N. 16 NOVEMBRE 2018

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Novembre 2018

n° 16

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Mensile indipendente di attualità e cultura


n° 16

Novembre 2018

Redattori Emanuele Caviglia • Elena Lopriore Giovanni Onorato • Luca Bagnariol Francesco Paolo Savatteri Alice Paparelli • Laura Pacifici Maria Marziano • Cosimo Maj Daniele Gennaioli Jacopo Andrea Panno Anna Leonilde Bucarelli Lucrezia Agliani • Ismaele Calaciura Luca Giordani • Leonardo Rosi Camilla Cataldi • Adriano Bordoni B.C. • Simone Massari Anna Laura Lozupone • Riccardo Corsi Ettore Iorio • Giovanni Forti Pietro Forti • Simone Martuscelli Alessandro Guerriero • Luca Bagnariol Marco Collepiccolo • Martina Saladini

Responsabile editoriale: Edoardo Bucci Responsabile sezione “Attualità”: Pietro Forti Responsabile sezione “Cultura”: Jacopo Andrea Panno Responsabile sezione “Il Plus”: Luca Bagnariol Responsabile sezione “Focus”: Adriano Bordoni

cierregrafica Group srl via degli Alvari 36 Roma

29/11/2018

BBraio pag. 60 / 63 Emanuele Faro pag. 64 / 66 / 68 / 74 Maria Marzano pag. 16 / 20 / 22 / 23 / 25 / 31 / 33 / 34 / 35 / 37 / 56 / 58 / 59 / 70 / 71 Gabriel Vigorito pag. 38 / 39 / 40 / 41

Fotografi Emma Terlizzese pag. 28 / 48 / 50 / 52 / 54

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Illustratori

Nel momento in cui si è deciso di cosa dovesse trattare l’editoriale del primo numero di Scomodo dopo un ulteriore mese di stop che seguiva l’annuale pausa estiva, ci è sembrato necessario e doveroso spiegare ai nostri lettori le motivazioni che ci hanno portato ad annullare l’uscita di ottobre e a limitare, per motivi economici, la tiratura di novembre. A più di due anni dalla nascita di Scomodo, abbiamo sentito l’esigenza di fermarci un momento per capire in che direzione proseguire. Abbiamo quindi utilizzato questa pausa per dare una rinnovata impronta al progetto, svolgendo una rielaborazione complessiva della sua struttura nel perseguimento di quegli ideali, editoriali e non, che da sempre ci alimentano. Le decisioni che abbiamo preso dopo un lungo processo d’inclusione collettivo durato oltre due mesi e che ha visto il coinvolgimento di tutti i membri di Scomodo hanno portato a numerosi risultati. Copertina Tra le tante questioni abbiamo lavorato ad una riorganizzazione della divisione dei ruoli all’interno della nostra realtà per rendere più funzionali ed incisive le attività che svolgiamo e si è elaborata una pianificazione economica che dal breve al lungo termine possa garantire ZUZU a Scomodo una maggiore stabilità e capacità di espansione. Stampare il numero di novembre, seppur con una tiratura limitata, è quindi il nostro modo di dimostrare Infografica (pag. 4)il lavoro fatto in questi mesi di assenza. Ci scusiamo con chi aspettandosi giustamente una pubblicazione ad ottobre sia rimasto deluso, ma Pronostico vogliamo ribadire come questo rallentamento non rappresenti per noi una sconfitta Antonio ma un punto di partenza verso le prossime sfide. Una tappa necessaria per un progetto che dopo oltre due anni di vita, continua a coinvolgere centinaia di menti pensanti. Ora, in un momento storico molto particolare, siamo pronti a ripartire con un’organizzazione solida Artwork ed idee più chiare per il futuro.

Frita

BUONA LETTURA


FOCUS - IL SECONDO TEMPO • dal fallimento della War on Drugs verso la depenalizzazione di tutte le droghe L’INFOGRAFICA di Antonio Pronostico Introduzione di B.C. e Adriano Bordoni La strategia portoghese di Simone Massari O Tempora di Adriano Bordoni, con la collaborazione di Anna Laura Lozupone IL LIBRAIO RACCONTA ATTUALITÀ Una cartolina di governo di Riccardo Corsi e Ettore Iorio La città inamministrabile II - La battaglia pubblica di Giovanni Forti e Pietro Forti L'America a metà di Simone Martuscelli e Alessandro Guerriero PARALLASSE di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol MOSTRI - TORRE DELL'EUR di Martina Saladini CULTURA LA COPERTINA di di Laura Pacifici e Maria Marzano Ho incontrato il King di Fortnite, stavo a teatro di Cosimo Maj, Daniele Gennaioli e Jacopo Andrea Panno Books, not guns. Culture, not violence di Laura Pacifici, Lucrezia Agliani e Anna Leonilde Bucarelli New Palermo Felicissima di Luca Giordani Giustappunto di Leonardo Rosi RECENSIONI Musica di Daniele Gennaioli e Camilla Cataldi DISTURBO DELLA PERSONALITÀ di Maria Marzano Cinema di Cosimo Maj IL PLUS Khashoggi e i suoi fratelli di Emanuele Caviglia e Elena Lopriore Giorni di Hambach: per un dinosauro consapevole di Giovanni Onorato Tribuna social di Luca Bagnariol e Francesco Paolo Savatteri Metamorfosi di Alice Paparelli

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Il numero sempre crescente di consumatori di droga e dei danni sociali ed economici derivati da questo utilizzo sanciscono il fallimento delle politiche proibizionistiche. Elaborare una risposta a questo ecosistema sulla via del collasso è tra le nuove sfide dei nostri tempi. Il mondo medico e scientifico è divenuto in questi anni tra i principali promotori di questo cambiamento. Guidando la discussione in tema laddove quello politico, con tutte le sue frammentazioni ed i suoi pregiudizi, ha fallito. Un viaggio verso la legalizzazione di tutte le droghe, con le sue sfide, le sue opportunità e contraddizioni.

IL SECONDO TEMPO

64 68 70 72 74 75 76 81 86 90

DAL FALLIMENTO DELLA WAR ON DRUGS VERSO LA DEPENALIZZAZIONE DI TUTTE LE DROGHE 5


infografica di Antonio Pronostico

STATISTICHE UTILIZZO

STATISTICHE SULLE TERAPIE

275 milioni

DEI 179 PAESI IN CUI È STATO VERIFICATO IL CONSUMO DI DROGA PER VIA ENDOVENOSA:

(5,6% POPOLAZIONE FASCIA DI ETÀ 15-64 ANNI) NUMERO DI PERSONE CHE HANNO FATTO USO DI DROGA ALMENO UNA VOLTA NEL 2016.

SOLO IL 5% fornisce alti livelli di copertura per un programma di distribuzione gratuita di aghi e siringhe sterili (NSP).

SOLO L’11%

31 milioni L’ANALISI DELLA QUESTIONE DELLO SPACCIO E DELL’UTILIZZO DI DROGA PASSA PER UN NUMERO IMPRESSIONANTE DI DATI E STATISTICHE. MUOVERSI IN QUESTO MARE DI INFORMAZIONI NON È SEMPLICE: QUELLE PIÙ SIGNIFICATIVE, NECESSARIE PER LA MIGLIORE COMPRENSIONE DI QUESTO FOCUS, LE TROVATE IN QUESTA INFOGRAFICA.

10,6 milioni (0,22% popolazione fascia età 15-64 anni) persone che fanno parte della categoria delle PWID (People Who Inject Drugs). Il 45% di essi risiede in Russia, Cina e USA (solo il 27% della popolazione mondiale nella fascia d’età sopraindicata risiede nei paesi in questione)

Fonti: World Drug Report 2018 dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulle Droghe ed il Crimine

450.000

58 miliardi di dollari

167.750

Epatite C, Cirrosi Epatica e Tumori al Fegato, contratte durante l’assunzione di droga.

63.450 persone morte a causa di patologie come HIV e

Tubercolosi, contratte durante l’assunzione di droga.

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301 miliardi di dollari dato riportato dal BMJ nel suo editoriale “Drugs should be legalised, regulated, and taxed”

PERSONE MORTE A CAUSA DELL’UTILIZZO DI DROGA NEL 2015

200.250 persone morte a causa di patologie come

STATISTICHE SUL MERCATO

VALORE ANNUO MONDIALE DEL COMMERCIO ILLEGALE DI DROGA.

STATISTICHE SUL DANNO

persone morte a causa di disturbi direttamente legati al consumo di droga (principalmente overdose). Il 76% di queste è legato al consumo di oppioidi.

fornisce alti livelli di copertura per la terapia di sostituzione al consumo di oppiodi (OST).

(0,63% popolazione fascia età 15-64 anni) persone che soffrono di disturbi direttamente legati al consumo di droga e necessitano di assistenza.

spesa annua USA nella lotta alla droga dato riportato da Drug Policy Alliance.

TRA LE PWID

IL 50%

convive con l’Epatite C

IL 12,5%

convive con l’HIV (l’82% di essi convive anche con infezioni da HCV (Hepatitis C Virus))

OPPIODI

418.000 ETTARI (circa 586.000 campi da calcio): ammontare della coltivazione mondiale di oppio nel 2017. Il 75% dell’area si trova i n Afganistan.

COCAINA

213.000 ETTARI (circa 298.600 campi da calcio): ammontare della coltivazione mondiale di foglia di coca. Il 69% dell’area si trova in Colombia.

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INTRODUZIONE

La tesi dalla quale muoveremo per lo sviluppo di questo focus, abusatissima dagli habitué della discussione, che ne hanno fatto a ragione o a torto il leitmotiv della loro trattazione, è che il proibizionismo, nella sua forma più generale, abbia mancato di raggiungere l’obiettivo che aveva portato alla sua nascita: quello di proteggere la popolazione dalla diffusione degli effetti nefasti del consumo droga. Non siamo noi ad attestarlo. Sono le parole e le statistiche annuali dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulle Droghe ed il Crimine che avete trovato nell’infografica d’apertura, e che certificano dal 2006 ad oggi un incremento mondiale di consumatori di droga pari a 67 milioni di unità. Sono le dichiarazioni della Global Commission on Drug Policy, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, tutte convergenti nel voler porre fine alla criminalizzazione dei consumatori di droga; sono gli articoli e gli studi pubblicati da fonti scientifiche come il British Medical Journal e le voci di intellettuali come Richard Horton, Fiona Godlee e Alexander Shulgin; economisti e premi nobel come Paul Krugman, Milton Friedman e Gary Becker; politici come Kofi Anan, Barack Obama, Jimmy Carter, José Mujica e Louise Arbor. Sono, addirittura, le parole con cui l’ex senatore John McCain ammise che “forse dovremmo legalizzare, stiamo certamente andando in quella direzione per quanto riguarda la marijuana (...)”. In ultima istanza, sono anche le manifestazioni più o meno quotidiane che segnano il rapporto dell’opinione pubblica con la droga, monopolizzata, nelle ultime settimane, dalla morte di Desirèe Mariottini, la sedicenne deceduta il 18 Ottobre nello stabile occupato di Via dei Lucani 22, a San Lorenzo, dopo essere stata violentata e drogata. Qui, prima di procedere, a causa della delicatezza del tema e della già ingente campagna di sciacallaggio -mediatico e non- seguito alla vicenda, metteremo le mani avanti: questo non è un manifesto politico, non è una proposta di legge né un editoriale. E’ una riflessione che parte, tra le altre cose, anche da questa vicenda. Perché la tragica fine di Desirèe è innegabilmente legata all’ecosistema della droga e della lotta a quest’ultima. Se ne traggano le conclusioni che più si credono giuste, ma va preso atto di questo: lo stabile di Via dei Lucani è stato non solo il teatro della tragedia, ma anche in parte la causa di quanto è accaduto. Luoghi di questo tipo sono la culla di gran parte degli illeciti che riempiono le pagine di cronaca, perché fungo8

no da valvole di sfogo per un variegatissimo sistema di illegalità di cui lo spaccio ed il consumo di droga sono solo la punta dell’iceberg. Illegalità non meglio specificata a cui, per forza di cose, il consumatore si trova ancorato. La risposta delle istituzioni in merito è stata chiara: fare tabula rasa di luoghi come questi. Eppure gli anni hanno dimostrato l’inutilità del distruggere solamente la manifestazione sintomatica di un problema sociale, senza sfiorare il problema alla radice: una palla da demolizione può far crollare i muri dello stabile a San Lorenzo, ma non la dipendenza dall’eroina da cui sempre più giovani continueranno ad essere affetti. Il primo tipo di operazione non può non essere accompagnata da una gestione del fenomeno che ne è causa. E ora che San Lorenzo ha una piazza di spaccio in meno a Via dei Lucani, è questione di giorni che ne crei una nuova in qualche via vicina. Esattamente come l’alimentari che si trasferisce dall’altra parte della strada ed avvisa i clienti con un cartello in vetrina. Questo avvenimento, lo si è detto, è però solo la manifestazione particolare di un sistema in stato di collasso strutturale. Un altro esempio notabile, utile per guardare la faccenda a più ad ampio spettro, è rappresentato dalla situazione statunitense. Negli USA, da quando nel 1971 Richard Nixon dichiarò l’abuso di sostanze stupefacenti il “nemico pubblico numero 1” del paese, ogni anno si spendono circa 51 miliardi di dollari nella famosa “War on Drugs”, nonostante gli effetti siano stati tutt’altro che positivi: dagli anni 70 ad oggi, sempre in America, ogni anno mezzo milione di possessori o spacciatori finiscono in galera, e la stessa DEA, il corpo di polizia che deve combattere la guerra alla droga ha ammesso che di tutte le sostanze illegali che circolano negli Stati Uniti solo il 10 % viene confiscato. Al punto che ad oggi l’America del Nord detiene il record mondiale nella percentuale di utilizzatori di cocaina nella fascia di età compresa tra i 15 ed i 64 anni (il 2% della popolazione americana in questa fascia d’età). Le politiche nixoniane non hanno portato ad altro che ad un aumento del prezzo, inflazionato dal rischio che uno spacciatore si assume nel tenere la droga in casa, e ha spinto chi ne è dipendente a spendere sempre di più per ottenere la propria dose e a commettere crimini quando i soldi finiscono e non ci si può permettere di rifornirsi. Per ogni cartello individuato e smantellato, prima che lo spacciatore arrestato possa anche solo iniziare ad abituarsi alla sua cella, un nuovo cartello prende il posto del vecchio.

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Dall’analisi di molti assetti normativi come questo emerge come a essere combattuti siano, in primo luogo, i consumatori delle sostanze. Di grande importanza, in tal senso, è il caso delle Filippine di Duterte, dove ha luogo una persecuzione diretta non solo verso gli spacciatori ma anche e soprattutto verso i consumatori, con effetti disastrosi, dimostrando la totale assenza di chiarezza attorno a chi sia il nemico contro il quale intraprendere la guerra. Nemico che, come sempre più esperti evidenziano, andrebbe ricercato nella dipendenza e nei danni derivati dal consumo di droga, oltre che nel mercato nero, in cui rientra massicciamente il contrabbando di sostanze stupefacenti. Tutto ciò, connesso alla consistente mancanza di informazione e preparazione in tema (frutto della tendenza statale, giuridica e giornalistica del racchiudere nella categoria della droga centinaia di famiglie di molecole differenti) produce contraddizioni e tensioni strutturali che si manifestano ciclicamente e con prepotenza.

Sono queste le ragioni per cui, proprio in questo momento, ci sembra necessario speculare sull’esistenza di sistemi alternativi al proibizionismo. L’aspirazione, passando per l’analisi di proposte poco discusse in Italia e molto di più all’estero, grazie a dialoghi con studiosi ed esperti in merito, è quello di tracciare (tra gli opposti estremi del proibizionismo e della legalizzazione, passando per le misure di depenalizzazione) gli ipotetici futuri sviluppi della politiche in materia di droga. Tra tutti gli ordinamenti legislativi che prevedano un cambio di rotta dalle misure proibizionistiche, per motivi di carattere storico e culturale, il modello impossibile da dimenticare è quello portoghese. Da qui parte la nostra analisi.

di B.C. e Adriano Bordoni

LA STRATEGIA PORTOGHESE Quando prevenire non è meglio che curare Il primo luglio 2001, il governo portoghese - guidato dal primo ministro Antonio Gutiérres - decide di depenalizzare il consumo di tutte le droghe. Chiunque venga sorpreso in possesso di un quantitativo non superiore ai limiti di legge (un grammo per eroina, ecstasy e anfetamina, 2 per la cocaina e 25 per la cannabis) non è più perseguibile penalmente, ma compie un semplice illecito amministrativo, ricevendo un mandato di comparizione davanti ad un comitato di dissuasione. Qui, davanti ad una commissione composta da un esperto giuridico, un medico ed un assistente sociale, il soggetto affronta un colloquio, durante il quale gli viene chiesto di prendere parte a dei programmi di recupero, solo raramente viene inflitta una sanzione, considerando inoltre che circa l’80/85% dei casi vengono archiviati. La maggior parte di coloro che si presentano sono infatti alle prese con il loro primo illecito, quasi sempre legato a sostanze come hashish o ma-

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rijuana. Nel caso di condotta illecita ripetuta da parte del soggetto e nel caso questo rifiuti di presentarsi di fronte ai comitati, la prassi è quella di rivolgersi alle forze dell’ordine, che personalmente e periodicamente consegnano all’individuo una notifica, con la quale lo invitano nuovamente a comparire di fronte agli operatori, così da non perdere il contatto con il mondo istituzionale e sanitario, aumentando le possibilità di coinvolgerlo in programmi di riabilitazione. Solamente in caso di continuo rifiuto o di ripetute infrazioni, come il possesso di sostanze oltre i limiti quantitativi di legge, viene applicata una sanzione, pari circa ai costi delle misure prese dal sistema statale per l’individuo stesso. L’unico comun denominatore di tutti i casi rimane comunque la necessità della sussistenza di una base volontaria da parte dell’individuo a prendere parte ai programmi di riabilitazione, senza la quale lo Stato non può intervenire. 9


Il punto di partenza: la base ideologica ed il contesto culturale L’idea che sta alla base del sistema adottato dal Portogallo è quella del tossicodipendente-paziente. Invece di criminalizzare chi fa uso di droga, si pone in primo piano la sua malattia e la sua conseguente dipendenza da sostanze, con l’obiettivo di recuperarlo e reinserirlo nella società. Questa nuova concezione giuridica e istituzionale ha portato a grandi cambiamenti nella mentalità della società, abituata a considerare i tossicomani come bestie, liberandola di un’idea tanto dannosa per gli ultimi quanto per sé stessa. Negli anni ’80, con l’inizio dell’era liberista, scoppiò a partire dal Sud del paese la piaga sociale del consumo di droga. Il Portogallo, imprigionato dal contesto culturale post-dittatoriale di Salazar e rimasto come la Spagna del dittatore Franco in una bolla rispetto al resto del mondo, risentì in maniera impressionante del ritardo storico: nel 1983 si contarono più di 18mila infezioni da HIV, e i dipendenti da eroina negli anni ’90 erano ormai 100mila. L’1% della popolazione si ritrovò nella condizione di non avere alcuna alternativa al carcere: nel 2001 (anno in cui la riforma venne inaugurata) il 41% della popolazione carceraria era composta da detenuti colpevoli di reati legati alla droga, un dato che peraltro fa riflettere se confrontato con l’attuale record europeo, quello Italiano, con il 31%. Il numero di morti per overdose era altissimo e pur non esistendo statistiche in merito, le testimonianze ci raccontano un Portogallo nel panico, con gente continuativamente alle prese con l’eroina e alti tassi di criminalità connessi alla smania di riuscire a comprare la dose quotidiana. La svolta Con l’inizio del nuovo millennio l’evidenza del fallimento di tutte le politiche proibizioniste di guerra alla droga si era fatta lampante. Le campagne governative per scoraggiare il consumo non ebbero altro effetto se non quello di peggiorare lo stato di emarginazione sociale degli individui affetti da tossicodipendenza, alimentando nella collettività l’immagine di questi come di individui degenerati. Era necessario un cambio di strategia, e dopo numerose lotte e grazie al lavoro del dottor Joao Goulao, riconosciuto come l’architetto del cambiamento, venne resa effettiva la legge sulle depenalizzazioni. Il paese non fu esente da critiche per questa sua scelta atipica, la paura era ovviamente quella di un aumento dei consumi. Bisogna considerare che, pochi anni prima, nel 1998, si era conclusa un’assemblea generale dell’Onu con la quale tutti i membri si proponevano l’ambizioso quanto irrealizzabile obiettivo di cancellare la droga ed i suoi effetti nefasti dalla faccia della terra. 10

In mezzo a questo contesto politico internazionale, il governo socialista in carica in quel momento faceva una scelta coraggiosa e controcorrente, scegliendo l’opzione della “riduzione del danno”. Con il benestare del primo ministro Antònio Gutiérres, iniziò il cambiamento. I risultati Ad oggi l’ONU considera quello portoghese come un modello di riferimento. In seguito all’entrata in vigore delle nuove leggi, le aspettative del governo sono state ampiamente superate. Contro una media Europea di 17,3 morti collegate alla droga ogni milione di abitanti, il paese ne vanta una di 3 morti ogni milione. Nel 2013 sono morte di overdose 1000 persone in Germania, 2000 nel Regno Unito, 344 in Italia e solamente 22 in Portogallo. Ma è soprattutto nel campo dei decessi e contagi di malattie legate all’uso di aghi infetti che si hanno i risultati migliori, grazie anche ai numerosi gruppi senza scopo di lucro che si sono venuti a creare e che distribuiscono siringhe, pipette e avvicinano i malati al mondo terapeutico, supportando gli sforzi governativi. Tenendo conto unicamente dei casi legati all’uso di droga, si è passati dalle 406 nuove diagnosi di HIV del 2007 alle 30 del 2016. A differenza di molte altre nazioni europee il Portogallo mostra un trend calante, spingendo al ribasso quel preoccupante andamento in ascesa del numero di diagnosi in Europa segnalato dall’OMS. Grazie alla nuova riforma completa del sistema sanitario, il Portogallo è riuscito in nove anni a dimezzare il numero generale dei nuovi casi per anno (tenendo conto anche delle trasmissioni per rapporti sessuali non protetti). Si parla di 1433 nuovi casi nel 2007 e di 734 nel 2016, contro i 3668 nel 2007 della Francia e i 3456 del 2016 nella stessa nazione.

dipendenze) dislocati in tutto il paese, all’interno dei quali, oltre a ricevere una dose di metadone, i tossicodipendenti passano il tempo socializzando con altre persone nella loro stessa condizione e con il personale socio-sanitario, ricostruendo insieme un ambiente di inclusione. Qualcosa di veramente diverso da un carcere. Questo sistema d’accoglienza ha dato i suoi frutti, oggi 50000 individui seguono una terapia alternativa in centri di recupero (il doppio rispetto al passato), e ancor di più sono quelli che si rivolgono a volontari per analisi del sangue come verifica della presenza o meno di infezioni da malattie come l’epatite o l’HIV, migliorando così la prevenzione attraverso la consapevolezza. Il contesto culturale è tutto e può salvare moltissime vite, famiglie e posizioni lavorative. Lo spettro della rivoluzione A metà tra le posizioni dei sostenitori della fallita guerra alla droga e quelle dei liberali che vorrebbero una liberalizzazione vera e propria del commercio, si trova quindi la strategia Portoghese, con tutte le possibili incongruenze del caso. Su tutte, la contraddizione più notabile è quella per la quale ad essere depenalizzato è esclusivamente il consumo di droga, mentre non viene in alcun modo normata la modalità di acquisizione delle sostanze, facendo sì che la grande parte della popolazione possa

rivolgersi al mercato illegale, con tutte le complicazioni annesse al caso. In tal senso il SICAD ha dichiarato che la nazione vuole prendersi tutto il tempo necessario per valutare un’opzione di legalizzazione vera e propria, attendendo dati statistici in merito e altri studi che ne possano supportare la validità della misura. Ad ogni modo il modello del Portogallo ha significato un vero punto di svolta in merito alla questione della tossicodipendenza, al punto che sempre più istituzioni stanno prendendo provvedimenti nella stessa direzione dell’ex governo portoghese. Tra queste vi è la Norvegia, mossa dal suo grande fardello di morti per droga, che a febbraio dello scorso anno ha inviato in Portogallo dei membri della Commissione Salute del Parlamento per osservare da vicino l’applicazione della legge 30/2000 con l’idea di trapiantarla in patria. La strada, da qui in futuro, è tutta da disegnare.

di Simone Massari

Contesto e recupero Per quanto riguarda la riabilitazione, mentre tutta l’Europa fatica ad indurre al trattamento, in Portogallo il numero delle persone che seguono una terapia sostitutiva è raddoppiato rispetto al passato. Nel 2016, in Inghilterra la Royal Society for Public Health riportava che di fronte all’eventualità di affrontare un problema di dipendenza da sostanze illegali solo un ragazzo su dieci dichiarava di aver fiducia nell’affidarsi ai trattamenti dei centri di recupero. Uno dei principali deterrenti all’intrapresa di un percorso riabilitativo è il timore di eventuali ripercussioni legali e stigmatizzazioni morali. Chiunque, in un paese proibizionista, non si sentirebbe accolto da uno Stato che criminalizza i suoi disturbi da dipendenza. In Portogallo il percorso si compie attraverso i vari centri CAT (strutture per il trattamento delle tossico-

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O TEMPORA Le opportunità, le sfide e le contraddizioni del cambiamento tra medicina, scienza e politica A distanza di quasi vent’anni dal suo avvento, la statistica cardine attraverso la quale è più utile leggere gli effetti della riforma portoghese, è, prim’ancora che di natura giuridica o economica, di natura medica. Rispetto alla condizione lusitana di allora, e soprattutto all’attuale condizione della media europea, i dati medici sul presente del Portogallo verificano un dato che ha cominciato a rivoluzionare l’approccio della politica globale in materia: la depenalizzazione del consumo non violento di droga riduce il danno medico-sociale derivato dal suo utilizzo. Così, nel giugno del 2011, un gruppo transnazionale di politici ed intellettuali, riuniti nella Global Commission on Drug Policy, pubblica un rapporto sullo stato e l’efficacia delle misure inaugurate nel 1961 dalla Single Convention on Narcotic Drugs, evidenziando come “l’investimento economico nella criminalizzazione e nelle misure repressive dirette nei confronti dei produttori, dei trafficanti e dei consumatori di sostanze illecite abbia fallito nell’obiettivo di diminuire la domanda ed il danno derivato il consumo di droga”. La

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commissione raccomandava, altresì, di “porre fine alla criminalizzazione e alla stigmatizzazione delle persone che consumano droga senza arrecare danni a soggetti terzi”, incoraggiando l’adozione di misure alternative al proibizionismo. L’anno precedente le stesse posizioni erano state condivise dal relatore speciale per il diritto alla salute delle Nazioni Unite, Anand Grover, e da Fiona Godlee, attuale caporedattore del British Medical Journal. Queste pubblicazioni segnano un punto di svolta nella trattazione del problema sulle droghe, specializzando la discussione verso orizzonti diversi da quelli considerati a partire dagli anni ’60 del Novecento. Mosse dalla constatazione degli effetti avversi prodotti dalle leggi esistenti in materia, e supportate dalla presenza di statistiche incoraggianti rispetto l’esistenza di modelli alternativi, sempre più istituzioni scientifiche cominciano a produrre studi e ricerche in merito: il mondo medico si ritrova ad incarnare, in questi anni, il più consistente contributo all’avanzamento del dibattito istituzionale in merito alle politiche sulla droga.

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Nel 2012 esce allo scoperto Richard Horton, editore del Lancet, ammettendo che “finché continueremo a vedere il consumo di droga come una questione criminale e non sociale, continueremo a peggiorare la vita di coloro vengono a contatto con la droga, anziché migliorarla”. Gli fanno seguito nel 2014 le parole dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, e nel giugno 2015 quelle dell’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che statuisce la necessità di considerare alternative alla criminalizzazione e all’incarcerazione dei consumatori di droga. Nel 2016, la Royal Society for Public Health divulga il rapporto “Taking a new line on drugs”. La prefazione, a cura della dottoressa Fiona Sim OBE - ex direttore della RSPH - e del professor John Middleton - presidente della Faculty for Public Health - riprende le posizioni di Richard Horton, mettendo in luce come durante il ventesimo secolo il discorso sugli stupefacenti sia stato dominato “dal mantra che l’utilizzo di droga costituisse, anziché una questione di medica, un’attività criminale”, amplificando il danno derivatone. A conti fatti, il meccanismo del danno si innesterebbe “attraverso un gradiente etnico e socio-economico”, facendo in modo che l’uso di sostanze illecite “peggiori le disuguaglianze sanitarie, alimentando lo stigma del casellario giudiziario, la violenza e la disgregazione sociale”. Nel 2018, in una dichiarazione rilasciata al British Medical Journal, segue l’endorsement del Royal College of Physicians, uno dei maggiori e più influenti enti medici del Regno Unito. Ma lo stesso anno il BMJ, in un editoriale a firma della medesima Fiona Godlee incontrata poco sopra, si spinge oltre. Strade differenti Il contenuto dell’articolo del BMJ eccede di gran lunga il concetto di depenalizzazione. La teoria, riassunta dal titolo dell’editoriale, è che le droghe, tutte, vadano “legalizzate, tassate e regolate”. Il concetto, ad ogni modo, non è nuovo. La sesta edizione del rapporto annuale della GCDP, edita nel 2016, dedica un capitolo - seppur di sole due pagine - alla materia in questione. Anche in questo caso la titolistica (“Regulating drugs market: the logical next step”) è riassuntiva del contenuto. La tesi della GCDP raccoglie le problematicità e le incertezze metodologiche evidenziate nell’analisi del modello portoghese, sostenendo che seppur conveniente rispetto alle attuali misure in materia di droga, “nell’ambito di un sistema di decriminalizzazione, la società è ancora vulnerabile agli effetti negativi del commercio illegale ed i consumatori di stupefacenti sono sottoposti ad un importante fattore di rischio, dovendo navigare nelle incertezze di un mercato illecito e non regolato”.

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Il BMJ, per mezzo delle parole del suo esperto in materia, Richard Hurley, ci ha sottolineato l’importanza di questo tema. Partendo dalle dichiarazioni del direttore dell’International Narcotics Control Board delle Nazioni Unite, secondo il quale la depenalizzazione dell’uso di droga, come ha fatto il Portogallo nel 2001, rappresenta la “migliore pratica” considerando che l’uso di droghe non sembra aumentare in modo sostanziale con questo cambiamento di politica, il dottor Hurley ci ha spiegato come il BMJ “concordi sul fatto che la depenalizzazione dell’utilizzo di droga sia essenziale, ma senza mercati di approvvigionamento regolamentati, i consumatori comprerebbero ancora droghe non regolamentate di contenuto e purezza sconosciute da reti criminali violente (…). Passare a mercati controllati legalmente è più controverso, ma soprattutto per la cannabis ci sono state alcune richieste di alto profilo. Altre giurisdizioni hanno mercati legali della cannabis, incluso il Canada dalla scorsa estate, e dovremmo valutare l’impatto di questa riforma sul danno”. 13


D’altra parte “è importante notare che queste riforme non saranno sufficienti da sole; sono semplicemente stimolanti: anche l’investimento in sufficienti servizi pubblici di istruzione e trattamento è necessario”. L’idea, della legalizzazione, considerando queste opinioni, è tra le più intriganti. Sulla carta, le ipotetiche conseguenze della sua applicazione - non diverse da quelle solitamente citate nell’ambito delle proposte di legalizzazione della cannabis, unica sostanza per la quale il discorso qui in atto è stato completamente sdoganato - potrebbero offrire soluzione ad una variegatissima moltitudine di problematiche legate da decadi al consumo di droga.

