verso un altro obiettivo.
Com’è stato il periodo post Roccia Music? Che sensazioni avevi riguardo al tuo futuro come artista? Questa è una domanda figa perché il nostro percorso è stato particolare. Abbiamo fatto uscire subito dei pezzi e siamo partiti: già il nostro primo singolo, Giovani Crimini, è stato notato e stuprato, a differenza di altri rapper che ci hanno messo anni per emergere. Abbiamo fatto un piccolo percorso di mixtape, Barabba-Harvard, molto veloce, e abbiamo siglato subito un contratto major, sfondando la porta del mercato musicale. Dopo aver intrapreso la strada di Roccia Music non avrei mai pensato di cambiare, ma mi sono accorto col tempo che sia io che le persone con cui lavoravo avevamo delle identità troppo personali, che limitavano il confronto e la scelta comune, per quanto io sia debitore a Marra e Shablo. Il management è come giocare per una squadra di calcio e andarsene è come cambiare cartellino: ho sentito che era il momento di staccarsi da quell’ambiente e dal venire riconosciuti come parte di un’etichetta hip-hop, con tutte le difficoltà e i rischi conseguenti. Abbiamo abbandonato la strada più facile, che era spianata, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo mangiato merda. Dopo aver lasciato Roccia Music mi sono trasferito a Milano, ma prima a Roma mi sono chiuso in studio con Boss Doms in zona Fidene per un anno. Penso che camminare su una via già fatta ma non tua non sia intelligente, è meglio percorrere una via difficile che hai in mente. Una realtà del genere a un certo punto era diventata troppo stretta per il nostro immaginario: volevamo fare una cosa più ampia piuttosto che venire riconosciuti solo come rapper.
Scomodo
Scomodo
Aprile 2018
Aprile 2018
Dopo aver lasciato Roccia Music mi sono trasferito a Milano, ma prima a Roma mi sono chiuso in studio con Boss Doms in zona Fidene per un anno. In un’intervista Noyz Narcos ha detto che a Milano le persone sono molto metodiche in quello che fanno, mentre a Roma c’è meno serietà e voglia di lavorare, e tutto questo si riflette nelle rispettive scene musicali. Visto che ormai da un po’ ti sei trasferito su, che differenze hai trovato tra le due città? Ci stanno due differenze fondamentali tra Roma e Milano: a Milano i soldi si fanno e a Roma si godono. Poi secondo me Milano artisticamente ti toglie, Roma invece è un continuo pozzo di ispirazione, proprio perché è una città piena di contrasti, dal centro superlusso fino alla periferia. La sua grandezza ti nutre e ti colma di un senso di abbandono che per l’arte è perfetto, mentre Milano è la capitale dei soldi, dove puoi creare una rete di business legata alla musica e a mille altri progetti paralleli. Noi a Roma scriviamo i dischi, a Milano li vendiamo. Partiamo con delle domande più secche: qual è il tuo featuring della vita, anche irrealizzabile?
Lascio rispondere a Doms. – Prende parola Boss Doms – Il mio featuring della vita? Vasco Rossi ovviamente, anche se non fa featuring e quindi rimarrà un sogno. E poi un altro, aspetta: Jim Morrison. Chi è invece la donna più bella d’Italia? (Ride) Ci dovrei pensare. Ce ne sono, ce ne sono, l’Italia è un bel posto. C’è un film o un personaggio cinematografico che ti ha segnato particolarmente? Io più che altro sono un fan dei film di Christopher Nolan in realtà, sono un fan del regista. Ti dico la verità, io sono uno che all’inizio, stupidamente, perché ero uno poco intelligente, non guardavo né la tv né i film, anche perché avevamo altro a cui pensare. La tv non la guardo neanche adesso, mentre di film mi sono fatto una bella cultura negli ultimi anni. Me lo sono imposto perché la reputo una delle forme d’arte più importanti, mi sarebbe piaciuto fare cinema. Negli ultimi anni i video all’interno della scena rap italiana hanno acquistato sempre più importanza, e di conseguenza sono diventati molto più curati e pensati: ti piace avere un ruolo dietro alla realizzazione dei tuoi videoclip? Io da sempre metto bocca in qualsiasi cosa che faccio e rompo i coglioni, anche con Edoardo che in campo musicale è un professionista. Nei video sto dietro alla regia, anche ora che abbiamo costruito No Face Films, che è una vera produzione cinematografica e video che si occupa anche della pubblicità di grandi marchi. Abbiamo costruito, 53
andando avanti, una macchina perfetta, ma c’è comunque sempre dietro un’idea che parte da me in prima persona. Per alcune scene di Midnight Carnival, non sto scherzando, ho avuto le visioni, anche se sembra folle. Ti capita di tornare a Serpentara? Quanto è cambiata da quando ci abitavi e rispetto al periodo della tua adolescenza? Più che altro siamo cambiati tanto noi. Abbiamo vissuto il quartiere da soli e la musica era una cosa di contorno, una passione: avevamo la voglia di arrivare in alto e ci siamo spaccati il culo per farlo, ma senza il senso di abbandono che ci dava il quartiere non saremmo diventati quello che siamo ora e non avremmo conquistato il pubblico. Il quartiere ha dato alla nostra musica un’anima. All’apparenza è una cazzata, ma l’ha arricchita con contenuti e suoni profondi. Ritornare oggi mi mette malinconia, perché nonostante ciò che abbiamo passato è il posto dove siamo cresciuti io e Edo. Ai tempi il quartiere era un po’ più anni 90, anche a livello di nonnismo e di atteggiamenti street. Comunque Serpentara rimane periferia, con i suoi pregi e difetti, ma quando c’eravamo noi era diverso. Le scene finali del video del tuo ultimo singolo, “Midnight Carnival”, sono ambientate nella Palestra Popolare del Quarticciolo: perché questa scelta? Hai un rapporto particolare con il quartiere? Noi, essendo di Roma, in generale abbiamo un rapporto profondo con la nostra città, dai quartieri periferici dove siamo cresciuti fino al centro. Credo che questo senso di solitudine accomuni un po’ tutti i pischelli 54
romani, che è un bene e un male. Roma è una culla di artisti di tutti i generi. Io ho sposato la roba dei quartieri popolari primo perché ci sono cresciuto e secondo perché all’interno della povertà, delle facce della gente, dei palazzi delle periferie, non costruite ma vissute, c’è la poesia. Alcuni quando dico questo pensano sia una roba pasoliniana, perché lui chiamava a recitare personaggi della strada, e anche per me è così. Il rapporto che ho con il Quarticciolo è quello che ho con il resto dei quartieri romani. Ho scelto la palestra perché era figa a livello di immagine e i pischelli comunque se la sono costruita da soli, rispecchiando un po’ quello che abbiamo fatto io e Boss. Rompersi il culo e costruire qualcosa dal niente, questa è la forza del romano. Una città mal gestita porta a quella roba. Ultimamente si sente sempre più parlare di rapper che hanno avuto successo partendo dal niente: ti senti un po’ il capostipite di questo modello? Quanto ti ha aiutato la musica a uscire e a raccontare il contesto difficile in cui ti trovavi? È stata un ascensore sociale? Noi, a detta non nostra ma in generale, ci sentiamo capostipiti di vari modelli. Con la nostra continua sperimentazione siamo arrivati prima su molte cose. Il panorama rap, anche se io non me ne sento parte, nasce da quella roba. Per quanto riguarda noi, che abbiamo avuto problemi di ogni tipo, la musica è diventata un business importante e ci ha fatto abbandonare strade, giuste o sbagliate che siano, che avevamo preso. La costruzione di qualcosa di solido e legale (ride), che non ci facesse avere problemi, è stata sicuramente una
salvezza. Non è stata la musica in sé ad avere un ruolo importante ma la passione: io penso che chiunque abbia una passione e qualcosa da inseguire abbia meno possibilità di finire nella merda. Noi, gli amici nostri e dei nostri fratelli usciamo tutti da un’estrazione sociale e da un ambiente molto difficile, in cui era facile finire nella merda.
Come ti approcci alla scrittura di un brano? Dipende, la musica non è a comando. Se vuoi ti ci metti e butti giù qualcosa, ma noi abbiamo prodotto roba in qualsiasi modo: dallo studio all’avere già cose scritte, dall’arrangiare insieme fino al mettere un beat alle tre di notte come in Teatro & Cinema, dove Doms me l’ha fatto sentire e io avevo il brano perfetto già scritto. Nella mia carriera ho sempre scritto da solo e in solitudine, perché non ero mai riuscito a scrivere con gli altri, in studio. I miei dischi sono molto personali e dettati da stati d’animo: come mi sentivo scrivevo, quello che pensavo scrivevo. Ad oggi invece crediamo di più nel lavoro di squadra, quindi riesco a buttare giù delle cose insieme agli altri e la musica viene discussa. Abbiamo creato una macchina della musica piuttosto che due pischelli sbandati che vogliono svoltà.
Qual è il tuo brano a cui sei più legato? Perché? I brani a cui sono maggiormente legato sono i pezzi introspettivi. Non facciamo però solo musica cupa o poetica, facciamo anche le cazzate perché ci piacciono e ci divertiamo, vogliamo provare cose diverse. Un giorno proviamo il nero, un altro il giallo, perché per noi ogni pezzo ha un colore, è tutta una nostra filosofia difficile da spiegare (ride). Sono legato ai brani scuri e poetici perché nel mio percorso sono stati scritti con degli stati d’animo che ricordo, anche i momenti esatti in cui l’ho fatto. Per me sono stati d’animo trascritti. Adesso faccio rispondere Edoardo, perché magari per il sound è diverso, comunque i brani che preferisco sono quelli con le parole più mie. – Interviene Boss Doms – Sono dello stesso parere, tranne alcune eccezioni, per esempio Ulalala, o robe del genere che sono esperimenti riusciti bene a livello di mix di suoni, levando le parole. Di brano completo anche io preferisco della nostra coppia i brani introspettivi, però a differenza di Lauro sono orgoglioso anche di brani meno profondi ma con un’idea dietro e una realizzazione figa a mio avviso, che mi fanno sorprendere di una cosa che ho fatto io stesso.
Scomodo
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Aprile 2018
Aprile 2018
Chi è a tuo avviso il più forte del Quarto Blocco? Vivendolo da dentro non saprei rispondere, perché sono tutti miei fratelli e ognuno ha la sua quadratura. Ti posso dire al massimo i più attivi al momento: con alcuni di loro, che sono Sedato Blend e Simon P, stiamo lavorando assieme a No Face e a breve faremo uscire qualcosa sullo stile di Latte in polvere, che reputo un pezzo cult, e che anche Noisey considera uno dei migliori della nostra discografia. Il problema di fondo è che nel Quarto Blocco ci sono dei talenti della Madonna, scrittori della Madonna con vite della Madonna, autori di Cristo come Sedato e Simon P che sono degli autori della Madonna. Simon P ha avuto una vita difficile e ha tante cose da raccontare: non è uno scemo o un coatto, è molto intelligente. Il problema finale quindi non è di disorganizzazione ma di follia romana. Questo perchè il Quarto Blocco è un gruppo di squinternati veri, non di ragazzini che dicono che la musica li ha salvati: la musica non li ha salvati perché erano troppo squinternati. Il Quarto Blocco ha dentro quei pischelli che sono usciti dalla merda, sfonnati, e questo per me è un vanto. Quando sento pischelletti che non sanno neanche di cosa stanno parlando mi viene voglia di smettere di fare musica, di cambiare genere e mi vergogno anche di essere stato portavoce del rap. A noi interessa solo fare bella musica, però vedere i nostri amici nella merda e gente che nei pezzi spara stronzate mi fa ripudiare quello che faccio.
Facile: guarda quello che fanno gli altri e fai l’esatto opposto. È davvero semplice, questo è l’unico consiglio. (Ride)
Consigli di stile per un pischello?
