SPAZIO ONTOLOGICO

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Collana Alleli / Research

Comitato scientifico

Edoardo Dotto (ICAR 17, Siracusa)

Emilio Faroldi (ICAR 12, Milano)

Nicola Flora (ICAR 16, Napoli)

Antonella Greco (ICAR 18, Roma)

Bruno Messina (ICAR 14, Siracusa)

Stefano Munarin (ICAR 21, Venezia)

Giorgio Peghin (ICAR 14, Cagliari)

ISBN 978-88-6242-775-3

Prima edizione gennaio 2023

© LetteraVentidue Edizioni

© Francesco Leoni

È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyright delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa.

Book design: Gaetano Salemi

In copertina: Cappella di San Nicolao (Bruder Klaus Kapelle), Mechernich, Germany, 2007. Peter Zumthor. Vista interna.

LetteraVentidue Edizioni Srl

via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa, Italy www.letteraventidue.com

SPAZIO ONTOLOGICO

Le forme della dialettica interno/esterno

Indice

Premessa

Space oddity

Introduzione

Spazi ibridi

Elementi spaziali Stereotomico e tettonico Spazio come vuoto

Lo spazio del limite Spazio e luce Spazio naturale illimitato e spazio antropizzato architettonico Spazio come volontà, immagine e percezione

Spazio nel tempo. La sequenza

Lo spazio della memoria

come progetto

Spazio
Conclusione Bibliografia 6 11 33 41 55 59 67 75 81 91 103 119 125 152

Premessa

Questo volume, con evidenti intenti didascalici e, in qualche modo, enciclopedici, si pone l’ambizioso obiettivo di sistematizzare, o comunque fissare in forma scritta, condivisibile e, conseguentemente, criticabile, una serie di riflessioni che hanno accompagnato l’autore nei propri anni di ricerca e di studio nell’ambito della disciplina architettonica: l’idea di spazio nei suoi termini più ontologici e le proprie riflessioni nell’atto progettuale.

La sua stesura ha richiesto un enorme sforzo di sintesi all’interno di mondi che si muovono su discipline diverse – dalla filosofia alla fisica, dall’arte all’astronomia – e su di un tappeto temporale immenso – dalla civiltà micenea alla contemporaneità. Evidenti semplificazioni si sono rese necessarie agli obiettivi della ricerca e non hanno voluto intraprendere strade su campi che meriterebbero ulteriore spazio e indagine. I temi tratteggiati non hanno né la pretesa, né la possibilità di sviluppare un compendio esaustivo o, tantomeno, un atteggiamento manualistico o trattatistico. Il testo, nella sua interezza, si pone di certo non come un punto di arrivo, né, tantomeno, come una risposta definitiva. Al contrario, sebbene abbia cercato di ordinare e costruire una teoria di interpretazione dell’idea di spazio, apre nuove possibilità di indagine ed esplorazione.

Per quanto mi riguarda, lo sforzo compiuto è stato eminentemente ripagato dalla linea di indagine che lo stesso redigere ha delineato attraverso le pagine. Come un progetto che si svela e giustifica via via che lo si disegna, quasi apparendo come un’epifania tra le mani di chi scrive.

Spazio ontologico

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Considero, inevitabilmente, questo lavoro come un punto di partenza da cui proseguire le mie ricerche.

Questo processo si è reso possibile certamente grazie agli anni di lavoro e studio con i miei colleghi, soci e collaboratori che intendo ringraziare qui in un plauso generale (anche per evitare eventuali, sbadate, omissioni). Non posso però non esprimere gratitudine specificamente per alcune persone che hanno collaborato attivamente alla redazione del libro. Innanzi tutto il Prof. Arch. Franco Purini, con il quale ho avuto la fortuna di confrontarmi in differenti situazioni su questi temi e che ha, con il suo autorevole giudizio, legittimato queste pagine, illuminandomi su aspetti e direzioni che hanno arricchito questa pubblicazione e che saranno portanti nel prosieguo delle mie investigazioni. Il Prof. Arch. Francesco Novelli, che ha condiviso come me numerose esperienze che hanno prodotto alcune delle riflessioni qui riportate e che leggendo il manoscritto mi ha rassicurato sulla non superfluità delle mie considerazioni.