Esse potrebbero - a grandi linee e con la dovuta precisazione delle limitatezza di questa suddivisione - essere riassunte in due categorie: quella comprendente i benefici di natura medico-sociale, e quella raggruppante i vantaggi di natura politica e giuridica. Da un lato si fa ritorno al discorso col quale si è aperta questa sezione, con la possibilità di controllare le sostanze messe in commercio e diminuendo il danno derivato da procedimenti produttivi controllati ad oggi 14

dalla malavita e finalizzati in unica istanza a massimizzare il profitto derivato dal mercato illegale. Questo, assieme alla cessazione del procedimento iconografico che ha legato la figura dell’utilizzatore di droga a quella del criminale (con tutti i suoi annessi aspetti di natura penale, ivi compreso il rischio di incarcerazione) faciliterebbe l’avvicinamento del soggetto ad un percorso di recupero, minimizzando l’impatto sociale ed economico della questione del consumo di droga. Le conseguenze giuridiche e politiche affetterebbero due direzioni, quella della lotta alla criminalità e quella riguardante la situazione processuale e carceraria (la legalizzazione contribuirebbe a snellire la popolazione carceraria ed i tempi e le spese legate ai processi giuridici per uso e spaccio di droga). Il primo punto contiene due riflessioni. Senza dubbio, la più considerata è quella per la quale grande parte dell’importo globale derivato dal commercio illegale di droga (234 miliardi di sterline al 2018) affluirebbe dai forzieri della criminalità organizzata nelle singole casse demaniali, con la conseguenza di diminuire ricchezza e potere economico delle organizzazioni criminali e la pericolosità derivata dal loro operato (solo in Messico le morti dovute al narcotraffico si attestano sopra le 8000 annue dal 2009, con picchi superiori alle 12000 nel triennio 2010-2012). La seconda riflessione riguarda la possibilità di spezzare il già citato connubio che ad oggi lega il consumatore di droga ad un ecosistema di diffusa illegalità (segnato, per fare due esempi, dalla necessità di delinquere per permettersi le sostanze e da quella di consumare queste ultime in luoghi privi di qualsivoglia sicurezza come lo stabile abbandonato nel quale è deceduta Desirèe Mariottini). Questo, almeno idealmente. Nella realtà, in cosa si tradurrebbe concretamente questa riforma? Tradurre la teoria Storicamente, procedendo nuovamente in maniera dialettica ed eludendo la questione etico-morale, le obiezioni alla legalizzazione delle droghe sono state di due ordini: la convinzione della assoluta incompatibilità economica dello stato rispetto alla criminalità organizzata nell’ambito della prezzatura delle sostanze in vendita, e la difficoltà nell’elaborare una effettiva metodologia pratica di messa in vendita delle sostanze. La questione dell’elaborare una modalità con la quale il mercato di droga possa essere aperto alla comunità non è affatto banale, al punto che dal BMJ, alla domanda su come debbano strutturarsi i posti deputati alla vendita delle sostanze e le loro modalità di acquisizione, il dottor Hurley ci fa notare l’impossibilità di “immaginare una soluzione unica ai problemi complessi rappresentati dalle singole droghe”. Ancora una volta,

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il criterio decisionale è quello della minimizzazione del danno e la politica operativa dovrebbe “dipendere dalla singola sostanza”. “Dovremmo considerare”, ci dichiara Hurley, “le prove derivate dai vari modelli di regolare le droghe ad oggi legali come tabacco, alcol e caffeina”, di fondo, per ognuna di queste molecole psicoattive, la giurisdizione è diversa: “al momento nel Regno Unito i maggiorenni possono acquistare l’alcol nei negozi e questo è tassato, ma alcuni farmaci sono disponibili solamente con l’approvazione di un dottore (…). Esistono esempi internazionali di rivendite di cannabis e di dottori che prescrivono eroina a scopo medico (riferimento alla terapia svizzera HeGeBe - NdR)” . Simili considerazioni seguono sulla possibilità di registrare gli acquirenti o di restringere l’accesso al mercato a parte della popolazione in funzione dell’età e della condizione fisica: ugualmente, questa possibilità dovrebbe dipendere dalla sostanza, anche se la vendita di alcune “potrebbe essere disponibile solamente per mezzo di una prescrizione medica” mentre “l’accesso al mercato dovrebbe certamente essere vietato ai bambini e la pubblicizzazione del consumo non dovrebbe essere consentita”. Di fronte alla questione sull’appropriatezza medica di limitare la vendita di specifiche categorie di sostanze capaci di sortire effetti collaterali al di fuori della loro emivita a specifiche categorie di lavoratori come medici o piloti, dal BMJ ci evidenziano come il problema non debba nemmeno potersi porre. Stante l’effettiva possibilità di sviluppare sindromi psicotiche e disturbi persistenti da allucinogeni, “attualmente alcuni lavoratori come medici e piloti sono già soggetti a regole stringenti in merito all’assunzione di droghe (compreso l’alcol), a controlli medici e a test antidroga regolari e casuali. Questo non ha nulla a che fare con il fatto che il rifornimento di droga sia regolato o meno e non è necessario mutare questo sistema di controllo (…)”. D’altronde, fa eco il radicale Marco Perduca su questo tema, “sappiamo che tanta gente che lavora in borsa fa uso di cocaina, qualcuno ha mai fatto uno studio su quanto guadagna un trader per sé stesso e per i suoi cliente se fa o non fa uso di cocaina? Ci sono delle leggi che proibiscono la guida in stato di ebbrezza, è chiaro che queste leggi rimarranno (...). Andranno regolamentate ulteriormente le situazioni di possibile rischio per chi assume queste sostanze e per le persone con cui sono costretti ad interagire per motivi professionali (…). Saranno inseriti dei meccanismi onde evitare il pericolo per gli altri a seguito di una libera scelta”. La questione di ordine economico può essere affrontata a partire dalle parole del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri - pronunciate all’indomani

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dell’endorsement a favore della legalizzazione della cannabis di un altro magistrato, l’allora procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco de Roberti -, che in un’intervista a Repubblica, mise in risalto che “le mafie per coltivare canapa o importarla dall’estero non pagano luce, acqua e personale, se lo Stato legalizzasse invece dovrebbe assumere operai, pagare acqua, luce, il confezionamento, il trasporto. (...) Solo in pochi si rivolgerebbero al mercato ufficiale, altri preferirebbero il mercato nero.” La preoccupazione è che nell’ambito di un sistema che veda legalizzate tutte le sostanze lo stesso problema possa ripresentarsi, acuendosi. Difatti, specie considerando sostanze quali le droghe sintetiche ed i derivati di cocaina ed eroina, ai costi elencati pochi attimi fa si dovrebbero sommare quelli derivati dalla produzione e dalla raffinazione della droga in ambiente sicuro e con l’utilizzo di sostanze e precursori non tossici. Voci di spesa che ad oggi la criminalità organizzata riesce a minimizzare proprio attraverso l’abuso di composti di raffinazione estremamente nocivi. 15


Il futuro Più di questo, ad oggi, non si può dire. Se però, sulla base delle idee costruite sino a questo punto e delle nostre - davvero povere - competenze, volessimo sbilanciarci nell’indicare una strada, lo faremo indicando l’ignoto. Se è vero che non abbiamo dati sui possibili effetti di un’eventuale legalizzazione di tutte le sostanze ora catalogate come droga (e fermo restando la grande dipendenza dall’efficacia di una riforma del genere dalle sue effettive modalità di attuazione), è anche vero che esistono migliaia di dati sugli effetti del proibizionismo e della criminalizzazione dei consumatori di droga, e tutti evidenziano l’emergere di un quadro profondamente fallimentare. Giunti a questo segno non resta che cercare nuove strade.

Nell’ordinamento italiano, la legge che regola il consumo e lo spaccio di droga è la legge 309 del 1990, che prevede per il possesso di quantità per uso personale il doversi presentare in caserma per la firma quotidiana e dover partecipare a dei corsi di recupero e riabilitazione, indipendentemente dalla tipologia di sostanza con la quale si viene trovati in possesso. In origine il sistema differenziava le sostanze illecite in droghe leggere e pesanti, indicando una pena da uno a tre mesi di questo regime per le prime, e dai due ai quattro per le seconde. Con la 309 si unificò il quadro normativo, prevedendo una pena tra un mese e un anno per tutte le droghe. Questa linea fu proseguita dall’emendamento Fini-Giovanardi del 2006, che equiparava lo spaccio di tutte le sostanze. L’emendamento fu poi dichiarato incostituzionale dalla Corte di Cassazione nel 2014. Stefano Cucchi fu fermato mentre questo era ancora in vigore.

di Adriano Bordoni, con la collaborazione di Anna Laura Lozupone Da parte del dottor Hurley, però, la raccomandazione è quella di non accelerare troppo nel voler trarre delle conclusioni, e difatti la decisione sul come implementare un sistema di questo tipo nel miglior modo possibile “dovrebbe essere basata su delle prove (...). I prezzi e l’accesso alla vendita delle sostanze dovrebbero essere regolati in modo da causare meno danni al consumatore, in linea con le prove raccolte”. A conti fatti, le persone “non sceglierebbero di assumere sostanze impure e di scarsa qualità se informati della disponibilità di droghe di qualità e dosaggi certificati”, inoltre, come già sperimentato in Svizzera, “non è detto che debba esserci un costo per il consumatore, ad esempio, i pazienti con dipendenza da eroina potrebbero ottenere la droga dietro prescrizione medica, con la possibilità di ottenere consiglio medico e ricevere un trattamento”. Ma Perduca aggiunge altro: “Ancora oggi c’è comunque un contrabbando di sigarette. Prendiamo ad esempio dei posti in cui la legalizzazione delle droghe leggere è avvenuta: Colorado e California. Nei quartieri poveri del Colorado, dove nessuno apriva negozi è rimasta una presenza di mercato nero. La gente non va in centro a comprare la roba ma dietro casa più meno allo stesso 16

prezzo, magari con una qualità peggiore. Il modo con cui uno distribuisce i punti vendita ha una sua rilevanza (…). La California è andata oltre: ha provato a convincere chi già commerciava illegalmente a cominciare a farlo legalmente. Lo spacciatore, che ha una sua clientela ha delle facilitazioni per aprire un negozio nella sua zona e iniziare a commerciare cannabis legale. In maniera intelligente bisogna evitare che la gente che vive nella criminalità continui a farlo: non va opposta all’ideologia proibizionista l’ideologia antiproibizionista, perché sennò si passa dal monopolio della criminalità organizzata all’oligopolio dei grandi gruppi.” La sensazione, data anche dalla novità assoluta della riforma proposta e dalla conseguente mancanza di dati effettivi attraverso i quali leggere gli scenari che potrebbero presentarsi, è quella di navigare a vista. Ovvero, che date tutte le necessarie riflessioni iniziali, la prova del nove possa essere costituita solo da una reale sperimentazione pratica, sulla base della quale, ancora secondo le parole del BMJ, “la situazione e le evidenze raccolte dall’operato dei vari mercati dovrebbero essere monitorate, spingendo la politica a cambiare laddove fosse necessario.”

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I CONSIGLI DEL LIBRAIO

PUNTO SCUOLA Viale dei Promontori, 68, 00122 Roma RM

“Duty free art L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria” di Hito Steyerl Editore: Johan & Levi

Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città

CLAUDIANA

“Cucinare un orso” di Mikael Niemi Editore: Iperborea

LA LIBROLERIA Via della Villa di Lucina, 48, 00145 Roma RM

“Devo scegliere chi sognerà per me” di Romana Petri con illustrazioni di Fabio Delvò Editore: RRose Sélavy

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Anna consiglia: La ricerca scientifica più avanzata di oggi, vista con gli occhi di un umanista che capisce che ormai il mondo è degli scienziati, ma non arriva a capirne il motivo; il motivo è che per lo scienziato il sapere è uno e completo, formato dalla cultura scientifica e da quella umanistica insieme, mentre l’umanista non sa nulla di cultura scientifica e vede solo metà di ogni problema e di ogni soluzione.

IL TOMO Via degli Etruschi, 4, 00185 Roma RM

“Essere una macchina” Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte di Mark O’Connell Editore: Adelphi.

Rossella consiglia: Un romanzo ambizioso, frutto di una ricerca scrupolosa sulla figura del pastore luterano Lars Levi Laestadius, vissuto tra Svezia e No rvegia nella prima metà dell’Ottocento. Promotore di un fervente Risveglio popolare ed eccellente botanico, il pastore Laestadius indaga, da scienziato qual è, su di un inquietante delitto tra le nevi, in compagnia del fedele Jussi. Forze incontrollate della natura o cieca violenza umana? La scrittura poetica ed incisiva di Niemi rende difficile abbandonare la lettura

Piazza Cavour, 32, 00193 Roma RM

Paolo consiglia: Videoartista contemporanea, Hito Steyerl è anche autrice di articoli e libri che esplorano i rapporti tra arte e politica. In questo volume, il primo pubblicato in Italia, l’indagine si focalizza sui musei e le ragioni dei governi di proporre l’arte, sul valore delle istituzioni artistiche, i mercati e soprattutto, il consumo. In queste pagine Steyerl va alla ricerca di una strategia di contrattacco e resistenza con la quale l’artista possa infine liberarsi dal servire una causa o un padrone.

Michele consiglia: Il vecchio solido mondo sta crollando, seguendo un progetto ineluttabile il cui disegno ci è ancora oscuro nella sua totalità. Per abbandonare ciò che crolla, l’unico modo è trovare la porta verso il futuro.

“La società della performance. Come uscire dalla caverna” di Maura Gancitano e Andrea Colamedici Editore: Edizioni Tlon

Viale Gorizia, 29, 00198 Roma RM

Paola consiglia: “Gli squali” di Giacomo Mazzariol Editore: Einaudi

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Via Federico Nansen, 14, 00154 Roma RM

TRA LE RIGHE

Roberto consiglia: Romana Petri ci porta dentro la storia di un giovane Jack London e dentro isuoi sogni. “Devo scegliere chi sognerà per me. Lo dice Buck, un cane che il piccolo Jack sogna tutte le notti. Si incontrano nei sogni, ma poi, come accade nei desideri e nelle belle storie, il fantastico si trasforma in realtà.” Questi sogni e Buck aiuteranno il giovane Jack a diventare il famoso autore di Zanna Bianca.

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Il libraio vi augura una buona lettura 19


Una cartolina di governo L’immagine della collaborazione tra M5S e Lega attraverso un’analisi della spinosa vicenda che coinvolge l’Europa riguardo la bocciatura del DEF e il Decreto sicurezza firmato Salvini

AT T UA L I TÀ

Sono passati quasi 9 mesi dalle turbolente elezioni del 4 marzo, si è assistito a un processo di quasi 4 mesi di formazione del governo, raggiunta con la peculiare forma del contratto. E sono arrivati i primi decreti, tra cui spiccano in tema lavoro il decreto dignità, nella gestione dell’emergenza di Genova un decreto a suo nome (che ospita anche un condono per Ischia), in tema sicurezza un apposito decreto voluto da Salvini. C’è stata anche la presentazione del Documento economico e finanziario con la Legge di Bilancio, elemento cardine nell’amministrazione di uno Stato, che ha mostrato chiaramente cosa intende la compagine del premier Conte quando parla di Stato sovrano. E si aggira anche, in questa Italia che “ha ritrovato la sua voce” uno spettro legato ad un certo cambiamento di percezione, molto sottile, legato all’identità dell’uno, in relazione a quella dell’altro: il cardine è la questione della Sicurezza.

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N

ell’Italia sovrana è il debito a regnare Ma cosa vuol dire che questa Italia è sovrana? Questa definizione passa ovviamente dai rapporti con l’Europa. Il governo a giugno ha firmato con essa il consueto Patto di Stabilità, assumendosi degli impegni. Il PSC (Patto di Stabilità e Crescita) è risalente al 1997 e ha la funzione di controllare i bilanci pubblici dei paesi membri. In Italia è parte dell’articolo 81 della Costituzione dal 2012, con la legge costituzionale approvata in Parlamento durante il governo Monti. Impone di mantenere un rapporto deficit/ PIL inferiore al 3%, e il rapporto debito pubblico/PIL sotto il 60%. Il rapporto deficit/PIL dell’Italia concordato nel PSC è di 1,6%, con una tolleranza iniziale nell’eccesso, da parte dell’Europa, di 0,3/0,4%. Il DEF è il principale documento di programmazione economica e politica che ogni Stato è tenuto a presentare all’UE nel rispetto del Patto di Stabilità. Comprende tutte le proposte, le riforme, gli obiettivi del governo stesso. In tale documento, ultimato dal Consiglio dei Ministri il 15 ottobre, sono compresi il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza, in partenza da marzo e gennaio-febbraio 2019, il superamento della legge Fornero con quota 100 alle pensioni, la pace fiscale, l’avvio della flat tax per partite iva al 15% fino a 65 mila euro e l’aliquota al 20% per redditi eccedenti fino a 100mila euro dal 2020 (per le famiglie partirà dal 2021); il decreto milleproroghe, risorse alle scuole e altro ancora. Nel Def, il temuto rapporto fra deficit e PIL è del 2,4%, ben eccedente quello concesso. I 22

membri del governo hanno ritenuto necessario aumentare il debito per realizzare le promesse fatte in campagna elettorale. L’Europa non ha gradito e la risposta non ha tardato ad arrivare. Le oscillazioni dei mercati e la risalita dello spread hanno accolto una lettera dai toni duri che descrive la devianza italiana come «senza precedenti nella storia dell’Unione»: Bruxelles richiede a Roma cambiamenti sostanziali alla legge di bilancio, tramite la firma di Pierre Moscovici, commissario agli affari economici UE, in data 19 ottobre. Ma la vera bocciatura arriva il 31 ottobre, da parte della Commissione europea che impone all’Italia di formulare una proposta nuova entro il 19 novembre, bocciata nuovamente due giorni dopo: da lì, la possibilità di avanzare un’accusa formale nei confronti dell’Italia per eccesso di debito. La risposta italiana è giunta puntuale, e ha indicato chiaramente la volontà di non cambiare direzione: «la manovra per quanto ci riguarda non cambia né nei saldi né nella previsione della crescita, perché è nostra convinzione che questa manovra è quello che serve al Paese per ripartire», afferma Di Maio al termine del CdM, come ha riportato il Sole 24 Ore. Ed eccoci al punto. Sovrana significa padrona, che ha il potere di disegnare il suo cammino, la sua ripartenza. Significa che in virtù del contratto di governo, l’esecutivo ha il diritto di agire come meglio crede, ovvero di non rispettare gli impegni presi con l’UE perché quelli presi con i cittadini sono essenziali per la sua sopravvivenza. E spunta un principio nuovo a tutela dei conti: nelle lettera indirizzata a Bruxelles: «Per accel-

erare la riduzione del rapporto debito/PIL [...] il governo ha deciso di innalzare all’1% del Pil per il 2019 l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico. Gli incassi costituiscono un margine di sicurezza» pari a 18 miliardi e si ribadisce il prospetto della riduzione del rapporto debito pil a 126,7% nel 2021, rispetto al 131 attuale; e si conferma una crescita del pil dell’1,5%. Le previsioni sono dunque più che rosee.

Di Maio aveva parlato al Financial Times il 4 novembre dell’Italia come «un modello espansivo per tutti in europa» nella riduzione del debito (aumentandolo, per quanto sembri paradossale), ovviamente se si avvereranno le rosee previsioni del governo. Nella lettera spunta il principio di privatizzazione del bene pubblico come tutela da «shock macroeconomici» per evitare che il rapporto deficit pil aumenti oltre il 2,4%. Ma un rapporto ISTAT evidenzia come il rapporto deficit/PIL del 2,4% - la causa della controversia - sia in realtà del 2,6%, complicando ulteriormente le carte in tavola. In ogni caso appare chiaro quanto Di Maio e compagine stiano abdicando alla loro vocazione per il bene pubblico, e se la linea del governo pare essere a guida leghista nel fronte inter-

no, è compatta sui rapporti con l’Europa. Non vuole rispettare i limiti designati e proporrà, probabilmente, di estenderli. Infatti, il ministro per gli Affari Europei Savona ha presentato in ottobre un piano alternativo per l’Europa in cui mette in discussione i caratteri fondamentali di Maastricht, ad esempio il muro del 3% del rapporto deficit/PIL. A favore della sua tesi sull’inadeguatezza delle restrizioni europee, il rapporto del Fondo Monetario Internazionale del 2017 sull’Eurozona spiega che praticamente nessuno rispetta l’obbligo di mantenere il rapporto fra debito pubblico e pil sotto il 60%: «due terzi dei paesi non lo fanno, con infrazioni gravi» si legge nel rapporto. C’è da considerare che c’è un processo storico in atto (quello del sovranismo e del ritorno al protezionismo economico, come ha dichiarato recentemente le stesso Steve Bannon, promotore della campagna di Trump e “coordinatore” dei sovranisti europei) che appare minare i fondamenti dell’Unione, o quanto meno, cambiarli. L’arma dell’UE per far rispettare il contenimento del debito consiste nell’avviare un processo di infrazione, vale a dire ciò che rischia l’Italia, che si articola in due punti: viene creato in un primo momento un fondo infruttuoso in cui si deposita dallo 0.2 allo 0.5% del PIL (dai 3 ai 7 miliardi, per noi); e in un secondo momento, se non si sana la situazione di discordia, andrà pagato il corrispondente di tale fondo. La strada intrapresa dal governo sembra però decisa a non cambiare e, anzi, come evidenziato prima, a rivoluzionare i fondamenti degli accordi europei.

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La squadra guidata da Conte sembra tuttavia non tenere conto di alcune problematiche sulla manovra di governo che il Fondo Monetario Internazionale rivela in un monito ad hoc per l’Italia: le prospettive non sarebbero più così rosee. L’FMI prevede una crescita italiana «di circa l’1% nel 2018-2020» (quella prevista dal governo è dell’1,5%) e costantemente in calo negli anni successivi. «Il deficit complessivo del 2019 è previsto al 2,75% del Pil. Per il 2020-2021 è stimato al 2,82,9%» e si segnala come i fondi compensativi, come quello derivato dalla volontà di privatizzare il bene pubblico per 18 miliardi, si siano rivelati «difficil[i] da attuare in passato». La stroncata

L’arma dell’UE per far rispettare il contenimento del debito consiste nell’avviare un processo di infrazione. arriva anche sulla riduzione della percentuale del debito pubblico, prevista dal governo in 5 anni di circa 4 punti percentuali, stimata invece invariata dall’FMI. Qualsiasi shock, inoltre, aumenterebbe il debito trasformando «un rallentamento in una recessione», e l’aumento dello spread rischia di annullare la possibile crescita. Ed è un’ironia della sorte il fatto che il nostro governo sia sovrano nell’aumentare il debito alla faccia della Europa, e che tale debito, in realtà, non sia sotto il

suo controllo. E’ infatti il governo stesso a dipendere dalle sue sorti, e questo, ci fa pensare che sia proprio il debito ad essere sovrano sull’Italia. Pensavo fosse amore e invece era un contratto Aver intrapreso tale strada, con le problematiche di cui sopra, comporta per il momento l’unità di governo. Il contratto deve essere rispettato. Ma si stanno creando delle asimmetrie importanti tra le due parti: la pace fiscale, con la denuncia della manina fatta da Di Maio, ha rischiato di aprire una crisi di governo; sul DdL sicurezza a nome Salvini componenti del M5S hanno espresso contrarietà; e la questione degli inceneritori ha fatto alzare i toni dei due vicepremier. Senza considerare gli indici di gradimento che danno a Salvini sempre più soddisfazione. A 5 mesi dalla sottoscrizione del contratto si sono definiti i contorni dell’Italia sovrana. Il M5S ha una flessione negli indici di gradimento, come emerge dall’ultimo sondaggio Index (sull’intenzione di voto) che attesta un indice al di sotto del 27%. Complice la non felice figura di Di Maio da Vespa, le fronde interne che minano la compattezza “da testuggine romana”, come richiesto ai suoi dal vicepremier pentastellato, la gestione bolscevica del partito, che non accetta il dissenso interno, e qualche scivolone di troppo, a turno tra Toninelli, Di Maio, Casalino e qualche dichiarazione indigesta del guru Grillo. L’approvazione di Tap e Tav ha inoltre tradito le promesse fatte a una buona parte degli elettori. I prospetti dell’FMI sopracitati, se considerati, potrebbero minare ulteriormente la fiducia 23


nel governo. Ma la Lega intanto cavalca l’onda, fagocita l’intera destra berlusconiana, che si ferma al 7%, e si attesta un 33% che, obiettivamente, è un risultato strepitoso. Salvini è il politico più gradito con il 52%, un terzo degli italiani voterebbe il partito da lui guidato. Il punto è che il contratto, sinonimo di potere, ha valore finché ciascuna delle due parti ha necessità dell’altra per governare. E il governo appare unito contro l’Europa e scollato nel fronte interno, dove una delle parti spicca sull’altra. Sicuramente, finora, se dovessimo fornire un’immagine della coppia di governo li rappresenteremmo come due separati in casa. Di Maio apparirebbe con le braccia conserte, lo sguardo basso e il volto un po’ emaciato, mentre il suo collega Salvini con un bel sorriso, la solita polo della Marina fieramente indossata. Dalla soddisfazione dipinta sul volto è facile, per noi che guardiamo, dedurre che il governo è decisamente più legastellato che a tinte gialloverdi. E per l’Italia sovrana non si intende solo l’ergersi di un muro con l’Europa, ma anche la gestione del proprio suolo, dove il decreto sicurezza spicca per importanza, e porta, assieme al nome di Matteo Salvini, uno spettro per l’Italia.

Il punto è che il contratto, sinonimo di potere, ha valore finché ciascuna delle due parti ha necessità dell’altra per governare. 24

E per l’Italia sovrana non si intende solo l’ergersi di un muro con l’Europa, ma anche la gestione del proprio suolo, dove il decreto sicurezza spicca per importanza, e porta, assieme al nome di Matteo Salvini, uno spettro per l’Italia. Il verbo si è fatto carne L’altra grande partita del “governo del cambiamento”: l’approvazione al Senato del Decreto Sicurezza arriva come esito ultimo di una politica sull’immigrazione che, dal giorno dell’insediamento, è stata al centro del programma della Lega e che il suo leader Matteo Salvini in questi mesi ha potuto condurre liberamente non trovando alcuna forma di opposizione dagli alleati di governo pentastellati, né dal punto di vista politico né da quello legislativo. La campagna di tweet e chiusura dei porti ha accompagnato in questi mesi l’iter legislativo del Decreto Sicurezza su cui il 7 novembre il Senato ha confermato la fiducia al governo con 163 sì e 59 no. La questione di fiducia sul decreto ha aperto questioni politiche profonde, in quanto posta su un maxi-emendamento che, presentato dal governo all’ultimo momento, ha sostituito integralmente il testo

rispetto a quello approvato dal Consiglio dei Ministri; e sul quale sono stati respinti tutti gli emendamenti presentati in aula, eliminando la normale dialettica parlamentare e non permettendo alcuna modifica al testo.

A Guinea 810 /B Mali 876 /C Costa d’ Avorio 1050 /D Algeria 1170 /E Nigeria 1250 /F Pakistan 1512 /G Sudan 1619 /H Iraq 1667 /I Eritrea 3087 /L Tunisia 4.998

Venendo al contenuto della riforma, le modifiche disposte dal Decreto Sicurezza interessano tutti i momenti e le vicende dell’immigrazione; dal momento di arrivo dello straniero sul territorio italiano alla valutazione della sua domanda d’asilo fino alla sua espulsione o integrazione. Cosa cambia, quindi, con il Decreto Sicurezza? Gli interventi risolveranno “l’emergenza migranti”? Hotspot: “conosci il tuo nemico” Lo straniero, una volta raggiunto il suolo italiano, viene direzionato ai centri per l’identificazione, i cosiddetti Hotspot. In Italia ce ne sono sei, di cui attivi quattro nelle città di Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Taranto. In questi centri le Forze dell’Ordine procedono a registrare i dati personali dei richiedenti asilo mentre coloro che si rifiutano di essere identificati vengono trasferiti nelle strutture detentive in Scomodo

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attesa di rimpatrio. Trattandosi di strutture in cui gli immigrati versano in uno stato di detenzione, le procedure devono essere svolte in 48 ore prorogabili massimo a 72.

Lo straniero, una volta raggiunto il suolo italiano, viene direzionato ai centri per l’identificazione, i cosiddetti Hotspot. In Italia ce ne sono sei, di cui attivi quattro nelle città di Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Taranto. Il Decreto Sicurezza estende il periodo di trattenimento per l’identificazione a 30 giorni. Tale estensione presenta due profili di problematicità: uno di tipo costituzionale, in quanto si priva i richiedenti asilo della libertà personale per un periodo decisamente sproporzionato a quello necessario per le pratiche di identificazione. Il secondo è invece di carattere strutturale per l’inadeguatezza degli Hotspot, ideati per essere di “transito” e non per ospitare i richiedenti così a lungo. Protezione ed accoglienza: una “nuova” forma Successivamente all’identificazione, la Commissione Territoriale competente valuterà se il richiedente sia meritevole di protezione e del conseguente permesso di soggiorno. Scomodo

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Esistono tre forme in cui la protezione può essere concessa.

A Richiesta asilo 440 /B Dublino 287 /C Rifugiato 35 /D Protezione sussidiaria 135 /E Protezione umanitaria 43 /F Richiesta asilo ricorrente 146 /G In attesa di formalizzare 194

Il primo, lo status di rifugiato, è una forma di protezione internazionale ed è riconosciuto a qualsiasi persona che nel proprio paese di origine o nel paese in cui vive «rischia persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche» Tra le persecuzioni sono comprese la violenza fisica o psichica, la violenza sessuale, il reclutamento dei bambini-soldato, le pratiche dei matrimoni forzati e anche le mutilazioni genitali femminili. Dà diritto ad un permesso di soggiorno di 5 anni rinnovabile senza ulteriori verifiche delle condizioni. La seconda forma di protezione internazionale è quella “sussidiaria”. Si tratta di uno status riconosciuto a chi è cittadino di un paese terzo o è apolide e «rischia di subire un danno grave» in caso di rientro nel proprio paese: rischia cioè di essere ucciso, di essere torturato o di subire le conseguenze di una situazione di violenza generalizzata e di conflitto. Dà diritto ad un permesso di soggiorno di due anni rinnovabile previa verifica delle condizioni.

La terza, la protezione umanitaria, è uno strumento legislativo nazionale e si affianca in via sussidiaria alle due forme di protezione internazionale quando queste non possono essere riconosciute. Tale protezione è concessa a persone che sono partite dal loro paese di origine per seri motivi di carattere umanitario e che possono essere vittime di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza, di mancato rispetto dei diritti umani, di carestie o di disastri ambientali o naturali. Il riconoscimento della protezione umanitaria ha dunque a che fare non solo con il paese di origine della persona che la richiede, ma con la sua storia personale, con il suo livello di vulnerabilità e con la situazione di rischio che quella persona corre. Dà diritto ad un permesso di soggiorno di un anno rinnovabile previa verifica delle condizioni. Nel 2017 in Italia sono state presentate 130 mila domande di protezione internazionale: il 52% delle richieste è stato respinto, nel 25% dei casi è stata concessa la protezione umanitaria, all’8% delle persone è stato riconosciuto lo status di rifugiato, un altro 8% ha ottenuto la protezione sussidiaria, il restante 7% ha ottenuto altri tipi di protezione. Il Decreto Sicurezza cancella la protezione umanitaria, principale forma di accoglienza del nostro paese, mentre al suo posto sarà introdotto un permesso di soggiorno per alcuni “casi speciali”, cioè per alcune categorie di persone: vittime di violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo, per chi ha bisogno di cure mediche perché si trova in uno stato di salute gravemente 25


compromesso o per chi proviene da un paese che si trova in una situazione di “contingente ed eccezionale calamità”. È previsto infine un permesso di soggiorno per chi si sarà distinto per “atti di particolare valore civile”.

Il Decreto Sicurezza cancella la protezione umanitaria, principale forma di accoglienza del nostro paese, mentre al suo posto sarà introdotto un permesso di soggiorno per alcuni “casi speciali” Il decreto dunque tipicizza i casi in cui potrà essere concessa la protezione in un numero chiuso e definito. Tale previsione va nettamente in contrasto con il principio per cui, in Italia, la domanda d’asilo è strettamente personale e va analizzata caso per caso, si può immaginare infatti come ogni domanda possa essere caratterizzata da diversi presupposti ed elementi, molti dei quali non potranno più essere presi in considerazione in quanto non espressamente previsti. Ma è con il maxi-emendamento inserito all’ultimo al Senato che il governo ha introdotto le novità e i cambiamenti più radicali sul tema del diritto d’asilo. È stato infatti aggiunto al decreto 26

l’articolo 7 bis che prevede l’istituzione di un elenco di “paesi di origine sicuri” e una “procedura per la domanda di protezione manifestamente infondata” in cui si stabilisce che il Ministero degli Esteri, insieme al Ministero dell’Interno e della Giustizia, rediga una lista di paesi di origine considerati sicuri sulla base delle informazioni fornite dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e da agenzie europee e internazionali. Il richiedente asilo che proviene da uno dei paesi della lista dovrà dimostrare di avere gravi motivi che giustifichino la sua richiesta di asilo e la sua domanda di asilo sarà esaminata con una modalità accelerata. Attualmente, a parte il Bangladesh, i paesi da cui provengono i richiedenti asilo in Italia versano tutti in uno stato di conflitto. L’articolo 10 del decreto che enuncia il principio del “volo interno in aree sicure”, se lo straniero proviene da un paese non considerato sicuro, ma c’è la possibilità di rimpatriarlo in alcune aree di origine dove “non si rilevano rischi”, la domanda di protezione internazionale è rigettata. Nel decreto non sono specificati i criteri che definiscono “sicura” un’area all’interno di un paese in conflitto né come questa possa effettivamente garantire l’incolumità dello straniero. Infine, si prevede, in via generale, che se il rifugiato tornerà nel paese d’origine, anche temporaneamente, perderà la protezione internazionale e quella sussidiaria. Inoltre sorge un dubbio sulla costituzionalità di tali previsioni. Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) al riguardo ha trasmesso, di recente, un parere negativo al Ministro della Giustizia per le ricadute che le

nuove norme avranno sul sistema giudiziario, precisamente per la condizione di incertezza dello status dello straniero e il possibile “incremento dei contenziosi che determinerà un ritardo nella tutela dei diritti fondamentali degli stranieri vulnerabili”. Un effetto certo del decreto sarà l’aumento dell’irregolarità e clandestinità degli stranieri in Italia: con l’abolizione della protezione umanitaria ai 70.000 irregolari già presenti se ne aggiungeranno altri 60.000 nel prossimo anno, per un totale di 130.000. Rimpatri: sono possibili? Per fronteggiare l’aumento degli irregolari il decreto aumenta i fondi a tal fine, stanziando l’irrisoria cifra di un milione e mezzo sia per il 2019 che per il 2020. In Italia infatti, esistono tre forme di rimpatrio: il ritorno volontario, il ritorno con mezzi propri e l’accompagnamento coatto al paese d’origine, quest’ultima forma è quella quasi esclusivamente praticata non avendo gli stranieri né le risorse né i mezzi per tornare autonomamente. Nel 2018, fino al 31 ottobre, gli stranieri espulsi sono stati 5.505, circa 530 persone al mese, si è quindi stimato che per portare a termine tutti i rimpatri ci vorrebbero all’incirca 80 anni e uno stanziamento di 600 milioni. Infine, il decreto prevede l’estensione del periodo in cui gli stranieri possono essere trattenuti nei Centri per il Rimpatrio (CPR) da 90 a 180 giorni.

lista dei reati che comportano la revoca dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria: saranno inclusi anche i reati come violenza sessuale, detenzione e traffico di sostanze stupefacenti, rapina, furto, minaccia o violenza a pubblico ufficiale, mentre l’articolo 13 prevede che i richiedenti asilo non si possano iscrivere all’anagrafe e non possano quindi accedere alla residenza, il che renderà più difficile ottenere un lavoro ed integrarsi nella società. Anche per coloro che risiedono legalmente in Italia ottenere la cittadinanza sarà più difficile, la richiesta di cittadinanza per matrimonio, che veniva concessa automaticamente dopo due anni di matrimonio e residenza in Italia, ora potrà essere rigettata e non si sono specificati nel decreto i casi e i presupposti del diniego.