Sempre a proposito di “Thoiry”, è un brano che ci ha ri-
In Samba Trap Volume 2 hai realizzato assieme a Boss Doms e Gemitaiz una cosa poco frequente e convenzionale oggi, che affonda le sue radici nell’hip-hop old school: il remix del brano di un artista emergente. Come mai hai scelto proprio Quentin40 e Puritano? Io l’avevo già fatto con la BPR Squad e il brano Fuc: non sono geloso del mio successo e quando vedo un brano bello non mi faccio problemi a condividerlo, a differenza di altri non solo nel mio campo ma in generale, perché mi piace farne parte. Fuc era una vera bomba e ho chiesto di fare il remix alla BPR, anche perchè in quel periodo storico gli avrebbe fatto comodo, ed è venuta su una bella collaborazione, sia a livello di business per loro che per me, perché comunque il pezzo spaccava. Lo stesso vale per Thoiry: a me piaceva il pezzo ed era molto vicino a quello che volevamo fare noi. Avevamo da poco fatto uscire Amore Mi e avevamo le tonalità samba già pronte da utilizzare, mentre loro si ispiravano alla roba francese che sta andando ora. Abbiamo sostenuto la causa e non ci siamo fatti problemi a pensare che ciò avrebbe fatto bene alle loro carriere, perché le carriere vanno parallele e non si scontrano: proprio perché ci stiamo allontanando da quello che va adesso abbiamo voluto mettere nuovi petardi nello scatolone che è la scena di adesso.
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cordato molto il ciclo di “Afro Trap” fatto da MHD (rapper francese, ndr): cosa pensi dell’ascesa della scena francese? Sta prendendo il posto di quella americana? A me in realtà piacciono tre o quattro artisti americani, soprattutto Travis Scott e Young Thug, perché li reputo dei veri artisti, più che semplici rapper o trapper. Nel nostro percorso il rap francese non ha molta influenza, perché per me nulla ha più influenza di tutto quello che vivo. Sono i discorsi che faccio con la gente e gli argomenti di cui parlo con qualcuno che segnano i miei testi, molto di più della musica. Edo invece è una persona con una cultura musicale con i controcoglioni, che ricerca sempre roba nuova e fonde i generi: la stessa samba o un brano come Ulalala che è mezza reggae e mezza rap sono la prova del suo spiccato senso di innovazione.
Villini storici sotto minaccia: la rigenerazione urbana che fa male
Dove sarà Achille Lauro tra cinque anni? Achille Lauro tra cinque anni sta a San Siro, pure di meno. Tra uno e mezzo/due siamo al palazzetto, tra cinque all’Olimpico – interviene Boss Doms – e dopo a Rebibbia (ridono). Achille Lauro tra cinque anni, se Dio mi assiste, sta a San Siro.
Il villino Naselli, costruito nel 1931, originariamente si presentava come un edificio neorinascimentale di due piani. Il primo proprietario, che commissionò l’opera all’ingegnere Gennari, fu il conte Gerolamo Naselli e solo nel 1947 la proprietà passò alle Ancelle Concezioniste del Divin Cuore che, circa dieci anni dopo l’acquisizione, ne fecero ampliare la cubatura, innalzandolo di due piani. Lo scorso ottobre 2017 il villino è stato abbattuto, per far posto a un moderno palazzo extralusso di 3.200 metri cubi, che comprende sette appartamenti, quindici box auto e sette cantine, secondo il progetto di Alessandro Ridolfi, presidente dell’Ordine degli Architetti di
di Jacopo Andrea Panno e Luca Bagnariol 56
Un'inchiesta urbanistico-architettonica sulla demolizione degli edifici di inizio secolo nel quartiere Trieste di Roma
Roma. La procedura con cui si è operato, però, presenta numerose criticità. La proprietà ha dichiarato che il villino sarebbe un falso storico degli anni ’50 (periodo in cui venne realizzata esclusivamente la sopraelevazione), tentando di giustificare la demolizione e il progetto di ricostruzione, rivelatosi non idoneo con il tessuto urbano circostante. Tutto ciò è stato smentito, ma troppo tardi. Nonostante le perplessità, nessuno è intervenuto a bloccare i lavori: né il Comune, né la Regione, né il Ministero dei Beni Culturali, lasciando esprimersi solo associazioni di liberi cittadini e comitati di quartiere, senza alcun potere di veto. Scomodo
Aprile 2018
Le domande che siamo costretti a porci. Il presente articolo, che parte da un’analisi storico-artistica delle zone interessate, pone degli interrogativi che per ora restano aperti. Com’è possibile che a Roma non venga tutelata l’integrità architettonica dei suoi quartieri? Non ci riferiamo a una reazione conservativa, ancorata al passato e che non vede “il nuovo che avanza”, come sostengono erroneamente (o in malafede) alcuni; si tratta di criticare un’operazione che premia gli investitori privati, danneggia il pubblico e porta in un quartiere come Trieste, con tutto un suo stile, una sua storia e una sua omogeneità, un edificio dall’impatto visivo (anche a causa dell’ampliamento della cubatura) completamente fuori luogo. E ancora, com’è possibile che, con tutti gli interventi edilizi che andrebbero realizzati a beneficio della collettività, come la costruzione di case popolari, ci si concentra in edifici extralusso in zone centrali o in opere mastodontiche nelle periferie (pensiamo allo stadio della Roma, ad esempio)?
Com’è possibile che a Roma non venga tutelata l’integrità architettonica dei suoi quartieri? I UN’ANALISI STORICO-ARTISTICA DEL QUARTIERE TRIESTE Scomodo
Aprile 2018
La Roma Liberty del II Municipio: piazza Caprera e villa Paolina La bellezza di Roma consiste nel saper sorprendere chiunque l’attraversi, non solo i numerosi turisti, ma anche coloro che hanno avuto la fortuna di nascere e crescere in una città così suggestiva e che non smettono mai di scoprire nuovi vicoli, fontane, piazze ed edifici sfuggiti in precedenza alla loro attenzione. Oltre al centro storico e ai monumenti simbolo della Capitale, particolarmente interessanti sono le zone residenziali situate al di fuori delle storiche mura Aureliane. Addentrandosi nell’elegante quartiere Trieste, all’incrocio tra via delle Alpi e via degli Appennini, si può ammirare la celebre e tranquilla piazza Caprera, circondata da una serie di villini con accenni liberty derivati dall’urbanistica francese e da due edifici alle spalle dei quali si trova il Liceo classico Giulio Cesare. Il complesso è stato realizzato intorno al 1907, in seguito alla stipulazione del Piano di quartiere da parte dell’ingegnere e architetto Gustavo Giovannoni, e alla creazione della società anonima “Cooperativa case ed alloggi per gli impiegati”. Scopo di quest’ultima era l’acquisto o la costruzione di case economiche da vendere o affittare a quei soci che non erano proprietari di altri fabbricati. L’isolato è stato concepito su un impianto a matrice curvilinea, la cui importanza è rappresentata dalla piazza a forma circolare e dal suo rapporto con le due principali vie radiali: via delle Alpi, con un andamento rettilineo, e via degli Appennini, con un assetto invece curvi-
lineo. La bellezza della piazza è poi arricchita dalla fontana centrale realizzata nel 2001 con un meccanismo di zampilli danzanti che s'illuminano verso sera per mezzo di fibre ottiche. Grazie alla donazione della figlia dell'artista francese Jacques Zwobada, che ha vissuto per lungo tempo proprio in questa zona, il tutto è adornato da due statue di basalto grigio che rappresentano due figure femminili: una ballerina e una dormiente. Il quartiere Trieste confina con via Nomentana, la quale circoscrive un’altra zona novecentesca di Roma che prende il nome dalla stessa via e presenta a sua volta palazzine e villini d’epoca anche precedente, come la storica Villa Paolina di Mallinckrodt. L’edificio, costruito in stile barocchetto, si trova tra largo XXI Aprile e via Carlo Fea e ha ospitato dal 1922 sino al 1997 l'istituto scolastico delle Suore della Carità cristiana resistendo ai bombardamenti alleati del 1944. Un angolo pregiato ed elegante che conferisce un valore aggiuntivo all’intera zona e che oggi è a rischio demolizione, in quanto sul suo lotto è prevista la costruzione di un moderno edificio dotato di otto piani e quindi notevolmente più alto dei palazzi circostanti. Il quartiere Coppedè: un’isola di originalità architettonica tra villa Borghese e villa Ada La grande varietà di stili architettonici di Roma rende molto complicato per gli architetti riuscire ad inserirsi senza rovinare l’armonia che governa forme molto diverse tra loro. Questo lo capì subito Gino Coppedè, autore dell’unico quartiere 57
romano che prese il nome dal proprio architetto. Il suo primo progetto infatti, presentato il 19 ottobre 1916, fu respinto per l’evidente stonatura con il resto del panorama edilizio, così che l’architetto toscano dovette applicarsi con dedizione al fine di offrire un quartiere che si conformasse al meglio con la tradizione architettonica romana. Fu una sfida che Coppedè vinse appieno, anche per via dell’importanza che già aveva l’eclettismo nelle sue opere. Lo “stile Coppedè” è infatti una mescolanza di modernismo, liberty e neomedievalismo, che si risolvono in un’attenzione maniacale per i particolari, nella predilezione del villino e nell’uso di allegorie al fine di creare atmosfere magiche. Per questi motivi Coppedè pose all’ingresso del quartiere, su via Tagliamento, un enorme arco che omaggia la Roma trionfale, quella che osannava i propri capi militari attraverso colossali volte decorate. L’imponenza dell’ingresso al quartiere si stempera proseguendo sotto l’arco, su via Dora, per mezzo della quale si arriva al cuore del quartiere: piazza Mincio. Qui un ruolo importante è giocato dal movimento, sia per la disomogeneità di forme di palazzi e villini che si affacciano sulla piazza, sia per le decorazioni della Fontana delle Rane, posta al centro, che evoca volutamente le fontane barocche romane. L’originalità di Coppedè si manifesta soprattutto nei palazzi, in particolare nel famosissimo villino delle Fate (posto fra via Aterno e via Brenta, sulla piazza). Anche qui non mancano omaggi all’arte del passato; attraverso simbologie e veri e propri scorci, l’architetto onora le 58
quattro principali città d’arte italiane: Firenze (città natale di Coppedè), Milano, evocata da una biscia, Venezia, indicata da leoni alati e una nave, e Roma, con la lupa. Dall’altro lato di via Brenta, sul Palazzo del Ragno, troviamo incisa una dichiarazione di poetica artistica: “Artis praecepta recentis maiorum exempla ostendo / Rappresento i precetti dell’arte moderna attraverso l’esempio degli antichi” (la seconda metà della frase è al di là del portone del palazzo, sul lato che affaccia su via Tanaro). L’atmosfera fiabesca si manifesta in colonnine, pareti ondulate e in un feticismo verso l’ornamento: possiamo ammirare ovunque decorazioni che ritraggono piovre, putti, festoni, cavalieri e coppe, che ci trasportano in un mondo magico. Gino Coppedè morì nel 1927, senza vedere ultimato il complesso del quartiere, che fu completato dal cognato (anch’egli architetto) pochi anni dopo. Quello che ci ha lasciato l’architetto fiorentino è un’isola di originalità architettonica conforme al resto della città e alle palazzine confinanti con il quartiere costruite nelle decadi successive. II ANDANDO PIÙ A FONDO A LIVELLO URBANISTICO
Intervista a Valentina Caracciolo, presidente della commissione Lavori pubblici e Urbanistica del II Municipio
Lo scorso ottobre è stato demolito in via Ticino il villino Naselli. Molti urbanisti e cittadini si sono espressi contro tale intervento, chiedendo il motivo per cui Comune e Regione non siano intervenuti, mentre l’assessore Montuori ha dichiarato che il Comune non possedeva gli strumenti per intercedere. Lei che ne pensa? Si poteva (e, in caso, doveva) intervenire? Perché non è stato scelto di procedere con un restauro invece che con una sostituzione?