L’Arch. Greta Allegretti e l’Arch. Alberto Trapuzzano Molinaro che rileggendo a fondo le prime bozze, non solo hanno corretto errori (tanti) ortografici, sintattici e semantici, ma soprattutto, mi hanno suggerito letture e visioni differenti.

▶ 7 Premessa
00 ▶ Rolex Learning Center, Losanna, Svizzera, 2010. Vista.

che cultuale, all’ingresso delle persone, ma che, attraverso un controllo della luce totale, gestisce il rapporto dell’edificio con l’ambiente esterno e, come ci insegnano gli studi di Doxiadis all’inizio del secolo scorso, le relazioni fra i differenti monumenti.

Una dicotomia filtrata dagli ambienti progressivi e dai percorsi del peristilio e del pronao che fungono da camere di decompressione. Qui i limiti che definiscono lo spazio sono di natura luministica, di livello di privacy, gerarchica, culturali e compositivi e l’essenza interna o esterna dello spazio divino si fa di difficile definizione. È interessante notare come in epoca molto precedente già le piramidi, monumenti funerari per eccellenza, costruivano una dicotomia fra interno – il luogo vero e proprio atto alla conservazione del defunto e dei suoi oggetti per la vita nell’aldilà, completamente autoriferito e chiuso in se stesso, protetto e nascosto anzi, irraggiungibile ed esterno – e l’altro volto della tomba, quella piramide che, innalzandosi verso il cielo con la sua immane massa e dimensione, non solo suggerisce un collegamento con l’aldilà, ma, soprattutto, si rende visibile da decine e decine di kilometri

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05 ▶ Partenone, Atene, Grecia, V secolo a.C. Un’immagine di fine Ottocento.

esibendo tutta se stessa e costruendo un rapporto di pura rappresentatività e simbolismo con il mondo al di fuori di sé. Tutto ciò mostrandosi completamente impermeabile ed occludendo ogni tipo di collegamento con l’ingresso al proprio interno.

Qui il volume del vuoto, e quindi dello spazio, all’interno non raggiunge i 2.200 metri cubi, mentre quello della massa costruita, e quindi del volume non abitabile, arriva a 2.658.000 metri cubi, sviluppando un rapporto fra vuoto e pieno che è dello 0,082%.

Un rapporto questo, però, che dall’esterno non è percepibile e che, al netto delle nostre ormai diffuse conoscenze a proposito, potrebbe indurre a ritenere le quattro pareti triangolari coincidenti con semplici muri che si fanno guscio di un immenso vuoto interno, e non di una massività mai più ripetuta in nessun edificio nella storia. La potenza plastica dello spazio è, per inverso, altrettanto ben rappresentata dal sito archeologico delle chiese rupestri vicino alla città di Lalibela, in Etiopia, dove l’edificio vero e proprio viene ottenuto scavando la roccia e svuotandola di quei pieni che imprigionavano la chiesa al suo interno. Un’attività eminentemente scultorea che, a differenza dell’approccio michelangiolesco, produceva non solo volumi ma anche vuoti, e quindi spazi. Un sistema che si sviluppa per sottrazione di volume e non per addizione dello stesso.

