Dicembre 2018
n° 17 16
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Mensile indipendente di attualità e cultura
n° 17
Dicembre 2018
Redattori Anna Bucarelli • Camilla Cataldi Daniele Gennaioli • Filippo Giannelli Ismaele Calaciura • Leonardo Rosi Luca Giordani • Maria Marzano Valeria Sittinieri • Luca Bagnariol Bianca Pinto • Alice Paparelli Simone Micangeli Francesco Paolo Savatteri Cosimo Maj • Susanna Rugghia Simone Martuscelli • Pietro Forti Luigi Simonelli • Jhonathan Ruiz
Responsabile editoriale: Edoardo Bucci Responsabile sezione “Attualità”: Pietro Forti Responsabile sezione “Cultura”: Jacopo Andrea Panno Responsabile sezione “Il Plus”: Luca Bagnariol Responsabile sezione “Focus”: Cosimo Maj
BBraio pag. 16 / 18 / 19 / 20 / 62 Si sprecano da mesi le pagine di giornali, quotidiaEmanuele Faro ni, periodici e settimanali, dedicate al vuoto che repag. 30 / 31 / 32 / 33 / 52 / gna nell’opposizione a questo governo. 53 / se 54quella / 60 /terminata 63 Infatti, l’1 giugno del 2018 è stata la più lenta formazione di un governo della storia Maria Marzano della Repubblica Italiana, probabilmente la costrupag. 12/ 46 / 47 / 62
zione di un’opposizione credibile ha sbaragliato Gabriel ogni recordVigorito su scala europea. Sicuramente l’opera pag. 25 / 27 / 28 / 29 /di48chi / per anni ha operato in lungo e in largo su tutto il territorio italiano ha gio50 / 57 / 58 / 59 cato la sua parte, almeno quanto quella di chi ha preceduto l’attuale Consiglio dei Ministri negli uffici statali. Il consenso di cui gode l’uomo più amato e al contempo contestato del governo gialloverde, l’attuale Ministro dell’Interno Salvini, è aumentato Fotografi a dismisura dopo mesi di dichiarazioni, frecciatine e hashtag. La campagna giornalistica ormai palese Emma controTerlizzese Salvini da parte di tutti i media di centrosinistra pag. 36 /continua 38 / 40 incessante; e nonostante ciò, sono ancora in molti a grattarsi la testa confusi. E se da una parte è vero che manca da tempo una coscienza politica diffusa e una conoscenza adatta (c’è mai stata?) degli argomenti di cui la politica stessa si occupa, nulla si fa per crearla. E pure quando si tenta di sostituire questo lento e delicato lavoro di ricamo sociale con merci più a buon mercato ,“competenza”, “progresso” e “speranza”, si continua a compiere un errore fondamentale: non si guarda mai in basso. I dati sulla disoccupazione giovanile e sulla fuga all’estero dei “talenti” italiani” sono stati poco più che una pubblicità progresso o, nel migliore dei casi, uno slogan politico dimenticato appena si è messo piede nei ministeri. Persino i diritti acquisiti dagli studenti, dai 500 euro di “bonus cultura” all’erasmus, sembrano diritti tarocchi, fatti d’una plastica di poca qualità. E si vede ogni volta che gli studenti che godono di queste “meraviglie” escono quasi prevalentemente dalle fasce più agiate delle Copertina città italiane.
Edoardo Massache la mancanza della coscienza Se è vero, quindi,
sociale e culturale è alla base di questo disastro politico dalla testa alla punta dei piedi, è ignota la raArtwork gione per cui si continua costantemente a non adoperarsi affinché si riempia questo vuoto.
Frita
L’EDITORIALE
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di Pietro Forti
Le generazioni che si affacciano alla società non ci entrano formate, anzi: l’impatto, il più delle volte, è devastante. E così si perdono, potenzialmente, decenni di impegno culturale e sociale, in un’involuzione che non sembra avere fine. L’attenzione, però, rimane ben fissata sul prossimo passo della campagna attraverso cui i mass media tirano a campare, ogni anno con un pezzetto in meno.
C’è una sola certezza in tutto questo: c’è un vuoto che va riempito. Questa affermazione, nonostante sia diventata col tempo poco più che un espediente retorico, è sicuramente vera se si guarda alla voragine culturale lasciata da anni di mala gestione dell’istruzione pubblica, della vita culturale e di quella amministrativa che si è vista in Italia. Ma tale voragine è colmabile? Le pagine del giornale che leggete e le occasioni di socialità portate avanti da chi lo scrive sono un modello?
In due anni, a chi scrive non è parso che ci fosse una risposta certa, ma allo stesso tempo sa che le opportunità più importanti scaturiscono dal confronto e dalla socialità, anche le più sguaiate. Creare momenti di aggregazione per parti di una stessa generazione, anche tra di loro distanti anni luce, ha portato ragazzi a essere coinvolti e, strano ma vero, a creare quella coscienza di cui si avverte così tragicamente la mancanza. In frangenti terribilmente piccoli e limitati di quel vuoto nazionale e forse continentale, qualcosa si sta muovendo. E non è sola. Ovunque, nel mondo e in Italia, esperimenti di questo tipo continuano a nascere. Che prendano coscienza di sé è più incerto che mai. Quel che è certo, però, è che la direzione intrapresa dall’opposizione “costituzionale”, parlamentare e giornalistica portata avanti dai partiti e dai mass media rischia di compromettere ancora di più gli equilibri su cui si poggia una democrazia. Illuminare la strada dall’alto con una luce sempre più fioca non servirà a nulla. Ma se dal basso si percorre la strada con la generazione più martoriata e gli si offre di costruire un faro per quelle future, l’avvenire forse non sembrerà poi così buio.
FOCUS - AUTORIALITÀ E INTRATTENIMENTO • Breve viaggio nelle due anime del cinema italiano Introduzione di Cosimo Maj Tra stato e cinema di Francesco Paolo Savatteri Psicosi dell'autorialità di Cosimo Maj Gli scorreggioni e i Nanni Moretti di Cosimo Maj I CONSIGLI DEL LIBRAIO ATTUALITÀ La colère est dans la rue? di Susanna Rugghia e Simone Martuscelli La città inamministrabile II - Il futuro è spazzatura di Pietro Forti e Luigi Simonelli La marcia degli ultimi di Jhonathan Ruiz PARALLASSE di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol MOSTRI - EX ITALGAS di Alessandro Luna CULTURA LA COPERTINA di Anna Leonilde Bucarelli e Maria Marzano BABY - CESARONI DI GIORNO, WINX DI NOTTE di Maria Marzano L’acqua c’è. E dove c’è acqua c’è vita. di Anna Leonilde Bucarelli I Beer Brodaz: birra e autoproduzione di Ismaele Calaciura The process is more important than the result di Luca Giordani Dalla calzamaglia al tatuaggio di Daniele Gennaioli Giustappunto di Leonardo Rosi RECENSIONI Musica di Daniele Gennaioli e Camilla Cataldi Cinema di Valeria Sittinieri e Leonardo Rosi IL PLUS Google: il Caso Dragonfly fra politica ed etica di Filippo Giannelli Un'oasi felice del Web di Luca Bagnariol e Filippo Giannelli Tribuna social di Bianca Pinto e Luca Bagnariol Metamorfosi di Alice Paparelli
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Partendo da un concetto astratto di convivenza di forze e spiriti differenti nella creazione filmica, abbiamo cercato di affrontare quella che è l’industria italiana del cinema d’intrattenimento. Nel tentativo di descriverla, siamo arrivati a raffigurare un quadro fatto di indirette influenze di stato e direttive ministeriali. In un momento di crisi inesorabile per una parte storica del cinema d’intrattenimento ne abbiamo raccontato le complessità. Spiando dal buco della serratura abbiamo trovato un mondo in balia della contemporaneità e fatto da troppi autori di impegno civile e qualche commedianti pecoreccio.
AUTORIALITÀ E INTRATTENIMENTO
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BREVE VIAGGIO NELLE DUE ANIME DEL CINEMA ITALIANO 5
INTRODUZIONE
L’industria cinematografica italiana dopo la fine del fascismo e della guerra si è fatta quasi inesistente. Cinecittà è stata depredata durante la guerra e viene sfruttata per far dormire gli sfollati. Il cinema italiano sembra ormai defunto. Eppure fanno il loro ingresso in scena un manipolo di autori e registi che, con i pochi mezzi a disposizione, realizzano pellicole che fanno scuola in tutto il mondo. Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Luchino Visconti diedero vita ad una breve ma intensa stagione del cinema italiano, impressa nel tempo con il nome di Neorealismo. Nota ai più per l’utilizzo di attori presi dalla strada, scelta per lo più condizionata da una vera e propria mancanza di maestranze attoriali e per la narrazione di storie drammaticamente reali di vita quotidiana, ha condizionato per sempre sia il modo di intendere il cinema e l’uso della macchina da presa che una certa visione dell’italianità all’estero, vigente più o meno fino all’avvento di Fellini e della sua Dolce Vita. Un’italianità legata alla vita semplice, di paese e che viene espressa benissimo da un certo filone di film come quelli di Pane e Amore con Vittorio De Sica. L’insieme di elementi che caratterizzano il cinema italiano sia nelle atmosfere che nelle tematiche mutano e si modificano nel tempo continuando comunque a mantenersi in una serie di matrici per cui, di fondo, rimangono quelli. L’interesse che scatena il neorealismo all’estero e le grandi file che si formano a New York per vedere Ladri di Biciclette rimette subito in sella la nostra industria che quasi subito dimentica l’inventiva registica dei maestri neorealisti per aprire le porte agli investitori americani offrendo un’ottima manova-
lanza a basso costo. Il tutto nell’interesse dello Stato che vede nel cinema l’opportunità di rilanciare il paese agli occhi del mondo. Usando il cinema come mezzo di espansione economica lo Stato pone le radici di un regolamento finanziario che, mutato dalle varie leggi che si sono susseguite, ha influenzato una certa maniera di concepire il film e la sua funzione. Dagli anni ’60, con l’avvento della Legge Corona sui finanziamenti e il conseguente mutamento della concezione di film da oggetto di mercato a oggetto culturale, la cinematografia italiana e la sua contenutistica, pur subendo ancora l’influenza degli stili passati, inizia a rientrare dentro dei parametri culturali di valutazione non chiaramente tracciabili e abbastanza fumosi. Con la difficoltà di raccapezzarsi su questi parametri emerge però una certa tendenza del cinema italiano a fossilizzarsi su determinate tematiche. Attraverso un’analisi sulla macchina operativa del cinema italiano, abbiamo cercato di delineare due particolari tendenze, due modi di vedere la produzione artistica e in generale l’arte filmica. Perché se da una parte abbiamo i numeri e le statistiche che caratterizzano la pressione indiretta che esercita lo Stato sul cinema, dall’altra abbiamo la testimonianza diretta di una figura-simbolo di una certa produzione creativa che viaggia su di un’ onda a sé, lontana dai dogmi culturali e sociali imposti. Attraverso le parole di Enrico Vanzina cerchiamo di dare un’idea di una delle due forze che, nella loro convivenza, mantengono la stabilità nell’industria. Partendo dal film che più di tutti rappresenta il liberalismo che cerchiamo di raccontare: Vacanze di Natale.
Da Vacanze di Natale è nato un vero e proprio genere, come si è evoluto per lei con il passare degli anni? Vacanze di Natale era un grande film. Lo era perché miscelava la commedia con l’osservazione della realtà. In seguito il genere mutò pelle. Con Carlo abbiamo fatto pochi film di Natale. Vacanze in America era un divertimento giovanile. Montecarlo Gran Casinò era un film classico a episodi. Sognando la California fu un buon film generazionale. SPQR un grande spettacolo in costume, ma con l’idea di parlare dell’Italia di mani Pulite. A spasso nel Tempo era un Disney all’italiana. Il nostro ultimo Vacanze di Natale 2000 era una fotografia dell’Italia già in crisi. Poi quei film li fecero altri. Diventarono delle farse ambientate nel mondo. Finirono anche quelle. E il genere sopravvisse ma con affanno. Oggi è morto. Che ruolo ha avuto per lei Sapore di Mare e Vacanze di Natale all’interno della storia della Commedia all’Italiana? Furono l’iniezione salutare nel corpo di un cinema vecchio che stiracchiava il talento di Sordi, celentanesco e Pozzetto. Furono una grande novità. A distanza di anni sono considerati anche dei film ottimi. Secondo lei si può stabilire una presunta fine della Commedia all’Italiana o perlomeno di quel modo di intendere e fare la commedia? Mi dispiace parlare di me…Ma l’ultima commedia vera all’italiana è Il Pranzo della Domenica. Perché fu scritto e realizzato seguendo i modelli nobili dei nostri predecessori. Lei ha scritto e prodotto l’ultima produzione italiana firmata Netflix, cosa pensa delle nuove modalità di intrattenimento seriale e cinematografiche importate proprio da Netflix?
E’ il futuro. Inutile dichiarare guerra a Netflix. In futuro il cinema verrà visto, oltre che in sala, dove spero possa continuare ad avere vita lunga, su tanti altri supporti. Come vede lo snobismo nei confronti di un cinema di matrice popolare come il suo da parte di una certa critica o un certo pubblico che si definisce più d’elite? E’ il grave errore che ha condizionato la critica nei riguardi del cinema italiano popolare. In realtà è stata proprio la commedia a raccontare meglio di altri generi il nostro paese. Oggi lo hanno capito. E si scusano. Fanno imbarazzanti marce indietro. Vista la sua più che decennale carriera, rispetto ai finanziamenti statali che spettano alle produzioni cinematografiche, qual è stato il “trattamento” nei vostri confronti? E quali sono i parametri, soprattutto culturali, che portano un film ad avere maggiori finanziamenti rispetto ad un altro? E’ possibile dire che il Ministero, nel corso degli anni, stabilendo dei parametri che portano a dare maggiori finanziamenti ad una produzione rispetto ad un’altra vuole veicolare una propria visione di cinema ideale? I nostri film non hanno mai avuto finanziamenti. A parte quelli automatici per tutti. Il Ministero ha scelto di finanziare a pioggia molti film. Non credo avesse una sua visione del cinema. Certo, oggi, viene un dubbio: forse era meglio finanziare con più denaro pochi film e renderli più competitivi, fatti meglio, piuttosto che finanziarne una enorme quantità, producendo film invisibili e visti pochissimo dal pubblico.
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di Cosimo Maj
Tra stato e cinema Partendo dalle risposte di Vanzina, è evidente che il meccanismo dei finanziamenti statali abbia creato grandi fratture e divisioni all’interno dell’industria cinematografica italiana. Con l’approvazione della sopracitata Legge Corona sui finanziamenti statali, a metà degli anni ‘60, inizia a prendere piede in Italia l’idea che i film non siano elementi sul mercato alla ricerca di un proprio pubblico, ma piuttosto dei beni culturali. Quindi, al pari del teatro, il cinema diventa un qualcosa di costoso che 6
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non ha un vero mercato di riferimento e che quindi necessita di essere aiutato e sostenuto dallo stato. Il 3 novembre 2016 l’ex Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini annuncia su Twitter l’approvazione della nuova legge “Disciplina del cinema e dell’audiovisivo”, con l’obiettivo di dare “regole trasparenti e più risorse per film, sale e giovani.” Viene così modificato il sistema di gestione dei finanziamenti e contributi statali per il cinema. 7
Nasce il “Fondo cinema e audiovisivo”, un fondo autonomo di almeno 400 milioni annui per il sostegno dell’industria cinematografica.
sità “La Sapienza” di Roma, il quale ci ha fornito molti degli spunti di riflessione da cui si è sviluppato questo articolo. L’interesse culturale La questione dell’interesse culturale pone fin da subito un grande problema - spiega Minuz - Da un punto di vista astratto è chiaro a tutti che il cinema sia “culturale” come qualsiasi altra forma d’arte, ma nei fatti diventa molto difficile andare a stabilire quale film sia effettivamente d’interesse culturale (e quindi può ricevere finanziamenti) e quale no. Il sistema che ha caratterizzato gli ultimi decenni di cinema italiano vede questa scelta affidata a diverse commissioni ministeriali, cosa che, soprattutto negli ultimi anni, ha attirato numerose critiche e suscitato polemiche a causa del grande alone di mistero attorno ai criteri di valutazione secondo i quali un film sarebbe dovuto essere degno o meno di ricevere soldi dello Stato. “L’Espresso” in un articolo di marzo 2018 parla di “chiacchierate commissioni ministeriali degli scorsi decenni, spesso teatro di scambi e pastette”. Il programma di giornalismo d’inchiesta “Report” ha dedicato l’intera puntata del 17 aprile 2017 al tema dei finanziamenti statali per il cinema, sottolineando come tra i destinatari dei contributi ci fossero anche film più commerciali, come “Sapore di te” di Carlo Vanzina, “Amici miei – come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, o “Il ricco, il povero e il maggiordomo” di Aldo Giovanni e Giacomo. Tutti film che sono stati finanziati (o che hanno sfruttato agevolazioni fiscali) secondo il vecchio disegno di legge.
Fino a quel momento, tutte le risorse erano gestite dal “Fondo unico per lo spettacolo” che doveva occuparsi di tutti i settori del mondo dello spettacolo, quindi oltre al cinema anche la danza, la musica, il teatro e le attività circensi. Nel 2014, due anni prima della nuova legge, il “Fus” aveva una disponibilità di € 406.229.000, di cui il 18% è stato destinato al cinema. Prima di Franceschini l’intero sistema dei finanziamenti pubblici si basava sull’ “interesse culturale” dei film. In pratica, soltanto le opere che avevano riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali la qualità di “interesse culturale” potevano accedere ai contributi statali. Per poter fornire un’analisi più completa e approfondita possibile di un fenomeno che ha caratterizzato la maggior parte della produzione cinematografica italiana più o meno recente, la redazione di Scomodo ha chiesto aiuto a Andrea Minuz, scrittore e professore associato di storia del cinema dell’univer8
Fino a qualche anno fa le commissioni ministeriali prestavano scarsissima attenzione alla sostenibilità economica dei progetti - continua Minuz - Piuttosto valutavano soltanto la parte contenutistica, basandosi su una concezione molto didattica e tradizionale della cultura vista esclusivamente come la trattazione di grandi temi sociali o d’impegno civile o politico. E’ chiaro quindi come un sistema così chiuso non può non influenzare l’industria cinematografica, che già negli anni ‘80 e ‘90 inizia a entrare in crisi e richiede sempre di più la presenza di fondi statali. Chi scrive sceneggiature quindi si trovava obbligato a dover ragionare nell’ottica di soddisfare i giudizi di una commissione che valuta soprattutto gli aspetti sopracitati. Per cui, mentre in alcuni paesi lo sceneggiatore ha come punto di riferimento solamente il pubblico, in Italia fino a pochi anni fa c’è sempre stata la necessità di incontrare anche il gusto di una commissione ministeriale che non deve decidere se il film è bello o brutto, ma se è culturale o meno. Ancor di più se si considera che negli anni ‘90 in alcuni casi i finanziamenti statali erano arrivati a coprire più dell’80% del
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costo di un film. Questo permetteva di fatto ai produttori di evitare qualsiasi rischio in prima persona nel caso in cui il film fosse andato male e di guadagnare nel caso fosse andato bene. Per cui diventava sempre più necessario fare in modo che il proprio film fosse in qualche modo culturale. A questo problema si aggiunge poi la poca chiarezza dell’aggettivo culturale. La concezione di cultura che c’era negli anni ‘60 è ovviamente del tutto diversa da quella attuale e perciò la questione dell’interesse culturale a volte ha rischiato di cristallizzare il cinema italiano attorno a un’idea di cultura molto limitata e pedagogica. Nel frattempo però il mondo è cambiato e con l’arrivo delle serie tv, dei videogame e di internet il significato di cultura si è molto ampliato. E’ diventato cultura anche il cibo, basta vedere l’enorme quantità di programmi di cucina e libri di ricette che sono stati realizzati negli ultimi anni. In conclusione - dice Minuz - lo scopo della legge Franceschini è stato quello di togliere la nozione di interesse culturale. I film non saranno più valutati soltanto sulla base di questo parametro ma anche sulla credibilità del progetto finanziario.
Ricompare in due film della stessa lista anche Giuseppe Battiston in “Tu mi nascondi qualcosa” di Giuseppe Loconsole e in “Troppa Grazia” di Gianni Zanasi. Quest’ultimo titolo vede tra gli attori anche Alba Rohrwacher che a sua volta recita in “Lazzaro felice”, girato dalla sorella Alice. La maggior parte di questi progetti ha ricevuto finanziamenti statali e tutti sono stati riconosciuti di interesse culturale.
Il film ideale Alla luce di questo è chiaro come la produzione cinematografica italiana sia il risultato di questo sistema. Negli anni si è delineato un modello di film “culturale” che, anche se non è chiaro su che parametri si sia basato, è stato il fulcro di buona parte del cinema degli ultimi decenni. La macro-divisione che si può individuare nel panorama del cinema italiano quindi è proprio questa: da un lato i film di interesse culturale, approvati e finanziati dal Ministero, dall’altro tutto il resto. La lista più recente dei film “di interesse culturale” finanziati dallo Stato sul sito del MiBAC risale ancora a quando la legge Franceschini non era attiva. Si tratta di 25 titoli che nel dicembre 2016 sono stati riconosciuti di interesse culturale e di cui 18 sono stati finanziati. E’ interessante vedere come ci siano alcuni nomi che ritornano in più film. Valerio Mastandrea per esempio recita come attore in “Un figlio di nome Erasmus”, in uscita nel 2019, e fa da regista in “Ride”, uscito il 29 novembre. Entrambi i titoli sono stati riconosciuti di interesse culturale, anche se solo uno aveva effettivamente richiesto dei fondi. In più recita anche “Euforia”, film di Valeria Golino che aveva richiesto un contributo pubblico sempre nel dicembre del 2016 ma senza ottenerlo perché “non in possesso dei requisiti per il riconoscimento dell’interesse culturale”.
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Ovviamente ciò non vuol dire che il Ministero voglia favorire certi attori rispetto ad altri, ma semplicemente sottolinea come di fatto le opere “di interesse culturale” siano molto legate ad un particolare modello cinematografico, che viene rappresentato e interpretato da un determinato genere di attori e di registi. 9
In realtà già a partire dagli anni 2000 la possibilità per un produttore di ottenere i fondi necessari alla realizzazione del proprio film è aumentata di molto, per esempio attraverso i bandi europei o il product placement, introdotto nel 2004 con il decreto Urbani. Tuttavia, nonostante questo, il contributo statale - e i suoi meccanismi - rimangono la fonte di risorse principale per la maggior parte del cinema italiano. La nuova legge Franceschini avrebbe dovuto dare maggiore trasparenza e più oggettività alle decisioni delle commissioni ministeriali, ma ancora una volta i criteri di valutazione sono poco chiari e praticamente introvabili anche nei più remoti meandri del sito web del Ministero dei Beni Culturali. Abbiamo contattato Enrico Magrelli, membro della Commissione per la Cinematografia, per avere dei chiarimenti. Questa provvede al - citando lo stesso sito del MiBAC - “riconoscimento dell’interesse culturale, in fase progettuale, dei lungometraggi ed alla definizione della quota massima di contributo assegnabile; provvede anche all’attribuzione di contributi per lo sviluppo di sceneggiature originali”. I criteri sono tanti e molto specifici. Ovviamente il progetto deve essere originale, scritto bene e deve avere una sua solidità narrativa. In più, ci deve essere anche una stabilità e coerenza economica. I finanziamenti statali nel corso degli anni hanno reso possibile la realizzazione di molti film che non avrebbero mai trovato i fondi necessari per essere prodotti. Per questo sarebbe ovviamente impensabile dire che questi non sono serviti a nulla o che addirittura “sarebbe stato meglio se non ci fossero stati”. Semplicemente bisogna accettare il fatto che la produzione cinematografica italiana dagli anni ‘60 in poi è anche il frutto di questo sistema, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Il sistema francese Quello francese è il sistema di finanziamenti pubblici più funzionante e all’avanguardia in Europa. Nonostante le numerose polemiche e dibattiti che questo ha suscitato, la Francia è una delle nazioni europee che investe la maggiore quantità di denaro nell’industria cinematografica. Non a caso la legge Franceschini si rifà proprio al modello d’Oltralpe. La maggior parte dei fondi pubblici francesi è gestita dal “Centre national du cinéma et de l’image animée” (CNC), con un budget annuo di circa 700 milioni di euro, soldi che vengono raccolti tramite la tassazione sul prezzo dei biglietti dei cinema (i cui proventi vengono riutilizzati per la maggior parte per la ristrutturazione delle sale cinematografiche),sulle aziende televisive e sui video on demand su internet. I fondi vengono poi elargiti in due modi, tramite meccanismi selettivi e meccanismi automatici. I primi, gli “avance sur recettes”, servono a finanziare i nuovi talenti e a favorire la varietà del cinema francese. Simile al modello italiano pre-Franceschini, una commissione decide sulla base di determinati parametri a chi dare il finanziamento. Solo che in questo caso si tratta di una sorta di prestito a tasso zero che deve essere ripagato con gli incassi del film. Secondo “Le figaro”, soltanto il 10% dei prestiti viene ripagato. Il secondo meccanismo - introdotto anche in Italia dalla legge Franceschini consiste invece in dei finanziamenti che vengono dati automaticamente in base alla quantità di incassi di un film in maniera proporzionale. Cioè maggiori sono gli incassi, maggiore sarà il finanziamento che riceverà il produttore, il quale però dovrà reinvestire il denaro statale in un nuovo film di carattere nazionale.
A questo si aggiungono poi le “Societés de financement du cinéma”. Delle società che raccolgono denaro da privati e aziende che in cambio della donazione possono ricevere particolari agevolazioni fiscali. Il denaro raccolto viene poi utilizzato per finanziare alcune opere cinematografiche precedentemente approvate dal CNC.
spiega il regista Roberto Andò, proteggendo questa varietà di cinema, con cui nel tempo la Francia ha creato le condizioni necessarie alla sopravvivenza di un certo tipo di pubblico. Un interlocutore culturale che in Italia non esiste più. Il suo ultimo film, “Una storia senza nome”, fa parte della lista dei film finanziati dal ministero sempre nel dicembre del 2016.
In questo modo i fondi vengono distribuiti a due diverse categorie cinematografiche. Da un lato con i finanziamenti automatici, ai film che incontrano il grande pubblico francese e che in alcuni casi riescono ad uscire anche dai confini nazionali, come il vincitore di 5 premi oscar “The artist”. Dall’altro viene favorita anche quella fascia di cinema più autoriale, di nicchia, che ha un bacino di spettatori molto ristretto. E questa doppia politica sembra avere degli effetti positivi, come
Il sistema francese, seppur non perfetto, è sicuramente un punto di riferimento per tutti gli altri paesi europei. La legge Franceschini, pienamente a regime dal gennaio 2018, dovrebbe avvicinare l’Italia a tale modello, ma per poter dare un qualsiasi giudizio bisognerà aspettare ancora diverso tempo.
Psicosi dell’autorialità Quella della legge Franceschini è un’evoluzione legislativa che ha soltanto recentemente tentato di alleviare una tendenza “statalista” del cinema italiano. Uno “statalismo” che si manifesta chiaramente nella stessa genesi di scrittura di un film, concepito e pensato per passare il vaglio delle commissioni ministeriali e non, come in USA, quello del pubblico. Il paletto ministeriale finanziario provoca nel cinema italiano una 10
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di Francesco Paolo Savatteri
cristallizzazione della produzione artistica che porta da una parte una serie di autori a sfoggiare l’impegno civile e il valore del messaggio e dall’altra una commedia, anch’essa portatrice di valori civili e caratterizzata da una certa raffinatezza di scrittura ma che viveva dei grandi attori davanti alla macchina da presa, ponte diretto verso il pubblico più generale a cui interessava più la presenza di Sordi che della storia operaia. Per 11
quanto poi di fondo il cinema italiano a cavallo tra i ’60 e ’80 viva di mescolanza continua tra tematiche più impegnate e messe in scena leggere.