La demolizione della palazzina di via Ticino, sebbene traumatica per il quartiere, è stata una sorta di alert per i cittadini e soprattutto per noi amministratori e ci ha consentito di aprire gli occhi su una questione che non è ideologica e non è velleitaria, ma ha a che fare con la vita, la cultura, la peculiarità di un territorio, la sua storia, il suo vissuto. Quell’evento ci ha anche consentito di avviare una battaglia, che ha visto in prima fila grandi associazioni impegnate per la tutela del territorio come Italia Nostra che attiene direttamente alla qualità della vita dei cittadini. Quando, però, si è cominciato a parlare di via Ticino, il permesso per la demolizione e ricostruzione era già stato rilasciato e in quella situazione nulla si poteva se non aprire un contenzioso dall’esito, ovviamente assai incerto, per l’amministrazione. A onor del vero il costruttore si è dimostrato da subito aperto e disponibile a intervenire nell’area circostante la palazzina per riqualificare parti di Piazza Trento, per esempio, in modo da dare una sorta di “sollievo” al quartiere. Tuttavia, come abbiamo avuto modo di dire anche in un documento di Consiglio approvato nel novembre 2017, le amministrazioni hanno comunque il dovere, di fronte a importanti trasformazioni della città, di intraprendere tutte le strade possibili per fare in modo che l’identità e la conformazione dei quartieri non sia stravolta, mettendo in campo tutti gli strumenti che la normativa mette a disposizione e verificando la conformità alle norme del Piano regolatore. Ampie porzioni del II Municipio rientrano, per altro, nella città storica e nello specifico nei
Scomodo
Scomodo
Per analizzare da un punto di vista di politica urbana la demolizione del villino Naselli e la possibilità per altri villini del quartiere Trieste di essere abbattuti, abbiamo intervistato Valentina Caracciolo, esponente del PD e presidente della commissione Lavori pubblici e Urbanistica del Municipio interessato.
Gino Coppedè morì nel 1927, senza vedere ultimato il complesso del quartiere, che fu completato dal cognato (anch’egli architetto) pochi anni dopo.
Aprile 2018
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tessuti di espansione otto-novecentesca ad isolato (T4) e a lottizzazione edilizia puntiforme (T5), all’interno dei quali, pur essendo possibili interventi di demolizione e ricostruzione, questi vanno realizzati tenendo conto del contesto urbano circostante. A seguito del dibattito scaturito dall’abbattimento del Villino Naselli, inoltre, abbiamo ottenuto che il Municipio fosse interpellato dal Dipartimento Urbanistica (che rilascia il permesso di costruire) per esprimere le sue valutazioni in merito alle demolizioni. Questo - insieme alla recente decisione del Mibact di avviare l’istruttoria per l’apposizione del vincolo sui villini - è un fatto positivo, importante, una scelta chiara sul percorso di tutela del nostro patrimonio urbanistico-architettonico. Oltre al villino Naselli, sembra che siano in tutto ventuno i villini storici a rischio demolizione, fra cui villa Paolina, di cui è già stato presentato il progetto sostitutivo, “dall’impatto visivo e volumetrico assolutamente sproporzionato e divergente rispetto alle caratteristiche del contesto in cui vorrebbe essere calato” secondo il suo giudizio. In che situazione si trovano nel complesso? La loro possibile demolizione rispetta i limiti imposti dalla legge sulla rigenerazione urbana? In Commissione Urbanistica abbiamo esaminato tutti e venti i progetti che interessano villini o palazzine del nostro territorio. Per fortuna, non tutti sono richieste per demolizione e ricostruzione riguardanti villini “storici”, chiamiamoli così. In alcuni casi si tratta di
ristrutturazioni o ampliamenti o comunque di demolizione di edifici non particolarmente pregiati. Abbiamo evidenziato due ordini di problemi: uno che riguarda, appunto, l’abbattimento di villini o edifici che hanno oltre settant’anni di vita, collocati in contesti particolarmente pregiati, anche se non interamente vincolati; il secondo, anche laddove l’intervento non riguarda necessariamente villini di pregio, concerne il fatto che i progetti di fronte ai quali ci siamo trovati sono progetti “fotocopia”, senza grandi peculiarità dal punto di vista architettonico, che impattano, inoltre, in maniera rilevantissima su tessuti urbanistici preziosi e che, se realizzati, ci riconsegnerebbero un territorio senza identità e senza qualità. L’esempio di Villa Paolina è eclatante: su di esso ci siamo espressi nettamente e andremo avanti finché non saremo certi che la demolizione non si farà.
Dov’è l’urgenza di sostituire questi villini con edifici moderni che danneggiano gravemente il valore storico-artistico della zona in cui si trovano? Nonostante la necessità a Roma di case popolari e interventi in periferia, dove sono tanti gli edifici che necessitano di una riqualificazione urbana, perché si va 59
ad intervenire su palazzine residenziali e centrali, che andrebbero invece salvaguardate perché patrimonio artistico della città? Ovviamente non c’è urgenza e non c’è necessità di rigenerazione, ma si tratta chiaramente di una maggiore, enormemente maggiore, convenienza e opportunità di lucro e profitto rispetto ad aree periferiche e degradate. Voglio essere chiara: nessuno di noi ha in mente di fare una battaglia ideologica contro l’impresa, che anzi in una città economicamente in crisi come la nostra ha il diritto di operare e dare lavoro. Ma nel caso di tessuti pregiati della città, bisogna intervenire con rispetto, con attenzione, con cura. È dovere dell’amministrazione difendere e valorizzare il patrimonio urbanistico della città come elemento di ricchezza e di qualità della vita quotidiana; così come ha il dovere di recuperare, riqualificare, valorizzare quei territori che invece soffrono nell’abbandono, nell’incuria, nell’illegalità.
Nonostante il Piano Regolatore Generale e la legge sulla rigenerazione urbana, a Roma si continua ad iniziare costruzioni mastodontiche per poi abbandonarle in corso d’opera. É il caso, per esem60
pio, dell’Hotel di via Giustiniano Imperatore o della vela di Calatrava. Davanti a questa situazione c’è chi, come la sindaca Raggi, ha deciso di non avviare progetti a grandi investimenti e chi è critico nei suoi confronti, come il suo partito; l’ex assessore Morassut ad esempio sostiene che si può trasformare senza stravolgere. Senza entrare nel merito dei singoli progetti, secondo lei c’è bisogno di leggi più forti per tutelarsi dall’abusivismo che, purtroppo, ancora si verifica, oppure è solo un problema di applicazione delle leggi stesse? Roma non può morire nell’inerzia: non si può fuggire dai grandi investimenti, dalle grandi operazioni come le Olimpiadi, ad esempio, per paura che si ripeta quanto accaduto nel passato (poi tutto da verificare nelle sue cause) o per timore dell’illegalità. Qualunque amministrazione, di qualunque colore, si proponga di governare Roma ha il dovere di guardare avanti, di immaginare una città moderna, inclusiva, innovativa. Chi ha paura non può governare Roma. Sicuramente un quadro normativo chiaro, semplice e di immediata applicazione, accompagnato dalla certezza delle sanzioni per chi lo viola, è indispensabile. Eppure molti romani considerano, e spesso i fatti gli danno ragione, Roma come una città in mano ai costruttori, in cui il peso della politica si fa sempre meno sentire. La questione su come contrastare l’abusivismo edilizio è molto dibattuta ed è importante considerare tutte le posizioni espresse: il II Municipio è l’unico in cui governa il
PD, mentre tutti gli altri sono amministrati dal M5S, che, come abbiamo visto, sta attuando una politica urbana profondamente diversa rispetto a quella portata avanti dai sindaci precedenti. Come sottolineato dalla consigliera intervistata, le opportunità di lucro in un quartiere centrale come Trieste sono enormemente maggiori rispetto alle periferie, dove un costruttore ha molto meno interesse a edificare. É qui che deve intervenire la politica: una politica rigorosa che sappia riconoscere i punti in cui Roma necessita di intervento edilizio, al di là degli interessi economici, ma soprattutto che faccia realizzare e portare a termine tali interventi. Se non è ideologica, quantomeno dobbiamo portare avanti una battaglia politica ai costruttori miliardari che distruggono il nostro patrimonio artistico e ci lasciano in balia di mostri di cemento.
di Francesco Tresalti e Giulia Marziali Scomodo
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"You never liked the way I said it If you don't get it, then forget it” Riflessione sul personaggio Lana Del Rey, specchio del moralismo che investe la musica femminile
Nel panorama odierno della musica pop femminile, soprattutto americana, molte cantanti si rifanno a un ideale ormai imperante, piuttosto abusato: quello della donna forte, di successo, inarrestabile, che affronta tutto ciò che le si Scomodo
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para davanti con stile e grinta invidiabili. Sono le empowered women, due parole oggi sulla bocca di moltissimi personaggi di spicco. In questo ambiente è difficile rinvenire l'espressione di un’accezione diversa di femminilità.
Tra le non molte eccezioni che possano essere paragonate per successo alle più famose pop dive, una delle più interessanti si chiama Lana Del Rey e nasce proprio da un contesto americanissimo, come le sue ben più positive colleghe. Le sue canzoni parlano di donne incapaci a vivere, viziose, senza rotta, femmes fatales conturbanti in amore, spesso amanti di uomini più grandi, ricchi, famosi. Ponendosi da subito come qualcosa di diverso, un diverso che avrebbe fatto molto parlare di sé, è riuscita nell’impresa di distinguersi in mezzo a un’offerta illimitata e spesso troppo omogenea. Consacrata sulla scena mondiale a 26 anni nel 2012, con un primo album emblematicamente intitolato Born To Die, Lana Del Rey diventa quasi da subito un personaggio controverso. Suscita reazioni entusiastiche per la sua originalità, per lo stile musicale che unisce influenze indie e hip hop ad un’atmosfera fortemente cinematografica, tanto che lei stessa lo ha definito “Hollywood sadcore”, per i suoi testi, la malinconia che li pervade e i numerosi riferimenti alla cultura americana al loro interno; allo stesso tempo si scatenano su di lei critiche cocenti da più voci. Un’estetica smaccatamente retrò, ispirata alle dive di Hollywood anni ’60, una sensualità evidenziata dall’espressione serissima; un'immagine vendibile e affascinante che trova nella musica depressa il perfetto completamento di un progetto discografico fatto a tavolino, volto a creare una meravigliosa diva dagli occhi tristi. Il fatto poi che il padre di Elizabeth W. Grant (questo il suo vero 61
nome) sia risultato essere un ricco imprenditore ha fatto nascere ogni tipo di supposizione, fino a decretarne l’amara sentenza: Lana Del Rey è una messa in scena, un perfetto artefatto costruito per vendere. Che Del Rey sia un personaggio è indubbio; che costruire un'immagine con cui proporsi al pubblico sia sinonimo di inautenticità non è necessariamente vero. Lana ha creato una dimensione in cui può vivere e vestirsi della sua arte e lo ha fatto volutamente.
Lana ha creato una dimensione in cui può vivere e vestirsti della sua arte e lo ha fatto volutamente. “Life imitates art” recita un suo verso. Ad oggi la cantante è riuscita a scrollarsi quasi del tutto quest’immagine di dosso, dimostrando di essere nient’altro che il personaggio di sé stessa. È infatti rimasta fedele al suo stile e ai suoi temi nei successivi due album, Ultraviolence e Honeymoon, anche a quelli più criticati, adottando un suono ancora più vintage e meno pop e facendo la mossa coraggiosa di pubblicare due dischi mancanti di una hit radio-friendly, opere coese e pensate per essere sentite proprio nel formato di album; una vera rarità oggi che i cd sono più spesso collezioni di tormentoni da classifica. Va 62
detto che probabilmente la sua credibilità agli occhi del pubblico è aumentata anche per aver abbandonato negli anni i tratti più glamour del suo look, quei tratti che l'avevano resa forse troppo vistosa. Una reazione intimistica, si può dire, a una visibilità eccessiva che aveva mal sopportato. Se oggi non si mette più in discussione l’autenticità del personaggio Del Rey, è l’arte stessa della cantante, nei suoi contenuti e non nella forma, a rimanere molto controversa e a tratti disturbante. Sono state mosse molte critiche, non senza motivo, ai modelli di comportamento non esattamente positivi che le canzoni di Lana favorirebbero. La scrittura della Del Rey ruota, come si è detto, principalmente intorno a due temi: l’infelicità e la sbandatezza, con molti richiami al “live fast, die young” (non a caso molte delle muse dell’artista hanno incontrato una morte tragica e spesso precoce, Amy Winehouse, Kurt Cobain, Jim Morrison, Janis Joplin, James Dean…), a una vita che molto spesso porta la cantante ad una guerra con sé stessa e che per questo non può essere vissuta seguendo una direzione precisa; il secondo filone si rifà a relazioni d’amore che potremmo definire quanto meno non convenzionali. Sono storie al di fuori dei classici vincoli, Lana fa infatti riferimento al suo essere “the other woman”; a volte il partner è un compagno di viaggio nella vita sbandata che Del Rey immagina, altre volte è un uomo chiaramente di successo, ricco, quasi sempre più grande, tutte caratteristiche motivo di fascino per la cantante. A volte
sono relazioni malsane, con riferimento a droga e violenza. In alcune canzoni la donna è molto in disparte rispetto al “suo uomo”, ma generalmente non è succube, anzi, è una donna che conosce il potere della sua sensualità e che ricerca valori quali il denaro, il potere, la gloria.
critiche, è altrettanto rischioso e semplicistico nei confronti di un movimento complesso e fortemente sociale come quello femminista.
la stessa Del Rey ha affermato in passato di non essere particolarmente interessata al tema del femminismo.