In effetti, il pregiudizio per il quale lo spazio architettonico si identifichi con quello cavo, quello prettamente interno, nasce millenni fa, in particolar modo con l’impero romano quando l’arte del costruire diventa una priorità. Il Pantheon rappresenta uno spazio che unisce nello stesso luogo la terra con il cielo, definendo la forma del cosmo umano e mettendo l’uomo stesso al suo centro. È evidente come il Pantheon sia prima di tutto uno spazio interno. Muovendo dalla piazza antistante e inoltrandoci nel suo pronao colonnato, lo spazio diventa di ‘soglia’, un ambiente che funge da filtro e che contrae lo spazio stesso. Invece, appena varcata la porta, lo si amplifica ed esplode in questo ecumenico mondo artificiale. Qualunque asse spaziale diventa simmetrico rispetto ad ogni direzione, mentre l’oculo centrale riconnette con l’asse principale, quello verticale dell’axis mundi. Il Prof. Ernesto D’Alfonso, in una delle sue acute osservazioni, definiva il Pantheon come un “interno al cubo”.

«In questo spazio (del Pantheon, n.d.r.) può veramente esaurirsi il

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Space
oddity

ibridi

― Spazi

Come abbiamo visto precedentemente, la concezione di spazio è dirimente sul giudizio dell’architettura e, conseguentemente, anche la stessa storia dell’architettura potrebbe essere interpretata in termini cronologici, come un percorso di continuo affinamento, ma giudicata attraverso gli stessi strumenti, considerata per le sue qualità differenti attraverso il tempo, dove lo spazio si fa strumento di giudizio sia per un tempio di Karnak, sia per un edificio di Alberto Campo Baeza. Nonostante questa premessa, se sintetizziamo per grandissime linee la posizione di Sigfried Giedion, tra gli studiosi che più si sono cimentati in questo genere di analisi, egli riassume le interpretazioni dello spazio architettonico delle varie epoche in tre macro-fasi:

– nell’architettura greca lo spazio è intesto come manifestazione flessibile e scultorea il cui esempio è il Tempio;

– nell’architettura romana come spazio chiuso, ben rappresentato dalla Domus e dalla sua struttura centripeta;

– nell’architettura moderna come spazio delimitato ma aperto verso l’esterno.

Si può di certo dissentire da questa classificazione piuttosto massimalista che esclude concezioni spaziali differenti e caratterizzate da aspetti

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Spazi ibridi
09 ▶ Tempio E o Tempio di Hera, Selinunte, prima metà V secolo a.C. Vista.

21 ▶ Sant’Ivo alla Sapienza, Roma, 1643-1662. Francesco Borromini. «Schemi tensori ideali che spingono dall’interno la materia ad espandersi e delle forze esterne ‘del mondo ostile’ che li contrastano. La materia si addensa ove la opposizione, la contraddizione esterna è più acuta e potente; si dilata ove la forza interna supera, travalica, ogni forza, pressione, esterna. Lo spazio è così, palese rappresentazione drammatica tra la volontà di disperdimento felice – di conquista celeste – e l’ostilità delle forze del mondo che la sopraffanno»11.

22 ▶ Cappella Sforza, Basilica di Santa Maria Maggiore, Roma, 1564-73. Michelangelo Buonarroti. «Pianta dello spazio centrale. Schema delle tensioni che sembrano gonfiare e incurvare a vela le due pareti laterali ove la materia, che non sorregge che sé stessa, è rarefatta e può disperdersi all’infinito»12

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23 ▶ San Carlo alle Quattro Fontane, Roma, 1634-1644. Francesco Borromini. «Schemi dei tensori ideali dello spazio sacro interno che, con la sua sovrannaturale, spirituale, forza di espansione, spinge, incurva, travalica la umana, pagana, struttura muraria che è posta a richiuderlo, limitarlo, quasi a respingerlo. Nascono da questi tensori contrastanti quegli allucinanti campi gravitazionali che distorcono, piegano, con una coerenza metafisica, gli elementi della sua architettura. […] La pressione spirituale dello spazio interno scoppia all’esterno – dopo avere incurvata di forza la fronte muraria – in un vano, protetto e guardato dagli angioli, ove avviene l’apparizione del Santo e nella edicola centrale dell’ordine superiore ove nasce l’impalpabile segno della Vergine»13.