Questo, oltre ad essere il principio alla base della commedia all’italiana, permette la convivenza delle due visioni contraddittorie, ma non inavvicinabili, del concetto di cinema sia come oggetto culturale che di mercato. Per quanto la stessa commedia italiana degli anni ’50, ’60 e primi ’70 sia ritenuta di grande livello su ogni punto di vista rimane infatti tuttavia una psicosi collettiva, diretta conseguenza della logica statale del finanziamenti, definibile come “l’inseguimento dell’autorialità”. Un’autorialità che non può essere legata alla commedia, data anche la mancanza in Italia di un’idea di “commedia brillante” che in America si diffonde dall’avvento di Lubischt, bensì ad una dimensione “seriosa” della storia filmica. Se fai ridere sei entertainment, se fai riflettere sei un autore di impegno civile. Questa spaccatura limitante e superficiale pone già le sue radici negli anni ’70, manifestandosi in maniera più lampante verso gli anni ’90 e i primi ‘2000. Infatti, se da una parte il cinema “serio” continua a vivere grazie ad un continuo ricambio di autori, tuttavia non a livello 12
di predecessori come Elio Petri, Florestano Vancini o Francesco Rosi, (anche perché la committenza rimane basata sugli stessi criteri di valutazione ministeriali, quasi invariati nel tempo), la commedia soffre irreversibilmente l’invecchiamento dei loro totem, i cosiddetti “mattatori”, gli attori che avevano dato volto e gloria al genere e ai registi dietro la cinepresa, ai quali con un Sordi dall’altra parte della macchina bastava dire “ciak e azione”. Giungendo all’epilogo con Amici Miei atto II la Commedia italiana si trovava alle porte degli anni ’80 in qualche modo orfana dei grandi interpreti del genere. Questo perché se ad un Moretti non occorre altro che Nanni Moretti un Monicelli può sentirsi spaesato senza un Sordi. In mezzo all’espansione del cinepanettone e all’ormai crepuscolare ma sempre gittata saga fantozziana, nei primi anni ’90 si sviluppa un certo cinema medio che, con un livello decisamente più basso di scrittura, sancisce un certo compromesso tra messaggio sociale e intrattenimento. Questo si fa ponte tra il cinema di impegno civile e la commedia leggera, compromesso che in qualche modo riesce a soddisfare critica e pubblico. Una tendenza che si può grossolanamente sancire con i primi film di Paolo Virzì, autore da un certo punto di vista non inferiore rispetto ai commedianti del passato, e che prende decisamente piede dai primi 2000 ad oggi con l’autore più emblematico nel rappresentare la categoria, Paolo Genovese, e didascalicamente raffigurata dal cinema di Massimiliano Bruno e da i film di Paola Cortellesi. L’ultimo successo dell’appena citata, Come un gatto in tangenziale ne è un ottimo esempio. L’affermazione di questo cinema medio, ponte tra quello che noi definiamo in maniera vagamente astratta “cinema di stato” rispecchiante i valori di impegno civile e la commedia più leggera e di massa, come il redditizio cinepanettone prima vanziano e poi parentiano, è un processo lento che tuttavia si concretizza proprio con il decadimento di quest’ultimo che, per via di diversi elementi, ha mantenuto in vita l’attenzione del pubblico verso la commedia e ha resistito nonostante la mancanza del facile appeal attoriale delle generazioni precedenti. Il film di natale, il cinepanettone, un tipo di pellicola che fino a poco tempo fa dominava le scene, per una serie di istanze caratterizzanti diventa il “nemico” principale del cinema “serio”, ed il modello che impartisce è sicuramente un esempio di cinema “liberista”, di film fatti in funzione di pubblico pagante e product placement non rispettando, almeno secondo le logiche del finanziamento statale, i principi impartiti dal MiBAC.
Scomodo
Gli scorreggioni e i Nanni Moretti
di Cosimo Maj
Oltre quattro milioni e mezzo di spettatori e 28 milioni di euro. Queste sono le cifre di un singolo film: Natale sul Nilo. Cifre simbolo di 27 anni di cinepanettone, termine inizialmente dispregiativo poi adottato dagli stessi autori per definire quella che, insieme ai film di Fantozzi, è probabilmente la “saga” più redditizia della storia del cinema italiano. Il genere pone le sue fondamenta nel filone vacanziero che già caratterizzava un certo tipo di commedia tipica degli anni ’50 e ’60. Alla base di Vacanze di Natale, capostipite della serie c’è Vacanze d’inverno, film del ’59 di Mastrocinque con Sordi e De Sica (padre), da cui il cult dei Vanzina riprende sia gag che snodi narrativi. La factory targata De Laurentiis riusciva con un solo film a incassare 28,3 milioni di euro, solamente al cinema. E proprio il cinema inteso come luogo, che negli anni ’80 vide una profonda crisi con l’avvento della televisione, torna a vivere con le pellicole Filmauro, film in grado di fissare quello in sala come l’appuntamento immancabile del periodo natalizio. Gli italiani vanno al cinema solo quando fa freddo ci dice con sarcasmo Andrea Minuz, questo per farci capire quanto il film di natale, oltre ad una valenza di costume sia stato una vera e propria intuizione di mercato, incidendo sul ritmo circadiano dello spettatore̶ consumatore italico. Uno spettatore che si è ciclicamente avvicinato alla sala, prima sotto gli effetti di uno “star̶ system” di cui Sordi e Totò erano protagonisti o per la ricerca della tetta nel film d’autore, poi sotto le luci di un cinema liberalista dove l’attore rimane in copertina ma è il genere a suggestionare la visione, in particolare per quanto riguarda il carattere corale della storia. Il cinepanettone si propone innanzitutto come film popolare, un tipo di film letto sempre in maniera problematica in Italia e si aggancia direttamente con la commedia italiana più popolare, quello che faceva il padre Steno, solo che a differenza di quest’ultimo e dei registi di quella generazione a mancare è proprio il Sordi e il Gassman di turno, quindi avendo nel film personaggi televisivi come Jerry Calà o Ezio Greggio, attori sicuramento non a livello di quelli sopracitati, la coralità diventa obbligata. I grandi registi della commedia all’italiana avevano il grande privilegio di poter costruire film su misura a grandi attori. È per questo motivo che probabilmente i Vanzina si sono sentiti valutati inferiormente rispetto ai predecessori del genere, per la mancanza del grande attore. Il cine-
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panettone convive con i suoi detrattori ma continua a essere visto e ad incassare. Questo succede fino al 2011 con il film che si può davvero definire ultimo vero film della saga, Vacanze di Natale a Cortina, opera fatta anche con l’intento di riconciliarsi a quella che fu la pellicola madre. Il grande filone che ha portato tanti soldi all’industria cinematografica giunge al suo epilogo per tanti motivi. Il pubblico si stanca, non è scemo e ad un certo punto smette di farsi propinare la stessa formula tutti i natali. Un’altra ragione è sicuramente da ricercare nella crisi della sala, in quanto il film di natale funzionava in quanto appuntamento annuale in sala, ora con Netflix e binge̶ watching lo spettatore se ne sta a casa sotto le coperte a guardarsi le serie. E infatti quest’anno il cinepanettone che probabilmente sarà più visto è proprio quello “distribuito” da Netflix, Natale a 5 stelle, con la regia di Marco Risi e la sceneggiatura di Enrico Vanzina. Lo spettatore stanco a cui non puoi più proporre gli stessi contenuti e che ormai non va più in sala non rappresenta un problema per “l’altro cinema italiano”, quello autoriale e impegnato, spesso sorretto dai finanziamenti statali che, attraverso i suoi parametri più culturali che economici, hanno portato ad un’interdipendenza tra valori statali e produzione creativa. Negli anni ’70, dopo il Decameron di Pasolini, qualsiasi film che avesse un vago accenno a Boccaccio prendeva finanziamenti statali, pure film come Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. I criteri di valutazione spesso fumosi del ministero per finanziare un film fissano tuttavia un principio di base: il film deve avere una valenza sociale o “culturale”, nell’accezione più ampia del termine. Un muro di Berlino che divide in due i Nanni Moretti da una parte e “gli scorreggioni” dall’altra. Quello che film come Perfetti Sconosciuti sono riusciti a fare è stato quello di andare a stabilire una commedia di mezzo, media, brillante accessibile al pubblico ma comunque di livello per andare appunto a spaccare quel muro. Il muro è stato sicuramente abbattuto, e il cinepanettone è morto. Però un tempo c’è stato un cinema liberista che vogliamo immaginare come antagonista inoffensivo di un certo Soviet del cinema italiano.
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I CONSIGLI DEL LIBRAIO
Viale Gorizia, 29, 00198 Roma RM
Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo.
"Classici in pillole" di John Atkinson editore: HarperCollins
TRA LE RIGHE
Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città
Paola consiglia: Il sottotitolo ci racconta molto: "brevi riassunti di libri che avresti dovuto leggere ma probabilmente non l'hai mai fatto". Per ridere nei momenti no, per ricordare cosa abbiamo letto e ci è piaciuto (o ci ha deluso), per regalare a qualcuno a cui teniamo un pezzo di lettratura con leggerezza.
Anna consiglia: Il tunnel è il luogo dove si entra quando viene meno la memoria. Un luogo doloroso e solitario che ci pone molte domande sulla nostra identità. Ma per un popolo la perdita della memoria può essere importante per la costruzione di un futuro di pace e accoglienza dell'altro.
IL TOMO Via degli Etruschi, 4, 00185 Roma RM
"Il tunnel" di Abraham Yehoshua Editore: Einaudi
CLAUDIANA
Federica consiglia: L’inverno è ritornato, come ci ricorda Alessandro Vanoli nel suo Il racconto dell’attesa, innevato preludio ad una nuova serie dedicata alle stagioni. Il tempo dell’attesa e dell’intimità, della neve che copre i semi, del freddo e della lentezza. Un’ampia bibliografia e delicate illustrazioni dedicate alla nostra stagione completano un testo documentato e poetico, da gustare con una cioccolata calda, aspettando la primavera.
Piazza Cavour, 32, 00193 Roma RM
“Il racconto dell’attesa” di Alessandro Vanoli Editore: Il Mulino
LA LIBROLERIA Via della Villa di Lucina, 48, 00145 Roma RM
“C’è un lupo nel tablet” di Miriam Dubini con illustrazioni di Fabio Santomauro Editore: Mondadori
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Roberto consiglia: I tablet non sono sempre un qualcosa di positivo ma possono nascondere dei veri e propri incubi. Ne sa qualcosa Niccolò, il protagonista di questa “assurda” storia. Preso di nascosto il tablet di papà per giocare ad un video gioco, dopo una lunga partita si accorge che c’è qualcosa che non va nella sua famiglia. I suoi genitori sono diventati personaggi del suo tablet! Come farà Niccolò a far tornare la sua famiglia come prima? Un libro per avvicinare i bambini ai libri e al piacere della lettura e lasciare il tablet sul tavolo!
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Michele consiglia: Una mappa accurata e perturbante di quello che è successo in Russia a partire dal crollo dell'Unione Sovietica. Pomerantsev si aggira tra oligarchi, killer professionisti, produttori televisivi, tecnologi politici, santoni e guaritori, e descrive il vuoto ideologico, sociale e politico da cui è sorta questa nuova incarnazione della Grande Russia.
TLON Via Federico Nansen, 14, 00154 Roma RM
“Niente è vero, tutto è possibile. Avventure nella Russia moderna.” di Peter Pomerantsev Editore: Minimum Fax
TRA LE RIGHE Viale dei Promontori,68 00122 Roma RM
Il libraio vi augura una buona lettura Scomodo
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La colère est dans la rue? Il movimento dei “gilet gialli” ha conquistato in pochissimo tempo le copertine dei giornali di tutta Europa. L’assalto a Macron non ha nessuna intenzione di fermarsi
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Un movimento nato, apparentemente, dal nulla. Lo scontento dovuto alla tassazione sul carburante “mascherata” da riforma ecologica ha scatenato la rabbia di una fetta significativa della popolazione. L’apparente semplicità del movimento l’ha portato ad essere sottovalutato in un primo momento, ma il movimento si è fatto conoscere con l’aumentare della conflittualità e con l’escalation di violenza vista da entrambe le parti, con un bilancio di 4 morti. E la sua causa ha trovato l’appoggio della gran parte della Francia. Al suo interno si fondono e si scontrano fazioni di estrema destra ed estrema sinistra. L’irruenza del movimento ha costretto il presidente Macron a negoziare, con non poco imbarazzo per le istituzioni francesi ed europee. Ma il movimento non si ferma. Da dove arrivano e dove stanno puntando i gilet gialli?
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ive le vandalisme Chissà cosa avrà pensato Emmanuel Macron di ritorno dal G20 di Buenos Aires, nel leggere alla base dell’Arco di Trionfo una scritta in vernice recitante: “Nous avons coupé des têtes pour moins que ça”. “Abbiamo tagliato teste per molto meno”. E pensare che era iniziato tutto da una petizione online su Change.org, lanciata dalla 33enne Priscillia Ludosky a fine maggio. La petizione si scagliava contro gli aumenti delle tasse sul carburante disposti dal governo di Emmanuel Macron: nel 2018 sono stati registrati rincari da 7,6 centesimi/litro per quanto riguarda il gasolio e 3,8 cent/l per la benzina; la quale dovrebbe arrivare, nel 2021, ad avere lo stesso prezzo del diesel. Inoltre, secondo l’UFIP (Unione Francese delle Industrie Petrolifere), è previsto un ulteriore aumento del gasolio di 34 centesimi durante il mandato di Macron. Nel testo della petizione vengono citate tante ragioni alla base di questi aumenti: gli incentivi ad abbandonare il diesel verso una conversione ecologica; il contesto geopolitico (e quindi i conflitti tra i paesi esportatori di petrolio con conseguenti aumenti del prezzo); i rialzi dei margini di guadagno delle stazioni di servizio; l’aumento della fiscalità sui prodotti petroliferi (che rappresenta, nel complesso, il 60% del prezzo del carburante); la domanda crescente di petrolio nei paesi emergenti e l’applicazione dei Titoli d’efficienza energetica, ovvero il riconoscimento di un contributo economico in cambio di interventi sul risparmio energetico: tariffa che va a 18
pesare sul prezzo dei carburanti. A questo punto, la posizione della Ludosky diventa chiara: “Noi cittadini non siamo responsabili di nessuno di questi motivi”. E ancora: “Né l’elettrico né l’ibrido approfittano del calo del diesel, ma solo i veicoli a benzina, con evidenti svantaggi in termini di emissioni di CO 2 ”. Per poi passare alle conclusioni: “È giusto cercare soluzioni per circolare inquinando il meno possibile, ma siamo già dipendenti dal corso del petrolio: un ulteriore rialzo delle tasse è fuori questione”. Un appello che ha avuto enorme risonanza, tanto da raggiungere e superare un milione di firme proprio in queste ultime settimane. Poi, la protesta passa sui social: nascono su Facebook numerosi gruppi denominati “La France en colère” (La Francia arrabbiata) ed Eric Drouet, l’altro leader “per investitura popolare” del movimento i sieme alla Ludosky, crea per il 17 novembre un evento intitolato “Blocco nazionale contro l’aumento dei carburanti”. Qui nasce l’idea di usare, come segno di riconoscimento, il gilet giallo catarifrangente di cui sono dotati tutti gli automobilisti: proprio la categoria interessata dai rincari. È proprio il 17 novembre che un movimento esistente finora solo sul web si sposta sulle strade, stavolta reali e non virtuali, di Francia: quasi 300.000 persone in 3.000 luoghi diversi del paese, impegnate in azioni di blocco stradale ai caselli o alle rotonde. Il movimento si dimostra subito difficile da contenere: perché è disorganizzato, composto da persone non abituate ai cortei e che manifestano quindi in maniera scomposta, e perché non vi sono leader riconosciuti
o centri nevralgici della protesta. Il 24 novembre si replica, e stavolta l’invito è chiaro anche dal titolo dell’evento Facebook: “Atto II: Tutti a Parigi!”. I manifestanti sono 166.000 in tutta la Francia e solo 8.000 circa a Parigi, in notevole calo rispetto alla settimana prima. Eppure, la città è messa a ferro e fuoco, complice la probabile infiltrazione di manifestanti “esperti” (si parla di casseur, black bloc e infiltrati dell’ultradestra). Un gruppo di “gilet jaunes” riesce ad insidiare persino le porte del Palazzo dell’Eliseo, la residenza di Macron.
Ma la giornata più devastante arriva il primo dicembre. L’atto III, “Macron dimettiti”, ha il sapore della vera e propria guerriglia urbana: 133 feriti, più di 400 fermati o arrestati, in totale 136.000 manifestanti. Il governo francese valuta la reintroduzione dello stato d’emergenza, attivo fino a un anno fa a causa dell’emergenza terrorismo. Intanto, il bilancio complessivo vede anche 4 morti durante le proteste oltre a più di 1.000 feriti. Più di 2.500 invece gli ordini di fermo o arresto, complice anche la massiccia mobilitazione di forze dell’ordine – oltre 8.000 unità – voluta da Emmanuel Macron. La condotta delle forze di polizia Scomodo
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non è stata però priva di abusi: è ormai virale sulla rete il video che riprende i poliziotti mentre tengono inginocchiati degli studenti nel cortile di una scuola di Parigi, in una scena da regime autoritario; e sta avendo larga diffusione il video di un poliziotto che spara un proiettile di gomma ad un manifestante inginocchiato e inerme. A margine di questa crescente conflittualità – i servizi segreti temono addirittura il rischio di un colpo di stato – il presidente francese sta considerando quindi l’ipotesi di aprire una trattativa con i gilet gialli: un tentativo di dialogo era già stato fatto nella settimana dell’1 dicembre, ma era saltato a causa del rifiuto di Macron a concedere la diretta streaming dell’incontro; condizione invece necessaria per i rappresentanti dei gilet gialli, sull’esempio del Movimento 5 Stelle in Italia. Il capo di Stato francese è però chiamato a dare una risposta che sia più convincente rispetto ai sei mesi di congelamento degli aumenti sul carburante e al blocco degli aumenti su gas e elettricità per tutto l’inverno, la misura annunciata dal primo ministro Philippe è percepita come “un contentino” dai gilet gialli. Ma vuole allo stesso tempo preservare l’autorità dello Stato nel non cedere alle proteste e alle violenze dei manifestanti. Tuttavia, il 10 dicembre Macron, in seguito all’ultima manifestazione dello scorso 7 dicembre, si è espresso per aggiungere alle misure già prese l’aumento del salario minimo di 100 euro netti e la detassazione degli straordinari. I numeri del “giallo” Le prime azioni di protesta risalgono a più di un mese fa ma l’appoggio della popolazione Scomodo
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nei confronti del movimento – dagli stessi partecipanti definito di natura sociale – non è calato affatto secondo i recenti sondaggi dell’Ifop che ha raccolto opinioni dal 6 novembre al 6 dicembre calcolando che il 66% dei francesi sostiene/simpatizza per il movimento, mentre il 24% gli è opposto o ostile. Il sostegno al movimento è rimasto forte anche a seguito dell’apparizione televisiva del presidente lo scorso 10 dicembre, contando un’adesione globale al 68%. I sondaggi svelano poi che nonostante la moratoria di sei mesi annunciata dal governo sull’aumento della fiscalità sul prezzo del carburante, sull’aumento del prezzo dell’elettricità e sull’esacerbarsi del controllo tecnico sui veicoli – a seguito della manifestazione di sabato 1 dicembre – la maggior parte dei francesi sarebbe rimasta incline a sostenere la perpetuazione delle azioni da parte del movimento, con il 59% a sostegno ed il 31% contrario. Ed anche a seguito delle nuove concessioni, ancora un francese su due (il 51%) ritiene che gli annunci del capo di Stato non siano di natura tale da mettere in discussione la mobilitazione. Senza contare che, secondo un sondaggio realizzato appena prima dell’intervento in diretta nazionale di Macron e delle nuove concessioni annunciate, non solo nel mese di dicembre si riscontra un calo generale del livello di approvazione della coppia all’esecutivo (a novembre per il secondo mese consecutivo Macron si aggiudica il livello di consenso più basso al 26 % con -7 punti rispetto a ottobre 2018 e -15 punti in due mesi; mentre Edouard Philippe è al 39%, -11 punti), ma soprattutto una sfiducia generalizzata
nei confronti delle personalità politiche, con un calo di 39 dei 50 esponenti presi in considerazione nell’inchiesta.
I leaders dei partiti all’opposizione si salvano per il momento da quest’ondata di scetticismo stabilizzando il rispettivo consenso, con Marine Lepen al 28% e Jean-Luc Mélenchon al 33%, entrambi +1%. Ad ulterioredimostrazione che la “parola d’ordine” dei gilets jaunes ormai non possa più limitarsi all’esclusiva questione della tassazione sul carburante e che sia anzi espressione di una ben più occulta ed intima spaccatura in seno alla società, il 90 % dei simpatizzanti de La France Insoumise – partito di sinistra radicale nato nel 2016 per promuovere la candidatura di Jean-Luc Mélenchon alle elezioni presidenziali del 2017 e alle legislative – e l’83% di quelli del Rassemblement National – il partito guidato da Marine Lepen – stimano che la risposta del governo sia insufficiente e che il movimento debba continuare. Si tratta dei due schieramenti politici all’opposizione che hanno tentato naturalmente di “appropriarsi” a più riprese dei fini e del contenuto della protesta. Ma la realtà è assolutamente più complessa, tanto che finora 19
i tentativi di ridurre il movimento ad una precisa e preesistente appartenenza politica ha dato adito ad un quadro sfocato in cui frange di estrema destra se ne stanno a braccetto con il programma socialdemocratico de L'Avenir en Commun. Un autentico abominio ideologico non in grado di rappresentare nulla perché il movimento rifugge, per la trasversalità del malcontento che racconta, certe categorizzazioni assiomatiche. “Si avverte che gli individui che compongono il movimento vengono da orizzonti diversi” dichiara Talal Mokeddem, studente di Scienze sociali all’Università Paris Sorbonne che ha preso parte alle manifestazioni nella capitale, Il 29 novembre il movimento aveva indirizzato un comunicato ai diversi media e ai deputati comprendente in totale una quarantina di “proposte” di legge, le “directives du peuple”, direttive del popolo, dove iniziative di rivendicazione sociale prossime alla sensibilità di un programma socialista come l’aumento dello smic – il salario minimo – a 1300 euro netti, la fin du travail détaché, cioè la richiesta di conferire lo stesso salario e gli stessi diritti a tutte le persone autorizzate a lavorare sul territorio francese, coesistono in maniera piuttosto sconcertante con la richiesta di ricondurre chi non ha ottenuto il diritto di asilo nel proprio paese di origine. E se l’antropologo e storico Emmanuel Todd, intervenuto il 3 dicembre su France culture per apportare il proprio chiarimento sulla mobilitazione dei gilets jaunes e sulla intrinseca complessità ed eterogeneità della protesta, sottolinea la persistenza e la fecondità delle prerogative culturali francesi, all’insegna 20
dell’egualitarismo e della liberalità, molti si interrogano se la nascita del movimento si prospetti come il sintomo di una democrazia malata o in fase di guarigione. Un confine che evidentemente appare molto labile.
“Ma non è affatto questo il punto della protesta. Vorrei far presente che tutti i tentativi di relegare il movimento a vincoli politici etnici o sociali sono stati fortemente respinti.” Società, cultura e mobile: il karma pesante della classe media Il punto più interessante e complesso dell’analisi è senza dubbio quello che verte sull’indagine del tessuto sociale: un recente sondaggio dell’Istituto Ifop sul sostegno delle classi sociali al movimento ha calcolato che il 62% tra gli operai, il 50% tra i pensionati, e il 56% tra i disoccupati sostengono la causa; contro solo il 29% dei quadri e delle professioni intellettuali, l'elettorato del presidente. Si tratta di quella che il sociologo Julien Damon – professore associato alla Sciences Po e consigliere scientifico della Scuola Nazionale Superiore di Sicurezza Sociale, nonché autore di numerosi saggi come L’exclusion – ha definito la classe media. “Non sono né i
troppo ricchi, né i troppo poveri. Si assiste a una forma di rivolta di una classe media inferiore”. Non sono sufficientemente poveri da beneficiare dei trasferimenti dello Stato ma neanche suffcientemente ricchi da disinteressarsene.
suppongono la fine dell’economia globalizzata, per esempio vorrebbero vietare le delocalizzazioni, o limitare i salari a 15.000 euro al mese; alzare il numero di servizi pubblici e allo stesso tempo diminuire la spesa pubblica.”
Damon ha poi aggiunto un’ulteriore qualificazione legata alla descrizione di un’ubicazione non soltanto propriamente spaziale del fenomeno, ma si potrebbe dire metaspaziale, parlando di una “Francia periferica socialmente e geograficamente”. Si tratta di una narrazione estremamente feconda in quanto arriva a toccare il cuore di una problematica che è difficile cogliere tra stime e cifre, quella che racconta del divario culturale e di accesso alle opportunità della globalizzazione. Ne abbiamo parlato con il giornalista Francesco Maselli che ha qualificato questo dato come un nuovo bipolarismo che si va strutturando specialmente tra i paesi occidentali geograficamente estesi come la Francia, appunto, o gli Stati Uniti. Un divario più profondo di quello economico, quello tra centro e periferia. “Le persone che stanno protestando sono quelle che in genere hanno perso la sfida della globalizzazione, le loro richieste pre-
Esiste dunque un’enorme lacuna tra due facce del Paese che hanno accesso ai servizi in maniera totalmente diversa, il che genera un certo grado di reciproca incomunicabilità: secondo i dati Insee, soltanto il 13% dei parigini utilizza l’auto per andare al lavoro, contro il 38% della piccola corona – cioè i comuni confinanti con Parigi – il 61% della grande corona – i comuni confinanti con la piccola corona – e il 78% della regione rimanente. Le metropoli hanno rilevanza maggiore di geopolitica interna, e il centro urbano nell’immaginario politico diventa sempre più interessante, quindi le politiche pubbliche si spostano progressivamente dalla periferia al centro, dove la densità degli abitanti che beneficiano dei servizi pubblici è più elevata. La classe medio-alta che costituisce l’elettorato del presidente non ha cognizione di cosa voglia dire vivere nella cosiddetta Francia rurale o periferica e spostarsi quotidianamente con la propria automobile, ed è in più partico-
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larmente sensibile alle tematiche ecologiste. E qui sussiste il terzo fattore che si va sommando a quello sociale e di culturale: l’aspetto più propriamente emozionale. Sartre, analizzando le strutture profonde che connotano l’agire umano, sancisce un legame profondo e reciproco tra ragione e sfera emozionale: per ogni atto possiamo identificare un mobile e un motif, cioè rispettivamente il rapporto affettivo ai fini dell’azione ed il suo apprezzamento più razionale e oggettivo. Certamente l’aspetto emozionale straborda e si impone attraverso la protesta: la natura delle manifestazioni, l’aspetto violento che – lo si voglia o no – ne costituisce un dato di fatto, la grande mobilitazione che ha coinvolto l’8 dicembre 75 mila manifestanti e il generale stato di fermento che si tocca con mano per le strade della capitale nelle ultime settimane in Università, piazze e caffè, è espressione di un grande carico emotivo, oltre che di ragioni. Dicevamo che i fautori del movimento sono quelli che hanno perso la sfida della globalizzazione; questo dato, oltre ad indicare un determinato etimo sociale e culturale, è la diretta conseguenza di un certo isolamento e di “discriminazione” da parte della classe dirigente di En Marche! e spesso del suo stesso elettorato : Benjamin Griveaux, portavoce del governo e probabile candidato macronista al comune di Parigi nel 2020, aveva attaccato Laurent Wauquiez, presidente dei Républicains, accusandolo di volere essere il rappresentante di chi “fuma e guida delle automobili diesel”. Al disagio dovuto alla mancanza di servizi e all’introduzione di riforme che sembrano favorire
solo una fetta di popolazione, si somma una forma di additamento e di rimarco rispetto a cui la sfida ambientale costituisce solo una delle tante questioni. Questo tipo di mutua – e forse feroce – percezione tra due volti di un popolo che si scrutano senza riconoscersi e identificarsi ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale nella presa di coscienza dei fautori del movimento. “Queste azioni non sono che la prova della ferma determinazione di un popolazione impotente di fronte alle riforme”, spiega Talal.
“Se non sarà la polizia ad ammazzarli ci penseranno comunque i colpi della vita”. Il re Macron è nudo La popolarità del presidente Macron è quindi ai minimi storici: secondo un sondaggio di inizio dicembre, la popolarità del presidente (26%) è quasi allo stesso livello di quella di François Hollande – che aveva raggiunto il record di “impopolarità” per quanto riguarda la V Repubblica francese – dopo lo stesso periodo di governo, un anno e mezzo circa. Macron viene ormai percepito quasi unanimemente come “il presidente dei ricchi contro gli interessi del popolo”. L’ipotesi delle dimissioni di Macron appare però lontanissima, in base al sistema semipresidenziale vigente in Francia: secondo la Costituzione francese, infatti, “il 21
Presidente della Repubblica può essere destituito solo in caso di mancanza ai propri doveri incompatibile con l'esercizio del proprio mandato”.
Macron viene ormai percepito quasi unanimemente come “il presidente dei ricchi contro gli interessi del popolo”. La destituzione viene pronunciata dal Parlamento riunito in Alta Corte”. Pensare che un Parlamento in cui Macron gode di una ampissima maggioranza – 399 seggi contro i 178 dell’opposizione – voti per la dimissione di un presidente come solo una volta è accaduto nella storia della V Repubblica – De Gaulle nel 1969, dimissioni presentate da lui stesso – appare piuttosto difficile. Più probabile invece lo scenario che vede le dimissioni del primo ministro Edouard Philippe, e la convocazione di nuove elezioni legislative per verificare la tenuta parlamentare di Macron. Sarebbe lo stesso stratagemma usato dallo stesso De Gaulle per uscire dalla crisi dovuta alle proteste del ’68: allora la scelta pagò, perché la “maggioranza silenziosa” moderata e contraria alle proteste, votò in massa per i gollisti e contro le sinistre che avevano cavalcato il movimento. Ma le prospettive per Macron non sono così rosee, ed inoltre all’orizzonte c’è un altro test fondamentale su cui il 22
presidente francese si gioca gran parte del suo progetto di riforma: le elezioni europee di fine maggio. Nella campagna elettorale per le presidenziali 2017 la priorità del programma di “La République En Marche!” consisteva proprio in una maggiore integrazione europea: creazione di un mercato comune dell’energia e del digitale, estensione del progetto Erasmus e nascita di un fondo comune per la difesa, che dovrebbe rappresentare l’embrione del progetto di un esercito unico europeo. Per attuare questi punti Macron in questi mesi ha rinsaldato i rapporti con la Germania della Merkel, convinta europeista anche lei, creando un asse franco-tedesco che si appresta a farla da padrone in un’Unione Europea scossa dalla Brexit e dalla nascita di un governo euroscettico italiano.
Ma il presidente francese deve temere ormai soprattutto l’opposizione interna alla Francia, rispetto a quella degli altri paesi comunitari: i gilet gialli non potrebbero avere occasione migliore per affossare politicamente Macron che tarpargli le ali sulle riforme europee. L’opposizione al momento appare però profondamente divisa: al punto che un sondaggio apparso su Le Journal du Dimanche
riporta che un’ipotetica lista alle europee legata ai gilet gialli arriverebbe con il 12% ad essere la terza forza politica della Francia, a pochissimi punti dalla seconda piazza occupata dal Rassemblement National di Marine Le Pen (14%). Ma nettamente distaccata rispetto al 21% di En Marche. È questo il dato finale: Macron rimane un presidente profondamente detestato, ma l’opposizione non riesce ad andare oltre la protesta, talvolta violenta, e a darsi un’organizzazione interna unitaria e solida. Non riesce insomma ad uscire da quella che Socrate chiamava la “pars destruens”, per entrare nella fase che poi deve caratterizzare la politica: la proposta, la “pars costruens”.