Per questi contenuti è stata accusata di essere portatrice di modelli negativi; soprattutto, è stata tacciata di antifemminismo. Non si può negare che le sue canzoni esaltino, o quantomeno si rifacciano spesso a una serie di stereotipi tipicamente patriarcali. Inoltre la stessa Del Rey ha affermato in passato di non essere particolarmente interessata al tema del femminismo. Da qui a definirla antifemminista il passo è un po’ rischioso, specie se per anti-femminismo -dunque sessismo- si intende ritenere che le donne non debbano avere le stesse possibilità politiche, economiche, sociali degli uomini. Dire al contrario, come alcuni giornalisti hanno fatto, che Lana Del Rey è una vera icona di femminismo, pur in modo involontario, perché ha il coraggio di trattare temi controversi senza curarsi delle
Possiamo azzardarci a dire che più che svilenti per la donna in sé, le canzoni della Del Rey si rifanno a valori materialistici decisamente americani, poco condivisibili, e che questi siano legati a una società patriarcale tipica soprattutto della vecchia America cui lei si ispira. Tuttavia c’è da chiedersi se non sia profondamente antifemminista pensare che una donna debba esprimere nella sua arte solo un certo modello di femminilità e che debba trasmettere un messaggio eticamente accettabile al suo pubblico. Così come è sessista l’idea che, malgrado il mito del rocker bello e dannato esista da decenni, se è una donna a parlare di morte, droghe, atteggiamenti autodistruttivi è subito ostentazione o quanto meno scatta molto più facilmente un giudizio morale nei suoi confronti. Del Rey, parlando delle critiche che le erano state mosse, ha detto che per lei “una vera femminista è una donna che si sente abbastanza libera da fare qualsiasi cosa desidera”. È anche
Scomodo
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questa una visione sicuramente limitata, tuttavia non sbagliata dato che una cultura antisessista dovrebbe innanzitutto cessare di trattare la vita della donna come un oggetto su cui decidere. A maggior ragione per quanto riguarda la produzione artistica. L’arte in quanto forma altra di espressione rispetto alla vita quotidiana, frutto della creatività e sensibilità del suo autore, non può essere incatenata a un messaggio paradigmatico (la cui positività potrebbe peraltro essere relativa), pena la fine della sua stessa libertà. Tutti noi possiamo fruire dell’arte liberamente e decidere che non condividiamo un certo contenuto, senza che ciò ne intacchi la forma. Oltretutto il contenuto non va assimilato a un messaggio.
Paradossalmente proprio Lana Del Rey ci ricorda del giudizio morale e degli osteggiamenti che le artiste ancora devono subire. Che Del Rey sia un buon modello o meno, che sia femminista o anti-femminista, nessuno ci obbligherà a prendere i suoi testi come insegnamenti. Ciò che conta e che la rende una figura estremamente interessante nel panorama musicale femminile, spesso piatto, è che ci dà una diversa prospettiva dell’amore,
della donna, di quello che vuol dire vivere. Una prospettiva esistenzialista oserei dire, che supera per profondità quella di molte artiste più “positive”. Parla di una realtà dei rapporti effettivamente esistente di cui lei stessa, nell’arco della sua vita non semplicissima, ha avuto esperienza. In un’intervista recente per Complex, riferendosi alle relazioni di cui cantava in passato e che oggi, da quanto emerge nell’ultimo disco Lust For Life, sembra aver superato accedendo a una visione più positiva dell’amore e della vita in generale, ha detto che è semplicemente “come andavano le cose”. Lana Del Rey è interessante perché ha romanticizzato l’autenticità della sua vita, inserendola all’interno di un intero mondo culturale per lei fonte d’ispirazione di cui si pone come erede. Così facendo ha creato un vero e proprio immaginario artistico che richiama un’America che non esiste più e di cui lei, con il suo stile musicale altamente evocativo, si fa portavoce. Un personaggio controverso e stratificato come lei ha molto più da dirci delle empowered women che, sull’onda del bisogno di mostrarsi sensibili a certi temi, si affermano con forza femministe rimanendo però legate a una versione molto pop del movimento che guarda solo all’aspetto della realizzazione personale.
di Sara Giannoni 63
Ordine, caos, materia “The political meaning of the work is found in its collective force, which proposes new forms of living, and creates new ways of learning” (Cinthia Marcelle)
La forza del collettivo in una mostra personale. Fin dalle prime battute appare chiaro come le intenzioni di Cinthia Marcelle (Belo Horizonte, 1974) per la sua prima apparizione individuale sul suolo inglese siano tutt’altro che pacifiche. Del re64
sto, è esattamente questo lo stile con cui l’artista brasiliana negli ultimi anni si è guadagnata l’attenzione del panorama artistico internazionale arrivando, lo scorso anno, a rappresentare il suo Paese alla 57esima Biennale d’arte di Venezia, ricevendo
una menzione speciale. Eppure, niente di tutto questo sembra manifestarsi nella prima stanza di “The Family in Disorder: Truth or Dare”(Modern Art Oxford Gallery, 10 marzo – 27 maggio) dove ad accoglierci troviamo 19 diversi materiali disposti in una meticolosa sequenza dalle reminiscenze minimaliste, a formare una linea che taglia in due la stanza. Se invece non si è affatto familiari con l’artista o con l’arte contemporanea in generale il risultato non cambia di molto visto che ci si trova ad ammirare una stanza vuota con al centro un “muretto” fatto di block notes, mattoni, bidoni di terriccio, scotch e quant’altro. Cerchiamo quindi di capirci qualcosa in più: è evidente come l’artista voglia attirare la nostra attenzione sui materiali, unica presenza nella stanza, ma per quale motivo? E in che modo? Il come prende le mosse dai grandi padri del minimalismo e dell’arte concettuale. A più di cinquant’anni dagli esperimenti di Morris, Judd e Kosuth è oramai comune l’espediente artistico di confondere la prima impressione dello spettatore con forme e colori simili per costringerlo, una volta intuito l’inganno, a tornare una seconda volta, in maniera più attenta, a osservare l’opera per prendere coscienza delle diverse e spesso opposte caratteristiche degli oggetti che la compongono. Stiamo dunque al gioco… 400 rotoli di nastro, 30.720 fiammiferi(512 scatole), 288 mattoni, 4320 block notes, 24.192 gessetti bianchi(in 168 scatole) 78 rotoli di nastro isolante, 120 granate fumogene e così via; il tutto rigorosamente rinvenuto in loco, poiché centrale nel lavoro di Cinthia Marcelle
è la componente nomadica: l’artista ha infatti più volte sottolineato come a suo avviso, nell’epoca della globalizzazione, la pratica artistica debba svolgersi in simbiosi con il territorio nel quale si sviluppa, motivo per cui ha trascorso i mesi precedenti la realizzazione di quest’opera a girovagare per Oxford alla ricerca dei materiali di cui aveva bisogno. Pensiamo di essere pronti a passare alla stanza successiva eppure ancora qualcosa non ci torna, avvertiamo un senso di insoddisfazione… cosa potrebbe essere? L’opera è stata realizzata site-specific (ovvero appositamente per lo spazio che la ospita) quindi nulla all’interno della stanza è casuale, né la moquette nera né le pareti bianche, ma non è questo che ci turba. I materiali, lo abbiamo visto, invocano la nostra piena e completa attenzione, ma noi non possiamo dargliela, per due motivi. Il primo, solo apparentemente banale, ma lo approfondiremo nella prossima stanza, è che non possiamo toccare l’opera; ci è quindi negata l’esperienza primigenia, che coltiviamo fin dalle fasi iniziali della nostra infanzia, il tatto. Il secondo è che è l’opera stessa a impedirci di portare a termine la nostra osservazione. Infatti estendendosi da un lato all’altro della stanza, l’opera agisce da confine fisico e ci preclude l’acceso all’altra metà dello spazio, e con esso la possibilità di averne un’esperienza a 360 gradi. L’ordine e neutralità della stanza, quello che comunemente viene definito white cube, ci si rivela per quella costruzione artificiale volta a reiterare il potere autoritario della struttura e i suoi silenziosi divieti (“NON TOCCARE!”).
Scomodo
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È con questa sensazione di incompiutezza che ci dirigiamo verso l’altra stanza, e lì… BUM! La realtà ci si rivela in un’esplosione epifanica: il risultato della detonazione, la forma più pura del caos, si staglia davanti ai nostri occhi. L’opera ci appariva incompiuta perché lo era, orfana della sua altra metà. Dopo lo shock iniziale cominciamo ad avvertire un senso di familiarità via via crescente:
ovunque si posi il nostro sguardo riconosciamo gli elementi della stanza precedente fino a che non ci rendiamo conto che anche qui, assieme al tappeto nero, sono l’unica cosa presente nella stanza. I due ambienti sono dunque due facce della stessa medaglia, che solo attraverso il dialogo possono liberare, sprigionare appieno il loro significato. In questo ambiente in cui regna l’entropia, è un pannello informativo a venirci in soccorso, spiegandoci cosa abbia generato un tale disastro: anche il caos ha le sue regole. Scopriamo che l’artista non ha fisicamente lavorato nella stanza. Per la prima volta nella sua carriera ha infatti delegato la pratica artistica, e nel farlo ha scelto di rivolgersi a sei tra artisti e tecnici allestitori che collaborano regolarmente con la galleria:
Aline Tima, Aaron Head, Chris Jackson, Kamila Janska, Andy Owen e Sebastian Thomas. Il fatto in sé non è particolarmente innovativo o rivoluzionario, se pensiamo che Jeff Koons, uno degli artisti più famosi e quotati del panorama contemporaneo, da anni non tocca una sua opera lasciando l’intero processo realizzativo ai suoi assistenti; famosa è la sua risposta a chi lo accusa di non essere il creatore delle sue opere: “Quando un artista lavora alla sua opera è il suo cervello che dà un input alle sue mani, in questo caso le mie mani sono i miei assistenti”. Nel nostro caso, però, è accaduto qualcosa di diverso: Marcelle infatti non ha avuto alcun controllo su quello che avveniva nella stanza; a lei, come ai curatori, è stato interdetto l’accesso per tutto il tempo in cui il collettivo stava lavorando. I sei “artisti in delega” si sono quindi ritrovati in condizione di assoluta libertà. Anche dal punto di vista organizzativo erano liberi di agire individualmente o come collettivo, ma una sola regola vigeva nella stanza: nulla poteva essere portato da fuori, trasformando così i materiali da soggetto passivo ad oggetto attivo del processo creativo. In questo modo, come già evidenziato da Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche, è l’uso a determinare in ultima istanza l’essenza dell’oggetto, un concetto che può sembrare molto complicato e astratto, ma in una sua brutale sintesi possiamo spesso ritrovare nella vita di tutti i giorni: se metto i miei vestiti su una sedia, essa smette di essere una sedia e diventa un appendiabiti. Il divieto, il “non toccare” della prima sezione è quindi ribaltato in maniera non meno totalitaria: 65
per settimane gli artisti hanno interrogato i materiali, cercando di trovare un modo per esprimersi attraverso di essi. In questo modo, attraverso una semplice regola, Marcelle ha portato indirettamente i suoi collaboratori a lavorare sulle sue tematiche e, a ben guardare, la scelta di rivolgersi ad artisti del luogo risulta una naturale estensione della sua pratica nomadica. Riprendendo il concetto di Koons, gli artisti sono solo un altro dei materiali reperiti in loco. Entrando in quest’ottica, l’opera esposta nella seconda stanza non è quello che vediamo, ma il processo che ha portato alla sua creazione. Durante tutta la fase realizzativa l’artista ha lavorato con il suo “materiale umano”: prima di “liberare” gli artisti nella stanza, ha fornito loro spunti visivi e una breve introduzione del suo modo di agire, ma, soprattutto, è stata nella galleria per tutto il tempo, vivendo a stretto contatto con il collettivo i vari momenti non produttivi, instaurando un continuo dialogo. Una volta usciti dalla galleria proviamo a tirare le somme: materiali, azione e gesto; la loro fisicità e il loro impiego. Vi è senz’altro questo al centro della riflessione nell’esposizione, ma come benvenuto effetto collaterale sono diventati anche un grimaldello, ancora una volta uno strumento per destrutturare il loro contesto espositivo. Mattoni corde e fumogeni sono dunque diventati arte.