A Integrazione 2,14-6,2% /B Consulenza 1,31-3,8% /C Costi indiretti 0,30-0,9% /D Altre spese 5,21-15,0% /E Costo del personale 13,16-38% /F Oneri relativi all’adeguamento 4,30-12,4% /G Spese generali per l’assistenza 8,24-23,8%

Cittadinanza e soggiorno: cosa cambia? Per i fortunati che saranno accolti e otterranno un permesso di soggiorno, Il decreto estende la

Accoglienza ed integrazione: solo tagli Il Decreto Sicurezza apporta diverse modifiche al sistema di accoglienza italiano che, ad oggi, dopo anni di tentativi e fallimenti, aveva trovato una sua fisionomia e si stava avviando ad essere un modello a livello europeo.

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L’attuale sistema italiano prevede una prima fase di accoglienza pensata per rispondere ad esigenze ed emergenze di contenimento del fenomeno migratorio e una seconda fase che promuova invece l’integrazione nel tessuto sociale italiano.

Il Decreto Sicurezza apporta diverse modifiche al sistema di accoglienza italiano che, ad oggi, dopo anni di tentativi e fallimenti, aveva trovato una sua fisionomia e si stava avviando ad essere un modello a livello europeo. La prima accoglienza è stata ideata per essere temporanea e creata per ospitare nei Centri di Accoglienza per richiedenti asilo (CARA) o nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS) lo straniero richiedente protezione internazionale privo di documenti o che si è sottratto al controllo di frontiera, oppure lo straniero che abbia presentato domanda di protezione internazionale dopo essere stato fermato in condizione di soggiorno irregolare. Il richiedente, secondo la legge, dovrebbe essere ospitato nel Centro per il tempo strettamente necessario agli adempimenti previsti (identificazione e verifica sulla nazionalità) e in

ogni caso per una durata non superiore ai 20-35 giorni; nella pratica gli stranieri rimangono lì per mesi in strutture come ex caserme, capannoni o ex basi militari, spesso lontani dai centri abitati, che offrono bassi standard di accoglienza non prevedendo alcuna forma di orientamento e integrazione ma rispondendo invece alla sola logica del “contenimento”. L’integrazione è invece promossa dai centri di seconda accoglienza gestiti tramite il Servizio per la protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati (SPRAR). In Italia ci sono attualmente 877 centri diffusi in 1200 comuni per un totale di 35.881 posti finanziati e rappresentano una realtà virtuosa che, oltre a distribuire omogeneamente gli immigrati sul territorio italiano, offre ai beneficiari servizi che riguardano l’assistenza sanitaria, la formazione, le attività multiculturali, l’inserimento scolastico di bambini e ragazzi, ma anche l’assistenza sociale, la mediazione linguistica e culturale, l’inserimento lavorativo, l’orientamento-informazione legale e il tempo libero. L’85% dei progetti offre corsi di italiano per almeno 10 ore a settimana, mentre sono 7.900 i beneficiari che in un anno hanno ottenuto un certificato di frequenza riconosciuto a livello regionale o nazionale. Il Decreto Sicurezza ridimensiona il Progetto SPRAR disponendo che potranno beneficiare del servizio solo coloro che godono di protezione internazionale escludendo invece i richiedenti asilo. Il ridimensionamento degli SPRAR disincentiva l’integrazione e alimenta invece il business dell’immigrazione spostando tutti i fondi dal pubblico al privato, infatti, sia gli SPRAR che i 27


CARA/CAS vengono finanziati con i famosi 35 euro ma mentre i centri SPRAR sono gestiti dagli enti locali e sono sottoposti ad una stretta rendicontazione che li obbliga a spendere tutti i fondi senza poterne trarre profitto, i CARA/CAS sono concessi dalle prefetture a privati che non sono obbligati alla rendicontazione dei fondi ricevuti o a dover rispettare standard di qualità. In questi centri, già affollati, si creerà una vera e propria bomba sociale, con stranieri che verseranno in uno pericoloso stato di abbandono ed inoccupazione che come è stato dimostrato in passato incentiva la criminalità e il reclutamento nelle organizzazioni mafiose.

Il Decreto Sicurezza ridimensiona il Progetto SPRAR disponendo che potranno beneficiare del servizio solo coloro che godono di protezione internazionale escludendo invece i richiedenti asilo. Trasferire i fondi ai CAS/CARA significa non credere nell’integrazione ma al contrario sostenere l’idea che la diversità non è un’opportunità su cui investire ma un problema da arginare. Ancora una volta la propaganda supera la ragione e il pregiudizio acceca gli occhi di fronte alle 28

immense potenzialità che l’integrazione offre sia dal punto di vista sociale che economico. Il sistema SPRAR infatti oltre ai corsi di italiano, prevede un progetto di integrazione che prima raccoglie le richieste lavorative nel territorio in cui opera e poi forma gli stranieri in tale direzione, basta pensare che il 90% degli stranieri accolti ha meno di 35 anni per capire il potenziale che ha l’investimento nel lungo termine, senza dimenticare gli effetti immediati che hanno le assunzioni di insegnanti e personale nei centri. Sostenere i centri SPRAR non significa solo finanziare un progetto virtuoso ma anche credere e affermare il volto migliore dell’Italia, quella che sa accogliere, che sa rendere l’immigrazione un’opportunità e che diventa modello per tutti in Europa. Al Capitano è partita la nave o ha volontariamente lasciato il timone? Anche se vi fosse un’effettiva emergenza migranti e vi fossero delle problematiche realmente vitali (e non solo percepite come tali), il Decreto Sicurezza mira nella direzione opposta al risolverle. Aumentando il numero di immigrati clandestini e diminuendo i fondi per l’integrazione si creerà solo più irregolarità ed insicurezza: così facendo, è prevedibile che crescano il disagio e i contrasti sociali tra le fasce più povere della società. Il Decreto Sicurezza, quindi, di fatto rischia seriamente di disattendere le promesse fatte in campagna elettorale andando ad alimentare il fenomeno che aveva promesso di risolvere.

Il contratto di governo e il braccio di ferro con l’Unione Europea sembrano essere gli unici fili che tengono insieme il tessuto di una “convivenza di governo” che, per le sue differenze e contraddizioni, rischia di spezzarsi. Verrebbe da pensare che, forse, i due partiti di maggioranza non abbiamo mai realmente provato a ricamare una politica sinergica ma al contrario si litighino i fondi di una coperta, di per sé già corta, per realizzare, almeno apparentemente, più punti possibili delle proprie campagne elettorali senza preoccuparsi della loro compatibilità ed efficacia economica. Se allora di una “convenienza di governo” si tratta, da questi primi nove mesi la Lega ne ha sicuramente giovato raddoppiando quasi il suo consenso mentre il Movimento, alla prima esperienza governativa, sembra attraversare una crisi adolescenziale, fatta di contraddizioni, ripensamenti e crisi interiori. Tra pochi mesi, in vista delle elezioni europee, si tornerà in campagna elettorale, dalla quale forse non siamo mai usciti. Del contratto cosa rimarrà e chi ne avrà ancora bisogno?

La città inamministrabile II la battaglia pubblica

La seconda stagione della rubrica sulla capitale riparte dall'esperienza maturata dall'intervista agli ex sindaci e agli assessori della giunta Raggi, pubblicate durante i primi sei mesi del 2018 e sul terzo volume di Presente 2018. Scomodo torna a raccontare le emergenze, le contraddizioni e le follie di Roma, la città inamministrabile.

A Roma la schiacciante maggioranza degli spazi, abitativi e non, vengono gestiti da grandi privati. Mentre i bisogni dei cittadini diventano emergenze, pochissimo sembra muoversi di Riccardo Corsi e Ettore Iorio

Convivenza forzata Scomodo

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e istituzioni e il governo della città, come ama ripetere Virginia Raggi, sono fatte di persone: cittadini romani e non che fungono da tramite tra le necessità della sempre più incalcolabile popolazione di Roma e la loro effettiva realizzazione. E allora perché è tutto fermo? Da tempo, molte amministrazioni che promettevano fuoco e fiamme a questa città si sono

trovate “le mani legate” nel procedere. Una città priva dei fondi necessari per risolvere i suoi “disagi” ed impedire che diventino emergenze, ma non solo. Uno dei mantra imposti, infatti, dalle disastrate casse cittadine alle amministrazioni comunali è che non ci siano i soldi necessari per risolvere positivamente le dilaganti situazioni di abbandono senza l’aiuto dei privati. Il che potrebbe funzionare, in linea te29


orica, se non ci fossero di mezzo due fattori.

Uno dei mantra imposti dalle disastrate casse cittadine alle amministrazioni comunali è che non ci siano i soldi necessari per risolvere positivamente le dilaganti situazioni di abbandono senza l’aiuto dei privati. Il primo: la stragrande maggioranza degli appartamenti sfitti, dei capannoni, degli uffici, degli esercizi commerciali – chi più ne ha, più ne metta – in completo stato di abbandono da anni è in mano a grandi privati. Questi ultimi non solo non hanno alcuna intenzione di migliorarne la situazione o di contribuire ad un loro recupero, ma guadagnano al livello fiscale e spesso anche commerciale dal loro abbandono. Il secondo: a Roma, oltre alle emergenze ormai definitivamente esplose riguardanti i servizi di base, i conti non tornano anche per quanto riguarda i cittadini senza un tetto e tutti gli spazi di attività culturale, sportiva e commerciale che alzano sensibilmente la qualità della vita in un quartiere. 30

L’emergenza nascosta e il precedente romano Nonostante non sia mai stata dichiarata, da più di un decennio nella capitale infuria un’emergenza abitativa che, ad oggi, sembra non attrarre particolarmente le attenzioni delle amministrazioni comunale e nazionale. O almeno non nella maniera in cui i diretti interessati ne vorrebbero sentir parlare. Con l’arrivo della delibera 140 del 2015 a Roma si torna a parlare in maniera sempre più preoccupante di politica di sgombero e di sfratti: una norma nata sotto la giunta Marino per ristabilire l’ordine dopo lo scandalo di Affittopoli nel patrimonio pubblico della città, che ha in realtà altri effetti. Ovviamente sotto la guida del commissario Tronca, già prefetto di Milano, l’aspetto legalitario viene accentuato: con la finalità di ripristinare l’ordine nel “patrimonio indisponibile” (860 i beni indicati), molte occupazioni abitative e onlus si trovano a fronteggiare ingiunzioni di sgombero “bonario o forzoso”. Da allora, la politica del pugno duro contro gli abusivi è stato l’unico pretesto per tornare a parlare di politiche per l’abitare. E con l’ingresso di Minniti prima e di Salvini poi al Viminale, non a caso, dalle stazioni di polizia di Roma sono partite sempre più camionette, pronte a testimoniare agli occupanti e futuri senzatetto che lo sceriffo fosse tornato in città. Eppure, a Roma i numeri parlano chiaro: secondo l’ACER (Associazione Costruttori Edili di Roma e provincia) sono oltre 12.000 le famiglie in attesa di una casa popolare ERP, oltre 10.000 le richieste di sostegno all'abitare e neanche 4000 le ri-

chieste soddisfatte. Inoltre, i tristemente famosi 91 stabili della lista nera sarebbero occupati da almeno 12.000 persone. E non solo: ogni anno partono oltre 9000 ingiunzioni di sfratto, di cui 3200 vengono puntualmente eseguiti. 7500 le persone senza fissa dimora censite, a cui si aggiungono oltre 9000 richiedenti asilo e rifugiati. Nelle mani dell’amministrazione cittadina, tuttavia, ci sarebbe una sentenza della Cassazione da impugnare per fronteggiare tale situazione. Sentenza con cui veniva assolto Sandro Medici, presidente dell’ex Municipio X (l’area intorno a Cinecittà) dal 2001 al 2013, accusato, tra le altre, di abuso d’ufficio. Portato a processo dai proprietari degli stabili inutilizzati requisiti con un’ordinanza per fronteggiare l’emergenza abitativa. “Sentimmo la necessità di agire e procedemmo usando l’espediente dell’emergenza meteo”, afferma Medici. “La requisizione è uno strumento temporaneo, e quelle famiglie versarono un contributo pari all’affitto delle case popolari a cui avevano diritto”. Fu assolto in tutti e tre i gradi di giudizio: l’azione non era “strettamente legale”, ma tuttavia per la mancanza del dolo nell’azione requisitoria Medici non fu condannato. E, anzi, si ottenne un risultato importante: “La sentenza prevede che questo strumento i minisindaci, come lo ero io al tempo, non lo possano utilizzare ma, in determinati casi, è nei poteri del Sindaco o del Prefetto della città proseguire con la requisizione”. Uno strumento fondamentale e con basi legali non indifferente, quindi, sono forniti da un precedente che viene dalla stessa città che, ad oggi, non

“Oggi evidentemente non c’è la volontà politica né il coraggio di affrontare un’azione del genere”, sostiene infatti lo stesso Medici, “nonostante siano entrambi necessari per venire incontro alle necessità di cittadini che non hanno una casa e che ne hanno pieno diritto”.

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Con l’arrivo della delibera 140 del 2015 a Roma si torna a parlare in maniera sempre più preoccupante di politica di sgombero e di sfratti. Le armi della battaglia Al di là del caso specifico della sentenza Medici, in generale come funziona? In Italia la Costituzione stabilisce che la funzione sociale è uno dei limiti della proprietà privata: pagando un indennizzo e per motivi di interesse pubblico, lo Stato può espropriare dei beni privati, definitivamente o per un periodo limitato di tempo di tempo, appunto la requisizione. La requisizione degli immobili per motivi eccezionali è un compito del Prefetto, il delegato del ministero dell’Interno in ogni provincia; solo in casi di estrema urgenza e necessità può essere il Sindaco a intervenire sulla proprietà privata. Uno degli esempi più recenti a Roma è del 2014, quando Ignazio Marino ha requisito temporaneamente i due impianti di Novembre 2018

Trattamento Meccanico Biologico di Malagrotta dell’imprenditore Manlio Cerroni, all’epoca sotto processo per traffico di rifiuti. I TMB, che tutt’ora permettono di trattare quasi la metà – oltre mille tonnellate al giorno – dell’immondizia indifferenziata di Roma, sono un esempio dove l’interesse pubblico e l’urgenza sono evidenti: senza gli impianti di trattamento, la salute dei romani sarebbe stata messa a rischio da un’emergenza rifiuti anche più grande di quella che ha colpito Napoli nel 2008. E proprio a Napoli dobbiamo andare se vogliamo vedere un rapporto fra amministrazione pubblica e spazi privati sempre più stretto e radicato anche nelle norme locali. Negli ultimi anni e in particolare nel 2014, la giunta guidata da Luigi De Magistris ha prodotto un numero di delibere e ordinanze sui “beni comuni” che miravano alla riconversione sociale di quei luoghi o, meglio, di quei non luoghi che costellano tutte le città, distribuiti in maniera spesso insospettabile tanto in periferia, quanto nel centro storico. Certo, diverse voci anche dall’interno degli stessi spazi oggetto di delibera del comune di Napoli hanno sollevato critiche verso il sindaco, sostenendo che le norme non avessero in fondo quasi nessuna rilevanza pratica e fossero, quindi, soltanto un’operazione di marketing politico di De Magistris. Non si può negare, comunque, che si sia trattato di un’innovazione normativa con pochi precedenti, che ha limitato significativamente la possibilità dei grandi proprietari privati di tenere in abbandono a proprio piacimento grandi immobili in quartieri con carenza di spazi so-

ciali da dedicare all’aggregazione o ai servizi pubblici. La vera novità ha riguardato proprio la proprietà dei luoghi abbandonati o occupati da riconvertire: non più solo pubblici ma anche privati grazie a un espediente tecnico, l’assenza di indennizzo nel caso di una combinazione fra il pericolo per il pubblico dovuto allo stato di abbandono e il rifiuto reiterato dei proprietari di sistemare l’edificio. Un’altra variante interessante, simile al caso di Sandro Medici di cui abbiamo parlato, è la mozione approvata nel 2016 dal comune di Livorno. Qui si prevedeva che “la perdurante crisi economica” e la conseguente emergenza abitativa fossero un motivo di urgenza sufficiente per dare al Sindaco il potere di requisire in autonomia (e, ovviamente, dietro indennizzo) gli appartamenti privati sfitti sul territorio comunale per usarli come case popolari. Il rischio, in entrambi questi casi, è che la prevedibile pioggia di ricorsi che i privati potrebbero rivolgere contro gli atti delle amministrazioni comunali avrebbe ottime probabilità di successo, o almeno riuscirebbe a tenere gli spazi congelati per anni, in attesa delle lungaggini giudiziarie. Una delle soluzioni più avanzate – e soprattutto meno fragili ai ricorsi dei privati – è infatti quella inserita dal comune di Milano nel 2014, ai tempi della giunta di Pisapia, nel suo regolamento edilizio. Questo è la raccolta delle regole sulle costruzioni esistenti e su quelle future di ogni amministrazione comunale e ha il ruolo fondamentale di regolare come si dovrà evolvere la città, mentre il Piano Regolatore si esprime sul cosa costruire e sul dove. 31


Nel regolamento di Milano si chiarisce dunque che il comune può accertare l’abbandono di un immobile privato o il mancato rispetto delle condizioni minime di cura da parte del proprietario, che hanno effetti negativi poi sulla qualità della vita di tutti i cittadini. Fatto questo, l’amministrazione può pretendere un piano dettagliato di riqualificazione e manutenzione entro tre mesi: se non arriva, il comune può procedere da solo a una prima pulizia e messa in sicurezza, ovviamente a spese del padrone dell’immobile, oppure può direttamente attribuire allo spazio una destinazione di interesse pubblico, per esempio come area verde. Il privato, oltre a ricevere una multa molto salata, non potrà neanche più ricevere l’autorizzazione per costruire nulla da nessun’altra parte, fino a che non avrà presentato il piano di manutenzione di un suo immobile abbandonato. Insomma, parliamo di un provvedimento restrittivo e piuttosto efficace per impedire le speculazioni dei grandi proprietari, che ci penseranno due volte prima di lasciare all’incuria e al degrado una loro proprietà sapendo che potrebbero ricevere una multa di diversi milioni di euro.

Con la delibera Grancio il privato, oltre a ricevere una multa molto salata, non potrebbe neanche più ricevere l’autorizzazione per costruire nulla da nessun’altra parte 32

Segni di vita Pochi giorni fa la consigliera comunale di Roma Cristina Grancio, eletta con il Movimento 5 Stelle e poi allontanata per la sua richiesta di trasparenza nella procedura sullo Stadio della Roma, ha presentato in Assemblea Capitolina una bozza di delibera identica, praticamente parola per parola, alla norma del regolamento edilizio di Milano. Il regolamento di Roma risale addirittura al 1934, ai tempi in cui il fascismo aveva trasformato il comune in un Governatorato, e avrebbe decisamente bisogno di un rinnovamento complessivo. Nel frattempo, però, introdurre questo elemento nuovo potrebbe da subito portare qualche beneficio nei tantissimi quartieri di Roma dove si trovano grandi immobili privati abbandonati: ex fabbriche – come quella di penicillina a San Basilio – o ex cinema, costruzioni mai terminate (come il Bidet, l’immenso albergo incompiuto a via Giustiniano Imperatore) o vecchi depositi ferroviari. L’impatto della norma, qualora venisse approvata, sarebbe tutto da verificare. Sicuramente l’aspetto principale sarebbe il disincentivo per le grandi società di speculazione a lasciare le loro proprietà al degrado e all’abbandono, ma potrebbe alla fine portare anche all’acquisizione definitiva dell’immobile nel patrimonio pubblico di Roma: se il proprietario si rifiuta di pagare la manutenzione forzate e le multe, infatti, il comune si potrebbe rivalere sulla proprietà, fino a raggiungere il valore degli interventi. Patrimonio pubblico, e poi? L’acquisizione legale di tali spazi, tuttavia, non sempre coinci-

de con il loro recupero effettivo. E ciò non riguarda solo lo stato legale delle cose, per quanto quest’ultimo sia un fattore fondamentale.

Il regolamento di Roma risale addirittura al 1934, ai tempi in cui il fascismo aveva trasformato il comune in un Governatorato, e avrebbe decisamente bisogno di un rinnovamento complessivo. Per affrontare certi processi burocratici e legali ci deve essere sintonia fra l’interesse dei cittadini e la volontà politica dell’amministrazione; allo stesso modo trovare una destinazione adatta agli spazi che si hanno in mano richiede una certa dose di determinazione da parte dei rappresentanti eletti. Questa determinazione dovrebbe essere spontanea, quando si toccano necessità dei cittadini tanto stringenti, ma spesso manca o si ferma alla prima complicazione. A Roma, infatti, il patrimonio nelle mani del Comune del tutto inutilizzato assume proporzioni gigantesche. Nel 2012, quindi ancor prima della delibera 140 e della tempesta di sgomberi e sfratti, le singole abitazioni facenti parte del patrimonio Scomodo

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pubblico che risultavano vuote erano oltre 25.300, a fronte di un’emergenza abitativa che oggi arriva a coinvolgere potenzialmente 200.000 persone. Tale cifra non comprende ovviamente le abitazioni sfitte private (in mano per lo più a grandi gruppi immobiliari capitolini e non): secondo i dati Istat del censimento del 2011 il totale delle abitazioni sfitte supererebbe le 258.000 unità. E se i dati, oggi, non ci permettono di quantificare la mancanza degli spazi sociali e culturali necessari a rendere una città vivibile, bastano le decine di associazioni che si attivano sul territorio a descrivere la mancanza avvilente di opportunità pubbliche di questo tipo, che non si concretizzano nonostante l’abbondanza di spazi vuoti e a disposizione. Le difficoltà sono grandi; tuttavia, sono tanti gli spazi pubblici senza destinazione e le proposte di regole per acquisirne di nuovi dai privati non mancano. Sorge spontanea sempre la stessa domanda: allora perché è tutto fermo?

di Giovanni Forti e Pietro Forti Scomodo

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L'America a metà Le tornate elettorali d’oltreoceano lasciano, nonostante la chiarezza dei risultati, molte incertezze

Il presidente dimezzato L’anatra è zoppa, ma può tutto sommato ritenersi soddisfatta. Le Midterms sono un appuntamento fondamentale per la politica statunitense: è vero, non si elegge il Presidente, ma vengono rinnovati sia la Camera – in tutti i suoi 435 seggi – che il Senato – 1/3 dei 100 seggi, 35 in questo caso – oltre ad altre elezioni come i governatori dei singoli stati ed alcuni referendum. Inoltre, le elezioni di metà mandato assumono inevitabilmente il carattere di un “referendum” sui primi due anni di mandato del Presidente, valore che cresce se riferito ad un presidente atipico e discusso come Donald Trump: a dimostrazione di ciò, i 2/3 dei votanti hanno dichiarato di aver espresso un voto puramente pro/ contro Trump. Cominciamo quindi quest’analisi dai risultati: i Democratici hanno vinto, come da pronostico, alla Camera; mentre i Repubblicani hanno rinforzato la propria maggioranza al Senato,

e questo dato era meno prevedibile. La prassi per cui il partito del presidente in carica perde voti rispetto alle elezioni presidenziali è qualcosa di fisso ormai nella politica statunitense: solo 3 volte (Roosevelt nel 1934, Clinton nel 1998 e Bush nel 2002) questo trend è stato invertito. E tuttavia, Trump ha di che compiacersi: “The Donald” si presentava a queste elezioni con una maggioranza al Senato di 2 soli seggi (51 a 49), mentre ora può contare su un 53 a 47 che gli regala una maggioranza di 6 seggi, più tranquilla. Il Senato ha un’importanza leggermente maggiore nel sistema legislativo americano: le leggi devono essere approvate da entrambe le camere, ma per i trattati internazionali e le nomine della Corte Suprema basta il voto favorevole del Senato. Trump può contare inoltre su un dato statistico importante: era dal 2002 che un presidente non guadagnava terreno alle Midterms in una delle due camere. 33


Va detto, però, che secondo il sito statistico FiveThirtyEight questa rappresentava la peggior tornata elettorale della storia per un partito all’opposizione al Senato. Ciò deriva da un sistema elettorale non particolarmente semplice: i senatori sono divisi in 3 classi, e il loro mandato dura 6 anni. Le tre classi però eleggono a rotazione i propri senatori ogni due anni: quest’anno quindi venivano rieletti i senatori di classe 1 il cui mandato durava dal 2012, anno della rielezione di Obama e quindi tornata particolarmente favorevole per i Democratici. I quali, stavolta, avevano quindi come principale obiettivo il conservare i seggi conquistati 6 anni fa.

Va detto, però, che secondo il sito statistico FiveThirtyEight questa rappresentava la peggior tornata elettorale della storia per un partito all’opposizione al Senato. I dati su cui riflettere sono molti, come alcune sfide che si preannunciavano tiratissime e decisive. La Florida ad esempio: notoriamente uno swing state (uno stato cioè non marcatamente democratico o repubblicano, e quindi spesso e volentieri decisivo per le elezioni), rappresentava 34

uno dei seggi che i Democratici avrebbero dovuto difendere per provare l’assalto al Senato. Non è stato così: il democratico Bill Nelson ha ceduto il suo seggio al repubblicano Rick Scott, che con il 50,2% dei consensi ha vinto una battaglia all’ultimo voto. Più nette, sempre al Senato, le vittorie dei Repubblicani in Indiana e Missouri, altri due stati considerati decisivi. Da notare poi la conferma come senatori di due democratici agli antipodi, come il “socialista” Bernie Sanders in Vermont e Joe Manchin in West Virginia: un democratico che ha realizzato uno spot in cui sparava (!) ad una legge approvata sotto la presidenza Obama, e che ha votato spesso insieme ai repubblicani. Come in occasione della discussa nomina a giudice della Corte Suprema di Brett Kavanaugh, accusato di violenze sessuali. Ma la sfida più importante, per diversi motivi, si è tenuta in Texas. In uno stato dalla tradizione fortemente repubblicana (è dal 1994 che un democratico non vince da quelle parti), andava in scena un confronto apparentemente impari tra il repubblicano Ted Cruz, ex candidato alle primarie presidenziali e uomo dal grande peso politico all’interno del Grand Old Party, e il democratico Beto O’Rourke. O’Rourke nei mesi precedenti alle elezioni ha raccolto fondi per 70 milioni di dollari, i più alti tra tutti i candidati di questa tornata (il doppio di Cruz) e per giunta quasi esclusivamente da piccoli donatori, impostando una campagna elettorale non costruita sull’opposizione a Trump o Cruz ma incentrata sui temi, che ha raccolto ampio consenso fino a far considerare il Texas un toss-up, ovvero un seggio in

bilico. Alla fine però, O’Rourke si è dovuto arrendere al suo ben più quotato avversario, che l’ha spuntata con il 50,9% contro il 48,3% del candidato Dem. Ma di O’Rourke si parla già in ottica 2020: e c’è chi lo pronostica come “il candidato ideale per sfidare Trump”. A proposito dei Democratici: è dalla Camera che, per il partito ora all’opposizione, arrivano le notizie migliori. Innanzitutto, la conquista della House of Representatives rende Trump “un’anatra zoppa”, come si usa chiamare nel gergo politico statunitense un presidente che gode della fiducia di una sola delle due camere. In un sistema bicamerale perfetto come quello statunitense ciò rappresenta un importante freno alle velleità di riforma di Donald Trump, che d’ora in poi dovrà quindi necessariamente sedersi al tavolo di contrattazione con i Democratici per poter approvare qualsiasi legge. Ma soprattutto, invece della attesissima Blue Wave che avrebbe dovuto portare valanghe di voti ai Democratici, quella a cui abbiamo assistito è stata una vera e propria “Pink Wave”. Sono infatti 28 le donne elette in questa tornata, facendo sì che al prossimo Congresso statunitense siano presenti 117 donne: mai così tante. E con una connotazione sociale ampia e variegata. Le storie da raccontare sono tantissime: quelle di Sharice Davids e Deb Haaland, prime donne native americane ad entrare nel Congresso. O quelle di Ilhan Omar e Rashida Thaib, entrambe immigrate – origini somale per la prima, palestinesi per la seconda – e prime due donne musulmane elette al Congresso. Ma il vero volto di queste elezioni ha 29 anni, viene dal Bronx

ed è diventata la più giovane parlamentare della storia statunitense.

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Sono infatti 28 le donne elette in questa tornata, facendo sì che al prossimo Congresso statunitense siano presenti 117 donne: mai così tante. Alexandria Ocasio-Cortez era praticamente sicura della sua elezione al Congresso in queste Midterms in un distretto, il Quattordicesimo di New York, dove i democratici vincerebbero candidando pressoché chiunque. E dove infatti si è imposta con il 78% delle preferenze contro il repubblicano Pappas. L’ex barista che si autodefinisce “socialista” aveva firmato la vera impresa nel giugno scorso, battendo nelle primarie democratiche il candidato “dell’establishment” Joe Crowley. Per intenderci, Crowley faceva parte del Congresso da 20 anni, e negli ultimi 18 nessuno aveva osato sfidarlo alle primarie del Partito Democratico; nelle gerarchie Dem era il numero 4 del partito, ed era perfino tra i papabili candidati per il ruolo di speaker, l’equivalente del nostro Presidente della Camera. La vittoria della Ocasio-Cortez aveva suscitato scalpore anche per lo squilibrio nei fondi elettorali: Crowley aveva speso per la sua campagna 3.4 milioni di dollari, contro i soli 194mila dollari della ragazza di origini portoricane. Novembre 2018

La scalata della Ocasio-Cortez si inquadra nella crescita di un’ala spiccatamente di sinistra all’interno del Partito Democratico, che si era fatta notare già in occasione delle primarie democratiche 2016: quando Bernie Sanders aveva sfidato Hillary Clinton uscendone sconfitto, ma ottenendo ottimi riscontri dal punto di vista della popolarità. La particolarità di Sanders, della Ocasio-Cortez e di tutta quell’ala dei cosiddetti DSA (Democratic Socialists of America) è racchiusa proprio in questo nome: “socialisti”. Fin dai tempi del maccartismo, negli States la parola “socialismo” ha sempre richiamato sentimenti fortemente negativi, in quanto sinonimo di limitazioni alle libertà personali e spettro di un’utopia dittatoriale. Tutto ciò fino ad oggi: definirsi socialisti non sembra essere più un tabù, né tanto meno candidarsi – e venire eletti – con un programma che raccoglie istanze socialiste. Intendiamoci: sanità pubblica, istruzione di base gratuita ed accessibile a tutti, limitazione nell’uso delle armi e simili sono provvedimenti che in Italia tutti noi daremmo per scontati, ma che tali non sono nella patria del capitalismo, del “self made man” e del “sogno americano”; che appare però sempre più come un miraggio. Un giudizio complessivo su questo movimento assume ancora più importanza se messo in parallelo con la contemporanea ascesa dei Labour reinventati a sinistra di Corbyn nel Regno Unito: mettendo quindi in evidenza un declino del tradizionale bipolarismo liberali/conservatori comune ad entrambe le grandi democrazie anglosassoni.

Allo stato attuale delle cose, dunque, la corrente progressista sembra acquisire sempre più autorevolezza all’interno di un Partito Democratico allo sbando. E lo dimostra una recente indiscrezione, filtrata dalle pagine del Wall Street Journal, che riporta una Hillary Clinton intenzionata a scendere di nuovo in campo per le presidenziali del 2020, per “diventare la prima donna presidente e non lasciare senza vendetta il grido dei sostenitori di Trump ‘lock her up’ (mettetela in galera)”. La scelta di ricandidare un personaggio come la Clinton, espressione dell’ala più liberal e legata all’establishment del Partito Democratico e capace di perdere con un “incandidabile” come Trump, dimostrerebbe una capacità di autocritica quasi paragonabile a quella – scarsissima – della sinistra italiana. E avrebbe una presa quasi nulla sull’elettorato di cui i Democratici hanno bisogno per riconquistare la Casa Bianca. Un altro dei verdetti delle Midterms è infatti la “giravolta” del Midwest: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, che insieme all’Ohio rappresentano il vero cuore industriale degli USA, il 6 novembre si sono colorate del blu dei Democratici. Per vincere nel 2020, Trump dovrà conquistare almeno due di questi tre stati, la cui composizione 35


sociale è soprattutto operaia; e la candidatura della Clinton – non proprio una “working class hero” – fornirebbe un assist involontario a Trump nella “corsa al Midwest”. Al momento però, i nomi dei possibili leader democratici scarseggiano: Nancy Pelosi è tra le papabili speaker alla Camera, ma ha un profilo “liberal vecchio stampo” molto – forse troppo – simile a quello della Clinton; abbiamo già detto di Beto O’Rourke, che sarebbe rientrato di prepotenza tra gli ipotetici candidati se avesse vinto in Texas, mentre la sconfitta gli ha un po’ tarpato le ali; Bernie Sanders sarà probabilmente troppo anziano (79 anni nel 2020), mentre la Ocasio-Cortez troppo giovane (31 anni). Tra gli altri nomi quello di Joe Kennedy, erede di JFK e Bob Kennedy, del governatore di New York Andrew Cuomo e perfino della superstar televisiva Oprah Winfrey. Il nome però più quotato è quello di Joe Biden, vicepresidente durante il mandato Obama e già più volte accreditato di una possibile candidatura.