La città inamministrabile II Il futuro è spazzatura
In Italia, ormai 11 anni fa, un comico organizzò il “Vaffa Day” per condensare la rabbia di numerosi cittadini verso un’intera classe dirigente. Da quell’esperienza nacque un partito che, 11 anni dopo e dopo essersi perfettamente integrato nel sistema, sarà primo partito alle elezioni politiche con il 33%. La rabbia si farà sistema anche in Francia?
di Susanna Rugghia (da Parigi) e Simone Martuscelli Scomodo
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L’inizio di dicembre è stato scoppiettante: prima il “risanamento” del bilancio 2017 attraverso un numero di prestigio di Ama e Comune, poi il TMB Salario in fiamme. Il futuro dello smaltimento dei rifiuti di Roma è appeso a un filo
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er l’Azienda Municipale Ambiente (altrimenti nota come AMA) sembra sempre più difficile che le feste siano un periodo di gioia. Per poter allestire col cuore in pace il gigantesco albero di Natale targato Netflix, si era tentato di risolvere il problema fino a quel momento più grosso, vale a dire la peculiare questione del bilancio di AMA. Risolta questa
prima dell’Immacolata con dinamiche poco chiare, il pericolo di un'emergenza rifiuti in uno dei periodi turisticamente più caldi dell'anno sembrava scongiurata. Illusione durata pochi giorni: l'11 dicembre, Roma si sveglia annusando un pessimo odore: il TMB Salario, uno dei due impianti di trattamento e stoccaggio di rifiuti dell’AMA ha preso fuoco. Da tempo i cittadini romani 23
lamentano la scarsa efficienza dell’azienda: tuttavia, il travaglio passato nei primi giorni di dicembre potrebbero aprire nuovi, inquietanti scenari. L'incendio del TMB Salario Talvolta, in periodi di tardo autunno con l’inverno ormai alle porte, può capitare a Roma di uscire di casa la mattina e trovare una coltre di foschia e leggera nebbia a velare l’orizzonte: l’11 dicembre, quella da cui i residenti del III Municipio di Roma hanno avuto la sfortuna di venire avviluppati era invece la nube di un incendio. Nella notte tra il 10 e l’11 dicembre infatti l’impianto di TMB (Trattamento Meccanico Biologico) di Roma Salario è stato avvolto da un rogo scoppiato nella vasca di smaltimento dei rifiuti indifferenziati, che ne accoglieva ogni giorno 750-800 tonnellate circa, con successivo intervento dei vigili del fuoco per domare le fiamme del più grande incendio occorso ai danni dell’impianto; due sono le ipotesi al vaglio per spiegare le cause di quella che si può far rientrare nella dimensione di una catastrofe per l’ambiente e per la logistica dello smaltimento dei rifiuti romani. Autocombustione? A detta di Giovanni Bellomo (referente dell’Unione Sindacale di Base in Ama) casi di autocombustione, benché molto meno gravi, non sono nuovi alle strutture di Salario e di Rocca Cencia - altro TMB della capitale e ormai unico in funzione – e sarebbero causati in larga parte dai rifiuti che si accumulano più del dovuto e arrivano anche a toccare il tetto del capannone. Ciò potrebbe essere accaduto dal momento che, riferisce il delega24
to Cgil per Ama ai microfoni di Tagadà, sebbene il TMB Salario lavorasse una quantità di rifiuti inferiore alla sua capacità (600 tonnellate invece che 750), la quantità che vi veniva stoccata era decisamente superiore al normale comportando così “un tasso di sicurezza minore” causato dalla putrescenza e dalla fermentazione di rifiuti ammassati nel capannone, che andrebbe invece svuotato a fine giornata.
Alcuni operai Ama riportano di aver udito intorno alle 3:45 dell’11 dicembre uno scoppio, che secondo questa linea interpretativa potrebbe costituire la miccia scatenante la reazione chimica. Incendio doloso? Il giallo risiede però nell’ipotesi che sia stato qualcuno ad appiccare volontariamente il fuoco che si sarebbe tramutato nel disastroso incendio: al momento è il Pubblico Ministero Carlo Villani ad occuparsi della faccenda. Sono suoi due fascicoli della Procura sulle ipotesi di reato di inquinamento ambientale e di attività di gestione di rifiuti non autorizzata ad opera di chi aveva in gestione l’amministrazione del TMB (Ama e suoi organi): si indaga sull’eventualità di un rea-
to per disastro colposo; nell’attesa dell’informativa da parte delle forze dell’ordine non è però da escludersi il reato di danneggiamento seguito da incendio. Il mistero s’infittisce quando gli inquirenti vengono a sapere che le telecamere del sistema di sorveglianza, dotato di sensori all’avanguardia dopo l’incendio occorso nel 2015, erano fuori uso dal 7 dicembre: al riguardo si è espressa la Sindaca Virginia Raggi, intervistata durante la trasmissione Piazzapulita, dichiarando che il Comune non era a conoscenza di questo dettaglio e che comunque la competenza ricadrebbe sulle spalle di Ama, rientrando in quelle che lei definisce “questioni operative” dell’azienda di cui il Campidoglio è socio unico ed alla quale lei stessa avrebbe inviato una lettera chiedendo chiarimenti in tema. Ad intervenire sulla faccenda è stato anche il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che in occasione della conferenza stampa convocata a seguito dell’accaduto si è detto perplesso riguardo alla coincidenza - “non voglio fare sillogismi”, dice - dello scoppio dell’incendio proprio con l’inizio di quello che il capo del dicastero ha definito come un lavoro strutturale “di serietà” finalizzato ad una “sistemazione migliore per sostenere un TMB che finora aveva dato dei problemi”, aggiungendo che lui stesso aveva preso visione delle foto che ritraevano gli interventi in corso sulle vasche di smaltimento. Quel che è certo è che la struttura, al cui sequestro si è già proceduto, non verrà rimessa in funzione (a detta della Sindaca stessa) e che i vari rapporti dell’Agenzia Regionale Protezione Ambientale del Lazio riferiscono che nel periodo tra le 6:00
e le 12:00 del giorno dell’accaduto si è rilevata una concentrazione di diossine (elementi cancerogeni) nell’aria 90 volte superiore a quello che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima come valore standard in aree urbane. Il direttore dell’agenzia aggiunge poi che le piogge dei giorni seguenti avrebbero avuto effetti positivi, gli stessi che Daniele Gamberale, direttore del dipartimento di prevenzione dell'Asl Roma 1, auspica per i valori di diossina ed idrocarburi, parlando però nel frattempo della presenza di “un potenziale pericolo di contaminazione che coinvolge la catena alimentare”.
Scomodo
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Dicembre 2018
il TMB Salario è una storia chiusa, i rifiuti devono andare da un’altra parte. Qualcosa è cambiato La storia, per comodità, viene spesso scandita tramite eventi clamorosi. L’inizio di una fase, di una guerra, di una rivoluzione viene quasi sempre simboleggiato da un avvenimento di portata inusuale. L’incendio del TMB di Salario potrebbe tranquillamente essere riconosciuto come l’inizio dell’emergenza rifiuti potenzialmente più grave della storia recente di Roma. Il già odiatissimo impianto, al centro delle lamentele dei cittadini del III municipio e contro la Dicembre 2018
gestione del quale si è avventata l’amministrazione del neopresidente Caudo, era già il più eloquente simbolo di tutti i guai portati dalla chiusura della discarica di Malagrotta. Che oggi risulta meno che mai chiusa. Roma contava infatti un totale di quattro TMB: due quelli di AMA (quello ormai chiuso a Salario e l’impianto di Rocca Cencia) e due quelli di Co.La.Ri, proprio a Malagrotta, nonché di proprietà dello stesso Manlio Cerroni, storico “monnezzaro” e antico proprietario dell’ex discarica. Con il nuovo anno alle porte, la Regione era pronta ad affidare per un altro anno al TMB di Salario una consistente quantità dei rifiuti romani. Ma con 15 strettissime condizioni, tutte legate proprio alle disastrose condizioni dello stoccaggio e delle emissioni di miasmi. Piani saltati, ovviamente, con l’incendio: L’opzione preferita sarebbe ovviamente il trasferimento dei rifiuti in altri località italiane o, come già accaduto in passato, all’estero; tuttavia, le certezze in questo ambito sono poche e in passato hanno già causato non pochi dissensi interni e proteste da parte della cittadinanza. Tra i più noti, il caso del treno fermo in piena estate alla stazione di Villa Spada con oltre 700 tonnellate di rifiuti all’interno era dovuto proprio alla saturazione dell’impianto a Colonia della società tedesca Enki, che doveva smaltire per quattro anni 660.000 tonnellate di rifiuti (circa 450 al giorno). Tra le altre, si potrebbe ricorrere agli impianti del Lazio e dell’Abruzzo (con cui esiste già una convenzione), tutti privati. Tuttavia, come già in passato, la soluzione più probabile sarà l’uso ed abuso degli impianti vicini. L’impianto di Rocca Cencia, nel
municipio VI, è già al centro di polemiche, meno sotto l’occhio dell’attenzione pubblica rispetto a quelle del Salario ma egualmente vigorose. I cittadini e amministratori hanno già dichiarato di essere pronti a disseppellire l’ascia di guerra in caso di ulteriore sovraccarico del TMB, già causa di forte scontento nel quartiere. Ben lo sa Massimo Valeriani, assessore regionale all’ambiente, che nel prolungare di un altro anno l’attività del TMB Salario affermava che “così come operano oggi, gli impianti di trattamento meccanico biologico dei rifiuti del Salario e di Rocca Cencia sono incompatibili con il tessuto urbano circostante”. Fantasmi del passato Un altro territorio che negli anni ha subito le pesanti conseguenze dell’enorme mole dei rifiuti romani è proprio la zona adiacente a quella che, a tutti gli effetti, sarebbe “l’origine del male”: la discarica di Malagrotta. Il suo proprietario, Manlio Cerroni, nonostante i suoi 92 anni compiuti il 18 novembre è più vivo che mai: fresco di assoluzione nel processo che lo vedeva accusato di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e frode in pubbliche accuse, il “monnezzaro” più famoso d’Italia è tornato alla carica. E afferma di essere pronto a “lavorare nuovamente per Roma”, che secondo lui è diventata, ironicamente, una “discarica a cielo aperto”. La generosità di Cerroni si esaurisce, tuttavia, nel momento in cui presenta il conto. Co.La. Ri. ha continuato a partecipare, negli anni, ai concorsi di AMA per lo smaltimento dei rifiuti, offrendo ovviamente delle tarif25
fe altissime per lavori che nessun altro vuole fare: la sopra citata Enki s.r.l. aveva per l’appunto vinto un concorso come unica alternativa l’azienda di Manlio Cerroni. Oggi si rigiocherebbe una partita simile, ma con un TMB in meno e con la coscienza del fatto che Co.La.Ri. possiede impianti a Malagrotta pronti, secondo Cerroni, a smaltire fino a 4.000 tonnellate di rifiuti al giorno: quasi tutto l’ammontare dei rifiuti romani in due soli impianti TMB. Di fatto, una nuova apertura di Malagrotta. Tutto questo, proprio nel momento in cui di uno dei due TMB di AMA rimangono solo le ceneri. Se i prezzi fatti da Cerroni fossero l’unica via per non sfociare in una catastrofe, non è escluso che per l’AMA e per il Comune di Roma potrebbe seriamente riaprirsi quindi una partita che si pensava appena vinta: il bilancio dell’azienda.
La questione del bilancio di AMA è un cane che si morde la coda. L’obiettivo, per far quadrare un’altra volta i conti, è diminuire la produzione dei rifiuti di Roma. Far quadrare i conti L’espressione è quella più adatta alla situazione. I conti non quadrano affatto, ma se il bilancio di AMA non fosse in attivo si rischierebbe un effetto domino non da poco. 26
Il motivo? Un debito, relativo a opere cimiteriali di vario tipo, non accettato dall’assessore al bilancio della giunta guidata da Virginia Raggi, Gianni Lemmetti. Con il Comune non disposto ad accettare in bilancio un ulteriore peso nel suo bilancio, l’AMA si è confrontata seriamente con la possibilità di chiudere il suo bilancio in rosso. Con il rischio serissimo di vedersi declassato il rating aziendale. Ovvero, il peggiore degli incubi per un’azienda che si poggia sul credito fatto dalle banche: queste, infatti, continuano a fare altissimo credito ad AMA nonostante il suo miliardo di euro di debiti perché, sulla carta, “è sana”. Tradotto: le altissime tariffe pagate dai cittadini sono una garanzia che AMA possa ripagare i debiti. 60 milioni di rosso, però, avrebbero fatto cadere il castello di carte, dal momento che il declassamento avrebbe significato meno credito. Quindi, meno soldi per pagare i fornitori, nuovi debiti e un ulteriore innalzamento delle tariffe. La questione è stata risolta con poco più di un trucco: un “fondo ad hoc” per coprire il buco è andato a congelare la questione fino a nuovo ordine, e avrebbe dovuto far dormire sonni tranquilli ai dirigenti AMA almeno fino al 2019. La polvere sotto il tappeto, però, forma dei dossi. E con le ceneri del TMB Salario ancora calde, di spazio sotto al tappeto persiano che AMA continua a millantare di essere ne è rimasto poco. Il Comune continua a lottare con l’azienda per far entrare meno debiti possibili nel suo bilancio, mentre AMA continua ad avere costi esosi. Avrebbe infatti previsto, per lo svolgimento dei servizi del 2019, circa 754 milioni di
euro, con il Comune pronto ad approvarne solo 714. La copertura di questi circa 40 milioni di euro di scarto deriverebbero da “ulteriori efficientamenti”, cioè ottimizzazione e recupero delle risorse interne” e un aumento di percentuale di “recupero produttività”. Promesse, queste, dal valore di poco più di 19 milioni di euro. Ciliegina sulla torta sarebbe l’altro obiettivo di AMA: poco più di 24 milioni di euro “andrebbero recuperati, secondo l’azienda capitolina, dalla “riduzione di circa il 3% della produzione di rifiuti nel 2019”. La questione del bilancio di AMA è un cane che si morde la coda. L’obiettivo, per far quadrare un’altra volta i conti, è diminuire la produzione dei rifiuti di Roma. Ma senza uno dei principali punti di smaltimento e stoccaggio dei rifiuti, il TMB Salario, sarebbe un’utopia persino mantenere la stessa produzione del 2018. Il castello di carte si reggerebbe solamente con un miracolo; o, molto più semplicemente, rivolgendosi all’uomo che più di tutti vorrebbe tornare in campo a neanche sei anni dalla chiusura della sua discarica, Manlio Cerroni. Ovviamente a prezzi decisi da lui stesso: nuovi debiti.
del cittadino non ci sono solo gli onnipresenti cumuli di rifiuti a margine dei cassonetti: volenti o nolenti gli fanno compagnia attori pubblici e privati. Che, in una situazione di tale criticità, già sentono fremersi le papille gustative, inondate di acquolina al solo pensiero di poter incassare moneta sonante speculando sulla pelle dei romani grazie al business dei rifiuti. Oppure, non meno gravemente, non sembrano riuscire a fare nulla più che rivolgere disperati appelli in ogni dove perché si eviti che la capitale diventi un immondezzaio sotto le festività natalizie, lasciando trapelare la sensazione che all’orizzonte non si profilino nemmeno le avvisaglie di una qualche soluzione a lungo (o medio) termine. E di fumate nere i romani ne hanno avute abbastanza. di Pietro Forti e Luigi Simonelli mancano. Sorge spontanea sempre la stessa domanda: allora perché è tutto fermo?
Conclusioni Dalla chiusura di Malagrotta a oggi, poco è cambiato: le 4600 tonnellate di rifiuti prodotte ogni giorno dalla città sono una sentenza inesorabile a cui si è retto con costi sociali già alti. Intanto, Roma si avvia verso il 2019 con pochissime certezze e con un equilibrio talmente precario che potrebbe essersi già spezzato sotto gli occhi di tutti. A popolare lo scenario che si presenta oggi davanti agli occhi Scomodo
Dicembre 2018
di Pietro Forti e Luigi Simonelli Scomodo
Dicembre 2018
La marcia degli ultimi L'esodo di massa che attraversa l'America Centrale
Sono più di 4350 i chilometri percorsi da migliaia di cittadini del Centro America - prevalentemente honduregni, iniziatori di questo fenomeno migratorio, a cui si sono aggiunti in minor parte guatemaltechi, salvadoregni e nicaraguensi - con l'obiettivo di riuscire a valicare i presidiati confini degli Stati Uniti, spinti non tanto da una concezione antiquata del “sogno americano”, ma piuttosto dalla ricerca di un benessere sociale minimo, oggi compromesso in patria. L'iniziale migrazione di poche centinaia di persone, diventato poi un significativo esodo di massa, è da analizzare in un contesto più ampio che lega insieme inevitabilmente fattori sociali, politici ed economici. La linea di partenza L'Honduras conta nove milioni di abitanti, è uno dei paesi meno sviluppati e industrializzati del Centro America, ed è stato riconosciuto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) come uno dei paesi con il più alto debito
estero al mondo, in cui vi si stimano un'importante presenza di sottoccupazione ed un livello di inflazione sopra la media mondiale. La fragilità economica fa da terreno fertile ad una instabilità politica segnata da giochi di potere e corruzione, ed appare chiaro come gli avvenimenti odierni possano essere interpretati anche come il risultato della graduale evoluzione di una crisi generale che ha raggiunto il culmine nelle tanto discusse elezioni presidenziali del 2017. Il 26 novembre del 2017 il popolo honduregno è chiamato alle urne e tra i candidati si profila nuovamente la figura del presidente uscente: l'esponente del partito liberale e conservatore Juan Orlando Hernández, il quale, nonostante il divieto di ricandidatura presente nella Carta Costituzionale, riesce ad ottenere dai giudici della Corte Suprema che lui stesso aveva nominato, il permesso per presentarsi alle elezioni. 27
La situazione è paradossale soprattutto se si tiene conto del fatto che nel 2009 a seguito di un analogo tentativo messo in atto dall'allora presidente Manuel Zelaya si è verificato un golpe di stato ordinato al corpo militare dalla stessa Corte Suprema in difesa della Costituzione, crisi poi rientrata a seguito delle pressioni internazionali e considerata come un isolato incidente nel percorso democratico che l'Honduras ha poi ripreso. Durante le prime fasi dello scrutinio emerge però il vantaggio del principale rivale di Hernández, lo sfidante di sinistra Salvador Nasralla, ed è in questa circostanza che secondo l'ONG Humans Rights Watch e diversi osservatori internazionali si riscontrano delle irregolarità nel processo elettorale, ed emergono dubbi sulla effettiva legittimità delle elezioni. In una situazione che vede Nasralla in vantaggio di cinque punti percentuali su Hernández, il Tribunale Superiore Elettorale interrompe il normale corso dello scrutinio senza apparenti motivi validi,per poi riprendere il conteggio nelle tre settimane successive, durante le quali si concretizzerà un capovolgimento delle previsioni iniziali e la riconferma del presidente uscente Hernández. Completa il quadro delle elezioni politiche, contrassegnato da sospetti generali, anche una possibile interferenza degli USA, che, lungo una sottile linea divisoria tra interessi geopolitici ed equilibrio del continente, partecipano con una propria ambasciatrice al conteggio dei voti condotto dal Tribunale Supremo Elettorale. Durante le tre settimane di conteggio le piazze della capitale Tegucicalpa sono teatro di frequenti 28
mobilitazioni di protesta che collocano nel proprio mirino un sistema politico guidato da interessi puramente personali, lontano dai propri cittadini e soprattutto negligente nei confronti dei più importanti principi democratici della società. Atti di dissenso si verificano anche di fronte la sede dell'ambasciata delle Stati Uniti considerato dal popolo honduregno un partner eccessivamente asfissiante capace di influenzare radicalmente il settore economico e politico del paese. Le azioni cittadine vengono tuttavia represse dalle forze dell'ordine con la violenza e costano la vita ad alcuni manifestanti, enfatizzando, in un clima di insicurezza, quei lineamenti autoritari che caratterizzano la repubblica presidenziale di Hérnandez fin dall'inizio del suo mandato. Ad incentivare la fuga dal paese, oltre alla disuguaglianza nella distribuzione delle risorse, la mancanza di opportunità ed una politica oppressiva, è anche la violenta realtà quotidiana, che attribuisce all'Honduras la triste etichetta di uno dei paesi più pericolosi al mondo. A causa di un sistema giudiziario corrotto, il 90% dei crimini resta impunito, e le violenze sono nella maggioranza dei casi conseguenze delle azioni della criminalità organizzata, che, col suo operato contribuisce a mantenere inserito il paese nella lista nera di monitoraggio da parte dell'Agenzia Federale Antidroga (DEA), in quanto ritenuto crocevia essenziale per le linee di commercio del narcotraffico. Nel 2017 si sono registrati quasi quattromila omicidi, stabilendo un tasso di 43 omicidi ogni centomila abitanti (per un chiarimento basti pensare che,
secondo i dati registrati dall'Organizzazione delle Nazioni Unite ONU, in Afghanistan, paese in guerra, il tasso di omicidi è di 12 ogni centomila abitanti). Per anni la seconda città più popolosa dello stato, San Pedro Pula, deteneva il drammatico primato di città più violenta del mondo (gli indici registravano più di 115 omicidi ogni centomila abitanti). Sognando zio Sam E' proprio a San Pedro Pula che si mette in moto il primo gruppo di migranti, a cui si aggregano nei giorni successivi altri contingenti di persone, e le cui iniziative coinvolgono inevitabilmente lungo la marcia comitive provenienti anche dai confinanti El Salvador e Guatemala. Il 13 ottobre 2018 un gruppo iniziale di 160 persone si riunisce quindi nei pressi della stazione principale degli autobus con l'obbiettivo di espatriare e muoversi collettivamente verso gli Stati Uniti in cerca di un futuro migliore. I pionieri di quella che sarebbe dovuta essere inizialmente un'esigua migrazione limitata ad un numero contenuto di persone, mai avrebbero pensato di dar vita ad un trascinante fenomeno sociale che racchiude in sé storie di umanità, sacrifici e rinunce, e che oggi accomuna migliaia di persone, protagonisti di una marcia dai tratti storici che sta attraversando un continente. In realtà i dati forniti dalle istituzioni Centro Americane ci chiariscono che in passato il fenomeno di migrazione via terra si è già verificato più volte in questi territori, ma pur sempre ridotto a numero non superiore a poche decine di persone. Oggi invece le “carovane dei migranti” ottengono una risoScomodo
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nanza mediatica a livello globale proprio per il massiccio numero, mai registrato, di aderenti al fenomeno sociale in atto, che sorprendentemente supera le nove mila persone, e che riunisce uomini e donne di ogni età uniti contro tutte le avversità del caso. Il raggruppamento è stato sicuramente favorito dall'era digitale e dalla facilità di comunicazione (social network, messaggistica istantanea) che ha permesso la graduale formazione di un fiume umano capace di travolgere ogni muro divisorio e rafforzare una coesione sociale ispirata dalla speranza e dal sentimento di “pueblo unido” di cilena memoria.
La prima difficoltà si riscontra al confine tra Honduras e Guatemala, il 16 ottobre. Le limitate forze dell'ordine, sottovalutando l'evoluzione del processo migratorio, non possiedono i mezzi necessari né l'organizzazione adatta per arrestare l'avanzata, permettendo al flusso di oltrepassare i confini e stanziarsi nella città di Esquipupulas, a sud del Guatemala; dove la massa si raduna con l'intento di darsi una maggiore organizzazione rendendo efficiente un importante lavoro di cooperazione. Secondo i responsabili de “La casa del migrante”, un'associazione per gli aiuti umanitari fonScomodo
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data dalla comunità religiosa dei missionari di San Carlo, i dati registrano in quei giorni più di cinque mila persone, un numero sicuramente già impressionante a cui è necessario sommare un quantitativo non stimabile di soggetti ancora in marcia lungo la strada. Si tenga conto del fatto che le carovane dei migranti, il cui numero di aderenti cresce in modo graduale, è composto anche da donne incinte, minori senza accompagnatori, invalidi ed anziani, la cui migrazione nella pratica incontra sicuramente più ostacoli. Per questo motivo la rete dei coordinatori della marcia prende atto della necessità di dividersi in macro gruppi a seconda delle modalità di avanzamento, permettendo laddove fosse possibile l'utilizzo di mezzi di trasporto per i più bisognosi, e designando poi, lungo il tragitto stabilito, una serie di città come punti di ritrovo. La pressione elettorale negli USA Lo spostamento di massa che fermenta in Centro America e che caratterizza i giorni di fine ottobre, coincide con un delicato periodo di propaganda politica in vista delle elezioni di metà mandato statunitensi del 6 novembre, dai cui risultati storicamente dipendono la buona riuscita delle scelte politiche del secondo biennio presidenziale. I due fattori sono destinati ad incontrarsi in quanto la trattazione del fenomeno migratorio, come insegna la politica nostrana seppur in termini discutibili, è da ritenere sicuramente un argomento capace di spostare gli indici del consenso popolare. Donald Trump, che del muro divisorio tra Stati Uniti e Mes-
sico aveva fatto un punto fermo durante la campagna elettorale, parla di invasione architettata con la finalità di minare la sicurezza del paese, e coglie l'occasione per accusare il Partito Democratico di “permettere l'ingresso a numerosi criminali a causa della loro politica sulle frontiere aperte”. La sua amministrazione non ha esitato a procedere al rafforzamento delle linee territoriali con l'invio di migliaia di militari, legittimando, se necessario, l'utilizzo della forza da parte delle truppe poste in difesa del confine americano. Sul piano diplomatico il presidente degli Stati Uniti si appella al governo messicano, nonché al Presidente dell'Honduras Hernández, chiedendo fermamente al primo di arrestare con ogni mezzo a disposizione l'avanzata del flusso incontrollato, e al secondo di richiamare i propri cittadini ad un improbabile ritorno in patria. Tramite Twitter, social network costantemente utilizzato, Donald Trump minaccia a questo proposito di tagliare ogni forma di aiuto economico nei confronti di Honduras, Guatemala ed El Salvador qualora non si fosse impedito l'ingresso illegale dei migranti in territorio statunitense, aggiungendo inoltre particolari preoccupazioni in riferimento alla presenza, nelle carovane dei migranti, di infiltrazioni di soggetti provenienti dal Medio Oriente che avrebbero legami con lo Stato Islamico, fatto che ad oggi non è stato provato. Rispetto alla prima frontiera varcata (tra Honduras e Guatemala), i fatti di cronaca descrivono una situazione sicuramente più instabile al confine tra Guatemala e Messico, una frontiera carat29
terizzata dallo scorrere del fiume Suchiate per più di cento chilometri in direzione dell'Oceano Pacifico, nella parte sud-ovest del Messico. La Polizia federale messicana si stanzia lungo gran parte del confine, concentrandosi sopratutto nei pressi della città di frontiera guatemalteca Tecún Umán, impedendo un ingresso incontrollato dei migranti e ricevendo in un primo momento l'approvazione di Donald Trump. Emblematiche sono le immagini che ritraggono il ponte Robles, collegamento tra i due paesi, diventato per l'occasione un campo di sosta per migliaia di rifugiati bloccati alle porte del Messico. Strazianti sono invece quelle che raffigurano i volti di chi, spinto dalla disperazione, si getta nel fiume tentando così una improbabile attraversata. La stanchezza e le condizioni di disagio in cui si trovano le migliaia di persone in attesa di uno sblocco della situazione sono la causa dei disordini che si vengono a creare l'ultima settimana di ottobre, e che mirano a sfondare le barriere messicane; creando una situazione di caos nella frontiera che tuttavia le forze dell'ordine gestiscono con abilità riuscendo a limitare i danni. Il ruolo del Messico In questa fase il governo messicano, formatosi in seguito alle elezioni del luglio scorso, smentisce qualsiasi intesa con Washington sottolineando che la politica attuata in patria non è stata in alcuna maniera influenzata dalle pressioni degli Stati Uniti. La gestione del fenomeno migratorio da parte del Governo messicano è ispirata da una linea di pensiero non volto a criminalizzare l'immigrazione, ma 30
piuttosto a considerarlo come un diritto fondamentale dell'uomo, in linea anche con le recenti direttive dell'ONU.