di Luca Giordani (redattore da Londra) 66
The Florida Project, il cinema dei piccoli momenti
life”. Questo apparentemente. Le intenzioni diventano piano piano sempre più evidenti, le carte scoperte: il regista ribalta la concezione dell'adventure movie spielberghiano e del film di denuncia più perbenista per rappresentare la vita di Halley (Brie Vinaite), giovane madre della piccola Mooney (Brooklyn Kimberly Prince), con un linguaggio cinematografico così innovativo, immedesimante ma al tempo stesso costruito, intellettuale, da non poter cadere nel limbo dell'empatia
caratteriale. Obiettivo che ogni film di questo genere dovrebbe più che superare per autosostenersi. Costruire infatti un mondo intorno ad una storia così insignificante è quello che veniva fatto anche nel Neorealismo, una delle correnti cinematografiche più amate nel cinema mondiale. “Il dottore ha detto che abbiamo l'asma e che quindi dobbiamo mangiare il gelato, per favore ci dia un dollaro!” esclama continuamente davanti la gelateria Twistee Treat Mooney con il suo amico “sidekick” Scooty (Christopher Rivera). Si potrebbe riprendere una scena del genere attraverso ogni angolazione, ogni taglio di montaggio. È di per sé significativa, forte nel suo essere immagine da cattura. Qui si fa quindi la foggia del regista: la riprende, questa come milioni di altri piccoli momenti, all'altezza dei bambini, di circa sei anni, con i loro movimenti improvvisi ma prevedibili, rappresentando il lato congenito della spontanea non-onestà in modo perfetto. Le riprese rimangono a terra, come se il lavoro dovesse essere caricato su piattaforme come Vimeo (da cui il regista ha preso molta ispirazione) più che essere proiettate in sala. Eppure la cura con cui la pellicola viene resa film in senso stretto è maniacale: comparto sonoro, fotografia, regole di ripresa e direzione attori sono da concorso, ma rimangono in armonia con l'ancoraggio ad uno sguardo così pop, abitudinario per le generazioni attuali che vedono di gran lunga, in quanto a investimento temporale, più video su Youtube che film nel privato.
Scomodo
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Vicissitudini del cinema indipendente, l'apertura allo sperimento
La trama di questo cimento è superflua, tendente al banale. Sceneggiare un lungometraggio nei cosiddetti “motels” di Kissimee, comune nel territorio di Orlando (vicino Disneyland per intenderci), può aprire la mente alle epiche della piccola criminalità organizzata, dei cartelli e della vita di strada. Invece Sean Baker, giovane regista dell'opera e autore del soggetto, si rifà ad un aspetto di quella vita già ampiamente dissezionato dalla televisione statunitense, la “teen-mom
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Costruire infatti un mondo intorno ad una storia così insignificante è quello che veniva fatto anche nel Neorealismo Si ritorna alla trama: lo spaccato sociale di questa famiglia (e della amica di Halley, madre di Scooty) viene fatto passare, fino a metà dell'opera, come fosse una monotona routine. Il dramma non si pone quindi, fino a che finalmente le due famiglie coinquiline non si allontanano definitivamente, ponendo sul piatto un nuovo personaggio sinceramente disegnato a pennello, interpretato da Willem Defoe. Lo stile di regia comincia ad essere più celebrativo, hitchcockiano nelle prese di posizione sulla scena e nella maestosità dei singoli caratteri, più che nelle loro relazioni reciproche. I colori si smorzano: dai forti contrasti tra cielo nuvoloso e i complessi abitativi rosa acceso si scende di tono, gli spazi diventano soffocati dal fumo delle sigarette, dagli istinti psicoanalitici che monitorano la pellicola, dalle urla improvvise, dalle violenze domestiche e dall'amarezza della testardaggine umana. Da uno sguardo iniziale stretto solo ai bambini che continuano a invadere il quartiere, la macchina si gira dal dramma in poi unicamente verso Halley, concludendo su di lei, sul tentativo di evitare il mondo adulto.
La messa in scena cambia, invisibile allo spettatore: si inizia a essere quasi spaventati da quel mondo così fintamente garantito, così fragile nella sua programmaticità di piaceri e vizi.
Sean Baker dimostra di avere una sensibilità che incoraggia a creare, a girare il proprio capo d'opera. Il film precedente, Tangerine, con cui al tempo si fece maggiormente conoscere in America, fu girato con l'ausilio di tre Iphone e un po’ di color correction al computer, riuscendo a entrare a tutti gli effetti nei festival statunitensi. In un periodo storico in cui la figura del regista e la sua rilevanza sta sparendo quasi del tutto in favore delle facce degli attori e delle attrici, Baker dimostra come è possibile dare fiducia alla vera radice del cinema indipendente, il disinteresse artistico di raccontare, valorizzando i mezzi che si hanno senza considerarli dei veri limiti tecnici, oggi che tutto è molto più semplice da riprendere.
di Daniele Gennaioli 67
Giustappunto Giustappunto nasce da un atto di presunzione: sulla base di tre notizie del mese vengono consigliati un libro, un film ed un album di qualunque periodo tentando, in modo stravagante, di dare un’opinione dissonante da quella prevalente.
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Lo scandalo Facebook Cambridge Analytica Manufacturing Consent Edward S. Herman, Noam Chomsky (1988) Questo rinomato saggio descrive il metodo che investitori e corporazioni attuano per possedere i mass media, con l'obiettivo di manifestare ai consumatori una singola opinione condivisa da tutte le testate giornalistiche e televisioni. Il meccanismo è quello di applicare dei “filtri” che distorcono la realtà. Alcuni di questi filtri sono la guerra al comunismo, il controllo economico della pubblicità sugli strumenti di comunicazione e l’utilizzo del “flak”, termine coniato dai due scrittori per indicare tutte quelle procedure burocratiche che fungono da deterrente per insabbiare delle notizie. Anni dopo la guerra fredda, Chomsky individua un nuovo filtro: la guerra globale al terrorismo. Riguardo lo scandalo a cui stiamo assistendo questi mesi, si parla di sfruttamento dei dati per avere controllo sulle masse, l’ultima frontiera per la “manifattura del consenso”. Il C.E.O. di Facebook, Mark Zuckerberg, indipendentemente da come andranno i processi, ha preso parte al business: controllare l’opinione pubblica alterando la percezione della realtà a milioni di persone. Anche senza lo scandalo della vendita di dati privati per le campagne elettorali (non bisogna limitarsi a pensare solo alla campagna di Trump), con delle prove empiriche è possibile trovare del losco nella ormai normalità: il nostro feed. Qualunque social network ci chiude nella nostra “bubble”, Scomodo
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creata appunto da filtri sotto forma di algoritmi. La “bolla” altro non sarebbe che vedere solo post che concordano con le nostre ideologie, illudendoci che la moltitudine la pensi come noi. Questo scandalo è la prova provata di un problema che forse potremmo datare con l’unione tra corporazioni a solo scopo di lucro ed informazione.
Bombardamenti di U.S.A, Francia e U.K. in Siria Masters of War Bob Dylan (1963) Non c’è mai niente di umanitario o civile in un bombardamento. L’unico scopo della guerra è quello di arricchire i “Masters of War” come li chiama Bob Dylan. Non c’è niente di nuovo, lo stesso numero teatrale permea i nostri televisori da decenni e noi come sempre, rassicurati, ci auto-giustifichiamo. Il pazzo dittatore assetato di sangue, che stranamente vive al di fuori del dominio talassocratico americano, deve essere civilizzato: Milosevic, Saddam e Gheddafi sono tutti indissolubilmente legati dal medesimo scheletro narrativo, cambiano giusto i territori ed i nomi dei raid aerei. Con questa canzone Dylan risveglia il sentire di molti, Scomodo
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denunciando la guerra che porta potere, detta alla Courbet, alle “persone che vivono della morte altrui”. Bob Dylan non attacca chi entra in guerra, non attacca le vittime o i vincitori, parla di guerre che vengono istigate da chi ne trae guadagno, che finiscono di sporcare tutti coloro che decidono di ignorare il vero casus belli. Questa poesia musicata è uno sfogo, uno sfogo creante una sicurezza molto più solida di un qualunque telegiornale surrogato.
Lo sviluppo del motore elettrico è andato di pari passo con quello a combustione interna. Addirittura la prima auto elettrica è stata inventata nel 1832, cinquantatre anni dopo vedremo il prototipo di Benz con il motore a scoppio. Il documentario “Revenge of the electric car” parla della rivalità tra lobby petrolifere e compagnie di auto elettriche come la famosa Tesla Inc. di Elon Musk. Dopo quasi un decennio la situazione è cambiata, molte aziende automobilistiche affermate iniziano ad avere automobili elettriche, ma nonostante queste migliorie ad oggi non esiste ancora un’auto elettrica a basso costo.
La formula E al quartiere Eur di Roma Revenge of the Electric Car Chris Paine (2011) Questo mese c’è stata la Rome E-Prix: per gli abitanti dell’Eur, ma anche i quartieri giustapposti, la viabilità è stata inevitabilmente intaccata. Lunghe file di traffico, a causa della chiusura della Cristoforo Colombo. L’annuncio dell’evento fu fatto un anno fa dal comune. I lavori per installare il percorso si sono svolti di notte per limitare ripercussioni prima dell’evento. La formula E promuove nella nostra città l’auto elettrica, che non deve essere mai pensata come successiva all’auto con motore a scoppio.
di Leonardo Rosi 69
Recensioni Letteratura
Recensioni
ogni esperienza ed estasi del quotidiano, tanto che si può parlare tranquillamente di una ritrovata fenomenologia della rievocazione, così cara alla grande lirica di ogni tempo. È riduttivo, e certo non le renderebbe giustizia, inserire la poesia di Alessandra Fichera in un limitato contesto regionale. I suoi luoghi, punti fermi del suo atlante emotivo, divengono alla lettura e all'esperienza poetica passeggiati di luce, spazi neutri dell'emotività. Così il barocco di certe stradine poco frequentate può, al passo, dilatarsi e farsi mare. E allo stesso modo i corpi e le lenzuola. È incredibile come l'autrice riesca, anche nei momenti in cui l'Io poetico si fa da parte, a conservare quello che Toulet chiamava il filo del sé e della luce. La consapevolezza, cioè, che noi restiamo sempre nei corpi degli altri e nelle cose dette, fatte, viste. Alla faccia di ogni oggettività.