Se dalla parte dei Democratici la situazione è nebulosa e ancora poco chiara, tra i Repubblicani lo scenario è, invece, di una chiarezza cristallina: Trump si è mangiato il partito. Una situazione strana e forse inattesa, 36

visto che stiamo parlando di un partito che non vedeva di buon occhio fino in fondo neanche la candidatura di “The Donald” alle presidenziali 2016; ma che ora ne subisce la personalità dirompente (i paragoni con la Lega di Salvini si sprecano), che ha di fatto azzerato l’opposizione interna e svuotato tutta la componente moderata e conservatrice del partito. Quella, per intenderci, che faceva capo a John McCain, il senatore repubblicano morto ad agosto e che aveva condotto una strenua opposizione interna a Trump. Tanto da votare contro lo smantellamento dell’Obamacare, definire l’incontro avvenuto tra Trump e Putin a Helsinki “uno dei discorsi più vergognosi del presidente degli Stati Uniti che si ricordi” e perfino considerarlo come un “indesiderato” ai suoi funerali, quando sarebbe morto (McCain era malato terminale). Trump è ora padrone di un partito in cui, nella maggior parte dei casi, i candidati che hanno accettato il suo appoggio a queste Midterms hanno vinto mentre quelli che lo hanno rifiutato hanno perso; la sua candidatura per il 2020 sembra quindi scontata, per quanto da un uomo d’affari non abituato alla politica come lui, non sarebbe del tutto una sorpresa se si facesse da parte. Magari per lasciare spazio alla figlia Ivanka, un po’ più moderata rispetto al padre e da molti considerata la vera first lady alla Casa Bianca per la sua influenza. Ivanka in un’occasione si è anche schierata apertamente contro il padre: quando la questione dei bambini separati dalle famiglie alla frontiera messicana fece infiammare l’opinione pubblica, fu durissima nel dichiarare “Questo è il punto più

basso della presidenza”; e chissà che non possa rivelarsi un’arma meno invisa agli occhi dell’elettorato moderato.

Da queste Midterms Trump esce anche con un altro vantaggio: d’ora in poi potrà incolpare i Democratici e il loro ostruzionismo per qualsiasi fallimento o rallentamento dell’azione riformatrice nei prossimi due anni. “Rallentamento”, sì, perché l’economia statunitense sta vivendo un periodo di fortissima crescita economica: PIL a +2.6% annuo, disoccupazione al 4% (minimo storico da 17 anni), borsa al +18%. E tutto questo nonostante una politica protezionistica incentrata sui dazi nei confronti dei più importanti competitor: l’Unione Europea e in particolare la Cina, contro la quale è scattata una vera e pro-

pria guerra commerciale. Guerra nella quale Trump spera di tirare dalla sua parte il Brasile del neo-presidente Jair Bolsonaro che, come vedremo, può rappresentare in questo contesto l’ago della bilancia. Una crescita economica, quella statunitense, rivendicata però negli ultimi giorni di campagna elettorale da Barack Obama, ma di cui paradossalmente Trump non va troppo fiero: tema principale della campagna per le Midterms non è stata l’economia che avanza, ma l’immigrazione e in particolare lo “spauracchio” della carovana di migranti diretta verso il confine Messico-USA. Probabilmente Trump ha sfruttato quelle che sono le lacune più grandi del suo mandato finora, dal suo punto di vista: tra i provvedimenti promessi per contrastare l’immigrazione illegale – compreso il discusso “muro” – nessuno è ancora stato messo in pratica, escluso il “Travel ban” che vieta l’accesso negli USA ai residenti in sette paesi. E ha potuto quindi ancora giocare sulla paura e sulla fragilità sociale in chiave anti-immigrazione. Per Trump la situazione appare dunque ambigua: mentre è padre-padrone di un partito ormai nelle sue mani, gode però negli USA di una popolarità tra le più basse per un presidente dopo due anni di mandato (42%, seconda solo a Reagan); mentre è al governo di un’economia galoppante, colleziona però scelte molto discutibili in politica estera; e mentre perde la Camera a vantaggio dei Democratici, si rinforza però al Senato. Ecco perché, dunque, è un’America a metà: polarizzata tra i pro-Trump e i contro-Trump, tra le coste democratiche e il cuore repubblicano, tra le campagne

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Ivanka in un’occasione si è anche schierata apertamente contro il padre: quando la questione dei bambini separati dalle famiglie alla frontiera messicana fece infiammare l’opinione pubblica, fu durissima nel dichiarare “Questo è il punto più basso della presidenza”

Novembre 2018

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colorate di rosso e le città dipinte di blu. Una cosa è certa: dal giorno dopo le Midterms inizia la campagna per le prossime Presidenziali. Al prossimo Presidente spetterà l’arduo compito di estrarre “l’Excalibur” che riunisca il paese.

Anche il Brasile ha il suo Trump Il 28 ottobre, pochi giorni prima delle elezioni di midterm negli Stati Uniti, Jair Bolsonaro è stato eletto Presidente del Brasile a 63 anni. Esponente del Partido Social Liberal (ovvero Partito Social Liberale), tradizionalmente nazionalista e conservatore, era già noto nel Paese per essere stato parlamentare per più di vent’anni e per la sua precedente carriera militare. Ha raggiunto la vittoria con il 55,13% dei voti solo nella seconda tornata, visto che il sistema elettorale carioca prevede il ballottaggio nel caso in cui nessun candidato alle prime elezioni riesca a raggiungere la maggioranza assoluta dei consensi. La campagna elettorale è stata molto accesa ed incerta, proprio perché inizialmente si credeva che Bolsonaro, esponente di una destra estrema e populista nei temi dei diritti civili e ultraliberale nell’ambito economico, non avesse le possibilità di essere eletto. Infatti l’ex Presidente Lula partiva con un netto vantaggio nei sondaggi.

Sono stati due gli eventi principali che lo hanno portato alla vittoria finale: la decisione del Tse, il Tribunale Supremo elettorale, di vietare la candidatura di Lula il 1 settembre e l’accoltellamento di Bolsonaro subito il 6 settembre dello stesso anno. Entrambi a circa un mese dalle prime elezioni. L’ex Presidente brasiliano nel 2016 è stato coinvolto nell’inchiesta giudiziaria chiamata “Operação Lava Jato” cioè “operazione autolavaggio”, della quale se ne è occupato Il giudice Sergio Moro (probabilmente il prossimo Ministro della Giustizia nel governo di Bolsonaro), portando alla luce un giro di denaro spesi in tangenti dall’azienda petrolifera statale Petrobras. Più nel dettaglio Lula è stato accusato di aver accettato all’incirca 1,2 milioni di dollari ed è stato condannato in primo grado a nove anni e mezzo di prigione, che poi in secondo grado sono aumentati fino a dodici. La legge brasiliana prevede che i condannati in seconda istanza non possano candidarsi, e proprio per questo motivo che a Lula è stato impedito di correre per la presidenza carioca. Il partito di cui faceva parte, il PT (Partido dos Trabalhadores, ovvero Partito dei Lavoratori) ha scelto quindi un nuovo candidato, Fernando Haddad, Ministro dell’educazione nel precedente governo. La sua figura non è stata abbastanza forte politicamente da poter fermare l’avanzata di Jair Bolsonaro, pur ottenendo al ballottaggio il 44,87% dei voti. Il secondo evento che ha segnato la svolta nella campagna elettorale del neopresidente del Brasile è stato l’attentato subito un mese prima delle elezioni: in un comizio in piazza, un oppositore 37


lo ha accoltellato provocandogli una grave emorragia interna. Sottoposto ad intervento, è dovuto restare in ospedale durante la convalescenza, potendo così evitare i confronti politici con gli altri candidati. Bolsonaro ha cavalcato l’onda del consenso dato che il tema della criminalità in Brasile è molto sentito. In più è riuscito a sfruttare in modo positivo la violenza subita, informando della sua guarigione sui social network e in concomitanza facendo campagna elettorale, senza un vero e proprio interlocutore.

Bolsonaro ha cavalcato l’onda del consenso dato che il tema della criminalità in Brasile è molto sentito. Il 7 ottobre Bolsonaro è andato vicinissimo a conquistare direttamente, senza passare per la seconda tornata elettorale, la maggioranza assoluta con il 47%. Il suo più importante rivale, Haddad, ha ottenuto solamente il 28%. “Il Trump brasiliano”: questo è stato il soprannome che gli è stato dato per il suo buon rapporto con il presidente degli Stati Uniti e per la loro somiglianza di idee e di modi di fare politica. Proprio a dimostrazione di ciò Donald Trump si è congratulato con Bolsonaro, raccontando in un tweet: “Ho avuto un'ottima conversazione con il neoeletto presidente del Brasile, Jair Bol38

sonaro, che ha vinto la sua gara con un sostanziale margine. Abbiamo concordato che il Brasile e gli Stati Uniti lavoreranno a stretto contatto su commercio, impegno militare e tutto il resto! Ottima telefonata, gli ho fatto i complimenti”. In campagna elettorale e nell’arco della sua carriera politica Bolsonaro non si è mai preoccupato di esprimere concetti politicamente scorretti, e anzi omofobi, xenofobi, maschilisti e di estrema destra. Sostanzialmente con le parole forti è riuscito a conquistare l’elettorato brasiliano, come ha fatto Trump negli Stati Uniti. Entrambi hanno cercato di attaccare le fasce sociali più deboli e odiate: Trump si è soffermato di più contro gli immigrati e i musulmani, spesso con frasi denigratorie. In un incontro nello studio ovale con alcuni membri del Congresso Trump ha definito “gente che arriva da questo cesso di Paesi” riferendosi ai migranti di El Salvador, Haiti e Paesi africani. Inoltre ha dichiarato in merito alla questione dell’immigrazione dal vicino Stato del Messico che i propri abitanti sono tutti criminali e stupratori, promettendo la costruzione di un muro tra i due Stati, che ancora non è avvenuta. Ugualmente, Bolsonaro durante la campagna elettorale ha usato frasi forti contro le minoranze: Un esempio è la frase pronunciata nel settembre 2015 “La feccia della terra si sta facendo vedere in Brasile, come se non avessimo abbastanza problemi da risolvere” riferendosi ai rifugiati presenti nel Paese. Oppure nell’aprile 2017, parlando delle popolazioni di pelle scura nel proprio Paese “Sono andato a visitare un quilimbo. Il più legge-

ro lì in mezzo pesava 100 chili. Non fanno nulla. Non penso che siano nemmeno buoni a procreare”. E ancora, è stato ricordato che nel marzo 2011 disse “Non corro rischio di vedere i miei figli uscire con donne nere. Sono molto ben educati”.

In campagna elettorale e nell’arco della sua carriera politica Bolsonaro non si è mai preoccupato di esprimere concetti politicamente scorretti, e anzi omofobi, xenofobi, maschilisti e di estrema destra.

Anche Trump ha fatto dichiarazioni simili, come “Le molestie e violenze sessuali sono la logica conseguenza della vicinanza di uomini e donne” riferendosi alle aggressioni verso militari donne. Probabilmente il tema più importante che ha portato all’elezione di Bolsonaro è stato quello della criminalità e della giustizia: in totale nel 2017 ci sono stati 63.880 omicidi, in media 175 al giorno. La soluzione proposta è stata abbassare l’età punibile da 18 a 16 anni, rendere più facile il porto d’armi e la reintroduzione della tortura. Anche Il Presidente degli Stati Uniti di fatto ha promesso di reintrodurre il metodo di tortura, come per esempio il waterboarding, che simula un annegamento e che è stato utilizzato da George W. Bush dopo l’attentato dell’11 settembre.

Il neopresidente brasiliano ha di fatto manifestato la propria omofobia dicendo “Sarei incapace di amare un figlio omosessuale. Non sarò ipocrita: preferirei che mio figlio morisse in un incidente piuttosto che presentarsi con un tipo con i baffi”. Un’altra somiglianza con Trump è quella sulle accuse di misoginia e sul maschilismo. Bolsonaro ha dichiarato che il suo quinto figlio è nato femmina poiché ha avuto un momento di debolezza e si è dichiarato favorevole al disequilibrio tra il salario maschile e quello femminile. In un intervento in aula sull’impeachment di Dilma Rousseff, ex Presidente del Brasile ha detto “Lei, signora, non si merita nemmeno di essere stuprata”.

Nonostante la facciata mediatica costruita dai e sui due sia tremendamente simile, Bolsonaro e Trump hanno idee diverse in campo macroeconomico. Il primo in campagna elettorale ha promesso una politica economica protezionista, andando ad aggiungere dazi verso i Paesi che esportavano di più negli Stati Uniti, come la Cina. Bolsonaro invece ha un’idea completamente diversa in ambito economico. Può essere

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definito ultra liberista proprio perché ha promesso di attuare le idee di Paulo Guedes, titolare di un dottorato all'Università di Chicago e probabile Ministro dell’economia, che ha l’obiettivo di rilanciare il Paese e disintossicare lo Stato dalla corruzione, privatizzando numerose aziende pubbliche per ricavare tra 164 e 234 miliardi di euro circa.

La soluzione proposta è stata abbassare l’età punibile da 18 a 16 anni, rendere più facile il porto d’armi e la reintroduzione della tortura. Due modi di vedere l’economia completamente diversi, visto anche che la Cina è il più importante partner commerciale brasiliano (più degli Stati Uniti stessi) e che il neopresidente dovrà scegliere di schierarsi da una delle due parti nella guerra commerciale in corso. E tuttavia, l’elezione di Bolsonaro è stata vista di buon grado dagli investitori: da quando il candidato del PSL è salito in vetta nei sondaggi è iniziata una “luna di miele” con i mercati che ha fatto guadagnare moltissimo alla borsa di Brasilia (+18% da giugno a ottobre), proprio per le promesse economiche esposte in campagna elettorale. I mercati, d’altronde, sono stati favorevoli anche a Trump, che ha ottenuto un rilancio dell’economia mediante la sua riforma di politica fiscale.

Il dubbio Due personaggi quindi, Trump e Bolsonaro, così simili eppure così diversi: politicamente scorretti e violenti contro le minoranze, ma il primo protezionista e il secondo ultra-liberista. Uno legato alla Cina, l'altro suo nemico giurato. Sebbene le alleanze del Presidente degli Stati Uniti d'America, a volte, sembrino scontate, i due sono totalmente imprevedibili. Uno specchio delle due Americhe che si guardano e si riconoscono in una situazione simile tra loro, ma allo stesso tempo separate da profonde divergenze. Quasi come divise a metà.

di Simone Martuscelli e Alessandro Guerriero 39


Parallasse La rassegna stampa critica di Scomodo

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

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Da diversi mesi dall’ultima pubblicazione di Scomodo, Parallasse ritorna e offre una panoramica di alcuni tra i più importanti fenomeni mediatici: notizie che prepotenti si fanno strada nelle prime pagine dei giornali e che trovano interpretazioni disparate, distorte e spesso non coerenti con la realtà. Sia la politica nazionale che estera hanno rivelato - in generale e nel corso di questi ultimi mesi -, attraverso il loro impatto sui giornali, lo spirito del tempo contemporaneo. E, attraverso le questioni cittadine, torniamo invece ad una dimensione più locale che rivela gli interessi economici che muovono l’industria editoriale. Le vicende di politica cittadina hanno visto, in un panorama ampio di eventi, il referendum sull’Atac e l’assoluzione di Virginia Raggi, cose che trovano interpretazione assai differente in base alla testata giornalistica di riferimento, dove singole parole diventano chiave per la comprensione di una linea

editoriale più suscettibile o meno rispetto a determinati fattori. Da una visione più vicina alla realtà di cui facciamo parte invece abbiamo sentito il dovere di analizzare la vicenda che ha visto Spin Time Labs oggetto di un attacco da parte del Messaggero. A proposito di Spin Time Labs Abbiamo deciso di dar vita a questa rubrica per denunciare ai nostri lettori le distorsioni della realtà ad opera dei giornali in nome degli interessi dei propri editori. Quello che ora andiamo a narrare è uno dei migliori esempi di queste forme di compromissione delle notizie ed arriva non casualmente dalla nostra città, per mezzo di una delle fonti d’informazione più amate dalla popolazione romana: Il Messaggero. Il 16 Ottobre, sul sito del Messaggero Roma, a firma di Marco Pasqua (uno dei giornalisti più riconosciuti all’interno del panorama romano per i suoi articoli contro qualsivoglia iniziativa sociale che non decida di rispettare in toto i parametri legislativi), compare un articolo che si scaglia pesantemente contro il vicesindaco Luca Bergamo, reo di aver preso parte ad un evento all’interno dell’occupazione a scopo abitativo Spin Time Labs, guidata dal collettivo Action che dal 2013 ha ridato vita all’ex sede INPDAP di Via Santa Croce in Gerusalemme. La realtà di Spin Time è ben riconosciuta nel quartiere Esquilino e uno dei più virtuosi esempi di riqualificazione urbana partita dal basso, al punto tale che la Regione Lazio è sul punto di concedere allo stabile il titolo di “bene di riqualificazione urbana” (sarebbe il primo caso a livello regionale). Ma questo non per Marco Pasqua, paladino

della legalità della cronaca romana. Il giornalista si scaglia infatti in una dura invettiva contro il vicesindaco, reo di star legittimando una occupazione abusiva con la sua presenza (insieme a quella della Presidente del Municipio I Sabrina Alfonsi e dell’assesore all’infrastrutture del Comune Luca Montuori). Detto ciò, Pasqua attacca poi la realtà di Spin Time, ripercorrendone la storia ma enfatizzando unicamente aspetti negativi , come le due morti avvenute all’interno della struttura (lo stesso Pasqua è però costretto ad ammettere che entrambe le fatalità non siano attribuibili alle condizioni di vita all’interno dello stabile) o dei concerti organizzati all’interno della struttura, rei di compromettere il sonno degli abitanti del quartiere. Fino a questo punto della storia, il tutto può esser ricondotto alle solite polemiche che i giornalista del Messaggero solleva settimanalmente che abbiamo accennato ad inizio articolo, ma dietro questo attacco mediatico vi è in realtà una motivazione ben precisa: nel 2012 l’INPDAP decide di cedere gli uffici di Via Santa Croce in Gerusalemme alla Fondo Immobili Pubblici, a cui viene dunque affidata la vendita dello stabile che viene bloccata dall’occupazione di Action.Il principale azionista di Fondo Immobili Pubblici risulta però essere la Banca Finnat, la cui presidenza onoraria risulta essere nelle mani della figura di Carlo Calvelaris. Lo stesso Calvelaris occupa anche la posizione di consigliere all’interno della Caltagirone S.p.a , del Messaggero e di altre 6 società vicine alla figura Francesco Gaetano Caltagirone, editore del messaggero nonché più grande palazzinaro romano.

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Novembre Maggio 2018 2018

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Non ci vuole dunque molto a capire che l’attacco mediatico sia stato voluto da Calvelaris in maniera da attirare l’attenzione sulla vicenda di Spin Time ( cosa che accade, visto che sul tema si esprime perfino il ministro degli Interni Salvini), per cercare di smuovere l’attenzione pubblica contro l’occupazione e portare allo sgombero dello stabile, in maniera tale che il Fondo Immobili Pubblici possa così portare al termine la vendita dello stesso. Per ottenere ciò, Caltagirone ha deciso di far scendere in campo il suo paladino della legalità Pasqua che ,magari perseguendo anche un obiettivo nobile, finisce vittima degli interessi economici del suo editore, come molte altre volte in cui ha attaccato movimenti assai critici nei confronti della figura che gli paga mensilmente lo stipendio. Sfortunatamente, sono proprio gli atteggiamenti ingenui come quelli di Marco Pasqua a permettere che la figura professionale del giornalista sia sempre più messa in discussione e non più considerata affidabile, alimentando così le parole di alcuni personaggi politici che hanno fortemente scosso il weekend del mondo dell’informazione

A proposito del week-end “di fuoco” di Roma

Il 10 e l’11 Novembre sono stati 2 giorni fondamentali per il futuro della città di Roma: il 10 è arrivata l’assoluzione dal reato di falso per la sindaca Virginia Raggi, mentre l’undici è andato in scena il referendum consultivo promosso dai Radicali per la liberalizzazione del trasporto pubblico romano ( che ha visto andare alle urne solo il 16% della popolazione della capitale, portando così al fallimento della proposta per il mancato raggiungimento del quorum). Per quanto concerne l’assoluzione della Raggi, la notizia ha in realtà aperto le prime pagine di buona parte dei quotidiani nazionali e non solo di quelli stanziati a Roma, come Messaggero e Tempo. A far risaltare la notizia non è stata solo la vicenda in sè, ma soprattutto le parole del Viceministro Luigi di Maio e dell'esiliato guatalcamenco Alessandro di Battista. I due, che non facevano coppia da un bel po di tempo, hanno approfittato della sentenza del giudice Roberto Ranalli per attaccare i giornalisti, arrivando a definirli “sciacalli” e “puttane”. Parole durissime che colpiscono nel segno e fanno partire una furiosa risposta da parte degli organi d’informazione, i quali attaccano violentemente i due esponenti del M5S, difendendo il proprio operato. Tutti meno che la Stampa, impegnata nella sua crociata pro-Tav e che lancia sulla sua prima la folla di Piazza Castello favorevole all’opera. Assai interessante risulta analizzare come la vicenda dell’assoluzione della Raggi sia stata raccontata dai due giornali più vicini alle attuali forze di governo: il Fatto Quotidiano e Libero. Il primo mantiene una forma di atteggiamento critico nei confronti della prima 41


cittadina romana, rallegrandosi per la sentenza ma rimanendo critico nei confronti dell’operato della Sindaca (a testimonianza di ciò vi è la vignetta che accompagna la notizia, in cui la Raggi viene accusata di nullafacenza). Se questo fatto risulta abbastanza sorprendente, non sorprende affatto invece l’atteggiamento di Libero nei confronti del caso: la prima pagina del quotidiano di Feltri risulta una forma di manifesto elettorale pro Lega, in cui vengono contemporaneamente attaccati sia la Sindaca di Roma, la cui sentenza viene vista come un favore poiché altrimenti costretta alle dimissioni e viene paragonata ad una patato bollita (termine degno come al solito di un bambino di quinta elementare, anche se da Libero ci si aspetterebbe qualcosa di più volgare), sia la Magistratura italiana, colpevole come sempre nella narrazione di Libero di essere politicamente schierata. Il giornale riporta infatti come la Cassazione abbia deciso di confermare il sequestro dei 49 milioni di euro rubati dal Carroccio tramite i rimborsi elettorali, che viene vista come una sorta di accanimento dettato da interessi politici da parte di sedicenti “toghe rosse” (anche se in questo caso i favoritismi sono rivolti verso l’area gialla del governo attuale). Se la prima notizia ha comunque riscosso un grande successo a livello nazionazle, lo stesso non può dirsi riguardo il deludente risultato del referendum sulla liberalizzazione del trasporto pubblico romano. Solo Messaggero e Tempo infatti decidono di dedicare spazio sulla propria prima pagina al risultato referendario, mentre 42

gli altri quotidiani hanno deciso di dar spazio agli argomenti che maggiormente rispecchiano le proprie linee editoriali. Risulta però difficile credere che questa totale indifferenza nei confronti della notizia si sarebbe presentata con una schiacciante vittoria del sì con raggiungimento del quorum, poiché molti giornali avrebbe potuto speculare sulla grande sconfitta della Sindaca Raggi (che di tutto ha fatto pur di non far andare in porto questo referendum). Ciò non è avvenuto però, per cui il futuro dei trasporti pubblici romani non rientra più nelle priorità dei quotidiani nazionali.

A proposito dell’omicidio di Desirée Uno degli eventi che ha più mosso il dibattito dell’opinione pubblica italiana è stato l’omicidio di Desirée Mariottini, sempre a Roma, nel quartiere San Lorenzo. Vicende del genere sono il culmine di processi di degrado sociale trascinati e spesso alimentati per anni, che esplodendo in questa maniera forniscono materiale per narrazioni che spesso assumono tratti ideologici e che, rimanendo i fatti dai contorni fumosi, con le indagini in corso, forniscono ampio spazio per interpretazioni e conclusioni assai disparate tra loro. Nella giornata del ventisei

ottobre, il Giornale titola ad esempio “Assassini umanitari, presi i killer della sedicenne: sono ex rifugiati ora clandestini” e aggiunge un sottotitolo apparentemente irrelato “e a Bergamo una chiesa diventa moschea”. I fatti dell’agenda quotidiana per il Giornale sono quindi principalmente l’omicidio di Desiree e una nuova moschea a Bergamo, aperta dopo la vittoria di un bando su una vecchia chiesa. Le due vicende vengono accostate nel tentativo di fornire una visione compiuta rispetto a fenomeni ben più grandi e complessi dell’omicidio di Desirée, che diventa un mero vettore per convogliare emozione e quindi attenzione verso una ben precisa linea editoriale. Al fianco un editoriale di Sallusti dal titolo “Lettera aperta a Desiree e alle Boldrini”. Quindi, sebbene per una testata come il Giornale la questione principale fosse indirizzare l’aspetto legato ai fenomeni migratori, per un giornale cattolico come Avvenire la vicenda assume un altro aspetto: “La droga e il degrado trappola per Desiree, adolescenti a rischio per stupefacenti e solitudine”. Nel titolo del Giornale non viene fatta menzione di stupefacenti, invece sul quotidiano cattolico ne compaiono ben due riferimenti. Solitudine e droga sono due temi su cui la Chiesa ha spesso indirizzato la propria preoccupazione rispetto ai giovani. Libero ha invece i toni fragorosi indirizzati verso la nuova moschea a Bergamo “Allah sfratta Gesù”, ma a differenza del Giornale non pone un vincolo di relazione tra questo titolo e quello dedicato alle indagini sull’omicidio di Desirée, che viene titolato “Gli stupratori di Desiree sono criminali ma la

droga non aiuta a proteggersi” e presenta una grande immagine al centro della prima pagina con il volto non censurato della giovane. I giornali più diffusi Repubblica, Stampa, Corriere - hanno invece toni più limpidi e meno orientati a livello interpretativo nel descrivere la vicenda, ma sempre con l’accento sul fatto che i fautori del reato fossero immigrati. I temi centrali per l’analisi di una vicenda simile, al di là di mistificazioni, non vengono tuttavia mai realmente indirizzati.

Scomodo

Scomodo

Novembre 2018

A proposito di politica estera Sulle prime pagine del mese di novembre si è fatta strada per alcuni giorni la notizia sullo svolgimento di un summit a Palermo sulla situazione in Libia. Sebbene sia da considerarsi un fallimento, a causa della presenzaassenza di Khalifa Haftar, non sono mancati gli strumenti per promuovere un’immagine, se non di un successo, per lo meno di un non totale fallimento. Su più quotidiani infatti si trova in prima pagina la fotografia d’impatto che vede Conte al centro di una stretta di mano tra Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar, in posizione da mediatore. L’entusiasmo delle immagini che, tra l’altro, sono ovviamente quelle postate sui canali social delle figure di governo - viene Novembre 2018

tuttavia smorzato dai toni più contenuti: “Libia, a Palermo solo una fragile intesa tra Haftar e Sarraj” la Stampa, “Stretta di mano sulla Libia, ma la pace è ancora un rebus” il Corriere, “Vertice sulla Libia, Conte: è un successo. Ma finisce senza una vera intesa” la Repubblica. L’approccio del Manifesto è invece differente, mettendo l’accento su una questione che negli altri principali quotidiani rimane taciuta: quella migratoria, “Grandi e ampi sorrisi, ma silezio sui migranti”. Sempre nella prima pagina del Manifesto infatti viene dedicata l’immagine di copertina allo sgombero del Baobab a Roma, creando quindi un’organicità tematica. Oltre alla presenza di notizie sui quotidiani, attraversi titoli sensazionalistici e immagini, dobbiamo anche soffermarci sul peso che hanno le assenze di determinate notizie. Sulle prime pagine dei quotidiani nazionali infatti viene fatta assai poca menzione di una tragedia che da diversi giorni miete vittime: gli incendi in California. Il livello di distruzione delle infrastrutture e del territorio assieme al numero di morti rende gli incendi di questo periodo i più devastanti nella storia della California. Le cause degli incendi sono assai numerose e concatenate: dai cambiamenti climatici al modo in cui si gestivano i precedenti incendi, spegnendoli immediatamente e non lasciando che compiano la loro naturale evoluzione. Tuttavia le cause che ne cagionano l’assenza sulle testate giornalistiche in posizioni di rilievo - mai una prima pagina - risiedono nella natura dell’evento che, sebbene per livello di devastazione sarebbe ottimo per prime pagine

(proprio come gli attentati terroristici, i grandi disastri, etc …), poiché è diluito nel tempo non riesce a convogliare lo stesso impatto di catastrofi differenti. In piccolo è quello che accade per il cambiamento climatico che, sebbene stia già iniziando nel processo di rimodellamento del pianeta - con tutte le vittime e la distruzione degli ecosistemi umani che comporta -, non riesce mai a giungere in maniera prepotente nelle prime pagine dei giornali. Un discorso simile è possibile farlo anche rispetto ad altre vicende differenti da queste ultime: una tra tante la guerra in Yemen, un conflitto che ha un numero di vittime in crescita assai repentina ma che, non essendo teatro di veri conflitti tra gli interessi delle grandi potenze mondiali non trova posto nelle narrazioni dei quotidiani, eccetto qualche sparuto articolo.

di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol 43


di Martina Saladini Foto di Emma Terlizzese

SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA

TORRI DELL'EUR Superficie totale dell’area: 81.800 mq Anno di costruzione: 1961 Proprietà: Alfiere s.p.a. Anno di abbandono: 2016

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’EUR è, a detta di molti, “una città dentro la città” nel Sud della capitale. In questo quartiere, dove le linee pulite dell’architettura razionalista e le architetture monumentali fanno da padroni, svetta l’ecomostro delle Torri Ligini. Le cinque torri furono progettate nel 1961 per ospitare gli uffici del Ministero delle Finanze; oggi “Beirut” (nomignolo affibbiatogli dai cittadini in riferimento all’aspetto dei palazzi durante la guerra in Libano) verte in stato di com-

IL PROGETTO, PUR TERMINATO IN SOLI. 18 MESI, ARRIVO "IN RITARDO" RISPETTO ALLE OLIMPIADI. NONOSTANTE TUTTO, ROMA E LO STATO ITALIANO NEL 1961 AVEVANO IL LORO COMPLESSO PER I DIPENDENTI DEL MINISTERO DELLE FINANZE. pleto abbandono dopo numerosi cambi di proprietà e rimbalzi tra ipotesi di demolizione e progetti di riutilizzo.

UNA STORIA DISONESTA In vista delle Olimpiadi di Roma del 1960 i progetti erano molti. Tra essi, spiccava quello di trasformare l’EUR in un quartiere moderno mantenendo una coerenza di fon-

do con l’approccio razionalista seguito durante la costruzione del quartiere durante il fascismo: un progetto ambizioso e supportato dall’entusiasmo che accompagna uno degli eventi più dispendiosi della storia della capitale. E le Torri Ligini rientravano pienamente in questo piano. Gli elementi di interesse per il progetto delle cinque torri erano puramente architettonici. Prima di tutto, la costruzione in altezza di un nuovo ministero, imposta dal paesaggio urbano dell’EUR, era un elemento del tutto

inedito per la città di Roma; secondo poi, per la costruzione di questo nuovo complesso di enorme interesse furono scartati elementi tradizionalistici a favore di una moderna “facciata continua”, che diverrà un elemento diffuso durante tutto il boom edilizio romano degli anni ’60 e ’70. Il progetto, pur terminato in soli 18 mesi, arrivò “in ritardo” rispetto alle Olimpiadi. Nonostante tutto, Roma e lo Stato italiano nel 1961 avevano il loro complesso per i dipendenti del Ministero delle Finanze.

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NEL 2015, UNA DONNA DI 66 ANNI. MORIRA SCHIACCIATA DA UN CANCELLO PESANTE 700 CHILOGRAMMI DURANTE I LAVORI PER TRASFORMARE LE TORRI NELLA NUOVA SEDE DI TELECOM.

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he, tuttavia, continuò ad operare come tale per meno di trent’anni: già negli anni ’90, a seguito di brutali e snaturanti opere di restaurazione del complesso (che lo privarono del tutto dell’attrattiva estetica) avvenute durante il decennio precedente, le Torri Ligini erano state svuotate degli uffici ministeriali e lasciate del tutto abbandonate. I continui progetti in pompa magna per il recupero delle Torri Ligini, ancora considerate importanti nel tessuto dell’EUR, hanno reso

col tempo il complesso un cantiere permanente, anche se spesso fermo e pericolante. Nel 2015, una donna di 66 anni morirà schiacciata da un cancello pesante 700 chilogrammi durante i lavori per trasformare le Torri nella nuova sede di Telecom.