Per questo motivo è stato necessario del tempo per organizzarsi in modo funzionale, a svantaggio della trepidazione dei migranti delle carovane, al fine di permetterne l'ingresso attraverso dei giusti controlli. In modo da poter attribuire, una volta accertati determinati parametri, lo status di rifugiato, facilitando di conseguenza anche la regolazione del flusso generale. E' interessante sottolineare come il Messico, un paese con profitti economici limitati, stia oggi attuando una notevole politica di integrazione basata sul presupposto che ogni singola persona possa configurarsi come reale risorsa utile alla società, mostrandosi quindi favorevole ad aprire le porte all'immigrazione, al contrario dei vicini Stati Uniti. Non è quindi solo retorica se si pensa che il governo messicano, del populista di sinistra Andrés Manuel López Obrador, stia operando con l'obiettivo di investire sul settore dell'occupazione al fine di creare più posti di lavoro per i propri cittadini, incentivando anche gli stessi migranti a prendere in considerazione l'ipotesi di restare nel paese. A questo proposito si ricorda che
inizialmente il governo messicano, mosso anche dall'intento di limitare un'avanzata disorganizzata, annunciò il particolare piano “Estas en tu casa”: un progetto piuttosto acerbo, in cui si invitavano i migranti della carovana a stanziarsi in modo permanente nelle regioni del sud del Messico (Chiapas e Oaxaca) in cambio di possibili soluzioni alle questioni da loro poste. In realtà è chiaro che le risorse offerte dal Messico, segnato anch'esso da importanti flussi migratori interni diretti verso il nord America, siano piuttosto contenute se comparate a quelle degli Stati Uniti, prima potenza mondiale, e per questo motivo molti dei migranti non si mostrano intenzionati ad accettare l'offerta e a cambiare quella che è stata prefissata come meta iniziale, vista ora sempre più vicina all'orizzonte. L’impatto A metà Novembre le prime carovane arrivano nella capitale Città del Messico dove le autorità allestiscono un centro di accoglienza all'interno dello stadio dell'impianto sportivo di Mixhuca, preparando riserve di cibo, assistenza medica, legale e psicologica per le migliaia di persone. Da qui, con la consapevolezza di mirare ad un obiettivo sempre più concreto, comincia però una disordinata dispersione dei gruppi formando un'avanzata disomogenea che punta al confine con gli Stati Uniti. Tijuana, che si affaccia sulla bassa California ed è da sempre storica prova di ingresso per gli stessi messicani, viene raggiunta lentamente dai primi migranti consapevoli di far parte di un vero e proprio fenomeno sociale, ma anche del fatto che, di fronte Scomodo
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alle difficoltà legate al controllo americano, il loro destino sembra poggiarsi ancora una volta nelle mani di chi occupa le poltrone della classe politica. Oggi la situazione non conosce un epilogo reale: finché il centro America non sarà in grado di offrire un futuro migliore, le persone continueranno ad emigrare, e i confini nordamericani continueranno ad essere meta di molte persone che nel frattempo restano ancorate alla speranza di un cambiamento concreto nelle loro vite. L'esodo porta con sé inevitabilmente una crisi umanitaria che incentiva le Onlus e le organizzazioni internazionali ad agire continuamente in nome della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, che proprio il 10 dicembre ha celebrato i 70 anni dalla sua adozione da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Secondo le testimonianze rilevate da UNICEF molti dei bambini che viaggiano da soli mostrano chiari segni di angoscia e rischiano di subire delle conseguenze psicosociali. Per questo motivo l'organizzazione non ha esitato ad intervenire concretamente sul territorio dando il via a varie iniziative, ludiche e non, al fine di assicurare un benessere a chi nel pieno della propria infanzia è costretto ad un notevole stress fisico e mentale. Amnesty International auspica il rispetto dell'art. 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che attribuisce ad ogni individuo libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni stato, condanna poi l'utilizzo di ogni forma di violenza, e opera per il rispetto dell'integrità e della sicurezza delle persone che stanno emigrando. Un forte impatto sociale, nonché Scomodo
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un insegnamento significativo, è offerto anche dalle numerose iniziative personali di coloro che, durante il passaggio nelle proprie città delle migliaia di persone che stanno emigrando, ha deciso di non vedere un invasione, ma piuttosto si è mobilitato per la coesione e per l'aiuto degli ultimi. Ai lati della strada, nel corso della marcia, ci sono le storie di coloro che nella semplicità dei gesti hanno deciso di aiutare il prossimo donando acqua, cibo, vestiario ed ogni sorta di oggetto che pur avendo un valore futile sul piano materiale, ne rappresenta uno molto più grande sul piano umanitario.
Epilogo? Il 2018 si conclude con discutibili critiche alle disposizioni del Global Compact dell'ONU, che riconosce l'immigrazione come diritto fondamentale di ogni essere umano. Quello sull'immigrazione è un discorso che viene affrontato ormai da anni e che rappresenta un argomento talmente ampio da risultare difficile da comprendere in tutte le sue sfumature. Quasi sempre nell'affrontare il tema dell'immigrazione si utilizza un approccio al problema in semplici termini di “giusto o sbagliato”, “favorevoli o contrari” a questo fenomeno, riducendo a semplice dicotomia di pensiero
un argomento che merita sicuramente un'analisi da più prospettive. Provando a mettere in secondo piano le ideologie politiche che influenzano sicuramente il pensiero di ognuno, dev’esserci la consapevolezza comune che un problema, se non affrontato alla radice, rischia di essere semplicemente arginato temporaneamente ma di fatto non risolto definitivamente. L'Occidente deve cominciare ad accettare l'ipotesi che la presenza di certi fenomeni migratori di massa sono da considerare anche il risultato di una politica estera (o coloniale) attuata per anni, e che ora si ripresenta per saldare il conto. Da un punto di vista della sfera umana è necessario provare a superare quella limitata sfera di interessi puramente politici ed economici, e confrontarsi con la realtà pratica costituita da storie di vita degli immigrati che sono innanzitutto persone, e non semplici individui schedati e lasciati fuori da quelle mura, costruite in una realtà immaginaria, oltre cui la società – e la politica, se è vero che ne è il suo riflesso – non riesce a vedere. Sono le storie delle persone che arricchiscono realmente le culture dei popoli, i muri possono dividere, ma la storia siamo noi, e nessuno si senta escluso.
di Jhonathan Ruiz 31
Parallasse La rassegna stampa critica di Scomodo
Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.
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La capacità di rimanere costantemente attenti su una questione in un intervallo di tempo, ben riassunta dall’espressione anglosassone “attention span”, è una delle più grandi questioni che hanno a che fare con il nuovo mondo dell’informazione, in costante evoluzione. Nel grande schema dell’evoluzione umana, se le implicazioni di un attention span più corto siano positive o negative non è questione in grado di essere diramata in poche pagine, ma sicuramente le ripercussioni diventano chiaramente identificabili nel mondo dell’informazione. L’esempio più emblematico portato da questo mese è l’attentato di Strasburgo. L’evento in questione infatti non solo è rappresentativo di come ci si abitui a notizie che si ripresentano sempre medesime, ma anche di come l’attention span sempre più corto porti ad eliminare dalla visibilità tutte quelle notizie con non costituiscono nulla di inusuale rispetto al continuo
flusso di informazioni. Le prime pagine diventano quindi un’echo chamber di notizie che divengono esasperate, anche spesso soprattutto - in virtù degli interessi particolari delle parti giornalistiche in questione. A proposito del clan Casamonica Il 20 novembre è divenuta una giornata storica per la città di Roma: grazie ad un’operazione in sinergia fra Comune e Regione Lazio, che ha visto coinvolti ben 600 vigili urbani, sono stati sgomberati 8 villini abusivi nella zona del Quadraro, appartenenti alla famiglia criminale più celebre della Capitale: i Casamonica. Era da quasi 3 anni che le scorrerie del clan romano non aprivano le pagine della cronaca nazionale, ovvero da quando era stato celebrato lo sfarzosissimo funerale di Remo Casamonica lungo le vie del centro. Viene da pensare dunque che dinanzi ad una operazione di un tale successo, oltretutto assai decantata dalle varie forze politiche che in qualche modo vi hanno preso parte (anche chi con questo sgombero non ha avuto niente a che a fare, come il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha voluto rilanciare la notizia sui propri canali social). La risposta in realtà non è così ovvia: la notizia è risultata infatti occupare una parte delle prime pagine dei quotidiani nazionali, ma non per la motivazione che ci si possa aspettare. Infatti, a rendere appetibile la notizia per i giornali non è stato tanto che dopo ben 25 anni di immobilismo (da parte sia del Comune che da parte della Regione) sia stato portate al termine lo sgombero di uno dei centri logistici più importanti Scomodo
Dicembre Maggio2018 2018
del clan, ma la gara che si è sviluppata al seguito della vicenda da parte delle forze politiche nazionali per accaparrarsi il merito dell’operazione. Solo grazie a questa chiave di lettura, la vicenda ha trovato spazio su alcune prime pagine, tra cui spiccano quelle di Repubblica e Il Messaggero, ma non è riuscita a vincere la concorrenza della imminente bocciatura del DeF da parte della Commissione Europea e il nuovo sequestro della nave Aquarius. Queste due notizie infatti, rispetto alla precedente, si prestano assai meglio per portare avanti le linee ideologico-editoriali dei quotidiani nazionali, risultando assai divisive, mentre la notizia dello sgombero non riusciva ad adempiere al meglio al compito di portare acqua ai “mulini editoriali” della stampa nazionale. In questo caso è giusto affidarsi alle parole dell’ex Assessore alla Legalità della Giunta Marino, Alfonso Sabella, il quale riferendosi agli sgomberi ed abbattimenti di stabili abusivi ha affermato che essi costato molto e non riescono ad attrarre consensi, anche se in realtà sperava che ciò non si applicasse anche nei confronti di un'operazione contro una delle famiglie mafiose più influenti del territorio laziale.
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A proposito della strage di Corinaldo La mattina dell’8 Dicembre, la popolazione intera è stata risvegliata dalle terribili notizie che erano arrivate nella notte dalla provincia di Ancona, più specificatamente dalla città di Corinaldo. In un locale, “La lanterna Azzurra”, mentre un nutrito gruppo di giovani attendeva l’inizio di un dj set del trapper Sfera Ebbasta, l’utilizzo di un gas urticante ha provocato un forte panico generale, che ha spinto le persone verso le uscite di sicurezza: a causa della calca presente presso una di queste, le balaustre che dividevano i giovani da un fossato hanno ceduto, facendo precipitare molti di essi all’interno del suddetto fossato. Sei persone sono così morte schiacciate al di sotto del peso della folla urlante, in una delle peggiori tragedie che hanno colpito l’Italia negli ultimi anni. Tutti i quotidiani nazionali hanno aperto le proprie prime pagine con questa notizia, evitando però alcun tipo di strumentalizzazione della notizia per i propri fini economico-editoriali (per questo, sono state scelte altre notizie, come il Fatto Quotidiano che ha dato un maggiore spazio alla manifestazione no Tav a Torino). Quello che è possibile notare sfogliando tutte le prime pagine è che i vari giornalisti che hanno trattato la vicenda difficilmente si sono esentati dal portare avanti una sorta di caccia alle streghe per scovare il colpevole di questa tragedia: sia l’8 che i giorni successivi, tutti i giornali hanno riportato le tesi che sembravano più accreditate per spiegare ciò che era avvenuto nel locale di Corinaldo. Molti hanno portato avanti la tesi che il dramma si fosse coltivato
a causa dell’eccessivo numero di biglietti perduti (teoria che Repubblica già sosteneva il giorno immediatamente successivo alla tragedia, ma che con il tempo si è rivelata totalmente infondata), altri hanno invece accusato il servizio di sicurezza del locale per aver impedito il corretto funzionamento delle uscite di emergenza o per non aver gestito nella maniera corretta la situazione di panico. Altre “voci autorevoli” hanno invece avuto la geniale idea di sfruttare questa tragedia per attaccare le nuove generazione (ree di passare a 14 anni le proprie serate in discoteca) o direttamente l’artista Sfera Ebbasta, assolutamente non coinvolto all’interno della vicenda che viene sfruttata solo per proseguire una quella simpatica crociata anti-rap che oramai contraddistingue il nostro paese da più di 10 anni. L’esempio migliore di questo è l’articolo che ha lanciato il Fatto quotidiano sul suo Blog ad una settimana precisa dalla tragedia, che non si curava di analizzarla nella maniera più assoluta ma si interessava unicamente a sfruttarla per attaccare il rapper dell’hinterland milanese e i suoi colleghi per i loro testi misogini e che incitano al consumo di droghe. Altro esempio è che riguardo alla tragedia è stato chiesto il parere di un esorcista, il quale ha accusato Sfera di far parlare il demonio tramite i propri testi (come se il parere di un esorcista fosse pertinente nel discutere sulla morte di 6 persone all’interno di un locale). La memoria e la ricerca di giustizia per le vittime passano dunque in secondo piano per quanto concerne la narrazione dei giornali quotidiani, per cui è assai più vitale proseguire imperterriti 33
nella ricerca di un colpevole da dare in pasto alla rabbia dei propri lettori, che sia esso l’artista che canta sul palco o i genitori dei ragazzi morti schiacciati. Non importa ricercare le cause di fondo della vicenda ed analizzare tramite inchieste il complesso mondo che si cela dietro eventi di questo genere, ma solo continuare a guadagnare denaro dalla rabbia popolare, che altro non attende se non il nome dei “carnefici” delle 6 vittime per poter procedere con il loro passatempo preferito: la gogna pubblica sul web. La strage di Corinaldo risulta dunque terribilmente esemplificativa del cambiamento che sta subendo il mondo dell’informazione, talmente preso dalle sete di guadagno che risulta capace di diffondere notizie false e mettere a repentaglio la carriera e il lavoro di innocenti pur di poter soddisfare le voglie dalla pancia dei propri lettori. Oltretutto, essa ci fa capire come quella logica dominante nei genitori dei nostri genitori, che vedeva nei gruppi metal la reincarnazione in terra di Satana, non sia mai morta con l’ avanzare degli anni, ma che abbia solo cambiato target, dirigendosi verso questi giovani trappers capaci di parlare unicamente di canne e droga. Forse quando tutti noi ci rassegneremo ad ascoltare musica classica, allora questa dialettica paternalistica cesserà finalmente di esistere, anche se è sicuramente meglio che essa continui ad esistere ma che ognuno si senta libero di fare ciò che vuole. A proposito dell’attentato di Strasburgo Gli attentati sono spesso tirati in ballo in questa rubrica per descrivere fenomeni mediatici particolarmente rappresentativi 34
della realtà giornalistica contemporanea. Dalla differenza che c’è tra testate più o meno diffuse alla differenza rispetto alle linee editoriali, è possibile comprendere le caratteristiche principali del processo di interpretazione e fabbricazione della notizia. Sebbene negli anni scorsi l’attenzione fosse sugli approcci interpretativi in quanto tali, quest’anno l’attentato è ottimo per notare quanto la narrazione di un fatto simile non rappresenti più una materia di rottura e quindi non si presti bene alla “notiziabilità”. Già dal giorno successivo all’attentato le prime pagine dei giornali non sono state tanto rumorose come invece furono spesso - nel presentare la notizia. Oltre allo spazio sulle prime pagine un altro fattore che concorre è il tempo. Sulle prima pagine è possibile trovare qualche strascico solo per i tre giorni consecutivi all’evento, e solo grazie alla presenza di altri fattori che presentavano un certo tasso di notiziabilità (dal coma e la successiva morte del giornalista italiano Antonio Megalizzi alla rocambolesca fuga dell’attentatore), un intervallo di tempo assai breve se relazionato a quelli dedicati per precedenti attacchi terroristici di medesima matrice. Le immagini e i video arrivati non sono così differenti da quelli di un qualsiasi evento simile e tuttavia il risalto mediatico fornito non è il medesimo rispetto a quello passato. Infatti più che essere una contraddizione si tratta di un fenomeno naturale - quello per cui la ripetuta esposizione a determinati agenti determina uno stato di assuefazione. L’attenzione umana non è da meno e una così grande esposizione a notizie simili avrebbe già causato un generale calo dell’attenzione a
riguardo ma lo è ancor più in un contesto nel quale ogni cosa diventa questione di secondi. Sarebbe interessante notare come forse proprio per questa bassa capacità di concentrazione prolungata le ripetute notizie di attentati terroristici non causino una psicosi generale quanto un progressivo intorpidimento nei confronti della questione.
Il giorno 12 dicembre non tutte le testate hanno la notizia come elemento principale della prima pagina. Corriere e Repubblica aprono con l’attentato rispettivamente con titoli “Spari sulla folla del natale” e “Il terrorismo torna in Europa, attacco al natale di Strasburgo”. Il Giornale invece, come già altre volte, preferisce identificare subito la matrice dell’attentato terroristico con il titolo “Islam, torna il terrore”, con un occhiello dal carico assai patemico: “Attacco al cuore dell’Europa”. Interessante invece l’approccio di Libero che punta più sull’indignazione generata da un’altra notizia “Macron cala le braghe noi tiriamo la cinghia”, in relazione alle prospettive di spesa di Francia e Italia. La notizia dell’attentato rimane comunque in prima pagina, sebbene non in primo piano, con un titolo che più che sulla matrice dell’attentato pone l’accento sulla provenienza
dell’attentatore “Nordafricano fa una strage al mercatino di natale”. Un titolo simile a quello del Giornale invece si trova su La Verità che titola “Attacco al cuore dell’Europa”. Altre testate non presentano la notizia che probabilmente si è verificata dopo la chiusura del numero, mentre altre la presentano - come Libero - in secondo piano. Ad esempio, La Stampa fa una scelta unica, condivisa solo dal manifesto, che apre con le parole di Salvini in Libano in difesa di Israele e di attacco ad Hezbollah. Diventa infatti un’opportunità per riportare il discorso sulle questioni di politica interna attraverso un titolo come “Libano, scintille Salvini - Di Maio” che troviamo appunto sulla Stampa. Le parole di Salvini vengono quindi estratte solo nel loro valore relativo alle tensioni di governo, argomento caldo da ormai mesi sulla grande maggioranza dei quotidiani italiani. Il Manifesto invece titola diversamente con “Imboscata di Salvini ai soldati italiani” e un occhiello “«Hezbollah terroristi» in visita ad Israele il ministro spara sulla missione di pace” spostando l’attenzione sulle parole in sé e quindi sul processo di pace e la missione italiana il Libano. Subito dopo, in primo piano, il Manifesto decide di inserire - come solito nel suo format di prime pagine - un’enorme immagine dell’incidente al TMB Salario a Roma. Il 12 dicembre è infatti il giorno successivo all’incendio dell’inceneritore di rifiuti TMB Salario a Roma, che grazie alle fotografie scattate di una grande nube, presentava un più alto grado di notiziabilità rispetto ad anonime e confuse foto dei mercatini di natale (o soldati) di Strasburgo durante l’attentato terroristico.
Scomodo
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Dicembre 2018
Dicembre 2018
A proposito della manovra finanziaria
Le prime pagine del mese sono state dominate dalla notizia, trascinata per giorni, della manovra finanziaria. Si tratta della notizia caratteristica dell’agenda giornalistica dell’intero periodo precedente all’approvazione della manovra. Il susseguirsi di informazioni spesso contraddittorie e nebulose ha potuto presentare materiale per titoli in grado di fornire il tanto ricercato effetto shock. Le interpretazioni si sono sovrapposte alle analisi di fatti che emergevano di giorno in giorno in maniera disordinata e caotica. Il 2,4% di deficit che diventa 2,04%, le discrepanze tra i due principali attori del governo, Lega e Movimento, su temi chiave e infine la contesa con l’Unione Europea sono state centrali nella narrazione che, ormai alla fine di dicembre rimane ancora confusa. La possibilità di aprire una procedura di infrazione contro l’Italia per deficit è stato il motore della narrazione e, dopo le lunghe proteste dei Gilet Gialli e le promesse di Macron, la possibilità che la Francia possa fare deficit non essendo punita dall’Europa è stata la notizia perfetta per aprire un mondo di narrazioni interpretative dei fenomeni. Il 19 dicembre al di
là dei titoli assai colorati come quelli del Fatto Quotidiano “L’apocalisse è rimandata: niente sanzioni UE”, del Giornale “Fisco ancora più ladro” (in relazione all’aumento del tasso di interesse su multe e cartelle esattoriali), o ancora meglio di Libero “Tria annuncia l’accordo con l’Europa ma perfino Conte fatica a credergli”, il resto della stampa presenta una situazione che sembra andare per il meglio, come il Corriere con “Intesa con l’Europa sulla manovra” o Repubblica “Manovra, c’è intesa a Bruxelles”. Emblematico il titolo della Verità dell’11 dicembre per cui “Macron si consegna ai Gilet Gialli” con sottotitolo “[...] per l’Italia è un’ottima notizia”. La vicenda viene infatti interpretata come legata con la possibilità di spesa dell’Italia, ma anche quello già visto di Libero del 12 dicembre “Macron cala le braghe noi tiriamo la cinghia”, sempre legato alla possibilità di spesa del governo italiano in relazione a quello francese. Si tratta di un’interpretazione onnicomprensiva di questioni che invece hanno sfaccettature ben più determinate e particolari, ma che comunque viene presentata per fornire una narrazione coerente e adatta alla linea editoriale delle testate in questione.
di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol 35
di Martina Saladini Foto di Emma Terlizzese
SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA
EX ITALGAS Superficie totale dell’area: 100.000 mq Anno di costruzione: 1911 Proprietà: Italgas Anno di abbandono: 1960 circa
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APPENA STACCATI GLI OCCHI DAI VECCHI MATTONI DELLA CIMA DI QUEL . MURO CI SI E PRESENTATO LO SPETTACOLO DEGLI SCHELETRI IN CEMENTO ARMATO DI UNA DECINA DI EDIFICI, ALCUNI MOLTO GRANDI, ALTRI . PIU MODESTI
S
cavalcare non è stato semplice, anche perché appena saliti a cavalcioni sul muro, nel tratto dove il filo spinato si interrompeva, ci siamo trovati a fissare un vuoto di 5 metri che, per gente di poca esperienza e con poche bravate alle spalle, è un’altezza non indifferente. La scala che avevamo con noi, legata ad una corda, si è staccata ed è caduta tra i rovi e nell’erba incolta che si estende per tutti i quasi 100.000 metri quadrati che ospitano l’ex stabilimento dell’Italgas, nel
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quartiere Ostiense, proprio sotto il Gazometro. Con una gamba che guardava la strada pedonale, dove ad Ottobre dell’anno scorso è stata creata la quinta Notte Scomoda, e con l’altra a penzoloni sui fili spinati e sulle erbacce. Appena staccati gli occhi dai vecchi mattoni della cima di quel muro ci si è presentato lo spettacolo degli scheletri in cemento armato di una decina di edifici, alcuni molto grandi, altri più modesti, inutilizzati da anni, e con i fili di ferro che sbucavano dalle travi crollate e mutilate dal tempo. Sono ciò che ri-
mane dell’ex Stabilimento del Gas a Ostiense. La storia Quando fu costruito il Gazometro, nel 1937, esisteva già da 26 anni un enorme ed avanguardistico stabilimento del gas che contava edifici e tecniche di trattamento del combustibile tra le più moderne in Europa. Quando si passò via via sempre di più al metano e si cominciarono a costruire strutture più moderne, invece di riformare quelle già esistenti, il
destino del Gazometro e dello Stabilimento del Gas fu quello di un inevitabile abbandono e degrado. E’ in corso un progetto che promette di riqualificare l’intero complesso, ma i lavori non sono iniziati ed è tutto fermo da anni, mentre tutti gli edifici vanno sempre più in rovina. Al posto di ciò che vedete nelle foto dovrebbero sorgere la “Città della Scienza” di Roma 3, che dovrebbe passare anche dentro al Gazometro, e la biblioteca centrale dell’Università di Roma 3, con all’esterno un parco renda l’ambiente più ospitale. 39
IL PRIMO EDIFICIO A. SALTARE AGLI OCCHI E UNA GRANDE TORRE IN CEMENTO ARMATO COMPOSTA DA TRAVI CHE SI INCROCIANO SECONDO LO STESSO SCHEMA DEI TUBI DI FERRO DEL GAZOMETRO
I
l progetto comprendeva anche una “Casa dello Studente” per 600 studenti e riutilizzazioni private di vario tipo. Aiutandoci con una provvidenziale scala di legno appoggiata al muro da chissà quale nostro angelo custode, ci siamo calati tra l’erba alta che, passo dopo passo, ci tratteneva a tratti per i vestiti con le spine dei rovi che rivestono tutta la superficie dell’ex stabilimento del gas.
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La struttura Il primo edificio a saltare agli occhi è una grande torre in cemento armato, composta da travi che si incrociano secondo lo stesso schema dei tubi di ferro del Gazometro. Quella che doveva probabilmente essere una cisterna sopraelevata attraverso cui passava o il gas o l’acqua. Accanto, un edificio rettangolare della stessa altezza, le cui fondamenta divorate dai rovi e transennate dalla rete arancione erano impraticabili. Questo primo complesso che ci siamo trovati subito sulla destra era adibito
ai magazzini e piazzali per il carbone coke e ai forni di distillazione. Abbandonata l’idea di introdurci in quei primi “mostri” attraverso scale di ferro pericolanti e in parte crollate, sulla nostra sinistra si stagliava fatiscente e malandato un ponte di cemento armato, materiale che è l’assoluto protagonista dell’intero complesso, divorato dalla prolungata esposizione all’aria aperta per 50 anni. A guardare bene, entrambe le estremità non appoggiano su nulla e concludono il passaggio, che taglia a metà l’intera struttura, con 6-7 metri di vuo-
to sull’asfalto in un caso, sui rovi nell’altro. Passeggiando tra questi vecchi edifici ci si accorge di come alcune strutture siano assolutamente inutili ed inutilizzabili, ormai ancora intere per miracolo, senza che se ne capisca l’originale funzione. Come questo ponte che non appoggia su nulla, dall’una come dall’altra parte, e che si regge in piedi solo in attesa di un probabile crollo. Passate quelle grigie travi che sputavano fuori i cordoni di ferro dal cemento, siamo entrati nella parte più lontana dal muro che avevamo scavalcato. 41
S
Le voci degli operai e i rumori delle macchine lasciano intendere che la zona, nel complesso, non è abbandonata e che si sta lavorando molto intorno all’ex Stabilimento del gas, che è invece in stato di completo disinteresse istituzionale e lasciato a se stesso da 50 anni. Ci si mostrano due edifici in sequenza: uno lungo e stretto nasconde dietro di sé l’altro, piccolo ma alto. Il primo è quello che doveva essere un corridoio coperto che adesso è nello stesso stato di tutti gli edifici
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, L EX-STABILIMENTO DEL GAS ERA, AI NOSTRI OCCHI, UN ALTRO EVIDENTE ESEMPIO DI COME , IL SONNO DELL AMMINISTRAZIONE GENERI MOSTRI E DI. COME PER ANNI . SI E PENSATO PIU A COSTRUIRE PER IL MERO COSTRUIRE E NON PER MIGLIORARE . LA CITTA che si trovano nell’ex-Stabilimento, ossia in piena rovina. Ed era, con nostro rammarico, impenetrabile. Nel secondo siamo riusciti ad entrare e, attraverso una scala di ferro di dubbia resistenza, siamo saliti al primo piano di quell’edificio con il tetto a spiovente di cui sono sopravvissuti solo i cordoni arrugginiti, che davano quasi alla struttura la forma di una chiesa trasparente. Più volte abbiamo visto buchi per terra e voragini che rendono la zona davvero pericolosa, benché davvero suggestiva.
Conclusioni L’ex-Stabilimento del gas era, ai nostri occhi, un altro evidente esempio di come il sonno dell’amministrazione generi “Mostri”. Di come per anni si è pensato più a costruire per il mero costruire e non per migliorare la città. I risultati sono questi enormi complessi che sono lasciati alle erbacce e alle intrusioni fortunose di qualche ragazzo curioso.
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L’acqua c’è. E dove c’è acqua c’è vita. Intervista a Gianni Zanasi, regista di "Troppa Grazia"
L’incontro fantastico e straordinario tra una donna che campa (a stento) con la terra e la Madonna. Sì, proprio la Madonna, nel mondo dove Dio è morto. Una commedia di rabbia, crisi esistenziali, fraintendimenti e follie. Tra problemi col lavoro, rottura con il fidanzato, litigi con la figlia, stanchezza umana e professionale, ci mancava solo la Madonna. Veramente, Troppa Grazia. Gianni Zanasi ci racconta il cinema italiano autoprodotto che ci sorprende ancora. E ci fa sognare un mondo diverso, svelandoci una verità “nascosta in piena vista”. continua a pag. 48
CULTURA
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Edoardo Massa
Edoardo Massa è un llustratore brianzolo, ha studiato comunicazione all'ISIA di Urbino, illustrazione alla Escola Massana di Barcellona, torna a Urbino e tutt'ora studia illustrazione, dividendo la sua vita fra lavori da freelance e i progetti da studente. Co-fondatore della rivista PELO Magazine e illustratore per la rivista The Passenger edita da Iperborea, anche se non c'entra niente ci tiene a dire che ha fatto il giostraio e per un periodo caricava e scaricava fusti di birra dalla Lombardia al Piemonte. Ultimamente per disegnare ascolta la scena Emocore della bassa romagna e le icone pop italiane anni 80. Da tre anni segue l'organizzazione dello scribing al Festival della Scienza di Genova, ogni tanto una cosa seria, per fare contenta nonna!
Sei un illustratore di PELO magazine, rivista illustrata e indipendente, una chicca nel panorama editoriale delle autoproduzioni italiane. Come è iniziata questa esperienza con loro? “Tutto è iniziato con un lavoro di gruppo, anzi di classe. Non della mia classe, della specialistica illustrazione all’ISIA di Urbino. Si è fatto un brainstorming molto serioso, molto cerebrale, su come realizzare un magazine in cui c’era la voglia di mettersi in mostra, ma allo stesso tempo mantenere una coerenza professionale: PELO magazine voleva essere un punk pettinato, con l’obiettivo di confezionare un prodotto elegante nel mondo dell’editoria indipendente. Nasce così: mi hanno chiamato, me fortunato, perché gli mancava una doppia. Io non dovevo essere nel progetto ma conoscevo i ragazzi che ci lavoravano, c’era simpatia reciproca e affinità nel lavoro e quindi sono entrato a diritto tra i membri organizzatori. CULO.” Hai vissuto degli anni all’estero: come ti ha influenzato stilisticamente la tua esperienzaa Barcellona? Barcellona mi ha fatto disegnare. Inizialmente ero convinto di dedicarmi alla grafica, a impaginare libri, a un livello molto mediocre se non scarso. Barcellona mi ha totalmente sciolto: spingono molto sull’editoria indipendente e sullo “strano”, cioè fanno cose matte, ma matte matte matte. Anche lì c’è poco monetare però le realtà indipendenti sono molto presenti. Nella scuola che ho frequentato ho conosciuto due professori che sono veramente due cavalli di battaglia. È un posto veramente molto simile all’Italia, c’è tanto cuore, pochi investimenti grossi, anche se forse a Barcellona si investe di più nei piccoli. Hanno anche questa bellissima mentalità da aperitivo, che non chiamano aperitivo eh, non riescono a concepire questa cosa, ma cascasse il mondo, si lavora dalle dieci di mattina alle otto di sera e, finito di lavorare, ti fai tre o quattro birrette.”
Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 46
Il mestiere di fare “disegnini” è uno dei più antichi del mondo dal punto di vistaprofessionale ma l’ambito della grafica appartiene a un ramo di studi molto moderno. I grandi maestri dell’illustrazione o sono autodidatti o hanno imparato il mestiere a loro volta da un altro maestro, in un’ottica molto da “bottega”, mentre i giovani aspiranti grafici e illustratori, sono in continuo aggiornamento, frequentano vari corsi, tantissimi workshop, e tu ne sei l’esempio adatto. Infatti nonostante la tua evidente maturità stilistica continui a metterti in gioco e a studiare, come mai? “Ora sto studiando all’ISIA di Urbino che è un’ottima scuola, la parte interessante è che nessun professore ha una cattedra, sono tutti professionisti giovani. In questo momento non c’è più la possibilità che l’università ti dia il lavoro, però è rimasta la mentalità. Uno si iscrive all’università e
finita l’università si aspetta di trovare tutte le porte aperte. Finita l’università di grafica non hai un lavoro e devi creartelo con un po’ di tempo, perché è piu che mai un' esigenza però se non hai le competenze il lavoro non te lo crei, quindi all’università ci vai, fai corsi, workshop, Erasmus, a fare un’esposizione anche se non troppo curata, non troppo curata, vai un po’ a toccare tutto, a mettere le mani dentro tutto e vai a farti competenze, anche per capire i rischi. Studiare grafica è anche studiare come funziona l’occhio e come funziona la percezione dell’immagine, quindi gli schemi mentali con cui si crea un dialogo, discorso, una comunicazione in generale. Pensare di entrare nel mercato è stupido perché è un mercato morto, chi lavora in editoria è chi cerca di mantenerla viva, però la risposta del pubblico non è come negli anni ’80, ci sono anche altre cose più interessanti. Questa è la cosa più divertente, devi pensare di non entrare nelle leggi di mercato, lo studio te lo devi quasi sempre creare tu. L’università ti dà le competenze e non il lavoro, le competenze ti permettono di avere un approccio crossmediale e di applicarti. Le università di grafica, di illustrazione e di comunicazione in generale ti fanno studiare una cosa bellissima che è la percezione visiva, che è il tuo rapporto con l’immagine e se devo essere onesto la vista è proprio il senso più fico!” Recentemente hai partecipato al Festival della scienza a Genova, un nuovo modo di concepire il mestiere dell’illustratore, un po’ vintage, un creativo al servizio della scienza, un racconto d’immagini per aiutare la comprensione delle parole “difficili”. Descrivici le possibilità di questo nuovo modo d’interazione. “Di quello che mi hanno insegnato in ambito accademico non ho fatto nulla, quello è acquisire competenze e poi applicarle, in quel momento lì noi facevamo in diretta, improvvisando, perché non ci si confrontava prima con gli scienziati. Facevamo appunti visivi, in gergo si chiama scribing, che non è live painting ma una combo fra fumetto e illustrazione in un live show. Sono immagini che focalizzano quello che è stato detto nella conferenza, per fare appunto memoria visiva, quindi le persone lì, finita la conferenza, andavano e si ricordavano tutto il discorso. E lì era interessante perché c’erano tre punti, la parte scientifica, quello che diceva lo scienziato, interessare il pubblico e senza rubargli troppo spazio c’era anche la nostra parte autoriale. Lavorare al fianco della scienza è davvero bello. Per esempio lo sai che spesso le comete che vedi sono la cacca degli astronauti? ”
“La copertina è nata perché voi mi avete dato il tema Boldi e De Sica che è proprio per me: sono un grande fan del grottesco italiano, infatti ho dei baffi importanti. Le paroline fluttuanti nascono da una mia incapacità a staccarmi da me stesso, ovvero quello di dire tante cose e poi cercare una sintesi e quindi in questo caso la cosa andava a pennello: mi sono rivisto Vacanze di Natale ’83, un film che può essere rivalutato, come è stato rivalutato Diego Abatantuono. Uno spaccato perfetto degli anni 80, mio padre era uguale: con le Timberland, un tamarro. Ho giocato con gli stereotipi che creano un genere, andando a riordinare i pensieri spontanei, la gnocca, il cumenda, disegnandoli. Ho voluto lavorare sugli stereotipi italiani e raccontare infiniti mondi.” Qual è il tuo cinepanettone preferito? O sei più tipo da cinepandoro? “Gag un po’ fiacca, però mi ha strappato un sorriso. Voglio rimandare subito alla pagina Facebook Panettone di merda muori, in cui i post sono offensivi e insultano i canditi. Il mio cinepanettone preferito è estivo, è Sapore di Sale: la crew di sedicenni che che si incontra in Toscana, la prima volta in cui fanno sesso, la prima volta in cui si fumano le canne, le prime volte in generale, Jerry Calà che a trent’anni stempiato che interpreta un sedicenne. La scena finale è perfetta: si ritrovano vent’anni dopo, tutti invecchiati, Jerry Calà e il fratello Christian de Sica,ma sono rimasti due cazzoni, gonfi di alcol con due squinziette affianco.Però c’è una virgola drammatica quando Jerry Calà vede Lei, il grande amore che aveva trattato male, e la osserva con quel suo sguardo patetico sotto le note di Celeste Nostalgia. Spettacolare.”
di Anna Leonilde Buccarelli e Maria Marzano
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n° 17 16
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Ti ringraziamo tantissimo per la copertina che ci hai donato: nella tavola è evidente la presenza di un flusso di coscienza, tutte queste paroline fluttuanti come nascono?
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ianni Zanasi (Vignola, 1965) è un regista italiano indipendente. Dopo aver studiato per due anni filosofia a Bologna, si iscrive a un corso di teatro e poi a un corso di cinema diretto da Nanni Moretti, dove conoscerà Rita Rognoni, con cui fonderà nel 1994 la Pupkin Production. Consegue il diploma di regia a Roma al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1992, per esordire nel 1994 con Nella Mischia, che verrà selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes, mentre nel 1999 il suo A Domani vince il Leone d’oro e il Leone d’argento per la Migliore Regia. Nel 2009 con Non pensarci vince il David di Donatello per il Miglior Attore non Protagonista (Giuseppe Battiston) e altri premi all’estero, nel 2016 il suo film La felicità è un sistema complesso viene candidato al David di Donatello come Miglior Colonna Sonora (Torta di noi di Niccolò Contessa) e di nuovo Miglior Attore non Protagonista (Giuseppe Battiston). Gianni Zanasi si sta inserendo silenziosamente nel panorama del cinema italiano, con una creatività che rinfresca la produzione nostrana, guidato da una straordinaria originalità. Non è uno dei grandi nomi noti del cinema nazionale, ma di fatto la sua proposta cinematografica è forse la più innovativa e valida tra quelle italiane attuali. Con Zanasi scopriamo che il cinema delle piccole case di produzione indipendenti in Italia è ancora vivo, e può mirare in alto. Probabilmente la sua opera migliore è l’ultimo film, uscito quest’anno, Troppa Grazia, che è stato selezionato alla Quinzaine di Cannes. Appena l’ho visto – è uscito al cinema il
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22 novembre – sono rimasta stupita dall’originalità del racconto, dall’analisi anticonformista con cui Zanasi interpreta il nostro mondo e il vuoto esistenziale della nostra società. Appunto dallo stupore per una proposta cinematografica assolutamente nuova e genuina nasce l’idea di quest’intervista, in cui il regista ci spiega in modo diretto e spontaneo le idee che lo hanno guidato nella realizzazione del film. Ci incontriamo nel suo studio dell’Oplon Film, nel cuore di Monteverde. Giovanile e alla mano, si fa dare del tu e mi chiede di spiegargli la realtà di Scomodo, di cui rimane entusiasta, “perché mi piace chi, oltre a lamentarsi, fa qualcosa per cambiare la situazione”. Mi spiega il processo creativo che lo ha portato a pensare un film così particolare e sopra le righe, in una conversazione che tocca con profanità il tema del sacro, che scherzando sulla realtà riflette sull’uomo, e criticando la società propone come alternativa, semplicemente, un sogno, un gioco fanciullesco, ma maturo.
Troppa Grazia offre diversi spunti per una lettura critica del presente, un presente difficile, fatto di precariato e di incertezze. Morta la fiducia nel progresso e nel modernismo, che con la crisi che stiamo attraversando si
sono rivelati enormi menzogne, il precariato di oggi non crede più a nulla, è soffocato dalla ricerca di un mantenimento economico e non sa guardare oltre alle necessità del qui ed ora, perdendo dunque ogni orizzonte alternativo, ogni ricerca di verità, ogni progettualità sul futuro. Come ci spiega Zanasi il presente ci ordina un unico, perverso comandamento: “Non avrai altro presente all’infuori di me”. E questa è la situazione di Lucia (Alba Rohrwacher), la geometra protagonista. La vita di Lucia è una vita che fa acqua da tutte le parti, che sta distruggendo ogni rapporto importante. Si sta lasciando con il fidanzato Arturo (Elio Germano), attraversa un periodo difficile con la figlia adolescente Rosa (Rosa Vannucci), affronta le difficoltà economiche sul lavoro, “un lavoro facile, che possono fare tutti”. Proprio perché è così disperata le viene commissionata un’enorme opera edilizia, coinvolta in vicende di corruzione. Dovrà realizzarla snaturando il panorama collinare su cui è nata e cresciuta, un immenso campo con cui è in “contatto fisico continuo”. E qui le compare la Madonna (Hadas Yaron). Le ordina di distruggere tutto e costruire una chiesa, ma Lucia non crede, non riesce a credere, e pensa di essere folle. Ma alla fine capirà che folle è tutto il mondo che la circonda. Una lotta in cui la necessità economica confligge con l’identità e la storia personale di Lucia, uno scontro interno, della protagonista con se stessa, ed esterno, con la realtà di un mondo falso e corrotto. Un duello a scherma elegante e costante, in cui si discutono i temi della crescita, della ricerca di verità e della fede, che si conclude con un’afferma-
zione positiva: il mondo può cambiare, perché noi lo possiamo cambiare. La responsabilità di trasformare la nostra vita e il nostro mondo sta a noi, non ad altri. Perché là, sotto al campo, dentro al campo, l’acqua c’è, “nascosta in piena vista”.
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Le tue opere cinematografiche sono prodotte da Pupkin Production. Come nasce e che scopo si pone questa casa di produzione? “La Pupkin Production, che più o meno è nata intorno al 19945, l’abbiamo aperta io e Rita Rognoni. Il nome viene da Rupert Pupkin che è un personaggio di un film di Martin Scorsese con De Niro protagonista, The King of Comedy, in italiano Re per una notte, ed è un personaggio completamente folle, un mitomane, bellissimo film. Da lì abbiamo cominciato a produrre e in particolare ad autoprodurre quello che fu il mio primo film, Nella mischia, ambientato sulla Tuscolana. Io e Rita veniamo da Modena e non conoscevamo nessuno quando siamo venuti a Roma, che è una specie di grande peccato originale rispetto a quello che è l’ambiente del cinema romano. Ma nonostante tutto, forse perché siamo bravi, forse perché abbiamo avuto un po’ di fortuna, con questo primo film andammo al festival di Cannes, alla Quinzaine. Così è cominciata tutta la nostra avventura, abbiamo prodotto anche film di altri, opere prime, opere seconde. Con l’autoproduzione abbiamo il totale controllo del denaro, che significa il controllo del tempo e quindi della qualità, ma soprattutto noi sappiamo dove va il denaro, e la nostra politica è che vada il più possibile nel film, senza disperDicembre 2018
sioni scorrette. È abbastanza faticosa e dura, ma ne vale la pena, siamo contenti.” Hai seguito un corso di cinema di Nanni Moretti. Che influenze ha avuto il grande regista sulla tua carriera successiva? “Fu un corso estemporaneo, fu un’idea di Piera Detassis, che adesso è il direttore di Ciak, e di Nanni Moretti. Fu a Modena, dove ci siamo conosciuti io e Rita, per cui a qualcosa è servito (ride). Nanni Moretti venne a trovarci solo un paio di volte perché quell’anno stava girando Palombella Rossa, ma fu interessante come corso perché ci permise di incontrare tanti professionisti che lavoravano con Moretti, ci diede un imprinting a evitare i luoghi comuni e a valorizzare il senso e la sostanza di quello che fai. Considerando che eravamo molto giovani, avevamo vent’anni, per cui non sapevamo nulla, è stato un ottimo modo per incominciare.”
Con l’autoproduzione abbiamo il totale controllo del denaro, che significa il controllo del tempo e quindi della qualità Per la colonna sonora dei tuoi ultimi due film, Troppa Grazia e La felicità è un sistema complesso, hai collaborato con I Cani, con i brani Nascosta in piena vista e Torta di noi. Da cosa nasce questa collaborazione?
“Niccolò Contessa lo tenevo un po’ d’occhio perché anni fa, quando uscì il suo primo album, fu una novità. Sentivo che c’era una sensibilità anche generazionalmente diversa e quindi molto spontanea rispetto alla musica elettronica. E quindi ero attratto, mi piace quando c’è un approccio musicale al film non esattamente tradizionale, ma soprattutto quando c’è la spontaneità, l’autenticità. Poi per lui era la prima volta che faceva una colonna sonora, quindi ci siamo trovati insieme. Trovo che sia un autore vero, che abbia un’intelligenza e una sensibilità particolare. Io gli parlo del film, gli parlo, gli parlo, lui sta zitto e poi mi risponde con la musica. E io sono molto contento. Quindi un’ottima collaborazione.” Quindi, Troppa Grazia. Hai detto che non è un film sulla religione, e in effetti non lo è. L’elemento religioso nel film può essere visto come la rappresentazione di quella capacità di immaginare che ci permette di intervenire direttamente sul mondo per trasformarlo, una capacità che oggi stiamo perdendo? “L’hai detto bene tu, questa capacità di immaginare quello che non c’è, quindi una specie di soffocamento dal quotidiano, dal presente, un presente che ti dice, come una sorta di perverso comandamento: “Non avrai altro presente all’infuori di me”, non c’è nient’altro se non quello che puoi toccare e puoi vedere. E questo è soffocante, è quasi come perdere un senso, la vista, l’udito. Credo che sia la capacità di sentire e immaginare qualcosa che vada al di là dell’immediato tornaconto del qui ed ora, che è fatto di “Oddio c’è la 51
multa da pagare”, “Oddio e se ci separiamo come facciamo con l’affitto?”. Però vedi tutto questo mette in secondo, terzo, quarto piano le questioni fondanti della nostra vita, che sono la profondità e la complessità dei sentimenti d’amore, d’odio, di attrazione e repulsione e la capacità di immaginare qualcosa che vada al di là dell’oggi. Persa questa capacità di immaginare, secondo me, è perso tutto. La vita diventa un’apparenza, un’occasione mancata. Questo è quello che succede dentro al personaggio di Lucia, che credo stia facendo questo da anni e ha scambiato senza accorgersene il crescere con il rinunciare a vivere, che sono due cose molto diverse. Non si è accorta di questa confusione e dopo un po’ qualcosa dentro di lei si ribella e prende la forma di un’apparizione comunque profonda, che è la Madonna, e che è legata all’infanzia, quindi a quel momento in cui siamo disposti a credere spontaneamente a tutto. Crescendo è giusto modulare questa capacità di credere, che fa la differenza tra una persona intelligente e una persona sciocca, ma questa capacità rischia sempre di essere persa, e se la perdi hai perso tutto. Quindi questa Madonna è molto molto arrabbiata con Lucia.” E questa Madonna perché hai scelto di rappresentarla così fisica e così lontana dall’iconografia classica? “Proprio perché non è un film religioso, non mi sentivo di dover rappresentare un’iconografia che appartiene ad un tipo di racconto, il racconto religioso. Il film invece era sulla vita di questa Lucia e quindi su quello che sta succedendo di molto dirompente e conflittuale dentro 52
di lei e sentivo che questa rabbia, questa forma di ribellione di non voler più continuare a fare quello che sta facendo era così forte, potente, urgente, che non poteva assumere le caratteristiche aggraziate, serene e accoglienti della Madonna classica. Invece c’era un’urgenza rabbiosa e profondamente amorosa. In sostanza l’atteggiamento di questa Madonna di Lucia è “Non ti permetterò mai più di buttare via la tua vita”. È chiaro che Lucia, il film è divertente anche per questo, cerca di sfuggire a questo rendiconto etico e spirituale che è molto, quasi troppo grosso per la sua vita, come sarebbe per ognuno di noi. E più cerca di sfuggire, più questa Madonna farà di tutto perché lei smetta di scappare. Quindi è disposta anche a varcare la soglia dell’eleganza o della civiltà o dell’educazione. Quindi, in ultima analisi, la prende a botte. Ma sono botte d’amore, rare (ridendo).” Perché la Madonna appare proprio a Lucia, che in questa speculazione edilizia svolge il ruolo della vittima ed è responsabile solo in modo indiretto? Nel film ci sono personaggi che meriterebbero più di lei quest’apparizione. “Secondo me qui c’è un discorso ancestrale. Il film inizia con Lucia bambina, con sua madre in un campo davanti a un bosco nel crepuscolo, e arriva questo meteorite. C’è un’apparizione che viene dal cielo ed è assolutamente magica. E quel campo è lo stesso campo su cui lei è nata e cresciuta, e su quel campo stanno per costruire questa megalomane cattedrale destinata ad essere una cattedrale nel deserto diciamo, qualcosa che è sproporzionato rispetto all’utili-
tà, c’è un esubero di ego anche legato a degli interessi economici, naturalmente. Quel campo è il campo su cui lei è nata e cresciuta, e non è un caso che faccia la geometra, perché ha un contatto fisico continuo. E mi piace che essendo geometra lei è una ruota piccola piccola di un grande ingranaggio. E mi piace che quando le propongono, le intimano di lasciar correre rispetto a quelle cose che non vanno, lei decide di “abbozzare”, come si dice, decide di accettare perché ha paura di perdere il lavoro, perché ha una figlia, sta crescendo una figlia da sola, quindi questa paura è comprensibile. Ma questo tradimento che fa con la sua terra è imperdonabile, ed è qua che le compare questa Madonna. E mi piace quando in una scena telefona al suo assistente e gli dice: “Senti, non creiamo problemi, io non me lo posso permettere, tanto alla fine sono loro che decidono, non siamo noi, sono loro che decidono”. Ecco mi piace questo, come lei è un personaggio che sta sottovalutando il potenziale della sua vita e sta sottovalutando anche il potere che ha come individuo. In realtà ognuno di noi può decidere, non sono sempre loro che decidono. Ma lei si è abituata a pensare che tanto sono sempre loro, si è abituata a pensare che il suo voto non vale più.
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In questo la Madonna che le compare è anche un fortissimo e violento richiamo alla responsabilità, personale, ma anche collettiva.” La ragazza, Rosa, la figlia di Lucia, gioca a scherma, scandendo quasi il ritmo del film. Che ruolo ha la scherma? “Tra le altre cose mi piaceva raccontare il rapporto intimo tra una madre e una figlia. In particolare, di una madre che è convinta di sapere tutto di sua figlia “Io sento tutto di te” le dice, e invece non è così. In realtà è un rapporto, come tutti gli altri rapporti fondamentali della vita di Lucia, che si sta slacciando, che si sta perdendo, perché Lucia sta perdendo il fuoco della relazione vera con le persone importanti, con suo padre, con il suo ex fidanzato, con sua figlia, con l’amica e con se stessa. Sta perdendo la connessione con se stessa, questo è il problema di Lucia. E sulla figlia è molto importante perché sulla fine la sua Madonna, diciamo così, le propone una cosa molto grossa, le dice di far esplodere tutto e le dice di farlo non così, per un velleitarismo pseudorivoluzionario, ma per sua figlia, dice: “Solo così le potrai far scoprire cosa c’è sotto e le potrai far scoprire che esiste il bello, esiste la bellezza. E se non glielo farai scoprire tu, lei non lo saprà mai”. È un invito molto potente, molto forte e quindi il rapporto tra loro due è uno dei fili sotterranei di tutto il film. Lei, se vuoi, anche per una forma di amore difensivo non fa altro che mentire a sua figlia. “Mamma, mi spieghi perché non dormiamo a casa?” “Che c’è, hai problemi con Claudia?” “No, ma avevamo una casa” “Abbiamo un problema all’impianto elettrico”. Scomodo
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Le mente, le mente, le mente e la ragazza lo sa, lo sente, non è scema. E quindi non è un caso che faccia scherma, perché c’è davvero un’eleganza d’altri tempi nel gesto della scherma, è uno sport che modula l’aggressività e sua figlia giustamente sta avendo problemi a controllare la sua aggressività, ed è comprensibile. Ha bisogno di rompere una barriera, che è una barriera fatta di insufficienza di verità. Quindi è per questo che alla fine si ritrova a fare un duello notturno in un bosco.” E ci sono quindi queste tre figure femminili che dominano il film, che sono la Madonna, Lucia e Rosa. C’è una linea unica che le unisce? “Sì, penso di sì. Penso che sia legato a una battuta della Madonna, quando dice: “Ma voi mentite”, poi dice: “Bisogna dire la verità Lucia, la vita è corta”. È questo istintivo e profondo bisogno di verità, che viene vissuto soprattutto nell’epoca in cui siamo, che è soffocata da una crisi economica che dura da più di dieci anni ed è la più drammatica crisi economica che l’Italia abbia affrontato negli ultimi due secoli. Questo ha sicuramente fatto succedere qualcosa dentro a ognuno di noi, come un irrigidirsi e contrarsi del cuore, come se ogni cosa che è diversa da noi ci impone un impulso di paura, di spavento, quindi come se la curiosità, la scoperta, l’avventura sono un lusso che non ci possiamo più permettere. E penso che questo è un filo che dal punto di vista sentimentale, non intellettuale, percorre dentro tutte queste tre donne. La stanno cercando questa cosa, ma non sanno né come, né dove, né come mai, né da che.”
E poi c’è l’acqua. Quest’acqua che salva, purifica, è l’espressione del rapporto con la natura… Spiegami… “Guarda io non penso mai a una simbologia perché non riesco a pensare in modo simbolico. È chiaro che allo stesso tempo quest’acqua c’è ed è importante, è quello che sta sotto alla terra, è quello che fa di quel posto qualcosa di speciale, è quel qualcosa che sta dentro e sotto, ma che noi non vediamo e che al massimo qualcuno può sentire. Lucia lo sente. Quando le chiedono: “Cosa c’è che non va in questo terreno?”, lei dice: “Lo sento”. Lo sente e fa una figura professionalmente inadeguata rispetto agli altri, ma è vero, lo sente. E tutto il film, lei non se ne rende conto, ma è un percorso faticoso e avventuroso a riconoscere che quello che sente esiste ed è importante. Per questo alla fine, là sotto, l’acqua c’è. Credo che l’acqua semplicemente, molto semplicemente, ha a che fare con qualcosa che scorre, come la vita. Quindi dove c’è acqua c’è vita.” Conclusa l’intervista Gianni mi accompagna al piano di sotto, sul set di un film della loro casa di produzione. Mi presenta Rita Rognoni (la sua produttrice) e altri membri del cast, a cui aveva annunciato il mio arrivo. Il clima è allegro e spontaneo, mi chiedono un po’ di Scomodo, ma poi ognuno è indaffarato nel proprio compito… e al ciak, si gira!
di Anna Leonilde Bucarelli 53
I Beer Brodaz Birra e autoproduzione
I Beer Brodaz sono un caso curioso di musica libera e autoprodotta, fondata da quattro ragazzi di Laurentina nel 2003 (Il cantante Corrado, il chitarrista Arman, il bassista Massimo e il batterista Stefano, che tra l'altro si sono esibiti alla nostra Notte Scomoda il 7 dicembre). Raccontano la Roma delle birre con sonorità abbastanza varie ma che si mantengono sullo Ska punk. Abbiamo posto alcune domande al chitarrista Arman Derviscadic per conoscere più a fondo la loro musica.
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Vi collocate da qualche parte nella scena romana, dove? A che gruppi vi siete ispirati? Quando abbiamo iniziato non avevamo grandi punti di riferimento, la nostra priorità era raccontare quello che ci succedeva. Però in quegli anni il punk andava di più di quanto andasse ora. Alla fine suonate uno ska punk abbastanza classico, il filone è quello degli Ska-P. Esatto, quando andavamo al liceo gli Ska-P erano il gruppo più famoso in questo ambito. Però non ci siamo mai ispirati a loro, non ci siamo mai legati troppo a un genere rispetto a un altro. Abbiamo avuto chiaro sin da subito che quello che volevamo era raccontare cosa ci capitava tutti i giorni, storie nelle quali ci si immedesima e appartengono a tutti. Volevamo raccontare le cose che accadevano a noi e al nostro gruppo di amici. Abbiamo iniziato col punk perché quando
abbiamo fondato i Beer Brodaz io non sapevo suonare nessuno strumento, avevamo iniziato di corsa. Il punk da questo punto di vista ti viene incontro rispetto a generi più tecnici, le canzoni riescono orecchiabili anche se tecnicamente non sei fortissimo. Devo dire che veniamo tutti da background molto diversi. Corrado a un certo punto era diventato molto fan dei Red Hot Chilli Peppers, ne parlava di continuo. Soprattutto gli piaceva suonare le loro canzoni. Massimo, che prima era il cantante, ha iniziato a suonare il basso proprio per questo, aveva imparato in un lasso di tempo brevissimo, non ho mai capito come, a rifare i pezzi di Flea dei Red Hot. Stefano invece è un amante dei generi moderni che prendono ispirazione dal funk, jazz, soul, rock e fusion, un batterista di tocco. Tra l'altro Stefano e Massimo sono musicisti professionisti a tutti gli effetti. Per noi questo è molto importante, visto che ci capita spesso di spaziare tra i generi e avere un bassista e un batterista molto tecnici è di grande aiuto. Di solito per scrivere una canzone per prima cosa partiamo dall’argomento e solo dopo lavoriamo sull'aspetto musicale. Se una tematica ci richiama una determinata atmosfera costruiamo l'aspetto musicale a partire da quella.
Quando uscì la prima ordinanza contro l'alcool ci colpì molto, perché noi ai tempi stavamo sempre a Trastevere, non ci andò per niente bene. Quindi abbiamo deciso di fare una canzone che inizia in modo allegro, che richiama la notte romana e ricorda uno stornello, per sfociare poi in un punk un po’ più duro che esprimeva la nostra rabbia, quasi politica. In verità le vostre canzoni sono molto politiche. Sì lo sono moltissimo, ma è sempre tra le righe, la politica nei nostri pezzi è nascosta da un velo di ironia. Per i testi invece? In generale, come scrivete una canzone? Principalmente li scrive Corrado, poi ci confrontiamo insieme. Nell’ultimo periodo le attività professionali ci tolgono molto tempo e energie, quindi per prima cosa decidiamo il tema o il titolo, come appunto abbiamo fatto per “Rutta Libre” o “Stasera”, poi Corrado scrive il testo e mi manda un vocale su Whatsapp dove canta tutta la canzone, dopodiché ci vediamo in sala per discuterne, svilupparla e registrare.
Per “Rutta Libre”, ad esempio, come avete lavorato? Siamo partiti dal titolo. Ci scherzavamo spesso, perché dicevo sempre che se avessi mai aperto un pub lo avrei chiamato “Rutta Libre".
Un gruppo che vi assomiglia molto, anche se non dal punto di vista prettamente musicale, sono gli Inna Cantina. Lo penso anch' io, mi piacciono molto e ce lo dicono spessissimo. Anche loro suonavano spesso al CSOA La Strada e siamo due gruppi molto diversi da quello che si trova in media nella scena romana…
Scomodo
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Non capisco come facciano a riempire gli stadi. Insieme al filone della trap, non mi convincono né nei contenuti né negli arrangiamenti. Oltre a questi due filoni la scena romana è molto disuniforme, escludendo un nocciolo Hip-Hop che resiste.
Da una parte c’è una deriva che ora chiamano “indie”, ma che poco ha a che vedere con l’indie rock, è un cantautorato di basso livello che segue delle logiche che mi sono completamente oscure. Purtroppo non ho più il tempo di esplorare e studiare le cose nuove che escono. Pensi che la vostra musica possa essere considerata uno specchio generazionale, che racconta cosa stia succedendo a Roma oggi? Come è normale certe canzoni sono riuscite meglio di altre, e a mio avviso ce ne sono alcune che possono essere veramente considerate tali, perché raccontano quello che osservavamo della nostra vita di ogni giorno, con questo specifico fine.