Cinema
Il Filo Nascosto Paul Thomas Anderson
Alessandra Fichera Per vederti fiorire CartaCanta, 2017 Uno dei migliori libri della presente stagione letteraria è, senza dubbio alcuno, Per vederti fiorire di Alessandra Fichera. Voce forte e nitida, quella della giovane autrice. Il libro è idealmente un’estate della parola; c'è in queste poesie tutta la Sicilia di Fichera, tutta la luce della controra mediterranea. Con i suoi fantasmi e, perché no, i sogni e le allucinazioni 70
della siesta isolana (“quel pollo lo mangiavi senza freni / con le dita squartavi la carne, aruspice / impazzita del digiuno”). La lingua di Fichera, impastata di reminiscenze di volta in volta alte, bibliche o colloquiali, fa pensare ai grandi conterranei dell'autrice: Bufalino (sia il poeta di Amaro miele, sia il narratore de L'uomo invaso), Vincenzo Consolo e, last but not least, lo Stefano D'Arrigo di Codice Siciliano. Dunque, una lingua consapevole, flessibile, atta a percorrere, anzi a studiare,
di Gabriele Galloni Scomodo
Aprile 2018
Per il suo ultimo lavoro, di cui, come da tradizione, firma sia la regia che la sceneggiatura, Paul Thomas Anderson si affida ancora una volta al talento di Daniel Day-Lewis, già indimenticabile protagonista de “Il Petroliere”, suo indiscusso capolavoro. Lo scenario è completamente mutato: dalle aride distese californiane ad una elegantissima Londra anni ’50. A non essere mutata è invece l’accuratezza dell’interpretazione di Day-Lewis, qui Reynolds Woodcock, uno dei più talentuosi sarti dell’epoca, vero e proprio genio della moda: nel suo atelier, infatti, si susseguono nobildonne Scomodo
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e principesse, attratte quasi più dal fascino del sarto che dalle sue creazioni. Ma Reynolds, dietro la facciata di galantuomo, è una personalità estremamente problematica: burbero e intransigente maniaco del lavoro, è intollerante verso qualunque novità possa turbare la sua routine. L’unica persona capace di penetrare quel muro di arroganza e dispotismo, condizionandolo allo stesso tempo, è la sorella Ciryl, il suo doppio e la sua unica compagna di vita, visto che le numerose ragazze che si susseguono nella grande casa/atelier non riescono a catturare l’attenzione del sarto per più di qualche mese, divenendogli ben presto insopportabili.
Ma l’arrivo di Alma (la sorprendente Vicky Krieps), una giovane cameriera che si rivela molto più risoluta e ostinata delle ragazze che l’hanno preceduta, costringe Reynolds a fare i conti con la propria rigidità, cedendo ad una relazione sempre più perturbante e malata, in cui i ruoli di dominante e sottomesso si scambiano e si capovolgono continuamente. Ancora una volta il mirino di Anderson è puntato su rapporti umani problematici, di incontro o di scontro che siano, nei quali il filo nascosto che lega morbosamente i personaggi tra di loro è quello del potere: unico strumento da loro conosciuto per definirsi o ricostruirsi. La sapiente regia di Anderson, valorizzata dalla colonna sonora di Jonny Greenwood (alla sua quarta collaborazione con il regista) riesce, questa volta meglio della sceneggiatura, a coinvolgere e a turbare il pubblico. “Il filo nascosto” infatti, per quanto esteticamente potente e preciso, rimane forse incompiuto nello sviluppo delle sue potenzialità narrative e introspettive, limitandosi alla rappresentazione, troppo distaccata, di un perverso gioco di potere tra personalità disturbate.
di Valeria Sittinieri 71
Tonya Craig Gillespie Sbarca anche nelle sale italiane il nuovo film di Craig Gillespie: è la storia di Tonya Harding -interpretata da Margot Robbieex pattinatrice artistica sul ghiaccio, prima atleta americana a eseguire il triplo axel in una competizione agonistica. Questo il suo esordio. Ci si sarebbe quindi aspettati una carriera sportiva lunga e fiorente, invece il suo sogno è stato bruscamente interrotto da quell’episodio che ha consegnato il suo nome alla colonna infame dell’opinione pubblica mondiale: a lei viene fatta risalire l’aggressione della collega Nancy Kerrigan, alla quale un sicario ruppe un ginocchio. La scommessa di Gillispie allora è proprio quella di restituirle onore e lustro, ma soprattutto dignità. Ed è qui che il regista va oltre il biopic, perché racconta le emozioni e i sentimenti, le ragioni e le contraddizioni con una lente di ingrandimento che sa usare anche con fredda lucidità. Si è detto cos’era Tonya, ma chi era? È lei stessa che ce lo confessa, nel suo finto documentario, organizzato tramite l’alternarsi di interviste -in cui gli attori della vicenda guardano il loro spettatore direttamente negli 72
occhi- e narrazione fluida -in cui talvolta i personaggi dentro la pellicola si staccano dall’immersione della scena per cercare, ancora, un colloquio con il pubblico-. Tonya era una piccola “contadinotta” ignorante di Portland, Oregon. Una vita all’insegna della violenza, sia fisica che psichica: la madre -interpretata da una fenomenale Allison Janney, che con questa parte si è aggiudicata l’Oscarassolutamente priva di qualsiasi forma di affetto nei suoi confronti, le impartisce un’educazione del tutto sbagliata, motivandola a migliorare con le botte e con gli insulti e portandola a scegliere di condividere la propria esistenza con un uomo che la costringe a nascondere continuamente le ferite sotto il trucco. Certo, non si può nemmeno dire che Tonya sia uno spirito docile: è una donna che reagisce, o almeno ci prova, anche con la sua stessa corporeità. Una corporeità che riporta sulla pista di pattinaggio, dove raggiunge il suo stato di grazia, dove è pronta ad affrontare ogni sorta di sfida, ad opporsi persino al sistema, alle convenzioni e al conformismo. Le luci dei riflettori sono sempre accese e quel fermo immagine -più volte riproposto- del suo sorriso commosso e vittorioso, delle sue braccia aperte a cingere il mondo, dura solo per un secondo: la Harding non sembra poter raggiungere le giuste valutazioni e i giusti premi perché non è il volto più delicato che l’America vuole in sua rappresentanza internazionale. “Non era colpa mia”, Tonya ci ripete, giustificandosi, mentre le guance della giovane se stessa del passato si tirano in un sorriso stavolta finto, a tratti agghiacciante. Questa è la verità
Recensioni
che Gillispie ci vuole restituire, nonostante gli innumerevoli punti di vista, “l’unica cazzo di verità”. Perciò, potremmo azzardare, sarebbe più corretto mantenere il titolo originale, senza ricorrere all’uso di terze persone che sostituiscano il focus della vicenda, che si presenta e dice: I, Tonya.
Musica
Mezzosangue Tree - Roots & Crown
di Viviana Pungí Scomodo
Aprile 2018
Mezzosangue, dopo numerose posticipazioni con annesse sfuriate da parte degli ascoltatori, ha pubblicato il singolo Ned Kelly il 16 Marzo, per poi, finalmente, lanciare l'album alla fine del mese. Tree - Roots and Crown si articola in due parti, di nove tracce ciascuna. Nelle tematiche e nell'approccio è coerente e in linea con il resto della sua discografia, ma sorprendentemente ha concesso agli ascoltatori un featuring con il collega Rancore nel brano Upside Down. L'unica collaborazione che Mezzosangue abbia mai fatto se non che per Il Cuore e la Penna nel disco di Primo Brown e Tormento El Micro de Oro, 2013. La prima parte si focalizza sulle sue origini e su come sia cresciuto artisticamente e filosoficamente nel corso della Scomodo
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sua vita, nello specifico nel corso del sua carriera musicale. Ribadisce il suo rifiuto nei confronti della musica italiana di oggi, una costante nella narrazione di Mezzosangue, che si somma al novero dei soliti bersagli: Chiesa, Ordine costituito, banche, denaro, istituzioni e italiano medio. Il tutto tratteggiato da un caparbio e ostinato anticonformismo, dalla sua autoproclamata distanza dall'omologazione sociale e culturale e dalla denuncia della superficialità. Il tutto raccontato con toni segnati da superiorità ed egocentrismo in linea con l'atteggiamento paternalistico che l'artista porta nei confronti dei suoi fan, perdonabile e comprensibile grazie alle soluzioni, gli incastri, le trovate liriche proposte in tutto il disco. Inoltre la solidità del "personaggio" Mezzosangue, con la sua linea etica e morale,
cresce in ogni brano. Il suo rifiuto dell'omologazione si miscela con la concezione di solitudine come percorso filosofico, che lo ha reso e continua a renderlo un eremita del rap italiano. Mezzosagnue mette continuamente in luce le sue qualità e i suoi pochi aspetti negativi vanno assottigliandosi sempre di più, di pari passo con il collasso qualitativo della scena italiana e con la sua crescente apertura ad altri artisti, testimoniata dal featuring nel nuovo disco. Rimane inoltre coerente con un altro suo precetto, la fedeltà agli ideali, come ripete spesso in tutta la sua discografia, in particolare in quest’album nei brani Fuck them Fuck rap (titolo molto esplicativo) e soprattutto in Ned Kelly, dove Mezzosangue si paragona al noto bandito australiano per concretezza e coerenza politica. Tree - Roots & Crown è quindi un degno seguito di Soul of a Supertramp, non ha deluso le aspettative nonostante fossero altissime e ha portato molte novità, dal punto di vista delle basi, articolate e piuttosto diverse dalle precedenti, come delle tematiche. Un disco bellissimo, nella media per Mezzosangue, media che temevamo tutti si abbassasse, ma per fortuna non è stato così.
di Ismaele Calaciura Errante 73
Kali Uchis Isolation Kali Uchis è una cantautrice americana nata 24 anni fa in Colombia, a Pereira. Aveva solo 17 anni e andava ancora a scuola quando, nel 2011, non aveva un domicilio fisso e dormiva nella sua auto all’interno del parcheggio di un supermercato. Tra una lezione e l’altra scriveva poesie e componeva brani; infatti è proprio in quel periodo che realizzò Killer, l’ultima traccia del suo album di debutto, Isolation, uscito il 6 Aprile scorso. Con i suoi 15 brani, l’opera attraversa una vastissima gamma di generi musicali, come l’R&B, l’Hip Hop, il Soul, il Funk e il Reggaetón, che la cantante riesce a sperimentare nel miglior modo anche grazie a diversi featuring come quelli con Tyler The Creator, i Gorillaz, Jorja Smith e altri artisti che negli Stati Uniti e in Inghilterra scalano le classifiche. L’album sembra avere luogo nella psiche di Kali, quasi come fosse una conversazione con sé stessa o un flusso di coscienza che si contraddice non solo tra le tracce, ma anche all’interno della stessa canzone. Un esempio ne è il brano In My Dreams, in collaborazione con i Gorillaz, 74
in cui la cantante parla del fantomatico mondo dei suoi sogni, ricco e spensierato, dove le bollette non sono un problema, non ci sono omicidi e gli uomini non tradiscono; subito dopo segue un intermezzo, Gotta Get Up, in cui la cantante dice di non poter continuare a dormire, di dover affrontare la realtà, anche se nei suoi sogni la vita è migliore. Le contraddizioni non si ritrovano solo nei testi ma anche all’interno delle basi di alcune canzoni, come nella dodicesima traccia Coming Home, divisa tra una parte dal sound R&B e un’altra che si muove tra il soul e l’Hip Hop. Le variegate sfaccettature del disco non sono minimamente percepite come forzate, ed è incredibile vedere come Kali riesca a scivolare in ogni genere musicale rendendolo suo; in questo modo la durata di 46 minuti è quasi impossibile da definire noiosa.