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Lo spazio del limite

geolocalizzarsi, di posizionarsi nel contesto e di misurare le distanze, paradossalmente anche in rapporto allo spazio naturale, ora esterno. Estremizzando, sono proprio i gesti, le azioni, i riti, la prossemica a definire gli spazi e che li rendono espressivi, connotandoli ed assecondandone la natura in relazione alla loro fruizione e specificità e quindi rendendoli abitabili e sociali in accordo con le modalità che gli stessi assumono rispetto alla loro conformazione. Proprio attraverso la loro plasticità l’architettura, anzi lo spazio, raggiunge il proprio livello di espressività e caratterizzazione definendo più direttamente quello architettonico come quello esperienziale.

Questo processo di antropizzazione dello spazio verificatosi con la propria circoscrizione da quello illimitato della natura, è attuato dall’uomo per l’uomo per la costruzione di rapporti sociali. Per l’architetto spagnolo Fuensanta Nieto progettare significa relazionarsi, e l’architettura è la materializzazione di molteplici relazioni intangibili: la connessione tra bisogni, luoghi, materiali e forme, ma anche aspirazioni, esperienze o ricordi che cerchiamo di catturare in un istante, in uno spazio costruito, perché «Gli spazi che ci circondano determinano il nostro atteggiamento verso la vita». Quella che viene attribuita agli architetti, infatti, è una grande responsabilità perché la disciplina, costruendo la scenografia dove si svolge la vita, interferisce con quest’ultima in maniera determinante, per cui progettare gli spazi in cui viviamo, dove lavoriamo, dove studiamo, le strade e le piazze dove camminiamo, definisce, sia in maniera conscia che inconscia, la qualità delle nostre esistenze ed il modo in cui le affrontiamo. «Potremmo così ipotizzare che precise proporzioni formali sono in qualche modo capaci di guidare la lettura che l’uomo ha dello spazio. Estremizzando e proponendo una sintesi delle possibili conformazioni architettoniche, potremmo dire che in un volume dalle proporzioni piuttosto allungate l’uomo sarà incitato a camminare lungo un asse preferenziale, mentre in una forma a blocco tendente alla pianta quadrata egli tenderà a stare più o meno raccolto in un punto per operare»8. L’architettura è l’arte dello spazio e, conseguentemente, del modo in cui lo spazio costruito viene vissuto. Come la musica, è un’arte temporale e si fruisce in tempi differenti, muovendosi. Peter Zumthor, nelle terme di Vals, per esempio, non voleva guidare i fruitori nello spazio, ma li voleva ‘sedurre’ a muoversi nei differenti ambienti.

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Anche lo Svizzero reputa meraviglioso come l’architettura ‘selezioni’ una parte di globo, di mondo, e ne costruisca una piccola scatola. Solo a quel punto esistono un interno ed un esterno e si può essere dentro o fuori. In questo modo diventano dirimenti le soglie, le porte, tutto ciò che segna quell’impercettibile momento in cui si crea la differenza fra dentro e fuori contribuendo a costituire un incredibile senso di spazio, quella straordinaria sensazione di quando si realizza di essere ‘al chiuso’ all’interno di un volume che ci accoglie, circonda, sia in solitudine che in gruppo.

Torniamo nel 1893, quando August Schmarsow definisce l’architettura come l’arte di creare lo spazio. Per lui il contenuto dell’edificio è una sorta di stato d’animo che manifesta il confronto tra l’essere umano e il mondo che lo circonda, e per questo definisce la storia dell’architettura come la storia della sensibilità per lo spazio (Raumgefühl).

«Per Campo Baeza le misure e le proporzioni sono elementi essenziali dell’architettura. Essa è costruita per accogliere l’uomo al suo interno, deve essere progettata in proporzione alle misure del corpo umano.