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DI VIALE EUROPA 242

A Dicembre del 2002 il Demanio vende l’immobile a Finteca, società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e nel 2005, insieme a un drappello di imprenditori privati, si riuniscono tutti sotto la Alfiere spa. Nel 2009, con un intervento di manutenzione straordinaria per la messa in sicurezza dell’area, la società avanza al Comune la proposta di demolizione e ricostruzione dell’immobile con cambio di destinazione d’uso. Le torri avrebbero dovuto ospitare residenze extra lusso firmate Renzo Piano. Il

progetto si presentava come un “restyling” per la facciata del quartiere, una sostituzione urbana in uno dei punti più noti e visibili dell’EUR. Con un’aggiunta di cubatura e un rivestimento in vetro il progetto viene soprannominato “casa di vetro”. Le Torri vengono quindi preparate per la demolizione, smantellate le pareti esterne e sventrate di ogni rivestimento, ridotte a scheletri imponenti proprio accanto all’area dove si stava costruendo il nuovo e all’avanguardia Centro Congressi di Massimiliano Fuksas, la Nuvola.

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NEL 2015 I PIANI CAMBIANO. SOTTO L’AMMINISTRAZIONE DEL SINDACO MARINO, L’ALLORA ASSESSORE ALL’URBANISTICA GIOVANNI CAUDO SI IMPEGNA A RISOLVERE IL PROBLEMA DELLE TORRI LASCIATE INUTILIZZATE.

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uesta proposta di residenze lussuose al centro dell’EUR però non partirà mai, sia a causa del crollo del mercato immobiliare sia perché il MiBAC, presieduto dall’architetto Paolo Portoghesi, definisce il progetto troppo invasivo sul piano paesistico. Questo determina l’uscita di scena dei soci privati, lasciando la Cdp senza un partner e, con il naufragare del progetto, non viene mai ritirato il permesso di costruire.

IL GIOCO DELLE 5 TORRI Nel 2015 i piani cambiano. Sotto l’amministrazione del Sindaco Marino, l’allora assessore all’urbanistica Giovanni Caudo si impegna a risolvere il problema delle Torri lasciate inutilizzate. Viene sottoscritto un protocollo tra Comune e Cassa Depositi e Prestiti e Tim/ Telecom, società telefonica subentrata al fianco di Cdp e al posto dei soci privati. Non si parla più di demolizione, ricostruzione e cambio di destinazione d’uso da direzionale a residenziale, ma bensì di risanamento

conservativo delle Torri e mantenimento della funzione ad uso direzionale, al fine di insediare (come già detto) il quartier generale della società telefonica Telecom. Il progetto questa volta era all’insegna dell’innovazione tecnologica, le Torri venivano ripristinate in armonia con la loro architettura originaria anche con rivestimenti in travertino, pietra tipica dell’EUR e della storia di Roma. Si nota come questa volta non ci sia una speculazione a scapito della tutela del patrimonio artistico/architettonico e della sostenibilità per

il territorio. Così nel Dicembre 2015 il Comune rilascia il permesso di costruire, tornando però sui suoi passi pochi mesi dopo. A Luglio 2016, infatti, sotto la giunta Raggi, l’ex assessore all’urbanistica Berdini ritira il permesso poiché il Comune non riceve il contributo di 24 milioni di euro che la società, l’Alfiere spa, doveva versare nelle tasche del Comune. Oneri aggiuntivi previsti per il cambio di destinazione d’uso da residenziale a direzionale, rifacendosi quindi ad impegni del 2009 e al protocollo del 2002.

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QUESTE TORRI SCORTICATE SONO DIVENTATE L’EMBLEMA DEL FALLIMENTO DI UN’IDEA . DI CITTA LE CUI CONSEGUENZE CONTINUANO A GRAVARE SUI CITTADINI DELL’EUR E SUL PAESAGGIO ROMANO

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a, dato il mantenimento della destinazione ad uso direzionale e l’annullamento della demolizione dell’immobile, la società non doveva nessun contributo al Comune.

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VENDETTA PRIVATA? Il Comune cita in giudizio la società Alfiere per danni ma il Tar del Lazio si muove a favore

della società e nega la richiesta dei 24 milioni di euro richiesti dal Comune alla Alfiere spa. Si apre però una battaglia a colpi di ricorso quella tra il Campidoglio e la società, dato che quest’ultima richiede un risarcimento danni che ammonta a 326 milioni di euro, facendo tremare la sindaca Virginia Raggi e le casse della capitale. Questa volta il Tar, a Marzo 2018, si esprime a favore del Comune, questo non dovrà dare niente alla Società Alfiere. Nello stesso tempo, la società privata Tim/Telecom esce dalla joint venture con Cassa Depositi

e Prestiti a causa della dilatazione dei tempi di fine lavori. Secondo il contratto infatti, i lavori dovevano essere autorizzati entro Settembre 2016 ed ultimati nel 2017. Nuovamente il Comune di Roma si ritrova a mani vuote. In poco tempo la capitale ha perso gli investimenti per la riqualificazione, gli oneri di urbanizzazione e gli acquirenti per questo immobile ormai sventrato da anni di abbandono ed utopiche scelte progettuali. Queste Torri scorticate sono diventate l’emblema del fallimento di un’idea di città le cui conseguenze continuano a gravare sui

cittadini dell’Eur e sul paesaggio romano. In un quartiere che punta a diventare la “nuova city”, teoricamente pronta ad ospitare ondate di turisti, con la presenza di infrastrutture di grande complessità e innegabile identità storica e paesaggistica, in uno sfondo di continuo cambiamento volto al risorgere di un quartiere definito ormai “di facciata” per Roma, perché i cittadini devono subire le scelte di una città che al posto di dare nuova vita a questi Mostri riesce soltanto ad innalzare monumenti all’abbandono?

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Ho incontrato il King di Fortnite, stavo a teatro Considerazioni sparse sulla nuova cultura dell’intrattenimento

Nella Cinecittà World di Dante Ferretti tre impavidi giornalisti tentano l’impresa della vita e si addentrano nelle trame di un mondo che pensavano di saper raccontare. Un excursus tra bambine coraggiose, mamme tatuate e padri invadenti. Un viaggio errante tra riflessioni sul teatro e sul futuro dell’intrattenimento. Mirando a un bersaglio mobile. continua a pag. 56

CULTURA

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ZUZU

Giulia Spagnulo, in arte Zuzù, è la ragazza che ha realizzato la copertina per questo numero di Scomodo. Abbiamo intervistato Zuzù tra un calice di vino e un boccale di birra in una videochiamata che collegava Roma, Salerno e Achen (Germania) e ci siamo divertite molto a rivolgerle qualche domanda riguardo le sue illustrazioni e la sua storia. Zuzù si è laureata allo Ied (Corso di Illustrazione) di Roma e tra poco pubblicherà nelle librerie il suo primo fumetto edito Coconino.

Zuzù è il nomignolo che ti dava tuo babbo da piccina. Solitamente si tengono nascosti, tu invece hai deciso di firmarti così, come mai? Diciamo che non ho mai vissuto questo modo in cui mi chiamava papà come qualcosa di intimo fra me e lui, anche perché poi hanno iniziato a chiamarmi Zuzù anche mia madre, mio fratello e gli amici. È entrato un po’ nella mia identità questo “Zuzù”. Poi in realtà c’era anche il problema del mio cognome, Spagnulo, che è un cognome impronunciabile e che tutti sbagliano scrivendo Spagnuolo (lo hanno sbagliato due volte alle PostePay e anche sulla patente) e allora mi son detta che era il momento di cambiare e ho preferito l’identità di Zuzù a quella di Giulia Spagnulo, che alla fine è sempre la stessa persona ma è più … sfiziosa. Inoltre mi piace tantissimo la lettera Z, che è l’ultima lettera dell’alfabeto e non se la caga mai nessuno. Zuzù della sua infanzia ha mantenuto una dimensione molto fanciullina e spontanea nel disegno, quand’è che il gioco di fare disegnini è diventato un lavoro? Una volta mi trovavo in un bar con degli amici e mi è capitato sotto mano “La mia vita disegnata male”, un fumetto di Gipi: non conoscevo il fumetto, non conoscevo il mondo dell’illustrazione, ma mi è piaciuto talmente tanto che ho pensato ‘cazzo nella vita voglio fare esattamente questo, voglio comunicare tramite il disegno, tramite il fumetto’, e così ho deciso di trasformare i miei disegnini nel mio lavoro. Ciò che conta è che sia stata io a decidere di trasformarlo in lavoro e che non lo sia diventato per forza di cose o per altri motivi, così ho potuto mantenere la componente del gioco, del divertimento e degli esperimenti.

Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 56

Scomodo ti ha dato foglio bianco sul tema della legalizzazione delle droghe: andando oltre l’immaginario visivo, che ne pensi? Allora … ho opinioni un po’ contrastanti, e un po’ che invece si avvicinano fra di loro … io penso che la legalizzazione di per sé sia funzionale, infatti da una parte aiuta a combattere il sistema mafioso che controlla il giro della droga e, dall’altra, permette anche a chi ne usufruisce di avere un prodotto “sicuro”. A mio parere la legalizzazione è più una soluzione che un problema, quindi sono assolutamente pro-legalizzazione, anche se poi, andando nello specifico,

bisogna vedere di che tipo di sostanza stiamo parlando. Mi rendo conto che la dipendenza è molto pericolosa, di conseguenza penso che per me certe legalizzazioni potrebbero rappresentare un pericolo… Però ecco, a me fa paura la dipendenza da certe sostanze, perché la dipendenza è come una malattia mentale, è un’ossessione, riesci solo a pensare ‘devo procurarmela’, quindi bisogna stare attenti, bisogna capire fino a che punto ci si possa spingere con questa legalizzazione, cosa è legalizzabile e cosa no, cosa magari è semplicemente dannoso. Penso che ci siano per esempio dei vantaggi incredibili nell’uso medico della marijuana quindi questo non solo dovrebbe essere legale ma prescrivibile come antidolorifico a chi soffre di certe problematiche, mentre ad esempio l’eroina non ha nulla di positivo nell’essere legalizzata, anche perché non abbiamo ancora trovato vantaggi alcuni in questa sostanza, quindi sarebbe come un atto di masochismo collettivo. Sei un eccezione alla regola: giovanissima, tra pochi mesi tra gli scaffali delle librerie ci sarà la tua prima opera edita da Coconino, come è successo? È successo nel momento in cui deciso di portare un fumetto come Tesi di Laurea (allo Ied di Roma, Corso di Illustrazione),e il mio relatore di tesi Ratigher, con cui ho lavorato alla produzione del mio fumetto, è diventato direttore della casa editrice Coconino. Ratigher mi ha seguita lungo tutto il periodo della produzione del fumetto, e senza dirmi assolutamente niente (penso per il mio bene, l’agitazione mi avrebbe messa k.o), ha aspettato il giorno della mia laurea per darmi la notizia che lo avrebbero pubblicato con la sua casa editrice: aveva mostrato il mio fumetto alla redazione e visto che era piaciuto molto, hanno deciso di pubblicarlo. Quindi in realtà è stato tutto molto naturale e direi anche che sono stata molto fortunata, non ho dovuto fare quelle procedure per cui bisogna proporre il proprio fumetto, mandarlo via mail a tot case editrici, andare alla fiera ecc. Ho saltato tutte questi passaggi ed è stata una grande fortuna e oltretutto sono incredibilmente grata per la fiducia che mi ha dato Ratigher, perché, quando ha preso questa decisione, il fumetto non era pronto e lui ha veramente investito in qualcosa che pensava avesse del potenziale. Beh che devo dire…Culo! Mi sono fatta il culo ma poi ho avuto anche…culo.

le tue particolarmente. Convinci i nostri giovani lettori a leggere fumetti, a leggere i tuoi fumetti, insomma spiegaci “perché i disegnini”? Fin da quando ero piccola, ogni volta che qualcuno mi diceva “dovresti leggere questo libro …”, che fosse un familiare o un’amica, poi non lo facevo mai: non lo farò fin quando non sarò io a scoprirli da sola, quando diventeranno la mia passione. Lo stesso accade con i fumetti. Fin quando non ti ritroverai con un bel fumetto in mano, tutti i consigli degli amici saranno stati inutili, e ciò l’ho sperimentato sulla mia stessa pelle, quando per caso mi son trovata in un bar e tra le mani il fumetto di Gipi. Quindi il mio consiglio per avvicinare i ragazzi ai fumetti non è tanto dire “leggete i fumetti perché sono belli” – lo sono davvero – ma è far si che i fumetti vengano trovati e scoperti dai ragazzi stessi, che sia in un bar o in una libreria. Comunque io sono fiduciosa perché è da un po’ di anni che il fumetto sta cambiando nell’immaginario letterario, se infatti prima la fruizione del fumetto (principalmente il comic dei supereroi in edicola) era limitata a quel pubblico ristretto, grazie a fumettisti come Gipi e grazie a un filone diciamo più “autoriale” il fumetto è arrivato anche al pubblico più vasto di lettori di romanzi, i quali hanno scoperto che hanno qualcosa in comune, fanno parte della stessa famiglia. Non stiamo parlando di un prodotto per bambini o per edicola. Insomma, io sono fiduciosa perché ho già visto questo cambiamento almeno in parte nell’ottica comune. Io ci credo, ci credo! di Laura Pacifici e Maria Marzano

Le immagini hanno un forte potere,

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L

a redazione di Scomodo, o almeno tre dei suoi rappresentanti, si è affacciata al mondo del nuovo intrattenimento crossmediale, il web gaming. Per farlo, si è concessa un soggiorno ad uno dei due parchi divertimenti di Roma, Cinecittà World, situato nella Las Vegas capitolina, il sito policommerciale di Castel Romano. Siamo partiti, in modalità freelancer, dentro una sette posti con l'obiettivo di strappare un’intervista al Re Mida di Youtube Italia. L'occasione è stata dettata dall'evento ivi organizzato da Mirko Alessandrini, in arte Cicciogamer89, che ha portato in scena per la settima volta il suo omonimo Live Show a teatro. L’evento consiste in un'esperienza diretta con il gamer che fa quello per cui è famoso: giocare in modo competitivo, in questo caso a Fortnite, uno sparatutto multiplayer free-to-play concepito dalla Epic Games, azienda che si stima valga 12 miliardi di dollari, soprattutto grazie al gioco in questione, che conta più di 120 milioni di giocatori. Ciò che distingue il divo dell’Infernetto dagli innumerevoli suoi colleghi è proprio rendere viva l’esperienza del web gaming, sfociando in una fase che potremmo definire metateatrale del suo percorso. Le precedenti date erano state un successo crescente mentre lo youtuber girava per l'Italia, partendo da Napoli fino al Teatro Galleria di Legnano, spingendosi fino al Palazzo dei Congressi di Lugano, dove si sono riuniti 950 spettatori. Un tour organizzato data per data, tutto comunicato attraverso il suo canale Youtube che conta quasi tre milioni di iscritti. Le cifre stavolta, essendo anche la quarta data romana, ci sono sembrate più contenute:

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una nostra stima ha deciso che le persone in sala fossero circa 750, tra bambini, adolescenti, genitori, coppie e tre accorti giornalisti. La nostra intenzione è stata quella di informarci, attraverso un'esperienza live, sul presente intrattenimento che coinvolge lo streaming online, come il caso di Fortnite che dilaga sempre più tra i millennial. Lo spettacolo di Mirko è da noi considerato il soggetto perfetto, l'attenzione nei suoi riguardi è semantica e pluriprospettiva, partendo dalla sua romanità così spiccata e unendola alla sua personalità cult tra i giovani e i non più tali. Un simile medium risulta infatti un primo passo calzato per introdurre un discorso più ampio, articolato attraverso una moltitudine di personaggi che spopolano le servizi digitali come Youtube e Twitch, la piattaforma preferita dai gamers proprio perché rende più semplice le donazioni dei fan.

Non è tutto oro ciò che luccica L'arrivo al parco divertimenti è deludente. I dintorni di Castel Romano si presentano come una piattissima fiera dell'insegna, dai fast-food alle bisteccherie, passando per gli iconici outlet locali. Una piazzola semideserta funge da anticamera perimetrale al parco, in cui saltano all'occhio enormi elefanti e zampilli

di fontane, elementi che provano a catturare un'attenzione inesistente. Le attrazioni si possono contare sulla punta delle mani, colpa di interruzioni per manutenzione e ritardi di apertura, i costi sono abbastanza salati e la meraviglia di alcune giostre viene subito stemperata dall'inconsistenza delle successive. Superata una certa ora, pur di raggiungere l'obiettivo da conoscere e intervistare, riusciamo a vagare senza venire ostacolati da nessuno per tutto il parco, raggiungendo anche degli studi di un programma televisivo in registrazione. Il pubblico del parco è ovviamente umile, semplice nei suoi effetti: dalla madre di famiglia col tatuaggio discutibile sul petto alle bambine che durante il rollercoaster acquatico risultano più coraggiose dei sottoscritti che l'hanno affrontato. Superate le attrazioni al cardiopalma, ci si trova improvvisamente, dopo ore di fila, dentro una fantomatica riproduzione di un sommergibile di un fantomatico film di cui nessuno dei tre aveva mai sentito parlare. Lo storytelling sulle vicissitudini del veicolo marino viene esposto da una dolce ragazza, un po' cafona, molto preparata sull'argomento, una guida che riteniamo si erga autorevolmente a totem dell'intero parco. Lo spirito estetico delle varie fermate si ricolloca in quest'ottica farsesca e grossolana: così come l'ingresso scenico del parco può ricordare il set di Gangs Of New York o un film con la Monroe anni '50, i successivi titoli dei caroselli cercano di emulare le grandi saghe del cinema americano, mai girate negli studi di Cinecittà (Jurassic War, Indiana Adventure, Missione Laser per fare alcuni esempi) in un processo di disidenti-

ficazione del nostro cinema, che viene particolarmente esaltato solo dalla riproduzione del Tempio di Moloch di Cabiria, posta all'ingresso della sala delle antichità cinematografiche, insieme ai busti di De Sica e Boldi presi da A spasso nel tempo.

Scomodo

Scomodo

Novembre 2018

Alla ricerca del Sacro Gamer Ci spostiamo per i teatri del posto, tentando di incontrare lo staff di Mirko. Il pressing insistente è già condannato dal poco tempo a disposizione, l'esclusiva dell'intervista è già stata negata in precedenza a giornalisti probabilmente più autorevoli di noi, sicuramente più istituzionali. Ci sentiamo tuttavia quelli giusti ad avere questa occasione, proprio perchè lo conosciamo per via diretta, essendo semplici e meno profani della norma nei suoi confronti. Tutto il suo staff, capitanato dalla gentile e rispettabile madre della web star, si approccia poco prima dell'inizio del live in modo più che solidale, avvertendoci della difficoltà dell'impresa. Per quanto la disponibilità della famiglia sia evidente, si riesce ugualmente a preservare una certa aura di inaccessibilità nei confronti di Ciccio. Come rivelato anche recentemente sul web, lo streamer ha problemi nel contatto con la sua comunità online e con la stampa, avendo superato momenti difficili nel passato con entrambi e rimanendo in ogni caso un personaggio pubblico complicato da mantenere nel tempo. Il suo rapporto intramoenia con i suoi follower è basato su una fascinazione diretta, umana e folkloristica, ricca di catchphrase, battute, inside jokes e dialettalismi. Lo si può riassumere come uno youtuber verace, sincero nella sua comiNovembre 2018

cità, per questo motivo così popolare e apprezzabile dai più. Che forse quest'aspetto sia insito nella sua profonda romanità, da ragazzo dell'estrema periferia della capitale, o lo sia nel suo vissuto di self-made man? Probabilmente in entrambi, come dimostra la sua storia personale ante-Youtube. Mirko non può essere considerato un semplice gamer, ma qualcuno che ha saputo fare della sua esperienza di vita sia un vero e proprio prodotto vendibile che un personaggio in grado di essere un riferimento per i suoi fan. Un riferimento costruito sulla classica favola del proletario che da panettiere di notte, da smanettone informatico e da operatore sanitario nelle scuole, riesce a diventare uno dei più ricchi e importanti youtuber italiani, secondo solo al torinese Favij. Queste considerazioni ci ronzano per la testa, nell'attesa che il live show cominci e che le urla dei bambini fuori il teatro si plachino per qualche minuto. Rimane sempre forte in noi la speranza di incontrare il Sacro Gamer.

Mirko non può essere considerato un semplice gamer, ma qualcuno che ha saputo fare della sua esperienza di vita sia un vero e proprio prodotto vendibile che un personaggio in grado di essere un riferimento per i suoi fan.

Tutta colpa di Kekko Naufragata temporaneamente l'intervista, il teatro si rivela più grande di quello che pensavamo. Un enorme container di posa dove nel passato maestri come Fellini e Scorsese avrebbero potuto girare i loro film. Adesso viene invaso da piccoli nuclei familiari, il clima è veramente spensierato e i pop corn decisamente costosi. Immancabile il paguro, gadget simbolo del canale Cicciogamer89, così come inaspettata la riproduzione del Vinder Bus all'entrata dello spettacolo, il veicolo simbolo dello sparatutto Fortnite. Il primo a salire sul palco, prossimo coro greco di tutto lo spettacolo, è Max, presentatore molto affine all'universo Cicciogamer, chiaramente appartenente alla sua corte, dalla fisicità mangereccia. Insieme a quest'ultimo, salgono per ordine crescente di importanza il dream team dello streamer, la Compagnia dell'Anello, vestiti da cosplayer del gioco in un omaggio al travestimento tipico della commedia dell'arte, flebile legame con il teatro che conosciamo. Mirko ancora non arriva ma si impone subito la linea comica portante dello show: qualunque cosa succeda, è tutta colpa di Kekko. Kekkobomba, all'anagrafe Francesco Fiorenza, è il più seguito tra i tre streamer sotto l'ala di Ciccio. Intervistando dietro le quinte la deliziosa sorella, scopriamo che la spalla comica preferita della star è un suo vecchio fan, che è riuscito a trasformare la passione di collaborare con lui in una realtà non solo virtuale ma anche lavorativa. I momenti sono adrenalinici, Ciccio si fa attendere ed è giusto così. Insieme alla Compagnia, l'altro grande protagonista è il pubblico fremente, ma non 59


tutto. Una coppia di giovani, come in un drive-in, si ritrova avvinghiata nei sedili. Capiamo qui che lo spettacolo può arrivare al cuore di chiunque, di questo passo anche al nostro. Mirko viene introdotto: “Ecco a voi il King di Fortnite!”. Sul palco sale Cicciogamer89, guru della gioventù nelle platee, che inizia a battere i piedi come accade in quei seminari da americani per gente insicura. Ma la qualità fa da padrina: la musica di 2001 Odissea Nello Spazio non è mai stata così adatta dai tempi della pellicola, per l'hype nervoso del pubblico è talora riduttiva. Le luci abbagliano senza infastidire, evidenziano i riflessi dei fumogeni e valorizzano la tuta in technicolor del nuovo arrivato, ennesimo omaggio alle skin del gioco, ossia agli outfit con i quali personalizzare il proprio personaggio, unico servizio a pagamento del titolo videoludico nonché l'unico superficiale. La quarta parete Mirko non la considera neanche. Prende subito dimestichezza e scioltezza con il suo giovanissimo affiato, si prende anche la licenza di canzonarlo un po' quando si accalca sotto il palco del villaggio vacanze in una sorta di rito vagamente tribale legato alla poetica del gioco, la kill, ovvero l'uccisione dell'avversario. All'interno della soirée, questa equivale ad un gol segnato allo stadio, per l'esultanza e il trascinamento che scaturisce dal pubblico. Superati i cabarettistici convenevoli, i quattro si siedono al tavolo di gioco, si comincia a fare quello per cui si è pagato il biglietto: partite in modalità Battle Royale a Fortnite. Tutto, grande novità, è trasmesso in diretta su Twitch, rischiando però di svalutare l'esperienza del live show. Durante il corso 60

dell'evento, non è mancato in noi un certo disagio, bigotto sul nascere, nell'assistere ad un incartocciarsi del significato che ha il teatro, nella sua funzione e nella sua storia, che viene violato giocosamente al margine di essere un mero contenitore, anzi proiettore di elementi virtuali che non hanno nulla a che fare con la tangibilità fisica della performance teatrale. Infatti, tutto sommato, non sembra certamente questo il modo di avvicinare i giovanissimi al palcoscenico, perchè crea un equivoco di fondo basato sull'uguaglianza tra Molière e Alessandrini. La scena è tutta improvvisata e non prevede una arte drammaturgica che si articola in sceneggiatura, scenografia e direzione attoriale: viene molestata inconsapevolmente la sacralità del mestiere teatrale e del suo riconoscimento a professione. Il commento che abbiamo origliato da una madre rifugiatasi fuori dal container in una sigaretta accresce il nostro straniamento rispetto a ciò che nel mentre accade sul palco: “Ammazza, pensavo che facesse tipo uno spettacolo, invece sta solo là e gioca al computer”. Riflettendoci sul momento con più calma, quello che osserviamo attorno a noi è invece qualcosa di straordinario. L'asse dell'intrattenimento si è spostato, specialmente per le fasce più giovani, sul virtuale e l'incondiviso, portando inevitabilmente migliaia di futuri adolescenti a chiudere le proprie passioni tra quattro mura domestiche. Il pubblico interagisce, si allea, si scontra, si rivale sul proprio sapere enciclopedico, identificandosi in un codice linguistico e coreografico. La fanbase in questo modo veicola l'umanità comica del protagonista per co-

stituire una tribù che matura nel tempo assieme a Ciccio e il suo universo. La prima partita del team è un insuccesso, la competitività di Ciccio emerge. Sia nei confronti del suo team, che viene accusato di non seguire alla lettera i suoi ordini, ricordando che Kekko rimane sempre e comunque il capro espiatorio, sia nei confronti del pubblico, che suggerisce al suo idolo con fare troppo confuso e chiassoso. A volte si richiama al silenzio. La prima sconfitta rivendica in noi un inconscio desiderio, tutto sportivo, che Mirko non deluda la sua schiera, si rimetta in carreggiata e, come un atleta, faccia il risultato pronosticato alla vigilia. E difatti la vittoria arriva.

to. Impressionante da vedere, non così allettante da spingerci a giocarlo. Passate le due ore di routine, Mirko regala un ultimo batticuore con una chilometrica esecuzione da cecchino. Genitori esaltati, bambini e coppia, sazi, raggiungono il sottopalco per dirigersi all’uscita. Su sei partite totali due sono le vittorie. Ciccio saluta con calore i suoi credenti. La messa è finita.

La seconda manche vede Ciccio, Kekko, Soul e Jure44 dare il loro meglio esibendosi in una serie di kill che galvanizzano la platea. Le luci stroboscopiche enfatizzano la Vittoria Reale e riuniscono i bambini in momenti da flash mob di euforia collettiva, andando quasi a creare un’atmosfera da discoteca pomeridiana. Anche i sottoscritti, annoiati dalla prevedibilità e dalla ripetitività dei cliché dello show, vengono catturati dal picco di spannung emotiva. Il tutto è gonfiato dalle frequenze sonore dello shooter, degne di un D-Day spielberghiano ma dal risultato incer-

Ballare “Un medico in famiglia” sotto la luna di Cinecittà Torniamo in noi e alla nostra personale ricerca giornalistica. Attraverso conoscenze di fortuna avvenute durante lo spettacolo tentiamo di mantenere in piedi il nostro disegno. L’obiettivo è ancora raggiungibile. Parliamo con il presentatore Max che riesce a darci qualche speranza. Il teatro è ormai svuotato e noi attendiamo, nei consueti tempi morti del mestiere. Dietro le quinte anche il via vai affettuoso dei piccoli fan sembra affievolirsi. Il ritorno di Max conferma i nostri cattivi presagi: Ciccio non rilascia interviste. Il culto della personalità si mantiene al di fuori di Youtube e del palco, poiché, nonostante il costume, Mirko Alessandrini è sempre Cicciogamer89 come Clark Kent è sempre Superman.

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Difatti la forza del suo personaggio sta proprio nella sua non somiglianza a nessun altro youtuber e alla sua dimestichezza nel fondere sfera privata e pubblica. Mentre voltiamo le spalle sconfitti alla madre, rimasta ultima ancora della nostra traversata, sentiamo la frase che ci esemplifica perfettamente il ritratto che del Ciccio ci siamo fatti: “A Ma’ che pò venì da noi pure Bartolomeo a cena?”. Uscendo dal teatro cerchiamo di raccogliere le idee scaturite dalla giornata, ragionando sia emotivamente che più razionalmente sull’esempio individuale di una nuova forma di intrattenimento, squadrata con saccenza o ancora snobbata da chi non si accorge di quanto sia geneticamente insita nella cultura pop contemporanea. Nonostante la spirale del silenzio che circonda questo mondo, le cifre a sei zeri continuano a circolare e a far storcere il naso ai perbenisti. Riflettendo, saltiamo tra aspetti diversi del fenomeno e, spinti dal bisogno inutile di problematizzarlo e dogmatizzarlo, finiamo per rimanere in uno stato di tilt. La cultura, l’intrattenimento e le simbologie a loro annesse ci si palesano ora come un unico, grande e latente ecosistema. La sconfitta è alla partenza, l’immersivitá della nostra analisi è paralizzata dalla nostra appartenenza generazionale a quello stesso flusso che cerchiamo di decodificare, di cui però riusciamo ad identificare i limiti. Un flusso, partecipe anche nella sua forma da contenitore, che racchiude un insieme di segni flottanti, parti di quella marea in cui si sguazza. Impotenti di fronte alla consapevolezza di essere sia complici che accusatori, non neghiamo il nostro totale alienamento rispetto a

quei esercizi di intrattenimento che in questo articolo avremmo dovuto sviscerare. L'unica possibile prospettiva che ci viene da tracciare è l'avvenire non troppo lontano dipinto dal romanzo Ready Player One di Ernest Cline. Fortnite ha già superato la sua funzione di videogame nativa arrivando a collocarsi come l'ennesimo social network: rinfacciando una vita parallela che può sovrapporsi con l'originale come può anche non farlo, questa nuova rete minimale si asciuga alla sola funzione di ludo, annullando quelle vecchie complicazioni sociali che ora sono viste come ingombranti. La domanda comunque irrisolta è quella di indovinare se tutto ciò diventerà permanente nei prossimi anni, lasciando alle proprie spalle questa fase embrionale, in cui il virtuale è ancora distinguibile dal reale. L'ultima riflessione ci appare meno astratta, più contigua, rispetto al piovischio indistinto delle considerazioni precedenti, nonostante il pantano di pensieri in cui ci siamo arenati. Perdenti fino alla fine, sotto la luna delle sette di una Cinecittà World abbandonata a se stessa dai suoi visitatori, ci allontaniamo dal Teatro. Gli altoparlanti iniziano a diffondere nell’aria le prime note della sigla di “Un Medico in Famiglia”. Ce ne andiamo ballando dentro quella fontana a zampillo che avevamo già incontrato, ignorata da tutti fino a quel momento.

di Cosimo Maj, Daniele Gennaioli e Jacopo Andrea Panno 61


Books, not guns. Culture, not violence I residui del ’68 tra ideologie, letteratura e immagini

La rivolta nelle università Nella Canzone del maggio Fabrizio De André, in una prima versione del testo successivamente modificata, cantava “voi non potete fermare il vento: / gli fate solo perdere tempo”: viene affrontato così il grande tema dei movimenti rivoluzionari in Italia di fine anni ‘60, prolungatisi anche durante gli anni ’70. Il brano è liberamente tratto da Chacun de vous est concerné, un testo di Dominique Grange che era stato voce della rivolta sessantottina in Francia, dove gli studenti occuparono l’università di Nantenne. La prima occupazione di un’università italiana avvenne il 24 gennaio 1966, quando gli studenti di Trento occuparono il dipartimento di sociologia, primo nel suo genere e per la prima volta aperto anche a coloro che avevano frequentato l’istituto tecnico. Questa forma di protesta dilagò in tutta la penisola italiana provocando un effetto domino 62

anche nelle altre università, tra cui la Statale di Pisa, la facoltà di Architettura di Valle Giulia di Roma e l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. Tra vari movimenti e divergenze dal punto di vista della teoria politica e della prassi della lotta contro il sistema di produzione capitalistico, l’elemento unificante dei movimenti studenteschi del ’68 fu la volontà di proporre un sapere antagonista, costruito in alternativa alla cultura borghese cristallizzata e chiusa su stessa. Una nuova forma di cultura trasgressiva e rivoluzionaria, la cosiddetta “decultura”. «Decultura è fondamentalmente un atteggiamento (atteggiamento deculturale). È una forma di difesa e di offesa contemporaneamente» Scrivono i ragazzi della corrente situazionista sul primo numero del loro giornale S nel 1967. Si tratta di un atteggiamento di difesa come consapevolezza del processo attraverso il quale un determinato oggetto

diventa Cultura, ma è anche un atteggiamento di offesa in quanto tenta, provocatoriamente, di mutare l’ordine dei valori dominanti nella società borghese. Tutto ciò accade nel momento in cui gli studi universitari sono aperti anche ai ragazzi provenienti dagli istituti tecnici, ragazzi di umili origini che per natura si oppongono alla cultura elitaria. Nel febbraio del ’67, durante l’occupazione della Sapienza, vengono formulate le Tesi della Sapienza, le quali, oltre ad essere un manifesto programmatico per la futura sinistra marxista, palesano lo stretto rapporto tra lotta studentesca e lotta operaia contro il capitalismo, definendo la figura dello “studente proletario”. Le novità introdotte dalle Tesi della Sapienza sono «l’essere di massa; il far uso di strumenti diretti di azione, sostanzialmente diversi da quelli tradizionali degli organismi rappresentativi; l’assumere obiettivamente un valore politico generale che travalica l’università ed entra in rapporto (incontro o scontro) con il sistema politico; di essere portatore di idee e contenuti di carattere generale». Così in cielo come in terra La riflessione politica, sociale e filosofica del ’68 nasce dalla domanda collettiva sul senso dell’esistenza nello stato di capitalismo avanzato, in cui la dura razionalità della scienza, affiancata da un enorme sviluppo tecnologico, sembra aver definito una verità rigida e totalitaria, in cui l’unica forma di governo è la tecnocrazia del capitale. Nell’epoca in cui la verità è imposta come una certezza dura e trasparente dalle scienze, Marcuse riprende la definizione hegeliana del pensiero come «la negazi-

one di ciò che ci sta immediatamente dinanzi». La lotta assume valore quindi solo nel rapporto con l’intero, che può dare ad ogni momento della contestazione il suo fine ultimo rivoluzionario: il centro della teoria del movimento reale è la totalità, solo nell’ambito della quale si dà la verità della storia. Il polo negativo del movimento del ’68 è la totalità intesa come sussunzione capitalistica e omologazione imperialistica, che definisce una realtà totalitaria; in opposizione si propone una soggettività delle singolarità che sia in dialogo e continuamente tesa al rapporto con l’intero, un intero dinamico e articolato, organico nelle sue differenze interne, «il tutto che può essere compreso soltanto dalla parte» (Tronti). Quest’idea di intero dominerà tutto il dibattito culturale del Sessantotto, dalla filosofia alla letteratura. Nel 1968 Elsa Morante pubblica il suo secondo – e ultimo – libro di poesie, Il mondo salvato dai ragazzini, che contiene anche il suo unico testo drammatico, La serata a Colono. Nella raccolta è compresa la famosa Canzone degli F. P. e degli I. M. in tre parti, in cui F. P. sta per Felici Pochi e I. M. per Infelici Molti. Nel testo gli Infelici Molti sono coloro che per comodità, agiatezze, e anche semplicemente per ozio hanno preferito essere asserviti dal sistema, rifiutandosi di criticarlo e di portare avanti la rivoluzione, che è dovere storico dell’uomo; i Felici Pochi invece sono i coraggiosi che hanno osato ribellarsi, in ogni periodo storico, e che spesso ne sono usciti sconfitti, ma proprio qui sta la loro felicità: in un’insopprimibile allegria per l’orgoglio di aver difeso la libertà collettiva e aver attaccato il siste-

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ma dominante, allegria che mai potrà essere spenta da torture, assassini, prigionie. Esempi di “Felici Pochi” sono Bruno, Spinoza, Galilei, Mozart, Gramsci, Cristo, inteso non nel suo aspetto divino ma in quello umano (pratica frequente negli anni ’70, basti pensare alla Buona Novella di De André). È interessante il riferimento a Bruno e Spinoza, due filosofi che, sebbene in modo diverso, hanno interpretato il mondo come Uno organico, un sistema complesso in cui le parti sono in relazione con il tutto e il tutto stesso è la relazione complessiva delle parti con se stesso, ma anche ogni parte nella sua singolarità e nella sua relazione con le altre parti.