E poi i costumi dei giovani romani non sono cambiati. Quello che era vero con “Nel rispetto della quiete" nel 2015 è vero ancora oggi. È attualissimo “Non dire addio", un pezzo che parla in modo leggero e parodico dell'emigrazione, una vera tragedia che vivono moltissimi miei coetanei e che io stesso ho vissuto, avendo abitato due anni in Olanda per lavoro. È questo il nostro modo di essere “militanti”, per quanto ci definiamo un gruppo apolitico. L’emigrazione oltre che essere un problema per chi la vive è una questione grave anche per quanto riguarda il sistema paese, che perde decine di migliaia di lavoratori che vanno a produrre altrove. Tutto questo lo diciamo nella canzone, ma velatamente, in mezzo ci mettiamo tutti i luoghi comuni possibili, è un pezzo anche molto comico. È una canzone molto genuina, chi ha vissuto esperienze simili come me ci si ritrova molto. C’è molta verità in ogni verso, per esempio quando parliamo di finta mozzarella nella pizza, ti sfido ad andare a chiedere una margherita a Dublino... Saranno mai recuperabili i vostri primi dischi? In verità noi i dischi ce li siamo conservati. L'unica traccia che non abbiamo sotto mano è l'intro parlata del primo disco. Lo avevamo registrato in presa diretta “al Teschio" una sala di registrazione a Roma 70, una stanza con un solo microfono appeso al soffitto. Comunque “Ho visto quel pesce” si può trovare su internet, se si ha la pazienza di fare una ricerca approfondita. Oggi che abbiamo più mezzi qualche volta pensiamo a registrare di nuovo le canzoni dei vecchi dischi che riteniamo più belle, e produrre un bel vinile con i nostri evergreen dei primordi. 55
Qual è la vostra situazione in fatto di etichette? Penso che la nostra esperienza da questo punto di vista sia molto interessante, anche per quanto riguarda il progetto di Scomodo, siete abbastanza simili a noi. Il significato del termine “autoproduzione" oggi non è molto chiaro. Almeno, ci sono più gradi di autoproduzione in base a quante persone e quanti soldi hai dietro. Noi siamo al gradino più basso dell’autoproduzione, non abbiamo nessuna struttura di logistica, booking, distribuzione, ufficio stampa, management, marketing, ecc. Siamo da soli. I cd li stampiamo di tasca nostra, non avendo nessun servizio di booking, aspettiamo che i locali e i festival ci chiamino a suonare e così via. Ci gestiamo da soli, fieri della nostra autogestione, con i suoi pro e i suoi contro.
Penso che la nostra esperienza da questo punto di vista sia molto interessante, anche per quanto riguarda il progetto di Scomodo, siete abbastanza simili a noi. Il significato del termine “autoproduzione" oggi non è molto chiaro. 56
Forse siete un unicum in Italia, nessuno tranne voi riesce a affermarsi e a fare live affollati senza nessuna minima struttura dietro.
Tutto quello che riguarda il nome Beer Brodaz è il frutto del nostro solo lavoro e delle nostre personali decisioni. Non abbiamo nessun tipo di limite, nessun argine. Restiamo veri, genuini e effettivamente indipendenti. Ovviamente richiede un notevole impegno in più. Parte delle grafiche ce le fa Dario Pallante, un nostro talentuoso amico che lavora alla Strada. Negli ultimi due anni abbiamo iniziato a collaborare fianco a fianco con Valerio Cascone, il nostro fonico, e con Gianluca Massarenti, il regista dei nostri ultimi video. Da soli siamo riusciti a creare una realtà nazionale. A Milano ci ascoltano poco meno che a Roma, vedo dalle statistiche di Spotify. Quanto è cambiata la vostra musica e il vostro approccio da quando avete iniziato a suonare? L'approccio è lo stesso, noi quattro che ci prendiamo a parolacce perché uno non si è studiato la parte, un altro arriva in ritardo… Si ricrea un’atmosfera molto liceale. Probabilmente è cambiato, crescendo, il contenuto. Dal secondo e terzo liceo,
quando abbiamo iniziato, sono cambiati molto gli interessi e ovviamente le abitudini, cerchiamo di essere meno scontati, io ho imparato a suonare il sassofono… abbiamo ampliato gli orizzonti, ecco.
The process is more important than the result Something old, something new. Something borrowed, something [out of the] blue.
“La notte delle streghe” e “Vescica loca”, i vostri pezzi più recenti, faranno parte di un disco? Avete progetti per il futuro? Per il momento no, sono canzoni isolate che stiamo facendo con il pochissimo tempo che abbiamo a disposizione. Per un nuovo disco preferiremmo farlo del tutto ex novo, senza canzoni che il pubblico ha già ascoltato, ma tutti inediti. Vediamo se questo 2019 regalerà ai nostri amici un nuovo album. Non lasciatevi ingannare dal titolo, questo non è l’ennesimo articolo sulla mostra monstre di Marina Abramović a Firenze, già troppo inchiostro è stato versato e troppi alberi tagliati. Non ci occuperemo neppure di matrimonio, il famoso consiglio vittoriano per le spose è solo il primo di molti rimandi d’oltre manica a cui saremo costretti a ricorrere per parlare di CASTRO (Contemporary Art STudios ROma): una realtà assolutamente nuova nel panorama romano, se non italiano, ma con cui i nostri adesso-un-po’-meno vicini anglofoni si confrontano da tempo.
di Ismaele Calaciura Scomodo
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Non a caso infatti l’idea di impiantare un Artist-run space (io vi avevo avvisato) nel cuore di Roma viene alla giovane artista Gaia Di Lorenzo a seguito di un percorso che l’ha portata prima a passare gli ultimi tre anni a studiare proprio a Londra, alla Goldsmiths University, sinonimo di eccellenza nel mondo per quanto riguarda le arti visive, per poi, causa Brexit, tornare nella sua città natale, senza però dimenticare quanto imparato lassù. Com’era finita a Londra? L’ennesima storia di cervelli in fuga e giovani di belle speranze che vanno a cercare fortuna all’estero, un topos ormai imprescindibile per ogni millenial che si rispetti, ma una frase nella risposta di Gaia, con la quale ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere nonostante i suoi mille impegni, mi rimane appiccicata addosso anche dopo averla salutata.
Mi attraeva la città e i corsi d'arte estivi che offriva, sono cresciuta a Roma, dove l'arte è vista come un hobby e quindi l'estate ero libera di perseguirla. Una verità semplice e brutale, che troppo spesso chi si occupa d’arte tende a rimuovere per quieto vivere. Per trasformare il suo hobby in una cosa seria, con la sua laurea in Estetica si è dovuta trasferire nella “perfida Albione”. Come si è detto, la Brexit ha però cambiato le carte in tavola: si è diffuso un senso di tristezza generale, chiunque non fosse inglese si sentiva rigettato, si diffondeva negatività e tutt'a un tratto, l'appeal di Londra "la città dove tutto è possibile e dove sono tutti" si dissipava; allora non aveva più senso pagare somme incredibili non solo per gli affitti, ma anche per un caffè. Non tutti i mali vengono per nuocere, l’ennesimo assalto nazionalistico a valori ormai solo di facciata della Globalizzazione come uguaglianza e scambio internazionale, ha fatto sì che Gaia prendesse “arti e bagagli” e tornasse a Roma, dove sta provando a creare uno spazio che non la costringa più ad andare via. Nella descrizione del sito troviamo che il modello di ispirazione è quello dello Studio Program: ogni sei mesi una giuria internazionale seleziona quattro artisti under40 e un curatore, affidando ad ognuno uno studio. Una formula simile, più largamente diffusa da noi, è quella delle “residenze d’artista”, al termine delle quali però è solitamente richiesto all’occupante dello spazio di presentare in una mostra i lavori prodotti durante la permanenza, quando non addirittura di lasciarli in “dono” all’organizzazione. 57
Da Castro invece «non ci saranno mai mostre», dice Gaia sorridendo. Lo studio ritrova quindi il suo più antico significato di azione piuttosto che di spazio, l’attenzione è focalizzata sulla ricerca artistica, non sulla produzione. Proprio in quest’ottica va considerata la presenza di un curatore che potrebbe altrimenti apparire come un controsenso; è invece il risultato di una lunga riflessione attorno a questa figura da parte di Gaia; che come molti artisti percepiva i curatori come un corpo estraneo, pronti ad appropriarsi del suo lavoro etichettandolo sotto una qualche egotistica ricerca. Non completamente a torto, in effetti… Privandoli della “finalità espositiva” possono tornare alla loro nominale funzione di cura. Il curatore può essere cruciale per l'artista: lo può aiutare nello sviluppo della pratica facendo le domande giuste o suggerendo testi da leggere e altri artisti da guardare. Così spero che l'artista sia cruciale per il curatore per ovvi motivi e che non ci sia nulla di meglio che essere immerso tra artisti per un periodo. Non bisogna però scambiare l’assenza di temi, obiettivi o scadenze per mancanza di organiz-
Proprio in quest’ottica va considerata la presenza di un curatore che potrebbe altrimenti apparire come un controsenso 58
zazione, l’attività dell’ “accampamento” è frenetica: si susseguono conferenze, tavole rotonde, presentazioni e cineforum, il tutto rigorosamente aperto al pubblico poiché l’idea alla base è di un apprendimento legato a collaborazione e condivisione, da contrapporre a quello tradizionalmente frontale-accademico. Il centro di una tale visione sono certamente i CRITS: «incontri della durata di un’intera giornata in cui una serie di artisti, sia in studio da CASTRO sia esterni, presentano i loro lavori, finiti o in lavorazione, davanti a un pubblico di persone alle quali sarà richiesto di commentare e criticare i lavori. Quest’attività favorisce gli scambi tra gli artisti in studio da CASTRO, quelli in residenza nelle varie istituzioni straniere a Roma, e infine con gli artisti romani». Proprio come l’accampamento romano, che è uno dei vari rimandi del nome, questo spazio si propone come un nodo da cui far partire, magari in una versione più “rizomatica”, cardi e decumani, mettendo in comunicazione tra loro le varie realtà artistiche romane troppo spesso isolate, ma soprattutto connettendole al tessuto sociale che le circonda, proprio gli abitanti di una città sempre più ignorati dalle pretese di un supposto elitarismo del mondo dell’arte. La forza di GIGANT, l’associazione culturale che sta dietro a CASTRO è proprio questa, essere davvero quello che da definizione dovrebbe essere: un ente privato senza finalità di lucro, costituito da un gruppo di persone coese per il raggiungimento di un determinato scopo di interesse collettivo che utilizza le proprie risorse finanziarie per scopi culturali, di insegnamento
“Quest’attività favorisce gli scambi tra gli artisti in studio da CASTRO, quelli in residenza nelle varie istituzioni straniere a Roma, e infine con gli artisti romani”. e educativi. Se poi la gestione è “tutta in famiglia”, come in questo caso, tanto meglio. CASTRO è un progetto dell'Associazione GIGANT, l'associazione culturale mia e dei miei fratelli. E' molto semplice in realtà: i miei fratelli sono le persone delle quali mi fido più al mondo e gli ho chiesto di darmi una mano. Aiuta il fatto che la prima è avvocato e il secondo ingegnere gestionale! È passato ormai più di un mese da quando lo spazio ha aperto le porte in Piazza dei Ponziani 8e, il bilancio parla di CRITS affollati e un allegro via vai costante nelle sede, non possiamo che augurarci che continui così e magari, consolidandosi, possa davvero diventare, come sperano i suoi fondatori, un punto di riferimento in città, in grado di attivare scambi attraverso gemellaggi, ex associati e progetti internazionali. Le potenzialità ci sono tutte e a quanto pare anche la domanda, impossibile non concordare con Gaia: CASTRO era una cosa che mancava e della quale si sentiva la mancanza!
di Luca Giordani Scomodo
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Dalla calzamaglia al tatuaggio Una riflessione sulla figura del “joglar”, partendo dal Medioevo delle corti e arrivando alla modernità dentro gli schermi da smartphone
Tra il X e il XIII secolo le mille facce del divertimento di corte presero piede in tutta Europa, partendo dalla Francia e diffondendosi fino a giungere nell'oriente latino della Turchia. La figura, conosciuta da tutti, del giullare o “buffone” divenne in poco tempo simbolica di un periodo in cui il divertimento era un bene concesso, previsto per i privilegiati e vietato ai più poveri, a coloro che per ragioni divine non lo meritavano. L'occasione si prestava paradossalmente anche per trasgredire l'eccessiva sobrietà della vita religiosa, considerata per i più abbienti un voto consapevole e non un’ipnosi uber-culturale. Dall'abbigliamento variopinto e da una cultura superiore alla media, tanto da esseri considerati veri e propri professionisti delle lettere, uomini e donne ai margini della società si ritrovaScomodo
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vano a migrare di città in città, di nazione in nazione, lasciando dietro di sé una traccia indelebile per la cultura europea. Il romanticismo di questi personaggi è oggi paragonabile a quello dei comici da cabaret, al teatro sperimentale e a tutto quell'universo artistico nato sotto la luce dei semafori. Quindi il ruolo si è svuotato e la figurina viene ritenuta introvabile per il nuovo album della modernità, dopo che ogni professione ha preso la propria strada verso il declino o la trasformazione. L'attore affabulatore, come diceva Dario Fo, è solo sulle parole, nei testi teatrali, e difficile rimane di questi tempi incontrarlo in un evento prestabilito, integro nella sua genuinità di talento e vocazione. Che sia per ragioni storiche, culturali o anche naturali, incondizionate, non si può negare
il fatto che di giullari dal vivo se ne vedono sempre di meno, che i copioni fioccano come non mai e che la bellezza dell'improvvisazione di parole e movimenti si è persa nei media pre-registrati. La comicità live action di queste figure millenarie ha vissuto, prima di un nuovo cambiamento, un grosso periodo di transizione basato sulla scrittura, sullo studio coreografico e sulla pre-produzione di uno spettacolo d'intrattenimento, sbiadendo lo spirito di coinvolgimento che nel passato sussisteva. Con l'avvento della rete e dei social network, la trasformazione ha avuto inizio. Il giullare, come in un film di fantascienza, ha cambiato la sua fisionomia, i suoi colori e le sue sembianze: adesso appare come un troll, come un gigantesco faccione che sorride in modo sfottente, con tanto di risatina. La parola troll è fuori contesto, ha acquisito nella sua ambiguità neologistica un significato abbastanza chiaro: una comunità virtuale (a volte comparabile a quella globale) attraverso questa figura intralcia il normale svolgersi di un discorso provocando con messaggi incompiuti e irritanti. Il giullare new age la fa sua come uno stiletto, un modo sottile per sfidare l'intera umanità sul web e al tempo stesso intrattenerla, mostrando che il coltello può anche fungere da fermacarte per poter giocare. Instagram è diventata la piattaforma covo di questo oceano di immagini, irriverenze e clip di cinèma veritè: giorno dopo giorno, anche nel nostro paese che in ogni cosa che prova dà il suo meglio, veniamo a conoscenza di nuovi eroi della strada, di nuove situazioni all'inverosimile del dialogo civile e di nuove canaglie per hobby, non più per lavoro. 59
Le persone che vogliono essere incluse nella figurina del giullare sono tutte accomunate dallo stesso obiettivo, far ridere in tempo reale, con i pochi mezzi letterari a disposizione, e cercare di sopravvivere per passare da telefono a telefono, da streaming a streaming.
Instagram è diventata la piattaforma covo di questo oceano di immagini, irriverenze e clip di cinèma verità L'accessibilità odierna nel poter comunicare tutto seduta stante dal proprio smartphone consente di poter far ridere di cuore come se realmente si stesse davanti al soggetto consumatore. Si garantisce così il ritorno alla comicità plautina che tutti, sia in America che in Italia che nel resto del mondo web, apprezzano comprensivamente, a seconda sempre dei gradi di giudizio. Gli esempi in questi ultimi anni saturano sempre di più l'orizzonte della cyberculture, tanto da avere filoni per ogni tipo di divertimento: dal mettere alla berlina qualcuno solo per ottenere risultati da reality al cammuffarsi da vero gangster per affascinare le persone che non si possono immedesimarsi, dal creare buffe teorie complottistiche per la gioia degli annoiati al rendersi pubblici per la propria falsa trasgressività dei costumi. Lo spavento sociale nei confronti di queste figure demoniache si basa proprio sul loro essere giullari, 60
imprevedibili e reali nel coinvolgerti nello spettacolo della loro vita, a spiarla nei suoi momenti fuori dal comune e ad ascoltarla nella sua deficienza appurata. Un giullare all'inverso, a dirla tutta, perché con questa routine non si è costretti a vivere al margine della società, riconosciuti dal colore dei propri vestiti e giudicati, così come si veniva giudicati lebbrosi dal suono lontano di un campanaccio. Adesso invece si riesce a ricevere il titolo di ultimo re di Roma, come nel caso di @brasilessss_official, in arte Er Brasiliano. La sua ragione d'essere è sintetizzata alla meglio sul suo profilo social: “SONO QUI PER NN FAR COMMETTERE AGLI ALTRI GLI ERRORI CHE HO COMMESSO IO”.
Famoso per l'incidente nella scorsa manifestazione contro-immigrati di Casapound, dove il culturista megalomane ha sfidato la polizia con minacce di morte e voglia di ritornare nelle celle in cui era già stato in passato per commercio di droga, il Brasile ha poi ovviato a tutto questo polverone della grande stampa e del piccolo schermo approfittandone e diventando così un influencer per farsi due risate. Repentino si è trasformato in un comico da jamming sui suoi social e sulle pagine che lo seguono, cosicchè appena si presenta
l'occasione, cellulare alla mano, si fa la scenetta per trollare le persone con la finta parvenza da boss. E come lui tanti altri, anche nomi discutibili nella musica moderna, forse l'arte più svelta per far quattrini, quando si è riconosciuti. Manny Fresh, Pa Pa S.P.A e ancora altri continuano a trollare senza fiato le persone, mostrando soldi piovuti da un cielo nascosto chissà dove e sparando la propria su come si flexa, ossia su come si vive la giornata all'apice del successo e su come il crimine di quartiere ancora porta tanti crediti nelle borse.
Le persone che vogliono essere incluse nella figurina del giullare sono tutte accomunate dallo stesso obiettivo, far ridere in tempo reale
fine: acquisita la fanbase, si inizia a registrare qualche pezzo, a rifinire il personaggio musicale e a brillare come una meteora nel paesaggio sconfinato della trap.
L'oscilloscopio della quantità di materiale trolling che ci arriva dall'America è ancora più capiente, mostrando il raggiungimento di picchi di successo tanto discutibile quanto nell'immediato ammirabile
L'oscilloscopio della quantità di materiale trolling che ci arriva dall'America è ancora più capiente, mostrando il raggiungimento di picchi di successo tanto discutibile quanto nell'immediato ammirabile. Boonk Gang è uno dei tanti grandi esempi: un ragazzo che mette sulle storie instagram i piccoli furti, i “venti” alla romana, che demolisce fast food e negozi di abbigliamento rendendo la sua vita, agli occhi del mondo intero, una specie di videogioco dove è possibile seminare problemi e drasticità, al costo del carcere per qualche mese. Anche lui, stessa storia stessa
Ma la cometa più brillante è certamente Tekashi69, meglio conosciuto come 6ix9ine, che incarna in ogni aspetto il giullare della rete, complice anche le sue sembianze così buffe e colorate. Progettando insieme al suo team di produzione un'entrata in scena con i fiocchi, il rapper ha subito fatto scalpore con singoli come GUMMO o KOODA, dove riportava l'immaginario delle faide tra Bloods e Crips, storiche gang criminali di New York. Dopo poco inizia una guerra d'immagine con il collega Trippie Red, scatenando il fascino del dissing e lasciando ipotizzare a delle vere e proprie guerriglie urbane. Mai accadute, mai volute realizzare. Anche qui l'idea di sfruttare il trolling
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sconclusionato, mirando solo e unicamente all'effetto Warhol dei dieci minuti di celebrità, ha consentito al giovane Daniel Hernandez di scalare le classifiche e di pubblicare nel giro di pochissimo tempo un mixtape e un album da studio. Queste due parabole americane però si concludono male: mentre in Italia i capelli biondi del Brasile ancora passeggiano per le strade di Pietralata, Tekashi deve adesso affrontare un giudizio della corte suprema americana che lo mette a rischio ergastolo per racketing di armi e partecipazione a rapine a mano armata. Il capo d'accusa infatti non è l'individuo di quartiere che ce le ha prese nel volerlo sfidare, ma l'FBI, alla quale in America è impossibile sfuggire in termini legali. Boonk Gang non è da meno: dopo aver caricato video a luci rosse sul web, è stato ritrovato ferito da due colpi di pistola, che secondo i fan si sarebbe sparato da solo, gli stessi fan che accrescevano il suo conto in banca seguendolo e divertendosi con lui. I parallelismi tra le due nazioni sono fondati su un sistema culturale nettamente diverso, su un sistema della legalità e del potere esecutivo che affonda le radici su due Costituzioni quasi all'opposto. Eppure le funzioni di questi personaggi erano le medesime, chi più all'eccesso nei fatti, chi più all'eccesso nelle parole: persone che, qualunque fosse la loro provenienza, vogliono e volevano intrattenere, far discutere, immolarsi purchè qualcuno li seguisse nelle loro amenità.
di Daniele Gennaioli 61
Giustappunto Giustappunto nasce da un atto di presunzione: sulla base di tre notizie del mese vengono consigliati un libro, un film ed un album di qualunque periodo tentando, in modo stravagante, di dare un’opinione dissonante da quella prevalente.
I Jilet Jaunes ce la fanno Mio fratello è figlio unico (1976) Rino Gaetano In Francia la nuova politica economica di Macron ha ottenuto l’approvazione da parte dell’UE e dopo gli scontri che si abbattono da settimane su Parigi siamo arrivati ad un bollettino di guerra di otto morti e tredici feriti, che sta mettendo in difficoltà l’opinione pubblica poiché ora ci sono i presupposti per fermare una protesta che stava mettendo Macron all’angolo. Il presidente promette aumenti ai salari minimi, tagli alle tasse e aiuti alle pensioni. Ma fino a quando le promessse non si trasformeranno in contratti, la protesta continuerà non solo per il populino, ma anche trovando l’appoggio degli ex funzionari dell’esercito 62
e degli avvocati. Quanto costrerebbe questa manovra? 10 miliardi, creando un debito che forse sfiorerebbe addirittura il 5%. E le tanto osannate coperture per questo debito invece? Non esistono, ma non fa niente, i grandimedia non creano tanti problemi come per la manovra economica italiana. Pierre Moscovici, il commissario europeo per gli affari economici e monetari si è affrettato a dichiarare che in via del tutto eccezionale (sic) la Francia può sforare. Peccato che tanto eccezionale non è visto che la Francia dal 2008 ha sforato 9 anni su 10. Stavolta però Macron ha sentito la sofferenza della Francia e deve rispondere con urgenza. Questo ci insegna quanto i famosi decimali che chiamiamo “austerity” non sono numeri che, come direbbe Eduardo De Filippo arrivano “à cíelo”, sono decisi da
esseri umani che di certo non danno benessere ai popoli europei. Insomma in Europa ci sono sofferenze più grandi di altre, concedendo alla Francia quello che è stato negato all’Italia. Sicuramente avremo una situazione economica diversa rispetto alla Francia: loro se lo possono permettere e noi no, ma ricordiamoci che noi abbiamo dovuto patteggiare per giorni con l’unione per una differenza dello 0.36% (2,4%-2,04%) che equivale a 1,8 miliardi di euro non per dieci. La butto lì: se facessimo un Jilet Jaunes made in Italy? Insumma per chi ancora si professa di sinistra, ma non dorme la notte per lo Spread, il deficit/Pil i derivati e l’inflazione, che si ascolti questo brano, questo grido di giustizia: magari Rino vi farà venire voglia di dar conto al popolo all’economia reale, e non alla finanza.
L’autorevole rivista “Nature Science Journal” ha diffuso rivelazioni clamorose che l’associazione pro scelta vaccinale “Corvelva”, fondata in parte dell’ordine nazionale dei biologi, ha fatto analizzando in laboratorio i vaccini obbligatori. Nel vaccino chiamasi Infanrix Hexa sono state riscontrate tossine peptidiche e contaminazioni dal processo di lavorazione, ma il ritrovamento più importante è stato quello di un polimero insolubile e indigeribile, un composto solido di sei antigeni neuro tossici legati insieme. Le ricerche continueranno ma intanto in Argentina per ricevere i documenti come il passaporto, bisogna di-
mostrare di essere vaccinati. Il libro di Giulio Tarro, pluricandidato al premio nobel per la medicina e allievo di Sabin, scopritore del vaccino per la Polio, espone il punto di vista di uno scettico nella validità dei vaccini obbligatori. Tra vari aspetti considerati, il libro parla del pericolo dei media nel ritenere che la scienza non sia democratica, dando a qualunque critico la veste di buffone che non può sapere, anzi che minaccia il benessere pubblico. Ma è difficile non pensar male, quando si viene a sapere che sì, il fatturato farmaceutico globale si gonfia solo del 3% con la vendita dei vaccini, ma è una percenuale che cresce. Milloud Kaddar, senior adviser e health economist del W.H.O ha riportato una crescita da 5 miliardi nel 2000 a 24 miliardi nel 2013. Una crescita data al sostegno per le vaccinazioni, con una proiezione nel 2025 di un fatturato di 100 miliardi di dollari. I vaccini salvano vite, ed i no-vax sicuramente non sono umani che amano epidemie, si parla solo dell’inefficacia del terrorismo psicologico, che a volte è più contro producente dell’informazione giusta. Le notizie talvolta rimangono oscure, ad esempio su chi e quanto si guadagna con la vendita dei vaccini. Questi, stando al dottor Tarro, possono far più bene che male, poiché i nostri organismi non sono identici, ed il vaccino è comunuqe un farmaco. Dicendolo con le parole dell’oncologo Lorenzo Tomatis dell’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro: “Adottare il principio di precauzione e quello di responsabilità significa accettare il dovere di informare e impedire l’occultamento di informazioni su possibili rischi per
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I vaccini obbligatori 10 cose da sapere sui vaccini (2018) Giulio Tarro
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la salute ed evitare che si continui a considerare l’intera specie umana come un insieme di cavie sulle quali saggiare tutto quanto è capace di inventare progresso tecnologico”. La scienza è democratica, come tutte le discipline. Poiché, ricordiamocelo sempre, i test in laboratorio sono fatti da umani, che potrebbero anche non essere stinchi di santo.
Le notizie talvolta rimangono oscure, ad esempio su chi e quanto si guadagna con la vendita dei vaccini. Questi, stando al dottor Tarro, possono far più bene che male, poiché i nostri organismi non sono identici, ed il vaccino è comunque un farmaco. La più grande marcia della storia dell’’India Soluzioni locali per un disordine globale (2010) Coline Serreau Oltre 50 mila agricoltori qualche settimana fa hanno invaso le strade di New Delhi per protestare contro il governo locale.