In base alle sue dimensioni uno spazio trasmette diverse sensazioni – di sopraffazione o di controllo – a chi sta al suo interno»9. Si riprenda in esame il Pantheon adrianeo ed il suo spazio centrale che con i suoi quarantatré metri di diametro libero ed illuminato dall’oculo aperto verso il cielo può essere percepito nella sua completezza e, in questo modo, in quanto misurabile, lascia al suo ospite la possibilità di dominarlo spazialmente. Lo spazio di un interno è, quindi, profondamente influenzato dall’architettura del proprio corpo e dalla percezione dell’uomo. Uno spazio architettonico è un interno che si fa esperienza umana continua attraverso la fisicità dei nostri corpi e l’osservazione del mondo attraverso i nostri occhi. Quando pensiamo allo spazio architettonico da un punto di vista fenomenologico, tutti gli elementi che concorrono alla sua definizione diventano molto più che oggetti funzionali; diventano simboli dell’esperienza umana e della nostra libertà di esplorare il mondo e di abitare lo spazio attraverso il nostro corpo, singolarmente ed in maniera sociale. Il critico austro-ungarico Paul Frankl sostiene che «Lo spazio modellato è il teatro delle attività umane. Gli uomini sono parte dell’architettura. Anche questo contraddistingue l’architettura sia dalla pittura sia dalla Spazio naturale illimitato e spazio antropizzato architettonico

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irreale, ma in realtà è una rappresentazione idealizzata – con la parete frontale e il soffitto rimossi per motivi pittorici – di una struttura realmente in uso tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento: scatole in legno, dotate di porte e finestre, con scrivania incorporata, cassetti, panca e libreria. Si trattava di elementi disposti all’interno di vasti ambienti del palazzo, nei quali lo studioso si ritirava per ritrovare intimità e calore. Ritroviamo qui un interno, lo studiolo di San Girolamo, sebbene, non ermeticamente serrato in se stesso, incluso in un altro interno, quello del palazzo che, a sua volta, si apre verso il paesaggio retrostante e che, a monte, è reso osservabile dallo spettatore del quadro da un ulteriore esterno che incornicia la scena attraverso una ampia finestra, ma che nessuno certifica non sia un ambiente chiuso o coperto a sua volta. Quindi, se lo studiolo di San Girolamo è un interno, lo spazio del palazzo ne diventa automaticamente l’esterno? E se così fosse, l’esterno dello spettatore, o quello della natura sullo sfondo, come si collocano? Quali sono le caratteristiche che identificano il grado di ‘internità’? Una ambiguità forse meno cerebrale, ma certo non meno evidente, la si ritrova anche nella Scuola di Atene di Raffaello nel Palazzo Apostolico in Vaticano, dove Aristotele e Platone si aprono la strada fra la folla degli altri incommensurabili pensatori, all’interno di quello che è chiaramente uno spazio pubblico, ma evidentemente coperto. Una basilica che permette al cielo di entrare e che si lascia ammirare da questa lunetta che incornicia la scena osservata da uno spettatore esterno, che però è in una delle stanze all’interno del palazzo. Tornando all’architettura e, in particolare a quella costruita, fra le odierne opere realizzate che si fanno interpreti delle relazioni spaziali di interno ed esterno, mi sembra necessario prendere in considerazione il recente Louvre di Abu Dhabi dell’architetto francese Jean Nouvel. Qui un vero e proprio arcipelago di isole artificiali ospita spazi urbani costituiti da edifici indipendenti che attraverso le loro relazioni identificano strade, piazze, addirittura darsene. Il carattere frammentario e caotico degli insediamenti ripropone la medina araba e le sue articolazioni. La straordinarietà di questo intervento, però, ai fini del nostro ragionamento, si attua attraverso l’impressionante cupola di centottanta metri di diametro che sovrasta, senza rinchiuderlo, l’intero complesso e che non solo ne definisce bordi più omogenei e meno sfilacciati, ma gestisce

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Spazio come progetto

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41 ▶ Louvre Abu Dhabi, Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti, 2006-2017. Ateliers Jean Nouvel. Vista interna.

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