Il polo negativo del movimento del ’68 è la totalità intesa come sussunzione capitalistica e omologazione imperialistica, che definisce una realtà totalitaria Nell’Uno l’effetto coincide finalmente con il principio e, come scrive la Morante: «Forse nei cieli non significa un al di là, e nemmeno una regione altrui. Forse, la doppia immagine così in cielo come in terra si può leggere capovolta essendo una figura sola raddoppiata nel proprio specchio. Forse, tornate fanciulli insegna

che l’ultima intelligenza della fine sta nell’identificazione col principio. E la trinità misteriosa si spiega nel seme che, generando, genera se stesso col sangue ininterrotto della propria morte virginea.» (Il Mondo Salvato Dai Ragazzini, Elsa Morante, 1968). Così la poetessa riassume l’affascinante attività speculativa dell’Uno con se stesso, da cui nasce la differenza tra il pensante e il pensato, che permette il passaggio ai molti. Questo concetto, ereditato da secoli di filosofia e passato anche attraverso la filosofia cristiana, assume un carattere rivoluzionario come identificazione del sé nella totalità. Il comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso» viene ribaltato trasformando il come in perché: il particolare, riconoscendo la sua natura universale nel rapporto con l’intero, scopre la sua forza agente e realizza la sua intrinseca capacità di cambiare il mondo e l’ordine già dato delle cose. Quando si attuerà la Rivoluzione? Quando tutte le parti riconosceranno il loro rapporto con l’Uno e l’unità totale del mondo. Per ora questo mondo fratturato, frammentario e disperso, incosciente di sé sembra una bambina di circa un anno a cui è stata regalata una cuffia nuova di cui va pazza: mettete questa bimba davanti a uno specchio e la vedrete morir di gelosia, guardando la cuffia indosso a un’altra, la bimba piangerà disperata. Ecco la tragedia del mancato riconoscimento dell’Uno con se stesso, la frattura dell’identità, la distruttiva sofferenza di Narciso. O forse, più semplicemente, ecco il nostro triste mondo degli I. M., privati della loro soggettività. 63


Libri per bambini con il culto dell’immagine La letteratura italiana dopo il ‘68 fu profondamente influenzata dalle ideologie della rivoluzione, tanto che il ‘libro’ divenne un mero strumento di diffusione delle medesime. Non è quindi un caso se oggi disponiamo di un’intera raccolta di libri scritti nel ’68 intrisi di ideali anticapitalisti, ambientalisti o comunisti. Ciò che però ci può incuriosire è la presenza di una serie di libri per bambini che calca quegli stessi ideali: si riteneva infatti che i bambini dovessero entrare in contatto con la realtà del mondo fin dall’età infantile, così da poter crescere secondo le giuste ideologie e un giorno metterle in atto. Di conseguenza, questi libri ‘per bambini’ trattano di tematiche come il razzismo, l’emigrazione, il lavoro degli operai e la lotta di classe, lo sfruttamento capitalistico e le ipocrisie della società borghese. Queste tematiche da una parte sono riadattate a misura di bambino, dall’altra trattate in modo molto realistico e crudo: infatti accadeva spesso che la fruizione di questi libri non fosse circoscritta ai bambini e che venissero letti anche dagli adulti operai e contadini, godendo della semplicità della comprensione (spesso erano analfabeti) del testo per bambini e dei contenuti informativi estremamente attuali. Lo scopo primario di questi libri impegnati era quello di far sì che si mantenesse vivo il desiderio di rivoluzione e di una società nuova negli adulti, e soprattutto che si evitasse che i nuovi bambini fossero trasformati nei consumatori nel futuro. Un caso esemplare è La Giornata Dell’Operaio a cura del gruppo redazionale ‘Io e gli al64

tri’ e della Federazione lavoratori metalmeccanici di Genova illustrato da Roberto Ravazzi, in cui viene raccontata la quotidianità dell’operaio Antonio, dal suo risveglio al mattino per andare in fabbrica, fino alla sera quando, dopo una lunga giornata di lavoro, torna finalmente a dormire. La narrazione si snoda sugli eventi della quotidianità di Antonio come di ogni altro operaio accostati ad una continua e sottesa critica alla società, a partire dal fatto che ogni mattina è costretto a percorrere un lungo tratto di strada a piedi poiché il Comune non ha provvisto a dei mezzi di trasporto pubblici in quel quartiere; una volta arrivato in fabbrica, si mette a produrre viti più veloce che può, e qui l’autore fornisce ai lettori una sintetica descrizione-critica del capitalismo attraverso il pensiero del protagonista, il quale si sente ormai alienato dal suo lavoro e svolge meccanicamente il suo compito. Dopo una lunga giornata trascorsa in fabbrica Antonio vorrebbe tornare a casa a giocare con i figli e trascorrere del tempo con la moglie, ma deve prima passare ai sindacati per assistere alla riunione e poi deve fermarsi a comprare la cena, la quale costa ogni giorno di più. Sulla strada di ritorno, vede dei ragazzi giocare in mezzo alla strada: il suo quartiere non solo è sprovvisto di mezzi di trasporto, ma è anche sprovvisto di parchi o campi da gioco. Antonio si rattrista molto ogni volta che vede queste negazioni del Comune e vorrebbe fare la rivoluzione, vorrebbe davvero, ma non può poiché è schiavo della vita da operaio. Un altro aspetto interessante della letteratura sessantottina per bambini è che, come ripor-

ta Walter Benjamin, «il bambino, immergendosi e perdendosi nelle immagini, compie una lettura parallela e autonoma, tralasciando la riva logico-verbale, tanto che le illustrazioni vengono a costituire un senso ulteriore che il bambino avrà della storia», quindi una peculiarità di questi libri è proprio la presenza di un disegno, una fotografia, un’illustrazione che accompagnano la narrazione su cui il bambino concentra la sua attenzione, e su questa tematica si articolerà un’intera mostra espositiva di editoria fotografica, dal 5 Dicembre 2018 al 16 Febbraio 2019, intitolata Libri Per Bambini Con Il Culto Dell’Immagine, presso la Fondazione Pastificio Cerere (via degli Ausoni, 7, Roma). Protagonista della mostra sarà la Collezione privata di libri illustrati per bambini (tra cui compaiono anche gli autori Bruno Munari, Leo Lionni e Gianni Rodari) di Giuseppe Garrera e della biblioteca Fondazione Malaspina.

Cosa resta oggi del ‘68? Quest’anno è stato il cinquantesimo anniversario di una delle rivoluzioni più famose d’Europa, che ha segnato per sempre il

futuro in cui noi oggi viviamo, sotto tutti i punti di vista: dopo la rivoluzione si proseguì ad un cambiamento sociale, culturale, politico, cambiarono i programmi televisivi, gli usi e i costumi della società. Insomma, ci fu una sostanziale apertura mentale che ancora oggi, talvolta, viene richiamata alla memoria soprattutto da chi l’ha vissuta e non si riconosce in questa società completamente diversa. Noi studenti possiamo solo documentarci, pensare a quanto fosse emozionante e prorompente il clima sessantottino rivendicando occupazioni e mobilitazioni in nome anche degli ideali ereditati dai rivoluzionari italiani. Oggi dilaga un disinteresse generale, le proteste sono spesso discontinue ed incoerenti, mosse solo per prassi. Purtroppo la storia della rivoluzione sessantottina è scritta nei libri e si sta materializzando poco a poco quello che si narrava in Fahrenheit 451: le persone non si documentano più, non desiderano conoscere il passato e quello che è rimasto nei libri di storia sarà sempre meno consultato. Allo stesso tempo però, le manifestazioni e le occupazioni non sono il pretesto per reprimere chi ha un obiettivo e sta combattendo per raggiungerlo, non sono giustificazioni per controllare, vessare, spiare e ispezionare chi, “alla minima resistenza, alla prima parola di lamento è giudicato, condannato e per giunta schernito e disonorato”. Dunque la grande domanda è “Che cosa rimane oggi del sessantotto?” Poche sfumature dell’ideale che si viveva tra le strade. La presenza di numerose figure politiche e non, rendeva i cittadini ricchi di ideali ed obiettivi portati avanti dagli

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Non è quindi un caso se oggi disponiamo di un’intera raccolta di libri scritti nel ’68 intrisi di ideali anticapitalisti, ambientalisti o comunisti.

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esempi contemporanei. Il neocapitalismo che si affacciava alle porte del mondo, era ostile e si divideva da un secondo pensiero mondiale che era maturato dagli ideali del comunismo, dunque una società di uguaglianza e senza differenze di classe sociali. Sebbene lo stalinismo fosse ormai fallito con lo svelamento dei crimini della dittatura, i giovani potevano ancora ispirarsi alle figure rivoluzionarie di Che Guevara e Fidel Castro, ma anche al maoismo cinese e alla resistenza portata avanti dal Vietnam, paese piccolo e povero che si trovava a combattere con coraggio contro la maggiore potenza imperialistica del momento. In breve, davanti agli occhi degli studenti era ancora viva una chiara alternativa al sistema. Il neocapitalismo ora, dopo il fallimento di ogni alternativa, è l’unico modello di società che ci viene proposto, una realtà totalizzante e omologante, che sussume in sé tutte le divergenze. Ha dunque portato ogni cittadino a difettare della propria quotidianità, dei propri spazi liberi, generando un individualismo che ha creato conformismo ed omogeneità tra la popolazione, emarginando ogni forma di creatività. Il problema che rende noi giovani disinformati e meno desiderosi di imparare è la moltitudine dei prodotti e delle informazioni che sovrasta la nostra generazione. La sovrabbondanza e la pervasività della Rete, che ci offre una gamma infinita di prodotti, dal campo della musica o del cinema, fino al bombardamento continuo di informazioni - anche false -, ci pone in un’angoscia esistenziale del “dover scegliere”, una scelta però chiusa in un perimetro già dettato, in cui non viene presa considerazione

della nostra autonomia e della nostra libertà di immaginare e creare nuovi mondi; il consumatore di oggi si trova costretto ad abdicare alla propria creatività e libertà immaginativa. Queste mancanze e questi difetti sono colmati da un momento più intimo, più individuale, che sentiamo solo nostro e non condivisibile con il resto della società.

La società contemporanea ha la responsabilità di aver smarrito i giovani, lasciandoli a loro stessi, senza passioni e senza convinzioni, ostacolati anche da un sistema non meritocratico che non offre loro opportunità per il futuro da costruire. Dunque non ci sono più punti di riferimento, ai quali si può guardare ed aspirare e cresce un’incontrastabile omologazione dal modo di vestire al modo di parlare e pensare. Il risultato è un desiderio che, oppresso, si sviluppa in atti trasgressivi, le cui modalità sono ereditate dai movimenti del ‘68, ma che ormai sono privati di quel significato rivoluzionario e quella consapevolezza teorica della rivolta. Le manifestazioni e le occupazioni dei licei sono un sincero grido contro una società che non ci rappresenta, che ci costringe in modi di essere e di vivere standardizzati, che ci reprime; ma rimangono traballanti, mancanti di una vera proposta 65


politica di contenuto. La forza che ci manca sta in quel “troppo pieno” in cui possiamo raffigurare il nostro mondo, un mondo che non ci lascia spazio, che soffoca la divergenza.

La società contemporanea ha la responsabilità di aver smarrito i giovani, lasciandoli a loro stessi, senza passioni e senza convinzioni, ostacolati anche da un sistema non meritocratico che non offre loro opportunità per il futuro da costruire. D’altronde il passato rivoluzionario del ’68, o semplicemente la voglia di cambiare il sistema, sarà di nuovo nella mente di qualche giovane che avrà le giuste qualifiche di studio ed interessamento e che riuscirà a trascinare dietro di sé nuovi ribelli e combattere perché, come diceva Elsa Morante, si saranno “definitivamente, obiettivamente, finalmente, stufati”.

di Laura Pacifici, Lucrezia Agliani e Anna Leonilde Bucarelli

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New Palermo Felicissima

New Palermo Felicissima è l’opera che Jordi Colomer ha scelto di realizzare per la dodicesima edizione di Manifesta, la Biennale nomade, e ne è al tempo stesso la perfetta mise en abyme. Essa racchiude in sé tutte le speranze e le buone intenzioni che si traducono in un grottesco fallimento, frutto di banalizzazione e scollamento dalla realtà. La didascalia recita: performance, video installazione. Nella stanza vi è una strana tribuna e uno schermo su cui è proiettato qualcosa. Siamo quindi portati a pensare che l’artista abbia prodotto un’azione che è stata registrata per permetterci di potervi assistere in differita. Sempre la didascalia ci tiene però a rimarcare la collaborazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Dobbiamo dunque ritenere che il filmato non sia una testimonianza tout court? Presto infine ci rendiamo conto che la tribuna compare nel video, non si tratta quindi di una soluzione tecnica ma di una scelta scenica, a quel punto l’unica certezza è la confusione. Certo, tutte queste os-

servazioni sono sostanzialmente irrilevanti per la fruizione dell’opera, sono sofismi da addetti ai lavori, con un po’ di elasticità possiamo prendere l’intero pacchetto come un unico dispositivo ibrido di rappresentazione e farcelo andare bene, ma è una prima spia di quello che verrà. Tale soluzione sembra infatti essere stata molto apprezzata dal team curatoriale, visto che difficilmente si incontra una sede espositiva in cui non ci sia almeno una “videoinstallazione”. Non è questa la sede in cui aprire un dibattito sul conflitto sullo status di “opera d’arte” tra la performance e la sua documentazione; né sull’inesorabile, progressivo ampliamento della categoria videoarte, ormai ridotta ad generico contenitore in cui, di volta in volta, viene inserita qualsiasi forma di espressione con il “merito” di avere un supporto video, come ad esempio documentari e interviste. Ne prendiamo atto e andiamo avanti, ma un dato, o meglio una considerazione strettamente empirica, sulla scelta espositi-

va di Manifesta è d’obbligo: in due giorni non è assolutamente possibile vedere per intero tutti i video della manifestazione. Entriamo adesso nel merito dei ventidue minuti dell’opera di Colomer: la performance, attraverso una visita guidata, vuole fa avvicinare i turisti e riavvicinare i palermitani a luoghi un tempo centrali per la città, adesso abbandonati a loro stessi. A fare da guida è una ragazza dell’est che riceve istruzioni da un auricolare. Pur parlando un perfetto italiano la ragazza è priva di informazioni sul contesto, come ammette candidamente quando, di fronte allo skyline palermitano, chiede aiuto al suo pubblico perché non sa dove siano i luoghi di cui sta parlando. Il risultato è quindi disastroso. Difficile non vedere una similitudine con il modo di procedere di Manifesta stessa: Hedwig Fijen, la direttrice, ha infatti incaricato uno studio di Rotterdam, l’OMA (Office for Metropolitan Architecture), di svolgere una ricerca allo scopo di «poter giungere ad una più profonda comprensione della realtà urbana e delle complessità culturali, sociali, religiose, etniche e geo-politiche della città». I risultati di questa analisi sono stati poi affidati alla squadra di Creative Mediators che, attraverso un’azione di coordinamento, aveva il compito di amplificare le potenzialità dell’interazione tra le varie realtà di Manifesta e Palermo. L’opera di Colomer è quindi, in maniera probabilmente involontaria, la perfetta rappresentazione visiva della critica al “giudizio di valore” che Max Weber muove dalle pagine del suo testo sull’avalutatività: la scelta, all’apparenza perfettamente logica nonché dimostra-

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zione di estrema professionalità e umiltà, di rivolgersi a una guida turistica abilitata e poliglotta, per divulgare le ricerche svolte da esperti di settore, disvela il suo fallimento come intrinseco. Esso è infatti frutto della parzialità del metodo. Nemmeno il suggeritore della guida, dal forte accento siculo, o la presenza di uno dei partner dell’OMA, effettivamente siciliano, tra i “mediatori creativi”, riescono ad evitare la debacle.

Entriamo adesso nel merito dei ventidue minuti dell’opera di Colomer: la performance, attraverso una visita guidata, vuole fa avvicinare i turisti e riavvicinare i palermitani a luoghi un tempo centrali per la città, adesso abbandonati a loro stessi. Un altro degli elementi imprescindibili per l’analisi dell’opera è, come sempre, il titolo: New Palermo Felicissima. Cosa ci sta dicendo Commel? Palermo è ovviamente il fulcro, il sostantivo (sostanza) a cui fanno rifermento i due aggettivi che cercano appunto di aggiungere, di valorizzare quella che è una realtà preesistente. Leoluca Or-

lando, nel suo intervento, ci tiene a ricordare la secolare cultura dell’accoglienza e del sincretismo che caratterizza la città, ad esempio nella dichiarazione “Io sono persona” con cui la Carta di Palermo chiede il riconoscimento della mobilità internazionale come diritto umano inviolabile. La comunità di vedute con la “Biennale Nomade” è riaffermata poi dall’assessore alla cultura Cusumano che identifica la città stessa come metafora di quel “Giardino Planetario” teorizzato da Gilles Clément. Proprio il focus scelto per questa edizione, la cui perfetta sintesi è il quadro di Francesco Lojacono del 1875 Veduta di Palermo, in cui nessuna delle specie vegetali dipinte è autoctona dell’isola. Non potrebbe esserci quindi terreno più favorevole per permettere all’arte di aggiungere elementi al discorso. New e Felicissima lavorano insieme: il primo si rivolge evidentemente al rinnovamento mentre il secondo alla felicità che ne deriverà. Infatti, come detto, alla base del progetto di Colomer c’è una rivalutazione dei luoghi e la giornata si conclude addirittura con una festa organizzata dai pescatori, probabile quindi che il superlativo abbia lo scopo di incarnare la gioia e la speranza contenute nel suo lavoro. Ancora una volta il nostro gioco dei doppi sembra funzionare senza problemi: Manifesta è infatti dichiaratamente la stessa operazione su vasta scala, addirittura una delle tre sezioni si chiama “City on stage”. Di fatti il luogo in cui è possibile vedere la nostra video-installazione è la fondazione “Casa lavoro e preghiera” di padre Messina, punto di riferimento per l’assistenza nel quartiere Kalsa e che, nonostante la vicinanza con il centro e la 67


favorevole posizione lungo mare, è pressoché sconosciuto ai non addetti ai lavori. Perfettamente in accordo con la metafora di Clément, Manifesta si fa quindi “giardiniere” e cerca di prendersi cura della città come del mondo. L’intenzione è delle più nobili certo, ma così facendo “Felicissima” si carica di un’accezione arrogantemente positivista, il cui seme è probabilmente già interno all’idea del giardino planetario, in virtù della quale l’uomo deve ergersi a demiurgo e arbitro di ciò che lo circonda. Sorprende quindi che un’istituzione tanto attenta a valori come la decolonizzazione culturale si ritrovi con un programma curatoriale i cui principi sembrano ispirati all’esportazione statunitense della “democrazia”. Viste le premesse non stupisce che spesso i tentativi di “coltivare la coesistenza” si traducano in una sorta di vetrina dell’esotico, come Whipping Zombie in cui Yuri Ancarani mostra le riprese un rituale vodoo praticato in uno sperduto villaggio di Haiti o Pteridophilia, la tanto criticata opera di Zheng Bo, in cui vediamo dei giovani asiatici “fare l’amore” con delle felci. Accade persino che le presunte “critiche al sistema” raggiungano una superficialità tale da non rendersi conto di stare in realtà reiterando quello stesso imperialismo culturale che vogliono denunciare. Una su tutte? Relocation, Among Other Things, di Khalil Rabah, in cui la già infelice quanto banale idea di esporre le merci prodotte nel “terzo mondo” (molte delle quali contraffatte) al posto delle persone diviene formalmente sbagliata nel momento in cui tale metonimia viene utilizzata per descrivere flussi e spostamenti visto che, 68

per quanto riguarda la mobilità globale, tali merci attualmente godono senza dubbio di privilegi superiori rispetto agli individui che le producono. A questo punto ci rendiamo con-

to di come New sia meno neutro di come appariva all’inizio, in virtù del suo essere non tanto un termine straniero quanto un vocabolo della lingua egemone. Cercando di non cadere nello stesso errore di Manifesta, resistiamo alla tentazione di generalizzare e banalizzare il discorso rimanendo aggrappati al dato reale: tutte le sezioni della mostra hanno titoli in inglese (Garden of Flows, Out of Control Room, City on Stage) e spesso i sottotitoli nei video sono solo in inglese. Le ragioni che portano una biennale nomade e artisti internazionali ad utilizzare il linguaggio più universalmente comprensibile sono ovvie e anche logiche, se il fine è il massimo riscontro di quel “mondo dell’arte” egemonicamente anglofono. Eppure, stando alle dichiarazioni della Fijen «come per ogni edizione il nostro primo obiettivo è coinvolgere il pubblico locale» in tal caso, la scelta non può essere quella giusta. Ah, quasi dimenticavo, il numero di artisti siciliani coinvolti direttamente nel progetto è 1: Renato Leotta, per altro torinese di nascita e sicilia-

no d’adozione, ma non vogliamo essere pignoli. In questo arido deserto artistico di pleonasmi e buone intenzioni si stagliano delle oasi che paiono quasi miraggi, come l’intelligente operazione di Wu Ming 2, che in Viva Menilicchi! rinomina le vie legate al periodo del colonialismo italiano, dedicandole a chi invece si trovava da “l’altra parte” della Storia. Tali eccezioni sono forse però la cosa peggiore, perché sono lì a dimostrarci che le cose si potevano effettivamente fare in un’altra maniera. Invece, alla fine di due giorni passati a consumare le strade di Palermo per vedere tutto, per dare una seconda, terza, quarta… possibilità a Manifesta, l’urticante sensazione che rimane è quella di aver preso un aereo e pagato un biglietto per fare atto di presenza a un evento di beneficenza organizzato da un circolo di gentil donne dell’upper east side di Manhattan sul “dramma” che le ha toccate nel profondo questo mese. Prima dei saluti torniamo un’ultima volta dall’opera che ci ha accompagnato in questo viaggio: dopo una ventina di muniti di spiegazioni surreali, disguidi e divergenze d’opinione, la visita turistica torna dov’era iniziata, alla Caletta di Sant Erasmo: lì i pescatori hanno organizzato una festa e imbandito la tavola, tutto il resto passa in secondo piano. Perché alla fine Palermo è così, accoglie tutti con sincerità e soprattutto mette d’accordo tutti con il suo cibo.

di Luca Giordani Scomodo

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Adversus: Il ritorno dei Colle der Fomento I Colle der Fomento riusciranno sempre a essere un simbolo intriso di significato e intelligenza, senza mai impoverirsi, senza mai svendersi, senza mai restare solo un emblema o una bandiera. Poche emozioni eguagliano quella che si prova ascoltando “Odio Pieno” dall’inizio alla fine, in un traballante mezzo dell’Atac. Per capire l’enorme profondità del contenuto che portano i Colle, sarebbe giusto riflettere sul peso incalcolabile che hanno avuto e che continuano ad avere sulla città di Roma. Città in cui, trasversalmente, in ogni campo e parametro la si voglia guardare, rimane all’avanguardia per quanto riguarda l’Hip Hop italiano e soprattutto l’intimità dell’ascoltatore, coinvolgendolo, facendolo sentire parte di una comunità, dandogli coscienza del proprio posto nel mondo, rivelandogli un volto completamente nuovo della dimensione urbana, ma che era sempre esistito. È la perfetta realizzazione dell’essenza del movimento Hip Hop. Questi meriti sono il minimo che si possa riconoscere loro, restando nella freddezza degli obblighi della stampa. I Colle sono stati i primi ad avere una visione definita di cosa si dovesse fare con l’Hip Hop in Italia. Durante tutti gli anni ‘80 alcuni DJ, pochi e folli per ambizione e resilienza, insistevano da soli nell’organizzare le “Jam Sessions”, occasioni in cui si sperimentava e faceva conoscere il nuovo genere. Pian piano la scena si è ampliata e a Roma, sul finire di quel decenScomodo

Novembre 2018

nio, sono spuntati i primi MCs capitolini insieme alle Posse. Tra questi i componenti dei Colle, dei Flaminio Maphia, dei Cor Veleno, il Piotta, Giaime, Gente de Borgata e tutto il Rome Zoo. Nel 1994 si formano i “Taverna ottavo Colle” Danno, Masito (al tempo “Beffa”), Piotta e Ice One, per poi diventare i “Colle der Fomento”, con Ice One, il Danno e la Beffa. Nel ‘96 esce “Odio Pieno”, il primo album in studio, nel ‘98 “Scienza doppia H” e nel 2007 “Anima e Ghiaccio” con DJ Baro al posto di Ice One.

Poche emozioni eguagliano quella che si prova ascoltando “Odio Pieno” dall’inizio alla fine, in un traballante mezzo dell’Atac. L’annuncio dell’uscita il 27 novembre del nuovo album “Adversus”, assolutamente a sorpresa dopo che nel 2013 era uscita la traccia “Sergio Leone”, con la promessa dell’imminente uscita del disco, avvenuta solo il 16 novembre 2018, ha sconvolto quasi chiunque abbia la passione del rap in Italia. L’attesa vana di 11 frustranti anni senza un disco dei Colle ha portato molti fan accanitissimi e ortodossi a una rabbia tale che, da un amore così

grande, ha portato quasi a un rapporto di odio con il trio. Adversus in ogni caso, è un disco incredibile. Tutte le tracce sono state prodotte da DJ Craim eccetto “Polvere”, da Roy Paci e “Nostargia” da Bassi Maestro. I featuring sono entrambi con Kaos One, un altro pilastro del rap italiano, che affianca i Colle da “Ciao Ciao” in Odio Pieno, ‘96. In Sergio Leone, il fantomatico singolo uscito nel 2013, non era presente la strofa di Kaos, che però veniva cantata nei live, suscitando stupore nel pubblico, che per anni ha ascoltato ai concerti una strofa inedita di Don Kaos, uscita ufficialmente solo in Adversus. I Colle hanno sempre dettato la linea per quanto riguarda l’attitudine necessaria per affrontare le contraddizioni e la dissolutezza che avanzano, nella vita e nella musica. E’, anche e ancora di più in Adversus, nell’oceano di citazioni solito dei Colle, che riescono a inquadrare la loro specifica posizione anche sul piano filosofico. Quel contrappeso etico che indica cosa sia l’integrità, cosa significhi avere dei solidi cardini morali e politici. Non sono mai caduti in un qualche paternalismo o banalità, garantendo sempre, ancora, quell’atteggiamento bellico senza quartiere contro gli “scrausi”. Oggi non più per dimostrare agli altri la propria superiorità, ma solo per combattere i propri demoni e le proprie contraddizioni. Tema ricorrente anche negli altri dischi, ma oggi viene meno la componente della “sfida”. I Colle non devono dimostrare più niente a nessuno. Anche in undici anni senza un disco la scena ha avuto, ed avrà ancora dopo, la necessità imperativa dei Colle der Fomento, come bussola e come microfoni 69


inossidabili da seguire. Perché hanno la saggezza di chi ha costruito una comunità quasi da zero, di chi ha contribuito a far nascere l’Hip Hop in Italia, di chi ha portato avanti lo spirito di una città, ridando un senso alle sue radici. Quanto siano indispensabili i Colle lo abbiamo visto nelle decine di collaborazioni avvenute in questi undici anni. Il rap italiano senza i Colle der Fomento sarebbe, dal mainstream all’underground, una pantomima, una parodia di sé stesso. Non avrebbe senso. Alcune tracce in questo disco scavano più a fondo nel malessere di quanto i Colle fossero soliti fare, senza avere paura di apparire o di rendere tristissimi e commossi. Più profondamente che in Anima e Ghiaccio, il disco disilluso di “Pioggia sempre” e della straziante “RM Confidential”, in Adversus l’ascolto di “Polvere” è quasi traumatico, disarmante. Quest’album riesce a essere più di quello che dovrebbe, un semplice album dei Colle der Fomento. È ancora di più, sfonda l’asticella dell’ira e delle aspettative siderali dei fan, stravolgendo il rap italiano ancora una volta e meglio di prima, dimostrando che gli anni portano solo esperienza.

di Ismaele Calaciura Errante 70

Giustappunto Giustappunto nasce da un atto di presunzione: sulla base di tre notizie del mese vengono consigliati un libro, un film ed un album di qualunque periodo tentando, in modo stravagante, di dare un’opinione dissonante da quella prevalente.

bandi fasulli; gare truccate; prezzi a ribasso; sub-sub-sub appalti. Quanti elementi per rendere il tutto più frizzante. Liberalizzare servirebbe solo a fare quello che “CatasTroika” denuncia. La bellezza di privatizzare un bene primario, dice Bersani, permette introito sicuro all’azienda, senza spese pubblicitarie, esattamente come quando si privatizza acqua e sanità. È la nuova frontiera del liberismo: trasformare un bene comune in un bene economico. La Freedom House dichiara Internet meno libero che mai “Killswitch” (2014) Ali Akbarzadeh

Referendum Atac: il Sì non passa “CatasTroika” (2013) Marco Bersani Privatizzazione, liberalizzazione, concessione: chiamatela come vi pare, il quorum non è stato raggiunto, e prima che ci si riprovi, ci possiamo tenere il monopolio noi cittadini ancora per un altro pochino. I businessmen dalle mazzette facili per vincere bandi sui tram ahimé devono ancora aspettare. Cari neo-liberisti, avete ragione: il Comune non ha pubblicizzato il voto e se lo avesse fatto ci ritroveremmo con un’altra fantastica opportunità speculativa per far divertire voi e le vostre famiglie sulle spalle dei pendolari dalle ascelle puzzolenti. La concorrenza va bene per le pizzerie, non per l’Atac, poiché il vero problema è di tipo cronoto-

pico, non economico. Possiamo comprare tutti gli autobus elettrici con distributori automatici annessi che vogliamo, gentilmente offerti dalle S.P.A. che hanno a cuore il benessere pubblico (ammesso che esistano), ma con una rete metropolitana che più che ricordare una rete ricorda ai cittadini decenni di mafia (dubito che siano stati solo i coccetti delle anfore romane a far sembrare la metro una X dopo sessant’anni), 3 milioni di anime sono costrette a motorizzarsi con mezzi che notoriamente viaggiano sulla stessa dimensione degli autobus. E ricordiamoci che siamo in Italia, dove quando si parla di liberalizzare, si parla di stratagemmi come: dichiarare bancarotta quando ci sono da pagare le sanzioni per un servizio non adempito; asterischi in contratti troppo amichevoli con tanto di un’eventuale buonuscita;