Molto si è parlato nei media mondiali del tragico fenomeno del suicidio dei contadini indiani: in 23 anni sono stati 300 mila, ben 12 mila l’anno negli ultimi 5. Come ogni fenomeno, i fattori per questa tragedia sono molteplici: dai debiti agricoli che rendono schiavi gli addetti agli iniqui compensi dati dai produttori, che tramutano in guadagno solo una minima parte del prezzo finale. Ma forse l’aumento dei suicidi è dato soprattutto dal cambiamento climatico che distrugge annualmente i raccolti con inondazioni e siccità. La marcia è solo l’ultima delle proteste non ascoltate che a volte vengono anche represse con la violenza, come a Marzo quando la polizia ha sparato sulla folla di manifestanti. Come sempre questo esempio è uno fra le tante sofferenze che i paesi in via di sviluppo si trovano a dover fronteggiare, per un problema sempre cerato da noi occidentali, mentre gli attivisti all’interno come Vandana Shiva già hanno denunciato questi suicidi in massa che dopo otto anni si ripresentano con intensità maggiore, invece di andare via via scomparendo, come dovrebbe essere. Il documentario “Soluzioni locali per un disordine globale” è ancora attuale, e serve ora più che mai per risolvere un problema che conosciamo da ormai cinquant’anni.
di Leonardo Rosi 63
Recensioni Musica
I Hate My Life and I Really Wish People Would Stop Telling Me Not To $ilkmoney Direttamente dal Virginia, $ilkmoney e il suo team ritornano dopo l'uscita sottovalutata ma veramente interessante di due anni fa, “Council World”, progetto firmato dall'etichetta EPIC Records. Il rapper, insieme al suo vecchio team ora perso un po' per il percorso, ha avuto la fortuna di realizzare quello che tutti i souncloud-rapper sognano: essere notati e valorizzati su questa piattaforma, per poi essere chiamati a firmare un contratto con i giusti termini artistici per un'etichetta importante come la EPIC. Baciati dalla benedizione del bodhisattva dell'hip hop by south, Andrè 3000, lo scorso release diede il suo nella scena, ottenendo lodi da Erykah Badu e Tyler The Creator. Il nuovo album è, a differenza dei mixtape precedenti, più rifinito, elegante, avvicinandosi all'ultima creazione di Tyler The Creator, che con64
tribuisce con due feat e cinque produzioni in altrettante delle 9 tracce del disco. L'evoluzione è segnata da un passaggio comune di questa nuova generazione hip hop: il passaggio dal cloud rapping al prodotto da stampare e distribuire, al formato terreno che va non più ascoltato con l'orecchio capriccioso che sopraggiunge quando si ascolta per via streaming. Come si confà nella visione tyleriana della musica, l'album è seminato di campioni vocali, beat intelligenti, bugiardi nel loro spirito low-fi, con richiami alla musica orientale e all'hardcore hip hop. L'arcata musicale è costruita su una buona scaletta di sfumature di genere, partendo da una fase più trap classica con le prime canzoni, finendo alla fase più southern hip hop verso la conclusione dell'album. Le perle al primo ascolto sono certamente NAGA (feat. Tyler The Creator) e B.A.F., conclusione soft che suona perfettamente con l'atmosfera di tutto il disco. Tirando le somme, il progetto è discreto nelle sue sonorità, forse meno sperimentale e divertente come quello precedente, ma in grado senza dubbio di poter dimostrare un percorso verso la maturità di un'artista che non vuole farsi conoscere attraverso hit traballanti e tormentoni meteorici. Come sempre l'ombra di un grande artista di questo periodo storico come Benjamin Andrè ha conferito più autorevolezza nell'esporsi da parte di $ilkmoney, rimanendo però originale come lo era nella precendente
fase SoundCloud, senza fare il verso al panorama musicale contemporaneo. Come disse il poeta ai Source Awards del 1995, “This is South got something to say, all I got to say”.
di Daniele Gennaioli
EDEN CupcakKe Nel suo secondo album dell’anno, uscito a metà Novembre, la rapper americana CupcakKe ancora una volta sfrutta il suo “volgare” talento in una miscela sonora tra il reale e l’assurdo, il cartone e il corporeo. Nel corso dei 33 minuti di Eden, arriva a comparare la sua vagina a diverse cose come una tastiera, una zuppa, una cannuccia o una borsa; in particolare nella quarta traccia, Garfield, dove il gatto rappresenta proprio la sua pussy. Scrive con una strana ma stupefacente specificità, sfidando non solo le convenzioni sociali, ma anche le leggi della fisica. CupcakKe porta la sua percezione della sessualità agli estremi, non solo all’interno dei testi, ma anche nei suoi video, che per la maggior parte sono stati oscurati Scomodo
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da YouTube. La 21enne è stata classificata infatti come una rapper “volgare”- aggettivo che non sembra mai essere affiancato a rapper di sesso maschile - , soprattutto dopo l’uscita del video di Duck Duck Doose, singolo dell’album “Ephorize” uscito questo gennaio, all’interno del quale vengono mostrati dildi e allusioni a posizioni sessuali. Ogni traccia di Eden slitta perfettamente verso la prossima, e il suo flow rimane compatto anche mentre strilla o emette determinati suoni. Il grande controllo che possiede della sua metrica le permette di gestirsi al meglio la velocità e fluidità dei brani. CupcakKe riesce a rendere il suo album divertente e assurdo, nonostante tratti temi delicati, che la coinvolgono anche personalmente, come quello delle violenze sessuali. “That’s funny when abusers ain’t locked away/They in the crib giving more beats than Dr. Dre” rappa in Cereal and Water, dove qualche momento dopo, esclama le parole “fucking rapist”, facendole sembrare quasi una dichiarazione di guerra. La rapper trasforma il sito del trauma in un posto per atti ridicoli, inusuali e senza timori. La sua flessibilità è sorprendente, non solo dal punto di vista uditivo, ma anche concettuale, riuscendo a passare dal denunciare la brutalità della polizia, ad una strofa dove compara la grandezza di un pene alla famosa cosa di cavallo di Ariana Grande. L’abilità di fondere il la realtà con l’assurdo e una cruda visione del mondo con la più superficiale in questo modo distingue CupcakKe da ogni altro rapper presente sulla scena. di Camilla Cataldi Scomodo
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Recensioni Cinema
First Man Damien Chazelle Realizzare un film sulla storia di Neil Armstrong, primo uomo a mettere piede sulla luna, era un’impresa non facile, renderlo poi originale o artisticamente notevole, era ancora più arduo. Damien Chazelle tenta l’impresa col suo ultimo film: “First Man”. Al suo fianco, ancora una volta, il compositore e amico Justin Hurwitz (che ha realizzato anche le colonne sonore dei precedenti film del regista) e Ryan Gosling, già protagonista di “La La Land”. Nuovi a una collaborazione col regista sono invece lo sceneggiatore premio Oscar Josh Singer e Claire Foy, la regina Elisabetta di “The Crown”. Un cast importante, che si conferma all’altezza della situazione. Già dai primi minuti, il film si caratterizza in maniera inaspettata: il focus si concentra infatti sulla vita privata di Armstrong, e in particolare sull’evento traumatico che la sconvolse: la malattia e poi la morte di Karen, seconda figlia del pilota, a soli due anni. È questo, per il regista, l’evento cardine della vita dell’astronauta: un dolore mai superato, che lo spingerà ad iscriversi al programma Gemini e a partecipare a numerose missioni spaziali, fino a diventare comandante di Gemini 8 prima, e di Apollo 11 poi, la missione che
lo porterà sulla luna. Chazelle è all’apice della sua carriera: ha all’attivo solo tre film, ma è già il più giovane regista mai premiato con l’Academy Award; dunque ha senso, a mio parere, chiedersi se la scelta di realizzare un biopic storico sull’astronauta più famoso del mondo proprio nel momento del suo massimo successo possa essere dettata da motivi diversi da quelli commerciali. Il genere biografico è infatti, tendenzialmente, il meno stimolante dal punto di vista creativo, soprattutto se si tratta di recuperare un evento storico tanto inflazionato come è quello del primo sbarco sulla Luna, capace al massimo di ravvivare il mai assopito patriottismo americano. Il dubbio rimane anche dopo la visione della pellicola, che non riesce a sorprendere più di tanto lo spettatore, rimanendo lenta e rispettosa dei parametri del genere biografico. Eppure qualcosa di buono c’è, perché quello che sorprende, in “First Man”, è l’assoluta mancanza di autocelebrazione, di trionfo del sogno americano, di soddisfazione per l’umanità che avanza nella conquista dell’universo. La celebre scena dell’allunaggio comunica allo spettatore una sensazione di assoluta e desolante solitudine, dove l’immensa distesa lunare funge solo da rappresentazione visiva dell’enorme vuoto che devasta l’interiorità del protagoni65
sta. La grandiosa impresa americana si trasforma così, nel film, in un gioco pericoloso di bambini mai cresciuti, un dispendio inutile di vite, di padri e di mariti, un lutto continuo, e una sempre crescente consapevolezza di quanto frangibili possano essere i calcoli matematici e perfino i più sofisticati strumenti tecnologici: l’incidente, l’errore, il malfunzionamento sono continui, e le conseguenze sono sempre, più che mai, devastanti. È così che anche la figura di Armstrong, affettuosissimo padre e marito all’inizio, si trasforma durante il film: i lutti e le perdite lo segnano, rendendolo ogni giorno più freddo e insensibile, consapevole che la morte è più probabile della vita nel lavoro che fa. Questa scelta di puntare sulla malinconia, sulla perdita, piuttosto che sulla conquista, è l’elemento più apprezzabile della pellicola di Chazelle, che ci restituisce un aspetto inedito dell’impresa, rendendola quanto mai umana e, per questo, fallibile. L’abilità di Chazelle nella regia, la qualità e la bellezza delle sue immagini si mantengono intatte, eppure, in “First Man”, risaltano molto meno di quanto accadeva in film visivamente perfetti come erano i suoi precedenti. Lo stesso vale per la colonna sonora, che rimane di sostegno ad ogni scena, coerente e coinvolgente, ma smette di essere dominante come era nei precedenti film del regista, sempre a forte caratterizzazione musicale. Il lavoro di Chazelle perde dunque un po’ della sua magia con quest’ultima pellicola, ma servirà a garantirgli una posizione sempre più stabile tra i registi delle grandi majors. di Valeria Sittinieri 66
Roma Alfonso Cuarón Il regista messicano Alfonso Cuarón ci regala una pellicola che insieme al suo film “The Children Of Men” del 2006 celebra l’importanza della maternità. Il film, ambientato tra il 1970 e 1971, è un grande capriccio del regista: ricreando la sua infanzia nel quartiere “Roma”, la Parioli di Città del Messico, l’autore ripercorre i suoi ricordi partendo da avvenimenti autobiografici come l’abbandono da parte del padre. Cleo è una delle due domestiche nella casa di una famiglia alto borghese. Antonio, il padre di famiglia, con la scusa di un viaggio di lavoro, abbandona la casa e i suoi parenti, lasciandola sul lastrico. Viene abbandonata anche Cleo dal suo fidanzato quando viene a sapere che la protagonista è incinta. Il film è lento, suggestivo, un omaggio allo stile neorealista, con una cura della fotografia che ricorda la pulizia di Gianni Di Venanzo. La pellicola è incentrata principalmente sulla forza naturale della donna, con degli accenni plananti su temi politici, come la divisione tra classi, ispezionata e raccontata con schiettezza attraverso l’intera durata del film, e con l’innesto di scene crude che ricreano tragedie che ancora oggi il popolo messicano ricorda, come il massacro del Corpus Christi. L’amore per i piani sequenza, il ripudio per la camera a mano, danno un sapore di pacatezza e rigore, omaggio ad un modo di fare cinema che sembra lontano, ma che in realtà non da affatto un effetto nostalgico, anzi: la scelta del digitale, la cura per gli effetti sonori, l’assenza di una soundtrack, rispettano perfettamente i canoni del cinema contemporaneo, eliminando
qualunque pathos di rimpianto di un cinema che non esiste più. La costruzione delle scene sono talvolta geniali, con Cuarón che riesce a costruire suspense con un’auto che entra in un garage, o con la routine di Cloe all’interno del villino signorile. “Roma” non ha al suo centro la storia, ma il ricordo, trasuda di immagini che sicuramente fanno parte del vissuto del creatore che per questo film ha lasciato solo la produzione a terze parti. La sceneggiatura è scarna, potente, la narrazione lineare si dispiega in modo chiaro, senza rimandi o soluzioni altisonanti. Vittoria non scontata quando si parla di film autobiografici, che rischiano sempre di cadere nell’inopportuno o nel bigottismo, facendo vedere un “ciò che è stato” più puro dell’attuale. Il finale non ha messaggio, l’intero film è un solo sussurro all’orecchio dei più intelligenti. Si cela così una denuncia: scavando oltre l’estetica idillica, il bianco e nero velante i colori esplosivi della cultura messicana, si vede l’ingiustizia, il dolore per un male teofanico, un senso di connessione continua con il divino che avverte e infligge ingiustizia. “Roma” è un film silenziosamente dilaniante, un quadro, fra tanti, che cerca di dipingere la sofferenza dello stare al mondo.
PLUS
il
GOOGLE: IL CASO DRAGONFLY FRA POLITICA ED ETICA / UN'OASI FELICE DEL WEB / TRIBUNA SOCIAL / METAMORFOSI
di Leonardo Rosi Scomodo
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GOOGLE: IL CASO DRAGONFLY TRA ETICA E POLITICA Dragonfly Fra i numerosi progetti di Google ce n’è uno in particolare che sta destando un certo interesse, per le implicazioni politiche ed etiche che porta con sé. Si tratta del “Progetto Dragonfly”, che ha come finalità quella di riportare Google nell’enorme mercato cinese. Dragonfly diviene noto all’opinione pubblica tramite le rivelazioni di un dipendente di Big G fatte al giornale “The Intercept” il primo di agosto, dalle quali emergeva che l’azienda di Mountain View stesse lavorando sottotraccia al progetto dalla primavera del 2017. Questa operazione prevedrebbe principalmente lo sviluppo di un motore di ricerca che asseconderebbe i vincoli censori del governo monopartitico cinese. Uno degli aspetti più sensazionali della vicenda è il fatto che questo sarebbe fornito di un sistema di riconoscimento in grado di rintracciare, attraverso il numero del telefono connesso in quel momento, la persona che sta effettuando la ricerca, con la possibilità per il governo di ottenere una quantità immensa di dati. E’ per questo motivo che Google ha tentato fortemente di tenere il tutto fuori dalla luce dei riflettori, escludendo dalle riunioni riguardanti Dragonfly gli specialisti di privacy e proibendo di prendere appunti o scrivere mail. Ormai è nota pressoché a tutti l’oppressione a cui sono esposti i cittadini cinesi, vittime di stringenti restrizioni per quanto riguarda le libertà civili, di parola e di stampa. Per rendere la società “armonica” (come usano dire i leader del posto) il governo cinese ha sviluppato il sistema censorio “Great Firewall” che oscura sia ricerche più impegnate, come ad esempio tutte quelle riguardanti dissidenza politica, libertà di parola, democrazia e diritti umani, che quelle all’apparenza più disinteressate, come alcuni gruppi di meditazione e, non scherzo, Winnie the Pooh (protagonista dei meme di scherno verso Xi Jinping, leader indiscusso della Cina). Questo per noi è, per fortuna, inimmaginabile, ma basta cercare i video su Google per vedere con i propri occhi quanto impressionante sia questo fenomeno, la stessa Google che in qualche modo cerca adesso di prendere quel ruolo.
La protesta pubblica dei dipendenti E’ di questi giorni la notizia della condivisione di una lettera pubblica firmata da più di trecentotrenta dipendenti (che stanno via via aumentando) di Google che, facendosi portavoce, da quanto si dice, di un altro migliaio di colleghi, denunciano il comportamento della loro azienda riguardo al “Progetto Dragonfly”.
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Si è dato così il via alla prima forma di aperto dissenso dalla nascita del gigante di Mountain View, elogiato anzi dall’opinione pubblica nel corso degli anni come modello di correttezza. In questa lettera i firmatari si richiamano alle forti perplessità espresse da Amnesty International, che ha successivamente organizzato alcune manifestazioni (per la verità poco riuscite) sia in rete che sotto alcune sedi di Google. Protestano, citando la lettera, contro le “tecnologie che aiutano i potenti a opprimere i vulnerabili, ovunque essi siano”, con la paura che quanto rischia di succedere crei un pericoloso precedente. Servire al governo cinese i dati dei cittadini che usufruirebbero del servizio renderebbe infatti Google “compiacente nell’oppressione e negli abusi dei diritti umani”: “Google è troppo potente”, continuano, “per non essere ritenuta responsabile”. Oltre alla questione del progetto in sé è stato proprio il comportamento dell’azienda ad acuire il rammarico. Per ora Big G sta rispondendo con un sostanziale silenzio, commentando l’operazione come “esplorativa”. Non possiamo ancora sapere l’esito di questa sollevazione interna a Google, ma ci aiuta sicuramente a mettere in luce e a ragionare su alcune tematiche particolarmente controverse.
I precedenti La storia del rapporto fra Google e la Cina inizia nel 2006 ed è stata sempre particolarmente travagliata. In quell’anno esce la prima versione in mandarino di Google, che riesce a stabilirsi in Cina in una versione tuttavia “armonizzata”. Questa situazione prosegue fino al 2010, quando i rapporti fra l’azienda e la nazione asiatica si incrinano in via (apparentemente) definitiva: il motore di ricerca abbandona, in modo piuttosto deciso, quel sistema di censure in contrasto con i suoi valori aziendali. Il casus belli, oltre all’oscurantismo cinese, si può rintracciare in un imponente attacco hacker di cui Google è stata vittima, la cosiddetta “Operazione Aurora”, in cui sono state violate le caselle di posta elettronica di oppositori politici e le e-mail di alcune grandi imprese occidentali. Dopo questo fatto Google sposta il dominio da google.cn a google.com.hk, agganciandosi dunque a Hong Kong per poter far avere ai cinesi un motore di ricerca senza censura e del tutto legale. Tuttavia il governo cinese interviene anche qui e inizia un tira e molla fino al 2013 quando Big G toglie quello che viene definito giornalisticamente il sistema “anti-censura”, ovvero una funzione di avviso che avvertiva che la parola cercata poteva essere sensibile per la Cina, e per questo veniva bloccata. La resa del gigante americano scatenò, ovviamente, molte polemiche. Sono questi i precedenti che contornano un rapporto che, oggi più che mai, suscita particolare interesse.
L’importanza del mercato cinese Possiamo dire quello che vogliamo, ma è indubbio che la Cina è, per quanto riguarda il mercato, un vero e proprio patrimonio: starci dentro fa tutta la differenza del mondo viste le più di settecentotrenta milioni di persone attive su internet. E’ inoltre in forte crescita: Xi Jinping ha lanciato da poco il progetto “Made in China 2025” per lo sviluppo di tecnologie innovative e intelligenza artificiale, in più ci sono aziende ormai in continua espansione come Huawei o Xiaomi.
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E’ chiaro che più passa il tempo e più il mercato inizia a diventare colmo: WeChat ha il completo dominio nella messaggistica e Baidu nel campo dei motori di ricerca. Non c’è spazio per le aziende occidentali (anche perché vietate dal governo) che, se non trovano un escamotage adesso, difficilmente riusciranno a recuperare terreno: proprio il CEO di Baidu, Robin Li, ha dichiarato che “ormai le aziende cinesi sono in grado di competere su scala mondiale”. E’ per questo che i colossi dell’occidente stanno cercando di fare passi in quella direzione. Non solo Google, ma anche Apple, Facebook, Microsoft e Amazon. Gli affari di Big G in Cina non si limitano al solo Progetto Dragonfly, che è solo una parte, seppur molto importante, di un ritorno in grande stile in quel mercato lasciato otto anni fa. Questo cambio di strategia appare strano, ma bisogna tenere conto che nel 2010 il CEO di Google era Sergey Brin che, nato in Unione Sovietica, era particolarmente sensibile al tema delle libertà civili, mentre oggi Pichai sembra più incline ad una strategia di compromesso. Da quanto abbiamo detto è chiaro che, per una grande azienda, è impossibile non affrontare la questione di come operare nel mercato cinese, ma è altrettanto chiaro che è difficile non porsi delle problematiche a riguardo, dal momento che stiamo parlando di uno Stato che sfrutta la tecnologia principalmente per sorveglianza e schiavismo. Una così marcata differenza del modo di intendere internet fra le due parti in causa porta il dibattito su un piano etico.
Le questioni etiche Google è stata presa agli inizi come un modello per quanto riguarda le tematiche etiche, vista l’attenzione che poneva a riguardo. Molte volte l’azienda di Mountain View, anche a costo di perdere un cospicuo guadagno, si è tirata fuori da alcuni progetti: il caso più eclatante è quello del “Project JEDI”, che prevedeva l’uso dell’intelligenza artificiale per scopi militari, che è “costato” a Google dieci miliardi di dollari in dieci anni. Queste rinunce vanno a inserirsi nel rispetto del codice promosso dalla commissione etica Google. Fra le regole presenti nella Carta dei Principi ci sono per esempio l’obiettivo di generare vantaggi a livello sociale, il rispetto della privacy, evitare la sorveglianza di massa e non contravvenire alle leggi internazionali e ai diritti umani.Questi argomenti sono chiamati prepotentemente in causa in questi ultimi giorni. Il grande tema è quello della responsabilità: nella lettera dei dipendenti si dice che Google “è troppo potente per non essere considerata responsabile”. Le uniche linee guida che Google deve seguire sono tuttavia quelle date internamente: al di là di esse non deve rendere conto a nessuno. Ma vista l’influenza che ha, si può dire che è “compiacente degli abusi dei diritti umani” e che sta facendo gli interessi del governo cinese? In definitiva quindi: è Google a doversi fare carico di queste battaglie? Un altro tema etico interessante è quello del limite. Molti dirigenti di Google fanno parte dell’ACM, la più grande organizzazione mondiale per il calcolo che ha appena aggiornato il suo codice etico. La parte più controversa è questa: l’articolo 2.3 invita a rispettare le leggi e i regolamenti locali, nazionali e internazionali. Di per sé non ci sarebbe nulla di strano se questa regola non fosse accompagnata poi dall’invito a violare le regole non etiche se hanno una base morale inadeguata o causano un danno riconoscibile. Dov’è dunque il limite fra il rispettare i valori cinesi e l’essere complici nell’opprimere il popolo? Ma soprattutto, chi li stabilisce questi canoni morali?
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Il punto focale, e il grande cambiamento della società odierna, è che, già oggi ma ancor di più in futuro, a stabilirli potrebbero proprio essere le aziende, a seconda di come fanno uso della loro facoltà di regolamentazione. A questo punto il dilemma affonda le radici proprio nel sangue, nell’anima dell’azienda e nel suo progetto di sviluppo. Fra profitto e progresso entra in gioco un nuovo fattore, di natura strettamente etico-economica: il prezzo delle scelte morali.
Le implicazioni politiche Essendoci in gioco delicate questioni diplomatiche, la politica viene chiamata in causa. Quando le aziende arrivano ad avere una così grande influenza sulla quotidianità e sugli orizzonti di azione di tante persone e gruppi di individui, acquisiscono uno status sociale e politico di indubbio rilievo. Nonostante le dichiarazioni del 2010 di Qin Gang, allora Portavoce del Ministro degli esteri cinese, in cui si augurava che, dopo l’abbandono di Google, non ci fossero “ripercussioni fra la sua nazione e gli Stati Uniti, a meno che qualcuno non avesse voluto politicizzare la cosa”, proprio politica è diventata la questione. In risposta Obama si schierò su posizioni liberali, promuovendo un internet libero, dichiarando che “la Casa Bianca e il Presidente sono convinti sostenitori della libertà di internet”, mettendosi così al centro del dibattito. Nel corso degli anni molti esponenti di spicco della politica americana si sono pronunciati in merito alla questione cinese: recentemente il Senatore per la Florida Marco Rubio, candidato alle primarie repubblicane nel 2016, ha inviato una lettera al CEO di Google Pichai descrivendo quella di Dragonfly, qualora il progetto andasse in porto, una vittoria del governo cinese: in linea, paradossalmente, con l’idea di Xi Jinping di considerare l’internet come parte di un territorio su cui poter far valere la sovranità politica. Ma la parte più intrigante della questione politica si cela dietro le dichiarazioni di Hillary Clinton che, allora Segretaria di Stato, si schierò contro la censura cinese in un discorso intitolato “Osservazioni sulla libertà di internet”. Questo si inserisce in un più ampio contesto svelato a fine 2010 con la pubblicazione di alcuni documenti, facenti parte del cosiddetto “Cablegate”, da parte di Wikileaks. E’ emerso infatti che dietro l’ “Operazione Aurora”, l’attacco hacker di cui abbiamo parlato in precedenza, ci fossero vari esponenti di spicco della politica cinese. Il cyber assalto è stato descritto agli americani da una fonte cinese di alto livello come “di natura politica al 100%” e non avendo “nulla a che fare con la rimozione di Google [...] come concorrente dei motori di ricerca cinesi”. Questi stessi documenti rivelano inoltre una stretta relazione tra Google e le autorità statunitensi in Cina, grazie alla quale è stato possibile per la Clinton avere quelle informazioni che sono state la base per lo sviluppo del discorso di cui abbiamo parlato prima. Se dunque la politica è finita partecipe di queste dinamiche è però interessante vedere come, anche Google, abbia tenuto conto di determinati aspetti durante i fatti del 2010. Lasciando la Cina Big G ha deciso di non rivelare i sistemi di censura applicati nel paese, comportandosi da una parte in modo coerente con il suo essere azienda, ma dall’altra come un vero e proprio Stato: diplomatico, determinato e custode dei propri e degli altrui segreti. Questa rispondenza nel rapporto è indice che, quella tra politica e aziende tecnologiche multinazionali, sarà una relazione pronta a suscitare interesse negli anni a venire e a spostare ancor di più gli equilibri correnti. di Filippo Giannelli
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L’OASI FELICE DEL WEB
A raccogliere il testimone dell’applicazione deceduta fu Musical.ly, che a differenza del suo predecessore era unicamente incentrata su video musicali di lip-syncing, in maniera tale da non subire la concorrenza di Instagram. Anche questa app conobbe un particolare successo, ma i suoi sviluppatori non fecero in tempo a godere dei frutti del loro lavoro, in quanto essa venne acquistata da un mostro pronto a conquistare la scena del videosharing mobile.
I guess I never miss, huh? (L’ascesa inarrestabile di TikTok)
Riflessioni su TikTok e la nuova comicità online Negli ultimi mesi, qualunque spazio del web era accompagnato dalla presenza di un nome, che risuonava in maniera persistente nelle menti degli utenti come il ticchettio di un orologio. Questo nome, portatore di sciagura e disperazione, intasava ormai le giornate di ciascuno di noi. No, cari lettori, non stiamo assolutamente parlando di Pornhub (anche se vi sono affinità con il nostro soggetto d’indagine), ma dell’applicazione che domina le classifiche dei vari app store: TikTok. Dopo mesi di vero e proprio bombardamento mediatico sugli adspace dell’internet, noi di Scomodo, sempre attenti alle nuove tendenze del web, abbiamo deciso di analizzare a fondo le dinamiche di questa improvvisa esplosione. Per questo motivo, due baldi e giovani redattori, accompagnati da un memer in pensione (l’ex-amministratore della pagina Bill Cos/b/y) hanno deciso di addentrarsi in questa oscura giungla del web ed esplorare i segreti che si celano al suo interno.
Il picco evolutivo dei meme da cellulare: da Vine a TikTok Logan Paul: questo nome infesta Youtube da molto tempo. Per coloro meno avvezzi alle vicende della piattaforma, questo oscuro figuro risulta comunque familiare in seguito alle vicende che l’hanno visto protagonista in Giappone, dove ha avuto la brillante idea di riprendere un cadavere nella foresta di Aokigahara (nota ai più come la “foresta dei suicidi”). La sua “comicità” e successo nascono però su una piattaforma completamente diversa da quella di video sharing di casa Google: Vine. Fondata nel 2012, l’applicazione era stata studiata per ospitare video della durata di sette secondi; questa durata non è casuale, infatti l’intero progetto era stato concepito per il mercato degli smartphone, che richiede una comicità immediata e di facile comprensione. Per queste specifiche innovative, l’app conobbe una notevole fama, arrivando perfino al primo posto nell’app store per i dispositivi iOS ed ottenendo partnership con Twitter e Facebook. Resosi conto del successo del format il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, che precedentemente aveva acquistato Instagram, decise di esportarlo sul suo nuovo giocattolo, dando così vita alle Instagram Stories; assai simili ai Vines, ma dalla durata di 15 secondi. Questa sua “intuizione” riscosse un tale successo che spinse i Viners di maggiore successo a spostarsi sulla sua piattaforma dal maggior bacino d’utenza, portando al collasso della concorrenza nel 2016.
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Immaginate di fondere l’umorismo di Vine, la perfetta tempistica delle Instagram Stories e l’aspetto melodico di Musical.ly. Ecco così che otterrete TikTok: 500 milioni di iscritti, 150 paesi coperti, prima posizione nelle classifiche di tutti gli app store, 12 milioni di video al giorno. Questi dati quantificano la genialità dell’intuizione degli sviluppatori della ByteDance, che nell’ideare la propria creatura hanno deciso di raggruppare gli elementi di maggior successo dei propri concorrenti e predecessori. Non si cada nell’errore di considerare l’applicazione come una brutta copia di ciò che già era presente sul mercato, altrimenti non si riuscirebbe a spiegare il motivo del suo enorme successo. Abbiamo deciso dunque di esplorare questa realtà per capire perché risulti così attrattiva per il pubblico di tutte le età. Dopo estenuanti ore di analisi i nostri ricercatori, guidati dalle più esperte mani di una vecchia volpe del web italiano sono giunti alla conclusione che il motivo dell’exploit di TikTok risiede nell’introduzione di una funzione rivoluzionaria: il duetto. L’applicazione permette infatti di creare video di coppia in split screen, permettendo lo sviluppo di un confronto artistico fra gli users della piattaforma. Il grande errore di calcolo fatto dagli sviluppatori è stato quello però di non inserire alcun tipo di forme di consenso e controllo nella creazione dei duetti. In pratica, nel momento in cui un creator va a pubblicare un video inserendo la possibilità di essere duettato, chiunque (e teniamo a sottolineare CHIUNQUE) è libero di sfruttarlo senza dover richiedere il permesso all’utente originale. In un’epoca in cui la comicità sul web sta toccando vette di irriverenza e demenza mai raggiunte nella storia dell’umanità, questo errore si sarebbe potuto rivelare fatale, poiché poteva esporre i creatori con buone intenzioni a deliberate forme di cyber bullismo. Non serve Marco Monty Montemagno (divinità del web italiano grazie ad i suoi video esplicativi dei maggiori fenomeni di Internet) per poter intuire che è accaduto esattamente questo, ma quello che si sarebbe potuto rivelare come la rovina dell’applicazione nascente, si è invece dimostrato il suo più grande punto di forza. Orde di quattordicenni che prima occupavano i server di Fortnite hanno invaso la piattaforma appena si sono resi conto delle grandi potenzialità del duetto, che gli avrebbe permesso di attaccare chiunque avesse osato utilizzare l’applicazione nella maniera consona. Quando i nostri redattori hanno messo per la prima volta piede all’interno dell’applicazione tutto ciò che è stato scritto in precedenza appariva come una sorta di leggenda metropolitana: l’homepage dell’applicazione mostra infatti video di giovani ragazze in atteggiamenti provocatori (ricordate quando abbiamo nominato PornHub?) che mimano i successi musicali del momento e utenti dalla spiccata creatività.
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Ciò che mostra la homepage non è però la realtà dei fatti, per cui, come dei piccoli Schopenhauer, i nostri redattori hanno deciso di squarciare il Velo di Maya per carpire la vera essenza dell’applicazione. Due di loro hanno dunque deciso di addentrarsi in quella che agli occhi dei meno esperti appare come una giungla piena di insidie e per questo hanno richiesto l’aiuto di un guru che li potesse guidare attraverso questo arduo viaggio, affidando le proprie speranze e sogni nelle mani di uno dei massimi esperti di “memeologia” del globo. Grazie al suo aiuto, i due ragazzi sono riusciti a portare alla luce delle scoperte scientifiche eccezionali, andando a scovare ogni minimo segreto di questo complesso ecosistema del web e riuscendo a trovare le motivazioni dietro all’enorme successo dell’applicazione.