PLUS
il
BOMBERISMO: DAI MEME ALLA VIOLENZA / IL LABORATORIO DELLA MOBILITÀ SOSTENIBILE / LAMBDA LAMBDA LAMBDA / METAMORFOSI
di Camilla Cataldi Scomodo
Aprile 2018
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BOMBERISMO: DAI MEME ALLA VIOLENZA Dalle pagine di meme “bomberiste" italiane al bruciare il pupazzo della Boldrini Negli ultimi anni, con gli strumenti offerti dal web, tra i quali il meme, tutti hanno la possibilità di esporre le proprie opinioni in qualche modo. Tuttavia, oggi il potenziale democratico di internet non si sta manifestando del tutto, in quanto, come è normale che sia, non sempre si utilizza in modo costruttivo. «Internet rende possibili cose che prima erano impossibili – spiegava il sociologo Zygmunt Bauman in un'intervista rilasciata all’Espresso nel febbraio 2016 - potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo - la facilità, la rapidità, la disintermediazione - porta con sé anche dei problemi.» Bauman infatti definì la rete “Carnevale della Democrazia” sottolineando il suo potenziale inespresso, e fu fra i primi a introdurre i concetti di “confort zone” o “gated community", la tendenza da parte degli individui a evitare il confronto e a circondarsi solo di persone che abbiano opinioni affini alle proprie, creando delle comunità chiuse, tendenti anche a un certo settarismo di fondo. Un ulteriore problema però sorge quando il contenuto circolante al loro interno è di scarso livello, portando alla creazione di comunità barricate, che si escludono dal resto dei contenuti in Rete, alimentandosi con materiale che, partendo molto spesso da semplici meme che potremmo definire squallidi, hanno conseguenze inizialmente impensabili vista l'apparente innocuità del gesto, ma arrivano a causare effetti tangibili sia nel pensiero che, in alcuni casi, negli atti delle persone. Infatti da qualche anno a questa parte in una grande parte del web italiano, a partire dai meme e dai tormentoni lanciati da alcune di queste realtà, che si rifanno spesso a ragionamenti semplicistici, acritici e rozzi, si sta diffondendo il cosiddetto “Bomberismo” che non è più semplicemente una moda o una tendenza, ma può essere riconosciuto come vero e proprio “ideale” circoscritto in confini più o meno solidi. Il Bomberismo
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concretamente non è altro che la manifestazione di pulsioni sessiste e xenofobe, mediate (non sempre) da un velo di ironia, dietro la quale vengono sdoganati degli stereotipi e degli atteggiamenti maschilisti e in qualche caso anche la violenza, ponendo sempre l’accento sulla componente di “degrado” o di “ignoranza” della stessa, che arriva in questo modo a essere celebrata o quanto meno considerata sempre più “accettabile”. Ovviamente l’universo di questo tipo di pagine è molto vasto e a molte di queste non sono ascrivibili posizioni ben precise a livello politico/sociale, tuttavia alla base si riconoscono tutte nel pensiero sopracitato. Inoltre, dal punto di vista “umoristico”, la loro ironia si basa quasi interamente nell’individuare un “nemico” di turno da prendere di mira, trovandolo spesso in categorie ben precise di persone, come potrebbero essere le femministe o i vegani arrivando a volte anche a perseguitare singoli personaggi, come ad esempio è successo e continua a succedere da qualche anno a questa parte con Laura Boldrini. A questo punto è palese la matrice quasi univocamente politica di certe pagine. La reduce da ban “Sinistra Cazzate e Libertà” lo è esplicitamente, con tanto di crociate politiche, compiaciuto e sventolato “fascismo del terzo millennio". Il pericolo concreto di questo ritorno alla violenza rischia di tradursi in azioni reali. L'esempio per eccellenza è come per Laura Boldrini si sia passati dagli insulti su Facebook a bruciare in piazza un pupazzo che la raffigurava. Il mandante e responsabile ideologico è quello schieramento che ha quasi fatto dell'odio nei confronti della Boldrini la propria bandiera. Il rogo del pupazzo si è verificato a Busto Arsizio per mano della federazione giovanile leghista “Movimento giovani padani", sul fantoccio era stampata la faccia dell' ex presidente della Camera dei deputati. La violenza si sta gradualmente sdoganando e rischia di tornare a inserirsi nella normalità. Il pericolo non è costituito dal black humour in sé, che può avere sfumature dalla meno alla più intelligente, ma dall’assenza di qualsiasi contesto e scopo che diano un senso all'ironia, ridotta a alibi nel meme bomberista. Internet manifesta le tendenze innate che la società civile tende a reprimere, come la violenza. Il problema è da risolvere a monte, non a danno fatto. Non si può privare Internet, che deve parte della sua utilità proprio a questa caratteristica, della sua accessibilità a tutti, del suo immenso potenziale democratico, ma proprio per questa ragione sul web non dovrebbero nascere e crescere fenomeni del genere. Tutti in teoria, dovrebbero avere una profonda consapevolezza del significato di violenza. È l'ennesimo sintomo della malattia dei tempi che viviamo. Sempre Bauman, citando Gramsci ha dichiarato che “ Se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. di Ismaele Calaciura Errante e Giorgio Garofani
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IL LABORATORIO DELLA MOBILITÀ SOSTENIBILE Il 14 Aprile, per la prima volta nella storia, Roma ospiterà una tappa del Gran Premio di Formula E, la serie automobilistica dedicata alle monoposto elettriche, in base ad un accordo triennale stipulato con il Comune, che prevede che l’evento abbia cadenza annuale fino al 2020. Sono ormai un po’ di anni che la Formula E sta perturbando il mondo degli sport a motore, riuscendo a ritagliarsi uno spazio sempre più importante all’interno di questo settore. In effetti, il “nuovo” evento sportivo pensato dalla FIA (Federation Internationale de l’Automobile) raramente rispetta le norme convenzionali proprie di questi sport, spesso stravolgendole sia per motivi di praticità che di marketing: le monoposto sono identiche nel telaio, nella batteria e nel sistema frenante, rendendo la gara più competitiva; si gareggia in circuiti cittadini dai passaggi angusti e dalle curve strettissime, che non permettono errori e garantiscono sempre grande spettacolo; sono necessari rocamboleschi cambi di auto a metà gara – a causa della limitata autonomia della batteria – ed è stato introdotto il “fan boost”, che dà ai tre piloti più votati sui social media la possibilità di incrementare la potenza della propria automobile di 30 kWh per un intervallo di cinque secondi, offrendo ai tifosi l’opportunità di avere un ruolo attivo sull’esito della gara. Ma il vero punto di forza di questa competizione è l’attenzione al tema della mobilità sostenibile attraverso le loro campagne di sensibilizzazione e il loro continuo impegno nel creare un evento sportivo a “emissioni 0”. Il concetto di sostenibilità viene infatti portato anche al di fuori della pista. Il calendario delle gare è stato disegnato apposta per limitare il trasporto aereo e ottimizzare quello ferroviario e navale; le gare si svolgono in un solo giorno per ridurre gli sprechi e l’intera area in cui si svolge l’E-Prix non ha alcun impatto ambientale sul territorio cittadino: non sono previste opere permanenti ed è tutto completamente alimentato da fonti rinnovabili, monitorando i consumi elettrici e gli eventuali sprechi attraverso una rete di microgrid.
In particolare a Roma, a fronte di un investimento di circa 10 milioni di euro – interamente a carico degli organizzatori dell’evento – si prevede un indotto economico di circa 60 milioni in tre anni; sono poi previsti l’adeguamento del manto stradale interessato dal circuito (la gara si svolgerà all’EUR) e l’installazione da parte dell’Enel di 700 colonnine per la ricarica su tutto il territorio della Capitale. Inoltre, l’allestimento dell’area della gara ha avuto tempi molto brevi, impegnando soprattutto gli orari notturni, così da minimizzare il disagio per i cittadini. La partecipazione di Roma all’E-Prix avrà sicuramente degli effetti positivi sulla città: non solo questa operazione promuove un modello innovativo di mobilità e un nuovo modo di vivere il contesto urbano, ma, a nove anni di distanza dall’ultimo evento sportivo di portata internazionale svoltosi a Roma (i Mondiali di Nuoto del 2009), rilancia e valorizza su scala mondiale l’immagine della città come aperta allo sviluppo e in grado di sostenere eventi culturali e sportivi di grande importanza.
La partecipazione di Roma all’E-Prix avrà sicuramente degli effetti positivi sulla città Con il suo mix di intrattenimento adrenalinico, innovazione tecnologica e impegno sociale, questo campionato sembra quindi aver trovato la formula perfetta per accontentare tutti: cittadini, istituzioni pubbliche, investitori privati. Questo vento verde di novità ha attirato non solo l’attenzione di una grande fetta di pubblico, in modo particolare le nuove generazioni, ma anche quella di grandi marchi industriali, tra cui famose case automobilistiche, importanti banche e sponsor di primo livello, i quali non hanno tardato a manifestare il proprio interesse. Si è creata una vera e propria rete di società private, unite nell’obiettivo (almeno apparente) di finanziare e promuovere il primo progetto sportivo che intende avere un ruolo da leader nell’avanzamento tecnologico del contesto urbano e si pone come ponte tra la società e quest’ultimo.
sono necessari rocamboleschi cambi di auto a metà gara a causa della limitata autonomia della batteria
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METAMORFOSI Ma per quanto sia un buon segno che per la prima volta un evento sportivo stia portando avanti delle istanze sociali, è assai discutibile il fatto che sia un’associazione sportiva privata a dover trainare il processo di ricerca e di promozione sulla mobilità elettrica. L’evento è infatti finanziato da investitori privati, il cui principale obiettivo è ovviamente quello di monetizzare ogni loro operazione. Si sviluppa una situazione contraddittoria e potenzialmente nociva ai fini della ricerca in questo settore, che determina un conflitto di interessi tra ciò che fa bene alle tasche del privato e ciò che invece andrebbe a vantaggio della cittadinanza. La conferma arriva dallo stesso CEO della Formula E, che nel dicembre 2017 ha scritto sul quotidiano online Autosport: “C’è una regola molto importante (…) ossia proteggere i team privati. (…) Per esempio, pare che nessuno di essi sia entusiasta a migliorare la tecnologia della batteria”. In un’epoca in cui i tagli alla ricerca e all’istruzione non sono mai stati così massicci, questo è solo l’ennesimo esempio di una dinamica molto più generale e sottile: il settore privato sta cercando di sostituire il ruolo del pubblico negli ambiti che riguardano più da vicino il welfare del cittadino, come appunto la ricerca, l’istruzione o la sanità.
Ma per quanto sia un buon segno che per la prima volta un evento sportivo stia portando avanti delle istanze sociali, è assai discutibile il fatto che sia un’associazione sportiva privata a dover trainare il processo di ricerca e di promozione sulla mobilità elettrica. Ma la colpa di ciò non va data alle aziende private; è infatti necessario che sia il pubblico a rendersi conto che questo modello sociale difettoso sta provocando un’assenza nella vita del cittadino, ed è ora che inizi a promuovere serie politiche di welfare e programmi di ricerca. Intanto, nel suo piccolo, il progetto della Formula E sta dimostrando che anche lo sport può diventare un laboratorio sociale e tecnologico che supera la frontiera del puro intrattenimento. Un altro prezioso elemento che le istituzioni dovrebbero considerare.
(RUBRICA) «Depressione. Quando non è solo tristezza» Attraverso interviste a psichiatri e psicologi, Metamorfosi indagherà i fenomeni caratteristici dell'età evolutiva e della primissima età adulta. Andando a caccia di risposte chiare ed esaustive, cercheremo di proporre un’indagine che scavalchi gli stereotipi e i preconcetti sul mondo dell’adolescenza e indirizzi quei fenomeni che molto spesso sono comunemente intesi in maniera grossolana ed inesatta. Il saggio "Depressione", uscito per L'Asino d'oro edizioni lo scorso marzo, propone uno studio su questa patologia come malattia della mente non cosciente, andata incontro ad una lesione più o meno grave. Le autrici e psicoterapeute Cecilia Di Agostino, Marzia Fabi e Maria Sneider, escludendo un'origine biologica della malattia, propongono una possibilità di cura per la guarigione grazie alla "Teoria della nascita" di Massimo Fagioli. Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato la dott.ssa Maria Sneider. Quando si può parlare di depressione? Come si distingue da una fisiologica tristezza? È una distinzione importantissima, dato che queste parole vengono spesso confuse. La tristezza si manifesta in situazioni particolari, come lutti o separazioni, oppure nel passaggio tra infanzia e adolescenza: quest'ultimo è un periodo della vita che richiede l'abbandono di un "porto sicuro" per andare verso una situazione sconosciuta, la tristezza e la sensazione di incertezza possono essere assolutamente fisiologiche, non provarle in situazioni particolarmente difficili o dolorose sarebbe indice di un appiattimento affettivo patologico. Se si ha una sanità di fondo, superato il momento problematico, anche la tristezza passa. Quando si parla di depressione si indica invece una patologia: un'alterazione o lesione della realtà interna. Come la tristezza, si manifesta con un umore cupo, ma è accompagnata da una serie di sintomi che forniscono un quadro clinico ben preciso: si riscontra una mancanza di vitalità e di speranza per il futuro, frequenti pensieri di autosvalutazione e sensi di colpa, apatia, affaticamento psicofisico, etc.
di Julian Toso
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Quali sono le caratteristiche della depressione in adolescenza? In cosa differisce da quella in età adulta? Possono essere estremamente diverse. Gli adulti tendono ad essere molto più riflessivi e razionali, a volte costruiscono schemi mentali e comportamentali molto rigidi e la loro depressione prende delle forme molto cupe e "silenziose". I bambini e gli adolescenti sono completamente diversi dagli adulti: il loro quadro clinico spesso è opposto e tante volte non viene adeguatamente diagnosticato. Spesso non riescono ad esprimere verbalmente quello che sentono, e dunque la depressione in adolescenza è una patologia rumorosa e vistosa: si riscontrano irritabilità, intolleranza, agitazione psicomotoria assieme alle somatizzazioni, ovvero sintomi che all'apparenza sembrano esclusivamente fisici, come frequenti emicranie, coliti o gastriti. Frequentemente ci troviamo davanti ad agiti "trasgressivi" che nascondono un'intenzione più o meno autodistruttiva: saltare frequentemente la scuola, la guida spericolata o il praticare sport estremi senza le dovute precauzioni. Sotto queste forme aspecifiche c'è il nucleo della depressione: un calo di vitalità che presenta rabbia e odio, fino ad arrivare all'anaffettività. In questa fase dello sviluppo il corpo ha un ruolo centrale perché va incontro ad una trasformazione che lo porta allo sviluppo della sessualità, e se la mente non va di pari passo a questo cambiamento il corpo viene considerato un nemico: in adolescenza sono tipici tutti quei sintomi che vanno ad attaccare e ledere il corpo, come l'anoressia, la bulimia, l'autolesionismo e si manifestano tutti quei comportamenti che mettono in pericolo la vita e la salute del ragazzo. Gli adolescenti stanno male anche quando vengono oppressi dagli adulti, ad esempio con una continua svalutazione delle loro realizzazioni, che nega e annulla la loro identità; se la sanità dell’adolescente è già compromessa la reazione sarà di violenza che riverserà su se stesso, ammalandosi ancora di più.
un calo di vitalità che presenta rabbia e odio, fino ad arrivare all'anaffettività.