Nel documentario americano “Killswitch” vengono intervistati personaggi cruciali per la lotta sulla libertà della rete. Attivisti come Aaron Swartz, Lawrence Lessig ed Edward Snowden ci fanno conoscere tutto quello che noi, incapaci di hackerare un tamagotchi, non possiamo immaginare. Il documentario riesce anche a dare delle eventuali soluzioni per risolvere un macro problema, ossia che per l’ottavo anno consecutivo la Freedom House ci riporta in overall decline additando maggiormente le compagnie cinesi come uniche realtà globali per la costruzione di infrastrutture tecnologiche. Anche un generale rafforzamento delle leggi sulla sicurezza, prendendo molto dal modello governativo cinese, hanno portato l’organizzazione indipendente a pensare male. Nel 2018, sui sessantacinque paesi sotto investigazione, trentadue hanno usato bot e troll per manipolare le conversazioni politiche online, diciotto hanno indebolito strategie di criptaggio per accedere ad

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informazioni personali con maggiori facilità e diciassette hanno approvato misure restrittive con la scusa di salvaguardare l’opinione pubblica dalle fake news (sono assuefatto da questo termine, vi prego troviamone uno nuovo). Altro dato preoccupante: su 3,7 miliardi di persone aventi accesso ad internet il 71% vivono in paesi dove si va in carcere per aver pubblicato contenuti politici e/o religiosi controversi. Durante l’intervista di Tim Wu, avvocato e scrittore del celeberrimo libro ‘Master Switch’, si parla delle diverse soluzioni per resettare letteralmente questo processo che va di pari passo peggiorando con il trascorrere degli anni. Una soluzione drastica, dolorosa, ma forse l’unica abbastanza folle da poter funzionare: spegnere l’interruttore generale di internet, che oggi vorrebbe dire spegnere le fondamenta del sistema capitalistico. La Goldman Sachs froda il fondo pubblico malesiano 1MDB “Baby You’re A Rich Man” (1967) The Beatles Una delle più grandi banche d’affari del mondo, dopo anni di chiacchiere e cospirazioni, si ritrova ufficialmente, grazie alle cooperazioni tra la procura americana e malesiana, all’interno del più grande scandalo finanziario della storia. Timothy Leissner e Roger Ng, due ormai ex banchieri della multinazionale, sono stati accusati per aver collaborato con il finanziere Jho Low, per aver rubato denaro da un fondo di investimenti pubblico malesiano: il 1Malaysia Development Berhad (1MDB). Questa storia è iniziata nel lon-

tano 2010 e per un’omertà sia interna, tra diversi impiegati della holding, che mediatica, (omertà prolungata a suon di mazzette), ha portato il popolo malesiano ad avere un buco mostruoso di sei miliardi di dollari. Il riciclaggio avveniva investendo i denari detratti dal fondo pubblico in proprietà americane; stando alla procura il denaro è stato utilizzato anche per finanziare il film di Martin Scorsese “The Wolf of Wall Street” (sic). E cosa non si addice alla notizia se non questo brano dei Beatles che ironicamente fa scherno di tutti questi criminali a colletto bianco. Una canzone sicuramente già nota a tutti i beatlemaniomani, poiché è ricordato come uno dei brani storpiati in fase di registrazione da John Lennon, che infatti durante il ritornello “Baby you’re a rich man too” cantò “Baby you’re a rich fag jew”, secondo il biografo Bob Spitz per andare contro il manager del gruppo Brian Epstein. Ancora oggi alcuni cercano di attribuire con questa frase uno spirito antisemitico da parte del gruppo, ma, come si può immaginare, quando si raggiunge la fama dei Beatles, si è a rischio di qualunque etichetta inventata dall’uomo.

di Leonardo Rosi 71


Recensioni Musica

Oxnard Anderson .Paak La nuova frontiera musicale statunitense, tra trapper e cloud rapper, lascia posto anche ad artisti nostalgici, forse più anziani delle nuove leve, sia in fatto d’età che in fatto di gusti. Questo non torce loro un capello: tra gli autori della rinascita commerciale del neo-soul moderno spicca Anderson Paak, in primis cantante e in secondo piano rapper e produttore (nonché batterista dei suoi stessi pezzi). Nato nel 1986 nella città di Oxnard, California meridionale, il ragazzo dall’iconico cappello a cuffia ha raggiunto l’occhio di uno dei più influenti e sempreverdi produttori nel mondo della black music, Andre Romelle Young, meglio conosciuto al resto del mondo come Dr. Dre. In pochi sono riusciti a convincere quest’ultimo a credere nei propri progetti: artisti del calibro di Eminem, 50 Cent e giusto cinque anni fa Kendrick Lamar 72

hanno fatto in modo di fondere la propria estetica con la legacy musicale di uno dei più importanti contributori alla nascita del genere hip hop che tutti noi oggi conosciamo. La gavetta di Mr Paak, se così la si può chiamare, dato che assomiglia più a un tour de force musicale, è gia ammirevole per alcuni progetti che, ancora dopo qualche anno, non si perde minimamente l’interesse di ascoltare. Malibu (2016) e Yes Lawd! (2015) sono i due album che non solo si confezionano come vistosi orecchini alla moda, ma rimangono nei cuori degli ascoltatori che iniziano a nutrire nel cantante anche un interesse nelle liriche e nella integrità curricolare. Oxnard è la nuova creatura tanto attesa quanto fatta attendere, essendo stata sottoposta, a differenza del passato, ad una promo incessante e ben orchestrata. Presentato il pacchetto con il singolo marvingayeano Tints, insieme alla collaborazione del già citato amico e collega Kendrick Lamar, la

prima di copertina già premette una resa cinematografica dell’ascolto in cuffia, con la rappresentazione di una storyboard biografica attraverso la tipica tecnica pittorica usata nelle locandine fino agli anni’70. La promessa di riportare le sonorità di gruppi dimenticati come i Parliament, di album eterni come The College Dropout , imbevuto tutto nella maestranza di genere di album come The Chronic è stata mantenuta. Le canzoni sono incisive, non lasciano spazio a incolori colpi di rullo o vocalizzi troppo stretti. Anderson sottopone la sua voce, traccia dopo traccia, ad ogni tipo di esperimento funkadelico, dimostrando di poter vantare un flow di tutto rispetto e un’ironia trascinante in tutti i suoi cambi di direzione musicale. Si parte con The Chase, ricordando subito gli istanti dell’epica della blaxploitation di Superfly e di Curtis Mayfield, si passa per Headlow, di d’angeliana memoria, giungendo al corpus commerciale dei due singoli Tints e Who R U?. Come solito, se la prima metà dell’album è un Paak in solitaria la seconda metà è ripiena di ospiti e produzioni in parallelo. Le punte di diamante sono sicuramente Cheers con il featuring del capo famiglia del jazz rap, Q-Tip, conosciuto meglio come leader degli A Tribe Called Quest, così come Trippy, insieme a J Cole, da’ un’intimità che va dal gospel alla musica da spiaggia, che si sposa benissimo con i versi dell’ospite. Non mancano i profondi giri di basso in Mansa Musa con Dr Dre in persona sul mic, cosi come in Anywhere, insieme all’immancabile Snoppy Doggy Dogg. L’operetta si chiude con Left To Right, una indefinibile close line al sound dell’intero disco, che si

sposta tra i riecheggi di una voce che ricorda il ruggito di Busta Rhymes e finendo in un’atmosfera che permea molto con l’anima da festa che caratterizza la musica africana. L’album è ottimo, non ha momenti di superbia musicale cosi come non si provano grosse défaillance nell’ascolto degli ospiti: è incredibile solo pensare di poter vendere con un album così nostalgico ma moderno nei mezzi. Concepire un’operazione così rischiosa provoca il ricordo ancora forte dell’ascolto di To Pimp A Butterfly o We Got All It From Here....Thank You For All The Service. Nei prossimi mesi saranno gli estimatori e i curiosi a giudicarlo con i numeri, ma è di fatto un grande album, ciccione nella musica che propone, leggero nel modo in cui si fa trattare.

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di Daniele Gennaioli Novembre 2018

El Mal Querer Rosalía Rosalía nasce il 25 Settembre di 25 anni fa a Sant Esteve Sesrovires, nella Catalogna, in Spagna. Nel 2017 esce con l’album “Los Angeles”, che la porterà a vincere il Best New Artist Latin Grammy. All’interno del disco d’esordio, prodotto dalla Universal, sono presenti solo due strumenti: la voce di Rosalia e la chitarra suonata da Raül Refree, che riportano alla tradizione musicale spagnola. La seconda opera della cantante latina è uscita questo novembre, dopo che le ha dedicato due anni di lavoro “costruendolo senza fretta”, afferma. Per la produzione di “El Mal Querer”, Rosalía, essendo autrice dei testi e delle musiche, ha scelto come co-produttore El Guincho per sfruttare al meglio la fusione tra il flamenco classico e il pop, attraverso armonizzazioni digitali e sonorità trap di oggi. Il secondo capitolo discografico dell’artista spagnolo, pubblicato tramite la Sony, si presta ad allontanare il pensiero comune della musica spagnola, legato al reggaeton, riportando alla luce la musica tradizionale Iberica e dandogli una nuova prospettiva tra i giovani di tutto il mondo.

Rosalía è riuscita a spingere le sue sonorità ovunque, rilasciando due singoli: “Malamente” e “Pienso en tu mirà” che hanno fatto rispettivamente 20 milioni di views in tre mesi, e 15 milioni in un terzo del tempo, diventando entrambi hit. La narrativa dell’album è basata su un romanzo del tredicesimo secolo, che tratta di una donna il cui amante la tiene rinchiusa in una torre. La cantante racconta in 11 canzoni di una relazione ormai condannata, presentando ogni brano come un nuovo capitolo della storia. Una traccia interessante da analizzare è “De Aquì No Sales”, dove i clap tipici del flamenco sono rimpiazzati da campionamenti del rumore del motore di una moto emettente gas e l’emozione del brano è concentrata solo sulla voce. Questa composizione vuole mettere a confronto la donna che declama l’abuso domestico e le giustificazioni che colui che abusa, mentre la tormentata storia d’amore va a divenire un anticlimax. “Mucho màs a mì me duele, de lo que a tì te te està doliendo”, canta: Fa molto più male a me di quanto non possa fare a te. In ogni caso il significato del disco rimane quasi irrilevante, perché le sonorità sono talmente particolari da coinvolgere il pubblico anche senza comprendere una parola di ciò che Rosalía sta realmente cantando nella sua lingua madre.

di Camilla Cataldi 73


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Recensioni Cinema

Notti Magiche Paolo Virzì “Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”. Queste le parole di Pizzul dopo i due rigori sbagliati da Donadoni e Serena nella semifinale dei Mondiali di Italia ’90 che condusse l’avversaria Argentina di Maradona alla finale di Roma, persa contro la Germania. Il quattordicesimo film di Virzì inizia così, con la sconfitta della nazionale, evento che non si lega direttamente con le vicissitudini dei protagonisti ma che fa da collante ad un’opera che vive di memorie, sia individuali che collettive. Il pretesto che avvia la giostra degli eventi del film avviene anch’esso nei primi minuti, con una macchina che da Ponte Garibaldi sbanda per poi cadere nelle acque del Tevere. Al suo interno vi si trova il corpo senza vita di Leandro Saponaro, noto produttore cinematografico, la cui amante, Giusy Fusacchia, accusa dell’omicidio tre aspiranti 76

sceneggiatori, finalisti del premio Solinas, che poche ore prima hanno cenato con il produttore. I ragazzi sono Antonino Scordia, messinese, colto autore di una sceneggiatura sul compaesano Antonello da Messsina, Luciano Ambrogi, toscanaccio proletario di Piombino e l’ultra borghese nevrotica Eugenia Malaspina. I tre, chiamati in caserma, riepilogano gli eventi che hanno preceduto il fatto, a partire dal giorno in cui si sono incontrati. Il lungo flashback racconta non solo gli eventi che portano i tre a conoscere da vicino figure, la maggior parte invecchiate malamente, che hanno reso grande il cinema italiano e che oramai stanno tramontando con esso, ma fa emergere un clima che caratterizzava in un certo senso l’Italia del tempo. I tre vivono esperienze parallele strette e intense all’interno del mondo folle dell’industria cinematografica italica (romana) per poi uscirne. Quasi come se ,inconsciamente, si rendessero consapevoli del fat-

to che ormai la grande illusione è finita, la nostra gloriosa “fabbrica dei sogni” che ha fatto scuola in tutto mondo sta giungendo al suo epilogo. Fellini sta girando il suo ultimo film. Un tramonto dettato dalla storia e da una televisione che ormai domina incontrastata. La parentesi estiva dei tre aspiranti scribacchini in una Roma (Trastevere, per lo più) non idealizzata ma realisticamente meravigliosa nella sua zozzagine e frenesia artistica, letta come storia di formazione non basterebbe a comprendere quanto il film vada oltre i suoi singoli personaggi e cerchi di tratteggiare momenti collettivi, che sono i veri protagonisti della storia. Virzì giostra il tutto con una scrittura (sceneggiatura di Archibugi, Piccolo e lo stesso regista) dell’ottimo livello a cui ci ha spesso abituati, sapendo usare a dovere i riferimenti che lo hanno formato come sceneggiatore e regista. Il film, seppure sul piano formale debole rispetto al suo contenuto, giocando con il concetto stesso di scrittura e narrazione in modo leggermente sconnesso, ci offre una galleria di personaggi che hanno delle reali potenzialità per essere cult. Attori bravi quasi tutti, meraviglioso Giannini, che con il suo Leandro Saponaro ci regala un personaggio straordinaria nella sua decadenza magnona.

PLUS

il

KHASHOGGI E I SUOI FRATELLI / GIORNI DI HAMBACH: PER UN DINOSAURO CONSAPEVOLE / TRIBUNA SOCIAL / METAMORFOSI

di Cosimo Maj Scomodo

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KHASHOGGI E I SUOI FRATELLI Uccisi, denigrati, invisi al potere: perché quello del giornalista è ancora un mestiere a rischio Ogni anno, una delle classifiche più dibattute a livello globale è quella stilata da Reporter Senza Frontiere sul tema della libertà di stampa. Gli ultimi posti della suddetta sono ovviamente occupati da paesi in cui è pieno svolgimento un conflitto ( basti pensare alla Siria, che con 12 morti su 65 totali nel 2017 risulta il luogo in cui sono morti più giornalisti durante l’anno) o nei quali il lavoro della libera stampa viene fortemente minato dalle autorità centrali o dalle organizzazioni criminali ( come Messico, Filippine e Corea del Nord, che da anni occupa l’ultima posizione). Attraverso questi dati, risulta dunque assai facile credere che il fenomeno della repressione della professione giornalistica avvenga unicamente in quei luoghi del globo che vivono situazioni socio-politiche disperate, così lontane da noi nel nostro immaginario. In realtà questa costruzione dialogica risulta totalmente erronea, ma proprio da questa mentalità deriva lo stupore della popolazione dinanzi alle morte giornalistiche che avvengono in quei paesi che consideriamo più vicini a noi, come Malta o Slovacchia. Una mentalità che va estirpata, poiché anche in questi paesi i giornalisti che ricercano la verità sono sottoposti a vessazioni, minacce e censure ( anche se in maniera meno esplicita rispetto alle minacce dirette di un Duterte qualsiasi), fino ad arrivare a casi estremi in cui poteri pubblici e privati, messi in discussione dall’operato di alcuni professionisti del settore, decidono di metter a tacere queste voci di dissenso in maniera definitiva. Proprio 4 di questi casi andremo ad analizzare in questo articolo, non solo per render memoria a coloro morti nel nome del perseguimento della verità, ma anche per dimostrare quanto la libertà di stampa sia minacciata nella totalità del mondo libero. Partiremo dall’ultimo caso in ordine cronologico, ovvero quello del giornalista arabo Jamal Khashoggi, che ha riportato sotto la lente dell’attenzione pubblica questa problematica.

Il caso Khashoggi: come si è giunti a tutto questo? Khashoggi , nato nel 1958, è stato per molti anni vicino alla corte reale saudita, venendo facilmente a conoscenza di informazioni strettamente riservate.

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Dal 2017 però, quando è giunto al potere Mohammad bin Salman come Primo Vice Ministro e ministro della Difesa, il vento ha cominciato a soffiare verso un’altra direzione: da una parte il Ministro ha attuato una politica di riforme che hanno “occidentalizzato” il paese, dall’altra i rapporti tra il giornalista e la corte reale si sono decisamente inaspriti, per via dei modi di fare molto autoritari di Bin Salman. Fuggito negli Stati Uniti, Khashoggi ha cominciato a discutere pubblicamente l’operato di Bin Salman in molti suoi articoli. Il giornalista criticava l’atteggiamento dell’Arabia Saudita nel conflitto dello Yemen e affermava che il suo paese stava entrando in un’era di “paura, intimidazioni, arresti e vergogna pubblica”, denunciando che il governo aveva persino chiuso il suo account Twitter. Una vera e propria guerra stato-cittadino. Il 2 ottobre, inquadrato dalle telecamere di sicurezza mentre si recava all’ambasciata saudita per richiedere un documento, improvvisamente sparisce. Ciò che non fa avere dubbi sulla colpevolezza del suo paese, è che le telecamere riprendono una presunta uscita, anche se i colpevoli provano goffamente a depistare le indagini mandando un uomo con gli stessi vestiti della vittima in giro per la città. Incastrati, ammettono che il giornalista è effettivamente stato ucciso nell’ambasciata, ma che ovviamente il governo non è coinvolto nel caso. Nonostante abbiano ormai ammesso che Khashoggi sia morto lì, ancora non si sa che fine abbia fatto il suo corpo; per il suo omicidio sono arrestate 18 persone, molto probabilmente solo delle pedine mosse da qualcuno più in alto. Dall’Arabia Saudita hanno provato in molti a sdrammatizzare l’uccisione di Khashoggi rifacendosi ai rapporti avuti tra gli anni ‘80 e ‘90 fra quest’ultimo e Bin Laden, anche se dopo non molto tempo il giornalista scelse di prendere le distanze dal terrorista di Al-Qaeda per le sue posizioni bellicose verso l’Occidente. E il mondo, invece, come ha reagito alla morte del giornalista? Dopo i fatti di Istanbul si attendeva una reazione da parte del presidente americano Donald Trump, dato che gli Stati Uniti hanno dei rapporti molto fitti con i sauditi. Anche se formalmente Trump ha parlato di uno dei peggiori insabbiamenti della storia, in concreto non ha adottato nessuna contromossa verso l’Arabia; ci sono dei casi in cui un presidente deve scegliere se tutelare l’interesse del suo paese, o battersi per la dignità calpestata di un singolo. Anche in Turchia, il luogo del delitto, il presidente Erdogan prende decisioni in quanto capo politico, ma sicuramente non negli interessi del paese. Indicativa è la sua dichiarazione “dove ci sono i media non c’è democrazia”: un’immagine calzante di quella che formalmente è una democrazia, autoritaria però all’atto pratico. Che fine fa la sovranità del popolo, quando questo viene privato di uno dei diritti umani fondamentali? Non a caso la Turchia occupa la posizione 157 su 180 nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporters Without Borders: l’asservimento degli intellettuali e dei media all’autorità del leader politico ha reso il paese turco un luogo ostile ai giornalisti. Erdogan, però, non manipola soltanto l’opinione dei suoi cittadini, ma anche quella altrui. Essendo diretto interessato nel caso Khashoggi, ne ha approfittato per prendere in pugno i sauditi, modulando la fuga di notizie. Il giornalista saudita, poco prima di essere ucciso,

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aveva denunciato la mancata libertà di espressione nel paese arabo, in cui “la gran parte della popolazione cade vittima di una narrativa falsa”. Probabilmente il caso Khashoggi non porterà a nessuna limpida verità, sono troppo alti gli interessi internazionali in gioco in questa tragica vicenda, ma speriamo vivamente di essere smentiti. Inoltre, lui non è stato l’unico a raccontare la verità sull’Arabia Saudita; anche la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia ha rivelato il coinvolgimento del re saudita Salman nello scandalo dei Panama Papers. L’assassinio della giornalista ha riportato a galla una delle più importanti inchieste politico-finanziarie a livello globale, un fascicolo formato da oltre 11 milioni di documenti sottratti allo studio legale panamense Mossack Fonseca, legato a numerose società off-shore. Tra gli innumerevoli nomi di leader internazionali e celebrità coinvolti, nel 2016 è emerso anche quello di Michelle Muscat, moglie del premier labourista maltese Joseph Muscat. La giornalista del Times of Malta e responsabile del blog Running Commentary, era una voce scomoda, sola contro il governo, e per questo è stata uccisa. Il 16 ottobre 2017, proprio dopo aver scritto un post contro il braccio destro di Muscat, è stata bruciata viva all›interno della sua automobile parcheggiata di fronte casa. I resti del suo cadavere carbonizzato sono stati trovati dal figlio che, dopo aver sentito l›esplosione, ha avvertito subito la polizia. Dieci persone sono state arrestate per l’omicidio, ma sette di queste sono state rilasciate su cauzione. Tre sono gli uomini formalmente incriminati, pur essendosi dichiarati innocenti. Le azioni del consorzio giornalistico Daphne Project hanno comunque tenuto vive le indagini sulla corruzione del sistema maltese e su Michelle Muscat. La moglie del Primo Ministro sembrerebbe essere una beneficiaria della società panamense Engrant Inc, legata finanziariamente al regime dell’Azerbaijan. Dalle ricerche sui rapporti tra i vertici maltesi e lo Stato azero, la giornalista aveva scoperto che la maggioranza dei clienti della Pilatus Bank, istituto bancario a Malta, provengono proprio dall’Azerbaijan e sono legati a società off-shore. L’Autorità bancaria europea, ha in seguito certificato un’oscura rete di intrecci finanziari, ormai radicati in quella che si potrebbe definire “Panama europea”. Galizia, infatti, stava seguendo anche l’inchiesta internazionale sui “Malta Files”, secondo la quale l’isola maltese sarebbe diventata un paradiso fiscale. I figli della giornalista, però, non vogliono giustizia soltanto per l’omicidio ma anche per i reati sui quali la madre stava indagando. Per questo motivo, uno di loro ha partecipato allo spegnimento simbolico della Tour Eiffel, deciso su iniziativa dell’associazione Reporters Without Borders per la Giornata internazionale contro l’impunità per i crimini contro i giornalisti, durante la quale ha preso la parola anche una ex collega di Jamal Khashoggi; una cerimonia organizzata per ricordare tutti gli altri che, come lui, sono morti semplicemente svolgendo il proprio lavoro. Poco dopo la tragedia ad Istanbul, esattamente il 6 ottobre, anche in Bulgaria la giornalista Viktoria Marinova, reporter della rete locale Tvn e del programma Detector, è stata violentata e uccisa mentre stava facendo jogging lungo le sponde del Danubio. Prima di essere assassinata stava lavorando all’inchiesta GP Gate affiancata dai giornalisti Attila Biro e Dimitar Stoyanov, già minacciati più volte. I tre avevano denunciato un alto tasso di corruzione nei fondi UE e all’interno di grandi compagnie petrolifere, di infrastrutture ed edilizia.

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Questa inchiesta ha suscitato scalpore tra i cittadini bulgari, soprattutto in seguito all’arresto dei due giornalisti nel mese di settembre, casualmente poco prima dell’omicidio della Marinova. Per la sua morte è stato arrestato un 21enne fermato ad Amburgo, in Germania, anche se i suoi colleghi e parte della popolazione bulgara ritiene che il fatto sia collegato alla sua professione. Questi due casi sono esemplificativi di come anche nei paesi del continente europeo si arrivi a modalità estreme pur di sopprimere le voci scomode. Altro tragico esempio di questo fenomeno é quello del giovane slovacco Jan Kuciak, ucciso il 21 febbraio in casa assieme alla sua fidanzata. La sua morte ha letteralmente ribaltato un paese intero. Kuciak era un cronista investigativo e si occupava dei rapporti poco trasparenti tra finanza e politica, e stavolta aveva annusato qualcosa di veramente grande, tanto da comprendere anche il cuore della politica slovacca: la sua ultima inchiesta pubblicata riguardava una sospetta frode fiscale legata al Five Star Residence, un sontuoso complesso residenziale di Bratislava. Il costruttore è Ladislav Basternak, a detta di molti vicino al Ministro degli Interni Robert Kalinak, braccio destro della Smer, il Partito Socialdemocratico dell’allora premier Robert Fico. Già allora Kuciak aveva ricevuto una minaccia, quella dell’imprenditore Marian Kocner, indagato tempo fa per evasione fiscale. Ma è stata l’ultima indagine, cominciata e mai finita, che probabilmente ha firmato la sua condanna a morte, quella sugli intrecci tra ‘Ndrangheta e politica slovacca. Il nome chiave in questa vicenda è quello di Antonino Vadalà, imprenditore italiano nel settore agricolo, immobiliare ed energetico, trasferitosi in Slovacchia dopo qualche problema con la giustizia avuto nel nostro paese. Qui conosce Maria Troskova, una ex modella con cui fonda una società nel 2011, e un anno dopo lei va a lavorare per Villiam Jasan, un ex senatore del partito di Robert Fico (e fate caso a quante volte ritorni il suo nome in queste vicende). Visto che non c’è due senza tre, alla fine arriva anche il grande salto, nell’ufficio del premier stesso, per il cui partito Antonino Vadalà non ha mai nascosto una certa predilezione sui social network. Da qui, inevitabilmente, nasce una domanda da maneggiare con estrema cautela: è Maria Troskova il tramite tra gli ‘ndranghetisti e il governo slovacco? Si, secondo Kuciak: nel suo articolo incompiuto afferma che la relazione tra Vadalà e il governo poteva essere dimostrata. Dopo la sua morte in Slovacchia si è letteralmente scatenata una vera e propria rivolta: 40.000 persone sono scese in strada a Bratislava, nella più grande protesta dopo quella che nel 1989 rovesciò il regime comunista cecoslovacco. Il popolo sa, il popolo si schiera con una presa di posizione unica contro un crimine che voleva mettere a tacere un singolo, ma che si è ritrovato contro migliaia di persone. Da quel momento in poi, il governo ha cominciato a sgretolarsi a seguito di un effetto domino devastante: dimissioni in blocco di Kalinak (ministro dell’Interno e vice-premier), Madaric (ministro della Cultura), Jasan (segretario del Consiglio di sicurezza), Troskova (consigliera del premier), e infine proprio lui, il punto più alto dell’iceberg, Robert Fico stesso. Sono tutti i personaggi che ci avevano accompagnato in questa vicenda; tutto torna.

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Verso la fine di settembre, però, 4 persone hanno pagato le spese per il brutale assassinio: sono un ex poliziotto, un ex militare, un imprenditore e una interprete di italiano, con quest’ultima che lavorava per Marian Kocner, l’imprenditore che aveva minacciato Kuciak per l’inchiesta sul Five Star Residence. I primi due avrebbero fisicamente ucciso il giornalista e la sua fidanzata su incarico dell’interprete, mentre l’imprenditore aveva un ruolo di mediazione tra lei e i killer. Ancora però non si hanno né uno straccio di movente né si conoscono i reali mandanti dell’omicidio. Secondo il procuratore generale Jaromir Ciznar, infatti, “Il caso è tutt’altro che chiuso, e continueremo i contatti con le autorità italiane per capire cosa è accaduto e da dove è arrivato l’ordine di uccidere Jan. Non ci fermeremo, ma per il momento è troppo presto per parlare di ogni altra cosa.” Anche questo caso, al momento, sembra irrisolto. Il filo che lega le storie di Jamal, Daphne, Viktoria e Jan è che tutti e quattro stavano svolgendo inchieste fastidiose su importanti uomini politici del loro paese; casualmente, ognuno di loro è stato ucciso. Proprio quello Stato che ogni giorno cerca di screditare la professione del giornalista, ma sempre pronto a premere il grilletto contro alcuni dei suoi esponenti più scomodi nel momento in cui ci sia bisogno di metter a tacere le voci avverse. Un paradosso mortale, che lega queste vicende in maniera indissolubile. di Emanuele Caviglia e Elena Lopriore

GIORNI DI HAMBACH: PER UN DINOSAURO CONSAPEVOLE. La prima volta che sono stato nella foresta di Hambach era Marzo e un vento siberiano aveva raggiunto l’Europa facendone la settimana più fredda dell’anno. Io ero finito lì insieme a due amici, con i quali ero deciso a scoprire di più su questo bizzarro angolo di mondo. Molte cose sono cambiate da quando Scomodo ha descritto questa realtà nel numero di Gennaio. Procediamo con ordine. La Hambacher Forst è il riferimento europeo assoluto per l’attivismo anarco-ambientalista. Per oltre 6 anni decine di case sugli alberi hanno protetto quel misero 10% di foresta sopravvissuta alla RWE, gigante dell’energia tedesco, che porta avanti da decenni l’antica tradizione di estrarre carbone dalla fertile regione del Nord Reno-Vestfalia. Una volta entrati nella foresta si sceglie un nuovo nome, per motivi di sicurezza. Il mio è Difù. Questo, insieme al fatto che i quartieri in cui sono distribuite le treehouses portano nomi fiabeschi come Gallien, Lòrien e Goblintown, evoca un contesto fantasy che mi diverte molto. Dopo il nome, ognuno dichiara il pronome con cui vuole essere chiamato, perché nessuno imponga a nessuno il proprio genere. Si può scegliere tra “lui”, “lei” e “loro”. Cosa che può produrre dialoghi surreali come: “Sono andati a prendere la legna.” “Chi?” “Till.” “Con chi?” “Con nessuno. sono andati da soli.” “Chi?” “Till.” “Ah.” D’altra parte la tolleranza è il principio della convivenza nella foresta: nessuno fuma una canna o beve una birra senza chiedere prima il permesso ai presenti.

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In quanto occupazione di stampo anarchico nessuno dà ordini a nessuno. Qualsiasi gerarchia è vista come il male assoluto e nonostante fossi arrivato da un paio d’ore hanno chiesto il mio parere su dove costruire una barricata. Le case sugli alberi sono incredibili. Ognuna è stata personalizzata negli anni da chi la ha abitata e vi si possono trovare bigliettini nascosti per futuri inquilini, libri in lingue diverse e chitarre con scritto “play me”. Ogni casa ha una riserva di cibo e acqua per 2 settimane: in caso di sgombero si tira su la corda che permette di salire e si aspetta dentro. Dormire a 20 metri da terra è un sogno. Il vento fa ondeggiare il letto. Sono quasi tutti vegani. In quanto antispecisti considerano l’uccisione di un animale pari a quella di un essere umano. Per loro l’ingiustizia dell’allevamento e i danni che esso provoca all’ambiente fanno parte di uno stile di vita inaccettabile che non possiamo più permetterci. Sulla parete della capanna principale svetta la scritta: “I latticini sono un abominio. Staccati dalla tetta!” Sombra, un trentenne spagnolo, mi spiega la sua teoria secondo cui mangiare miele è sfruttamento della classe operaia: “It’s their food, man!”. Come italiano abituato a consumare una media di 15 amatriciane al mese, il discorso mi risulta pesante da digerire. Eppure mi fanno presente che l’allevamento bovino è la prima causa di inquinamento atmosferico ed oceanico, così come di siccità e disboscamento. Una vera piaga (a questo proposito consiglio il documentario “Cowspiracy”, disponibile su Youtube). In Italia la parola vegano è associata soltanto al diabolico incrocio tra un radical chic e un rompicoglioni, che sopravvive solo grazie al NaturaSì. D’altra parte il consumo massivo di prodotti animali a cui siamo abituati oggi è una novità degli ultimi 70 anni e, come tante innovazioni, si sta dimostrando impossibile da sostenere per il nostro corpo e per il nostro pianeta. Domande di ordine più esistenziale cominciano a farsi spazio nella mia testa. E se tra qualche anno sembrassimo noi i pazzi che mangiavano altre specie come fosse normale? Come avendone il diritto? Molte persone pensano che il veganesimo sia una forma di estrema sensibilità favorita dal progresso. Ma non è questa la natura del progresso? Un ingentilirsi complessivo dei modi ed affinarsi della sensibilità? “Non esistono specie siamo tutti animali” non è il seguito naturale di “siamo tutti umani non esistono razze”? Come scrisse Cechov: “E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale.” Mi hanno convinto. Rinuncio alla carne. Molti degli occupanti di Hambach sono attivisti di professione, sempre in viaggio tra una manifestazione fuori da un mattatoio in Francia e l’addestramento di un nuovo gruppo ambientalista in Svezia, rubando un po’ di cibo e vestiti nel tragitto, lavorando per brevi periodi, nella convinzione assoluta che un cambiamento sia necessario e non discutibile. Bisogna stare attenti a pensare che queste persone siano un ammasso di punk e fricchettoni che inseguono un ideale di bucolica nullafacenza: le notti invernali nella foresta raggiungono i -20 gradi centigradi, i rifornimenti d’acqua possono scarseggiare per giorni e l’igiene è decisamente un lusso.