Le tribù di TikTok Quello in cui andiamo ad inoltrarci è uno degli ecosistemi più complessi che Madre Natura abbia donato alla nostra Terra, in cui la teoria darwiniana della sopravvivenza del più adatto trova il suo massimo compimento: una realtà in cui le varie tribù che la popolano sono in continua competizione tra loro per emergere e per sopravvivere. Alla base di questo schema piramidale troviamo l’utente medio di TikTok: di questo gruppo fanno parte tutte quelle persone che, ignare dei grandi pericoli che possono correre, decidono di usare l’applicazione per come è stata concepita, dando sfogo alla propria creatività. Come le gazzelle della savana africana passano la propria vita sperando che i propri elaborati non finiscano mai vittima delle categorie a loro superiori. Quello che non sospettano è che i loro profili sono quelli maggiormente attenzionati per potersi procacciare nuovo materiale su cui poter compiere le proprie malefatte. I primi predatori di questo gruppo sono quelli allo stesso tempo più innocui ma più irritanti, ovvero i cosiddetti “Fortnite Dancers”: questa categoria è composta principalmente da quei quattordicenni precedentemente citati che hanno passato talmente tanto tempo delle loro vite sul popolare gioco da memorizzare ogni singolo ballo del gioco. L’unico loro obiettivo è dunque quello di compiere queste danze propiziatorie in qualsiasi tipo di duetto, prediligendo soprattutto quelli che vanno a toccare tematiche delicate come l’alcolismo, l’abuso di sostanze o la morte di un parente caro. Questa tribù però dai nostri studi risulta una delle più deboli, poiché non capaci di rappresentare una seria minaccia per la sopravvivenza dell’utente medio. Per questo motivo nella scala gerarchica di questo ecosistema sono superati da coloro che abbiamo deciso di definire “Phone Abusers”, una tribù guerriera dal non spiccato intelletto, e caratterizzati da un odio recondito nei confronti di coloro che reputano inferiori. Proprio per l’unione di questi due aspetti, l’unico modo che hanno per esprimere il loro dissenso è quello di attaccare fisicamente il proprio telefono con calci, pugni e culate nel tentativo di andare a colpire la persona dietro lo schermo (fallendo miseramente e rischiando di rompere il loro unico contatto con il resto dell’ecosistema). Questa tribù risulta assai pericolosa, appunto a causa della scarsa capacità intellettiva, che li rende volubili e monodimensionali. Ad elevarsi al di sopra dei gruppi sopracitati sono presenti due comunità strettamente legate fra loro, che hanno fatto del loro legame la propria forza: stiamo parlando delle Gamer Girl e dei Gamer Boys.
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Partendo dalle prime, esse sono fiere di dedicarsi al sostentamento dei loro compagni con continue razioni di pane e viveri, dedicando la maggior parte del loro tempo all’interno delle stanze incredibilmente somiglianti alle cucine del mondo civilizzato. Quando i loro compagni sono impegnati in ardue imprese, come il NoNut November (ovvero il mese di celebrazioni in cui gli uomini evitano alcun tipo di autoerotismo in favore delle loro divinità), le Gamers sono le prime a sostenerli, coprendo le proprie nudità fino all’estremo ed evitando qualsiasi tipo di atteggiamento promiscuoso, che potrebbe compromettere le loro celebrazioni e scatenare la furia della divinità. Per quanto concerne i Gamer Boys, essi sono dediti alla protezione delle ragazze e dell’ecosistema, e per questo hanno sviluppato una avanzata tecnologia militare, che li ha portati nel tempo a poter usufruire di armi potenti come Nerf Gun o Mazze da Baseball (strumenti dall’elevato potenziale distruttivo). A differenza dei Phone Abusers, la violenza non è la loro unica arma a disposizione, ma sono organizzati in un efficiente apparato militare, capace di contrastare qualsiasi tipo di offensiva nemica, ed inoltre dispongono di uno spiccato umorismo che gli permette di distruggere con fatti e logica qualsiasi minaccia. All’apparenza questa unione sembrerebbe dominare la catena alimentare di TikTok e non presentare nemici naturali, ma più ci siamo inoltrati nelle profondità di questa selva più gli indigeni ci hanno informato di un sempre maggior numero di casi di sparizioni ed omicidi. Siamo così venuti a conoscenza che questa civiltà è fortemente minacciata da alcuni degli esseri più spregevoli che il diavolo abbia mai concepito, inviati sulla Terra per portare morte e disperazione: i Furry. Queste aberranti creature umanoidi hanno preso il controllo del Web fin dalla notte dei tempi, ma dopo secoli di lunghe battaglie apparivano quasi estinti. Sfortunatamente, poco prima che questa piaga fosse completamente debellata, i Furries hanno trovato modo di scappare all’interno della giungla “tiktoktiana”, celandosi all’interno delle fronde più oscure del suo cuore e cercando di recuperare le forze. Dopo diversi mesi di relativa pace, le prime comunità di memers che hanno cercato di prendere il possesso dell’entroterra dell’applicazione sono entrate in contatto con questi esseri abominevoli, rafforzatisi in numero e soprattutto animati da un forte di spirito di vendetta. Ad uno ad uno, chiunque finisse nel territorio dei Furries veniva catturato e sottoposto a torture psicologiche degne del Terzo Reich (come balli tribali messi in scena da uomini di mezza età travestiti da lupi antropoformi), capaci di scaturire pazzia e istinti suicidi nella mente degli osservatori. Il loro dominio appariva inarrestabile e sembravano pronti a riappropriarsi del web intero, fino a quando non hanno incontrato la tribù dei Gamers, loro nemici naturali fin dalle origini. Le 2 fazioni sono dunque scese in campo e hanno dato vita ad una lunga guerra per il dominio dell’applicazione, che perdura ancora oggi ed ha lasciato sul campo di battaglia migliaia di morti e feriti (numero destinato ad aumentare di giorno in giorno). Il risultato di questa guerra segnerà il destino dell’umanità intera ed è necessario sostenere la causa dei Gamers, per evitare che il futuro dell’umanità sia quello di esser schiavizzata da uomini di mezza età che amano traverstirsi da cani o gatti.
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TRIBUNA SOCIAL Conclusioni: uno schiaffo in faccia al politically correct Dopo questo viaggio lungo ed insidioso, i nostri redattori hanno fatto ritorno con una grande mole di appunti e scoperte, grazie alle quali finalmente possiamo svelare le motivazioni che hanno reso TikTok l’applicazione di maggior successo in buona parte del mondo civilizzato. Ciò che siamo riusciti a carpire dalle varie analisi sul campo è che TikTok all’apparenza sembra essere una degna rappresentazione dell’Inferno in Terra, in cui concetti come la ricerca della fama e lo spirito del gregario portano ad una totale snaturazione del genere umano, pronto a ridursi a delle mere macchiette comiche per raggiungere i famosi 15 secondi di gloria sul Web. Questa risulta in realtà una visione abbastanza semplicista del complesso humor di cui sono impregnati buona parte dei video presenti all’interno della piattaforma: è infatti ovvio che le ragazze che ironizzino sul fatto di essere solo proprietà degli uomini prive di alcun diritto, siano pienamente consapevoli di quello che facciano e non stiano cercando di buttare all’aria secoli di lotte femministe. La possibilità però di giocare con queste tematiche assai sensibili non è una libertà che è possibile prendersi negli altri spazi del web, che tendono ad eliminare questo tipo di contenuti poiché politicamente scorretti e assai divisivi. In questo aspetto risiede allora il motivo del successo di TikTok: agli occhi di molti utenti, l’applicazione risulta essere uno dei pochi spazi in cui poter esprimere la propria comicità senza aver paura che essa possa finire all’interno di vorticosi e turbolenti dibattiti web o venir eliminata dalle varie piattaforme. Una sorta dunque di oasi felice, in cui far proliferare ogni qualsivoglia tipo di comicità senza alcun timore, che va in controtendenza rispetto ad altri giganti del web che cercano di ripulire la propria immagine per risultare il più advertisers-friendly possibile. Per quanto tutto questo possa apparire un controsenso rispetto a ciò che aveva letto in precedenza, la nostra redazione si augura che gli sviluppatori proseguino su questa linea e non cerchino di sconvolgere in alcun modo il delicato ecosistema dell’applicazione, la cui caduta rischierebbe di innescare un terribile effetto domino capace di far crollare quel fantastico mondo che è la comicità del web. Questa realtà va difesa affinchè il politically correct non riesca ad uccidere uno degli ultimi luoghi sul web in cui è possibile ironizzade su tutto senza il rischio di venir censurati. Di Luca Bagnariol e Filippo Giannelli Con la collaborazione di Simone Micangeli (ex amministratore della pagina “Bill Cos/b/y)
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(RUBRICA) la comunicazione politica nell’epoca dei social Per lungo tempo, i maggiori esponenti della politica partitica italiana sono stati sottoposti alle tribune elettorali, spazi televisivi in cui le loro proposte si scontravano con le opinioni popolari portate in studio da vari rappresentanti della stampa italiana. Oggi, questo format comunicativo è stato sostituito nell’immaginario collettivo dal rapporto “diretto” che il politico intrattiene con i comuni cittadini grazie ai social networks.
Capitolo 2:
Il Mantra del “papà” Il paternalismo è una delle forme di impostazione dialettica più durature e persuasive della storia della politica. Porsi innanzi al proprio uditorio in maniera bonaria ed amichevole, quasi come se non ci fosse nessuna differenza fra chi tiene il comizio e la persona in platea che presta il proprio orecchio all’ascolto, è una delle tecniche più subdole ed efficaci se si vuole ottenere in maniera veloce la fiducia della popolazione. Non deve sorprendere dunque che con l’avvento dei social, il cui compito primario è permettere a ciascuno di noi di condividere ogni singolo momento della propria vita privata, questa dialettica abbia trovato un nuovo e florido spazio di diffusione, subendo però allo stesso tempo alcune modifiche per aumentarne l’efficacia. Come visto nel primo capitolo di questa rubrica, uno dei maggiori problemi che la classe politica italiana deve affrontare in questo momento è la totale mancanza di fiducia da parte dell’elettore medio, che vede il politico come una figura chiusa nei palazzi del potere, atta solo a prendere decisioni sulle quali in realtà non ha alcun tipo di influenza. Per risolvere il problema, uno dei modi di riconquistare la fiducia del popolo è certamente quello di abbattere qualsivoglia tipo di differenza e distanza fra sé stessi e il proprio elettorato, cercando di mostrare come ogni singola decisione presa rispecchi la mentalità e le preoccupazioni dell’uomo comune. Tutti questi fattori hanno portato i politici ad interrogarsi su quale fosse il modo migliore per far breccia nel cuore della popolazione ed ottenere la loro cieca fiducia, finché non sono riusciti a scovare la chiave di volta per risolvere questo grande enigma del consenso: parlare come padri. Un linguaggio simile infatti gioca con la psiche di chi ascolta, entrandovi immediatamente in contatto. È perfetta per giustificare ogni tipo di scelta politica davanti ai loro occhi, mostrando come ogni presa di posizione derivi da una mentalità comune tra politico ed elettorato. Ma il solo parlare e pensare come un padre, molto spesso non è abbastanza. Ed è proprio qui che l’innovazione dei social network ha apportato un miglioramento fondamentale a questa strategia politica, permettendole di esplodere e di essere sempre più abusata. Facebook ed Instagram si rivelano esser i mezzi perfetti per accompagnare alle proprie parole foto della propria vita privata, nelle quali si cerca di far vedere al popolo che dietro quella carica politica si cela un uomo comune sia negli atteggiamenti che nei passatempi.
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Sono lontani i tempi in cui il senso di rappresentanza delle istituzioni era tale che ad esempio Aldo Moro non abbandonava mai il suo completo e cappotto di lana, neanche quando andava ad incontrare gli italiani in spiaggia durante il mese di agosto: un gesto simile oggi sarebbe ripudiato dalla popolazione, che preferirebbe (e preferisce) dare fiducia a chi invece sul suo profilo social posta un buon piatto di pasta oppure foto di sé, magari intento a mangiare pizza al taglio durante la pausa di una seduta parlamentare. Questa logica dell’uomo comune, costantemente intrecciata con la dialettica genitoriale, diventa il martello per abbattere il muro della diffidenza dell’elettorato e giungere così al suo cuore. Ormai è diventata la cifra dialettica del nostro tempo, venendo sfruttata da quasi tutti i maggiori esponenti politici. Non si deve cadere nella logica secondo la quale questo tipo di dinamica appartiene ad un’unica classe dirigente di stampo esclusivamente conservatore (come invece buona parte della popolazione tende a credere). Gli esempi che andremo a sviluppare in seguito cercheranno di sfatare questo mito. Il maestro della dialettica paternalistica è il segretario della Lega Matteo Salvini, che ha fatto del “da papà” il suo personale mantra per la comunicazione politica, sia in ambito istituzionale che in quello social. Come ha affermato il suo social media manager, Luca Morisi, in un’intervista al Corriere della Sera, è lo stesso Leader del Carroccio ad aver sviluppato un tale linguaggio e a portarlo avanti, spesso prendendo alla sprovvista perfino il suo collaboratore più fidato. Salvini infatti ha intuito che in questo linguaggio risiede la forza che gli ha permesso in poco tempo di trasformare la Lega da semplice partito secessionista a serio pretendente al ruolo di primo partito nazionale: infatti riesce a trasmettere un’idea di ordine e stabilità, fondamentale per un partito che ha fatto della sicurezza uno dei punti cardine della sua politica, approfittando delle incertezze e del malcontento del popolo. L’idea del padre di famiglia per buona parte di popolazione è quella di un uomo capace di far arrivare il proprio nucleo familiare a fine mese grazie alla sua leadership, per cui applicando questo concetto su scala nazionale si sentono assai rassicurati nell’idea di farsi guidare da una figura simile.Inoltre, la figura del padre tutto d’un pezzo e della famiglia tradizionale è molto vicina alle idee reazionarie portate avanti dal leader del Carroccio, che mette in mostra con orgoglio il suo ruolo di padre. Dopotutto, i padri italiani conservatori sono tra i principali obiettivi della propaganda leghista, e non possono che sentirsi rappresentati da un uomo come Salvini. Che il comportamento paternalistico di Salvini eserciti un certo fascino sui suoi sostenitori è dimostrato dai commenti contenenti elogi sulle sue qualità di buon padre presenti anche sotto post che non hanno nulla a che vedere con l’argomento. Su questo particolare aspetto, abbiamo avuto modo di intervistare Francesco Maselli (collaboratore del Foglio e dell’Opinion, esperto di geopolitica francese) che su questo tema si era già espresso in precedenza. Secondo la sua analisi, “presentare le proprie decisioni politiche come frutto delle preoccupazioni di un buon padre di famiglia non è altro che un’ulteriore garanzia di sicurezza che il politico vuole dare al proprio uditorio, come a voler dimostrare che le motivazioni che lo hanno spinto a portare avanti quel preciso disegno di legge siano le stesse dell’uomo medio italiano”. Proprio questa garanzia di sicurezza riesce a mandare in tilt la razionalità umana e spingere la popolazione a concedere piena fiducia all’Uomo Ruspa, che vede i suoi consensi aumentare di giorno in giorno.Questo incredibile successo non è certamente passato inosservato nella scena politica italiana, tanto è vero che molti politici minori hanno iniziato ad utilizzare una dialettica simile per emergere dal pantano politico del nostro paese, ma ha avuto anche il demerito di oscurare in realtà l’iniziatore di questo modello: il buon ex-segretario del PD (nonché a quanto pare prossimo scissionista) Matteo Renzi.
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Anche Renzi è preoccupato di darsi arie di papà modello, ma lo fa in maniera assai meno martellante rispetto a Salvini, cercando di lanciare messaggi ben più complicati rispetto a quelli che arrivano dal profilo istituzionale del leader della Lega. Lo testimoniano frasi dai toni chiaramente polemici come ‘’resto in politica per i mei figli’’ o, andando più indietro nel tempo alle dimissioni del 2016, ‘’torno a giocare con i miei figli’’.Queste due ‘’versioni’’ di paternalismo per quanto possano essere simili e animate dalle stesse intenzioni populistiche sortiscono risultati profondamente diversi tra loro, e sono l’ennesima dimostrazione di quanto il modo di interagire sui social sia molto più importante dei contenuti effettivi, che tra l’altro spesso e volentieri sono scarsi o addirittura inesistenti. Oggi gli elettori non vogliono più un leader colto e con delle idee ben definite, perché spesso e volentieri si sono sentiti delusi dalla politica, giudicando i suoi esponenti come membri dell’establishment che hanno a cuore solo il tornaconto personale, e di conseguenza ai loro occhi appare preferibile qualcuno con i piedi per terra e che parli la loro stessa lingua. Questa ossessione del buon padre di famiglia non ha colpito solamente i due Mattei dello scenario politico italiano, ma anche molti altri personaggi, come il pentastellato Alessandro Di Battista, che ama dedicare i suoi post all’amatissimo figlio, in maniera eccessiva e quasi caricaturale. Come affermato però da Maselli, la narrazione portata avanti da Di Battista è fortemente centrata all’interno della narrazione del suo personaggio, per cui risulta essere una sorta di esperimento futuristico rispetto invece al paternalismo classico precedentemente citato. Assai più difficile invece che una simile dialettica venga adottata invece da donne: nella visione generale infatti, se il buon padre di famiglia è colui che amministra la famiglia e riesce a farla arrivare a fine mese senza alcun tipo di problema, la buona madre di famiglia è colei che dedica la propria vita interamente alla cura del focolare domestico. Questa forma di mentalità patriarcale è talmente radicata in buona parte della popolazione che sarebbe controproducente perfino per Giorgia Meloni andare ad utilizzare una dialettica simile, poiché incapace di aggiungere alcuna garanzia di sicurezza al discorso portato avanti fallirebbe nel tentativo di accaparrarsi la fiducia dell’elettorato. L’analisi portata avanti in questo articolo ci fa capire quanto la dialettica paternalistica risponda ad una nuova necessità della popolazione di affidare la propria fiducia a persone che loro sentono vicine e simili, ed è esattamente uno di questi aspetti ad aver messo fortemente in crisi la politica parlamentare rappresentativa: l’elettorato non vuole più vedere le proprie idee unicamente rappresentate, ma invece vuole sentire che le proprie motivazioni e preoccupazioni influenzino direttamente la vita politica del paese. Quale modo migliore per ottenere questo risultato se non affidare le proprie speranze allora ad una persona che pensa ed agisce come me? Forse, proseguire su questo processo di deistituzionalizzazione dell’attività politica non farà altro che far passare il messaggio che chiunque è libero di far politica (idea alla base ad esempio del Movimento 5 Stelle) fino al punto tale in cui le competenze verranno considerate dei meri optional per nulla influenti nella scelta del miglior leader politico per la guida del paese. La rivoluzione della dialettica social potrebbe dunque essere il primo passo di una più grande rivoluzione delle istituzioni occidentali, ma non possiamo essere certi che questo sia il futuro che ci attende. L’unica cosa che possiamo fare per evitare questo scenario catastrofico è impegnarsi affinché la classe politica abbandoni tutti questi fronzoli dialettici e torni a coltivare quel senso dell’istituzione che rendeva fieri i politici di essere servitori dei cittadini e dello Stato, senza che fossero costretti costantemente a mettere in mostra la propria vita privata per guadagnare consensi. Di Luca Bagnariol e Bianca Pinto
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METAMORFOSI (RUBRICA) «La psicoterapia. Cura e guarigione dalla malattia mentale» Attraverso interviste a psichiatri e psicologi, Metamorfosi indagherà i fenomeni caratteristici dell’età evolutiva e della primissima età adulta. Andando a caccia di risposte chiare ed esaustive, cercheremo di proporre un’indagine che scavalchi gli stereotipi e i preconcetti sul mondo dell’adolescenza e indirizzi quei fenomeni che molto spesso sono comunemente intesi in maniera grossolana ed inesatta.
Scritto dalle psichiatre e psicoterapeute Giorgia Bilardi, Silvia Solaroli e Luana Testa ed uscito per L’Asino d’oro edizioni a giugno 2016, il saggio “La psicoterapia” illustra in maniera molto agile e chiara cosa è e come è nata la psicoterapia, quando è necessaria, cosa succede durante una seduta individuale o di gruppo e quali sono gli strumenti del terapeuta, a partire dalla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli. Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato una delle autrici, la dottoressa Luana Testa. Cos’è e cosa non è una psicoterapia? Ci sono diverse teorie su cosa sia la psiche, ed è in base all’idea che si ha di essa che si imposta una psicoterapia: per noi la psicoterapia è cura per la guarigione, non si tratta quindi di fare assistenza, di consolare, di consigliare o di provare ad influire in maniera diretta sul comportamento. Ad ammalarsi è una realtà non materiale, ovvero il pensiero non cosciente e gli affetti, ed è su ciò che dobbiamo intervenire. Come si distingue la sanità dalla malattia? La malattia è quando si perde il rapporto con la realtà – ma non necessariamente quello con la realtà materiale: ad alterarsi è soprattutto il rapporto con la realtà umana propria e altrui e la capacità di cogliere il senso profondo dei propri vissuti. La malattia riguarda tre aspetti: il pensiero non cosciente, il pensiero cosciente ed infine il comportamento e molto spesso una persona può risultare assolutamente “normale” nel comportamento e nella coscienza, ma avere un problema ad un livello più profondo e latente. L’alterazione del rapporto con la realtà si esprime a livello non cosciente con la negazione e l’annullamento, che fanno di ciò che è ciò che non è, la prima deformando e la seconda facendo sparire dentro di sé le qualità dell’altro o l’esperienza vissuta con l’altro, come se ci non fosse mai stata. Il comportamento alterato è quindi sempre frutto di un pensiero alterato, e la sua origine va individuata nella dimensione non cosciente. Spesso ci viene detto che siamo “tutti un po’ malati”, altri pensano che la malattia mentale sia il risultato di squilibri organici. Come ci si ammala? La realtà mentale dell’essere umano non è qualcosa di preesistente o determinato geneticamente, ma è una realtà non materiale che si crea al momento della nascita, quando il feto – che è realtà puramente biologica – “viene alla luce”:
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la retina, che è la parte esposta della sostanza cerebrale, reagisce allo stimolo luminoso con la pulsione di annullamento che rende “non esistente” la realtà non umana, percepita come troppo aggressiva; questo momento di separazione tra sé e il mondo esterno non umano consente la creazione del pensiero: affiora la memoria della sensazione avuta nell’utero materno a contatto con il liquido amniotico, e da qui scaturisce l’intuizione dell’esistenza di un altro essere umano uguale a se stesso verso cui rivolgersi. La dinamica della nascita riguarda tutti gli esseri umani, siamo tutti naturalmente portati a cercare il rapporto interumano: se questo desiderio di rapporto viene soddisfatto il bambino accrescerà la propria vitalità, se invece verrà ripetutamente frustrato e deluso da genitori carenti può succedere che il neonato perda progressivamente la vitalità chiudendosi nei confronti del mondo umano. In cosa la diagnosi medica è sovrapponibile a quella psichiatrica e in cosa si differenzia? Dalla medicina organica abbiamo acquisito il metodo medico: dobbiamo effettuare una diagnosi differenziale, distinguendo la malattia mentale da un disturbo neurologico, ad esempio. Nel corso della terapia la diagnosi però diventa dinamica: una persona può essere depressa oggi ed euforica domani, la diagnosi va fatta in base al “qui ed ora”, al rapporto che di volta in volta il paziente instaura con il terapeuta. Dobbiamo anche essere in grado di fare una diagnosi di psicoterapeuticità: tutti potenzialmente possono affrontare una psicoterapia, ma a volte ci troviamo di fronte a dei pazienti che non hanno una reale intenzione di cura, non sono disposti a mettersi in crisi o a modificare il proprio modo di pensare. Mi capita di visitare persone che mi dicono di stare male, ma non hanno la consapevolezza di essere malati, mi dicono “sto male per colpa di mia madre, del mio fidanzato, del mio datore di lavoro…”, attribuendo sempre all’esterno il proprio malessere: è chiaro che l’esterno c’entra, ma quello che io devo indagare è la complicità e l’alleanza che il paziente instaura con chi gli fa del male. Infatti, quando il bambino non viene soddisfatto nella sua richiesta di rapporto, di essere visto, mette in atto lui stesso questo “non vedere”, quest’assenza di affetti. C’è “un’identificazione con l’oppressore” e chi si ammala diventa lui stesso anaffettivo, agendo la pulsione di annullamento nei confronti della propria capacità affettiva verso ciò che è umano. Spesso è molto difficile accettare di essere malati, ma è fondamentale per la cura: la riuscita della cura sta nell’agire contro la propria pulsione di annullamento, aumentando la vitalità, che può trasformarla in capacità di pensiero, di fantasia Che differenze ci sono tra una terapia individuale e una di gruppo? In base a cosa si decide di far iniziare ad un paziente un gruppo? La terapia di gruppo ha delle potenzialità terapeutiche nettamente superiori rispetto a quella individuale: il rapporto duale alla lunga tende a diventare autoreferenziale, il paziente tende a chiudersi nella propria realtà individuale e personale, per cui è bene che possa entrare appena possibile in un gruppo di psicoterapia che gli permetta di aprirsi alle problematiche e ai vissuti altrui. La socialità è una caratteristica umana e il fatto di condividere delle cose tanto profonde - i sogni e la loro interpretazione - è qualcosa che ha una potenza enorme sul piano emotivo e affettivo. Mi capita di vedere dei cambiamenti enormi nel passaggio dall’individuale al gruppo: spesso persone che mi sembravano a buon punto evidenziano nel gruppo una serie di problematiche che prima non erano emerse. Il gruppo fa fare degli scatti enormi a chi inizia quest’esperienza, velocizza e approfondisce molto il processo di cura. Il passaggio dalla terapia individuale a quella di gruppo è assolutamente variabile per ogni paziente e spesso è un’esigenza che emerge dal non cosciente.
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n° 17
Quali sono gli elementi fondamentali di una psicoterapia? Gli strumenti di cui dispone un terapeuta sono il setting, il transfert e Dicembre l’interpre- 2018 tazione/frustrazione. Il primo è il luogo e il tempo della cura, che devono essere concordati: il tempo ha un significato importante, e rispettare l’orario di entrata e Redattori di uscita costringe il paziente a operare continue separazioni, prima dalla realtà esterna e poi dalla psicoterapia. La parola transfert indica la relazione che si stabilisce tra terapeuta e paziente. Al contrario della psicanalisi, perBucarelli noi la pretesa è Cataldi Anna • Camilla che il paziente ci veda per ciò che siamo, per potersi liberare delle proprie idenDaniele Gennaioli • Filippo Giannelli tificazioni e sviluppare una propria identità. Infatti, come abbiamo detto prima, la Ismaele Calaciura • Leonardo Rosi Giordani • Maria malattia si determina quando si ha un rapporto alterato conLuca la realtà umana pro- Marzano Valeria Sittinieri • Luca Bagnariol pria e altrui. L’interpretazione, in particolare dei sogni, è la terza colonna portante, Bianca • Alice Paparelli attraverso di essa il terapeuta traduce il linguaggio dei sogni come sePinto traducesse Simone una lingua, in quanto essi sono pensieri non coscienti che hanno quindi un sen-Micangeli so che va compreso: nel corso della terapia vediamo spesso che Francesco la qualità Paolo delle Savatteri Cosimo Maj • Susanna Rugghia immagini si modifica completamente. Attraverso i sogni si ha accesso al pensiero Simone Martuscelli • Pietro Forti più profondo del paziente, che molto spesso – per effetto della scissione caLuigi Simonelli che • Jhonathan Ruiz ratterizza la malattia mentale – dice qualcosa a livello cosciente ma pensa tutto il contrario a livello non cosciente. L’interpretazione serve anche a superare questa scissione, e la frustrazione delle dimensioni patologiche determina nel tempo una Responsabile trasformazione a partire dall’interno, e successivamente del pensiero cosciente editoriale: Edoardo Bucci e del comportamento. Responsabile sezione “Attualità”: Pietro Forti Da terapeuta, quali sono i segnali che ti dicono che il paziente è guarito e che la Responsabile sezione “Cultura”: terapia può essere conclusa? Jacopo Andrea Panno Il primo step di guarigione è riacquisire la capacità di immaginare comparsa Responsabile sezione “Il Plus”: alla nascita e persa nei rapporti deludenti vissuti nei primi anni di vita, Lucatuttavia, Bagnariol la nascita non è ancora l’immunità: forti delusioni sul piano affettivo o violenze Responsabile sezione “Focus”: Maj psichiche potrebbero far riammalare il paziente. Per parlare di una veraCosimo e propria
BBraio pag. 16 / 18 / 19 / 20 / 62 Emanuele Faro pag. 30 / 31 / 32 / 33 / 52 / 53 / 54 / 60 / 63 Maria Marzano pag. 12/ 46 / 47 / 62 Gabriel Vigorito pag. 25 / 27 / 28 / 29 / 48 / 50 / 57 / 58 / 59
Fotografi Emma Terlizzese pag. 36 / 38 / 40
guarigione dobbiamo raggiungere lo svezzamento, ovvero la capacità di fare separazioni che ci rendano non dipendenti e bisognosi della conferma altrui: nello sviluppo fisiologico è un processo lungo, che inizia quando il bambino si stacca dal seno materno e procede fino alla pubertà e l’adolescenza, quando il ragazzo comincerà a rapportarsi all’essere umano diverso da sé. La separazione dal terapeuta quindi passa per diverse acquisizioni, ed è favorita dalla terapia di gruppo. Possiamo quindi parlare di guarigione vera e propria quando il paziente avrà ricreato tutte queste tappe della vita e riuscirà a rapportarsi all’essere umano diverso da sé in maniera sana. Dato che la Rubrica riguarda principalmente l’adolescenza, cosa mi puoi dire riguardo l’importanza della prevenzione? Non c’è ancora una cultura sulla psicoterapia, molto spesso tra i ragazzi chi va da un terapeuta viene stigmatizzato come un “matto”, uno strano. Ma per la malattia mentale vale lo stesso discorso della malattia organica: prima si interviene migliore è la speranza di guarire completamente; come si va dal medico per dei piccoli disturbi o per delle analisi a scopo preventivo, non bisogna aspettare che un disagio o un sintomo di malessere psichico diventino palesi o invalidanti perché si ha paura di affrontare una psicoterapia! Tante cose che vediamo negli adulti sono nate nel periodo dell’adolescenza, se non prima. Poter affrontare queste problematiche il più precocemente possibile significa poter vivere la propria vita al meglio, sviluppando al massimo le proprie potenzialità umane. Di Alice Paparelli
Copertina
Edoardo Massa Artwork
Frita 82
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