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Come ci si ammala? La realtà psichica compare alla nascita quando la luce colpisce la retina, attivando la sostanza cerebrale. Fino ad allora il feto è una realtà biologica che rimane per nove mesi dentro al liquido amniotico in una situazione di omeostasi. Alla nascita il neonato realizza una memoria non cosciente della sensazione avuta nell’utero che gli dà la certezza del rapporto interumano che troverà nelle braccia e il seno materno, che dovrebbero accoglierlo e proteggerlo con calore. Se la madre non risponde adeguatamente alle sue esigenze la sua realtà fisiologicamente sana della nascita si indebolisce. Il depresso ha alle spalle delusioni continue e ripetute sul piano affettivo, abbastanza gravi da determinare la malattia. A compromettersi è l'immagine interna, ovvero quella realtà psichica non cosciente fatta di immagini, pulsioni e affetti che nei primi anni di vita ha bisogno di continue conferme e risposte affettive per svilupparsi. Spesso si dice siano eventi "traumatici" a causare la depressione, ma in realtà un evento particolarmente rilevante può far emergere una lesione interna già presente ma che fino a quel momento era rimasta invisibile: quando cerchiamo le cause di una depressione dobbiamo rivolgere l'attenzione alla reazione patologica del paziente a determinati eventi, e non unicamente a questi ultimi. La malattia si forma nei primi anni di vita ed ha un periodo di latenza, per poi ricomparire in adolescenza, ed è a questo punto che è fondamentale intercettarla. A volte gli adulti trascurano gli adolescenti, non sono in grado di capirli, mentre a quell'età è molto importante avere dei riferimenti validi a cui potersi rivolgere.
La realtà psichica compare alla nascita quando la luce colpisce la retina, attivando la sostanza cerebrale. Qual è la differenza tra depressione maggiore e minore? Nella depressione minore il paziente sente di non sentire, è consapevole della sua carenza affettiva e incapacità di amare, ma è più propenso alla richiesta d’aiuto e quando arriva da noi reagisce presto alla terapia. Nella depressione maggiore non si è persa del tutto la capacità di sentire, ma trattandosi di una psicosi, ovvero una forma molto grave di malattia mentale, presenta dei grossi vuoti interni. In questo secondo tipo di depressione l’immagine interna è estremamente frammentata e chi ne è affetto è ad altissimo rischio suicidario, rimanendo chiuso nel suo mondo di pensieri deliranti, non aderenti alla realtà, come il delirio di rovina: un senso di colpa gravissimo corredato dal terrore di poter ledere e distruggere l'altro. Nella depressione minore il pensiero è sicuramente alterato, ma non si tratta di un delirio strutturato, che per noi è molto più difficile da contrastare, per questo nel secondo caso c’è spesso la necessità di un intervento farmacologico, che impedisca nell'immediato gesti autolesivi o autodistruttivi.
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Nella depressione minore il paziente sente di non sentire, è consapevole della sua carenza affettiva
C'è un caso clinico all'interno del libro che vorrei approfondire: descrive la dinamica di rapporto che ha una paziente gravemente depressa con un uomo molto anaffettivo. Sì, il caso di Maia. Purtroppo ci imbattiamo spesso in queste situazioni: pazienti depressi che hanno relazioni con persone che inizialmente si presentano molto bene, ma che nascondono una gravissima anaffettività di fondo. Lui sembra sicuro di sé e privo di conflitti e lei ne rimane affascinata: all'apparenza è tutto perfetto ma la depressione di Maia peggiora costantemente, ma lei non è consapevole del fatto che è proprio il rapporto con quest'uomo così freddo a farla stare male. Davanti all'anaffettivo, che non riesce ad avere un interesse profondo e sincero, c'è sempre una persona che si deprime. Abbiamo visto che chi è depresso non ha perso del tutto la sensibilità affettiva, ma al tempo stesso non è in grado di vedere la violenza, e quindi di rifiutarla. L'anaffettività deriva dalla pulsione di annullamento, che è invisibile ed è rivolta nei confronti della dimensione affettiva dell'altro: tale dinamica è assolutamente devastante e quando non si hanno gli strumenti per difendersi, pian piano si perde tutta la vitalità. Per Maia è stato fondamentale fare un percorso di psicoterapia perchè a livello cosciente era convinta di stare con una persona eccezionale, ma attraverso i sogni è emerso che quest'uomo l'aveva impoverita e svuotata. Sentiva di stare male ma non riusciva a cogliere la distruttività del rapporto che stava vivendo, non riusciva a vederlo, ad orientarsi, a causa della sua stessa malattia; era convinta di essere lei l’unica responsabile del suo malessere. di Alice Paparelli
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LAMBDA LAMBDA LAMBDA (RUBRICA) Grazie ad una collaborazione con la redazione di Stay Nerd, curatori di staynerd.com e dell’omonima pagina Facebook, nasce Lambda Lambda Lambda, una rubrica che aprirà ogni mese una finestra sui temi caldi della nerd culture, i fenomeni sotterranei o mainstream della cultura pop di internet, videogiochi e serie tv, nelle numerose implicazioni che ne derivano.
Remastered e dintorni: La nostalgia canaglia nei videogiochi Siamo tutti un po’ nostalgici in questi anni, sembra che il meglio della cultura pop della nostra epoca appartenga al passato. Ce lo ricorda molto bene il cinema, che riporta alla ribalta saghe storiche come Star Wars o il recente Ready Player One, come un enciclopedico caleidoscopio di citazioni anni ’80 e ’90 che rappresenta un po’ la summa di questo movimento amarcord. Ma anche nel settore dei videogiochi il trend è francamente innegabile. Mai come negli ultimi tempi infatti siamo bombardati da nuove edizioni di giochi vecchi ma diventati in qualche misura cult, che vengono rimessi sul mercato più o meno ritoccati. C’è infatti una distinzione tra remastered e remake. La prima presuppone un lavoro di adeguamento agli standard contemporanei marginale, che contempla per lo più una risoluzione video più alta e poche altre rifiniture tecniche. Un esempio di remastered è il prossimo Dark Souls Remastered, che promette di non sconvolgere in alcun modo grafica e gameplay del titolo, ma in buona sostanza si limiterà a renderlo visivamente più pulito e fluido. Ci sono poi i remake, titoli che vanno a modificare in maniera molto più sostanziale l’opera originale, donandogli non solo una cosmesi totalmente nuova, con una inedita interpretazione artistica, ma magari modificando anche qualche aspetto del gioco vero e proprio. Uno dei casi più celebri è Resident Evil per Game Cube, uscito nel 2002 per dare una svecchiata importante al capolavoro per PSX del 1996 entrato nel cuore di molti videogiocatori. Lo stesso remake di Resident Evil è divenuto poi “remastered” per le console successive.
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Aprile 2018
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Ci sono poi prodotti “ibridi” come Crash Bandicoot: Nsane trilogy o Shadow of the Colossus per PS4. In questo caso il miglioramento sul comparto grafico è notevole, ma il gioco dietro è lo stesso di sempre. Insomma, può cambiare “l’etichetta”, può cambiare il livello di “riarrangiamento” ma il concetto è sempre lo stesso. Sfruttare ancora e ancora una proprietà intellettuale fino al punto di strizzarne fuori fino all’ultimo centesimo. È un bene? È un male? Ebbene il discorso è complesso e cambia da caso a caso, e le variabili in gioco sono parecchie. Non ultima la questione prezzo. L’utilità nell’acquisto di un titolo “riciclato” da una generazione di console, sta ovviamente negli occhi dell’utente. Magari non hai mai avuto PlayStation 3 e, con l’acquisto della PS4, la riedizione del capolavoro di Naughty Dog ti fa gola. Per quale motivo quindi non prenderla? Il problema non è quindi la remastered in sé, anche perché a ben pensarci, in qualche forma sono sempre esistite. Super Mario All Star per SNES, che conteneva i primi capitoli di Mario con grafica in 16 bit, possiamo definirlo quasi un precursore di questo tipo di operazioni. Il problema, o meglio, l’anomalia, sta nel motivo per cui oggi si fanno così tante operazioni di recupero.
Siamo bombardati da nuove edizioni di giochi vecchi ma diventati in qualche misura cult, che vengono rimessi sul mercato più o meno ritoccati. Possiamo darci delle spiegazioni, consci del fatto che non esiste una sola verità, e se il trend è più in fermento che mai, le cause sono sicuramente molteplici. Purtroppo però, queste appaiono per lo più negative a pensarci bene. Perché si fanno tante remastered? Beh, evidentemente perché vendono. E perché vendono? Forse perché i giochi di ieri, sono sempre migliori di quelli di oggi? Io non lo so proprio, e anzi, non lo penso. Non in termini così assoluti almeno. Ma scavare nel passato, significa avere poche idee nel presente. Aver voglia del passato, significa non essere appagati totalmente oggi. Sembra quasi che l’industria del videogioco voglia fare un passo in avanti e cento indietro, e noi, utenti finali, alimentiamo questo fuoco con il nostro consenso. Si insomma, apriamo il portafoglio. Ma c’è dell’altro ovviamente. Ci sono questioni di ordine meno “sociale” e più concrete. Il costo dello sviluppo dei videogiochi moderni aumenta anno dopo anno, e per sostenere progetti al passo con i tempi, spesso si cerca di attingere ad un po’ di “rendita”, e al grido di “minimo sforzo, massimo guadagno” arrotondare con qualche operazione commerciale amarcord. Tutto regolare quindi? “Nì…”
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Scomodo
Aprile 2018
Sembra quasi che l’industria del videogioco voglia fare un passo in avanti e cento indietro, e noi, utenti finali, alimentiamo questo fuoco con il nostro consenso. Si insomma, apriamo il portafoglio. Le remastered sono innocue. Anzi in un certo senso, fanno del bene e svolgono un ruolo “conservatore” per grandi o piccoli capisaldi nella storia del videogioco. Attenzione solo a non dare il messaggio sbagliato a chi di mestiere dovrebbe mantenere sempre fresco e nuovo il nostro hobby preferito. Ogni tanto un’occhiata malinconica al passato si può dare, ma non dobbiamo viverci, né spenderci nuovamente vagonate di soldi soprattutto. Non rendiamo le cose facili agli sviluppatori e cerchiamo di essere sempre giocatori riconoscenti, ma anche esigenti. di Davide Salvadori
Scomodo
Aprile 2018
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...purtroppo è impossibile
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Scomodo
Aprile 2018