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Nonostante le proteste siano rigorosamente pacifiche e nessuno si opponga mai agli sgomberi in modo violento, gli arresti da parte della polizia possono durare mesi e incatenarsi ad una barricata può rivelarsi molto pericoloso (ad esempio quando la barricata in questione è un buco profondo due metri, l’attivista in catene di trova sul fondo e prima che venga tirato fuori passano diverse ore). Spesso sono persone con un’invidiabile consapevolezza della loro posizione nel mondo: l’etica inflessibile alla base delle loro scelte mi ha più volte fatto sentire debole e insicuro. In loro presenza slittavo facilmente dal considerarli estremisti dogmatici lontanissimi dal mio mondo, al chiedermi se non fossero loro i protagonisti di Matrix ed io l’umano inconsapevole, nutrito e coltivato dalle macchine, che appare a malapena, circondato da copie identiche, sullo sfondo di un fotogramma. Le colpe che attribuiscono alla RWE sono di aver quasi interamente distrutto una delle ultime foreste millenarie d’Europa, di aver intossicato con polveri sottili l’area circostante producendo un notevole incremento di tumori e di sostenere un business che primeggia in Europa per l’emissione di gas serra. Intorno al bosco stanno tre cittadine fantasma, sgomberate per far spazio alla miniera. La miniera stessa è una gigantesca distesa di niente. Si estende a perdita d’occhio per chilometri dove prima cresceva una foresta. Non ci sono tunnel, la lignite viene estratta tagliando gli alberi e scavando sotto. Sono tornato ad Hambach per partecipare ad “Ende Gelände”, una manifestazione contro il cambiamento climatico della durata di 5 giorni, che si tiene ogni anno in Autunno. Il 26 ottobre intorno alle 13 arrivo alla stazione di Buir, nei pressi del bosco. Qui incontro Agnes e Lucky, due attivisti molto gentili. Lei fa la cassiera in un supermercato. Lui ha avuto un incidente mentre riparava una pressa industriale nel 2010 e dopo 3 mesi di coma e 3 anni di riabilitazione è tornato a camminare. Senza antidolorifici gli fa ancora male. Ha una batteria nello stomaco, cavi nella colonna vertebrale e placche di metallo sulle ossa. Ha la spensieratezza di chi è già morto.Tutto quello che ho conosciuto nel corso della mia precedente visita non esiste più: le case sugli alberi sono state distrutte durante gli scontri di settembre, quando per settimane gli occupanti sono stati assediati da “poliziotti-arrampicatori”. Mi raccontano che, prima che diventasse un caso nazionale ed arrivassero i giornalisti, la polizia si è permessa azioni estremamente violente: sembra che braccia rotte, pepe spray e percosse fossero all’ordine del giorno. Quando Steffen Meyn, un reporter di 27 anni che documentava i fatti sul suo blog, è morto cadendo da una passerella di legno, la polizia ha deciso di concedere una tregua e più di cinquantamila persone si sono radunate nel bosco per manifestare. Non è chiaro se ci sia un coinvolgimento diretto da parte delle forze dell’ordine nella morte del ragazzo, ma è certo che l’unico incidente grave accaduto durante la lunga occupazione sia avvenuto nei giorni di una pesante repressione. Comunque non ci sono solo sconfitte per il popolo della foresta, anzi: la corte di Münster ha dichiarato di aver bisogno di un altro anno per decidere se consentire o meno il proseguire dell’abbattimento degli alberi ed in questo tempo ha vietato alla miniera di procedere con il taglio. Un traguardo inimmaginabile 6 ann fa, quando l’occupazione stava iniziando ed il supporto di un tribunale era pura utopia. Inoltre, la fama acquisita dalla protesta negli ultimi mesi - in particolare dopo la morte del giornalista - ne ha fatto una sorta di “caso Spotlight” dell’ecologia, canalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi ambientali e probabilmente persino influenzando la vittoria dei Verdi in Assia e Bavaria.

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Sinceramente prima di venire qui non mi ero informato affatto e la situazione è più paurosa di quanto pensassi. Scopro che Ende Gelände consiste in una serie di azioni illegali nei confronti della miniera. La polizia sta controllando i documenti di chi si avvicina al campeggio, Google ha cancellato la posizione del campo dalle mappe (scusa?) e sono stati interrotti i treni. Con molta nonchalance Lucky mi espone le possibilità di domani: “Se comporremo barricate umane la polizia sarà autorizzata ad eseguire una piccola tortura dissuasiva, in un crescendo che va dal premere il manganello sulla coscia al premere le dita sugli occhi. In queste situazioni sta all’attivista decidere quanto a lungo resistere. Alcuni resistono ore. (Se scappo in lacrime dopo 5 minuti sono un servo del Potere?) Se ci mettiamo in cerchio intorno ad una scavatrice la polizia potrebbe caricarci con i cavalli (Ed ecco di nuovo lo scenario fantasy). Se ti arrestano non dargli i tuoi documenti: dopo 12 ore dovranno rilasciarti comunque. Segnati il numero dell’assistenza legale sul braccio e cospargiti le dita di SuperAttak per non farti prendere le impronte.” Tutti sembrano d’accordo con lui. Comincio a cagarmi sotto. Improvvisamente mi sento spogliato dei miei diritti, in pericolo, non ho mai avuto una così netta sensazione che il mondo civilizzato stia vivendo in uno stato di guerra. È davvero stretta la strada che bisogna percorrere per non essere nemico di nessuno. Basta un guizzo di libertà, un passo nella direzione sbagliata per calpestare i piedi di persone potenti. La polizia potrebbe arrestarci da un momento all’altro. Ho paura di non aver mai capito niente di come gira il mondo, di essere un burattino nelle mani del nemico, che il sistema esista e sia davvero un impero. Prego perché la mia realtà sia più complessa di così. Prego di non essere solo un codardo. Brivido. Ore 16:30. Alla mia iniziale fifa esistenziale ricca di domande sul senso del mio essere qui, si sostituiscono lampi di furore anarchico ed entusiasmo per l’azione di domani. Una cosa che mi colpisce degli attivisti è la loro assoluta mancanza di ambizioni individuali. Nessuno sembra preoccupato per la propria incolumità. Gli obiettivi comuni qui schiacciano qualsiasi spazio per problemi personali: un’attitudine molto rara nel contemporaneo. Visto che raggiungere il campo non è possibile, decidiamo di passare la notte da Agnes, a Colonia. Scopro che ha tre figlie di tre padri diversi. 3, 10 e 14 anni. Non so perché pensavo che ci avrebbero trattato con sufficienza e disinteresse, invece ci guardano come eroi di ritorno dal campo di battaglia. Quella di mezzo si sveglia alle 6 di mattina per guardarci partire e su ordine della madre prepara thermos di caffè per tutti. L’azione è andata bene. La polizia non è stata particolarmente cattiva ed ogni gruppo, più o meno, ha fatto qualcosa. Il nostro si è avvicinato alle scavatrici costringendo gli operai a fermarsi. Un altro, di circa 2.000 persone, si è seduto sui binari dove passa il treno del carbone, rimanendo persino a dormire lì. È bello agire in compagnia con un obiettivo, è forse la vera prerogativa dell’amicizia. Qui tutti si impegnano ad essere spontanei, pacifici e creativi: un ragazzo si è buttato nudo sotto l’acqua degli idranti e una band di fiati ha orchestrato il tutto. Applausi. Ognuno dichiara la propria esistenza e reclama il proprio spazio, si mette alla prova e conosce di più su di sé e sul mondo. Se le manifestazioni fossero state così anche al liceo forse le avrei frequentate di più.

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La sera andiamo in una delle case della città fantasma per portare cibo e birra a una decina di persone che la tengono occupata da un paio di settimane. Una camionetta della polizia sorveglia la porta quindi entriamo attraverso una scala poggiata sulla finestra, dalla parte del giardino. Il bagno produce l’odore più disgustoso che abbia mai sentito. Quando scoprono che domani prenderò un aereo quasi mi sgridano. “È un mezzo altamente inquinante.” Mi sono sentito offeso, allontanato, forse ho avuto l’impressione che capissero che non ero uno di loro. Grande paura. Hanno un pervasivo senso della morale, sono convinti che la giustizia debba essere radicale ovunque e che qualsiasi compromesso con il potere sia inaccettabile e stupido. Mi chiedo come si immaginano il futuro dell’umanità. Apocalittico o utopico? Probabilmente non immaginano niente. Non mi sembra che la loro lotta abbia qualcosa di strategico. Loro si occupano, non si preoccupano. Sono sicuri di avere ragione. Sempre. Mi sembra quasi che diventare un attivista di questo tipo sia un fatto di vocazione e non di convinzione. Come se facessero quello che fanno perché non riescono a fare nient’altro. C’è chi non riesce a permettersi la benché minima forma di cinismo e tutto ciò che ferisce qualcuno o qualcosa ferisce anche lui/lei/loro. C’è chi non sopporta l’autorità in modo viscerale e deve poter seguire sempre il proprio istinto. C’è chi era considerato sporco, strano e solitario a casa sua e adesso è sporco, strano e in compagnia. Ma la domanda continua a ronzarmi in testa: sono loro che vedono le cose in maniera troppo semplice o sono io che le faccio complicate per non dover prendere delle decisioni? È sempre difficile riportare in casa propria le cose belle apprese durante un viaggio. Il contesto non aiuta: la città è sporca e senza animali; apri Facebook e Bolsonaro vuole radere al suolo la foresta Amazzonica; confessi al cameriere dell’hostaria di fiducia che hai smesso di mangiare carne e lui, non capisco se per sadismo o nel tentativo di sostenere un dialogo impossibile, ti racconta di quando va a caccia con suo cugino. D’altra parte nel giro di 10-15 anni il livello dell’acqua si alzerà, la superficie della terra diminuirà e con lei le risorse. Noi saremo 10 miliardi e l’ambientalismo non sarà più una scelta ma una questione di sopravvivenza. Un cambiamento comportamentale è necessario. Dobbiamo tirarci fuori dalla spirale autodistruttiva in cui ci ha ficcato l’ultimo secolo di cieca produzione. In fondo siamo stati abituati a pensare che questo stile di vita fosse l’unico possibile, ma è stato possibile solo negli ultimi anni. L’affermazione di movimenti ambientalisti in Europa non è un fenomeno casuale, ma sintomo di una sempre più diffusa attenzione nei confronti di queste tematiche. I dilaganti movimenti di estrema destra, è vero, spingono in tutt’altra direzione; ma hanno davvero l’energia per portare questa spinta in una progettualità di lungo periodo? Forse tra qualche anno estrarre carbone, utilizzare plastica e mangiare carne sembrerà il retaggio di un periodo oscuro. Che cosa sta per succedere? Stiamo per inaugurare una nuova epoca di sensibilità e attenzione per il pianeta che abitiamo? Per la Natura che ci circonda? Oppure faremo la fine dei dinosauri, vivendo in più la follia paradossale di essere sia il dinosauro che il meteorite? di Giovanni Onorato

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TRIBUNA SOCIAL (RUBRICA) la comunicazione politica nell’epoca dei social Per lungo tempo, i maggiori esponenti della politica partitica italiana sono stati sottoposti alle tribune elettorali, spazi televisivi in cui le loro proposte si scontravano con le opinioni popolari portate in studio da vari rappresentanti della stampa italiana. Oggi, questo format comunicativo è stato sostituito nell’immaginario collettivo dal rapporto “diretto” che il politico intrattiene con i comuni cittadini grazie ai social networks.

Per quanto possa risultare banale, è giusto affermare che il nostro tempo è stato profondamente segnato dalla nascita e dalla rapida espansione dei social networks, che oramai fanno parte della vita quotidiana di ciascuno di noi. L’apertura di un nuovo canale comunicativo, come dimostrato in passato dall’introduzione della televisione, comporta sempre una grande sfida per la classe politica, che si vede dunque costretta a cambiare il proprio modus relazionale per poter rispondere alle nuove necessità della popolazione. Nell’immaginario collettivo si è andata dunque sviluppando l’idea che la comunicazione politica abbia trovato una nuova casa sulle varie piattaforme social, a cui i partiti sembrano dare sempre più importanza. Ma la realtà è veramente questa? Non potrebbe trattarsi di una mera costruzione dialogativa della popolazione? Su questi quesiti si basa “tribuna social”, che nel corso dei prossimi mesi andrà ad analizzare le singole componenti di questo complicato mosaico, tramite una approfondita analisi della realtà e le parole di social media manager ed esperti del settore. Nel primo capitolo della rubrica, andremo ad analizzare il complesso rapporto che sussiste fra l’ala politica della sinistra italiana e la comunicazione via social, da molti considerato una delle cause dietro il disastro elettorale del 4 Marzo.

Capitolo I

Circoli a 4G Sinistra e social: un rapporto impossibile? Mentre le forze di governo vengono reputate assai abili nell’utilizzo dei social, nella narrazione convenzionale l’ala politica che viene vista più in difficoltà nell’utilizzo di questo nuovo medium comunicativo è sicuramente quella di sinistra. Numeri e dati sembrano sostenere una tale ipotesi, ma soffermarsi solo su questa affermazione non permette di arrivare a comprendere le cause di questa apparente difficoltà e come essa si sviluppi.

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Nell’analizzare il percorso storico della sinistra italiana, si può notare come per un lunghissimo lasso di tempo la sua forza risiedeva nel contatto diretto con la popolazione tramite la presenza dei circoli, luoghi dove i maggiori esponenti locali dei partiti potevano entrare in contatto con le preoccupazioni e le necessità del proprio elettorato. Nel momento in cui venne presa la decisione di chiudere queste esperienze locali, il linguaggio utilizzato all’interno degli stessi non è riuscito a far presa sui nuovi medium in cui è stato trasportato, in primis televisioni e radio. Ora che la situazione si ripresenta con i social networks, la tendenza è dunque quella di dare la colpa agli strumenti comunicativi. Di questo avviso non è il professor Stefano Epifani, docente della Sapienza, che ha affermato: “Andando a guardare la storia della comunicazione politica, sia quando arrivò la radio sia quando arrivò la televisione si facevano esattamente gli stessi discorsi di oggi. Ogni volta che la sinistra si trova di fronte alla sua strutturale incapacità di parlare con le persone, dà la colpa agli strumenti. Il problema non è dei social. Il problema è un partito che, avendo perso una propria identità, è ovvio che non riesce a comunicare”. Seguendo dunque le parole del Professor Epifani, indicare come causa di una ipotetica difficoltà della sinistra sui social la complessità del suo linguaggio è assolutamente erroneo, poiché la colpa risiede unicamente nel proporre una tipologia di linguaggi privo d’identità, che non riesce dunque a rapportarsi neanche con lo stesso elettorato, assai lontano da quei comizi che infuocavano gli animi degli spettatori nei circoli. La questione del linguaggio si rivela dunque fondamentale anche per analizzare l’utilizzo che viene fatto delle varie piattaforme da parte dei partiti dello schieramento politico di sinistra, poiché molti degli errori compiuti dagli stessi derivano direttamente dalla tipologia di linguaggio utilizzato, a partire semplicemente dalla scelta di quale piattaforma prediligere per le proprie comunicazioni politiche. Facebook e Instagram sono i due social media più utilizzati in Italia dopo Youtube, come dimostrato gli studi dell’agenzia di dati GlobalWebIndex, attiva in più di 40 paesi e con uffici a Londra, New York e Los Angeles. Anche senza l’aiuto di classifiche e sondaggi, basta poco per accorgersi dell’impatto di queste due piattaforme digitali sulla vita quotidiana della maggior parte della popolazione italiana. Eppure, gran parte della sinistra politica sembra ignorare tutto ciò. I principali esponenti dei partiti che dovrebbero formare l’opposizione del governo gialloverde spesso non esistono su Instagram, e su Facebook si limitano a una comunicazione saltuaria, con post ogni due o tre giorni e senza alcuna inventiva. Al contrario sono quasi tutti molto attivi su Twitter, a partire da Renzi. L’hashtag “#matteorisponde” tramite il quale l’ex presidente del consiglio rispondeva alle domande di sostenitori e detrattori – sulla scia degli youtuber – fu una delle più grandi novità nel campo della comunicazione politica nell’era digitale.

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E nacque proprio su Twitter nel novembre del 2013 (almeno, questo è l’hashtag meno recente che si trova su internet), per approdare su Facebook solo nel 2016. Tutto questo si riflette anche nei numeri. La pagina Facebook di Renzi ha poco più di 1 milione di mi piace, mentre su Twitter è tutto triplicato con 3.36 milioni di followers. “La preferenza di un social rispetto a un altro dipende molto dalle inclinazioni personali del politico, in base a quanto vuole rendere pubblico della propria vita intima. Twitter è un canale che parla molto al ceto politico e ai giornalisti e meno al resto della popolazione. Nel nostro mondo è quello più utilizzato. Purtroppo, aggiungo io” spiega Alessio De Giorgi, membro dello staff social di Matteo Renzi. Queste parole rendono palese una forte forma di distacco fra la sinistra democratica e la popolazione, che si rivela principalmente in questo uso spasmodico di Twitter. Questa piattaforma ha infatti un bacino d’utenza in Italia pari a soli 8 milioni di utenti attivi, quindi terribilmente inferiore a quelli di Facebook ed Instagram (che si attestano invece rispettivamente sui 30 e 19 milioni di utenti attivi al mese). Un banale errore di calcolo difatti non permette che i comunicati politici del PD riescano a raggiungere un ampio numero di utenti, ma a quanto pare sono gli stessi deputati a non volere una cosa simile, preferendo colloquiare online solo con giornalisti o con una parte di popolazione ritenuta intellettualmente elevata. In questa maniera, il PD non fa altro che alimentare uno dei più grossi stereotipi che si sono venuti a creare negli ultimi anni (a quanto pare neanche troppo infondato), ossia quello di rivolgersi unicamente a un pubblico d’élite e di intellettuali, trascurando gli strati sociali più in difficoltà. Un errore che ha comportato una graduale perdita di legame con il territorio e di presenza nelle varie realtà cittadine e che neanche sui social riesce ad essere riparato, ma anzi viene addirittura ingigantito. La grande personalità dei social inoltre fa sì che ogni esponente politico comunichi in modo unico e diverso dagli altri. Differenze che persistono anche tra membri dello stesso partito e che hanno il risultato di dare un quadro molto frammentato di quella che in teoria dovrebbe essere una stessa linea politica. “La linea politica comune – continua Di Giorgi – viene rispettata soprattutto in campagna elettorale. E’ chiaro che fuori dalla campagna, soprattutto in un partito come il PD che ha diverse correnti al suo interno, questa unità tende a perdersi. I canali ufficiali di un partito provano a dare un riassunto dei temi che si sono discussi in giornata. A volte ci riescono meglio, a volte meno”. Infatti le pagine del PD su Facebook e su Twitter fanno proprio questo: pubblicano e condividono continuamente citazioni e post dei maggiori esponenti del partito, utilizzando la stessa identica formula per entrambe le piattaforme. Paradossalmente, non differenziare in alcun modo le strategie comunicative tra i vari social sembra l’unico modo per avere un pubblico di riferimento equilibrato: la pagina ufficiale del PD è, con ogni probabilità, l’unico soggetto politico ad avere lo stesso numero di seguaci sia su Facebook che su Twitter. Pur riuscendo in questo intento, questa “twitterificazione” della comunicazione social scade

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quasi in una forma di autocelebrazione fine a se stessa dei maggiori esponenti del partito agli occhi dello stesso elettorato di sinistra. In questo senso, uno degli esperimenti maggiormente riusciti invece risulta quello del Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, che utilizza la sua pagina Facebook principalmente per rilanciare i suoi spostamenti ed interventi in tutto il territorio laziale, mostrandosi terribilmente vicino ai suoi concittadini (come testimoniano i 250 mila “mi piace” della sua pagina Facebook; che risultano un ottimo numero per un politico regionale che solo ora si affaccia sulla scena nazionale). Allargando lo spettro dell’indagine anche alle altre forze che compongono il blocco della sinistra italiana, lo scenario appare in realtà ancora più desolante: persino un’alleanza nata per differenziarsi dal PD – l’ormai ufficialmente sciolto Liberi e Uguali – non è riuscita a interfacciarsi con le nuove forme di comunicazione. La loro pagina Instagram è sempre stata privata e inaccessibile al pubblico. Gli ultimi tre post della pagina Facebook sono stati pubblicati a più di un mese di distanza l’uno dall’altro e su Twitter sono fermi al 14 luglio. Anche i maggiori esponenti politici – Grasso, D’alema, Bersani – ricadono tutti negli stessi errori e nelle stesse logiche della comunicazione del PD: preferire Twitter a qualsiasi altro social. Qualche eccezione risulta in realtà presente: il partito di “Potere al Popolo” dà molta poca attenzione al social azzurro, mentre su Facebook ha più di 100.000 mi piace e il profilo Instagram è incredibilmente curato dal punto di vista grafico. Questo probabilmente perché il potenziale elettorato di Potere al Popolo è molto diverso da quello dei precedenti partiti: si tratta perlopiù di giovani e studenti che non usano Twitter e che – come del resto la maggioranza degli italiani – sono di gran lunga più attivi su Instagram e Facebook. Dopo questa attenta analisi, risulta però terribilmente difficile trovare una soluzione adeguata che riesca a porre fine a questo terribile problema comunicativo: auspicare infatti che la maggior parte dei partiti di sinistra riesca a comprendere meglio il mondo social sembra una richiesta sensata. Il rischio però è quello di incorrere in un impoverimento generale del messaggio politico di sinistra, che porterebbe ad una nuova snaturazione dei movimenti ed ad una fuga degli elettori sempre maggiore. Forse, la soluzione migliore sarebbe quella di ammettere la propria incapacità e tornare a parlare direttamente con la popolazione, anche se arrivare ad una forma di riapertura dei circoli possa in realtà sembrare una proposta totalmente anacronistica nel mondo di oggi. Dinanzi però ad errori così palesi nella metodologia comunicativa, riportare questo complesso linguaggio all’interno del luogo in cui è nato e ritrovare la propria territorialità può risultare in una scelta assolutamente vincente. di Luca Bagnariol e Francesco Paolo Savatteri

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METAMORFOSI (RUBRICA) «Autolesionismo. Quando la pelle è colpevole» Attraverso interviste a psichiatri e psicologi, Metamorfosi indagherà i fenomeni caratteristici dell’età evolutiva e della primissima età adulta. Andando a caccia di risposte chiare ed esaustive, cercheremo di proporre un’indagine che scavalchi gli stereotipi e i preconcetti sul mondo dell’adolescenza e indirizzi quei fenomeni che molto spesso sono comunemente intesi in maniera grossolana ed inesatta.

L’autolesionismo è un sintomo sempre più diffuso tra gli adolescenti, tanto da essere spesso ed erroneamente definito come una “moda” o un “capriccio” per attirare l’attenzione. Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato la psicoterapeuta Marzia Fabi, che assieme alle colleghe Cecilia Di Agostino e Maria Sneider ha pubblicato nel giugno 2016 il saggio “Autolesionismo” per L’Asino d’oro edizioni, inaugurando la collana “Bios Psychè/Adolescenza” che si propone di approfondire le problematiche adolescenziali attraverso le scoperte della Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli. Cos’è l’autolesionismo? È un termine molto vasto. Si può parlare di autolesionismo per tutti quei comportamenti che si mettono in atto per farsi del male, come l’uso di droghe, la guida spericolata, o quando si portano avanti rapporti interumani sbagliati e distruttivi. Nel libro affrontiamo il problema del cutting, una forma specifica di autolesionismo che viene attuata principalmente dagli adolescenti, che si feriscono la pelle con vari strumenti. Quello che è importante sottolineare è che si tratta del sintomo di una malattia più profonda che bisogna indagare: non è una moda né un vizio, se un ragazzo si taglia vuol dire che sta male! Le persone non sono violente di natura, la violenza è sempre sinonimo di patologia. È comune pensare che si tratti di un tentativo di suicidio. È così? Di solito è esattamente il contrario! Quello che abbiamo avuto modo di rilevare con l’esperienza clinica è che si tratta di un modo molto malato che hanno questi ragazzi di affrontare una situazione interna molto dolorosa, una forte rabbia o un’angoscia insostenibile, questi ragazzi tentano di non perdere del tutto il rapporto con la realtà attraverso l’agito sul corpo, utilizzano il cutting per rimanere ancorati alla vita. Te lo raccontano: ti dicono che nel momento in cui si tagliano stanno meglio, un po’ si calmano e tornano alla realtà. Come ci si ammala? E perché questo sintomo è così diffuso tra gli adolescenti? Nell’adolescenza il corpo assume un significato molto importante, c’è un passaggio. Durante la pubertà, oltre all’apparizione dei caratteri sessuali secondari, ci dovrebbe essere un grosso cambiamento della realtà psichica: compaiono nuove esigenze di rapporto, altri pensieri. Se durante l’infanzia il bambino ha realizzato un’identità e una realtà interna valida allora questo passaggio avverrà con una normale crisi fisiologica che tutti gli adolescenti devono attraversare e che però si risolverà da sola: ci saranno i musi lunghi e la ribellione dai genitori, ma non si presenterà nessun sintomo di malattia. Se invece i primi anni di vita sono stati deludenti per il bambino, in adolescenza cominceranno i problemi:

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il corpo cambierà, diventerà quello di un adulto, ma il cambiamento psichico non andrà di pari passo con quello fisico e a quel punto il corpo potrà essere vissuto in maniera negativa, come “colpevole” o nemico. A proposito di questo, mi piacerebbe approfondire il significato del sottotitolo che avete scelto: “Quando la pelle è colpevole”. Ti faccio un esempio: una ragazza con la pubertà diventa bellissima, attira i ragazzi e diventa desiderabile ma, per quello che dicevamo prima, può accadere che non sia pronta, non si senta all’altezza, e quindi investa il suo corpo di un pensiero negativo. A quel punto si possono presentare dei sintomi, come lo sfogare la rabbia sulla pelle, perché non si sopporta questo cambiamento. Tante volte la pelle è considerata colpevole perché ha perso la sensibilità: la persona, ammalandosi - e quindi perdendo la propria sensibilità psichica – perde anche la capacità di sentire attraverso il corpo. È proprio attraverso la pelle, con gli abbracci, i baci e durante il rapporto sessuale, che percepiamo ciò che accade nel rapporto interumano, ed è qualcosa che risale al primo anno di vita, in cui il bambino ha un rapporto molto intimo con i genitori, che passa proprio attraverso la sensibilità della pelle. È un sintomo che si può presentare in quadri clinici molto diversi tra loro? Sì, per quello che abbiamo rilevato noi ci possono essere tre tipologie di cutters. Molti ragazzi si pizzicano, si grattano fino a farsi sanguinare o si scorticano le ferite. Queste sono situazioni meno gravi, di tipo depressivo, in cui è mantenuta una maggiore sensibilità e affettività: non c’è l’atto così violento e invasivo del taglio, ma si rileva un forte senso di colpa, il ragazzo sente di avere una carenza, ad esempio non riuscendo a ribellarsi a rapporti interumani deludenti - molto spesso questi casi sono legati al bullismo. Poi ci sono pazienti più rabbiosi, e a loro il taglio serve a calmarsi. Focalizzare la rabbia accecante su un punto del corpo gli serve per evitare che questa investa tutto ciò che li circonda, il dolore psichico insopportabile viene spostato sul corpo e diventa un dolore fisico più gestibile. Se è presente la rabbia e altri sentimenti negativi vuol dire che il ragazzo non è ancora caduto nella totale anaffettività, che rappresenterebbe un quadro clinico ancora più grave. Infatti ci sono dei ragazzi che si tagliano proprio perché non sentono più niente, hanno perso qualsiasi capacità di rapportarsi agli altri esseri umani in maniera valida e non hanno più nessun interesse: ti raccontano di sentirsi morti, come se il sangue non gli scorresse più nelle vene. Queste sono situazioni legate ad un deserto affettivo enorme e la pelle diventa l’espressione di questa anaffettività: il dolore fisico e la vista del sangue gli restituisce di nuovo una sensazione forte, per un attimo si sentono nuovamente vivi. Il punto che si decide di colpire può assumere un significato particolare? Abbiamo cercato di darne una lettura ed è venuto fuori anche dai sogni dei pazienti: tra i casi clinici descriviamo quello di una ragazza che sogna un busto senza braccia. Le braccia sono la rappresentazione del rapporto affettivo dei primi anni di vita, in cui il bambino è sempre in braccio ai genitori. Queste braccia avrebbero dovuto amarlo, cullarlo e soprattutto considerarlo, ma tante volte non sono state in grado di farlo - non perché materialmente i genitori non tenessero in braccio il bambino ma perché è mancato un calore e un interesse profondo. Non riuscendo a fare una ribellione sana nei confronti della madre anaffettiva questi ragazzi puniscono se stessi. Invece le gambe nei sogni solitamente rappresentano il “saper camminare” da soli e quindi lo svezzamento, la prima separazione dalla madre. Colpire le gambe può voler dire che lo svezzamento è fallito e che il ragazzo non è in grado di affrontare le separazioni, che molto spesso lo terrorizzano e lo angosciano.

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Quando ad essere sfregiato è il volto ci troviamo davanti ad una situazione molto più grave, come una psicosi: il viso rappresenta la nostra immagine interna, è il 2018 Novembre riflesso di ciò che abbiamo dentro e di chi siamo. In generale nel cutting non ci troviamo quasi mai di fronte ad una psicosi conclamata, ma piuttosto ad un siRedattori tuazione al limite: è frequente la diagnosi di personalità borderline. Questi ragazzi riescono ad avere una vita apparentemente normale, mentre nelle psicosi c’è una compromissione maggiore della vita e dei rapporti. Emanuele Caviglia • Elena Lopriore Giovanni Onorato • Luca Bagnariol

Se non viene affrontata come può degenerare la malattia in età adulta? Francesco Paolo Savatteri Alice Paparelli • Laura Pacifici Questo è un sintomo non scompare mai facilmente: i cutters hanno l’illusione che Maria Marziano Cosimo Maj il taglio li aiuti, come fosse un’autoterapia. Spesso vengono da noi per•altri motivi Daniele una Gennaioli e non ci dicono subito che si tagliano, è una cosa che tengono nascosta: mia Panno paziente aveva il braccio pieno di bracciali e solo dopo un po’ diJacopo tempoAndrea ho scoperAnna Leonilde Bucarelli to che sotto c’erano un sacco di cicatrici. Può comunque succedere che il sintomo Lucrezia Agliani • Ismaele Calaciura sparisca da solo con la crescita e che in età adulta si Luca rivolga ad altro,• Leonardo ovviamente Giordani Rosi l’adulto non sarà guarito da solo, ma il sintomo siCamilla presenterà sotto altre forme di Cataldi • Adriano Bordoni autodistruttività. Nell’autolesionismo c’è un annullamento della realtà psichica: B.C. • Simone Massari agendo sul corpo questi ragazzi non si chiedono perché male: crescendo Anna Laura stanno Lozupone • Riccardo Corsi Ettore • Giovanni Forti questo annullamento potrebbe presentarsi ad esempio con unIorio disturbo alimentaPietro Forti • potrebbe Simone Martuscelli re, che è sempre mirato ad attaccare il corpo, oppure la persona iniziare Guerriero Luca Bagnariol a fare uso di droghe o alcol. Un’altra cosa che Alessandro può succedere è che• rimanga solo Marco Collepiccolo • Martina Saladini la freddezza e l’anaffettività: i sintomi manifesti potrebbero scomparire lasciando il posto a quell’impossibilità di sentire e di avere un rapporto valido con gli altri, non riuscendo a realizzare una vita pienamente soddisfacente.

BBraio pag. 60 / 63 Emanuele Faro pag. 64 / 66 / 68 / 74 Maria Marzano pag. 16 / 20 / 22 / 23 / 25 / 31 / 33 / 34 / 35 / 37 / 56 / 58 / 59 / 70 / 71 Gabriel Vigorito pag. 38 / 39 / 40 / 41

Fotografi Emma Terlizzese pag. 28 / 48 / 50 / 52 / 54

Responsabile editoriale:

Edoardo Bucci Come si può curare l’autolesionismo? sezione “Attualità”: Da terapeuta non posso assolutamente fermarmi al sintomoResponsabile e stare a chiedere: Pietro Forti “Quando ti sei tagliato? Come ti sei tagliato?”, cercando magari di fermare il paResponsabile sezione ziente con indicazioni comportamentali. Devo saper affrontare il non cosciente e“Cultura”: Jacopo Andrea Panno la realtà interna per capire perché il ragazzo è arrivato a tagliarsi: c’è una rabbia? Responsabile sezione “Il Plus”: Un’anaffettività? Una depressione? Bisogna lavorare sulla storia delle relazioni delBagnariol Luca ragazzo, soprattutto di quei rapporti che lo hanno accompagnato nella crescita e “Focus”: Responsabile sezione che sono fondamentali per sviluppare una realtà interna solida. Per fare ciò devo Adriano Bordoni rivolgermi necessariamente ai sogni: interpretandoli ho modo di vedere come il ragazzo elabora i suoi vissuti e posso anche capire come sono andati i suoi rapporti nei primi anni di vita: la razionalità compare solo più tardi ed essi sono vissuti con una realtà non cosciente, su un rapporto che si basa sul sentire. Di questo periodo non si ha un ricordo cosciente ma si conserva una memoria non cosciente che si esprime attraverso i sogni, che ci possono parlare ad esempio di uno svezzamento non riuscito, una separazione andata male o di violenze subite, di delusioni vissute. Il rapporto tra il terapeuta e il paziente è un rapporto fondamentale dove la realtà umana del terapeuta dev’essere valida: per fare una psicoterapia che porti alla guarigione il terapeuta deve avere una sensibilità che lo porti a cogliere quei segnali invisibili e latenti al di là del comportamento manifesto. Nella nostra psicoterapia non ci sono altri strumenti oltre al rapporto con il paziente, non ci sono farmaci (a meno che non siano fondamentali in situazioni gravissime) e non diamo consigli ai ragazzi: miriamo alla trasformazione della realtà interna, eliminando le dimensioni patologiche e facendo riemergere le dimensioni sane cierregrafica Group srl e valide: la sensibilità, la vitalità, la capacità di reagire e di avere rapporti validi.

via degli Alvari 36 Roma di Alice Paparelli

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Copertina

ZUZU Infografica (pag. 4)

Antonio Pronostico Artwork

Frita

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Illustratori


07.12.2018 SARÀ UNA NOTTE SCOMODA


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